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IN VOLO SULL’ACQUA

“Incidente, per noi, è morire in un letto”


Jean Mermoz, pilota dell’Aéropostale (1901-1936)
Cesare Baj

IN VOLO SULL’ACQUA
Avventure in idrovolante
vissute a Como e nel resto del mondo
in trentacinque anni di attività

Saggio introduttivo di Alberto Longatti

EDITORIALE
IN VOLO SULL’ACQUA
Copyright © 2004 Cesare Baj
Editoriale s.r.l. - 22100 Como

Tutti i diritti riservati

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In copertina, disegno tratto da una fotografia di Luigi Fara


In quarta di copertina: fotografia di Antonio Hinojosa

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In questo libro, oltre a una serie di considerazioni sul volo idro
e sugli idrovolanti, a una succinta storia del volo sull’acqua
e al brillante saggio introduttivo di Alberto Longatti sulla storia
dell’aviazione comasca, sono riunite alcune memorie della mia vita
aviatoria, iniziatasi nel 1970.
Perché affidare a un documento storie e storielle che molti terrebbe-
ro per sé o userebbero al massimo per cercare di rendere più brillante
qualche conversazione? Le motivazioni sono varie.
Innanzitutto i racconti inclusi in questo libro rappresentano
una piccola storia non ufficiale dell’idroaviazione comasca.
Forse noiosi per chi oggi, come socio, come amministratore,
come dipendente o collaboratore, vive la realtà quotidiana
dell’Idroscalo e dell’Aero Club Como, questi frammenti di storia
spicciola potranno diventare godibili in un lontano futuro, così come
oggi siamo avidi anche del più piccolo ricordo della presenza
di idrovolanti negli anni dieci o venti del secolo scorso e dei minimi
episodi della vita dei piloti di quelle epoche lontane.
È stato anche gradevole poter conservare la memoria di persone,
in qualche caso umilissime e altrimenti sconosciute, che hanno
segnato con la loro presenza la vita del Club.
C’è un’altra motivazione. Ho vissuto, nella mia ultratrentennale
esperienza, molte avventure e alcune situazioni di rischio,
che in questo libro racconterò nel modo più crudo e veritiero.
Ciò nella speranza che le mie esperienze possano aiutare altri piloti
a non ripetere gli errori che ho commesso io, anche se la dea bendata
ha voluto, almeno fino a oggi, che quegli errori non mi abbiano mai
fatto incorrere in un incidente.
Infine c’è la speranza che un lettore non ancora pilota, leggendo
per caso un brano di questo scritto, decida di avvicinarsi
alla meravigliosa realtà del volo idro, un’attività enormemente
formativa e, oltretutto, divertente come poche altre.

Cesare Baj

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Fra acqua e cielo
Saggio introduttivo di Alberto Longatti
Nota dell’autore
Le imprese di Napoleone e le invenzioni di Volta ci paiono appartenere a un lontano
passato. Eppure i primi voli di idrovolanti sul Lario sono più vicini nel tempo
a Napoleone e al Volta che ai giorni nostri.
Il volo idro, a Como, in altri termini, è già vera storia. Questa storia è narrata
nel libro Ali sul Lario, uscito nel 2002 e frutto di un lungo lavoro di ricerca.
Esso include un saggio introduttivo di grande interesse, scritto da Alberto Longatti,
giornalista, grande conoscitore della realtà comasca in tutti i suoi aspetti,
in particolare quelli culturali. Lo riportiamo, rivisto dal suo autore appositamente
per questo libro. Coloro che non hanno già avuto modo di leggerlo potranno avere
una visione storica preziosa e di ampio respiro dell’attività idroaviatoria in territo-
rio comasco.
Questo è l’unico testo non dell’autore presente in questo libro.

Quasi una vita sospesi fra acqua e cielo, alla guida di un aereo munito di
pattini al posto delle ruote, che si serve di un campo particolare per levarsi in
volo, un angolo di lago: è la straordinaria esperienza di Cesare Baj che raccon-
ta in questo libro. Quanti conoscono la storia degli idrovolanti a Como, ricca
di avvenimenti, che s’inquadra significativamente nella storia nazionale? Ben
pochi, credo. Eppure è una storia ricca e complessa, che va oltre la pur leggia-
dra danza aerea e le scivolate sul lago delle macchine con le ali. Va oltre
perché coinvolge personaggi di statura internazionale, progetti e idee diramati
in più direzioni, momenti che dovrebbero essere sempre presenti alla memo-
ria e invece sono caduti immeritatamente nell’oblìo.
Ed ecco perché il libro di Baj, dal taglio diaristico, va oltre l’esperienza
personale, s’inserisce in un discorso più vasto sul coraggio, sulla passione,
sull’energia di tutte le persone di ieri e di oggi, di sempre, che hanno l’aspira-
zione atavica di sollevarsi da terra, di guadagnare lo spazio - ancorché lo
spazio minimo di casa propria - di guardarlo dall’alto, di provare l’inebriante
sensazione di pilotare un oggetto pulsante che fende l’aria, si muove docil-
mente seguendo le mosse della mano che impugna il comando; un oggetto che
pare vivo anche lui, vibra sotto i piedi, ronza come un grande insetto.

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È stato, all’inizio di questa storia, un oggetto di ammirazione. Torniamo ai
primi del Novecento: Como è una città in fermento, appena uscita dal succes-
so internazionale della prima Esposizione Voltiana, sta costruendo a tutto spi-
ano attrezzature turistiche di rilievo, le funicolari, gli alberghi, i viali panora-
mici, lo stadio, lo stabilimento balneare. Un giorno, ammiratissimo, arriva un
aerostato, il Condor; ogni tanto sull’area del Prà Pasqué atterra qualche aereo
in transito, ma a fatica, perché il campo d’atterraggio è piccolo, circondato
dalle case. Nel 1912, nel galoppatoio di Mornello viene organizzata finalmen-
te una manifestazione aviatoria e vi partecipa un luganese con un velivolo
Bleriot, leggero, fatto di tela e di legno oltre che di metallo, con le sue ruote a
raggi che paiono quelle di una bicicletta. Il cronista dell’epoca si diffonde con
accenti lirici sulle caratteristiche ardimentose dell’apparecchio, tenuto insie-
me da mille fili “sui quali il vento passa con invisibili dita musicali”. Sembra
impossibile, ma è con modelli del genere che l’esercito italiano parteciperà
alla Grande Guerra, ormai alle porte.
Il 1913 è la volta degli idrovolanti. A Monaco si disputa la prima Coppa
Schneider, sul Lario il Gran Premio dei Laghi. Il solito cronista d’allora,
emozionato, lancia il suo ditirambo: “Sulla verde conca lacuale, le enormi
aquile sapientemente foggiate per il volo umano saliranno maestose e veloci
nel cielo, e una folla di popolo acclamerà dalle rive la loro ascensione quasi
soprannaturale”. “Soprannaturale”, “sicuro”, tale era la sensazione che dava-
no i fragili congegni metallici biposto dalla sagoma snella spinti in alto dalle
eliche, tenuti su da una forza misteriosa, volteggianti non proprio al pari degli
uccelli ma quasi come delle piume, dei fuscelli che sulla superficie del lago
ondeggiano, ammarano, flottano, procedono fendendo l’acqua fra due fiocchi
di spuma. La gente accorre, guarda con gli occhi spalancati, applaude. Cinque
giorni di gare, cinque giorni di evoluzioni condotte da piloti spericolati e
valenti, capitanati da un giovane disinvolto, con la sigaretta perennemente
incollata sulle labbra. Diventerà famoso anche dopo morto, si chiama Roland
Garros. Nei cinque giorni delle gare avvennero incidenti di ogni sorta, motori
che s’inceppano, lotta contro le intemperie. Ma tutto sembra convogliato ad
esaltare meglio la bravura e l’ardimento dei piloti, e finisce bene. Anzi, qual-
cuno del pubblico riesce a salire sugli aerei e prova l’ebbrezza del volo.
E’ l’inizio di un’avventura, che subirà una brusca interruzione alla scoppio
della prima guerra mondiale. Gli fa da preludio il catastrofico incendio del
dirigibile “Città di Milano”, precipitato per un colpo di vento nei campi fra
Vighizzolo, Cantù e Cassina Novello il 9 aprile 1914. Era bastato un soffio più
forte per provocare il disastro: ma in guerra l’aviazione, mezzo determinante
per l’esito del conflitto, avrebbe dovuto affrontare ben altre aggressioni mici-
diali. Fu dalla guerra, per quanto atroce possa essere stata, che uscì un impul-
so nuovo di crescita per la conquista del cielo, anche quella pacificamente
ottenuta. In guerra vennero inviati molti giovani e purtroppo non furono molti
i sopravvissuti; fra di loro, gli addetti all’arma aerea mantennero viva la pas-

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Saggio introduttivo di Alberto Longatti

sione per il volo, anche quando non l’avevano nel sangue fin da ragazzi.
Prendiamo il caso di mio padre, Luigi Longatti, per esempio. Venne richiama-
to nel 1915, ventenne, ragioniere, studente al primo anno della Bocconi e
spedito sul Carso, dopo un corso veloce di addestramento per ufficiali. Lassù
regnava la morte: e il defilé dei velivoli che quotidianamente sorvolavano
reticolati e trincee sembrava ai fanti immersi nel fango una diversa, più nobile
e forse anche meno incerta maniera di combattere. Così il sottotenente Luigi
Longatti compilò la sua brava domanda per il trasferimento nell’Arma azzur-
ra, sicuro di non farcela perché prima di lui s’erano prenotati duemila altri
candidati. In un paio di mesi, la lista si ridusse drasticamente, dato che accan-
to a quei nomi venne segnata una croce: e mio padre riuscì nell’intento.
Alla fine della guerra, il capitano aviatore Luigi Longatti, tornato a Como
con un paio di medaglie di bronzo in tasca e il cuore angosciato per aver
assistito alla tragica fine di tanti compagni, rimase convinto che il volo era un
magnifico modo di riacquistare fiducia nella vita e anche una formidabile
palestra fisica, intellettuale, morale. Così, il 20 luglio 1922, convinse un grup-
petto di ex operatori dell’aviazione, che oltre a piloti comprendeva tecnici e
“osservatori” (ovvero gli aviatori non addetti al pilotaggio ma che avevano,
fra l’altro, il compito di maneggiare la mitragliatrice), a fondare l’associazio-
ne “Aviatori Comensi” di cui assunse la presidenza. Primo obiettivo contem-
plato dallo statuto, era il favorire “l’avvenire del turismo aereo” in una zona di
frontiera come quella lariana, creando anche uno scalo ai bordi del lago. L’ini-
ziativa colse nel segno, ottenendo appoggi presso industriali e commercianti.
Il momento era adatto. Le fabbriche di idrovolanti stavano fiorendo anche in
luoghi non lontani da Como, quali la Caproni, la Macchi di Varese, la Savoia
di sesto Calende. Come scrisse il responsabile della Camera di Commercio
comasca in una petizione al Regio Governo, “mentre i vari Stati europei sono
dotati di un esteso sistema di linee in attività di esercizio” l’Italia ne era priva
malgrado la loro utilità “per il progresso delle celeri comunicazioni”.
Gli Aviatori Comensi costituiscono la terza associazione del genere nata in
Italia. E, sventolando l’ardente motto dannunziano “alere flammam”, si ac-
cingono al non facile impegno organizzativo, realizzando nella fase promo-
zionale, ancora una volta, una manifestazione spettacolare, le acrobazie di
maestri della cloche. Alle giornate idroaviatorie del ’22 segue nel 1925 una
settimana con una dimostrazione di posta aerea e altre attività del sodalizio.
Ma sta maturando altrove qualcosa che alimenterà gli sforzi, rinfocolerà gli
entusiasmi, trasformerà un’aspirazione ideale in una realtà densa di promesse.
Il “qualcosa” è in effetti “qualcuno”, Italo Balbo, un protagonista della Marcia
su Roma, un gerarca fascista dotato di una fortissima personalità. Di un’ener-
gia a tutta prova. Despota, ma generoso: e lungimirante. E’ lui che si assume il
compito di formare una flotta aerea capace di imporsi al mondo, di rendere
più temibile l’aviazione militare che dal 1923 è stata resa indipendente dalle
altre armi dell’esercito italiano: è ancora lui che mira a potenziare l’aviazione

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Saggio introduttivo di Alberto Longatti

civile e a diffondere capillarmente anche il turismo aereo. Nel 1926 Balbo


diviene sottosegretario all’Aeronautica, poi assumerà la carica di ministro;
nel 1927 si crea il primo Aerocentro da turismo, prestigiosa scuola di pilotag-
gio; nel 1929 agli Aeroclub che si stanno costituendo in una rete sempre più
fitta vengono assegnate le Squadriglie da turismo aereo.
Tutto questo fermento ha un un’eco anche a Como, sotto l’egida - si vorreb-
be dire la provvida protezione - del nume tutelare lariano, Alessandro Volta. E’
il 1927, l’anno delle seconde celebrazioni voltiane. La città si rinnova, costru-
isce lo stadio, rende più splendente l’illuminazione pubblica, organizza un
convegno di scienziati che diverrà famoso, occupa l’intera Villa Olmo, com-
perata un paio d’anni prima dagli ultimi nobili proprietari, i Visconti di Mo-
drone, ed alcuni padiglioni laterali, con una serie di mostre, fra cui s’inserisce
un settore dedicato all’aeronautica. E a fianco della Villa i pionieri del turismo
aviatorio realizzano un hangar, un capannone rudimentale ma idoneo a svol-
gere la sua funzione temporanea. Ai primi membri del sodalizio presieduto da
mio padre se ne sono aggiunti nel frattempo altri, che al piacere del volo
aggiungono anche un pizzico di snobismo sportivo, come l’industriale Cesare
Salterio, il mecenate della cravatteria. Per le celebrazioni arriva il re Vittorio
Emanuele III, ma anche una star dell’aviazione, il comandante de Pinedo a
bordo del suo Macchi, e il vate nazionale, Gabriele D’Annunzio, che fa am-
marare il suo idrovolante davanti all’hangar ma non scende a terra, indispetti-
to perché un suo motoscafo che avrebbe dovuto partecipare a una gara s’in-
ceppa alla boa di partenza. E arrivano aerei da turismo in grado di trasportare
passeggeri a godersi dall’alto il panorama lariano, si accarezza l’idea di orga-
nizzare una gara di velocità per idrovolanti che faccia il paio con la Coppa
Schneider a Venezia, si pensa ad un servizio di voli regolari da Como a Lecco.
Tanti propositi che restano allo stadio di progetto, ma intanto matura la costi-
tuzione di un centro che più interessa l’ambiziosa ipotesi nazionale di Balbo,
l’Aeroclub comasco.
La pattuglia dei cultori del volo si è ulteriormente infittita, vi entrano indu-
striali come Emilio Taroni e Arturo Stucchi, architetti come Giuseppe Terra-
gni e Piero Ponci, tanti altri. Un animoso imprenditore milanese, Vittorio
Bonomi, assume la presidenza e l’Aeroclub nel 1930 viene intitolato alla
memoria di Giuseppe Ghislanzoni, eroe della Grande Guerra, la stessa fucina
degli Aviatori Comensi della prima ora, i reduci fondatori del sodalizio. Ceri-
monie mondane e la disponibilità di un apparecchio per giri turistici coronano
l’inaugurazione del gagliardetto. Subito si punta alla costruzione di un hangar
stabile, usufruendo di un terreno a lago ceduto dal Comune. La sottoscrizione
per raccogliere i fondi ha un esito lusinghiero, vengono realizzati celermente
il capannone solidamente costruito in struttura metallica dall’ing. Carlo Ponci
e il palazzetto della sede sociale (quest’ultimo inizialmente progettata da Ter-
ragni, astro nascente del razionalismo, poi modificato in corso d’opera in uno
stile più tradizionale). Nel 1931, a indicare che i tempi sono propizi all’esalta-

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Saggio introduttivo di Alberto Longatti

zione aviatoria, piomba sul lago un idrogigante, il Dornier DO X a dodici


eliche, l’“Umberto Maddalena”, vero e proprio albergo volante: lo battezzano
“Golia del cielo”, per descriverlo non bastano all’esterrefatto cronista i para-
goni consueti e così si appiglia ai mostri preistorici, ai pterodattili, e lo esalta
con una fila di punti esclamativi: “è il più grande, il più bello, l’espressione di
una tecnica che può inorgoglire la civiltà contemporanea”. E prosegue: “Sulla
prua è dipinto un fascio littorio, simbolo dello spirito e della volontà del Duce
che un ministro di ferro, Italo Balbo, interpreta e mette in opera”. L’aviazione
fu il principale simbolo della modernità nell’era fascista, del nuovo spirito
dinamico e guerriero che la propaganda nazionalista mussoliniana intese in-
fondere agli italiani. “Non si può essere fascisti senza sentirsi un poco aviato-
ri”, aveva sentenziato Nello Quilici, un giornalista padano stretto collaborato-
re di Balbo.
Il passaggio sul Lario del mastodonte, che nella sua mole rappresenta tutta
la mitologia aviatoria in voga, è in effetti il segno che da Roma si guarda a
Como con attenzione. Balbo manda messaggi, si complimenta con i dirigenti
durante una grande adunata aviatoria nella capitale, promette il suo arrivo nel
1932 per l’inaugurazione dell’idroscalo. Una promessa che riuscirà a mante-
nere solo un anno dopo: ma, oltre agli impegni ufficiali, lo trattiene altrove la
preparazione delle sue clamorose trasvolate atlantiche, che amplificheranno
l’eco delle ardite imprese degli assi dell’Arma azzurra italiana, dai de Pinedo
ai De Bernardi, ai Ferrarin, a tutti gli altri. La fama del Balbo conquistatore
dello spazio contribuì formidabilmente in tutto il mondo ad imporre il presti-
gio della nostra flotta aerea, più ancora della concertata campagna pubblicita-
ria di regime, che ebbe alimenti retorici da diverse fonti culturali, dall’arte e
da certa letteratura, oltre che, ovviamente, dal giornalismo e dagli strumenti
propri della persuasione di massa. Si tenga conto, in primo luogo, dell’aiuto
che diede alla campagna pro-volo il Futurismo, che inventò per l’occasione
l’aeropittura, seguita poi dall’aeropoesia, dall’aeromusica, dall’aerodanza,
persino dall’aeromensa e via dicendo. Marinetti non scriveva più prefazioni
sui cataloghi delle mostre, ma “collaudi”, le gare di poesia si chiamarono
“circuiti”. I più valenti aeropittori, che dipingevano sensazioni di volo e vedu-
te dall’alto, erano anche piloti, quindi individualmente sollecitati nell’ispira-
zione: fra gli altri, si distinsero il bolognese Tato (Guglielmo Sansoni) e il
mantovano Mino Somenzi, firmatari del Manifesto dell’Aeropittura nel 1929,
Angelo Rognoni, pavese, Alfredo Ambrosi, veronese, Fedele Azari, torinese,
Gerardo Dottori, perugino, Tullio Crali, dalmata, Mino Delle Site, leccese,
dunque provenienti da tutte le regioni.
In letteratura, ad emergere fu, non a caso, una romanziera lariana, la regina
della “narrativa rosa”, Amalia Cambiasi Odescalchi Negretti, nativa di Carate
Urio, che si firmò, anziché con il suo vezzeggiativo nomignolo di Liana, con il
nome “alato” di Liala, dietro suggerimento di D’Annunzio, che era, com’è
noto, un sagace e fantasioso forgiatore di appellativi. Liala sposò il marchese

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Saggio introduttivo di Alberto Longatti

Pompeo Cambiasi, assai più anziano di lei, ma s’innamorò perdutamente di


un altro nobiluomo, Vittorio Centurione Scotto, un giovane ufficiale pilota che
perì nel 1926 durante una gara della Coppa Schneider, inabissandosi con l’ap-
parecchio nel lago di Varese. Per rievocare i giorni torridi della passione amo-
rosa, Liala scrisse nel 1931 il suo primo romanzo “Signorsì”, ambientato fra i
piloti di una squadriglia di idrovolanti da guerra che, dalle descrizioni paesag-
gistiche e da diversi riferimenti aneddotici, s’intende operante fra il lago di
Como e quello di Varese, ed è proprio l’idroscalo lariano ad essere il più
citato. In “Signorsì” gli ufficiali sono tutti bellissimi e, manco a dirlo, titolati,
ma non sono meno belle le fanciulle con le quali hanno relazioni sentimentali:
avvenenti e ardite, con un debole per l’aviazione. Nel romanzo l’avventura è
meno importante dell’amore, che viene rappresentato in esplicite scene di
trasporti sensuali audacemente pregne di vivacità erotica. Ed è proprio il ri-
morso per una trasgressione amorosa, oltre al bruciante ricordo della sua per-
sonale esperienza, che indusse l’autrice a concludere drammaticamente la
vicenda, provocando il suicidio della protagonista femminile a bordo di un
idrovolante da lei stessa pilotato. Finali assai più ottimistici caratterizzano
altri racconti e romanzi di Liala che hanno come sfondo il mondo eroico e
cavalleresco dell’Arma azzurra, come “Fiaccanuvole”, che è arricchito persi-
no da un glossarietto di termini aviatorii, dedicato ai “pochissimi”, come
annota la scrittrice, che ancora non conoscono i loro significati.
L’esaltazione per il volo, e specificamente nel ramo idroaviatorio, ha il suo
apice negli anni Trenta. Tutto si verifica nell’arco di pochi anni: le imprese
aviatorie internazionali, la crescita dell’industria di settore, la formazione del-
l’Aeronautica militare, la campagna di propaganda con volantinaggio, confe-
renze, raduni, mostre anche di cospicua mole, come l’Esposizione dell’Aero-
nautica Italiana al Palazzo dell’Arte di Milano nel giugno 1934, anno XII
dell’era fascista. Le possibilità del volo che si affida all’acqua per decollo e
ammaraggio degli apparecchi lascia intendere un futuro più esteso utilizzo per
loro anche in tempo di guerra. In “Signorsì” la squadriglia degli Adoni in
divisa era armata, si preparava a combattere quanto prima, anche se non veni-
va ancora individuato il nemico; così molte immagini dell’aeropittura, come
d’altronde non poche aeropoesie, oltre che di “primato italiano nel mondo” e
di “orgoglio italiano” che Marinetti propugnava con insistenza fin dalle prime
scaramucce della Grande Guerra (li riversò anche in un Manifesto del 1915),
erano dichiaratamente bellicose, descrivevano azioni di guerra, come il note-
vole “In picchiata sulla città” di Tullio Crali, un olio del 1938-39.
A Como si respirava, per il momento, un clima assai più sereno, anche se
nelle adunate settimanali dei Balilla non mancavano i fucili, per quanto scari-
chi. Man mano, attorno all’idroscalo che aveva preso il posto della primitiva
sede della Canottieri, sorgeva una vera e propria cittadella turistica dalle niti-
de forme razionaliste, che comprendeva la nuova sede della Canottieri Lario e
il nuovo stadio Sinigaglia con annessa la Casa del Balilla, progettati dall’ing.

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Saggio introduttivo di Alberto Longatti

Gianni Mantero, la sede del Circolo della Vela, oltre al condominio Novoco-
mum e al Monumento ai Caduti di Giuseppe Terragni. All’Aeroclub prendeva
decisamente l’avvio un ampio programma di potenziamento della scuola di
volo, grazie alla disponibilità di una flotta di sei velivoli Macchi assegnati
dall’organizzazione nazionale creata principalmente da Balbo, agli ordini di
un ufficiale veneto, il capitano Nardini. Perché non predisporre anche un ser-
vizio regolare di voli turistici sul Lario, che facesse la spola fra i paesi riviera-
schi? Nell’estate del 1933 si dimette dalla carica di presidente Vittorio Bono-
mi, che preferisce dedicarsi allo sviluppo del volo a vela. Gli subentra mio
padre, nella veste di commissario straordinario direttamente nominato dal-
l’on. Marcello Diaz (fatto significativo, non era più un incarico conferito
localmente dai soci): lo affianca un vecchio amico e commilitone, il maggiore
Felice Torelli, che in quel periodo, usufruendo di un temporaneo congedo,
accetta volentieri di organizzare il servizio di trasbordi con Caproncini sul
lago, collaborando a raccogliere fondi. Il suo soggiorno a Como però non durò
molto, perché nel 1934 l’ufficiale colse al volo l’occasione di far parte di una
missione dell’Aeronautica in Cina. Divenuto generale, il Torelli, uomo dal
carattere schietto, esuberante, generoso, galante ma anche un po’ ombroso,
ricordò con simpatia i giorni trascorsi a Como con la famiglia in un libro di
memorie (“Avventure di un pioniere dell’aviazione”, Gastaldi, Milano, 1963)
precisando che il suo compito organizzativo venne agevolato da ciò che era
previsto in alto loco: “Per regolarizzare il servizio di voli turistici vigeva una
disposizione del Ministero dell’Aeronautica, per la quale la Squadriglia na-
zionale da turismo aereo era tenuta a dare assistenza agli Aero Club, sia con
personale che con rifornimenti”.
Nel 1933, quasi a sanzionare l’attenzione condotta sull’attività dell’Aero-
club lariano, giunge inopinatamente a Como proprio lui in persona, il mare-
sciallo Italo Balbo. Piomba dal cielo a bordo di uno dei Savoia-Marchetti con
i quali ha compiuto l’ultima trasvolata atlantica, ammara all’idroscalo dove
sta sorgendo l’intelaiatura metallica dell’hangar. Ma non si ferma in città, la
sua meta è poco distante. Al Grand Hotel Villa d’Este lo attendono ospiti
importanti per una cerimonia d’eccezione: il 13 settembre 1933, nella sala
Impero dell’albergo, dove viene appeso al soffitto, con un’imbragatura im-
provvisata per l’occasione, un modello dell’aereo della trasvolata, un mitico
pioniere dell’aviazione, Luigi Bleriot, consegna a Balbo il trofeo Coppa d’Oro
Villa d’Este e una scheggia dell’apparecchio sul quale egli per primo, agli
albori del volo umano, attraversò la Manica. Con lui c’erano alcuni alti uffi-
ciali dell’Aeronautica, due fra i maggiori industriali del comparto aeronauti-
co, l’ing. Caproni e l’ing. Marchetti, il comandante Ferrarin, numerose ele-
ganti signore e qualche autorità locale. Balbo ringraziò commosso per l’onore
tributatogli e trovò il modo di improvvisare anche una sfilata con il modello
dell’aereo, rievocando la trionfale accoglienza avuta in America. Sembra in-
credibile, ma sul quotidiano “La Provincia” non apparve alcun cenno sull’av-

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Saggio introduttivo di Alberto Longatti

venimento, probabilmente a causa della disattenzione (non si sa quanto inten-


zionale) di un redattore: ma sull’ “Ordine”, il quotidiano cattolico che pure
non aveva alcun legame con la Federazione fascista come il suo diretto con-
corrente, un trafiletto indicava almeno l’essenziale di quanto era accaduto fra
le pareti dell’albergo prestigioso, aggiungendo che “numerosi villeggianti fran-
cesi a Villa d’Este hanno acclamato a lungo il Capo dell’aviazione fascista”.
Almeno loro. Nell’archivio di Villa d’Este si conserva una foto della cerimo-
nia, nella quale Balbo spicca al centro di una fila di personaggi, aitante e un
po’ impacciato in abito da sera: e c’è anche una copia del menu della cena di
gala. Pochi documenti, finora trascurati; ma qualcuno, riguardandoli, si è ri-
cordato di esser stato bambino in quell’anno a Cernobbio, di aver conosciuto
Balbo, di essere stato addirittura invitato a bordo del glorioso idrovolante per
una breve passeggiata aerea.
Nel 1934 l’hangar è pronto, viene firmata la convenzione con il Comune,
proprietario del terreno dove sorge l’idroscalo, che diviene una vera fucina di
piloti. La via era tracciata, bisognava seguirla, anche se purtroppo il vento di
guerra soffiava sempre più forte. Così si arriva alla costituzione della scuola
dell’Unione Nazionale Aeronautica, diretta da un valido istruttore, Nello Val-
zania, all’ampliamento del parco velivoli che giunge a disporre di 15 Capron-
cini, come in questo libro si racconta con ricchezza di documenti e fotografie,
precisando i nomi di dirigenti e allievi dell’Aeroclub. L’addestramento era
però ormai una tappa obbligata per vestire la divisa, e poi partire per i fronti
del secondo conflitto mondiale. Nel frattempo Balbo viene nominato Gover-
natore della Libia, dove trova una tragica fine che non mancò di suscitare
inquietanti dubbi: e inevitabilmente il vasto disegno strategico per il potenzia-
mento dell’Aeronautica civile s’inceppa, ha una battuta di arresto.
In guerra l’aviazione italiana viene crudelmente ridimensionata. Nel cielo
dominano gli Stukas tedeschi e gli Spitfires britannici, i bombardieri sono
decimati dalla contraerea, alla fine scarseggia persino il carburante. Non ci
vuol molto perché l’illusione del predominio tricolore svanisca. E nel dopo-
guerra la ripresa è lenta, deve puntare a obiettivi limitati, appoggiarsi di più
alla produzione industriale straniera. Fra le tante cose che bisognerebbe rico-
struire è quella rete di Aeroclub per idrovolanti impostata da Balbo durante il
periodo in cui era ministro dell’Aviazione; ma l’interesse è calato, forse non
ci sono più nemmeno le attese. Quella di non ripartire potrebbe essere anche
la sorte dell’Aeroclub comasco: e invece accade un piccolo ma confortante
miracolo, si ricompatta un gruppo di appassionati cultori, pian piano l’hangar
si rianima, arrivano gli apparecchi, ritorna il circuito dei voli. La cronaca di
questi ultimi anni registra continui progressi, la schiera degli allievi che si
brevettano si amplia, fra di loro si contano parecchie presenze femminili.
Anche le donne vogliono provare le inebrianti sensazioni di dominare le mac-
chine volanti sul lago, al pari degli uomini; non sono più le poche, esaltatissi-
me aviatrici del periodo fascista in cui rappresentavano le mosche bianche,

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Saggio introduttivo di Alberto Longatti

quasi per sfida, nella pratica di uno sport di netta impronta virile.
Gli “idro” sul Lario ci sono ancora nel presidio, rimasto unico in Europa,
delle Ali sull’acqua, conquistano nuovi traguardi, prospettano nuovi compiti
da affrontare, di monitoraggio e salvaguardia del territorio. Roteano sopra le
teste dei comaschi, che li accettano come un complemento del paesaggio ma
certo li apprezzeranno meglio conoscendo, anche dalle pagine di questo libro,
quanto sia suggestiva l’esperienza di chi si libra sull’acqua, contemplando
dall’alto il paesaggio lariano.
Da un’altezza media, come quella consentita da un piccolo aereo, si domina
il mondo da un’altra prospettiva ma senza perderlo mai di vista, anzi goden-
done di più i particolari che non si percepiscono a misura d’uomo. Dall’alto
insomma si vede meglio, con la sensazione costante di non sentire più il peso
corporeo, nemmeno la sostanza delle cose che sfilano davanti agli occhi come
figure di un presepio.
Dall’alto si può anche sognare.

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IN VOLO SULL’ACQUA

AVVENTURE DI VOLO

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Avventure di volo

L’avventura dietro l’angolo


Più intensa, più vissuta, perché inaspettata.
Questo testo è stato scritto verso la fine degli anni Ottanta.

In molti anni di viaggi posso dire di aver girato una discreta fetta di mondo. In
moto, in macchina e su vari tipi di idrovolanti ho viaggiato in quasi tutti gli
ambienti naturali e conosciuto situazioni umane estreme: dal turismo di mas-
sa delle spiagge di Daytona ai suburbi di Calcutta; dall’ambiente rude e ga-
gliardo dei cacciatori di pellicce della British Columbia al Vietnam, Israele e
India in guerra.
Nei viaggi ho sempre cercato l’incontro, l’esperienza, l’avventura, ma non
sempre ho trovato queste cose. Forse perché me le aspettavo, forse perché in
quei luoghi sono andato a fare cose precise, che mi distoglievano dalla reale
vita che vi si svolgeva. O forse perché le situazioni estreme, rispetto alla
propria vita di tutti i giorni, induriscono l’animo e lo rendono impermeabile
agli stimoli esterni. O forse perché la vita dura che si fa in luoghi particolar-
mente ostici rende attenti ai soli fatti relativi alla minima sopravvivenza.
L’avventura può invece giungere in modo del tutto improvviso e inaspettato,
come dimostra l’esperienza qui esposta, che si è svolta interamente nel raggio
di poche decine di chilometri da Como. L’avventura inaspettata - questa è una
lezione che ho ricavato anche dalle vicende qui raccontate - la si vive molto
più intensamente di quelle alle quali si va incontro in modo premeditato.
A Como esiste l’unica base di idrovolanti d’Europa presso la quale, da
ragazzo, ho avuto la fortuna di essere introdotto alla tecnica del volo sull’ac-
qua. Proprio con gli idrovolanti di Como ho compiuto alcuni lunghi viaggi a
cui ho accennato e con un idrovolante ho vissuto l’interessante vicenda che
sto per esporre nei dettagli.
All’origine sussiste un’esigenza molto banale: devo portare da Como a Lo-
carno un idrovolante per una revisione al motore. Un viaggio di una mezzoret-
ta scarsa, perfettamente alla portata di un allievo-pilota dell’Aero Club Como.
Si dà il caso, tuttavia, che il tempo non sia dei migliori.
Sono indeciso se rimandare la partenza, ma la rotta è molto breve e si svolge
per due terzi su acqua, cosa che rende il viaggio con un idrovolante perfetta-
mente sicuro anche nel remoto caso di un’avaria al motore. Da Como devo

16
Avventure di volo

semplicemente raggiungere il Lago Maggiore, passando sul Lago di Varese e


sfiorando quello di Monate. A quel punto è tutta acqua fino a Locarno, il cui
aeroporto si trova proprio sulla riva.
Dopo le brevi formalità doganali decollo sotto una pioggerella leggera e
faccio subito rotta a ovest. Il tempo peggiora rapidamente e pochi minuti
dopo, su Varese, mi trovo a zigzagare e bassa quota tra la nuvolaglia. La
pioggia si fa più intensa. Potrei ancora invertire la rotta e tornare, ma il tenue
bagliore azzurro del lobo orientale del lago di Varese mi induce a proseguire,
seppure in condizioni quasi proibitive. Ormai piove a dirotto e le nubi si fanno
sempre più basse.
Faccio un cosiddetto “360”, cioè una virata completa, per verificare le con-
dizioni atmosferiche in tutte le direzioni. La strada del ritorno, se anche la
volessi riprendere, è ormai compromessa per il rapido deterioramento del
tempo. Una condizione di quel tipo, vissuta su un aeroplano “terrestre”, è
molto critica. L’idrovolante mi permette invece di volare tranquillo sul laghet-
to prealpino che si stende sotto di me, anche se la superficie è appena discerni-
bile tra gli scrosci di pioggia. Alla peggio posso sempre scendere sull’acqua,
approdare a una riva e aspettare che il tempo migliori. Sul lago si affaccia
anche la pista dell’aeroportino di Calcinate del Pesce, che in questo speciale
caso offre un’ulteriore via di fuga dalla brutta situazione.
Tra il lago di Varese e il Maggiore ci sono pochi chilometri di colline. Non
dovrebbe essere impossibile passare. Sulla sponda occidentale le nubi lambi-
scono quasi gli alberi. Mi trovo ormai a 50 metri di quota dall’acqua. L’am-
maraggio o un atterraggio a Calcinate del Pesce sembra inevitabile; poi si
vedrà. Viro controvento preparandomi alla discesa quando vedo uno spiraglio
nella direzione del lago Maggiore. La rotta possibile si svolge in un ristretto
corridoio formato dalla distesa degli alberi pochi metri sotto di me e la base
delle nubi pochi metri sopra. Mi ci getto. La chiazza biancastra si ingrandisce
finché mi trovo sulla sponda del lago Maggiore. Il gioco sembra fatto.
Nulla, salvo onde gigantesche o una fortissima grandinata, può fermare un
idrovolante in volo sull’acqua, che può giungere a destinazione anche percor-
rendo la superficie come un motoscafo. L’aeroporto di Locarno è proprio sulla
sponda settentrionale di quel bacino, una sponda che, in volo o sull’acqua,
non posso non raggiungere. Malgrado il tempo pessimo, comunico la posizio-
ne all’ente di controllo del traffico aereo per l’area di Milano e preannuncio
l’arrivo a Locarno dopo una decina di minuti. Proseguo quindi verso nord
lungo la sponda orientale del lago Maggiore. La pioggia è sempre più intensa,
la visibilità peggiora ancora; volo a quota sempre più bassa per mantenere in
vista la linea di costa, finché mi trovo a una ventina di metri dall’acqua. La
nuvolaglia lambisce ormai la superficie e gli scrosci sono così violenti da
parere un muro quasi solido in cui l’idrovolante penetra a fatica.
In quei casi - contrariamente a quanto si potrebbe pensare - nel pilota di una
certa esperienza subentra una grande sensazione di calma. Dall’inconscio giun-

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Avventure di volo

gono in aiuto visioni di esperienze passate, frammenti di discorsi fatti con


piloti più esperti o antichi istruttori, reminiscenze letterarie come, in quell’oc-
casione, le descrizioni di non so più chi, che negli anni Trenta parlava di
“scimitarre d’acqua” che fendono l’aereo e combattono con l’elica, proprio la
condizione che sto sperimentando. L’idea è: se se la sono cavata loro, ho
qualche probabilità di cavarmela anch’io.
Un’altro giro a pelo dell’acqua per vedere come va in altre direzioni, per
cercare qualche “buco” attraverso cui proseguire. Non c’è nulla da fare: ho
davanti una vera muraglia di nubi e di acqua. L’unica è ammarare e fermarsi.
Lo faccio ormai completamente alla cieca, sotto le sferzate del violentissimo
acquazzone che rendono completamente diafane le finestrature dell’aereo.
Ecco un’altra cosa che si può fare solo con un idrovolante, penso tra me.
Anche il pilota di un Jumbo, che può utilizzare i più sofisticati sistemi di
navigazione strumentale, la pista all’ultimo momento la deve vedere [requisi-
to valido ai tempi in cui l’articolo è stato scritto n.d.a]. Per un idrovolante che
ammara ciò invece non è necessario, grazie alla tecnica dello “specchio”; la
cosa mi dà una grande sensazione di sicurezza. Non di meno, accolgo con
grande sollievo il momento del contatto con il lago, accompagnato dalla con-
sueta progressiva sensazione di frenata e da un vibrante sciacquio sullo scafo.
Mi dirigo verso la sponda senza sapere esattamente dove mi trovo. Per
riconoscere qualcosa sono costretto a tenere il portello leggermente aperto,
con l’acqua che entra a fiotti e rigagnoli. Dopo poco intravvedo una bella
spiaggia di sabbia, piuttosto estesa, stranamente mai notata nei miei preceden-
ti viaggi nella zona. È l’ideale. Mi avvicino per valutare meglio la pendenza
della battigia. Se questa è notevole dovrò fare in modo di appoggiare delicata-
mente lo scafo alla sponda, spegnendo il motore con un certo anticipo. Ma
non è questo il caso. Estraggo quindi il carrello (l’idrovolante è in versione
anfibia) e salgo decisamente sulla spiaggia, sfruttando quasi per intero i 250
cavalli del motore.
Eccomi qua, in una situazione del tutto imprevista, anche se non inconsueta
per un idrovolante. Una situazione che, in effetti può anche essere normale per
un idrovolante, diciamo quasi normale per me, ma non certo per la gente del
paese in cui mi trovo che con quel tempo ha visto o sentito un aereo sbucare
dal nulla e finire sul lago e sulla spiaggia. L’esperienza mi insegna che in
questi casi «è caduto un aereo» e che molti si affretteranno a telefonare ai
carabinieri, ai pompieri, al sindaco, alla Croce Rossa, al farmacista e inevita-
bilmente all’“amico giornalista”, annunciando la sciagura. Devo prevenirli ed
evitare qualche voce incontrollata giunga all’autorità aeronautica, con il con-
seguente - e in questo caso del tutto inutile - avvio della complessa macchina
dei soccorsi.
Chiamo via radio varie stazioni, ma da terra il mio segnale non può raggiun-
gerle. Chiamo dunque sulla frequenza di Milano Radar, usata dai jet di linea,
in inglese, sperando che qualcuno di passaggio nella zona volando in pieno

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Avventure di volo

sole qualche chilometro sopra di me, mi senta e possa ripetere il mio messag-
gio all’ente di controllo. Chiamo e richiamo anche sulle frequenze di emer-
genza: niente da fare. Pare proprio che non ci sia in giro nessuno.
Infine, con riluttanza, ma timoroso di esaurire la preziosa energia delle bat-
terie, forse indispensabile più tardi, recido il cordone ombelicale della radio e
spengo tutto. Taglio così l’ultimo labile legame con il volo che dovevo effet-
tuare, con i controllori del traffico aereo con cui ero in contatto, con l’intricato
reticolo di linee invisibili - le rotte aeree - che la mente del pilota “vede” nel
cielo come un film viene visto sullo schermo. A questo punto abbandono
anche la cabina e mi trovo sotto la pioggia, sulla spiaggia deserta di un paese
di cui non so nemmeno il nome. Mi sento proprio solo, quasi “naufragato”.
Questo posto in cui non volevo andare mi dà una sensazione nettissima di
estraneità che non provavo da tanto tempo.
Ecco la prima intensa emozione della giornata: la stranezza di sentire come
familiare l’angusto abitacolo di un idrovolante e tutto ciò che sta lassù, in
quell’orribile ammasso di nubi e di acqua, di sentire come familiari persone
mai viste che parlano per radio un gergo quasi incomprensibile e che si trova-
no sparse a decine o centinaia di chilometri di distanza e di percepire invece
come alieno un comune, ameno paesino del lago Maggiore in un pur piovosis-
simo giorno feriale.
È proprio vero che l’“esotico” non è nell’oggetto, ma nell’angolatura con
cui lo si guarda. La mente, alterata da un’aspettativa, da un’emozione o -
come nel mio caso - dallo stress dell’avventura, ridisegna oggetti e paesaggi
rendendoli strani, alieni, straordinari.
Questi pensieri sono interrotti dall’arrivo di un pescatore. «Dove siamo?»
chiedo subito. La sagoma dell’aereo che si staglia contro il lago, poco lontano,
rende plausibile la strana domanda e ottengo prontamente una risposta. In
qualche minuto raggiungo un telefono [i portatili non erano ancora diffusi
nell’epoca di questa avventura, la metà degli anni Ottanta n.d.a.] e cerco di
ricollegarmi, via filo, con il sistema di comunicazioni aeronautiche da cui mi
sono trovato bruscamente estromesso. La cosa non è facile, dato che il mal-
tempo ha gettato lo scompiglio nelle linee telefoniche ed elettriche. Alla fine,
per vie traverse, riesco appena in tempo a far giungere all’autorità aeronautica
il messaggio telefonico che evita l’allarme e i soccorsi.
L’avventura è finita. Di colpo la tensione si scarica e ridivento un normale
cittadino. L’ambiente intorno a me acquisisce bruscamente i suoi solidi, con-
sueti connotati. Mi trovo nell’unica locanda del paese, che si affaccia sulla
piazzetta principale, e devo solo aspettare che il tempo migliori per ripartire,
ma potrebbero volerci giorni. Si accende lo stimolo della fame, giustificato
anche dall’ora, così che mi metto a tavola, compiaciuto di celebrare con qual-
che rito gestuale il ritorno alla normalità e lo scampato pericolo.
Non c’è come l’aver affrontato situazioni estreme che permette di apprezza-
re le piccole abitudini che ci rendono familiare la vita di tutti i giorni. Proba-

19
Avventure di volo

bilmente, nel nostro lontano passato, i forti stress di un’esistenza quotidiana


tormentata e insicura hanno dato origine alla necessità di trovare sicurezze
- non importa se vere o fittizie - in piccole certezze e abitudini quotidiane.
Non è un caso che i marinai appartengono a una delle categorie di persone più
superstiziose. Io non sono per nulla superstizioso e sono abituato a guardare ai
riti di qualunque tipo - dal classico italianissimo gesto scaramantico all’inco-
ronazione di un papa - con il freddo sguardo dell’antropologo culturale, ma è
certo che nel mio momento di relax, dopo lo scampato pericolo, affondo la
forchetta nel piatto di spaghetti con una verve inaspettata e provando un’effi-
mera, ma tangibile gioia.
Tornando ora alla mia piccola avventura. In quella grigia giornata sono
l’unico cliente “esterno” della locanda, amorevolmente accudito dagli anziani
gestori del locale, consapevoli della mia eccezionale situazione, ma molto
rispettosi e abituati dal mestiere a non fare troppe domande.
A questo provvedono invece gli avventori che si fanno sempre più numero-
si. Arriva un pensionato che ha lavorato per molti anni alla Macchi e faceva
manutenzione agli aerei in Africa Orientale. Arriva un professionista del pae-
se, che negli anni Sessanta andava spesso a St. Moritz con piccoli aerei affitta-
ti a Vergiate o Locarno e che rievoca avventure, aeronautiche e non, di quel
suo periodo di vita. Arrivano i più esperti pescatori del paese che mi spiegano
tutti i segreti del tempo e del microclima del centro lago e che mi preannun-
ciano la possibilità che nel pomeriggio arrivi la famigerata ventata anomala, il
“Mergozzo”, che spazza via i tetti delle case e strappa le barche dagli ormeg-
gi. Arriva il testimone oculare dell’episodio del famoso bombardiere inglese
precipitato nella boscaglia sopra il paese in una notte di maltempo, alla fine
della guerra. Arriva il capitano di battello che, il mattino, mi aveva sentito
vagare a bassa quota sul lago.
Arriva un personaggio non più nel fiore degli anni, dall’atteggiamento ga-
gliardo e signorile, ma piuttosto barcollante e appannato da chissà quali vi-
cende personali, che incomincia a fare il panegirico dell’aviatore e dei tempi
- gli anni Trenta - in cui l’aviazione era tenuta in gran conto. «Questo è un
uomo! È venuto da noi in aereo. Con questo tempo. Solo il barone tal dei tali è
arrivato qui con l’idrovolante, nel trentaquattro. Questo è un vero italiano, non
come voi, traditori, che avete ridotto la patria ecc. ecc.». La gente lo guarda
con quell’aria di compatimento indifferente che si riserva a un parente ritarda-
to. Ma lui rincara la dose, rivolgendosi in particolare a un signore che poi
risulterà essere un responsabile dell’amministrazione di sinistra del paese.
«Dove eravate voi quando gli aviatori italiani affrontavano il nemico? Eravate
nei boschi a spararci alle spalle. ecc. ecc.» Dopo qualche pietoso invito a
lasciar perdere l’ambiente si riscalda e anche la parte avversa si fa sentire. «E
dov’eri tu?» «Ma torna nel letto della marchesa, che se non era per lei...» e il
dito si rivolge per un attimo a indicare il cancello di una bella villa dall’altra
parte della piazzetta.

20
Avventure di volo

Dall’amalgama di un pluridecennale quieto vivere improvvisamente emer-


gono oscure vicende personali, vecchi rancori, conflitti non risolti. Nelle varie
persone che discutono si delineano i tratti caratteristici di molti personaggi di
Piero Chiara, che così bene ha descritto la vita di provincia sul Lago Maggio-
re. I battibecchi a poco a poco svelano ciò che sta dietro le belle facciate delle
case e le siepi dei giardini.
Nel frattempo si accendono altre discussioni più tecniche, alle quali al mo-
mento sono più interessato. Lo stato maggiore dei pescatori indica che la
situazione sembra proprio volgere al peggio e che a metà pomeriggio potreb-
be levarsi il famigerato vento distruttivo di cui si parlava. Sarebbe meglio
partire, a qualsiasi costo. Ma il tempo è pessimo. Verso sud forse sta miglio-
rando. Una staffetta - il figlio di uno dei pescatori - viene mandato in macchi-
na a fare un sopralluogo per una ventina di chilometri. Il tempo non risulterà
essere molto diverso laggiù.
In quelle condizioni, il pilota è come se baciasse il terreno a ogni passo che
fa e ci pensa mille volte prima di ripartire. E il pensiero del Lake, all’asciutto,
con i suoi tre possenti carrelli piantati nella sabbia di una spiaggia, permette di
vivere con una certa serenità anche il prospettato arrivo del terribile Mergoz-
zo. Certo, nel caso, i piani mobili dell’aereo devono essere fissati e una con-
troventatura delle parti sopravvento deve essere predisposta, ma con o senza
questi accorgimenti, ci vuole un uragano di classe 3 o 4 per far volar via quel
magnifico “ferro da stiro” che è il Lake e per fortuna questo tipo di evento è
sconosciuto alle nostre latitudini.
Tra una discussione e l’altra sento il gestore parlare al telefono: «Di che
giornale? Sì, il pilota sta bene; ha mangiato una cotoletta alla milanese, con
l’insalata. Ha bevuto... No, l’apparecchio non è precipitato; non ha subito
nessun danno. È semplicemente ammarato. È un idrovolante».
Ormai la piccola trattoria, sempre più popolata, è diventata un quartier ge-
nerale. Il trambusto si calma solo quando sono al telefono. La gente è affasci-
nata dai miei secchi resoconti sul volo, dall’ermetismo dei termini tecnici,
dalla familiarità con cui parlo di spazi aerei, di aeroporti, di quote di volo,
dello stato dell’idrovolante sulla spiaggia.
A un certo punto arriva una chiamata per me. Il gestore me la passa e dopo
pochi secondi già serpeggia un bisbiglio. «È una donna». «È la sua donna».
Dopo le avventure vissute non posso fare a meno di scambiare qualche pen-
siero con la persona che mi aspettava alla mia destinazione e che mi avrebbe
dovuto riportare in auto a Como, impersonando senza volerlo il ruolo del-
l’aviatore dei romanzi popolari degli anni Trenta. L’attenta platea si compiace
divertita del risvolto “rosa” della mia avventura aviatoria.
Il tempo passa e tutti quelli che arrivano vengono aggiornati sulla situazio-
ne. Le discussioni si moltiplicano e toccano ormai tutti gli aspetti del volo:
dalla storia all’aerodinamica, dai problemi della sicurezza agli aspetti psicolo-
gici del pilotaggio. Vengo coinvolto per dirimere vere e proprie dispute.

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Avventure di volo

Durante tutta la mia permanenza nella locanda, durata alcune ore, prende
corpo dentro di me un pensiero e un’emozione. Lo straordinario non è solo
quello che è capitato a me, ma anche, forse soprattutto, quello che stanno
vivendo loro. Il mio piccolo idrovolante mi fa dunque vedere e vivere come
eccezionale la visita in un tranquillo paese lacustre che non avrebbe suscitato
in me alcun interesse passando in motocicletta, ma desta anche clamorosa-
mente il senso dell’eccezionale in un gran numero di persone che mai degne-
rebbero della minima considerazione uno sconosciuto che arriva in paese.
L’evento visibilmente scompone e ricompone molti rapporti tra le stesse per-
sone che vivono in quel luogo.
Se apprezzo il viaggio come occasione di interscambio culturale tra il visi-
tatore e il visitato, come ricerca dell’autenticità di sentimenti e relazioni uma-
ne, del viaggio non artefatto, insomma, posso ritenermi pienamente soddisfat-
to. Sì, forse questa è proprio “avventura”, più di tante che ho vissuto in paesi
esotici e in lontani continenti.
Verso le otto di sera, per fortuna, la situazione migliora leggermente e il
lago si calma quel tanto che basta per indurmi a ripartire. Vengo informato che
l’idroscalo di Como è bloccato da un’enorme massa di detriti, portati a valle,
nella giornata, dall’alluvione. Letteralmente ettari di lago sono ricoperti da
milioni di pezzi di legno, alberi, rami e altro materiale galleggiante e quindi
decido di portare l’idrovolante al più vicino aeroporto in provincia di Varese,
Calcinate del Pesce.
Una piccola processione mi accompagna all’aereo. La risacca e i leggeri
movimenti dell’aereo indotti dalle raffiche di vento hanno fatto affondare le
ruote nella ghiaietta. Con il remo in dotazione, usato come badile, scavo tre
piccoli canali che liberano le ruote, sotto gli occhi curiosi di una cinquantina
di persone.
Infine metto in moto, scendo nell’acqua e mi avvio verso il centro del lago
preparandomi al decollo. Durante la partenza mi investe una ventata di simpa-
tia da parte di tutti i presenti, di molti dei quali conosco i nomi e a cui dò
ormai del tu. Ciascuno mi ha dato qualcosa e anch’io ho lasciato su quelle
sponde qualcosa di me stesso. Ecco un altro significato di “avventura”: il
condividere con un’altra persona o altre persone i tuoi sentimenti, i tuoi timo-
ri, i tuoi obiettivi e sentirti con quella persona, con quelle persone, fratello e
amico per sempre.
Lo straordinario, che talvolta ho inutilmente inseguito nelle foreste tropica-
li, nella tundra artica o nella Saigon assediata dai “Viet”, mi ha investito
inaspettatamente proprio dietro l’angolo di casa.

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Avventure di volo

Barnstorming acquatico:
i voli di propaganda
Il volo di propaganda è una delle attività istituzionali e più importanti svolte
dagli aero club, che consente a migliaia di persone di provare il piacere del volo
e la fondamentale esperienza culturale di vedere dall’alto i luoghi in cui vive.

Barnstorming: nell’inglese-americano degli anni Venti del XX secolo, il gira-


re per distretti rurali mettendo in piedi spettacoli e attrazioni teatrali e sporti-
ve, un’attività molto diffusa nelle grandi pianure del Middle West americano
in quell’epoca.
Per quel che riguarda l’aviazione, il termine è stato usato, proprio a partire
dagli anni Venti, per definire un’attività aviatoria del tutto particolare. Che
cosa potevano fare i piloti reduci dalla grande guerra in Europa, ritornati con
qualche soldo in America? Come potevano procurarsi da vivere gli innumere-
voli “malati” di aviazione che riuscivano a mettere insieme in qualche modo
un aeroplano? Certo, c’erano attività aviatorie dignitose, nobili o rinomate, di
cui parlavano tutti i giornali: l’Aeronautica militare, le prime compagnie di
trasporto aereo, i tentativi di trasvolata oceanica, il far parte di qualche circolo
di miliardari (in dollari, millionnaires) amanti degli aeroplani, ma migliaia e
migliaia di piccoli aviatori si trovavano a dover vivere basandosi solo sul loro
più o meno malandato aeroplanetto e lo fecero nel ruolo di “saltimbanchi
dell’aria”. Uno di questi era Charles Lindbergh, che descrive nei suoi libri, la
cui lettura è consigliata a ogni pilota, le sue esperienze di barnstorming.
Lindbergh sorvolava le grandi pianure degli Stati Uniti e quando si imbatte-
va in un villaggio, ne percorreva la Main Road in un volo a coltello, sollevan-
do mulinelli di polvere con l’estremità dell’ala; poi faceva qualche acrobazia
e atterrava nel primo prato agibile dopo l’ultima casa. A quel punto molti
accorrevano, desiderosi di vedere un aeroplano e - chissà mai - di poter volare.
Lindbergh portava in volo quegli entusiasti per qualche dollaro e così si gua-
dagnava da vivere. Lo stesso fecero moltissimi piloti, divenuti poi famosi, che
non poterono tuttavia mai dimenticare il loro passato di barnstormers.
Nel mondo di oggi, altamente inurbato e vessato dalle regolamentazioni, il
barnstorming non è più possibile, con un’eccezione: il barnstorming acquati-

23
Avventure di volo

co, un’attività che, a distanza di ottant’anni da quando la faceva Lindbergh, la


possono fare solo i piloti di idrovolante.
L’idrovolante ha infatti un’incredibile caratteristica: può operare ovunque vi
sia acqua. Ciò significa che esso può portare l’aviazione ove essa mai potrà
essere presente e il piacere di volare a masse di persone che mai, di loro
volontà, andrebbero in un aeroporto per prendere un aereo.
Solo l’elicottero può competere con l’idrovolante in questa attività, ma ha
un costo di esercizio molto più alto e, solitamente, gli sono preclusi i magnifi-
ci luoghi che si affacciano sull’acqua, a cui può invece accedere un idrovolan-
te. L’idrovolante è dunque il mezzo più adatto per propagandare il volo, una
delle più importanti attività istituzionali degli Aero Club che fanno parte del-
l’Aero Club d’Italia.
Con l’idrovolante si opera nel centro delle più belle e importanti città del
mondo e in tutte le località turistiche che si affacciano su uno specchio d’ac-
qua, ovvero nei luoghi ove si trova una concentrazione di persone che hanno
tempo e voglia di vedere cose belle e interessanti.
L’idrovolante è l’unico mezzo aereo con cui vengono in contatto persone del
tutto ignare di aviazione, di aeroporti e di aeroplani, che decidono di prendere
le vie del cielo solo perché si imbattono casualmente in questa strana macchi-
na che si trova sui loro passi, sulla promenade della cittadina di mare o di lago
in cui si trovano, sulla riva di un fiume o di un lago o in luoghi speciali come
l’Idroscalo di Como, quello di Milano, le idrosuperfici che l’Aero Club Como
ha istituito sul Po, nel porto di Ancona, nel porto-canale di Cremona o in
quello di Mantova o di La Spezia, per citarne solo alcune.
Molto spesso portiamo in volo non il grande appassionato di aviazione, il
pilota “terrestre” ansioso di provare l’emozione del volo sull’acqua, l’ex pilo-
ta militare, il collaudatore, l’astronauta, il sindaco, il prefetto, il giornalista,
ma famigliole e fidanzatini che si imbattono in un idrovolante del tutto ina-
spettatamente, persone per le quali un giro in idrovolante equivale a un’espe-
rienza straordinaria, di cui si ricorderanno per tutta la vita.
La casistica delle persone che volano è vastissima. Per quel che riguarda
l’età, si va dai lattanti agli ultranovantenni. I bambini solitamente, dopo po-
chissimi minuti, dormono, per l’effetto ipnotico e cullante del rumore del
motore/elica. Gli adulti guardano quasi sempre fuori dal finestrino. C’è poi
l’appassionato di aviazione non-pilota che non sogna altro che di poter tenere
in mano i comandi. Quest’ultimo tipo di persone, così come i ragazzi, li
accontentiamo ben volentieri, facendo loro condurre l’aereo. In pratica si fa
provare l’effetto dei comandi - tirando si sale, spingendo si scende, ruotando il
volantino si vira - finché arrivano a mettersi, di solito, in qualche strano asset-
to a muso alto o a muso basso, cosa che dà un brivido agli accompagnatori del
pilota improvvisato e in genere fa terminare gli esperimenti: «È bellissimo,
ma ora riprenda lei i comandi». Qualcuno, tuttavia, probabilmente forte di ore
e ore di simulatore di volo sul computer di casa, ai “comandi” di un F 16,

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Avventure di volo

conduce l’intero volo, tanto che si fa fatica a strappargli il volantino, a colpi


sulle mani, appena prima dell’ammaraggio.
Molti passeggeri, dopo un primo timido giretto, si sono appassionati e han-
no deciso di iscriversi al corso di pilotaggio.
Il volo di propaganda è svolto nel nostro Club da sempre. I piloti di questi
voli sono generalmente i più esperti piloti del Club, quelli che non hanno o
non hanno più “grilli per la testa”, quelli che hanno un carnet personale che
indica che sono capaci di condurre un volo a un livello “extra” di sicurezza,
quelli che non usano mai un volo di questo genere per finalità personali, quali
il provare una manovra, fare esercizio, andare a vedere un posto che li interes-
sa, compiere manovre di soddisfazione per loro - piloti - ma forse non capite
dai passeggeri. Il pilota di voli di propaganda dunque deve assolutamente
essere un pilota “tranquillo”, oltre che capace e sicuro.
Tra i piloti storici più dediti al Club per questa attività ricordo, tra gli altri,
Ivo Noseda, Luigi Cantarone e Camillo Biraghi. Oggi un nutrito gruppo di
giovani soci, molti dei quali in varie fasi del loro corso per diventare piloti
professionisti, dedicano una parte del loro tampo a questa attività. Si tratta di
Carlo Novati, Filippo Faglioni, Pietro Brenna, Alessandro Martinelli, Paolo
Zambra, Giacomo Frigerio, Morad Hassan Hussein e Sergio Tramalloni.
Le avventure vissute durante voli di propaganda fanno parte della tradizione
orale di ogni Club. A Como ne abbiamo vissute un’infinità. Una delle più
folcloristiche è la seguente, accaduta in un afoso agosto degli ultimi anni
Settanta. Arriva un tedesco, corposetto, come molti tedeschi, e chiede di fare
un volo. Al socio pilota che in quel momento si trova a passare di lì o che sta
stazionando all’hangar da qualche ora non pare vero di poter allietare con un
volo l’insopportabile pomeriggio.
Dunque carica il tedesco sul Cessna 150 (allora dotato di motore
O 200, da 100 cavalli) e, dopo una faticosa corsa di decollo, prende le vie del
cielo. Il tedesco non parla una parola di italiano, così come il nostro socio non
parla una parola di tedesco. Chissà che cosa gli dice, a gesti, il nostro pilota,
ma finisce che lo porta verso la Brianza, fino al lago di Pusiano, dove decide
di ammarare. Probabilmente il pilota era un po’ giù di esercizio e aveva deciso
di esercitarsi un po’ negli ammaraggi in un bacino di acqua tranquilla.
L’aereo è ora fermo sulla superficie perfettamente piatta del laghetto e,
come ogni pilota idro sa, non vi è nulla di più difficile che decollare in estate
con un idrovolante a pieno carico da una superficie piatta. Fatto è che il nostro
pilota - tenta e ritenta - proprio non ci riesce.
È certo che a bordo non ha la pompa per rimuovere l’acqua dai galleggianti;
è quasi certo che quell’operazione, destinata ad alleggerire l’aereo, non l’ave-
va fatta nemmeno alla partenza da Como; è altresì certo che era partito badan-
do di avere abbastanza benzina per il volo, ma non valutando che forse aveva
troppa benzina per quelle condizioni. Inoltre è probabile che la sua esperienza
non sia tale da fargli tentare le tecniche più raffinate per decollare comunque

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Avventure di volo

in quella difficile condizione, tecniche che diverranno patrimonio culturale


diffuso tra i piloti comaschi solo una quindicina di anni dopo (sono descritte
nel mio libro Seaplane Operations, alle pagg. 16-29-31).
In sintesi, l’aereo non ne vuole sapere di decollare. Il pilota opta infine per
l’unica decisione possibile: “molla” il passeggero, cercando di spiegargli a
gesti che farà in modo che qualcuno lo venga a prendere. Lo affida a un
barcaiolo che si era avvicinato all’aereo e che aveva avuto la presenza di
spirito di immaginare che fosse in difficoltà. Infine ridecolla per Como.
Dopo più di due ore il tedesco giunge all’Aero Club in taxi, atteso dalla
moglie, che comunque aveva dovuto essere calmata dopo aver visto che l’ae-
reo, decollato con il marito a bordo, era ammarato senza che ve ne fosse
traccia, una visione indubbiamente inquietante e del tutto inaspettata. È stato
tramandato che il tedesco era molto arrabbiato.
Un altro “bel” volo di propaganda è quello in cui un collega di lavoro di un
pilota del Club, alla sua prima esperienza di volo, è invitato a fare una gita
domenicale in aereo. La meta è Torricella di Sissa, sul Po, in provincia di
Parma. Il socio del Club va con l’amico neofita del volo su un Cessna 150.
Noi, con il Lake Buccaneer, andiamo via in tre, dopo aver tentato di decollare
da Como in quattro con il pieno di benzina, senza riuscirci, e aver scaricato un
passeggero, che ha generosamente deciso di rinunciare al viaggio (generosità
che continuerà a dimostrare nei decenni successivi, ogniqualvolta il Club avrà
bisogno di un apporto da parte dei soci).
Dopo un’intensa giornata di voli di propaganda sul Po e di interessantissime
operazioni in una corrente di parecchi metri al secondo, arriva l’ora di rientra-
re. Verso sera anche i fiumi si calmano, diventando piatti piatti, malgrado la
corrente. Fatto sta che il Cessnino va su e giù per il fiume, ma non ne vuole
sapere di salire sul redan. Impossibile decollare. Chiamato via radio, riamma-
ro con il Lake e carico il malcapitato passeggero, ma in quattro, in quelle
condizioni, non riesco a decollare nemmeno sfruttando in tutti i modi i 200
cavalli del motore. Il neofita lo lascio infine sulla riva, ormai all’imbrunire
(con tutto il tempo che si è perso nelle operazioni descritte si arriverà poi a
Como con il buio, oltre che in mezzo a un temporale).
Provate a partire da Torricella di Sissa alle otto di sera con destinazione
Como usando i mezzi pubblici: il poveretto è giunto alla meta all’alba, pronto
per affrontare una giornata di lavoro in banca, e non lo si è mai più visto.
Vi sono poi i voli di propaganda con uno scopo preciso. Uno è il farsi
portare su qualche riva, in un luogo e in un momento preciso, per esempio a
una festa o a casa di amici; l’arrivare con l’inusuale mezzo aiuta moltissimo a
fare una bella figura, che diventa travolgente se il passeggero offre ai suoi
ospiti o amici qualche breve giretto in idrovolante.
Si ricordano persone che sono salite su un idrovolante per un volo di propa-
ganda, ma che in realtà intendevano cercare sui monti un parente scomparso
oppure controllare dall’alto se la moglie era in casa sola o in compagnia,

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Avventure di volo

oppure scoprire se il vicino stava ristrutturando abusivamente un fabbricato.


Un particolare volo di propaganda è il “volo pertosse”, prescritto da molti
pediatri. Migliaia di bambini sono stati portati ad alta quota con i nostri idro-
volanti, ove pare che il virus della pertosse sia stroncato da una lieve variazio-
ne del pH del sangue, indotta dalla variazione repentina di pressione, del tutto
innocua per l’ospite, ovvero per la persona umana.
Un altro tipo di volo terapeutico, che si può fare solo con l’idrovolante, è
quello per i fobici del volo. L’idrovolante che vola su acqua può ritornare sulla
superficie in qualsiasi momento e in pochi secondi. Ciò dà un grande senso di
fiducia ai fobici, che possono così provare in modo graduale e rassicurante le
sensazioni del volo, sempre nella possibilità di ritornare sulla superficie a loro
discrezione. C’è da dire, in base alla mia esperienza, che il solo fatto di avere
questa possibilità dà tanta sicurezza che in pochissimi casi ho avuto un’effetti-
va richiesta di ritorno rapido sulla superficie e, per la cronaca, non ho quasi
mai visto esplodere, a bordo di un idrovolante, la classica e famigerata crisi di
panico, caso che invece mi è capitato volando con un idrovolante su terra. In
quella occasione ho avuto la fortuna che la persona era molto razionale e ha
vissuto senza reazioni inconsulte l’evento, anche se dopo il volo ha confessato
che avrebbe preferito aprire la portiera e gettarsi nel vuoto che continuare a
vivere quella situazione per lei terribile.
Ogni pilota che ha fatto voli di propaganda può raccontare casi strani e
interessanti. A me il caso più curioso è capitato nei primi anni Ottanta. Al
Club arriva un giapponese sulla quarantina, molto ben vestito, accompagnato
da un’avvenente esponente di sesso femminile più giovane di una quindicina
di anni e da un accompagnatore. Quest’ultimo è l’agente, il factotum, il mag-
giordomo, il guardaspalla o non so che altro ed è l’unico che parla inglese. Ha
la particolare caratteristica di dimostrarsi eccezionalmente devoto al suo pa-
tron e si adopera, con un misto di frenesia e ansia, per organizzargli le cose al
meglio: «È possibile affittare un aereo e andare sul Monte Rosa?»
«Beh, sì, però la cosa costa una certa cifra e poi oggi il tempo non è bello;
vede che ci sono parecchie nuvole e il Monte Rosa è alto 4500 metri o più.»
«Non c’è nessun problema per i soldi: quel che costa costa; vogliamo andare
sul Monte Rosa.»
«Quello che posso promettere è che possiamo avvicinarci al Monte Rosa,
ma è probabile che oggi non riusciamo nemmeno a vederlo; se vi va...».
Dopo aver confabulato con il patron, arriva la risposta «Va bene, proviamo;
mister tal dei tali tiene moltissimo a vedere il Monte Rosa».
I due “piccioncini” si accomodano dietro; lui non la smette un momento di
accarezzarle la mano e di sussurrarle parole vicino all’orecchio. Lei è più
sulle sue, ma ricambia di tanto in tanto, frettolosamente, qualche effusione. Il
maggiordomo è al mio fianco e dimostra uno speciale accanimento nell’appu-
rare tutte le possibilità che ci sono di andare sul Monte Rosa, dimostrando un
incredibile spirito missionario. Se fosse ancora l’epoca in cui tutto lo staff del

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Avventure di volo

samurai si suicida in caso di sconfitta del signore sono certo che la persona
che mi sta accanto sarebbe la prima a sventrarsi.
Mi chiedo se sia in corso un gioco a premi di quelli televisivi, ove si spendo-
no milioni di dollari o di yen per vedere se una persona è capace di compiere
una certa impresa o di condurre a termine una strana caccia al tesoro.
Il cielo è coperto da uno strato sfrangiato verso il basso, ma verso ovest è più
chiaro. Man mano che procedo lo strato si fa rotto, ma più in alto si scorge un
altro strato. Mi trovo in quelle condizioni sulla sponda occidentale del Lago
Maggiore, da dove, in aria chiara, il massiccio del Rosa lo si vedrebbe torreg-
giare in tutto il suo splendore. Intorno ci sono, invece, solo tonalità di grigio.
Con aria costernata e scuotendo lievemente il capo faccio capire al maggior-
domo che il Monte Rosa, oggi, sarà impossibile vederlo.
Lui trasmette il bollettino di guerra alla fila posteriore. Dopo qualche veloce
scambio di frasi giunge il parere che conta, prontamente tradotto in inglese:
«Va bene, va bene; non interessa se dobbiamo stare in giro anche ore, ma
vediamo di andare sul Monte Rosa».
Che fare? Da un lato sono perfettamente consapevole del mio ruolo di co-
mandante e che se decido di tornare a Como nessuno può battere ciglio. Dal-
l’altro mi chiedo quale possa essere, se proprio fosse questione di vita o di
morte, la possibilità di compiere la “missione impossibile”.
In effetti il cielo ha molte tonalità di grigio, ma tutte grigio chiaro. Ciò vuol
dire che non sono in presenza di un vero “pacco”, ma di una serie di strati non
molto spessi. Così come molte volte, attraversando le Alpi, ho trovato dall’al-
tra parte il cielo coperto da uno strato non troppo spesso e sono andato a
cercare un buco per scendere sotto e raggiungere la meta, allo stesso modo
forse ora posso cercare il buco per passare sopra.
Comunico ai passeggeri che una possibilità potrebbe esserci, ma per tentarla
bisogna andare a girovagare per la Pianura Padana e che comunque il risultato
non è assicurato.
«Benissimo», mi dicono. Dopo pochi secondi sento una mano che dai posti
posteriori scivola sulla mia spalla, come per abbracciarmi, e raggiunge la zona
del taschino della mia camicia. Intravvedo un biglietto da centomila che vi si
infila dentro.
Capita di ricevere mance nei voli di propaganda. Potremmo spiegare, in
quei casi, che noi in realtà facciamo tutto un altro lavoro e che voliamo senza
alcun compenso, senza attenderci alcuna mancia, ma la cosa potrebbe essere
non capita o addirittura essere presa come un segno di sprezzo. In questi casi
preferiamo allora impersonare il ruolo dei pilotini di charter e dopo il volo
raccogliamo chi si trova in hangar e andiamo a berci qualcosa con i proventi
straordinari e inaspettati, oltre che non richiesti, del volo appena fatto.
Una mancia, anche se non ci interessa, è comunque un indice che abbiamo
soddisfatto pienamente la persona per cui abbiamo svolto il servizio, il che è
comunque gratificante.

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Avventure di volo

Un centone, tuttavia, è un qualcosa che non era mai successo e lievemente


imbarazzante. Spiego con aria calma e affabile al maggiordomo che ringrazio
moltissimo per la dimostrazione di stima, ma di stare sicuri che quel che si
potrà fare lo farò comunque con il massimo impegno e che se si potrà andare
sul Monte Rosa, cosa sempre improbabile, lo farò sicuramente perché consi-
dero mio dovere farlo, mentre se non si potrà non c’è mancia che tenga.
Dopo uno scambio di monosillabi “haaa” e “yooo” tra il maggiordomo e il
patron una mano sicura mi infila un altro centone nel taschino.
Sto ora procedendo lungo le pendici meridionali del Massiccio del Rosa, tra
Borgomanero e Biella, scrutando il cielo. Ho già trovato il buco per passare
sopra il primo strato e ora sto volando tra due strati, piuttosto definiti, con
discreta visibilità. Il cielo verso ovest è però confortevolmente chiaro.
Informo i passeggeri che tenterò di passare sopra, se si trova un pertugio. Un
altro centone trova la via del mio taschino.
La cosa è sempre più imbarazzante, ma qualcosa mi dice che è meglio non
spezzare la fragile dinamica dei rapporti e degli eventi che si stanno svolgen-
do sull’aereo, anche perché la situazione non è delle più semplici e la mia
attenzione è bene che sia rivolta esclusivamente al volo.
Ogni volta che viro, faccio un 360 in salita, mi guardo intorno per cercare la
via e dai movimenti del capo lascio intendere che sono in dubbio sul da farsi
una mano furtiva mi mette un ulteriore centone nel taschino. Ma che diavolo
avrà mai questo Monte Rosa...?!
A nord di Biella, che peraltro è la sotto del tutto invisibile, attraverso, in uno
squarcio, una copertura di circa 5/8, di 2-300 piedi di spessore, e arrivo nel-
l’azzurro. Completo la virata e di fronte a noi si erge, magnifico e maestoso,
sopra un oceano di nubi, il Rosa. Il mio taschino registra l’arrivo al cielo
azzurro e la visione del Rosa accogliendo uno o più ulteriori centoni.
Salgo fino a 12.000 piedi circa e giro intorno al massiccio, passando vicino
a crinali e creste. L’ultimo centone arriva nel taschino quando, virando decisa-
mente, prendo una rotta di allontanamento verso est, annunciando che tornia-
mo a casa. Traduzione del gesto, non espressa a parole, ma ben comprensibile:
«Grazie, è stato molto bello».
Verso le montagne lo strato è rotto e sono quasi sicuro che dirigendomi
verso il centro-alto lago di Como troverò un buco per passare sotto. Se la
copertura fosse tale da impedire la discesa, una procedura strumentale di di-
scesa è comunque possibile, in pianura, su qualche aeroporto, ma non ce n’è
bisogno: la discesa verso le basse quote avviene agevolmente a nord di Bella-
gio, con successivo facile ritorno alla base.
Giunti a terra, sotto un cielo bianco-grigiastro, il maggiordomo corre in
segreteria a pagare il volo e il gruppetto si accommiata con grandi sorrisi, lievi
inchini e sequenze di monosillabi infarciti di aspirate, a cui rispondo con
altrettanti inchini ed espressioni di cortesia.
Quella sera abbiamo mangiato bene in parecchi.

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Avventure di volo

Ne va della vita
Ogni pilota ha un dovere morale a cui non può sottrarsi: descrivere
immediatamente alla comunità dei piloti di cui fa parte ogni errore che commette.
Gli altri piloti, lungi dal criticare, deridere o sentirsi superiori al pilota che mette
in evidenza un proprio errore, gli dovranno essere grati, perché questo
atteggiamento permetterà loro di evitare di commetterne uno uguale e forse
di avere salva la propria vita, con quella dei propri passeggeri.
Ecco i miei gravi errori che sarebbero potuti costare carissimi a me e ai miei
passeggeri e che solo un fato benevolo ha voluto far rimanere senza conseguenze.

Non so se c’è un pilota che non ha mai rischiato la vita. Io la rischio ogni
giorno circolando in motocicletta, il mio mezzo di trasporto abituale, statisti-
camente 2000 volte più pericoloso dell’aereo, ma l’ho rischiata in modo grave
- per quel che ne so - tre volte pilotando aeroplani, nella mia trentacinquenna-
le vita volativa, ed è bene che racconti queste esperienze, anche solo per il
fatto che qualcuno, leggendo ciò che segue, forse potrebbe evitare di compiere
i tre gravi errori che io ho compiuto in quelle occasioni.
Quei tre errori non sono giustificabili, in quanto furono dovuti proprio a
eccesso di confidenza con il mezzo aereo e di autoconsiderazione, ovvero a
ciò che costituisce uno dei principale fattori di incidenti aerei.

1970: il primo grave errore della mia vita di aviatore


Il corso di pilotaggio, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, è molto diverso
da quello che si farà due o tre decenni dopo. Nostri istruttori sono piloti della
Seconda guerra mondiale, che hanno ancora negli occhi voli in formazione,
inseguimenti di altri aerei con il dito premuto sul grilletto delle mitragliatrici,
manovre di scampo dai colpi del nemico o da ostacoli che si presentano im-
provvisamente alla vista, in voli radenti tra i colpi della contraerea.
Lo spirito di questi nostri meravigliosi istruttori - quale è Pio Roncalli a
Como - si travasa in qualche modo in noi. Qualcuno si scandalizza per il fatto
che nel 1940, in Inghilterra, neo-piloti erano resi “combat-ready” dopo 12 ore
di istruzione su Spitfire. Lo scrivente, come i suoi compagni di corso, si trova
a volare da solista su un idrovolante di Como dopo aver fatto poco più di 7 ore
di volo con un istruttore. Questo dato deve essere inquadrato in una situazione

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Avventure di volo

normativa nella quale il brevetto di primo grado si consegue con 12 ore di volo
totali. Non so se sia più pericoloso pilotare uno Spit con 12 ore di esperienza o
un Piper PA 18 con 7 ore e 20 primi di esperienza, come è capitato a me. È
certo che, avendo raggiunto le 15 ore di volo totali, con l’istruzione intensiva
dell’epoca, mi senta una specie di semidio. La sensazione è corroborata dal
fatto che intorno alle 10 ore l’istruttore ti ha “ripreso in mano” (ormai, dal
decollo, ti sei fatto le ossa con 3 o 4 ore da solista) e ti ha introdotto nell’affa-
scinante mondo dell’acrobazia aerea. Sul Piper, ma soprattutto sul Macchi
MB 308, abbiamo ormai conosciuto il looping, il tonneau, le scampanate
dritte e rovescie, le virate di scampo e le viti, tutte manovre che le targhette
attualmente presenti sui nostri aerei classificano come “proibite”.
Si può facilmente capire come il ventenne pilotino che sono, dopo quattro o
cinque lezioni di questo genere, si senta in grado di emulare il suo istruttore. E
così faccio... con i risultati qui di seguito descritti.
Passato il paese di Torno e nel bel mezzo del secondo bacino del lago, con il
Cessnino 150, alla notevole quota di 1500 piedi, sono tanto sicuro di me da
improvvisare una virata in cabrata. Le mie capacità sono immediatamente
messe alla più dura prova: tira su, 50 o 60 gradi di inclinazione verticale;
inclina a sinistra; l’aereo sta per completare la virata in cabrata. Improvvisa-
mente mi viene un brivido: non sono più sicuro di quello che sto facendo e mi
rendo conto che la quota è bassa, anzi bassissima; non avrei mai dovuto af-
frontare quella manovra a quella quota. Che fare? Se solo non facessi nulla per
un altro secondo, mi troverei nella fase di uscita dalla “sfogata” e dovrei
solamente tirare lievemente il volantino per risolvere, tenendo ben d’occhio la
pallina, quella situazione critica. Ma questo è il senno di poi.
Invece no: il piccolo conato di paura “fa quaranta” e, appeso verso il cielo da
solo per la prima volta nella mia vita, sbaglio tutto: spingo il volantino in
avanti, pensando di ritornare così nella normale situazione di volo. Invece,
con l’aereo ormai quasi fermo, produco una condizione di volo di estrema
pericolosità: lo stallo rovescio, seguito da un ingresso in vite.
In quel momento non ho la più pallida idea di che cosa sia uno stallo rove-
scio né esperienza di uscita dalla vite. L’unica cosa che vedo è che la terra e il
lago turbinano innanzi a me, che tutto vola anche all’interno della cabina, che
i comandi sono durissimi e che la lancetta dell’anemometro si trova in una
zona sconosciuta che sta intorno a una lineetta rossa tracciata sul quadrante.
Mi trovo a dover mettere in pratica tutto da solo e con la superficie che si
avvicina a velocità impressionante una tecnica che avevo visto semplicemente
eseguire dall’istruttore. So che devo premere il pedale dalla parte opposta a
quella in cui l’aereo si sta avvitando, lasciando il volantino al centro. Così
faccio, al che l’avvitamento rallenta, ma i problemi non sono finiti.
Arrestata la virata, incomincio infatti a tirare il volantino verso di me, ma
l’operazione è molto difficile, dato che l’aereo è in picchiata verticale e io mi
trovo in caduta libera, letteralmente “appeso” alla cintura di sicurezza.

31
Avventure di volo

Solo un piccolo spazio separa il volantino dal mio corpo schiacciato in


avanti e il mio addome fa da fondo-corsa posteriore ai suoi possibili movi-
menti. Se solo avessi stretto la cintura due o tre centimetri in meno quello
spazio non ci sarebbe e mi sarebbe impossibile richiamare, così che la mia
corsa in verticale, e con essa la mia vita, avrebbe fine nelle acque del Lario.
Faticosamente, a poco a poco, riesco a richiamare l’aereo e a rimetterlo in
volo orizzontale. Ciò avviene a qualche metro dalla superficie. L’ho proprio
scampata bella!
Il resto del volo l’ho passato in un’occupazione del tutto particolare. Il
nostro istruttore Roncalli, durante il volo, è solito fumare una sigaretta dopo
l’altra, accendendo la successiva con il mozzicone della precedente. I portace-
nere dell’aereo sono pieni di mozziconi, cosa da me non notata all’inizio del
volo, forse perché abituale. La caduta in assenza di gravità per parecchi secon-
di ha fatto uscire tutti i mozziconi e tutta la cenere dai portacenere e li ha fatti
volare per tutta la cabina, insieme a ogni altro oggetto presente libero da
vincoli. Insomma, impiego una ventina di minuti, dovendo anche pilotare
l’aereo, per raccogliere uno a uno i mozziconi di sigaretta e per rimetterli nei
portacenere. Gli ultimi e più difficilmente raggiungibili li “sistemo” quando
ormai sono in flottaggio sulla superficie e quindi posso abbandonare i coman-
di per parecchi secondi. Al ritorno, l’aereo è perfettamente “a posto”.
La sensazione, giunto al pontile, è quella che fa nascere un forte e indelebile
senso di colpa in tutte le persone oneste: ho fatto una cosa terribile e non ne
devo pagare alcuna conseguenza. Mi sento un ladro che l’ha fatta franca.
La successiva virata in cabrata la farò esattamente dopo nove anni, dopo
un’adeguata istruzione da parte di Edoardo Albonico.

1981: il secondo grave errore della mia vita di aviatore


Dopo 25 giorni di viaggio in idrovolante, da Como alla Lapponia e ritorno,
con il Lake LA4, mi sento bene allenato al volo e alla navigazione. Se a questo
si aggiunge che in quel periodo della mia vita sto volando a più non posso, che
sono reduce da un Giro aereo d’Italia tutto fatto di navigazioni di precisione e
che, prima della partenza per quella bella vacanza aviatoria, ho finito a Vene-
gono un corso intensivo di basico strumentale con il comandante Ponzo, un
eccellente istruttore, è facile capire come mi senta sicuro di me.
Delle circa cinquanta ore volate in quel viaggio mi manca proprio solo
l’ultima mezzoretta o quarantina di minuti. Dopo essere decollato da Stoccar-
da ho imboccato la valle del Gottardo, sono salito a 9500 piedi e sto navigan-
do verso il passo.
Ecco che sotto l’aereo si presenta uno strato molto netto di nubi. Non sono
nubi “cattive”, come i cumuli congesti o i cumulonembi, a sviluppo verticale,
ma comunque lo strato è compatto e si perde all’orizzonte. La valle è come se
fosse riempita da questo piccolo mare di nubi, da cui emergono le montagne
che formano una specie di gigantesco canale entro cui l’aereo naviga.

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Avventure di volo

Il cielo, sopra il mare di nubi è limpidissimo, non sono in atto fenomeni


meteorologici di rilievo e l’aria è calma. Affronto quindi a cuor leggero il volo
on top, ovvero sopra le nubi, senza contatto visivo con il suolo. L’intenzione è
di arrivare al passo, continuare finché lo strato di nubi avrà termine e quindi
iniziare la discesa verso Lugano e Como.
Il diavolo, tuttavia, fa le pentole, ma non i coperchi, come di lì a poco dovrò
capire. Risulterà infatti evidente che nell’analisi della situazione, a dir poco
sbarazzina, ho ampiamente sottovalutato una serie di fattori. Innanzitutto fa
caldo e l’aereo è a pieno carico; ha raggiunto i 9500 piedi non senza difficoltà.
Inoltre mi sono buttato in un volo on top con soli 400-500 piedi di distanza
verticale dalle nubi. Infine sto attraversando una catena montuosa come le
Alpi e lo sto facendo volando in valle a una quota appena superiore a quella
del passo, con tutto intorno montagne più alte della quota di volo.
Giunto quasi al passo percepisco un lieve tendenza dell’aereo a perdere
quota, tendenza che si accentua, malgrado la mia delicata opposizione con il
volantino e una trentina di giri motore in più (la manetta del gas, a quella
quota, è già al massimo).
Lo strato di nubi è sempre più vicino, sotto di me. Al che porto i giri del
motore quasi al massimo, assumendo un assetto di salita, ma l’aereo continua
a scendere. Sono probabilmente entrato in una zona di discendenza non forte,
non turbolenta, ma inesorabile. La cosa è molto poco bella, dato che quello
strato di nubi è infarcito di montagne, che si trovano poco sotto.
Decido dunque di tornare sui miei passi, ovvero di fare un “180”, ma entro
decisamente in nube appena abbozzo la manovra di virata. In nube la visibilità
scende a zero e si acquista una sconcertante sensazione di velocità, offerta da
una congerie di filamenti di nube che scorrono sulle finestrature. Nella virata
l’aereo continua a scendere.
L’adrenalina mi fa vivere il primo secondo dell’esperienza come se fosse
mezzo minuto, tempo in cui dò fondo a tutta la mia allora non estesa esperien-
za per trovare una soluzione. So che se non controllo bene la situazione l’im-
patto è questione di secondi. Spinto da un desiderio di “salire”, metto istinti-
vamente l’aereo in un assetto inusuale a muso alto e subito dopo, per un
eccesso di correzione (ho sentito la voce del comandante Ponzo dal sedile di
destra), in un assetto inusuale a muso basso.
A questo punto provo forse per la prima volta nella mia vita la vera paura.
Nell’ultima quindicina di secondi ho bruciato ogni e qualsiasi margine di
sicurezza e sono entrato in una zona d’ombra dell’esistenza in cui il conside-
rarmi ancora vivo rappresenta un vero lusso. Ciò che ricordo di quel momen-
to, al di là dello sguardo terreo dei miei tre amici-passeggeri, è un fortissimo
senso di calma.
«Bene - mi dico - usiamo questo scampolo di vita per fare le cose al me-
glio.» Fresco di lezioni dell’ormai più volte citato comandante Ponzo e di
rimessa da assetti inusuali in IMC, riesco a riportare l’aereo in volo livellato, a

33
Avventure di volo

circa 8500 piedi, e sto sempre procedendo in nube. Trovandomi in una valle,
devo immediatamente assumere una rotta che sia parallela all’asse della valle,
per non rischiare di andare a cozzare. In pratica è una rotta inversa a quella che
tenevo, in aria chiara, per raggiungere il passo. Così faccio e a quel punto
metto i giri del motore al massimo e assumo un assetto che mi faccia salire il
più possibile, nella speranza di uscire dalle nubi al più presto.
Ciò non avviene ed è facile capire il perché: il rateo di salita è di soli 30-40
piedi al minuto. A questo ritmo l’uscita dallo strato appare come un miraggio.
Se la situazione non cambia velocemente si pone un altro problema dramma-
tico: la valle, per rientrare verso la pianura della Svizzera interna, non è rettili-
nea. Nel volo fuori dalle nubi è facile tenersi “a vista” alla giusta distanza
dalle montagne, ma volando in una valle in nube non si vede nulla e prima o
poi ci si va a schiantare da una parte o dall’altra contro un crinale.
L’unica speranza è di tenere l’aereo in modo estremamente scrupoloso negli
assetti che assicurano il massimo angolo di salita e di uscire dalle nubi il più
presto possibile. Tuttavia, nel frattempo, si deve fare il disperato tentativo di
navigare nella valle in nube. Come? C’è un solo modo, che è il più semplice e
antico metodo di navigazione: usando la bussola e l’orologio. La bussola
consente di tenere la direzione desiderata, mentre l’orologio permette di defi-
nire per quanti secondi si devono percorrere le varie tratte della rotta che si
intende seguire.
Misuro sulla carta, con il tempometro, il tempo di percorrenza in minuti
della prima tratta che mi porta verso la pianura e faccio scattare il cronometro.
Non è bello procedere alla cieca sapendo di andare verso una montagna e,
senza vedere nulla, decidere di virare per un’altra prua quando si stimi di
trovarsi nell’asse della nuova tratta. Per fortuna questo tipo di navigazione è
quella che si fa nelle gare di regolarità, ovvero al Giro aereo d’Italia che ho
fatto un paio di mesi prima, e quindi sono ben allenato a controllare i tempi di
percorrenza delle tratte con la precisione del secondo.
La probabilità di compiere un errore o di accumulare impercettibilmente
una somma di piccoli errori, in una situazione come quella descritta, è tuttavia
alta e, di conseguenza, alto - anzi altissimo - è il rischio che sto correndo, con
i miei passeggeri.
Passano i secondi previsti e viro per la nuova prua, con l’aereo che lentissi-
mamente guadagna quota, ma rimane sempre immerso nelle nubi. In occasio-
ne di un paio di rapide occhiate che getto fuori dall’aereo, verso il basso, in un
improvviso squarcetto delle nubi, ho visioni di picchi e frastagliature di roccia
chiazzati di neve, molto vicini. Ogni secondo che passa è un secondo in più di
esistenza strappata all’ingloriosa fine delle quattro persone a bordo, ma il
secondo successivo può essere quello fatale.
Viene il momento della seconda virata. La faccio e dopo qualche secondo
tutto ciò che sta davanti a noi passa in una frazione di secondo dal colore
bianco-latte all’azzurro intenso: siamo fuori.

34
Avventure di volo

La vita è salva. La nascita, dato lo stato di incoscienza nel quale l’evento è


vissuto, probabilmente è un’esperienza che non è né piacevole né spiacevole.
La rinascita, vissuta in uno stato di perfetta coscienza, è un’esperienza mera-
vigliosa, che peraltro non mi sento di augurare ad alcuno.
Subito mi assale un pensiero: attenzione alla sindrome postadrenalinica e
all’effetto psicologico dello scampato pericolo. Il rischio, ora, nella condizio-
ne di volo più facile ed elementare, è quello di sentirsi già a terra, già a casa,
già tra le braccia della persona amata. Mi trovo nella condizione ideale per
commettere un errore banale, ma decisivo. «Bene - mi dico - per oggi ne hai
fatte abbastanza. Fai finta di avere a fianco il tuo vecchio istruttore o l’esami-
natore: il resto di questo volo fallo “da manuale”, senza euforie, senza stupidi
autocompiacimenti, senza grilli per la testa, senza pensare a nulla. Concentra-
ti, secondo per secondo, solo sul fatto che devi riportare a terra la macchina e
il suo prezioso carico. Il resto non conta nulla.»
Così avviene. Uno dei miei passeggeri, appena sceso, bacia l’asfalto del
parcheggio di Zurigo Kloten. Poi andiamo tutti a mangiare.
Ciascuna delle quattro persone presenti a bordo racconta come ha vissuto
l’esperienza. Tutti avevano perfettamente percepito che una grave emergenza
era in atto. Il più intraprendente confessa che era psicologicamente preparato
a mettere a tacere immediatamente, anche in modo brutale, chiunque avesse
osato dire “bah”, per evitare al pilota la minima distrazione.
Il giudizio più sintetico sull’accaduto è il seguente: «Non ti dico quello che
penso di te per averci messo in quella situazione solo perché è controbilancia-
to da quello che penso di te per avercene tirato fuori».

1992: il terzo grave errore della mia vita di aviatore


Si prospetta una giornata di volo molto intensa, in un periodo in cui volo
moltissimo. La mattina devo portare in volo, con il Lake Renegade, una serie
di persone a partire da un piccolo aeroporto con pista in terra battuta. Nel
pomeriggio devo raggiungere il Lago Maggiore per una manifestazione aerea,
nel corso della quale si dovranno fare voli di propaganda.
Giunto sul piccolo aeroporto, sono distratto da una serie di stupidi litigi tra
le persone che devono volare, relativi a chi deve volare prima o dopo, a chi
deve volare con chi e così via. Infine, spazientito, cerco di dirimere la disputa
e faccio salire tre persone a bordo.
Volando quasi ogni giorno, in quel periodo, su quell’aereo, mi accontento di
fare qualche calcolo mentale sul carico presente a bordo e mi avvio pronta-
mente verso la posizione di attesa e decollo.
Nel momento del distacco mi rendo immediatamente conto dell’enormità di
ciò che sta succedendo. I calcoli che avevo fatto sommariamente in un mo-
mento in cui avevo tutto il tempo e l’agio di farli mi appaiono ora in tutta la
loro vera essenza e realtà. La persona che ho di fianco è una signora che
- orrore - pesa non meno di 100 chili; i due che stanno dietro non sono partico-

35
Avventure di volo

larmente grossi, ma sono quei tipi che, dall’impressione che ho avuto in quel
momento, definisco da allora come “di granito”. Ho il serbatoio centrale quasi
pieno e i due serbatoi laterali, che a memoria, prima di salire a bordo, pensavo
di avere riempito per metà, sono in realtà pieni.
In sintesi: sto cercando di decollare da una pista piuttosto corta in terra
battuta, leggermente in salita, fuori carico di più di cento chili, con una tempe-
ratura di circa 32 °C e con un’umidità del 90% circa. “Proprio complimenti -
mi dico -: vent’anni di volo per ottenere questo bel risultato!”
Il “momento della verità” è, come ho detto, quello del distacco. In effetto-
suolo l’aereo galleggia, ma appena tiro lievemente il volantino l’aereo “si
siede” e “sta lì”, ovvero vola a qualche decina di centimetri dalla pista senza
accennare a salire. Molti aerei si sono schiantati a Samaden dopo avere bru-
ciato la pista in effetto-suolo, a causa dell’aria rarefatta, e trovarmi in una
condizione molto simile, per un calcolo sbagliato, è sconsolante.
Proprio una brutta sensazione, considerando che non mi trovo su uno spec-
chio d’acqua di dimensioni illimitate, sul quale mi potrei riposare delicata-
mente in qualsiasi momento senza alcun problema, ma su una striscia di terra
che ormai è finita, oltre la quale vi sono fabbricati, elettrodotti, montagne e la
rete di cinta dell’aeroporto, che non sono per nulla certo di superare.
La scarica di adrenalina e l’aver rifatto in un secondo tutti i calcoli sopra
descritti mi inducono a controllare in pochi istanti i parametri di volo e a
impostare ogni minima manovra in modo da ottenere il miglior risultato.
Retraggo immediatamente il carrello, anche in assenza di una tendenza del-
l’aereo a salire, come suggerirebbero i manuali; anzi, proprio per quello. Ten-
go la pallina al centro “che più al centro non si può”. Volo in effetto-suolo il
più a lungo possibile e il più vicino possibile al suolo (con il Lake, che non ha
eliche che sporgono verso il basso, posso tenere l’aereo a una ventina di
centimetri di quota), cercando di guadagnare preziosa velocità, da trasformare
in un secondo tempo in quota. Così facendo, dopo aver fatto l’inevitabile
richiamata alla fine dell’aeroporto, ottengo dal variometro, che indica la velo-
cità verticale, la segnalazione che sto salendo tra i 50 e i 100 piedi al minuto.
Non molto per superare gli ostacoli che mi si stanno davanti.
Mi assale un pensiero, che deriva da una recente esperienza. Avevo poco
tempo addietro portato il nostro Cessna 185 in Norvegia, a una ditta di lavoro
aereo a cui l’avevamo venduto. Per seguire le relative pratiche burocratiche
ero rimasto a Oslo per circa una settimana. I tempi morti li passavo alla base
della piccola compagnia alla quale avevamo venduto l’aereo. Questa compa-
gnia era molto ben documentata e possedeva, tra l’altro, un dossier che racco-
glieva la descrizione di tutti gli incidenti con idrovolanti avvenuti nel mondo.
Avevo passato intere giornate a leggere tutti i rapporti. Uno di questi racconta-
va come fosse stato lungimirante un pilota che aveva deliberatamente deciso
di atterrare in un terreno sconnesso, ma con l’aereo perfettamente controllabi-
le, piuttosto che cercare di tenere l’aereo in volo, compiendo una virata che si

36
Avventure di volo

sarebbe probabilmente tramutata in uno stallo a bassissima quota. Gli inge-


gneri della commissione di inchiesta avevano poi calcolato che questa scelta,
in quel caso, era stata vincente: l’aereo, se tenuto in volo, avrebbe effettiva-
mente stallato e tutti i presenti a bordo avrebbero perso la vita nell’impatto
con il terreno. La scelta alternativa aveva invece salvato loro la vita.
Mentre penso a tutto ciò, sto volando con il mio carico umano a qualche
decina di piedi dal suolo e ho davanti una serie di ostacoli impressionante. Se
viro, brucio quell’effimero rateo di salita che ho e sono condannato a un
impatto con il suolo o con qualche ostacolo. Se non viro finisco contro ciò che
mi si para davanti.
Davanti a me si stende una zona totalmente urbanizzata, solcata dal greto di
un torrente, piloni, case. Valuto molto seriamente l’ipotesi di atterrare con
l’aereo a scafo nel greto del torrente (con il carrello rigorosamente retratto, in
quel caso) e studio in quale punto riuscirei a perdere energia cinetica impat-
tando prima le ali e dove l’atterraggio possa arrecare il minimo danno alle
persone a bordo.
Mentre sono quasi deciso a prendere questa drammatica decisione il vario-
metro dà qualche sussulto. Che fare? Il momento è grave. Infine, sapendo di
fare una scelta in parte irrazionale, decido di continuare il volo. Fortuna vuole
che l’aereo incominci a salire a un centinaio di piedi al minuto. Supero i primi
ostacoli e ho tempo per amministrare bene il superamento degli ostacoli suc-
cessivi, compiendo, nel frattempo, tra essi, impercettibili “esse”.
La cosa funziona, come si può desumere dal fatto che posso raccontare
l’avventura.

Conclusione
1970, 1981, 1992. Pare che il rischio, per metà della mia vita, abbia avuto,
come le macchie solari, un ciclo undecennale. Il ciclo si è felicemente inter-
rotto nel 2003 anno in cui non mi ricordo di essermi cacciato in situazioni di
rischio. Saggezza dovuta all’età? Fortuna? Chi lo sa. Verificheremo spero nel
2014, forse nel 2025 e, ingegneria genetica permettendo, eventualmente nel
2036, nel 2047...

37
Avventure di volo

Paradiso e inferno
Cronaca di una giornata densissima di avvenimenti.

L’idrovolante ha un fascino tutto particolare, ma in questo caso parleremo di


quanto ne siano suscettibili persone che normalmente non è facile affascinare,
per la loro professione: le autorità.
La situazione si può riassumere così: il comune di Luino, una bella cittadina
sul Lago Maggiore, ha organizzato una manifestazione aeronautica, alla quale
gli unici mezzi che possono partecipare nel senso più pieno della parola sono
- è quasi inutile dirlo - gli idrovolanti. La manifestazione prevede tuttavia una
parte solo aerea, che vede coinvolta la pattuglia delle Alpi Eagles, composta
da quattro SIAI 260 pilotati da ex “Frecce Tricolori”.
Il fatto è che le Alpi Eagles sono impegnate nel primo pomeriggio a Mulhouse,
in Francia, in una manifestazione aerea, e possono giungere nei cieli di Luino
solo a metà pomeriggio, per svolgere il loro programma acrobatico e prose-
guire infine per la loro destinazione finale. La cosa non crea problemi, salvo il
fatto che il programma di quella pattuglia acrobatica deve essere commentato
da Renato Rocchi, speaker ufficiale della pattuglia, che è un grande esperto
del mestiere, avendo presentato moltissime manifestazioni, tra cui quelle di
Vergiate fin dagli anni Sessanta.
I tempi di tutta la logistica sono problematici e l’unica soluzione per rendere
possibile l’esibizione su Luino è che l’aereo delle Alpi Eagles che ha a bordo
il Rocchi atterri a Lugano, ove attende un anfibio dell’Aero Club Como che
porterà subito il prezioso peronaggio a Luino, in modo che possa fare la sua
“speakerata”. Il 260 riprenderà poi subito il volo in modo da ricongiungersi
con il resto della squadriglia.
Nell’attività aviatoria ci sono mille problemi veri: il tempo meteorologico,
l’efficienza tecnica dei velivoli, il carburante, il carico, le effemeridi e così
via. Ma questi sono valutabili e affrontabili con le sole forze del pilota e
dell’organizzazione che gli sta attorno. Purtroppo l’aviazione deve fare conto
con un altro ordine di problemi, di fronte ai quali il pilota, da solo, è impotente
come un bimbo appena nato: la burocrazia.
Nel caso che stiamo esaminando la burocrazia gioca un ruolo importante
per un fatto molto semplice: Luino si trova in Italia e Lugano in Svizzera. Un

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Avventure di volo

volo da Lugano a Luino, della durata di meno di 10 minuti, richiede dunque


che nei punti di partenza e arrivo sia presente la polizia di frontiera, il funzio-
nario di dogana e la guardia di finanza. Tutto ciò lo si trova ovviamente a
Lugano, che è un aeroporto internazionale, ma certamente non è presente in
una spiaggetta di sabbia di un paese sul Lago Maggiore, ovvero a Luino.
Dopo aver sottoposto il caso alla direzione di circoscrizione aeroportuale
della Malpensa, nella persona del dott. Salvatore Pignatelli, a poco a poco si è
fatta strada una soluzione tipicamente “all’italiana”, ma che dimostra come
qualsiasi problema di carattere burocratico sia in realtà superabile se c’è la
buona volontà di persone dedite al proprio lavoro, responsabili e animate da
un profondo senso del servizio.
La soluzione è un capolavoro di estro amministrativo. Luino è sede di una
stazione ferroviaria internazionale, con tutte le conseguenti strutture doganali
e di polizia. Dunque la circoscrizione aeroportuale chiede alla polizia ferro-
viaria e ai funzionari doganali presenti in stazione di eseguire, per conto del-
l’autorità aeronautica, un’operazione sulla spiaggia di Luino relativa a un
idrovolante proveniente dall’estero. Avuto la disponibilità a compierla, auto-
rizza il volo internazionale del tutto anomalo Lugano-Luino.
La cosa è una dimostrazione di quanto poco costi operare per il bene della
comunità. Con un piccolo atto è stato possibile fare felici le persone qui di
seguito elencate: i Luinesi e tutti i convenuti alla manifestazione, che hanno
potuto godere, per la prima volta in quei cieli, di una magnifica esibizione di
una pattuglia acrobatica; gli amministratori della cittadina, che hanno visto
ripagati mesi di lavoro e consistenti investimenti in tempo e denaro per creare
un evento di tipo nuovo e di grande attrattiva; la stessa pattuglia delle Alpi
Eagles, che ha potuto svolgere una volta di più il proprio lavoro; lo scrivente,
pilota dell’aereo destinato a compiere le curiose tratte Lugano-Luino e ritor-
no; tutto il personale della dogana e della polizia di frontiera della stazione di
Luino, elettrizzato dal dover compiere un’operazione strana, coinvolgente idro-
volanti, mezzi mai visti prima.
Se la persona responsabile della decisione - nel nostro caso il direttore della
circoscrizione aeroportuale dottor Pignatelli - fosse stata di mentalità solo
leggermente differente, questa notevole somma di felicità, condivisa da circa
20.000 persone, sarebbe stata annullata da un classico «No», «Ma che voglio-
no questi», «Unsepofà» o altra tipica espressione volta ad affossare la sana e
spontanea iniziativa di persone intraprendenti e dedite al bene della comunità.
Abbiamo vissuto, in quel caso, una tipica situazione paradisiaca per il pilo-
ta. La giornata doveva tuttavia riservarci una sorpresa tale da tramutare il
paradiso in un inferno. Decollati da Luino con un anfibio Lake Renegade e
atterrati dopo pochi minuti a Lugano, abbiamo parcheggiato nei pressi degli
aerei dell’intera pattuglia delle Alpi Eagles. Scesi dall’aereo, ci sono venuti
incontro piloti e speaker con facce talmente terree da incutere un forte disagio
già da decine di metri di distanza.

39
Avventure di volo

A un nostro timido cenno di saluto ci siamo sentiti rispondere con voce


bassa e compita: «Siamo venuti via da Mulhouse; non abbiamo nemmeno
fatto lo show; la manifestazione è stata sospesa; abbiamo visto con i nostri
occhi un Airbus schiantarsi durante la manifestazione con 300 persone a bor-
do, tutti turisti, famiglie, bambini che pagavano 100 franchi per un volo di 10
minuti. Non sappiamo nemmeno se sono vivi o morti».
Sono quelle situazioni in cui senti un formicolio sulla schiena e ti senti
rizzare i peli sulle braccia, in cui non riesci a pronunciare parola. Davvero
incredibile, una cosa troppo grande per essere accettata. Eppure... è successo
veramente.
Dopo lo sbigottimento, una domanda: che facciamo? Ve la sentite di fare la
manifestazione a Luino? Un breve consulto e la risposta: «Certamente.» La
prima idea, alla quale ci hanno abituato i film tragici nei quali il trapezista
cade e muore, è che the show must go on, ma non si tratta solo di questo. La
vera professionalità richiede alle persone prestazioni eccezionali, che un pilo-
ta, preparato ad affrontare qualsiasi emergenza, deve poter garantire. E così
avviene in quel caso, quando una magnifica esibizione delle Alpi Eagles nei
cieli di Luino, degnamente commentata dall’immancabile Rocchi, allieta mi-
gliaia di persone.
Tornati a casa, si sa dai telegiornali che dall’Airbus che si è schiantato a
Mulhouse sono usciti tutti vivi, sebbene in qualche caso un po’ malconci.
L’Airbus è un aereo comandato completamente in modo elettronico (fly by
wire, “vola con i fili”), ovvero che si pilota con un joystick grazie alla presen-
za a bordo di un centinaio di computer e di un gran numero di fili che portano
i comandi alle varie superfici di controllo, ai motori, agli impianti presenti
sull’aereo, un sistema che negli anni seguenti avrebbe posto qualche problema
di controllabilità, infine risolti dall’Aérospatiale, l’azienda costruttrice.
Che cosa prova un pilota quando è a conoscenza di un incidente avvenuto a
un altro pilota? Le sensazioni sono complesse e profonde. Innanzitutto c’è un
immediato apprezzamento di trovarsi a stretto contatto con la Madre Terra e
una voglia di ritirarsi in una situazione molto familiare, in cui si possano
assaporare le certezze più profonde e semplici della vita: l’amore per la pro-
pria donna e il suo caldo abbraccio, la cura dei figli, la frequentazione di
luoghi che risvegliano istinti ancestrali di appartenenza. Insomma: si ricerca
la sicurezza e l’attaccamento alla vita in ogni suo minimo aspetto.
Superato questo momento in cui gli istinti primordiali prorompono, che
deve aver provato in passato ogni cacciatore preistorico che ha visto il proprio
compagno divorato da una belva, ogni soldato che ha visto morire in battaglia
il proprio commilitone, subentra un atteggiamento più razionale: vediamo un
po’ che diavolo può essere successo.
Ogni pilota sa che risalire alla dinamica dettagliata di ciò che ha causato un
incidente aereo è un’impresa difficile, che impegna schiere di persone per
mesi o anni. Ma nessun pilota sa resistere alla tentazione di fare subito una

40
Avventure di volo

propria ricostruzione dell’incidente, in base alla propria esperienza e nella


convinzione di saper dare, da pilota, una ricostruzione “più vera” di quella che
daranno infine le commissioni di inchiesta, forse talvolta fuorviate (sensazio-
ne avvalorata dal fatto che, per un singolo incidente, ne vengono nominate
varie, contemporaneamente o a distanza di tempo).
È inutile dire che questo atteggiamento costituisce un piccolo delirio di
onnipotenza, a cui il pilota si abbandona tuttavia per una sana necessità psico-
logica: darsi una ragione dell’incidente accaduto e farne tesoro, per evitare di
incorrervi. L’istinto che sta dietro a questi atteggiamenti è l’autodifesa: «Io
volo domani e domani - o meglio oggi - devo conoscere le ragioni di ciò che è
avvenuto. Se attendo i risultati della commissione, che arriveranno tra un
anno, forse annacquati, potrebbe essere troppo tardi.»
Il pilota che si sa analizzare conosce questa reazione e vi resiste, attribuendo
un valore relativo e provvisorio alla propria analisi dell’incidente, che comun-
que farà, e attendendo i risultati dell’inchiesta per trarre le conclusioni defini-
tive. Non sempre i risultati delle inchieste rappresentano il verbo, ma comun-
que il pilota razionale e consapevole non si azzarda a dare un giudizio defini-
tivo prima di esserne a conoscenza.
Tornando al luogo in cui si è svolta la manifestazione, non si può non ricor-
dare che essa sarà seguita da altre e che, dopo un’interruzione di un decennio
circa, il comune di Luino e l’Aero Club Como hanno rinverdito la tradizione
nel settembre 2002, organizzandone una riuscitissima nuova edizione.
Il successo è stato notevole, anche grazie alla bravura del giornalista di
“Volare” Andrea Artoni, speaker ufficiale. Artoni si è dimostrato capace di
entusiasmare le folle non solo per la sua sterminata cultura in ogni settore
dello scibile umano, ma anche per la passione e l’amore per l’aviazione che sa
trasmettere.

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Avventure di volo

La strizza
Quel brivido che corre lungo la schiena all’improvviso...

In questo libretto di memorie sono presentati molti casi di situazioni di volo


drammatiche per la loro pericolosità. In quei casi il pilota che si trova ai
comandi - lo scrivente, in questo libro - è messo a durissima prova dallo stress
delle decisioni che deve prendere in pochi istanti, dalle necessità di un con-
trollo accurato dell’aereo, dal dover affrontare imprevisti o situazioni che
stanno oltre il limite delle sue capacità.
Ma in tutti i casi descritti e anche in altri che mi vengono alla mente c’è una
certa progressione nell’emergenza, quindi anche una progressione nelle rea-
zioni e negli stati psicofisici del pilota. Quel che arriva, anche se è il peggio,
tutto sommato ce lo siamo costruito, ce lo siamo andati a cercare, e quindi
possiamo aspettarcelo e quasi sempre abbiamo o possiamo trovare qualche
strategia per venirne fuori o almeno il tempo per pensarci.
Difficilmente, in aereo, si presenta la situazione da film dell’orrore, ovvero
quella in cui in una frazione di secondo ci si trova davanti a una realtà sconvol-
gente e del tutto inaspettata (la persona con cui stiamo discorrendo, che ci
volge le spalle, improvvisamente si volta verso di noi con un coltello piantato
a fondo nella fronte, tanto per fare un esempio alla Dario Argento). Ma qual-
che rara volta anche in aereo può capitare il brivido improvviso, la vera “striz-
za”... come in un bel pomeriggio sull’ “altro” ramo del Lago di Como.
In quel periodo costituiamo una piccola compagnia di quattro o cinque soci
del Club, tutti o piantati dalla donna o fatti a pezzi da una relazione coniugale
finita male o con l’attività andata a rotoli o con tutte queste cose messe insie-
me e conduciamo una vita da veri “vitelloni”, ma che ruota tutta intorno al
Club e agli idrovolanti. L’altro nostro interesse sono le ragazze e bisogna dire
che in quel campo il bilancio è neutro: tante ne portiamo al Club e ce ne
portano via, tante ne prendiamo agli altri, tra un volo e l’altro.
In generale, ci piace l’avventura. Per dirne solo una, la mattina prestissimo
di un Capodanno tiriamo fuori il Lake Buccaneer ancora al buio, dopo una
notte “brava”, sotto una pioggia torrenziale frammista a nevischio, con un
ceiling di 300-400 piedi, il lago mosso e il vento a raffiche, e ci togliamo il
gusto del primo volo dell’anno in condizioni in cui qualsiasi persona normale,

42
Avventure di volo

qualsiasi pilota sano di mente desidererebbe solo trovarsi sotto le coperte di


un comodo letto. Ma alle nostre menti bacate in quel momento va bene così.
In questa stessa epoca nasce all’interno del Club il gruppo di volo informale
che si è autonominato “Non vedo ma vado”.
Ecco, in un bel pomeriggio invernale, il manipoletto di “vitelloni idro”, noi,
che andiamo a fare un giro con il Lake in Svizzera, poi sulle Prealpi, bighello-
nando senza meta per laghi e aeroporti, decidendo in ogni momento dove
dirigere la prua. Forse torneremo a Como, ma se in qualche posto “butta bene”
ci fermiamo a dormire lì. Di tanto in tanto ci cambiamo di posto. Dopo una
giornata di svaccato divertimento, di discorsi seri frammisti a battute scontate
e di veloci gozzoviglie finisce che ritorniamo a Como poco prima del tramon-
to del Sole, pronti per andare poi a mangiare e sbevazzare da qualche parte.
Io, in quel momento, mi trovo dietro, in uno dei posti dei passeggeri. Ai
comandi c’è un pilota molto allenato e capace, anche se ha sempre mostrato e
mostrerà in seguito una certa tendenza alla temerarietà. Ha una padronanza
assoluta della macchina, il Lake, e conosce l’ambiente come le sue tasche.
Può pilotare in condizioni difficilissime senza porre termine a una discussione
del tutto inessenziale o al racconto di una barzelletta.
Insomma quasi nulla può turbare il suo e nostro ammaraggio all’Idroscalo
di Como, la nostra culla, la nostra tana; nemmeno quel che ci si para del tutto
inaspettatamente davanti agli occhi: uno strato, anzi un letto, o meglio un
materasso spesso 30-40 metri di nubi compattissime e definite che ricopre la
superficie del primo bacino. Sopra, una bellissima giornata invernale, con
visibilità illimitata e un cielo rosso all’orizzonte occidentale, che ci lascia
ancora negli occhi l’entusiasmante visione del massiccio del Rosa e lo sfilare
delle guglie del Resegone a qualche metro dalle ali. Sotto, uno strato di nubi
proprio alla quota dell’ammaraggio, la più critica del volo. Una condizione
del tutto inusuale, che si presenta sul Lago di Como, per un’ora o due, forse
ogni 5 o 10 anni. Nei venti e rotti anni successivi non la vedrò mai più.
La situazione non è certo di emergenza. Possiamo ammarare in centinaia di
posti a nord di Como, ove lo strato di nubi non c’è; possiamo ammarare in uno
dei laghetti della Brianza; possiamo dirottare su qualsiasi aeroporto vicino;
possiamo sorvolare la zona per un po’ in attesa che la situazione cambi.
Il capace pilota pensa a voce alta: «Va bene, c’è uno strato basso che na-
sconde la superficie; ma forse quando facciamo un normalissimo ammaraggio
a specchio stiamo a vedere che visibilità c’è là fuori? Stiamo attaccati ai nostri
strumenti e quando si tocca si tocca.»
In realtà, nello spirito cameratesco che regna tra noi, l’aereo non si può
proprio dire che venga pilotato da uno di quelli che stanno là davanti. L’aereo
è in effetti condotto da tutte e quattro le persone che sono a bordo, o perché
toccano i comandi o perché intervengono nelle decisioni e dicono la loro.
È questa una condizione ad alto rischio, quella in cui non c’è un preciso
comandante a bordo, ma a noi va bene così e comunque tutti gli occupanti

43
Avventure di volo

hanno esperienza e sono buoni piloti. Insomma, se quella concentrazione di


cervelli idrovolantistici dovesse fare una scemata, ciascuno meriterebbe pie-
namente di pagarne le conseguenze.
Ecco che il pilota decide di impostare un ammaraggio a specchio, che termi-
nerà in nube e poco dopo con il contatto con la superficie. La condizione è
tanto inusuale che tutti siamo eccitati. Mai fatto prima una cosa del genere.
Ciò per riconfermare che la responsabilità di ciò che stavamo facendo è asso-
lutamente condivisa da tutti e quattro i presenti a bordo.
L’avvicinamento è impeccabile. Da dietro, un posto in cui tutto è facile e si
può giudicare l’operato di un pilota nel modo meno coinvolto e quindi più
raffinato, dico tra me e me: «Vediamo se quando entra in nube cede alla
tentazione di tirare un po’ il volantino». Non lo fa, tenendo perfettamente i
parametri per il contatto. «Bravo.»
Appena dopo l’ingresso in nube il mio cervello incomincia a lavorare. E se
ci fosse un ostacolo sulla superficie? Il lago è monitorato continuamente da
noi e in quel momento la possibilità di un oggetto flottante è infinitesima.
All’improvviso ho una visione. A quell’ora, quasi all’imbrunire, c’è in real-
tà un ostacolo che regolarmente occupa un pezzetto della nostra superficie. Il
brivido che mi corre sulla schiena, l’emozione della “strizza” che sto provan-
do mi permette solo di sussurrare, con voce rotta, due parole: «il battello».
Al sentire la parola, vedo che tutti gli altri si irrigidiscono lievemente e
provano le stesse sensazioni che provo io. A tutti salta immediatamente agli
occhi l’immagine del battello che attraversa la nostra area per andare al depo-
sito di Tavernola. A quel tempo, i primi anni Ottanta, non ci sono boe e i
battelli della navigazione non hanno restrizioni ad attraversare l’area che è
proibita, con una semplice ordinanza, agli altri natanti.
C’è anche il rischio che anche altri natanti siano presenti nell’area, ma
l’eventualità è remota, soprattutto in quelle strane condizioni. Certa, invece, è
la presenza del battello circa in quel momento della giornata in quei paraggi.
Ormai stiamo toccando. Il pilota, se anche è preso dal dubbio se dare tutta
potenza e riattaccare, ormai correrebbe un serio rischio a compiere quella
manovra. Infatti potrebbe impattare il battello dopo un centinaio di metri,
appena dopo il distacco, con il motore a piena potenza. Una prospettiva terrifi-
cante. A quel punto, con il redan che tocca l’acqua, è preferibile cercare di
rallentare il più presto possibile ed eventualmente impattare il battello con
l’aereo sull’acqua, a velocità ridotta e con l’elica che gira al minimo. Dopo il
contatto, una voce inidentificata sussurra «chiudi la valvola del carburante».
In realtà la probabilità di impatto sono piccole, ma ogni situazione in cui il
pilota non ha il controllo completo della situazione o in cui si accorge di non
avere valutato correttamente un elemento di rischio è da considerare critica.
Tutto è bene quel che finisce bene, ma un pensiero si fa strada nella mia
mente: forse che tra le dotazioni di un idrovolante si debba includere un corno
da nebbia azionabile in volo?

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Avventure di volo

Grand Princess
Missione speciale in un luogo sacro della storia dell’aviazione idro.

Un giorno mi telefona Giorgio Aletti. Devoto socio dell’Aero Club Como,


presiede il Collegio dei revisori dei conti della società a cui Finmeccanica sta
consegnando una nave, la Grand Princess. Mi invita ad accompagnarlo come
copilota a Monfalcone, dove va con il Lake all’inaugurazione della nave per
crociere più bella mai prodotta nella storia umana. In realtà la funzione di
Giorgio non è solo di rappresentanza nella vicenda della Grand Princess;
deve firmare nell’occasione alcuni documenti per la presa in consegna della
nave, ma torneremo su questo punto più avanti.
Non è certo la prima volta che Giorgio e io voliamo insieme. Appena dopo
aver conseguito il brevetto, Giorgio aveva deciso di festeggiare il traguardo
raggiunto con un bel viaggetto e aveva chiesto a me di accompagnarlo. A quei
tempi tenevo i corsi di navigazione alla nostra scuola di volo, da cui Giorgio
era appena uscito. Il viaggio, fatto con il Lake Renegade I-AQUA in tre giorni,
ci aveva portato da Como a Parigi, poi a Baden Baden e infine di nuovo a
Como, lungo una bella rotta che ci ha fatto sorvolare, nell’ultima tratta, il
Walensee, il passo dello Julier e l’Engadina.
Il controllore di torre che incontriamo a Baden Baden mi riconoscerà dopo
un paio d’anni a Saint Tropez. La cosa non è difficile che accada, quando si
pilota un aereo raro come il Lake. È invece curiosa la vita di questo signore,
che controlla per alcuni mesi all’anno la torre della celebre località di lusso
tedesca e per gli altri quella dell’altrettanto celebre località di lusso francese.
Giorgio, negli anni successivi, alternerà il pilotaggio dell’idrovolante a quello
di aerei con le ruote, come il Piper Malibu, che ha usato per girare l’Europa
per affari, accumulando più di 1000 ore in IFR.
Ma ritorniamo ora al momento della partenza per Monfalcone. Nulla da dire
sul facile volo nel bel tempo. A bordo c’è anche la mia consorte Roos, invo-
gliata dalla bella giornata a fare un’escursione aerea. È sempre emozionante
attraversare la laguna veneta e avere la visione di Venezia dall’alto.
A Monfalcone ho la prima sorpresa. I cantieri ove la nave è costruita e si
trova alla banchina sono gli ex Cantieri Navali Triestini, poi Cantieri Riuniti
dell’Adriatico, la fabbrica dei celebri idrovolanti “Cant”. Gli aerei erano ori-

45
Avventure di volo

ginalmente chiamati CNT, ma la pronuncia del nome, giudicata poco amiche-


vole, ha indotto ad aggiungere una “a”.
Le officine aeronautiche si sono affiancate, nei primi anni Venti, ai cantieri
navali, presenti da secoli. I primi sviluppi dell’attività si devono alle commes-
se della SISA (Società Italiana Servizi Aerei), della famiglia triestina Cosuli-
ch, armatori da molte generazioni. I Cosulich svolgevano già, con idrovolanti
Macchi e FBA, prodotti dalla SIAI, voli panoramici per i clienti degli alberghi
di lusso da loro posseduti e attività di formazione di piloti.
La prima linea inaugurata dalla SISA, l’1 aprile 1926, collega Portorose con
Trieste, Venezia, Pavia e Torino (in anni successivi anche Genova). Gli aerei
impiegati sono i Cant 10ter, che si dimostreranno alla fine del primo anno
affidabilissimi, facendo registrare una regolarità di servizio del 97%. Ai Cant
10 si affiancano dal 1928 i più capienti Cant 22.
Le macchine più note uscite dai cantieri di Monfalcone sono i Cant Z 501 e
Cant Z 506, ove la lettera “Z” sta a indicare che il progettista è l’ingegnere
anconetano Filippo Zappata. Il primo è un idrovolante a scafo, il secondo con
galleggianti. Il Cant Z 501 è protagonista del conseguimento di importanti
primati, tra cui quelli di distanza dell’ottobre 1934 (4133 km, da Panzano a
Massaua) e del luglio 1935 (4966 km, fino a Berbera, nella Somalia Britanni-
ca). Pilota in queste imprese e collaudatore dei Cant è il mitico Mario Stoppa-
ni, nato a Lovere, sul Lago d’Iseo. Il trimotore Cant Z 506, nato come aereo
per trasporto civile e poi in versione militare, è una delle migliori realizzazio-
ni a livello mondiale nella sua categoria.
Il più curioso aereo prodotto dai Cantieri è il Cant Z 511A, quadrimotore, il
più grande idrovolante con galleggianti mai costruito nella storia. La lettera
“A” sta per “Atlantico” e indica che l’aereo è inteso per trasporti transoceani-
ci. Stoppani, che lo collauda nell’ottobre 1940, dichiara che l’aereo è «estre-
mamente facile da pilotare». Non avendo un particolare impiego bellico e non
potendo svolgere il suo lavoro in campo civile, esso è designato per una mis-
sione dimostrativa, di evidente sapore dannunziano: raggiungere New York,
lanciare un carico di volantini e tornare in Italia. Sebbene sia l’unico aereo
italiano capace di svolgere una simile impresa, la missione viene annullata.
Uno dei due esemplari prodotti viene smantellato in fabbrica, dopo l’8 set-
tembre, dai tedeschi, voraci di metalli preziosi. L’altro ha una storia così triste
che vale la pena di prolungare questa digressione e raccontarla. L’8 settembre
il gigante degli idrovolanti scarponati si trova a Vigna di Valle. Il personale
rimasto nella base preferisce affondare l’aereo che farlo finire nelle mani dei
tedeschi, ma compie l’operazione con una serie di precauzioni, in modo che
l’aereo possa essere ricuperato in un secondo tempo. Spostiamoci ora in avan-
ti nel tempo, all’estate del 1944, quando le truppe alleate avanzano all’inse-
guimento della Divisione Corazzata “Hermann Goering”. Per evitare i blocchi
stradali dei tedeschi, gli americani decidono di traghettare alcuni reparti co-
razzati attraverso il Lago di Bracciano. Il gommone che trasporta uno dei carri

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Avventure di volo

armati Sherman passa esattamente sopra il Cant Z 511, la cui elica quasi
affiorante - proprio una bella sfortuna! - taglia la gomma dell’imbarcazione,
con il risultato che il mezzo, che pesa 30 tonnellate, affonda e precipita pro-
prio sulla fusoliera dell’aereo, distruggendolo.
Le officine aeronautiche di Monfalcone, da cui sono usciti centinaia di aerei
“Cant” e altrettanti fabbricati su licenza, sono infine rase al suolo in un bom-
bardamento degli alleati, il 20 aprile 1944. Nel dopoguerra la produzione dei
Cantieri riprenderà, ma mai più di aerei.
Tornando al nostro viaggio, che appare come il volo di un moscerino rispet-
to alle vicende di cui sono stati teatro questi luoghi, ammariamo dunque nella
bella e profonda insenatura di Monfalcone, che offre al pilota di idrovolante
una perfetta superficie riparata dal moto ondoso del mare aperto.
Qui ho la seconda sorpresa: uno sciame di piccole imbarcazioni si dirige
all’unisono verso di noi. Vedo motovedette di molti enti ufficiali, tra cui Cara-
binieri, Guardia di Finanza, Capitaneria, Polizia e altre barche i cui equipaggi
ci scrutano con attenzione. A un certo punto compare sulla vedetta della Capi-
taneria un ufficiale che con un megafono scandisce le parole: «C’è il dottor
Aletti a bordo dell’idrovolante?» Fatti i segni affermativi la scena si ricompo-
ne all’istante come avviene quando si scoperchia un alveare. Tutti si agitano e
danno ordini frenetici a tutti gli altri, le barche si aprono a ventaglio e formano
una scorta al nostro piccolo idrovolante. La vedetta della Capitaneria ci prece-
de adattando la sua velocità alla nostra e ci fa dirigere verso le banchine.
Stiamo flottando lentamente lungo il fianco sinistro della nave, che vediamo
ricolma di gente in ogni ponte.
A un certo punto vedo, sulla sinistra un largo scivolo in evidente stato di
abbandono, ingombro di oggetti di vario tipo. A segni faccio capire che quello
è il nostro punto di approdo desiderato. In assenza di quello scivolo dovrem-
mo lasciare l’aereo al largo e organizzare un trasbordo. Le banchine di un
grande porto o cantiere navale, vere muraglie verticali, peggio di quella cinese
per i Mongoli, non sono infatti adatte all’approdo di piccoli idrovolanti.
L’ufficiale capisce al volo i miei segni e dà qualche ordine via radio. Dopo
circa un minuto compare sulla riva un manipolo di persone in divise di vario
tipo che si danno da fare per asportare velocemente tutti i materiali presenti
sullo scivolo. Faccio segno che in realtà basta avere libera una striscia di
qualche metro.
Giunto ormai allo scivolo, sono assistito da finanzieri che entrano in acqua
vestiti fino alla cintola, pensando di poter aiutare l’approdo guidando le ali
negli ultimi metri. Questo generoso intervento risulta prezioso, in quanto an-
che la parte sommersa dello scivolo è ingombra di oggetti. In un paio di
minuti dunque completiamo l’approdo grazie a un’assistenza che mai si po-
trebbe immaginare di avere operando con un idrovolante.
Intanto - e questa è la terza sorpresa - mi rendo conto che lo scivolo è
proprio quello dei gloriosi Cantieri Navali Triestini, poi Cantieri Riuniti del-

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Avventure di volo

l’Adriatico. Su questo cemento ormai sbrecciato e malconcio Mario Stoppani


deve essere entrato e uscito dall’acqua un’infinità di volte. L’emozione si fa
più forte quando penso che tra le migliaia di persone presenti forse sono
l’unica che conosce il passato di questo luogo e l’epopea di volo idro di cui è
stato sede.
Aletti scende dal Lake con quel minimo di maestosità che viene naturale
quando si sa che mille o duemila persone ti stanno guardando. Roos e io lo
seguiamo come cagnolini, anche perché dove passa tutte le porte si aprono,
comprese quelle dell’efficientissimo servizio di sorveglianza che controlla
l’accesso alla nave. Vedendo la folla che si assiepa e preme intorno alle guar-
diole capiamo che l’ingresso è strettissimamente riservato.
Alcuni direttori di Finmeccanica ci accompagnano (in realtà accompagnano
Giorgio) a visitare la nave. Siamo sconcertati dal lusso, dalla raffinatezza
delle finiture, dalla vastità delle sale, dal numero di infrastrutture di servizio
presenti, dai cinque ristoranti di lusso, ciascuno arredato in un suo stile parti-
colare. Un enorme spoiler largo come la nave, che si trova a poppa, in posizio-
ne rialzata, ospita una vasta discoteca sospesa sul mare. Le cabine-apparta-
mento di prima classe hanno una Jacuzzi in una bolla di vetro e acciaio protru-
sa fuori dal profilo della nave, così che chi sta facendo il bagno-idromassaggio
è completamente immerso nell’ambiente marino e aereo in cui la nave si sta
muovendo, ma senza che alcuno lo possa vedere.
Mi immagino già, in un futuro più o meno lontano, di incontrare questa nave
in navigazione; mi vedo in leggera picchiata, poi a ridurre la velocità e passare
a fianco e appena sopra a queste Jacuzzi, per vedere se una di quelle pozzette
d’acqua offra la visione di una magnifica Venere al bagno. E mi immagino la
Venere che sussurra «for your eyes only», pensando all’avventuroso pilota che
l’ha colta in quell’attimo di inaspettata ed eccitante esposizione.
Nel corso della visita ci presentano molte persone, evidentemente importan-
ti, tra cui l’architetto degli interni della nave, Renzo Piano. Qua e là sento
bisbigliare «Sai, è il dottor Aletti; sì, è arrivato con l’idrovolante».
Sulla nave c’è il gotha della politica e della finanza italiana e internazionale,
grandi industriali, molti ministri, VIP in ogni settore. Alcuni sono arrivati a
Ronchi con un jet privato e altri sono arrivati in elicottero, ma solo uno è
arrivato in idrovolante proprio a fianco della nave e tutti hanno potuto seguire
le fasi dell’ammaraggio e dell’approdo. Bisogna dire che il nostro piccolo
Lake ha fatto la sua bella figura.
Al ritorno ci scambiamo un po’ di impressioni sulla nave e sull’evento, con
ancora negli occhi la magnificenza di una delle cose più raffinate che la mo-
derna tecnologia e il design abbiano prodotto.
A un certo punto Giorgio, pensoso, mi dice una frase che spiega anche le
premure, all’arrivo, per la sua sicurezza: «Beh, certo che non capita tutti i
giorni di firmare un assegno a saldo di 750 miliardi».

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Avventure di volo

Ischia
Un’idea, una speranza, una bella avventura stroncate brutalmente
dal modo italiano di gestire l’aviazione.

Ischia, per qualche tempo, verso la fine degli anni Ottanta, diventa una dépen-
dance dell’Aero Club Como. Di ciò si devono ringraziare i fratelli Michelan-
gelo e Rocco Regine, proprietari di alberghi e fondatori dell’Aergolfo. Inten-
zionati ad avviare un’attività di trasporto pubblico di passeggeri tra l’aeropor-
to di Napoli Capodichino e l’isola di Ischia e di voli turistici nel golfo di
Napoli, i fratelli Regine ci hanno contattato per scegliere gli aerei e seguirli
nel complesso iter di avviamento di un’attività di TPP con idrovolanti.
L’impresa - è inutile dirlo - è disperata, dovendo svolgersi nel paese più
burocratizzato del mondo, almeno ai tempi in cui la vicenda si svolge. Infatti
naufragherà di lì a qualche anno e dopo molte centinaia di milioni di lire
spese. Ma andiamo per ordine.
Il primo anno che siamo andati a Ischia dobbiamo farlo in un momento in
cui non disponiamo di aerei anfibi, una condizione in cui il Club di tanto in
tanto si trova. Ma non tutto il male vien per nuocere, perché possiamo dimo-
strare che con gli idrovolanti si possono compiere senza problemi viaggi lun-
ghi. Eccoci dunque in partenza per Ischia con il Piper PA 18 idro.
Per raggiungere la lontana meta da Como è necessario fare almeno una
sosta intermedia. Potendo scegliere, quale migliore scalo può esserci che Or-
betello? La laguna è infatti un bacino protetto ed è uno dei siti più importanti
della storia idrovolantistica italiana. Ciò basterebbe a giustificare la scelta.
Inoltre Orbetello si trova circa a metà strada tra Como e Ischia. La prima tratta
è dunque Como-Orbetello. Grazie alla nostra iniziativa, le acque di Orbetello
hanno potuto accogliere, per la prima volta dopo cinquant’anni e dopo le
squadriglie di Balbo, un idrovolante.
Della cosa non si accorge nessuno, ad esclusione del benzinaio che si trova
presso il punto di approdo, che ci fornisce un’ottantina di litri di super, tra una
Fiat 127 e una Citroen GS. Il bello del Piper è che “va” con qualsiasi benzina,
a differenza di quasi tutti gli altri aerei (basta pulire bene le candele dopo).
A Ischia si deve scendere in mare. È vero che, come ci hanno insegnato i
piloti militari degli anni Trenta e Quaranta, c’è sempre uno specchio di mare

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Avventure di volo

intorno a un’isola in cui è possibile l’ammaraggio, ma siamo più tranquilli se,


al termine di un lungo viaggio, abbiamo un vero alternato. A nord del golfo di
Napoli c’è un bel lago costiero, il Lago di Fusaro, che fa al caso nostro. Anche
con il mare a forza 5 e un bel vento teso, un lago costiero di pochi chilometri
quadrati non presenta onde più alte di 30 o 40 cm, perfettamente alla portata
del nostro piccolo idrovolante.
Sul lago opera uno storico circolo nautico, cosa che ci dà il conforto di poter
trovare aiuto in caso di emergenza. Siamo infatti certo che il personale e la
gente di quel circolo, anche non preavvisati, saprebbe offrirci tutta l’assisten-
za necessaria, con la proverbiale generosità e solidarietà che contraddistingue
la gente di mare e il popolo napoletano.
Non avremo bisogno dell’alternato, anche perché abbiamo potuto veramen-
te verificare quanto sia vero che intorno a un’isola c’è un’enorme differenza
tra le condizioni della parte esposta e quelle della parte ridossata. In particola-
re sul lato ovest, più esposto al mare aperto, nella zona di Forio, capita che ci
sia un bel mare, assolutamente inagibile anche per un Caravan o un Mallard,
mentre a Casamicciola, nello stesso momento, il mare sia solo lievemente
increspato e perfettamente ammarabile con il nostro “Piperino”.
Dell’arrivo a Ischia ricordo un’esperienza sconcertante. Non abbiamo infor-
mato nessuno dell’ora esatta del nostro arrivo e nessuno ci attende in quel
momento. Arriviamo dunque inaspettati e inosservati nel cielo di Casamiccio-
la e, durante l’ispezione dall’alto, diventiamo bersaglio di una vera azione di
contraerea. Bombe esplodono ovunque nel cielo intorno a noi e l’aereo po-
trebbe essere colpito da un momento all’altro da una di esse. No, non siamo in
guerra. Semplicemente si festeggia il patrono del paese con un magnifico
spettacolo pirotecnico in pieno giorno, nel mezzo del quale stiamo conducen-
do il nostro avvicinamento. Fortuna vuole che usciamo indenni.
A Ischia i fratelli Regine hanno organizzato una manifestazione aerea di
inaugurazione dell’idrosuperficie segnalata, che tanto faticosamente sono riu-
sciti ad aprire (con una serie di costosissime boe che sono state loro imposte
dalle autorità). Vi partecipano molti mezzi e la pattuglia delle Alpi Eagles È
un successo, perché in zona non si è mai visto nulla di simile.
Negli anni successivi andiamo a Ischia con il Maule M7 anfibio, un magni-
fico aereo “da mare”, ovvero che ha un comportamento molto buono su onde
di notevole dimensione, sebbene sul mare rischi di deteriorarsi facilmente per
la salsedine.
Nelle settimane passate a Ischia a studiare e sperimentare le future attività
della compagnia facciamo magnifici voli sulla costiera amalfitana, su Napoli,
su Ponza, su Ventotene e sulle isole del golfo, un volo di ricerca in mare di una
barca scomparsa (ore e ore a perlustrare la superficie), richiesto dalla Capita-
neria di Porto, e un interessante volo all’interno della caldera del Vesuvio, in
omaggio al nostro concittadino Plinio il Vecchio, che perse la vita nell’eruzio-
ne di quel vulcano nel 79.

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Avventure di volo

I protagonisti dell’avventura ischitana sono vari e in particolare, oltre allo


scrivente, Giorgio Porta, Roberto Ruberto, Franco Cereda e Pino Dal Prà.
L’ultimo atto della vicenda non è una bella esperienza. L’Aergolfo, dopo
avere acquistato un Maule M7 per voli sperimentali, ha deciso di acquistare
un Cessna 206 anfibio. Inadatto a svolgere attività commerciale, a causa del
troppo basso carico utile, l’aereo è stato acquistato in modo affrettato presso
un dealer del centro Italia ed è giunto in Italia dotato di galleggianti anfibi di
tipo sconosciuto e un po’ malconci. L’aereo è giunto a Roma grazie a un ferry
flight. Io ho il compito di trasferire l’aereo da Roma a Napoli e di portare poi
in volo, nei giorni successivi, una serie di autorità e giornalisti.
Dopo il decollo da Roma si presentano alcuni problemi nelle operazioni al
carrello, che si muove a fatica e richiede speciali manovre per bloccarsi in
posizione retratta, ma il bello deve ancora venire. Ammarato di fronte a Casa-
micciola, presso una barca di appoggio, mi viene subito chiesto di portare in
volo due o tre persone. Salite le persone, incomincio la manovra di decollo e
mi rendo subito conto che qualcosa non va. La corsa è troppo lunga; l’aereo è
pesante, pesantissimo. Infine si stacca, ma è molto spugnoso. Conduco il
voletto in modo cauto, senza fare virate o manovre particolari. L’idea è che ci
sia qualche piccola falla e che nell’ammaraggio qualche scomparto dei gal-
leggianti abbia imbarcato acqua.
Un sesto senso mi dice di ammarare tra la barca di appoggio e la riva.
Scarico subito i passeggeri e avviso il proprietario che ci sono problemi e che
mi dirigo subito verso la riva. Così faccio e mi rendo conto che la situazione è
molto peggiore di quel che immaginavo: l’aereo sta affondando. A 200 metri
dalla riva procedo con i galleggianti completamente immersi nell’acqua, una
sensazione irreale per un pilota di idrovolante. La galleggiabilità è evidente-
mente garantita dalle bolle d’aria che ancora si trovano nella parte alta dei
galleggianti, aria che sta rapidamente sfuggendo, sostituita da acqua. A 100
metri dalla riva l’elica incomincia a fendere la superficie a ogni giro e sono
combattuto se aumentare la potenza o ridurla: proprio tra la padella e la brace.
Nel dubbio di poter perdere l’aereo, decido che, nel caso, è meglio perdere
solo l’elica e aumento la potenza. I galleggianti toccano il fondo a qualche
metro dalla battigia , ma l’aereo è tutto fuori dall’acqua, che lambisce la parte
inferiore della fusoliera.
L’aereo è poi tirato in secca da una ditta di recuperi navali composta di due
persone di incredibili risorse e bravura. In quattro e quattr’otto, con espedienti
tecnici inimmaginabili per la loro semplicità ed efficacia, portano l’aereo
sulla riva e drenano l’acqua dai galleggianti. Non si fa fatica a credere che
quelle poche persone, da sole, sappiano recuperare una nave affondata.
Il giorno dopo si decide il da farsi. L’idea è di trovare il sistema di portare
l’aereo a Napoli Capodichino, ove una ditta di manutenzione potrà metterci
mano. È certo che i galleggianti fanno acqua. Tuttavia, se si prepara l’aereo
sulla riva, lo si scalda e lo si mette velocemente in acqua, dando immediata-

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Avventure di volo

mente potenza per metterlo sul redan e decollare, probabilmente ce la si farà.


In fondo, dopo il primo ammaraggio, è ridecollato con quattro persone a
bordo. Ora ci sarà solo il pilota.
Così si fa. L’aereo sale sul redan e accelera, ma la bella sensazione dura
poco. Il moto inesorabilmente rallenta. Istintivamente faccio fare alla barca
volante un paio di oscillazioni, per favorire un’acceleratina e il distacco, ma
non c’è niente da fare. L’aereo continua a rallentare. Non ha funzionato. Le
operazioni precedenti hanno evidentemente danneggiato i galleggianti in modo
grave e l’acqua entra a fiotti. So che l’aereo affonderà presto.
Nel frattempo ho impostato una larga virata che mi porta verso la riva. Oltre
il porto di Casamicciola c’è, nella costa scoscesa, una spiaggetta, verso la
quale mi dirigo. Mi viene il dubbio che, scendendo dal redan (ovvero lascian-
do quella condizione in cui si procede in planata), l’aereo potrebbe affondare
immediatamente. Così prolungo il più possibile la fase di flottaggio in planata
e scendo dal redan a poche decine di metri dalla riva, che raggiungo infine con
i galleggianti completamente affondati, peggio che nell’approdo del giorno
precedente.
L’avventura è finita e l’aereo è anche in questo caso salvo. Con grande
fatica, nelle ore successive, lo si porta in secca sulla spiaggia. Esso sarà poi
smontato, messo a pezzi su una chiatta e trasferito a Napoli, ove un camion lo
porterà all’aeroporto.
I galleggianti risulteranno poi essere di un tipo inadatto, ma soprattutto in
condizioni di assoluta non navigabilità, un caso che può capitare quando l’ac-
quisto di materiale idro non viene eseguito da esperti, ma da un comune
importatore di aeroplani “terrestri” (per chi non l’avesse ancora capito, quel-
l’aereo è stato acquistato senza la consulenza di noi comaschi).
La vicenda dell’Aergolfo, così come quella dell’Idrovoli, sono emblemati-
che dello stato in cui versa l’aviazione italiana negli ultimi decenni del XX
secolo, che sembra operare in base al seguente principio: un aeromobile che
vola è una fonte incredibile di problemi, in quanto può andare incontro a un
incidente di volo, fatto che va evitato a qualsiasi costo. L’unico modo sicuro
per rendere la spiacevole evenienza impossibile è fare sì che gli aeromobili
non volino. Ciò, tuttavia, si scontra con l’incredibile tenacia di persone che si
ostinano a mettersi in quella situazione di pericolo. Infine, tra queste opposte
tendenze, si stabilisce una specie di equilibrio: quel che si è sempre fatto non è
possibile proibirlo e quindi, lasciamo che avvenga, seppure limitandolo al
massimo, ma ogni nuova velleità deve essere stroncata sul nascere, ovviamen-
te per evitare tutti gli spiacevoli inconvenienti che ne deriverebbero.
È in base al principio enunciato che miliardi di investimenti e infinite ener-
gie spese da parte di molte persone per avviare attività commerciali con idro-
volanti negli anni Ottanta del XX secolo sono state annientate.
Dato che si sta parlando di trasporto pubblico di passeggeri con idrovolanti,
è bene ricordare i tre tentativi che sono stati fatti a Como.

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Avventure di volo

Il primo, il più riuscito, almeno fino a questo momento, è quello della Tran-
saerea, impresa che si è dedicata al trasporto pubblico durante le grandiose
celebrazioni voltiane del 1927, durante le quali migliaia di comaschi e di
turisti, di autorità e giornalisti sono stati portati in volo.
Il secondo è quello degli entusiasti imprenditori della ditta AIAX, di Mila-
no, che negli anni Cinquanta hanno acquistato e largamente usato sul Lario il
monomotore anfibio Republic Sea Bee, mentre il terzo tentativo è avvenuto
negli anni Ottanta e Novanta ad opera dell’Idrovoli. Giunta ad impiantare una
completa e funzionante azienda dotata di CIT e disciplinare per trasporto
pubblico di passeggeri, con tanto di pilota professionista, direttore operativo e
così via, l’Idrovoli è collassata di fronte all’impossibilità di eseguire il suo
scopo sociale e ciò a causa di una legislazione sul trasporto pubblico di pas-
seggeri su idrosuperfici che era stata promessa dalle autorità «entro qualche
mese» e che sarebbe invece giunta solo dopo una dozzina di anni.
Il Lake LA 250 dell’Idrovoli, venduto ad alcuni privati, è poi usato sporadi-
camente, si “inconvenienta” durante un ammaraggio duro e scompare dai cieli
comaschi nel 2001, dopo quasi quindici anni di onorevole servizio, durante i
quali ha fatto apprezzare la tradizione idrovolantistica italiana in tutta Europa.
Come l’araba fenice, ricompare messo completamente a nuovo tre anni dopo,
acquisito dal Club.
L’Italia, una delle culle dell’aviazione idro, è riuscita, grazie agli sforzi di
due o tre generazioni di burocrati, nell’intento di affossare ogni tentativo di far
nascere un’aviazione idro commerciale, che vedevamo invece fiorire magnifi-
camente in molti paesi stranieri.
La situazione, ai nostri giorni è per fortuna cambiata. Gli sforzi congiunti di
molti dirigenti dell’Aero Club Como, di alcuni illuminati funzionari del Mini-
stero e dell’Aero Club d’Italia hanno creato un quadro normativo che rende
possibile il lavoro aereo e l’attività di trasporto pubblico con idrovolanti. Una
nuova legge, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 23 dicembre 2003 ed entra-
ta in vigore sei mesi dopo, sancisce che in Italia tutti gli specchi d’acqua sono
idrosuperfici usabili senza nulla osta o concessione d’uso; basta che non vi sia
proibito il traffico di natanti a motore. Una conquista che ci è oggi invidiata da
molti paesi e che pone l’Italia all’avanguardia nel mondo.
L’augurio è che presto, in questo nuovo quadro normativo, nascano aziende
che siano capaci di fare assaporare a milioni di persone il piacere di posarsi
con un aereo sull’acqua, un’esperienza affascinante e destinata a diventare per
molti addirittura elemento in sé motivante del viaggio.

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Avventure di volo

Idroscalo di Milano
Grazie alla tenacia di Giovanni Gatti l’Idroscalo torna, almeno in un giorno
all’anno, alla sua funzione originaria.

Siamo così abituati a pronunciare sempre e solo le parole “Idroscalo di Como”,


ormai da decenni, anzi da sempre, essendo nati e cresciuti in un paese dotato
di una sola di queste strutture, che il sentire la magica parola “idroscalo”
abbinata a un nome di luogo diverso dà un’emozione tutta speciale.
Chi ama l’aviazione si è imbattuto molte volte in nomi mitici di idroscali
della storia dell’aviazione idro italiana: Idroscalo di sant’Anna, a Sesto Calen-
de, Idroscalo di Ostia, alla foce del Tevere, Idroscalo di Augusta, in Sicilia,
Idroscalo di Venezia e così via. Ma nell’ultimo mezzo secolo si è sempre e
solo sentito parlare dell’Idroscalo di Como. La cosa ci fa piacere perché alme-
no un idroscalo operativo è rimasto in Italia, cosa che non si può dire degli
altri paesi europei, anche quelli con una storia idro importante, come la Fran-
cia o l’Inghilterra. Ma ci dà anche un senso di solitudine e di precarietà.
Dunque risentire pronunciare il nome di un idroscalo importante come quello
di Milano e sentirlo pronunciare non solo come luogo di sollazzi estivi, ma
come sede dell’attività per cui fu costruito, è di particolare soddisfazione.
L’Idroscalo di Milano non è naturale. Fu realizzato con appositi scavi e
riempito d’acqua deviando il Lambro. È lungo 2200 m, a sufficienza per far
decollare e ammarare i grandi idrovolanti degli anni Trenta. Gli americani
chiamano queste strutture artificiali seaplane pond, “stagni per idrovolanti”.
Negli anni Trenta il bacino era dotato di ogni struttura atta ad accogliere gli
idrovolanti e il loro carico di passeggeri e merci. Una speciale ruota a pale,
posta a una estremità, muoveva le acque appena prima dell’ammaraggio di un
idrovolante, il cui pilota non doveva dunque confrontarsi con la pericolosa
condizione dello “specchio”, esistente invece ad acque ferme.
Il ritorno degli idrovolanti all’Idroscalo di Milano lo si deve per intero alla
passione e alle fatiche di Giovanni Gatti. Milanesissimo, titolare del Gatti
Avio Shop, appassionato di aviazione, il Gatti, nel lontano 1991, è riuscito a
convincere i responsabili della Provincia di Milano e i dirigenti dell’aeroporto
di Linate a consentire operazioni di idrovolanti sullo specchio d’acqua ormai
destinato a usi del tutto diversi.

54
Avventure di volo

Da allora, ogni anno, la manifestazione si ripete con grande successo e


centinaia di milanesi accorrono a provare l’ebbrezza del volo, partendo dal
loro piccolo “mare”.
In un paio di occasioni siamo stati presenti con molti aerei. Nel 2004, per
esempio, vi abbiamo operato con due Cessna 172, il Piper PA 18, il Lake, il
Maule, ancora con marche canadesi, e il Caproni CA 100. Altre volte siamo
stati presenti con due Lake.
Portare il Caproni all’Idroscalo di Milano è un’impresa non da poco. Intanto
il viaggio lo deve fare scortato almeno da un altro aereo, che fa le comunica-
zioni ed è identificato dagli enti di controllo del traffico grazie al transponder.
Inoltre si devono portare a destinazione le batterie esterne, che serviranno per
l’avviamento, ed eventualmente la benzina, per evitare che il biplano parta
con un quantitativo eccessivo. In cambio si ha la soddisfazione di portare un
aereo storico in un luogo storico dell’aviazione idro.
Dopo l’11 settembre, l’incidente della SAS e la triste impresa del Fasulo
operare su o nelle vicinanze di Linate è diventata una vera impresa: attese,
controlli, operazioni superregolamentate e un’atmosfera “pesante”. Come è
comprensibile, si passa da un eccesso all’altro, ma dopo i fatti citati, anche dal
nostro idrovolante appena decollato dalle acque dell’Idroscalo guardiamo con
occhio diverso i piazzali, la torre, la palazzina della direzione, le piste, pen-
sando come tutto quel che è accaduto ha cambiato le vite di centinaia di
persone e di famiglie e anche la vita di noi piloti.
All’Idroscalo non vi sono molti margini per le operazioni, data la contiguità
con Linate: si opera in un circuito rigorosamente a est dell’asse del bacino a
una quota di 1000 piedi o meno sul livello del mare, pari a 200 metri dal
livello del suolo. Il volo tipico consiste nel decollo, verso sud, virata a sinistra,
circuito completo con sorvolo della superficie, secondo circuito con amma-
raggio, sempre verso sud, virata in acqua e flottaggio fino al pontile. Ogni
operazione è comunicata alla Torre di Linate, che autorizza. Capita di rimane-
re in attesa sulla superficie anche 20 minuti prima dell’autorizzazione, ma in
genere si vola in modo continuo. A volte ci sono tre o quattro aerei in circuito.
Il Lake è l’unico aereo che dopo l’ammaraggio può virare sul redan e tornare
al pontile ad alta velocità. Per gli aerei con galleggianti l’Idroscalo è troppo
stretto per compiere quella operazione.
L’area è densamente inurbata. Ovunque sorgono costruzioni e a nord si
estende un grande scalo merci ferroviario. Il terreno è una ragnatela di cavi di
linee elettriche grosse e piccole. Proprio in sottovento si sorvola il palazzo
della Mondadori, costruito dall’architetto brasiliano Oscar Nimeyer.
Proprio un posto dove non avere una piantata di motore, anche se qualche
campo per un atterraggio di emergenza non manca e nella maggior parte del
percorso è possibile raggiungere di nuovo l’acqua. Nei primi tre o quattro
circuiti è bene ripassare l’ubicazione di tutti i campi e di tutte le linee elettri-
che, in modo da sapere dove dirigere in caso di piantata di motore.

55
Avventure di volo

Dovendo fare brevissimi voli uno dopo l’altro, ci si deve armare di pazienza
e compiere tutte le operazioni in modo volutamente rallentato, imponendosi
l’esecuzione con calma di tutti i controlli. Ciò per non incorrere nel rischio di
fare i controlli in modo “automatico” e a un basso livello di coscienza.
Inoltre si deve evitare di interagire troppo con i passeggeri, cosa che può
aggiungere disturbo in una situazione già potenzialmente stressogena. Molti
passeggeri non aspettano che di essere sull’aereo per raccontare al pilota tutta
la loro vita di appassionati di aviazione, quasi disinteressandosi del paesaggio
esterno e del volo. Altri fanno mille domande sugli strumenti, i comandi, il
pilotaggio. Quando esagerano devo solo alzare il volume della radio, sintoniz-
zata sulla frequenza di Linate Torre e dalla quale dunque esce un dialogo
ininterrotto tra i piloti e il controllore. Queste voci sovrastano quelle dei pas-
seggeri e hanno un fascino in sé, tale da indurre gli stessi passeggeri a un
attento silenzio.
Le giornate all’Idroscalo sono intense. Arrivano con la voglia di volare le
persone di tipo più diverso, dall’anziana milanese che vuole volare con l’idro-
volante all’Idroscalo, un’esperienza che sa essere unica, alla famigliola di
appassionati e cultori di aviazione, ove il papà che ha fatto il paracadutista,
non perde una manifestazione aerea e lascia il posto davanti al figlioletto, che
pilota perfettamente 747 e Tornado sul simulatore di casa, pregandci di farlo
provare a pilotare.
Non c’è stato anno, prima del 2004, in cui non abbiamo dovuto, a partire
dalle 3 o 4 del pomeriggio, respingere centinaia di richieste perché già preno-
tati fino a sera, anche quando eravamo presenti con vari aerei. Nel 2004,
grazie alla presenza di una flotta particolarmente consistente, abbiamo avuto
per la prima volta il piacere di soddisfare tutte le richieste. È certo dunque che
la domanda c’è ed è forte e che gli idrovolanti soddisfano un bisogno diffuso.
L’idea ora è di aprire l’Idroscalo di Milano agli idrovolanti per più giornate
nell’anno, aggiungendo all’offerta dell’importante struttura un servizio molto
apprezzato e di rilevanza storica e culturale.
Quando, durante la manifestazione, andiamo a fare benzina a Linate e alla
partenza ci chiedono la destinazione e uno stimato della durata del volo dicia-
mo con orgoglio e compiacimento: «Idroscalo di Milano, durata del volo 30
secondi se ci autorizzate a sorvolare la principale».

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Avventure di volo

Lago di Bilancino
Nel cuore della Toscana, ospiti degli amici dell’Aero Club Firenze
in un agriturismo a cinque stelle.

Si fa una diga e nasce un nuovo lago. La necessità è quella di raccogliere


acqua e di elargirla poi a poco a poco ai contadini del Mugello, una bella zona
incastonata nell’Appennino toscano a una ventina di chilometri da Firenze.
Acqua: la sostanza più preziosa del nostro pianeta, di cui il nostro stesso corpo
è fatto in gran parte, la sostanza della vita.
I gestori del nuovo bacino capiscono subito le potenzialità dell’opera che
stanno gestendo e incominciano ad autorizzare attività di vario genere, come
la vela o il windsurfing. Il bacino incomincia così a offrire possibilità di
utilizzo che vanno ben al di là del suo scopo fondamentale e originario.
Il vicepresidente dell’Aero Club Firenze, Stefano Mazzuoli, proprietario e
gestore dell’agriturismo “Le Novelle” (comune di Barberino di Mugello),
sulle colline che si affacciano sul lago, suggerisce che si potrebbero chiamare
gli idrovolanti di Como per dare vita a un inusuale evento nel teatro del nuovo
specchio d’acqua. Ciò avviene nella primavera del 2003, nel corso di un fine-
settimana di splendido tempo, durante il quale la modestissima flotta di due
Cessna 172 porta in volo alcune centinaia di persone, tra le 10.000 accorse a
godere il paesaggio mai visto di un lago sulle colline del Mugello e di vari
idrovolanti che decollano e ammarano là dove fino a poco tempo prima qual-
che mucca pascolava sui fianchi disabitati della valle.
I piloti che si prodigano nei voli, con una turnazione pressante, che lascia
tuttavia ciascuno a terra per un’ora ogni 5-6 voli, per l’opportuno riposo,
sono, oltre all’autore, Antonio Carati, Roberto Ruberto, Marco De Vitis e
Gabriele Ermecini.
Per noi piloti il piacere di inaugurare la storia del volo idro su un nuovo
specchio d’acqua si affianca a quello di essere ospitati nel lussuoso agrituri-
smo dell’amico Mazzuoli, un luogo a dir poco raccomandabile a chi voglia
passare un periodo di relax, gite a cavallo, passeggiate e degustazioni enoga-
stronomiche di eccezionale pregio.
Il successo del 2003 purtroppo non si ripete nel 2004, per il maltempo. Enzo
Schettino, Roberto Ruberto e Paolo Zambra sfidano generosamente gli ele-

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Avventure di volo

menti per portare il Lake sul lago per qualche ora della giornata di domenica,
per il solo piacere di mostrare quanto ci teniamo a mantenere una promessa.
A Bilancino torniamo invece in una curiosa spedizione, condotta sul Cessna
206 della Navigando Air, nel brevissimo periodo di sua permanenza a Como.
L’occasione è una cena di soci dell’Aero Club Firenze, sempre all’agriturismo
Le Novelle, a cui siamo invitati. La giornata è una di quelle prossime al
solstizio d’estate. Effemeridi a tarda serata, dunque.
Dopo essere stati indecisi sul da farsi e sulla rotta da seguire, a causa di
tempo incerto sugli Appennini, ed esserci attardati prima della partenza, presi
dalle abituali scaramucce di piazzale, decolliamo infine alle 19:40. Il pilota è
Paolo Sommariva, accompagnato dallo scrivente e da Enzo Infante. Giungia-
mo in vista del lago alle 21:10 e, dopo l’ammaraggio in inevitabili condizioni
di specchio, portiamo l’aereo in secca grazie a un opportunissimo scivolo.
Gli amici fiorentini sono lì ad attenderci e la piccola combricola raggiunge
in pochi minuti l’agriturismo. Il banchetto è organizzato in una sala dell’anti-
ca costruzione ristrutturata, ove i commensali stanno tutti seduti intorno a una
grossa tavolata.
L’atmosfera è decisamente medioevale e non perché lo sono la casa o il
mobilio o la luce fioca delle vecchie lampade, che conferisce all’ambiente un
aspetto suggestivo, ma perché lo è la situazione. Tante persone che vengono
da posti lontani si trovano una sera intorno a un tavolo a raccontare le loro
storie, le loro vite.
Tra gli amici di Firenze ritroviamo gli organizzatori delle manifestazioni,
che sono i consiglieri Pier Paolo Panti e Daniele Livi, oltre al padrone di casa
Stefano Mazzuoli.
I “viandanti” che hanno fatto la strada più lunga siamo noi. La serata è
allegra. Noi abbiamo tante storie da raccontare, vivendo un periodo intenso e
avvincente della storia del Club ed essendo reduci da viaggi in idrovolante
importanti, ma anche gli amici fiorentini non si tirano indietro.
Non tutte le storie sono allegre. Noi di Como, abituati ad operare in condi-
zioni di assoluta libertà, restiamo allibiti quando ci raccontano le infinite re-
strizioni a cui è sottoposta la vita di un pilota in un aeroporto come quello di
Firenze Peretola dopo l’11 settembre e le minacce del terrorismo. Ci sarebbe
da farsi passare la voglia di volare, se non fosse per la forte passione, una dote
che certo non manca ai nostri amici e colleghi fiorentini.
È bello pensare a ciò che permette un idrovolante: alle sette e mezza di sera
sul piazzale, a Como, presi dai nostri affari, alle dieci meno un quarto a tavola
in un antico casolare, sulle rive di un laghetto sperduto dell’Appennino, a 300
chilometri di distanza.

58
Avventure di volo

Navigazione astronomica
Ho incluso questo breve capitolo per mettere in evidenza come i problemi
di navigazione siano sostanzialmente immutati dall’epoca in cui partivamo
al mattino per andare a procurare di che nutrirci con rudimentali armi di pietra
a oggi, in cui le nostre navi solcano lo spazio dirette verso altri corpi celesti.

Quando si pensa all’aviazione si ha una fenomenale sensazione di modernità.


È vero che certi cruscotti di aerei dei primordi assomigliano moltissimo alla
plancia di una locomotiva a vapore, ma c’è un abisso tra le due realtà, dovuto
al fatto che l’aereo vola, mentre la locomotiva è relegata per sempre ai binari.
Allo stesso modo c’è un abisso tra il conduttore di treni, che si muove in un
ambiente a cui l’uomo è abituato da milioni di anni, e il pilota, che osa sfidare
le leggi della fisica per fare proprio un ambiente del tutto innaturale.
Ciò detto, si deve invece notare che la tecnica della navigazione è invece
sostanzialmente identica qualsiasi sia il mezzo con cui si naviga. Nave, slitta
sul pack artico, cammello nel deserto, aereo, sottomarino in immersione, astro-
nave nello spazio siderale, i propri piedi in una gara di orienteering: i mezzi
sono diversissimi, ma il modo in cui si opera per andare dal punto A al punto
B - è questo il problema di tutte le navigazioni - è identico.
Sugli aerei sono di solito presenti strumenti di navigazione elettronici mo-
dernissimi, che consentono di determinare in ogni istante la propria posizione
e la direzione da tenere per proseguire verso la propria destinazione.
Un buon navigatore si pone continuamente il problema di cosa fare nel caso
in cui gli ausili elettronici di cui dispone dovessero venire a mancare. Vi
possono essere varie soluzioni, rese più difficili, pilotando un aereo, dal fatto
che ci si muove a velocità molto alta. Diciamo, comunque, che un certo pro-
blema di navigazione può essere affrontato e risolto in modi diversi, in funzio-
ne della strumentazione e delle conoscenze che si possiedono.
Nel volo si usano diverse tecniche di navigazione: la navigazione osservata
(la posizione dell’aereo è determinata riconoscendo elementi del paesaggio),
la navigazione stimata (la posizione dell’aereo è stimata in funzione del tem-
po trascorso, della direzione e velocità tenuta dopo l’ultimo punto noto e della
direzione e velocità del vento), la radionavigazione (la posizione dell’aereo è
determinata grazie a rilevamenti o segnali radio ricevuti da stazioni a terra) e

59
Avventure di volo

la navigazione satellitare (la posizione dell’aereo è determinata grazie a se-


gnali provenienti da una serie di satelliti).
Un navigatore “completo” è colui che sa usare tutti i possibili metodi appli-
cabili alla situazione in cui si trova e tutti gli strumenti di navigazione.
Ogni pilota ha vissuto situazioni di navigazione difficili, curiose o anomale.
La più complessa che ho dovuto affrontare mi è capitata in un attraversamento
delle Alpi ed è descritta nel capitolo “Ne va della vita”. Qui di seguito è
esposta una piccola avventura nella quale ho potuto usare le mie conoscenze
di appassionato di storia delle tecniche di navigazione e di collezionista dei
relativi strumenti.
Il problema è molto semplice: un amico, vero entusiasta dell’aviazione,
Eugenio Brenna, mi chiede all’improvviso, in un pomeriggio di metà luglio,
di portarlo su una spiaggia di una località della riviera ligure, proprio davanti
all’ombrellone di sua moglie. “È il suo compleanno; pensa come ci rimane se
sulla spiaggia dove si trova ammara un idrovolante e da quello scende una
persona: è suo marito, che si butta fuori dall’aereo, la raggiunge e la prende tra
le braccia! È una bella cosa per noi ed è anche una bella scena da vedere.”
Tra inguaribili romantici e indefessi estimatori delle grazie femminili si
stabilisce subito un feeling; la sua necessità diventa la mia missione. Penso
anche che la cosa farà talmente notizia che molti si affretteranno a imitare il
beau geste e che quindi il Club potrà intraprendere, dopo il volo di propagan-
da e il volo-pertosse, una nuova promettente attività: il volo-spiaggia. Che
cosa non si fa per incrementare l’attività annua del Club!
Il fatto è che siamo in una di quelle giornate estive calde e umide, nelle quali
si stenta a vedere la riva del lago a qualche centinaio di metri di distanza. Il
cielo è una massa bianco-lattea indifferenziata; il sole non è che una chiazza
chiara da qualche parte, lassù; si fa fatica a capire se è solo foschia intensa o se
in quella massa di albume vi siano anche delle nubi.
Tutto ciò, in sé, non è che possa bloccare un pilota esperto. Ma il fatto è che
l’unico aereo disponibile per la missione sia un Piper PA 18 idro, un magnifi-
co aereo, ma in quel momento un po’ disastrato e prossimo a una revisione
importante, ovvero con una bussola del tutto inaffidabile e senza altri stru-
menti di navigazione, salvo un direzionale in cattive condizioni, che dopo 10
minuti di funzionamento, incomincia a girare “a rotella”, andando fuori uso.
Se la tecnica più moderna, in quel caso, si fa desiderare, vediamo che cosa si
può fare con tecniche più antiche. L’idea è quella di usare il sole per navigare.
Chi non l’abbia mai fatto può avere una sensazione di approssimazione e di
inaffidabilità. Chi, invece, ha esperienza di navigazione astronomica sa invece
che gli astri consentono una navigazione precisa e di elevata affidabilità.
Il problema è come usare nel piccolo abitacolo del Piper gli strumenti di
navigazione astronomica. Certo, in quelle condizioni non si possono fare rile-
vamenti con il sestante e compiere i calcoli e i carteggi necessari per fare il
“punto-nave”, come potevano fare i piloti dei grandi idrovolanti negli anni

60
Avventure di volo

Trenta, dotati di apposite cupolette o aperture per il puntamento e di ampi


tavoli di carteggio nelle spaziose cabine.
È vero che Francis Chichester, nel 1931, ha volato dalla Nuova Zelanda
all’isola di Norfolk con un piccolo biplano idrovolante, facendo il punto-nave
con il sestante, ma è anche vero che l’errore derivante dai suoi rilevamenti era
nell’ordine delle 100 miglia, così che il suo arrivo all’isoletta del Pacifico
deve essere considerato anche frutto di una buona dose di fortuna.
Su un aereo come il Gipsy Moth di Chichester o il Piper fare un vero punto-
nave è un’operazione complicata e scomodissima e ci si deve dunque accon-
tentare di usare il sole come puro indicatore, come semplice ago di una “bus-
sola naturale” che consente di tenere la rotta desiderata. Per riuscire nell’im-
presa si deve conoscere, in ogni istante, l’azimut del sole, ovvero la direzione
in cui il sole si trova rispetto a una direzione di riferimento, per noi piloti la
direzione nord. Se dunque non è disponibile lo strumento che indica la dire-
zione nord - la bussola - come in effetti non è disponibile sul Piper, si può
navigare senza problemi se si dispone di uno strumento che indica un’altra
qualsiasi direzione, purché essa sia perfettamente definita.
Questo strumento si chiama astrolabio planisferico (gli arabi usavano anche
un astrolabio di tipo sferico, di cui rimangono solo due esemplari al mondo,
uno appartenente a un collezionista di Como, mentre l’altro è al museo di
storia della scienza di Oxford). Inventato dagli arabi sulla scorta delle cono-
scenze ereditate dai Greci, perfezionato dagli astronomi del Rinascimento,
l’astrolabio fornisce l’azimut del sole o delle stelle più luminose inserendo i
seguenti dati: latitudine, longitudine, equazione del tempo, data e ora. Nella
pratica l’inserimento di questi dati consiste nel ruotare opportunamente due
dischi e un cursore, un’operazione che si fa in una decina di secondi. Senza
scendere in dettagli tecnici, diciamo che dispongo di uno strumento che indica
il valore numerico dell’azimut del sole in ogni istante.
Rimane da risolvere un problema: noto l’azimut del sole, come tenere la
prua desiderata? In realtà questo è un problema elementare. Si tratta infatti,
nella cabina dell’aereo, di “materializzare” un angolo, come si dice in naviga-
zione. Se per esempio il sole ha un azimut di 240° e la rotta è di 215°, si deve
tenere una rotta di 240-215=25° sulla sinistra del sole. Per materializzare
l’angolo di 25° si può usare un goniometro, un grafometro portatile o, se non è
necessaria una grande precisione, un foglietto di carta su cui sono tracciate
due linee formanti un angolo di 25°. Un navigatore esperto può anche andare
“a occhio” senza sbagliarsi di molto, cosa che farò nell’occasione.
Parto dunque per il mio volo armato di un astrolabio (ne tengo sempre uno
di tipo moderno tra le mie dotazioni, in caso di bisogno). Ai 2000 piedi previ-
sti per attraversare la pianura padana si vola pressoché in condizioni IMC per
la densissima foschia. Chiedo di salire e curiosamente me lo lasciano fare
anche senza disporre di transponder, che ovviamente non c’è o non è funzio-
nante sull’aereo. In realtà non c’è in giro nessuno. A 5500 piedi il sole è

61
Avventure di volo

meglio identificabile che alla quota più bassa, così che posso agevolmente
navigare grazie a esso.
Il sole, come direzione di riferimento ha un piccolo problema: si muove. Se
dunque, per tenere la mia prua di 200 gradi, alle 15:30 di un giorno di metà
luglio devo avere il Sole a 50° sulla destra, alle 16:00 devo averlo a 60°,
sempre sulla destra, in quanto l’astrolabio mi dice che nel primo momento il
sole ha un azimut di 250°, mentre nel secondo di 260°.
Arrivano gli Appennini, i cui rilievi intravvedo come una tenuissima imma-
gine solo guardando esattamente verso il basso. Finiti (il colore diffuso sotto
vira al blu), “svolto a destra”, buttandomi giù sulla linea di costa, che seguo a
bassa quota. Ora navigo grazie alla carta del Touring al 200.000, che consente
di riconoscere ogni dettaglio del paesaggio, dunque usando il metodo della
navigazione osservata, e infine raggiungo agevolmente la meta.
Tutto va come deve andare e l’amico Eugenio, sulla spiaggia, “tocca il cielo
(in questo caso sarebbe più opportuno dire “la terra”) con un dito”, ottenendo
un grandioso successo di immagine con sua moglie e con tutti i presenti.
Il bimbo che vede il papà arrivare “dal cielo e dal mare” si chiama Pietro e
diventerà, dopo una quindicina di anni, un appassionato pilota idro e affezio-
nato socio dell’Aero Club Como.
Nel ritorno - il piacere di volare da solo è accentuato dal fatto di farlo molto
raramente - devo volare con il sole quasi a poppa, quindi tenendo angoli di
rotta difficili da materializzare. Uso, nelle fasi iniziali dell’attraversamento
degli Appennini, un altro espediente. Poco dopo il decollo devo sorvolare
Savona, il cui porto dispone di un lungo molo, ben rappresentato sulla carta
del Touring al 200.000. Ne misuro l’orientamento con il goniometro, sulla
carta, poi dispongo l’aereo esattamente parallelo al molo e regolo il direziona-
le sulla direzione misurata. Per i prossimi 10, speriamo 20 minuti potrò volare
usando il direzionale; poi dovrò ritornare a usare la navigazione astronomica.
Il direzionale lo tengo quasi continuamente d’occhio, così che dopo che
eventualmente si sia messo a girare all’impazzata - cosa che fa ogni 10 minuti
circa - possa rimetterlo sull’ultima prua stabile, godendo di un’altra manciata
di minuti di indicazioni utili.
Quando sarò sicuro di aver passato le montagne, scenderò a “razzolare”
rasoterra fino a trovare l’autostrada, che mi riporterà verso Milano e a casa.
Per essere sicuro di trovarla, adotto una tecnica classica dei marinai che devo-
no trovare un’isola, che consiste nell’adottare una rotta volutamente “sbaglia-
ta” che mi porti decisamente alla sinistra dell’autostrada, prevedendo, giunto
presso la superficie, di virare a destra fino a trovarla (se cercassi di navigare
per raggiungerla e se la mancassi, cosa probabile, non saprei più se essa si
trova a sinistra o a destra e sarebbe un piccolo guaio).
Pensandoci bene, non è che Magellano abbia dovuto affrontare problemi
molto diversi. Solo... più tempo per risolverli, viaggiando a pochi nodi di
velocità, ma avendo l’ignoto innanzi a sé.

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Avventure di volo

Un viaggio commemorativo
Como-Napoli-Catania-Lampedusa-Fano-Como, per ricordare due amici
che non ci sono più.

Due amici, Enrico Recchi e Marco Merlo, volano da Cannes a Torino con un
Catalina. I serbatoi sono quasi pieni. Non riescono a fermare l’aereo sulla
pista bagnata e le due vite si immolano in un terribile rogo.
La famiglia di Enrico Recchi decide di commemorare il primo anniversario
della grave perdita delle due vite umane organizzando un rally aereo dal Nor-
ditalia fino a Lampedusa, luogo amato dal caro familiare scomparso. Franco
Panzeri, presidente del Club, decide di aderire all’iniziativa e richiede la mia
presenza a bordo come copilota del Lake Renegade I-AQVA.
Nel viaggio di andata la prima tratta è Como-Napoli, un volo che terminia-
mo di notte, descritto nel capitolo “Dirottamenti”. Ci accompagna Giorgio
Porta, che dovrà nei giorni successivi compiere alcune operazioni con il Mau-
le I-SKIA dell’Aergolfo.
Dopo aver fatto sosta a Catania per fare benzina, seguiamo la costa occiden-
tale della Sicilia passando al largo della base di Sigonella. Per fortuna la
visibilità è buona, perché dobbiamo fare una manovra diversiva per non entra-
re in collisione con un Galaxy americano in avvicinamento (non ci sentiamo
in colpa, avendo ricevuto istruzioni precise che ci hanno portato proprio lì).
L’atterraggio a Lampedusa è interessante, insistendo sull’aeroporto un ven-
to di 28 nodi esattamente al traverso dell’unica pista esistente. Abbiamo il
dubbio se sia meglio atterrare sulla pista con il vento al traverso o sul piccolo
raccordo e sul piazzale semideserto con il vento in prua. La saggezza consi-
glierebbe di optare per la seconda ipotesi, ma decidiamo di provare a fare un
avvicinamento normale per vedere come va. Il vento è forte, ma costante e
l’aereo, pur con una combinazione accentuata di bank angle e crab angle,
risulta molto stabile in avvicinamento e anche ben manovrabile, cosa che
verifichiamo facendo piccole continue correzioni. Dunque portiamo l’aereo
fino al suolo in quell’assetto curioso, facendo toccare prima la ruota sinistra,
poi la destra, ma sempre facendo volare l’aereo, e infine il ruotino anteriore.
La serata conviviale è gradevole e la cerimonia commemorativa toccante. Fa
una certa impressione trovarsi in un pezzo di Italia a latitudini africane.

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Avventure di volo

La presenza del nostro anfibio intende essere un tributo dell’intera comunità


dei piloti idrovolanti, di cui Enrico e Marco facevano parte.
Merlo, che di tanto in tanto aveva frequentato il Club di Como, ha condotto
un Lake Buccaneer nell’America centrale, per le riprese di un film, vivendo
anche l’esperienza della piantata di motore e conseguente atterraggio di emer-
genza nella giungla.
Il giorno successivo è quello del rally, che si svolge sulla tratta Lampedusa-
Fano. Noi prendiamo l’evento un po’ alla leggera, sia perché si tratta di una
gara commemorativa sia perché, fuorviati da un fortissimo vento da nord del
giorno prima, ci eravamo fatti assegnare una velocità troppo bassa, che ci
avrebbe costretti a fare innumerevoli “360” prima di ogni traguardo.
A renderci svogliati contribuisce in modo decisivo anche l’idea di essere lì
per pensare a due amici che non ci sono più, così che un evento competitivo
stenta a carpire la nostra attenzione e un eccessivo impegno in esso potrebbe
apparirci quasi blasfemo.
Oggi rimane il ricordo di due nobili esistenze e dei sogni di meravigliose
avventure in idrovolante, infranti sulla pista di un aeroporto.

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Avventure di volo

Alta montagna
Operazioni difficili in ambienti ostili, ma di sconvolgente bellezza.

Laghi di Santa Giustina e di Resia


La Guerra Fredda è in atto. Le zone di confine con i paesi dell’Est, indicate
sulle carte americane con il termine di “ADIZ” (Air Defence Identification
Zone), sono proibite al volo per gli aerei civili. Così è la Val Venosta, in cima
alla quale si trova il Lago di Resia e subito dopo l’omonimo passo. Desiderosi
di andare ad ammarare su quel lago, posto a 2000 metri di quota, contattiamo
vari comandi militari e infine, dopo qualche mese, giunge l’autorizzazione a
penetrare nella P5.
Dunque pianifichiamo una lunga escursione Como-Colico-Sondrio-passo
dell’Aprica-passo del Tonale-Lago di Santa Giustina-Lago di Resia e ritorno.
Gli aerei sono il Piper e il Lake Renegade.
Il Lago di Santa Giustina o di Cles è formato dalla più alta diga d’Europa:
ben 120 metri. Il corpo principale si ramifica in molti piccoli bracci.
È molto scenografico fare l’avvicinamento nella valle, superare in corto
finale una gola scoscesa e la diga e trovarsi in un istante in cortissimo finale su
un esteso specchio d’acqua. Proprio una foto di questo avvicinamento è stata
usata da Riccardo Saviani per realizzare il disegno di copertina del mio libro
Seaplane Operations.
Nello stesso libro sono riportate altre foto riprese durante questa avventura.
Quella di un decollo circolare con il Lake, ripresa da Felice Chiappa dal Piper
già in volo, venuta particolarmente bene in quanto le onde generate dall’aereo
si stagliano bene sulle acque perfettamente calme del lago alpino. Quella di
Giorgio Porta che rifornisce il Piper con carburante da noi stessi aviotraspor-
tato. Quella del Lake in flottaggio usata dal socio Giuseppe Lorini per realiz-
zare un pieghevole per l’Idrovoli, la società allora proprietaria dell’aereo.
Quella del Piper in decollo, fotografato dal Lake, pubblicata sul pieghevole-
standard che il Club distribuirà nel decennio successivo. Quella del Piper
appena prima del contatto con la superficie, che userò molte volte in articoli
sull’ammaraggio a specchio.
Eccoci dopo aver percorso l’ampia e suggestiva Val Venosta, a 7000 piedi di
quota, in avvicinamento al Lago di Resia. Qui la diga è una di quelle basse e

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Avventure di volo

molto larghe, una specie di muraglione che delimita il lago. Questo è partico-
larmente ampio e presenta una caratteristica unica, il celebre campanile che
emerge dalle acque. È quello della chiesa di Curon Venosta, unico elemento
ancora visibile del paese sommerso in seguito alla formazione del lago artifi-
ciale. A turno ci giriamo intorno con Lake e Piper, per fotografarci a vicenda
vicino all’inusuale cimelio.
Felice Chiappa, pilota del Club, membro della spedizione, ingegnere e alto
dirigente dell’azienda che gestisce le centrali e gli invasi visitati, oltre che
molti altri, ci dice che oggi operazioni che prevedono di far sfollare la popola-
zione di un tratto di valle, come quella che ha creato il Lago di Resia negli
anni Sessanta, oggi sarebbero impensabili.
Decollare a 2000 metri è un’esperienza che qualsiasi pilota deve provare.
L’aria “sottile” toglie cavalli al motore, mentre la velocità di distacco dalla
superficie è più elevata, tutti fattori che concorrono a rendere lunga la corsa di
decollo e a tenere l’aereo incollato alla superficie nelle sue ultime fasi.
Quando si è faticosamente usciti dall’acqua si deve affrontare una salita a
potenza ridotta, un’esperienza particolarmente interessante se ci si trova da-
vanti il possente ostacolo di una diga. È questa una condizione in cui si può
apprezzare che cosa significa avere la pallina al centro o averla fuori di un
quarto, così come si può apprezzare la precisa conoscenza della configurazio-
ne e velocità di massimo angolo di salita.
La sera, dopo la bella esperienza di bush flying nel cuore delle Alpi, siamo
esausti, per il numero di ore volate e per la complessità delle operazioni
svolte, ma felici.

Lago del Predil


L’escursione al Lago del Predil è una di quelle operazioni che ti fanno amare
l’idrovolante. Si tratta di mettere a disposizione l’aereo per le riprese fotogra-
fiche della campagna inverno 2004-2005 della Hogan, marchio appartenente
al gruppo Della Valle, che produce scarpe e borse di alta qualità.
Gli specialisti di “location” hanno girato in lungo e in largo le Alpi per
trovare il sito adatto. Finalmente lo scovano all’estremo oriente delle Alpi
italiane, proprio sul confine sloveno, in una valle laterale che porta al passo
del Tarvisio. È il lago del Predil, un laghetto naturale in un contorno selvag-
gio, che ricorda l’Alaska. Nelle sue acque si specchiano un massiccio roccio-
so, a sud, e una serie di cinque guglie a nord, un rilievo di rara bellezza che
non a caso si chiama “Cinque Punte”. La metà superiore dei monti circostanti
è ricoperta di neve, il che dona alla scena un fascino tutto particolare.
Nel frattempo l’art director ha individuato nell’idrovolante l’elemento fon-
damentale della comunicazione in questa campagna. Dove trovarne uno? A
Como, naturalmente. Gli idrovolanti vengono in mente a un membro dello
staff dell’agenzia, che ha vissuto a Como per un periodo una decina di anni
prima. Una visita in hangar ed ecco individuato l’aereo adatto: il Piper PA 18.

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Avventure di volo

Idea platonica di aereo per il bush, il Piper I-BUFF è anche in perfetto stato e
colorato di giallo, prestandosi benissimo a scene in cui si deve stagliare sugli
sfondi blu del cielo e delle acque, su quelli verdi della foresta e su quelli
bianchi della neve.
Portano l’aereo da Como al lago lo scrivente e Schettino, in una giornata
primaverile con un cielo pieno di nuvoloni che producono qua e là temporali.
Le Alpi Giulie, così come si possono apprezzare seguendo l’alto corso del
Tagliamento, sono spettacolari. Al lago si arriva staccandosi dalla vallata prin-
cipale e imboccando un’impervia e poco evidente valletta laterale.
La vista del lago, dopo mezza giornata di volo, è allietante, anche se fa
nascere tutti gli interrogativi che il pilota idro si pone quando deve posarsi per
la prima volta su una superficie, in particolare in alta montagna.
Il lago si presenta con le caratteristiche esaminate sulle carte? A volte la
superficie e le dimensioni si dimezzano, rispetto a quelle pubblicate, al calare
del livello delle acque. La risposta in questo caso è confortevolmente positiva.
In che direzione si deve ammarare? La valle è talmente stretta che vi sono
solo due direzioni possibili. Il vento pare assente, per cui si identifica la dire-
zione che consente la migliore riattaccata. Verso sud gli ostacoli sono più
bassi, quindi l’avvicinamento e l’ammaraggio saranno da nord a sud.
Che ostacoli vi sono sul sentiero di avvicinamento? Un’accurata ispezione
visiva non evidenzia ostacoli significativi, se non una linea elettrica, ma verso
il costone della montagna a una certa distanza, e i pini che contornano il lago,
una presenza del tutto normale e ben identificabile.
Vi sono ostacoli sommersi? La tipologia del lago fa escludere la presenza di
grossi ostacoli nel corpo d’acqua prncipale. A vista non si vedono ostacoli
significativi presso le rive, se non un evidente isolotto presso la riva settentrio-
nale, circondato da ben visibile rocce affioranti.
Ora l’altra domanda che ci si deve sempre porre prima di scendere: che cosa
faremo dopo l’ammaraggio? Dall’alto è facile osservare le rive e possiamo
identificare una serie di punti che si prestano all’approdo.
Ciò visto e valutato, Schettino procede all’ammaraggio lambendo le cime
dei pini sulla sponda settentrionale. Per virare in finale abbiamo dovuto proce-
dere verso nord per un paio di miglia, non consentendo la strettissima valle
una virata di 180° nemmeno al piccolo Piper.
Approdati a una rivetta erbosa poco degradante, ci rendiamo conto che il
terreno e il fondo sono molto compatti. Situazione ideale, che consente di
salire sulla riva con il carrello estratto e quindi di poter tirare in secca l’aereo
per la notte e i periodi di inazione.
Lavorare su un set è molto interessante. Ogni scatto richiede il lavoro di una
ventina di persone, inclusi noi piloti. La modella, Linda, originaria della Let-
tonia, ma che parla italiano perfettamente, è costretta a un lavoro infernale:
ferma, al freddo, per ore, con attorno persone che le danno continuamente
ordini e altre che sistemano ogni piccolo elemento del suo abbigliamento.

67
Avventure di volo

Le giornate sono lunghe e lo stesso sono, per molte persone, i tempi morti.
Ecco che si creano molte occasioni di familiarizzazione. La sera tutti sono
stanchi morti, ma con una voglia bestiale di evadere dalle situazioni del dove-
re e del lavoro, che hanno impegnato per 12-15 ore. Dunque nasce spontanea
una voglia di chiacchierare, di conoscersi e anche di berci su qualcosa tutti
assieme o a piccoli gruppetti.
Con il passare del tempo si crea un vero spirito di gruppo, che alla fine dà un
senso alla tua vita, accompagnato da una sensazione di tristezza. Quel gruppo
di persone, in quella magnifica cornice, a fare quel raffinato lavoro, non si
ripeterà mai più nella vita. Si è creato qualcosa di bello e nobile, ma che è
destinato a svanire quasi subito. Ma ognuno sa che quel momento di vita,
quell’esperienza è destinata a lasciare qualcosa che ciascuno dei partecipanti
porterà con sé per sempre.
L’operazione, la cui durata prevista è di cinque giorni, prevede il cambio di
equipaggio. Allo scrivente e Schettino subentrano Paolo Zambra e Marco De
Vitis, che svolgeranno per i tre giorni successivi quel lavoro che per il pilota
idro è la più bella delle vacanze: su un laghetto di alta montagna, con un
idrovolante, a svolgere operazioni interessanti tra gente capace e simpatica.

Samaden
A mezz’ora di volo da Como si trova il più alto degli aeroporti europei, Sama-
den, poco a est di St. Moritz. Ci andiamo ogni inverno a sciare. Da Como si
percorre tutto il lago, si imbocca la Val Chiavenna, si gira a destra per la Val
Bregaglia, si passa il Maloja e si percorre tutto l’altipiano, abbellito dai laghi
di Misurina e Silvaplana (proibitissimo ammarare su quelle acque).
La Svizzera è un paese extraeuropeo, almeno per gli ordinamenti giuridici,
così che per andarci è necessario passare per due dogane. Partendo da Como si
deve chiamare la Polizia di Frontiera, la Dogana e la Guardia di Finanza.
Arrivando in Svizzera ci si trova di fronte di solito il solo funzionario di
polizia, che, al di là del formale controllo dei documenti, dà una bella “inqua-
drata” a tutta la combricola che scende dall’aereo per vedere se qualcuno
presenta un profilo in qualche modo a rischio. In quei frangenti il pronunciare
una o due frasi in dialetto, possibilmente con un’inflessione ticinese, aiutano a
fare sì che si produca subito un’aria rilassata e un amichevole «a’anti».
Samaden non è un aeroporto facile, soprattutto per gli aerei ad ala bassa,
soprattutto in estate. Il pilota dà motore, l’aereo fa una lunga corsa, si stacca,
galleggia a pochi decimetri dalla pista, ma non vuole saperne di lasciare in
modo definito il suolo grigionese. L’effetto suolo lo fa stare su, ma non appe-
na la distanza dal suolo aumenta, l’effetto viene meno e l’aereo torna giù.
L’esito è l’impatto dell’aereo con la recinzione o uno stallo a bassissima quo-
ta, se il pilota fa il disperato tentativo di tirare il volantino per salire.
Tanti anni fa, con il Lake Buccaneer, non mi sono trovato lontano da quella
condizione. Dopo il decollo l’aereo, carico, in un caldo giorno d’estate, in cui

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Avventure di volo

la density altitude è intorno agli 8500 piedi, in realtà incomincia a salire, ma il


rateo, pur con tutti gli espedienti e le migliori tecniche di pilotaggio, non è
superiore ai 50 piedi al minuto.
Per “buttarsi giù” dal Maloja bisogna fare un minimo di quota sull’altipiano
in cui sorgono Samaden, Celerina e St. Moritz. Il problema è che a 50 piedi al
minuto, destinati a diventare 25 se si imposta una pur blanda virata, guadagna-
re quota è una scommessa. Finisce che vaghiamo sulla piana facendo ampissi-
mi 360, dopo aver comunicato alla radio che manterremo la zona fino ad aver
fatto quota, cosa che richiederà parecchi minuti.
Morale: ad alta quota si può atterrare o ammarare anche stracarichi, ma al
momento della partenza fate bene i conti. Nel dubbio lasciate a terra benzina,
bagaglio o un passeggero. Si tratta a volte di barattare qualche disagio con la
vita di tutte le persone a bordo.
Parlando di Samaden colgo l’occasione per ricordare un simpatico episodio.
Una quindicina di anni fa stavamo bighellonando per le Alpi con il Lake
Renegade - lo scrivente e Emanuele Bedetti - finché arriviamo in Alta Engadi-
na, pronti a rientrare a Como per il passo del Bernina, Tirano e Colico.
Quell’invitante aeroporto lì sotto non può tuttavia lasciarci indifferenti e
chiediamo alla Torre se sia possibile fare un paio di touch-and-go. Fare qual-
che circuito sul più alto aeroporto europeo è sempre una forma di esercizio
interessante. «Ma certo», ci dicono.
Eccoci quindi, dopo la seconda riattaccata, a salutare la Torre, annunciando
la nostra virata a sinistra per il Bernina. «Negative, sir, you come down and
pay taxes.» Spieghiamo che non abbiamo fatto dogana in uscita dall’Italia,
non prevedendo di atterrare in Svizzera, e abbozziamo l’interpretazione che la
manovra di tocca e riparti è manovra di volo, non un vero atterraggio.
Nessun problema per l’amico della Torre, a cui le questioni doganali non
interessano un fico secco, ma a cui in quella giornata non dispiace - giusta-
mente - incassare 120 franchi in più. Scesi, paghiamo la tassa. Il controllore-
esattore calcola cortesemente un solo atterraggio invece di due, mostrando di
avere apprezzato che ci siamo attenuti alle sue istruzioni. Spiega tutto al doga-
niere, a cui fa capire che siamo gente “a posto”.
Infine facciamo un piano di volo per l’Italia da Samaden, indicato come
scalo-tecnico extradoganale, e torniamo a casa.
È simpatico vivere avventure in idrovolante anche in alta montagna, nel
cuore di una delle più grandi catene montuose del pianeta.

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Avventure di volo

America
Dalla periferia dell’impero alla capitale del volo idro mondiale.

Prima di incominciare questo breve capitolo non posso non ringraziare gli
sponsor di due viaggi in America alla ricerca di idrovolanti da acquistare:
Michelangelo e Rocco Regine. I due fratelli erano i titolari dell’Aergolfo, la
società che si proponeva di avviare un’attività commerciale di idrovolanti nel
Golfo di Napoli.
A quei tempi, nel nostro paese, chi si faceva venire idee simili aveva meno
probabilità di riuscire di quante ne avesse un portatore di stella gialla sul
cappotto che fosse andato a chiedere una licenza per aprire un negozio nella
Varsavia occupata del 1941.
Perché questo caloroso ringraziamento? Semplice: provate ad andare in
America come pilota e cercate di affittare un idrovolante, provate a fare un
passaggio idro o provate semplicemente a prendere in mano il volantino, dal
posto di destra, di un idrovolante condotto da qualcun altro. Vedrete facce
scure, espressioni di diniego, smanacciate sulle vostre mani. Infatti, in Ameri-
ca, nessuno vi dà in mano un idrovolante, il cui pilotaggio è considerato tanto
raffinato che le assicurazioni sono solo personali e valide per piloti con molta
esperienza.
Per questo in America si vendono tanti idrovolanti. L’idrovolante in Ameri-
ca, in altri termini, lo puoi pilotare solo se lo possiedi. L’unica alternativa è
l’essere detentore, come persona, di una polizza-corpo del valore dell’aereo
che si intende affittare, sempre che la compagnia della polizza sia ben cono-
sciuta e di fiducia di chi vi dovrebbe dare in mano l’idrovolante. È superfluo
dire che l’arrivare a ottenere una simile polizza non è da tutti.
Provate invece ad andare in America con in tasca un importo indefinito di
dollari da spendere e girate alla ricerca di un idrovolante da acquistare. È
inutile dire che tutto è assolutamente diverso, dalla notte al giorno, dall’infer-
no al paradiso. Vuol dire camminare sempre su una passatoia rossa o alla
quota a cui si trova normalmente la portantina di Sua Santità il papa. Ebbene,
questo paradiso l’ho potuto assaporare per qualche piccolo boccone grazie
all’Aero Club Como, per cui ho acquistato in quel Paese cinque aerei, ma in
modo molto più sostanzioso grazie all’Aergolfo, per la quale sono andato alla

70
Avventure di volo

ricerca di aerei di stazza ben più grossa. Un piccolo esempio? Lo scrivente,


Giorgio Porta e Michelangelo Regine sono stati accolti alla Canadair esatta-
mente come la delegazione di uno stato che deve acquistare dieci o venti di
quelle macchine.
Funzionari dell’FAA erano ai nostri piedi a firmarci qualsiasi abilitazione o
BFR. Proprietari di aziende di TPP che avevano un aereo in vendita ci mette-
vano a disposizione la loro flotta per voli di valutazione o di piacere. I migliori
piloti di compagnie regionali di trasporto con idrovolanti, come la Transpro-
vincial canadese, che possedeva decine di idrovolanti e anfibi e gestiva centi-
naia di linee di collegamento con le località più sperdute dell’interno, erano al
nostro servizio per dimostrare le caratteristiche degli idrovolanti posseduti
nelle condizioni-limite, come era da noi richiesto. Un divertimento e un’op-
portunità di imparare senza fine.
Mi ricordo, in uno di questi voli, in cui ero seduto a destra su un Beaver, di
avere detto al pilota qualcosa che poteva essere inteso come se avessi ritenuto
che si potesse tentare di fare qualcosa di più, in quelle condizioni. Stavamo
volando lungo la costa frastagliata della British Columbia in una giornata di
pessimo tempo, pioggia battente e un ceiling di 300-400 piedi, una condizione
peraltro frequentissima in quelle zone del mondo.
Il pilota mi ha spiegato che la sicurezza è il parametro fondamentale e che se
qualcosa di più poteva certamente essere fatto, non lo sarebbe stato mai fatto
se avesse rappresentato un rischio per i passeggeri. A quel punto gli abbiamo
ricordato i nostri accordi con il titolare della compagnia, ovvero la valutazione
degli aerei nelle condizioni-limite.
Il pilota, che era stato male informato e che pensava che fossimo semplici
turisti, capisce la situazione e mi dice subito: «Ma allora voi siete tutti piloti!»
«Non solo piloti, ma anche operatori di una compagnia - rispondo - e siamo
qui per vedere che cosa permette di fare questo aereo, per un preciso accordo
con il tuo boss. Non ci interessa quanto tempo dobbiamo stare in giro».
A quel punto il pilota, dopo essersi assicurato che anche le persone che
stavano dietro erano “gente del mestiere”, ha dato fondo a tutte le sue capacità
e ci ha dimostrato tutto quel che si può fare in quelle condizioni e in particola-
re: come fare se il ceiling cala a zero; come fare se ci si trova improvvisamen-
te davanti un’isola, un capo, una roccia, un ostacolo; come fare se il nevischio
rende nulla la visibilità; come fare se si deve portare sulla riva sconosciuta di
un’isola deserta, per il calare dell’oscurità, i sei o sette passeggeri dell’aereo
che in realtà dovrebbero andare in tutt’altro luogo, con una temperatura ester-
na di 2 o 3 °C; come fare se i passeggeri si impauriscono; ecc. ecc.
Ciascuna di queste situazioni richiede una completa padronanza del mezzo,
una conoscenza sopraffina dell’ambiente e una profonda conoscenza dei pro-
pri limiti, oltre che capacità di relazione non comuni. Insomma una padronan-
za altissima di tutti gli elementi fondamentali del volo: l’ambiente, la macchi-
na, la persona umana.

71
Avventure di volo

Noi beviamo ogni frammento di quelle descrizioni, ogni movimento delle


mani sui comandi; ci affrettiamo a guardare nella direzione in cui si dirigono i
suoi sguardi rapidi e velocemente erranti tra gli elementi del paesaggio, gli
strumenti (poco) e le persone che ha a bordo. Una lezione indimenticabile.
Un altro volo impressionante lo abbiamo fatto con un De Havilland Otter,
sempre della Transprovincial, a Prince Rupert, l’estremo lembo di Canada al
confine con l’Alaska. La nostra richiesta, in una giornata di forte vento, in cui
molti voli erano stati cancellati, era stata la seguente: «Potete farci una dimo-
strazione di che mare può affrontare l’Otter?» La seaplane base (SPB) di
Prince Rupert è infondo a un inlet, ovvero a una profonda insenatura, in posi-
zione ampiamente ridossata rispetto al mare aperto, ove si può operare anche
con venti piuttosto gagliardi. Il mare monta progressivamente man mano che
si percorre l’insenatura verso il mare. È stato dunque possibile provare l’aereo
su onde progressivamente più “cattive”, ammarando sempre più avanti, verso
il mare aperto. L’ultima zona di ammaraggio usata era pervasa da onde di
circa un metro, le cui creste spumeggiavano e “filavano” nell’aria sottili veli
biancastri di acqua salata, in un vento di almeno 30-35 nodi.
Dopo il tocca-e-riparti ci siamo presentati ad ammarare ancora più avanti,
ma il pilota ha valutato che quel che si era fatto bastava: «Sì, l’aereo consente
anche qualcosa di più di quello che abbiamo provato, ma riserverei queste
possibilità a veri casi di necessità; per una prova non mi sento di fare di più».
Abbiamo tutti approvato e decretato finito l’esperimento, che ha mostrato che
un aereo della stazza dell’Otter può in effetti operare su superfici veramente
brutte, ove mai sogneremmo di posare uno dei nostri idrovolanti leggeri.
La palma dell’utilizzabilità su superfici molto mosse non ce l’hanno tuttavia
gli aerei “scarponati”, ovvero dotati di galleggianti, ma quelli a scafo. Il Grum-
man Mallard è certificato per onde di 75 cm, ma può operare in condizioni
anche più estreme, in mano a un conoscitore. L’Albatross opera su onde di due
metri, come il Canadair. Lo Shin Meiwa, giapponese, può operare su onde
anche più alte, grazie a specialissimi dispositivi, tra cui una quinta turbina che
tiene i filetti fluidi aderenti all’ala a velocità bassissime, alle quali l’aereo
avrebbe, senza di essa, già stallato.
Il vantaggio degli aerei a scafo non risiede tuttavia solo nella possibilità di
decollare e ammarare su onde particolarmente alte, bensì di poter poi operare
sulla superficie a bassa velocità senza rischiare di cappottarsi, come può avve-
nire invece facilmente per gli aerei con galleggianti (che hanno un baricentro
molto più alto). Inoltre, per la loro compattezza, sono più solidi degli aerei
con galleggianti di pari stazza. Ma ogni tipo ha i suoi vantaggi e svantaggi.
Per finire questo breve capitoletto sull’America, non si può non ricordare
come l’aviazione - parliamo ora dell’aviazione in generale e quindi anche di
quella “terrestre” - sia importante e diffusa in quel continente. Ogni villagget-
to ha il suo aeroporto, la sua scuola di volo, la sua piccola compagnia che fa
ogni sorta di lavoro aereo e trasporto. Squadriglie di aerei speciali scrivono

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Avventure di volo

frasi nel cielo con scie di fumo. Ovunque vi sia un aereo si è accolti come re e
si può volare con la massima facilità. Tanto è difficile farsi dare un idrovolan-
te, tanto è facile farsi dare un aereo “terrestre”. Ognuno degli oltre 20.000
aeroporti degli Stati Uniti fa di tutto per attirare visitatori da terra e dal cielo.
Per un pilota l’America è dunque come la Mecca per un mussulmano: biso-
gna andarci almeno una volta nella vita.

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Avventure di volo

Tre uomini in barca


Con un Lake alle Bahamas, qualcosa di molto vicino al paradiso.
Questo testo è uscito sul numero di aprile 2004 della rivista “Volare”.

Nell’immaginario di ogni pilota di idrovolante sono stabilmente scolpite due


visioni di eccezionale valore emotivo: una è quella di un idrovolante ancorato
in un laghetto sperduto dell’Alaska, con i piloti che maneggiano canne da
pesca e stivano trote giganti, l’altra è dello stesso idrovolante con il muso o gli
“scarponi” delicatamente appoggiati a una spiaggia di sabbia finissima, con le
palme che quasi gli fanno ombra, le onde che si frangono sulla barriera coral-
lina appena al largo e un cielo azzurro punteggiato da nuvolette che fa da
sfondo. Questa avventura, che si richiama alla seconda visione descritta, si è
svolta in quella specie di paradiso terrestre che sono le Bahamas.
È bello avere un amico. In questo caso si tratta di Tom Frist, di Nashville.
Tom ha incominciato a volare a 16 anni su un vecchio Stinson e ora, tra le
varie sue attività, gira il mondo ai comandi di un Citation Encore. Proprio con
questo aereo, nell’estate del 2003, Tom capita in Italia ed è venuto a trovarci a
Como. La ragione è semplice: è un pilota di Lake e ha da poco saputo che a
Como c’è una base di idrovolanti e che è appena stato acquisito un Lake.
Dunque Tom può volare con il nostro Lake nella regione dei laghi prealpini.
Desiderosi di mostrargli quanto siamo esperti in un uso estensivo dell’idrovo-
lante, lo andiamo a prendere con il nostro Renegade sulla spiaggia dell’alber-
go Villa Serbelloni di Bellagio in cui è alloggiato e poi via a scoprire le
bellezze dei laghi e della nostra architettura e a mangiare in ristorantini sulle
rive. Tom, in quanto esperto pilota di Lake e in possesso di regolare convalida
italiana, pilota il nostro I-AQUA in qualità di PIC, pilot in command.
Alla vigilia del ritorno a casa, una proposta. «Ragazzi, visto che verrete
all’incontro annuale del Lake Amphibian Flyers Club, in Florida, a cui parte-
cipo anch’io tutti gli anni, perché non venite qualche giorno prima e ce ne
andiamo tutti insieme con il mio Lake a girare un po’ per le Bahamas?» Una
vera proposta indecente, alla quale sarebbe stato difficile dire di no.
È così che all’inizio di febbraio ci ritroviamo - lo scrivente ed Enzo Schetti-
no - in volo per Atlanta e Nashville, con la Delta. Arriviamo in pieno inverno,
con una temperatura prossima allo zero e nevischio.

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Avventure di volo

Qui, per passare la prima mattina di permanenza negli USA, facciamo un


giretto per i laghi del Tennessee con il Lake, come piccolo assaggio dell’av-
ventura che ci apprestiamo ad affrontare. Ma il tempo peggiora. Tom decide
dunque per un trasferimento in Florida con l’Encore, a raggiungere il suo
secondo Lake Renegade, che tiene a Winter Haven per ogni evenienza. Quan-
do si è organizzati le difficoltà si superano in un batter d’occhio.
Giungiamo così a Winter Haven, ove la settimana successiva si svolgerà
l’incontro annuale dei piloti di Lake, ma anche sede della Jack’s Brown Sea-
plane Base e di una delle quattro officine specializzate in Lake degli Stati
Uniti, gestita da Paul Furnée (14.000 ore di volo su Lake). Lì vicino si trova
Lakeland, sede dell’annuale rinomato “Sun & Fun” e della Seaplane Pilots
Association, e Bartow, sede di un’altra officina specializzata in Lake, gestita
da Harry Shannon. Volando sugli innumerevoli laghi dell’area si vedono qua e
là idrovolanti di diverso tipo sulle rive o sugli scivoli di ville private. Siamo
dunque in una vera “cittadella” del volo idro, in un vero seaplane district.
Preso in mano il Lake in sosta all’aeroporto di Winter Haven, volgiamo la
prua a est, passiamo il VOR di Vero Beach e dirigiamo verso la più vicina
delle Bahamas, all’estremo nord dell’arcipelago, Walker’s Cay. Il Lake è do-
tato di GPS e autopilota e la navigazione si svolge serenamente nel bel tempo
estivo, caldo e secco, tipico del febbraio in Florida.
L’isola appare fin da lontano tagliata per tutta la sua lunghezza da un “pisto-
ne”, su cui atterriamo dopo avere fatto un paio di 360. Ciò non tanto per
identificare la direzione del vento, che l’inesistente servizio di traffico non
può dare, ma che il pilota idro desume facilmente dallo stato del mare, bensì
per poter osservare nei dettagli come natura e opera umana bene si fondano in
questa gemma emergente dall’Oceano Atlantico.
È inequivocabile che la pista abbia un forte impatto sulla minuscola isola,
ma è anche intuibile che senza la sua presenza l’isola non avrebbe l’economia
che ha. Walker’s Cay possiede comunque tutti gli elementi che servono per
godersi la vita: un aeroporto, un attrezzato porto turistico, un resort, ristoranti,
una bella tipica spiaggia dei Caraibi ornata di palme e un mare attorno di
notevolissimo interesse. Ci si può far portare in barca o andare in idrovolante
verso le “basse” che si trovano nelle miglia di mare intorno all’isola a fare
immersioni o snorkeling o a pescare.
La pista, dal cortissimo finale, appare molto diversa da come la si vedeva da
lontano e nel patchwork di mille e mille chiazze di asfalto e cemento che la
tappezza non è difficile immaginare quali “tasselli” risalgono all’ultima guer-
ra mondiale. È proprio il tipo di pista che non spaventa un pilota di Lake,
aereo dalle spiccate caratteristiche stol e con carrello sovradimensionato.
Parcheggiato l’aereo, vediamo invece subito un Piper Malibu nella posa di
un sinistro inchino, avendo il carrello anteriore spezzato. Il giorno dopo sapre-
mo che un altro aereo, giunto appena più tardi noi, ha danneggiato un carrello
in atterraggio. Lake, Lake... quanto ci piace il tuo carrello!

75
Avventure di volo

Sbrogliate le velocissime formalità nella stazioncina doganale bahamense,


ove le gentili signore in divisa sono felici di accogliere i turisti con il loro
aereo, andiamo subito in albergo a metterci in costume, ansiosi di buttarci al
più presto in mare, con il Sole che ormai lambisce l’orizzonte. Questo bisogno
è sentito da noi due oriundi dall’Italia, in quanto l’amico Tom è stato di
recente ai tropici e preferisce dedicarsi alla sistemazione in albergo.
La parte dell’isola in cui ci troviamo in realtà non ha spiagge, ma rive
boscose e scoscese che si gettano in mare. «Non importa - dico - il mare è il
mare; arriviamo alla riva e ci buttiamo.» Qui viene il bello: stiamo facendo gli
ultimi passi quando, una decina di metri al largo, si stagliano sul fondo due
sagome inconfondibili. Restiamo a bocca aperta. Mai visti così vicini alla
riva: due squali, uno sui 4-5 metri. Non c’è bisogno di spiegazioni. Ci riavvia-
mo pensierosi verso l’albergo. Il giorno dopo, ritornati all’aeroporto, vedremo
appeso a una delle baracche-dogana un cartello che annuncia la presenza delle
magnifiche bestie nelle acque intorno all’isola.
L’albergo è molto caratteristico, ovvero un po’ fané e vecchiotto, ma con
un’atmosfera. Salone con pareti di legno spoglie, a cui sono appesi barracuda
e tonni imbalsamati, vecchi lupi di mare o sedicenti tali seduti sugli sgabelli
del bar a bere birra e liquori dagli strani colori. Nulla è sicuramente cambiato
da tempi in cui a Hemingway piaceva andare pescare il pesce spada in questi
mari. La sera si mangia pesce a volontà.
La mattina ripartiamo, ma nel modo più appropriato per un idrovolante. Il
parcheggio dell’aeroporto termina con uno scivolo che si immette nel porto,
usato per molti anni dai Grumman della Chalk’s. Lì scendiamo, flottiamo per
qualche minuto e decolliamo infine al largo della lunga spiaggia sabbiosa.
Tom è molto democratico e gentile. Dunque ognuno dei tre piloti a bordo fa
una tratta a turno come pilota, seduto a sinistra, e governa completamente il
volo che sta conducendo. Nel decollo dalle acque di Walker’s Cay sono io ai
comandi. È una bella sensazione essere a 5000 miglia da dove si opera nor-
malmente, in un ambiente mai visto prima, ma trovarsi perfettamente “a casa”:
su uno specchio d’acqua e con la manetta di un Lake in mano.
Decollati felicemente su un’onda altina, ma corta, quindi affrontabilissima
dal Lake, facciamo rotta lungo la catena di isolette dell’arcipelago delle Aba-
co, raggiungendo l’isola più grande, Great Abaco Island, e andando a sorvola-
re un’altra catena di isole che fa da cornice all’isola maggiore.
Una di queste ci piace, per la sua lunga spiaggia ad arco e per il fatto di
essere disabitata. Siamo su idrovolante: nessun problema ad ammarare, ad
avvicinarci alla riva, a fare delicatamente incagliare l’aereo sul basso fondale
e a proseguire a piedi nell’acqua bassa fino a riva, ove - novelli Robinson - ci
attende una mezzoretta di esplorazione della nostra isola deserta, un lungo
bagno e un po’ di raccolta di conchiglie.
L’aereo che poggia un poco sul fondo sabbioso può essere facilmente ruota-
to verso il largo, per la partenza, e trascinato sul fondo delicatamente, con

76
Avventure di volo

un’ottantina dei 250 HP posseduti, fino a raggiungere acque più profonde, da


cui si dà la piena potenza per il decollo.
Una piccola parentesi. Salvo che a Nassau e in un paio di altri grossi aero-
porti, alle Bahamas si vola in regime di autoinformazione, usando la frequen-
za UNICOM 122.80. Su quella frequenza si annuncia il proprio arrivo su un
aeroporto e si fanno tutte le classiche comunicazioni in circuito.
Sorvolando una delle isolette abitate successive a quella in cui abbiamo
fatto sosta, a un certo punto dalla radio esce una voce: «Lake overflying Great
Turtle Cay...». Rispondiamo. Ci spiega che sta sull’isola, con il suo Lake, e ci
invita a scendere per bere qualcosa. Avendoci in vista, ci dà una serie di
indicazioni di prua per raggiungere la “sua” baia. Procediamo dunque in que-
sto GCA improvvisato, finché vediamo, parcheggiato nella foresta di palme,
ben mimetizzato, un Lake (ci eravamo volati sopra, ma non lo avevamo visto).
Ammariamo, lasciamo l’aereo sulla spiaggia e siamo accolti da un gentile
signore canadese, che ha una casa lì e che si sposta, con la moglie, pure pilota,
tra l’isoletta e Toronto, con il Lake Buccaneer che abbiamo visto parcheggia-
to. Si chiacchiera per un’oretta, finché arriva il momento di ripartire. Tom va
al largo e dà motore verso l’isola, in modo da avere il vento in prua, in un’ardi-
to decollo che mostra tutte le doti stol del Lake, anche a quasi pieno carico.
Doti stol accentuate dalla presenza, sullo specifico aereo che stiamo usando,
dei generatori di vortici.
Si passa su Elbow Cay, resa particolarmente graziosa dal primo insediamen-
to umano degno di questo nome visto fino a quel momento. Abituati a volare
in una delle aree più inurbate del mondo, la Lombardia, ove i bei laghi sono
letteralmente ricoperti da grappoli di vecchie case e punteggiati da ville, sia-
mo un po’ ubriacati da tutta questa natura selvaggia e la vista di un villaggetto
con belle casette in legno in tipico stile del New England, una chiesa, qualche
strada e qualche mezzo di trasporto ci offre una sensazione di familiarità.
Bene, è ora di pranzo. Ammariamo dunque nella baia che fa da imbocco al
porto, lasciamo l’aereo ormeggiato sommariamente a una boetta e andiamo a
riva “a guado” nell’acqua bassa. Ci arriviamo proprio di fronte a una casa sul
cui patio tre distintissime signore stanno mollemente sorseggiando una bibita.
Tom, persona estremamente affabile e aperta al contatto con il prossimo, ca-
ratteristica che ha reso il nostro viaggio particolarmente piacevole, stabilisce
subito il contatto. «Really an unusual means of transport to get here». Sono
inglesi, una è la padrona di casa, le altre sue amiche. Conoscono benissimo
Como; sono state tante volte a Villa d’Este.
L’idrovolante, al di là della possibilità di muoversi, è un potente mezzo per
stabilire interessanti relazioni. Dopo una ventina di minuti di amene discus-
sioni con le signore e un buon pranzetto nel ristorante del porto, ridecolliamo
per il più grosso aeroporto della zona, Marsh Harbour, che si trova a 5 minuti
di volo, sulla grande Great Abaco Island, per fare benzina e qualche controllo.
Quando si sta molto in acqua, come nel nostro caso, si deve sapere esatta-

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Avventure di volo

mente se l’idrovolante usato è stagno o se vi sono compartimenti che perdono


(pena il vedere l’aereo affondato al ritorno dal pranzo). Dunque a ogni occa-
sione apriamo i tappi di ciascuno dei 7 compartimenti del Lake e monitoriamo
accuratamente la quantità di acqua che ne esce. Nel nostro caso siamo molto
soddisfatti: solo un paio di compartimenti fanno qualche litro d’acqua dopo
molte ore di parcheggio in acqua e parecchi decolli e ammaraggi.
Un altro problema è quello del sale. È vero che ogni singolo pezzo del Lake
ha subito due diversi trattamenti anticorrosione prima dell’assemblaggio, ma
il sale è un cancro di cui è difficile liberarsi. Dunque l’aereo va lavato a fondo
ad ogni occasione. Quando si ha a disposizione un bacino di acqua dolce, lo si
tuffa dentro facendolo sguazzare e flottando in modo “sporco” con carrello su,
con carrello giù, in tutti gli assetti. Con il carrello giù si dà tutto motore
facendo sì che il muso si immerga e un’onda ricopra completamente la fuso-
liera. Questa particolare manovra, che è possibile solo se tutte le guarnizioni
dei portelli tengono bene, la potremo fare solo al ritorno in Florida.
Ridecollati, ci spostiamo nell’arcipelago delle Berry Islands. Facciamo so-
sta a Great Harbour Cay e a Chub Cay, località ove alterniamo decolli e
ammaraggi in belle baie e canali tra un’isola e l’altra, proprio per il piacere di
compiere operazioni in acqua in quello stupendo scenario, a decolli e atterrag-
gi su rudimentali piste.
La sera andiamo nella metropoli e capitale delle Bahamas, Nassau, sull’iso-
la di New Providence. Notevole città, offre a chi lo desidera la possibilità di
stare nello strabiliante Atlantis, un complesso alberghiero-ricreativo costato
agli investitori sudafricani molti miliardi di dollari. Qui si passa da faraonici
atri ad ambienti di ampiezza mai vista, a una città sottomarina, in cui ci muove
lungo canali trasparenti circondati dalle acque e da innumerevoli pesci esotici,
al casinò, al lussuosissimo albergo.
Abbiamo un bel ricordo di Nassau, per gli aspetti aeronautici. Area traffica-
ta, in avvicinamento siamo seguiti da una gentile e calma signora che assegna
un nuovo codice transponder ogni 20-30 secondi e governa un traffico intenso
quasi senza smettere di parlare. La ripetizione dei messaggi la infastidisce se
non è la minima indispensabile, perché consuma tempo prezioso. Per non
farci perdere tempo ci indica ogni mezzo minuto prue progressivamente con-
vergenti al finale, che ci portano a seguire un aereo di linea, ma senza fare
perdere troppo tempo all’aereo in finale che segue. Lo stesso fa con altri aerei.
Proprio come scendere alla Malpensa...
Il giorno seguente lasciamo Nassau e continuiamo il nostro island hopping
lungo le isole di Eleuthera e Cat, vivendo interessanti avventure simili a quelle
già descritte.
Possiamo, in queste intense giornate di voli, toccare con mano le possibilità
offerte dall’idrovolante, soprattutto quando si opera presso isole. Anche in un
mare molto mosso c’è sempre uno specchio d’acqua adiacente a una parte di
un’isola ove è possibile il decollo e l’ammaraggio. In questo tipo di arcipela-

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Avventure di volo

go, poi, le catene di isole e le barriere coralline rappresentano uno spartiacque


tra il vero oceano, in cui le operazioni sono sovente alla portata, tra gli idrovo-
lanti, del solo Shin Meiwa, e le acque protette, in cui anche gli idrovolanti
leggeri possono operare in sicurezza.
La sera approdiamo a Hawk Nest, una sconnessa striscia di asfalto fatta per
accogliere gli ospiti del resort che sta a fianco. Qui l’atmosfera è speciale. In
un posto sperduto, lontano da tutto, la quindicina di ospiti si trova alle 19 per
la cena. Menu uguale per tutti, ottimo, e tanti discorsi. Ciascuno è venuto con
il suo aereo dai posti più disparati degli Stati Uniti. Noi siamo l’unico idrovo-
lante, ma il pilota di un Bonanza ha anche un idrovolante. Sta sul Lago Supe-
riore, vicino a Oshkosh e ci invita ad andarlo a trovare e a stare a casa sua per
la prossima manifestazione.
L’ultima giornata piena nell’arcipelago la passiamo visitando la parte nord
di Long Island. Qui si trova il grande complesso Stella Maris, con il suo
aeroporto e, poco a nord, l’aeroporto di Cape Santa Maria. «Come mai quel
nome?» chiediamo. Apprendiamo che sull’isola ha approdato Cristoforo Co-
lombo con la nave che oggi dà il nome al capo. Dopo il decollo facciamo un
piccolo pellegrinaggio intorno al sito dalla quota di poche centinaia di piedi,
fotografando il cippo che ricorda lo storico sbarco.
Attraversando un breve braccio di mare giungiamo alle Exuma, un’intermi-
nabile teoria di isole che percorriamo per intero da sud a nord. La prima è
Great Exuma Island, seguita da decine e decine di isolette, su molte delle quali
ci sono piccoli aeroporti, sovente semplici strisce di terra battuta. Una, priva-
ta, qualificata come “stol” nella nostra Bahamas Pilot’s Guide, è lunga la
bellezza di 1200 x 40 ft, pari a 362 x 13 metri. La guida indica: “Sand and
coral, poor condition. Rough surface, very sandy, narrow at east end, small
rocks and depressions, badly overgrown. Hazardous”. È certo che non sono
molti gli aerei, così come non sono molti i piloti che vi possono operare.
Dopo avere raggiunto l’aeroporto di Norman’s Cay, ove ci siamo fermati per
il pranzo, ridecolliamo per andare ad ammarare due minuti dopo nella baia,
proprio vicino al relitto di un DC 3 semisommerso. In ambienti marini di
questo tipo non è facile valutare dall’alto la profondità del fondale. Tom ci
spiega che il colore rivela sia la profondità sia la presenza di coralli, che
ovviamente vanno assolutamente evitati, trattandosi di rocce aguzze che squar-
cerebbero lo scafo. Ammariamo dunque vicino al DC 3 e, scendendo dal
redan, “atterriamo” sul fondo. Per noi è una sensazione strana. Il fondo è
dunque più basso del pescaggio dell’aereo. Come ridecollare? Se l’aereo co-
munque galleggia un po’ e se il fondo è sabbioso non ci sono molti problemi:
si dà tutto motore, l’aereo alza muso, avanza arando delicatamente il fondo
con la coda, infine sale sul redan e a questo punto, essendo sostenuto idrodina-
micamente con un pescaggio minimo, accelera e decolla. Molto interessante
per noi che veniamo da bacini (i laghi prealpini, il Mediterraneo) le cui coste
si gettano normalmente a precipizio verso il fondo.

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Avventure di volo

Lungo le Exuma siamo sorpassati da un Goose e voliamo affiancati a un


Maule idro. A terra, presso una corta striscia di terra battuta, vediamo un
Cessna Caravan anfibio e su una riva, vicino a una villa, un altro Maule idro.
L’idrovolante è in effetti il mezzo ideale per volare in questo ambiente.
L’ultima sera alle Bahamas la passiamo a Staniel Cay, un’isoletta con un bel
porto turistico e resort. Dopo la cena il suggestivo bar si popola di molta gente
locale e di persone che scendono dalle belle barche alla fonda. Alle pareti
molte fotografie del più famoso degli 007, Sean Connery, che in questo bar
passava le serate, con gli altri attori e attrici, tra una ripresa e l’altra di “Mis-
sione Tuono”, girato proprio in queste isole e su questi fondali marini.
Tra le fotografie, sulla parete, un radio aeronautica e una marittima, svol-
gendo il bar una blanda ma utile funzione di assistenza al volo e predisposi-
zione dei servizi a terra per i piloti di aerei e barche in arrivo.
L’atmosfera è affascinante, corroborata da musiche caraibiche moderne e
dalla presenza di un’umanità varia, cosmopolita e molto vivace. Conservo,
per il vivido ricordo di un esemplare di eccezione della nostra specie, eviden-
temente sceso da una barca ed entrato nel locale accompagnato da vari tipi di
sesso diverso. Nelle due ore successive, mentre sorseggiavamo dall’altra parte
del bancone un liquore locale e discorrevamo del più e del meno, abbiamo
potuto assistere a uno straordinario sviluppo di quel che inizialmente appariva
essere il rapporto della spigliatissima ragazza con uno dei tipi in un rapporto
prima a tre poi a quattro, fino a ridiventare a poco a poco un rapporto a due e
infine solo con se stessa, man mano che gli accompagnatori letteralmente
crollavano abbattuti dalle enormi quantità di alcool ingerite. Molto sobri ed
educati, seppure vivaci, i bahamiani, divertiti come noi dal curioso spettacolo.
La mattina seguente si respira proprio l’aria del ritorno. Un salto fino a
Nassau, a far benzina e dogana, e poi via in IFR, diretti a Fort Pierce, aeropor-
to di ingresso negli Stati Uniti. Nel volo a 8000 piedi, tra bianchi cumulotti, le
ultime isole delle Bahamas le sentiamo ormai ad anni luce di distanza. Quanto
è diverso questo volo dal saltellare tra una baia e l’altra senza superare mai la
quota di 200-300 piedi! Anche questo è il bello dell’idrovolante: il poter pas-
sare in pochi minuti dagli ambienti più estremi, ove ci si trova a tu per tu con
gli elementi naturali, al più tecnologico degli ambienti, in cui seguendo le
indicazioni di alcuni strumenti, si passa da un luogo all’altro della Terra senza
nemmeno sapere che cosa c’è sotto e sovente senza nemmeno vederlo.
Fatta dogana a Fort Pierce, dirigiamo su Winter Haven. È il primo giorno del
raduno dei piloti di Lake, organizzato dal Lake Amphibian Flyers Club.
Al termine del raduno l’avventura è finita. Dopo 10 giorni di istruttiva e
piacevole indigestione di volo e cultura idro, di interessanti relazioni e proget-
ti per il futuro saliamo sull’aereo che ci riporterà a Milano esausti e felici.
Nelle nostre menti abbiamo infissa un’immagine che porteremo con noi per
tutta la vita: tre uomini in una barca volante, diretti alla spiaggia di un’isola
deserta, in mezzo a un oceano.

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Avventure di volo

Unje
In quel momento l’unico anfibio che il Club può elargire è un Piper. Dunque,
con la mia consorte Roos, a 70 nodi di velocità, raggiungo Venezia e, in una
facile traversata dell’Adriatico, l’Istria.
Siamo in vacanza per una settimana. Dunque alterniamo brevi voli da un
aeroporto all’altro della Croazia al soggiorno in belle città, al noleggio di
motociclette, con cui partiamo a esplorare le coste e l’interno. È emozionante
vedere dall’alto le abbondanti vestigia romane, come l’anfiteatro di Pola.
Siamo colpiti dall’umanità fiera e rude di quelle zone e non facciamo fatica
a immaginare molte delle persone con cui entriamo in contatto, nella veste di
albergatori, tassisti o negozianti, con il mitra in mano o davanti alla propria
casa colpita da una bomba nella recente guerra di secessione dalla Yugoslavia.
È comunque gente perfettamente capace di “accalappiare” il turista in un
sistema di perfetta accoglienza, prezzi bassi ed elevato senso del servizio. Una
bella concorrenza per sistemi turistici più “maturi”, come quello italiano.
Volare in Croazia è semplice e bello. Pare proprio che il principio sia: l’im-
portante è che veniate qui a spendere i vostri soldi; state certi che noi autorità
aeronautiche porremo il minimo di impedimento a questa vostra attività.
Ciò lo verifichiamo facilmente girando l’intero paese con la nostra radio
pressoché in avaria, che viene sentita “1”, così come sento 1-2 e a tratti le
comunicazioni dei controllori. Supplisco facendo ogni volta un piano di volo
molto dettagliato e attenendomici in modo molto preciso. La speranza è che
non ci caccino via, cosa che in effetti si guardano bene dal fare.
Giunto a Lussino, scopro che nella vicina isola di Unje c’è un aeroporto.
L’isola è un affascinante piccolo mondo, non avendo alcuna infrastruttura
stradale. Dunque dopo l’atterraggio sulla striscia di terra possiamo solo anda-
re in giro a piedi lungo le coste e nella macchia mediterranea dell’interno.
Dopo aver passato la giornata nel bellissimo villaggio e a fare bagni nel
magnifico mare, torniamo all’aereo. Trovo sul finestrino un biglietto da visita,
che indica il nome del panettiere del villaggio, senza altra indicazione. Qual-
cosa mi dice che devo chiamare quel numero. Il panettiere si rivela essere
anche il gestore dell’aeroporto, gentilissima persona, a cui infine paghiamo la
modesta tassa aeroportuale.
Bellissima è anche Zara, tutta costruita in stile veneziano.

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Avventure di volo

Myconos
Avventure nel profondo Mediterraneo alla fine degli anni Ottanta.

Non capita spesso che ti offrano un sacco di soldi per andare a fare un giro di
decine di ore in aereo in luoghi bellissimi, a meno che tu non sia un operatore
di idrovolanti...
In questo caso un produttore sta realizzando a Myconos, nel Mare Egeo, uno
spot pubblicitario per la Nestlé giapponese. Un messaggio viene diramato in
Europa: serve un idrovolante. La sceneggiatura prevede infatti la presenza di
un idrovolante in tre scene, per un totale di una dozzina di secondi. La curiosa
richiesta raggiunge Guido Natali, un produttore di Milano che è anche pilota,
il quale ci contatta immediatamente. L’affare è fatto. A bordo, oltre al sotto-
scritto, ci sarà lo stesso Natali e Lanfranco Galli, destinato a diventare di lì a
poco pilota dell’Alitalia.
La prima scena ha come set la più bella villa privata dell’isola, l’unica che si
affaccia su una baia isolata. La villa è costruita su rocce rosse, come quelle
dell’Esterel, e in quelle che la separano dal mare è scavata una piscina, comu-
nicante con il mare. Sul bordo di questa piscina naturale i due protagonisti,
marito e moglie, accolgono la sorella di lei con il relativo marito. Come arri-
vano i due ospiti? Proprio con l’idrovolante, che è ritratto sullo sfondo della
scena dei saluti e abbracci, mentre si allontana.
La seconda scena prevede che l’idrovolante sia ripreso mentre vola molto
basso su meravigliosi fondali in cui il blu intenso delle acque è frammisto a
varie tonalità di verde della ricca vegetazione che sta appena sotto il pelo
dell’acqua. Per trovare i migliori fondali giriamo per molte ore lungo le rive
delle Cicladi: la stessa Myconos, Paro, Antiparo, Santorini e altre.
La scena è ripresa da un elicottero attrezzato in modo speciale, con una
struttura alla quale è appeso l’operatore, uno specialista in questo genere di
riprese fatto giungere dalla California. Dopo la prima giornata di riprese di
questa scena il regista decide di buttare via tutto. Le riprese non vanno bene.
La causa è attribuita al fatto che il pilota dell’elicottero dell’Olympic Airways
non parla inglese e non riesce a capire le esigenze del regista.
Il giorno seguente, licenziata l’Olympic, viene affittato un altro elicottero di
una compagnia privata di Atene, con pilota che parla inglese. Si rifà tutto e in
effetti, parlando tutti la stessa lingua, il coordinamento è perfetto e ne escono
riprese altamente soddisfacenti.

82
Avventure di volo

La terza scena contempla che l’idrovolante faccia un passaggio basso di


addio sulla villa, ove i protagonisti salutano festosamente. Il regista ha piacere
che il passaggio non sia di tipo “normale”, ma, trovandosi la villa a picco sulla
scogliera, “dal basso verso l’alto”, quasi che l’idrovolante “emerga dal nulla
all’improvviso, vicinissimo, proprio davanti all’immenso terrazzo”.
In uno dei voli effettuati per realizzare questa scena mi trovo un passeggero
inaspettato, ma molto VIP: il committente dello spot. Si tratta di un giappone-
se, magro, alto, con baffetti appena accennati, sulla quarantina, di pochissime
parole, che avrebbe potuto ben figurare come attore su un bombardiere in
picchiata nel film Tora Tora Tora. Ha voluto partecipare di persona all’intera
realizzazione dello spot, durata tre settimane, forse come forma di vacanza.
Quando me lo dicono, spiego che sarò felice di portare l’illustre passeggero in
un volo panoramico dopo le riprese o la mattina dopo (senza alcuna maggio-
razione di tariffa), ma che forse non è il caso che una persona non avvezza al
pilotaggio faccia da passeggero in un volo che prevede le seguenti manovre: si
va al largo sui 500 piedi, poi si picchia con la potenza quasi al massimo e la
lancetta dell’anemometro sulla tacca rossa verso la base della scogliera; si
richiama poi delicatamente mettendo l’aereo in una forte cabrata, durante la
quale si intravvede sfilare a grande velocità tutta la scogliera, la villa e forse
gli attori che salutano; si prosegue con la lancetta del variometro a fondo scala
e quella dell’anemometro che ruota velocemente verso la velocità di stallo;
una decina di nodi prima si mette l’aereo a coltello, lasciando che il muso
ridiscenda verso l’orizzonte e che l’aereo riacquisti la velocità più adatta al
volo senza sottoporre l’aereo a particolari sollecitazioni (i famosi “g” positivi
e negativi). Tutto bellissimo per noi piloti, ma non è detto che lo sia per un
comune passeggero.
Il giapponese è reso edotto di tutte le problematiche di questo volo, ma
conferma senza esitazione la sua volontà di parteciparvi. La tradizione di volo
italiana non è niente male, ma anche quella giapponese non è dammeno e
proprio questo pensiero deve aver influenzato la decisione dell’amico VIP,
forse anche memore di un’antica alleanza tra le due aviazioni militari.
Il volo si svolge poi come previsto, con la scena che viene provata e girata
cinque o sei volte. Il giapponese di fianco a me non ha mai battuto ciglio,
anche se in un paio di occasioni ho percepito un minimo di irrigidimento.
L’organizzazione comprende una quarantina di persone di dieci nazionalità
diverse, in un ambiente cosmopolita che rende gradevolissimo quell’inusuale
lavoro. Un altro aspetto interessante è quello gastronomico: mai fatto mangia-
te di pesce come in quell’occasione. Per non dire delle bevute.
Il lavoro è duro e lo si deve svolgere a tutte le ore. La scena nella baia, per
esempio, deve essere svolta poco dopo l’alba, per usufruire della tipica e
insostituibile luce di quei pochi minuti.
Tra le cose più interessanti del viaggio ricordo un lungo volo su Santorini,
l’isola del vulcano esploso circa 3700 anni fa, evento che ha dato origine al

83
Avventure di volo

mito di Atlantide. La città si stende sulle pendici del resto di cono vulcanico
sopravvissuto alla distruzione. Il ciglio della caldera ospita le ultime file di
casette bianche, alcune delle quali sono erette già al suo interno, aggrappate
alle ripide pareti. Vista da lontano, la scena appare come se una spuma bianca
fosse risalita sui fianchi del vulcano e abbia incominciato a riversarsi nella
caldera, solidificandosi in quel momento. Un volo “di cresta” a pochi metri
dal ciglio così curiosamente inurbato offre una visione unica e un’emozione
indicibile.
Quell’impresa ci ha lasciato un’eredità. Il Lake 250, all’origine in colore
mimetico marino, giunto a noi ridipinto in un colore blu scuro, è divenuto
infine bianco su richiesta del regista, per esigenze di scena, ed è poi rimasto
definitivamente di quel colore.
Un’altra eredità la abbiamo avuta nel settore della cultura meteorologica.
Nel viaggio di andata ci siamo trovati di fronte a un immenso e altissimo
cumulonembo, che poi si scoprirà avere avvolto l’intero Peloponneso. Per
evitarlo e aggirarlo abbiamo vagato pazientemente per qualche ora nell’Egeo,
raggiungendo anche Creta, a quote tra i 12.000 e i 14.000 piedi (autonomie e
quote rese possibili dalle eccezionali caratteristiche del Lake, che prudenzial-
mente avevamo ben rifornito). Ebbene, nel corso di queste peregrinazioni, ci
siamo trovati in varie occasioni vicini all’area più attiva. Ricordo di avere
visto a un certo punto uno spettacolo unico, mai visto prima e mai più visto
dopo: volando intorno ai 13.000 piedi, innumerevoli cumuli molto circoscritti
crescevano a velocità rapidissima verso l’alto, come enormi vermi che si erge-
vano dal terreno verso l’alta atmosfera. Lo spettacolo era grandioso, ma tale
da terrorizzarci, in quanto poteva farci prevedere che in pochi minuti sarem-
mo stati inclusi in quella selva di pericolose e “solide” ascendenze. Dopo un
attimo di sgomento, le mani di pilota e copilota ruotavano all’unisono il vo-
lantino fino a fare compiere all’aereo una virata di 90°, dirigendolo lontano
dall’area interessata da quegli inusuali fenomeni.
Un altro bel ricordo di quel viaggio è l’incontro a Corfù, al ritorno, di due
elicotteri Chinhook dell’aviazione britannica e in particolare del comandante
di quella spedizione.
Siamo nella piccola sala AIS-MET dell’aeroporto, chinati in due sulle carte,
con documenti di vario genere sparsi sul tavolo, intenti a pianificare la rotta di
ritorno. A un certo punto entra un militare in divisa operativa estiva, con
calzoni corti e calzettoni, distintissimo, due baffi all’insù, passo deciso e oc-
chio che dopo un battito di ciglia aveva già catalogato in ogni dettaglio tutto
quello che c’era da vedere nella stanza.
Si ferma mezzo secondo, ci guarda. «Good morning.» Rispondiamo a tono,
ma rimanendo più o meno stravaccati nelle posizioni tipiche “da pianificazio-
ne” in cui ci troviamo. Lui - lo abbiamo capito dopo - è uno di quelli che si
aspetta che quando dice “Buongiorno” tutti gli astanti siano già in piedi, in
una postura perfetta, e che rispondano in una frazione di secondo con un tono

84
Avventure di volo

adatto alle circostanze.


«Sono il maggiore tal dei tali, dell’aviazione di Sua Maestà; posso avere il
piacere di conoscere la vostra destinazione?». A quel punto strisciamo lieve-
mente verso l’alto, ma senza scattare (da perfetti comaschi, ci chiediamo: «In
fondo, chi è questo?»).
«Beh, veniamo dall’Egeo e stiamo tornando in Italia. Nell’Italia del Nord; a
Como.»
«Como, uno dei posti più belli del mondo. Fortunati. Mi permettete una
considerazione?»
A quel punto, a poco a poco, man mano che le parole del maggiore fluisco-
no, proiettando nelle nostre menti le immagini dell’Alec Guinness del Ponte
sul fiume Kwai e del David Niven de I due nemici, passiamo dalla postura
tipica dell’Homo abilis a quella dell’Homo erectus e finalmente a quella del-
l’Homo sapiens sapiens consapevole di vivere una complessa situazione so-
ciale e un alto livello di ritualizzazione dei comportamenti. Insomma, a quel
punto ci troviamo impettiti di fronte al militare a dichiararci onorati e felici di
qualunque cosa abbia la grazia e la benevolenza di comunicarci, facendo lievi,
ma percettibili segni di inchino con il capo.
Probabilmente soddisfatto di come la situazione comportamentale si è evo-
luta negli ultimi dieci secondi, il maggiore assume un atteggiamento decisa-
mente più cameratesco ed è venuto al dunque: «Ragazzi, noi veniamo proprio
dall’Italia. Voi certamente passerete lungo la costa orientale. Ieri sera proprio
lì ci siamo trovati nel tempo peggiore che mi ricordo negli ultimi vent’anni.
Pensate: ho dovuto atterrare in un prato per l’impossibilità di continuare,
anche con i miei elicotteri, dotati ogni ben di dio per la navigazione e il volo
strumentale. La situazione poi è migliorata, ma state attenti: c’è molta instabi-
lità. Controllate bene la meteo, andate avanti con circospezione e prevedete di
cambiare strada o di tornare indietro al volo, se necessario. Un aereo anfibio...
interessante. Siete proprio fortunati.»
È sempre bello avere un fratello maggiore.
Un altro ricordo di quel viaggio è molto sgradevole. Al ritorno, siamo a
Brindisi e stiamo pagando le tasse aeroportuali. Vicino a noi ci sono due
inglesi che viaggiano su un piccolo aereo. È venerdì; sono le cinque del pome-
riggio. Gli inglesi, alla presentazione del biglietto da parte dell’impiegato,
mettono sul banco un biglietto da 10 sterline. L’impiegato, a monosillabi
sbiascicati in cui prevale il fonema “no”, fa capire che non accetta le sterline.
Sul banco giunge una banconota da 10 dollari, valuta indubbiamente univer-
sale, ma non nel piccolo feudo di quella circoscrizione aeroportuale. Analoghi
monosillabi rifiutano dunque anche quella valuta. «Italialira. Only Italialira».
Gli inglesi non hanno lire italiane e presentano una carta di credito. «No
credicar. No credicar.»
A quel punto mi propongo come interprete e cerco di capire come la situa-
zione possa evolversi. Gli inglesi chiedono se in aeroporto vi sia una banca.

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Avventure di volo

«Sì, ma a quest’ora è chiusa.» Gli inglesi si chiedono allora se debbano andare


in taxi in città a cambiare. «Non c’è modo di cambiare valuta in città fino a
lunedì mattina.»
Prigionieri. Di una miope, ottusa, vessatoria, insulsa burocrazia. Chiedo che
cosa debbano pagare; si tratta di poche migliaia di lire. Il sistema dell’aviazio-
ne civile italiana di fatto priva persone della propria libertà individuale per
giorni per l’incapacità di gestire l’esazione di poche migliaia di lire. Solo
qualche regime totalmente illiberale che amministra male qualche paese del
Quarto Mondo fa lo stesso con cittadini inermi, che considera proprio posses-
so e alla propria completa mercé.
Coperti di vergogna di essere italiani, versiamo immediatamente la tassa
aeroportuale per gli inglesi. L’impiegato riscuote, ma solleva ulteriori proble-
mi sull’ora di partenza, che se non è quella che lui ritiene opportuna potrebbe
comportare un’ulteriore tassa e quindi un nuovo “fermo”, magari quando noi
ce ne siamo già andati.
A quel punto, in un impeto d’ira, per me rarissimo, perdo la pazienza: «Bene.
Adesso questi signori vengono via con noi e lei dà alla torre il benestare per il
decollo. Se ci sono obiezioni incominciamo ad andare subito, insieme, dal
direttore di questa circoscrizione aeroportuale. Vuole proprio far venir fuori
un caso nazionale? Vuole finire sui giornali?»
Il far sentire un vago odore di stampa e giornalisti ha un effetto dirompente,
forse accentuato dal fatto che il tizio si è reso conto che stava facendo una vera
bastardata.
Gli inglesi, con l’aria un po’ inebetita, in quanto si sono sentiti sballottati tra
forze sconosciute e più grandi di loro, ringraziano e decollano infine appena
prima di noi.
Ogni viaggio insegna molte cose e non si smette mai di imparare.

86
Avventure di volo

Rovaniemi
Un’avventura nell’estremo nord europeo.

Rovaniemi è la capitale della Lapponia, un luogo mitico e affascinante ai


confini geografici, etnici e culturali dell’Europa, meta del mio primo raid di
una certa importanza.
Partiamo in quattro, con il Lake LA4-200. Prima di spiccare il volo un’ope-
razione essenziale è la riduzione a un terzo del bagaglio portato da ciascuno.
Come un doganiere inflessibile, faccio aprire tutti i bagagli e ammucchiare sul
piazzale il contenuto, consentendo a ciascuno, me compreso, di portarne solo
una piccola parte.
Il problema principale - almeno così mi pare - si presenta nella prima mez-
zora di volo: l’attraversamento delle Alpi. La salita a 9500 piedi e lo scollinare
il Gottardo in una fosca, ma bella giornata di agosto non pone invece partico-
lari problemi, così che dopo una novantina di minuti giungiamo felicemente a
Stoccarda. Da lì a Rovaniemi il punto più alto raggiunge poche centinaia di
metri di quota. Insomma, è tutta pianura, una cosa del tutto inusuale per noi
alpino-comaschi.
Ecco all’opera la legge del contrappasso: nessun problema nella tratta diffi-
cile, le Alpi; grossi problemi nella tratta successiva, teoricamente facile, che
dovrebbe farci giungere ad Amburgo. Un tempo infame ci costringe a un certo
punto a scartabellare freneticamente il Bottlang (il portolano degli aviatori)
per trovare l’aeroporto più vicino in cui atterrare. È Mannheim.
Grazie al segnale di un VOR ci mettiamo su una rotta che dovrebbe portarci
proprio sopra Mannheim, ma il ceiling, ovvero la base delle nubi, è di soli
300-400 piedi e piove a catinelle. L’operatore dell’aeroporto, appena contatta-
to, illustra la pessima condizione del tempo, che è lo stesso in cui stiamo
volando, e ci consiglia, se possibile, di trasformare il piano di volo in strumen-
tale e andare a Francoforte.
Gli dico subito che non mi è possibile e che la mia missione, in quel mo-
mento, è raggiungere proprio l’aeroporto di Mannheim. Non gli dico che
l’alternativa è atterrare nel primo prato o spiazzo che trovo sulla rotta. Lui
capisce al volo che non sono abilitato al volo strumentale e che l’aereo che
conduco è un aereo leggero. Si fa in quattro per darmi ogni informazione utile.

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Avventure di volo

Mi consiglia la migliore rotta di avvicinamento e mi mette in guardia su ogni


ostacolo che posso trovare sulla rotta, in particolare su una serie di ciminiere,
a sud dell’aeroporto.
Dopo pochi minuti vedo la prima, di cui conservo un ricordo indelebile: un
cilindro che si innalza da suolo e si ficca in uno strato netto di nubi. Dopo una
gimkana, accuratamente guidata dal capace operatore, tra le successive cimi-
niere arrivo all’aeroporto e finalmente atterro. Bene, siamo salvi.
Dopo l’atterraggio vado in torre a ringraziare per l’assistenza l’operatore e
penso a quanti incidenti non sarebbero avvenuti se le torri di controllo avesse-
ro ospitato persone come quella che mi trovo davanti (certamente l’incidente
dell’Alitalia a Berna o la collisione in volo dell’aereo di linea russo con quello
della DHL, sempre in Svizzera, per fare solo due esempi).
La mattina dopo leggiamo sul giornale locale che il tempo del giorno prima
e l’attuale è il peggiore dal 1852. Da un lato ci consideriamo sfortunati, ma
dall’altro fortunati: ci siamo trovati in mezzo, ma abbiamo trovato la via di
scampo e ora siamo al sicuro, a terra. A Mannheim stiamo tre giorni della
nostra vacanza in attesa di un tempo adatto a proseguire il viaggio. Esauriti i
musei, lo zoo e i parchi, ci buttiamo sui giochi di carte. Il giorno successivo
avremmo certamente acquistato un Monopoli (chissà il “Parco della Vittoria”
come si chiama in tedesco?).
Mannheim è un aeroporto piccolo, con una pista di 800 metri. La prospetti-
va di decollare a pieno carico, in estate, in quelle condizioni non mi dà una
bella sensazione. In un eccesso di prudenza spedisco dunque due passeggeri
in treno alla vicina Francoforte, dove li raccatterò, per decollare da una bella
pista di 4 chilometri.
L’arrivo ad Amburgo, bellissima città vista dall’alto, con il suo immenso
porto (mi sono immedesimato nei piloti dei bombardieri alleati durante la
seconda guerra mondiale), è stato però veramente indisponente.
Il controllore - magari fosse stato quello di Mannheim! - mi dà subito un’in-
dicazione incomprensibile: “You are cleared two four”. Nella sua testolina
bacata lui mi autorizzava ad atterrare sulla pista 04, ovvero intendeva il mes-
saggio come “You are cleared to four”, usando una fraseologia non standard,
perché avrebbe dovuto dire “You are cleared to zero four”. A quel punto mi
sono messo a scartabellare il Bottlang per capire dove diavolo fosse la pista
two four, ovvero la 24.
Nulla può essere più pericoloso di un aereo leggero su un grande aeroporto
che brancola in cerca una pista che non esiste.
Un sesto senso mi dice che è meglio che, nella posizione del momento, che
non è sul prolungamento dell’asse di alcuna delle piste, faccia un 360 conti-
nuo e molto stretto, in attesa di ulteriori delucidazioni.
Quell’imbecille di controllore, a cui chiedo di specificarmi meglio la pista
in uso, mi ripete due o tre volte, quasi spazientito, il messaggio precedente,
perseverando nell’uso di una fraseologia non standard. Finalmente, conti-

88
Avventure di volo

nuando a ruotare intorno al punto in cui mi trovavo in un interminabile 360 e


dopo aver ben studiato tutto il Bottlang ove compare la parola “Hamburg”,
intuisco il possibile inghippo e gli chiedo “Do you mean I am cleared to
runway zero four?” Ma certo, mi risponde lui, senza nemmeno capire che il
suo comportamento e il suo modo di parlare e comunicare è destinato a provo-
care presto un grave incidente.
Ma l’avventura continua. Atterrati, ci dobbiamo orientare nella giungla dei
raccordi di un grande aeroporto, dotato di varie piste. A un certo punto mi
trovo davanti ai segni che, per terra, indicano inequivocabilmente la presenza
di una pista. Istintivamente pigio sui freni. “Sono autorizzato ad attraversare
la pista tal dei tali?” chiedo. “Siete autorizzati.” Io ho qualche dubbio, veden-
do vari aerei di linea che rullano nelle vicinanze e mi attardo un po’. Dopo una
ventina di secondi vedo un bel 727 sfrecciare sulla pista a tutto motore e
passarmi davanti. Ironicamente dico “I-AIIA roger, will cross the runway after
the 727 take off.” Dopo un po’ di secondi sento una vocina che dice
“I-IA Correct”.
Da quel giorno pianifico tutti i miei viaggi aerei in modo che tocchino il più
possibile piccoli aeroporti o - meglio ancora, disponendo di sontuosi idrovo-
lanti, sontuosi da un punto di vista della sicurezza - in modo che tocchino solo
bracci di mare, laghi e fiumi.
Il resto del viaggio di andata ci farà conoscere Copenhagen, Stoccolma e
varie città della Finlandia, in ciascuna delle quali ci fermiamo per vari giorni.
Non possiamo che avere un bel ricordo della burocrazia svedese. Per circo-
lare in VFR in Svezia bisogna pagare una tassa una tantum per il controllo del
traffico aereo. Con artifizi tipicamente italiani, non la pago al primo aeroporto
da noi toccato. Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, come si sa. Al
secondo aeroporto una gentilissima signora, non giovanissima, ma molto, molto
avvenente, mi fa notare che sto viaggiando senza avere pagato la tassa previ-
sta e mi chiede se ho piacere di pagarla. Ovviamente mi dichiaro dispostissi-
mo a farlo e, facendo il finto tonto (come si dice a Como “fa ’l stupid per
minga pagà ’l dazi”), in un estremo, ormai disperato tentativo di non pagare,
chiedo come mai non me l’abbiano fatta pagare all’aeroporto precedente. Lei
mi spiega, con un’affettuosa condiscendenza, che dichiara maliziosamente di
riservare solo agli italiani, comportandosi invece con gli altri come una severa
istitutrice (potenza della latinità!), che quando si erano accorti che non ero in
regola ero già in pista per decollare e che loro non fermano mai un volo per
ragioni amministrative e che preferiscono perdere una tassa o affrontare i
problemi di farla pagare in un altro aeroporto piuttosto che provocare all’uten-
te i disagi di un’interruzione di un volo. Che lezione!
Mi vengono in mente gli impiegati di aeroporto italiani, che fermerebbero
un jumbo che ha già dato tutto motore per due euro. Me ne ricordo uno, in
particolare, in un trafficato aeroporto del Centro Italia, responsabile dell’an-
notazione dei movimenti, finalizzati all’esazione della tassa. Già portava due

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Avventure di volo

paia di occhiali, uno per parlare con le persone e l’altro per scrivere; il terzo
paio, per così dire, era un binocolo, che alternava agli occhi, con velocissimi
movimenti, alle due paia di occhiali: un’occhiata fuori a uno degli aerei in
movimento sul piazzale, cambio con gli occhiali da lettura per annotare le
marche sul registro, cambio con gli altri occhiali per dare retta a noi; all’orec-
chio gli giunge un ronzio, inforca freneticamente il binocolo, che punta come
un set di mitragliatrici contraeree binate: «Quel bastardo, l’altra volta mi ha
fottuto, ma questa volta lo fotto io». E così via tutto il giorno.
Sempre in Svezia abbiamo acquistato in un negozio di materiale aeronauti-
co un portolano di tutte le basi idro della Scandinavia. Non avendo moneta
locale e non funzionando occasionalmente la mia carta di credito, il titolare
non ha avuto la minima esitazione: «Per carità, tenete la pubblicazione, che vi
serve proprio con il vostro idrovolante. Quando sarete tornati a casa, fatemi
con comodo un bonifico bancario.» Altra lezione. Là funziona tutto così.
Della Finlandia conservo il ricordo degli aeroporti autostradali. Perché af-
frontare la spesa di un aeroporto quando il territorio è pervaso da superfici che
si possono usare come piste? È così che, qui e là, due chilometri di autostrada
sono un po’ più larghi del normale e chiusi da sbarre, come quelle dei passaggi
a livello, che si abbassano, bloccando il traffico, per quel paio di minuti che
servono a un aereo di linea per decollare o atterrare. A fianco, in luogo di una
stazione di rifornimento o un autogrill, si trova una completa aerostazione,
con torre di controllo, piazzale di parcheggio degli aerei e tutto il resto.
Così la Finlandia ha centinaia di aeroporti, ma anche di superfici adatte a un
atterraggio di emergenza. A volte basta un pizzico di genio per ottenere con
poco risultati clamorosi! È inutile dire che in Italia, il paese che ha sacralizza-
to - anzi, deificato - l’auto, contravvenendo a uno dei comandamenti originari
(“Non avrai altro dio al di fuori di me”), la brillante soluzione descritta non
potrebbe mai essere adottata.
Rovaniemi si rivela una bellissima cittadina “di frontiera”, ovvero oltre la
quale si stende solo una natura sterminata e perlopiù inospitale. Inoltre è la
capitale della Lapponia e offre molte possibilità di conoscere la storia e la
cultura dell’affascinate etnia dei Lapponi.
Il fatto che in pieno agosto la temperatura sia intorno allo zero e che siamo
bloccati per un giorno da una tempesta di neve rende la visita ancora più
affascinante. Conseguenza del clima è l’organizzazione degli alberghi. Cia-
scuno è strutturato per poter affrontare l’eventualità che rimanga letteralmen-
te sepolto sotto la neve e isolato. Ogni stanza è fornita di tutto ciò che serve
per affrontare una lunga prigionia, come se fosse un rifugio antiatomico.
Si prova una forte sensazione di intimità quando ci si trova al sicuro, tra
quelle mura amiche e tra quella gente oltremodo ospitale.
Il viaggio di ritorno avviene senza problemi fino alla Germania. Poi di
nuovo il maltempo. Il ceiling è bassissimo, di 300-500 piedi, ma individuo un
percorso lungo fiumi e canali - ricordo il Mittellandkanal - che ci consente di

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Avventure di volo

attraversare la Germania sempre su acqua, senza mai perdere la possibilità di


fare un ammaraggio di emergenza.
Il fatto che in un tempo impossibile un unico aereo leggero sia in volo
richiama l’attenzione dei comandi militari. Forse per un vero controllo, forse
per un’esercitazione, siamo a un certo punto circondati da sei o più caccia
dell’aeronautica tedesca, che, con tutti i flap fuori e alla minima velocità, ci
sorpassano lentamente. Passano a non più di una ventina di metri e ci studiano
per benino, probabilmente in seguito a un’indicazione dei radaristi di terra,
forse incapaci di interpretare la curiosa traccia radar determinata dal “motore
sopra”. A scanso di equivoci, sono pronto fin dal primo momento ad abbassa-
re il carrello (segno di resa) al primo cenno di atteggiamento ostile.
Dopo aver visto il nostro lento e goffo “anatroccolo” che procede a meno di
100 nodi, recante una bella “I” quale prima lettera della sigla e pilotato da
ragazzi dalla bella faccia pulita che fanno appariscenti cenni di saluto, se ne
vanno ricambiando i saluti e sorridendo. Forse è il primo Lake che vedono.
Al termine di quel lungo volo, dopo averne passate tante, compio il secondo
più grave errore della mia vita di pilota, descritto nel capitolo “Ne va della
vita”, un errore che per fortuna rimane senza conseguenze.
Dunque arriveremo a Como in treno, dopo aver lasciato l’aereo a Zurigo, ma
vivi e vegeti, il che non è per niente male.

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Avventure di volo

Oslo
Un interessante ferry flight
Guai agli aerei rumorosi e guai a chi li usa, soprattutto se opera nel centro di
una città. È così che il Cessna 185 che abbiamo acquistato lo abbiamo dovuto
prima fermare per sei mesi, poi mettere in vendita. Impossibile usarlo a Como.
Troppo rumoroso.
L’acquirente è un norvegese, che paga sull’unghia la cifra richiesta, ma
vuole che l’aereo gli sia consegnato a domicilio. Ottima occasione per fare un
bel viaggetto, per me e Giorgio Porta. Poco prima della partenza, chiede che
passiamo per Lienz a caricare un suo amico. Proprio nell’andare tra Malpensa
e la città austriaca mi capita l’avventura descritta nel capitolo “Per un pelo”.
Di questo viaggio sono degne di nota poche cose. La prima è un’ispezione
doganale di incredibile minuzia che abbiamo dovuto subire ad Alborg, in
Danimarca. Infine abbiamo compreso che tra i paesi scandinavi esiste un
accordo: non appena un aereo sospetto giunge nel primo aeroporto di uno dei
paesi, deve essere controllato a fondo. Ma perché sospetto? Un idrovolante è
già una cosa strana e quelle due enormi cose che ha lì sotto sembrano fatte
apposta per nascondervi qualcosa. In più è italiano ed è passato per l’Austria.
Tutte cose che non possono lasciare dormire sonni tranquilli a un doganiere
smaliziato.
Dopo avere smontato tutti i pannelli dei galleggianti, avere ispezionato ogni
centimetro quadrato della cabina, guardando anche dietro a tutte le pannella-
ture, e ispezionato i bagagli, ci lasciano andare.
È molto suggestivo giungere nel golfo di Oslo alle 11 di sera, volando
ancora nella luce diurna, in quell’eterno crepuscolo dell’estate boreale tipico
delle alte latitudini.
Il giorno successivo, rimasto solo, raggiungo l’aeroportino di destinazione,
a un’oretta di volo da Oslo. La pista è tagliata a metà da una strada di una certa
importanza. Quando un aereo deve decollare o atterrare si abbassano le sbarre
e il traffico stradale è interrotto, finché l’operazione aerea è conclusa. Per
questo, alla partenza da Oslo, mi dicono due o tre volte che non posso assolu-
tamente scendere in quell’aeroporto se non espressamente autorizzato dalla
torre di controllo. In caso contrario, potrei facilmente trovarmi davanti, nella
corsa di decelerazione, un’automobile.

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Avventure di volo

Già che mi tocca fare il viaggio, ho concordato con l’acquirente, che possie-
de un’azienda di trasporto pubblico con idrovolanti ed elicotteri, che mi sarei
fermato qualche giorno per prendere conoscenza delle operazioni da loro svolte.
Dunque posso partecipare come copilota occasionale a molte operazioni che
l’azienda svolge in quei giorni.
Tra le varie avventure, un bel trasporto di pacchi tra la base dell’idrovolante
e Oslo, un viaggetto breve, normalmente, ma da svolgere in condizioni di
tempo pessime: base delle nubi a poche centinaia di piedi, turbolenza molto
forte e precipitazioni di pioggia, nevischio e neve. Oslo, in quelle condizioni,
è raggiungibile solo circumnavigando a 300-400 piedi dalla superficie il lobo
sudoccidentale della penisola scandinava, quindi in più di tre ore di volo.
Il pilota sa che anch’io sono pilota, ma non mi conosce. È dunque in appren-
sione quando la turbolenza ci fa quasi picchiare la testa sul tetto del 206, ma la
mia totale noncuranza per quel tipo di evenienze - devo confessare, lievemen-
te ostentata, per fare capire di che stoffa sono i piloti italiani - lo tranqullizza.
Invece ci sono momenti di comprensibile apprensione, da parte sua, per la
navigazione. In sintesi, volando nel nevischio e seguendo coste frastagliate e
sequenze infinite di fiordi, capi e insenature, a un certo punto è umano che si
perda la cognizione esatta di dove ci si trovi esattamente.
Dal posto di fianco, non oberato dalle problematiche di conduzione del
mezzo, dotato di una magnifica carta su cui seguire il percorso, tutto è invece
molto più facile. Un’occhiata agli elementi del paesaggio così come si presen-
tano alla vista, un’occhiata alla bussola per “disporre” quegli elementi nel
giusto orientamento, un’occhiata alla carta per riconoscere su di essa gli stessi
elementi, un’ulteriore occhiata di controllo agli elementi del paesaggio e una
alla lancette dell’orologio e il gioco è fatto. In altri termini, in ogni istante sai,
con un buon livello di precisione, dove ti trovi. Ciò lo evidenzio, come fanno
sempre i piloti, tenendo la carta sempre accuratamente orientata con la dire-
zione che la prua dell’aereo ha in quel momento verso l’alto e tenendo il dito
pollice esattamente sulla posizione dell’aereo.
La cosa non sfugge al pilota, che fa la stessa cosa, ma in modo più incostan-
te, dovendo anche condurre l’aereo, cosa impegnativa, dovendosi cavare gli
occhi per essere certo di non finire contro il crinale di un fiordo, così che
confronta regolarmente la posizione del suo pollice con quella del mio.
Per inciso, il pilota norvegese, contrariamente a quanto si potrebbe immagi-
nare, non parla inglese. Nondimeno, la lingua dei navigatori che indicano il
punto-nave su una carta con il pollice è universale ed estremamente compren-
sibile, soprattutto in caso di bisogno. E per me è un piacere poter contrbuire in
modo fattivo allo svolgimento di quel volo.

Un visita... con sorpresa


A Oslo torno nel 2002, con i colleghi consiglieri Schettino e Camozzi e con il
fido specialista Danilo Pecora. Stiamo andando a caccia di Lake e in Norvegia

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Avventure di volo

ce n’è uno con sole 410 ore da nuovo, con motore ed elica a zero ore.
Il posto dove si trova, Sandefjord, è a un’ottantina di chilometri a sud di
Oslo, quasi sul mare. Il proprietario non ha l’abilitazione idro e non è mai
sceso in acqua con l’aereo. Ci accoglie molto gentilmente e - incredibile
sorpresa - mi dà le chiavi dell’aereo da provare a mio piacimento, senza voler
nemmeno salire a bordo. Non avrei mai pensato che ciò potesse succedere.
È bello poter pilotare un aereo che amo e dal quale il destino mi ha tenuto
separato per anni. Anzi, bellissimo.
Faccio due giri, uno con Schettino e Danilo, l’altro con Mario Camozzi. Né
Schettino né Camozzi conoscono il Lake, quindi i voli sono una specie di
dimostrazione, che permette a me di ripassare le manovre dopo anni di inatti-
vità sul modello e a loro di conoscere di che cosa è capace un Lake. Dopo il
decollo dirigo verso il mare e in un largo fiordo, circondato da paesini nordici
e belle residenze private, scelgo un’area per fare attività sull’acqua.
Proviamo ammaraggi di vario tipo, flottaggi in dislocamento e sul redan,
decolli circolari e ogni altra manovra significativa, che il Lake affronta bril-
lantemente. L’essere in tre a bordo con solo metà del serbatoio centrale pieno
conferisce al Lake un’esuberanza impressionante. La cosa che colpisce di più
il neofita è la brevità della corsa di decollo, ma soprattutto l’angolo di salita
dopo il distacco. Un’altro aspetto impressionante è come il Lake possa essere
strapazzato in discesa per farlo “precipitare” come un ferro da stiro, qualora
ve ne sia la necessità. Ciò che tuttavia lascia letteralmente a bocca aperta chi
ha fino a quel momento volato solo su aerei con galleggianti è la visibilità.
Volare su un Lake è come essere su un balcone proteso nel paesaggio.
Esito della visita: l’aereo è immacolato, lo scafo non ha fatto una goccia
d’acqua, motore e impianti sono nuovi, ma gli interni sono da rifare e il
cruscotto va completato con parecchi strumenti. Inoltre il prezzo è alto. Fini-
sce che decidiamo di non prenderlo, anche perché, al momento, il mercato
mondiale è fiacchissimo e si possono trovare aerei non proprio così immaco-
lati, ma a un prezzo inferiore. Infine prenderemo un Lake Renegade.

Ospiti graditissimi
Nella tarda primavera del 2004 una delegazione di norvegesi, accompagnata
da due svedesi, arriva a Como. Sono tutti piloti idro che hanno passato la loro
vita in compagnie aeree e in particolare alla SAS. Organizzatrice del viaggio è
Evelyn Bakken, ex assistente di cabina, pilota idro da molti anni, segretaria
della Seaplane Pilots Association norvegese.
Grazie ai nostri interventi su Internet e in particolare nel forum della Seapla-
ne Pilots Association, ha scoperto l’esistenza della base di Como ed è entrata
in contatto con noi. Dopo aver ricevuto il mio libro Seaplane Operations ne ha
richieste un centinaio di copie da distribuire nei paesi scandinavi.
Como le è piaciuta. Tornerà e noi andremo presto a trovarla in Norvegia con
i nostri idrovolanti. Proprio un bel rapporto, con una persona appassionata.

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Avventure di volo

Biscarrosse
Come tenere viva la tradizione del volo idro anche senza idrovolanti.

A Biscarrosse, in Francia, poco a sud di Bordeaux, c’è il Musée de l’Hydra-


viation, un museo interamente dedicato al volo idro. La sua nascita è da attri-
buire agli sforzi di una “lady di ferro”, madame Vié-Klaze, la “Tatcher degli
idrovolanti”, appassionata di storia dell’aviazione, grande estimatrice del grande
pilota francese Jean Mermoz e degli piloti francesi che hanno sfidato l’Atlan-
tico negli anni Trenta, tema su cui ha scritto un libro.
Biscarrosse non è un luogo ideale per mettere un museo, in quanto è poco
baricentrico e difficilmente raggiungibile. Perché, dunque, il museo del volo
idro proprio lì? Una ragione c’è. Un tempo, nel piccolo borgo, si trovava la
fabbrica dei Latécoère, che potevano fare i primi voli sul Lago di Biscarrosse.
Sui grandi idrovolanti prodotti da quella fabbrica, da poco prima a poco dopo
la seconda guerra mondiale, si erano riversate le speranze di fondare una rete
di trasporti aerei che tenesse uniti alla Francia i pezzi di un esteso impero
coloniale, comprendente da Saint-Pierre, al largo di Terranova, alla Nuova
Caledonia, alla Polinesia.
“Madame Vié”, grazie ai poderosi aiuti che il governo francese offre a chi
desidera impiantare un’impresa nel campo della cultura, è riuscita a creare,
presso l’antica sede della fabbrica, una struttura permanente che ormai vive e
prospera in modo perfettamente autonomo.
Il museo offre una visione grandiosa sulla storia del volo idro francese. E
offre anche l’opportunità di vedere molti film d’epoca e di consultare i volumi
di una ricca biblioteca.
Insomma, ogni pilota idro dovrebbe passare qualche giorno a Biscarrosse
come in una specie di ritiro spirituale, esaminando i pezzi del museo e passan-
do ore a sfogliare i libri della biblioteca. Lo scrivente l’ha fatto e ha imparato
moltissimo. Ma ricordiamo ora i viaggi fatti da noi comaschi a Biscarrosse.
Tutto nasce nell’estate del 1991 quando, girando in moto i Pirenei, ci spin-
giamo verso nord nelle Lande di Guascogna per andare a visitare il Museo
dell’aviazione idro di Biscarrosse. La visita è una bella sorpresa. Scopriamo
che una signora in pensione è riuscita, partendo dal nulla, non solo a ricostrui-
re una storia ormai dimenticata, ma anche a raccogliere un’enorme quantità di

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Avventure di volo

materiale. L’impressione è ancora più grande se pensiamo che noi piloti co-
maschi a quell’epoca siamo del tutto ignari della storia dell’aviazione nel
nostro stesso territorio, abbiamo pochissimi documenti sulla stessa e non ab-
biamo conservato alcun oggetto. Nei decenni precedenti i Caproni e i Macchi
- aerei di legno - che si danneggiavano, venivano fatti a pezzo e bruciati nelle
stufe del Club, per risparmiare in carbone.
Per contro a Biscarrosse vivono unicamente nella storia e addirittura non
sanno che in Europa vi sono alcuni idroscali e idrovolanti che solcano acque e
cieli. Non sanno dell’esistenza della base di Como, per esempio.
Eccomi dunque a proporre una specie di gemellaggio: «voi avete tanta sto-
ria, noi abbiamo tanti idrovolanti; perché non organizzare qualcosa qui, nel-
l’antica base Latécoère, con i nostri idrovolanti?». Madame Vié è una di quel-
le persone a cui una frase del genere attiva stimoli in un paio di miliardi di
sinapsi. In un secondo deve avere immaginato tutto quello che sarebbe suc-
cesso negli anni seguenti. Intanto ci ripromettiamo di organizzare un evento
sperimentale nell’autunno che sta per venire.
Madame ottiene in breve tutte le autorizzazioni, mentre a Como decidiamo
che andare a Biscarrosse con un anfibio è troppo facile. Per onorare la grande
tradizione idrovolantistica francese - e per divertirci di più - pensiamo di
andarci con due piccoli idrovolanti. Si tratta del Cessna 172 I-BISB e del
Piper I-CGAN. Gli equipaggi sono, sul primo, Baj-Confalonieri e sul secondo
i fratelli Gerolamo e Paolo Gavazzi.
Il volo è certamente il più complesso mai compiuto con idrovolanti di Como,
richiedendo una notevole organizzazione per i rifornimenti e la risoluzione di
problemi doganali (destinati a scomparire un decennio dopo, in seguito alla
firma del trattato di Schengen).
L’anno successivo, nel 1992, la manifestazione e raduno di idrovolanti sono
molto più strutturati e si svolgono tra il 18 e il 22 giugno. I comaschi vi
giungono con il Lake Renegade dell’Idrovoli. Presenti, in questa edizione ben
quattro aerei a scafo, tutti nati dalla mente progettuale di David Thurston: due
Lake Renegade (il nostro e quello del tedesco Helmuth Mayer), il Lake Buc-
caneer dell’inglese Bob Willis e il Thurston Teal dell’australiano Kenn Hee-
ley, residente in Inghilterra. Quest’ultima è la macchina più interessante del
raduno, non per le sue caratteristiche, che la rendono decisamente inferiore ai
Lake, ma per la sua rarità.
David Thurston è un leggendario progettista di idrovolanti che ha contribui-
to alla nascita di molti Grumman, del Lake, del Teal e più recentemente di
altre macchine anfibie a scafo.
Il Teal, dotato di motore Lycoming da 150 HP, può portare due persone più
una terza leggera nell’unico posto posteriore, trasversale, e ha fino a 7 ore di
autonomia. Un’occhiata rivela immediatamente l’intento del progettista: quello
di offrire una macchina semplice, economica e altamente affidabile.
Oggi rimangono nel mondo una quindicina di Teal volanti (uno non volante

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Avventure di volo

è esposto al museo di Biscarrosse), ma recentemente il business è stato rileva-


to dalla canadese Lake Central di Elton Townsend e possiamo dunque contare
in un suo rilancio.
Tra gli ultraleggeri c’è il Wheedhopper bimotore di Stephane Morosini,
basato normalmente a Juan Les Pins.
Una delle simpatiche iniziative prese dagli organizzatori del raduno è stata
la visita in massa - con 8 macchine, tra aerei e ULM - all’antica base di
idrovolanti di Hourtin, posta su un lago a nord di Bordeaux. Qui i piloti
militari imparavano i rudimenti del volo sull’acqua negli anni Venti e i vecchi
ancora raccontano interessanti episodi, come gli incidenti dovuti alla condi-
zione di specchio non riconosciuta o i ribaltamenti dovuti all’improvviso al-
zarsi del vento. Morale: con il passare dei decenni i problemi che deve affron-
tare il pilota idro sono sempre gli stessi.
Alcuni piloti formatisi a Hourtin sono ritornati nel vicino paese dopo essere
andati in pensione. Uno di essi racconta di quando, con gli Short Sunderland
battenti bandiera francese, nel dopoguerra, percorrevano su e giù i fiumi del-
l’Africa equatoriale, effettuando trasporti di ogni genere.
Alla manifestazione erano presenti molti membri dell’AFPH, l’associazio-
ne francese dei piloti di idrovolante, che sperano di volare presto su un Cessna
172 XP in via di approntamento, che dopo la perdita del Lake a Vichy è
l’unico idrovolante francese.
Dopo la manifestazione il ritorno lo facciamo in una decina di giorni, a
piccoli salti e adottando la formula idrovolante + bicicletta, forse la combina-
zione che permette di conoscere meglio un territorio. Si parte senza una meta
definita per fermarsi dove si è ispirati dal paesaggio o dalla presenza di qual-
che città dal nome evocativo. Qui si affittano le bici (un servizio diffusissimo
in Francia) e si scorazza per un giorno o due nella zona.
Quel viaggio ci porta, lungo le coste della Charente Maritime, a La Rochel-
le, a l’Île de Ré, a l’Île d’Yeu, luoghi magnifici per paesaggi e attrazioni
culturali, come la Corderie Royale di Royan o i musei che raccontano infinite
avventure di chi partì da queste città marinare per conquistare il Canada e altri
territori d’oltremare.
A Biscarrosse torniamo nel 1993, piloti Dario Mainardi, lo scrivente e Fran-
co Panzeri. Nel 1996 ci vanno, sempre con il Lake, Ugo Bianchi, Giorgio
Porta, Gigi Fara e Vincent Fabri, che giungono al lago nel mezzo di una
bufera, che costringe Porta a compiere l’ultima parte della rotta di avvicina-
mento alla riva seduto sull’ala, una situazione “da manuale” che non a caso è
illustrata in una foto nel mio libro I Lake dalla A alla Z.
Passano molti anni, durante i quali il Club perde i suoi anfibi, venduti o non
rimpiazzati dopo la loro perdita per danneggiamento. Nel 2000 e nel 2002 si
tenta di andare con il Piper anfibio, l’ultimo anfibio rimasto, ma la meteorolo-
gia non lo consente. Con quell’aereo si tratta paraltro di un viaggio estenuan-
te, alla velocità di 70 nodi, a volte in presenza di venti contrari di 30 nodi.

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Avventure di volo

Riacquisito il Lake Renegade, torniamo a Biscarrosse nel 2004. Equipag-


gio: Silvia Antonini, Cesare Baj, Roberto Ruberto ed Enzo Schettino. Final-
mente, dopo tanti anni, tempo splendido lungo il percorso, a salutare la riac-
quisizione del Lake.
A Biscarrosse troviamo un Cessna 208 Caravan, un 206, un Cessna XP con
210 HP, il Piper anfibio di Ueli Diethelm e il Lake Buccaneer D-EARS in
perfetta forma e dotato di magnifici optional: elica tripala a passo reversibile,
turbocompressore, vortex generators, wing fairings, un pannello nuovo con
modernissimi apparati di navigazione e tante altre piccole migliorie. Insomma
un gioiello, il più bel Buccaneer mai visto.
Ma soprattutto, dopo esattamente 10 anni di assenza, troviamo una manife-
stazione molto arricchita. Dietro la linea di volo è costruita una cittadella
dell’aviazione, fatta di decine di tende in cui si presenta e si vende di tutto, ma
sempre in qualche modo legato al volo.
La manifestazione, durante la quale portiamo in volo una settantina di per-
sone, sarà ricordata anche per il triste incidente in cui perde la vita un compo-
nente della pattuglia acrobatica “Nangis Alpha”. Dopo la collisione in volo,
due aerei precipitano nel lago. Uno dei due piloti esce ferito, ma vivo, dal-
l’abitacolo, l’altro non ce la fa.
La sera del sabato, al termine dei voli - Silvia ai comandi, Baj, Schettino e il
comandante della Patrouille de France nei posti dei passeggeri - andiamo a
fare un giretto sul mare, con il sole al tramonto. Dopo esserci portati a nord,
verso il Golfo di Arcachon, facciamo un po’ di volo di cresta sulla Dune de
Pilat, in un paesaggio sahariano assolutamente inusuale per noi, reso surreale
dal fatto che la duna, la più estesa d’Europa, si getta a picco nell’Atlantico.
Poi giù sulle secche e le lingue di sabbia antistanti, per tornare verso sud in un
volo “di battigia”, nella suggestiva luce del tramonto, sfiorando le notevoli
onde dell’oceano. In 10 minuti totalizziamo una sequenza impressionante di
visioni di alto potere emotivo, che normalmente capita di avere nel corso di
settimane o mesi.
Al ritorno ci fermiamo a Marsiglia e alloggiamo al Sofitel che si trova in
centro. Dalle camere con terrazzo si ha una bellissima vista sul vecchio porto,
particolarmente suggestiva alle prime luci della sera. A cena andiamo Chez
Michel, il ristorante ove si gusta la migliore Bouillabaisse della città, che
consigliamo vivamente a chiunque passi per quella città.
Al momento di andare in stampa apprendiamo che Eric Vanroyen è riuscito
a fare certificare in Francia un Cessna 150 su galleggianti EDO 1650, che
risulta essere al momento l’unico idrovolante in quel paese, Canadair esclusi.
L’aereo è basato a Biscarrosse e sarà usato per scuola di volo idro.
L’iniziativa è per noi di particolare soddisfazione innanzitutto perché l’idro-
aviazione ricompare in un paese europeo, ma anche perché i galleggianti del
piccolo idrovolante sono quelli del glorioso I-BONG, da noi forniti agli amici
francesi.

98
Avventure di volo

Vichy
Un sito ideale per operare con gli idrovolanti... sempre che si sia capaci di usarli.

La voglia di volare sull’acqua “si attacca”. Visti per caso gli idrovolanti di
Como a Biscarrosse, presso Bordeaux, nell’ottobre del ’91, e constatata l’af-
fluenza di pubblico da essi provocata, gli organizzatori della fiera internazio-
nale di Vichy hanno pensato di organizzare nella bella città termale un raduno
europeo di idrovolanti, che si terrà poi dall’8 all’11 dell’aprile 1992.
Le operazioni si svolgono nel tratto dell’Allier su cui si affaccia il centro
cittadino, reso particolarmente largo e calmo da due ponti che fungono da
sbarramento. Il bacino è normalmente usato per gare di canottaggio e di moto-
nautica e come lido. Sulle rive si trovano alcuni dei migliori ristoranti della
regione, campi sportivi, il galoppatoio, il centro-congressi e fieristico. Il tutto
è molto piacevole, la cornice ideale per operare con gli idrovolanti e per
passare qualche giorno di vacanza.
Vichy è proprio nel centro della Francia, forse uno dei criteri che l’hanno
fatta scegliere come capitale dell’amministrazione del generale Petain, presi-
dente imposto dagli occupanti tedeschi. Da Como sono circa 500 km in linea
d’aria. La rotta diretta è Como-Aosta-passo del Piccolo San Bernardo-Cham-
bery-Lione-Roanne-Vichy. Con le Alpi intransitabili la rotta si allunga molto,
passando per Savona, Nizza, Marsiglia, la valle del Rodano fino a Lione e poi
Vichy: una distanza doppia.
La spedizione avrebbe dovuto essere fatta con due Lake, un Buccaneer e un
Renegade, e con un Cessna 172, ma, come spesso avviene, non tutti gli aerei e
i piloti sono disponibili al momento della partenza, così che solo il Renegade
pilotato da Franco Panzeri e dallo scrivente prende la via della Francia.
C’è una netta situazione di Stau e Föhn e il tempo è quindi bellissimo fino
alle Alpi. Di là è tutto nuvolo e sembra proprio che le nubi siano sprovviste di
documenti doganali, arrivando esattamente allo spartiacque, pressoché coin-
cidente con la frontiera. Ma su Lione ci sono cinque ottavi e la cosa ci induce
a continuare, a livello 125, fino a quando si troverà il “buco” per scendere.
A -20 °C le esalazioni di vapore acqueo di quattro persone nell’abitacolo
ghiacciano all’istante al contatto con le finestrature, che si ricoprono di uno
spesso strato di brina, così che un continuo raschiamento con carta di credito è

99
Avventure di volo

necessario per poter vedere fuori. Il motore in alto e dietro ha vantaggi, ma


non quello di fornire il flusso consistente di aria calda garantito dai motori
posti anteriormente. In realtà un efficace sistema di riscaldamento esiste, ma è
del tipo a bruciatore di benzina prelevata dal serbatoio e non è usato probabil-
mente da parecchi mesi. La situazione di volo in cui ci troviamo non è dunque
quella adatta per collaudare il sistema, che così è lasciato spento. In altri
termini il rischio di un’avaria, seppure remoto, è consigliabile non correrlo.
In Francia non vi sono molte restrizioni di quota al volo VFR, a differenza
che nel nostro paese, così che attraversiamo la zona controllata di Lione a
livelli superiori al 95. La città e i due fiumi che vi si incontrano appaiono tra
gli squarci delle nubi, nei quali ci buttiamo. Passati sotto, continuiamo per
Vichy sorvolando la parte settentrionale del massiccio centrale, sotto una co-
pertura che si è rifatta totale.
All’arrivo a destinazione una bella sorpresa. Non è necessario scendere al-
l’aeroporto, in quanto il servizio di dogana è stato predisposto anche sul plan
d’eau, cioè sull’idrosuperficie. Un volo internazionale Como-Vichy senza
estrarre il carrello è qualcosa di assolutamente inusuale in un’epoca in cui
l’Europa non è ancora doganalmente unita. Il nostro arrivo è considerato tal-
mente scontato e normale che i doganieri non si fanno neppure vedere, sebbe-
ne sia la prima volta che gli idrovolanti toccano quelle acque. Tutto incomin-
cia nel migliore dei modi, dunque.
A Vichy è già arrivato lo svizzero Marc Wertmüller von Elg, con il suo
vecchio Lake Buccaneer, e il tedesco Mayer, con un Renegade. Inoltre sono
presenti alcuni ultraleggeri, tra cui un Wheedhopper anfibio bimotore e un
ultraleggero Pétrel.
Il giorno successivo il tempo è pessimo: piove a dirotto e il ceiling va da 0 a
200 piedi. La giornata è ideale solo per andare a Lione in macchina a vedere
un paio di musei (è curiosamente in atto un gemellaggio con Milano: biglietti
di ingresso gratis per tutti).
Al ritorno, verso sera, il tempo è un po’ migliorato, ma ci attende una sor-
presa, questa volta poco gradevole: la coda di un Lake che emerge dalla super-
ficie, diritta diritta verso l’alto. Che cosa è successo? I racconti sono confusi
ed è difficile trovare qualcuno che dia una versione attendibile. Nessuno ha
mai visto un idrovolante da queste parti. Ma la cosa più importante almeno la
si sa subito: le tre persone che erano a bordo stanno bene.
L’aereo, un Buccaneer stupendamente accessoriato, appartiene alla più grande
compagnie francese di aerotaxi, che lo usa come dimostratore. Purtroppo, al
momento dell’incidente, ai comandi non c’è il pilota che lo usa abitualmente,
Bernard Duchateau, che non era disponibile in quei giorni, ma il capopilota
della compagnia, con una gigantesca esperienza di volo, ma del tutto privo di
esperienza idro. Intenzionato a fare un passaggio basso sulla superficie, il
pilota decide infine di toccarla, ritenendo che un touch and go possa fare un
po’ di spettacolo. I pratica il pilota ha portato l’aereo, a 120 nodi, con la

100
Avventure di volo

potenza di crociera inserita, a toccare l’acqua. A quella velocità l’aereo tocca


con la parte anteriore dello scafo, che affonda progressivamente, ma rapidissi-
mamente nell’acqua. In meno di un secondo e in pochi metri l’aereo si ferma,
si impenna e si cappotta.
La parte anteriore è dilaniata, “mangiata” dall’abnorme attrito con l’acqua.
Un occupante esce direttamente dallo scafo squarciato, gli altri due dai fian-
chi. I canotti di soccorso, prontamente giunti, raccolgono le tre persone, che
peraltro sono uscite da sole dai resti galleggianti dell’aereo e stanno bene.
L’accurata ricostruzione della dinamica dell’incidente è resa possibile dalla
prontezza di spirito di un marinaio, che ha ripreso la scena con una videoca-
mera e la ha messa subito a disposizione.
Qual è stato l’errore, perché di errore - e gravissimo - palesemente si tratta?
Essenzialmente la confidenza che un pilota non-idro si è preso con l’acqua.
Questo elemento mobile e mutevole, terribilmente distruttivo quando è agita-
to, trappola suadente ma ugualmente inesorabile quando è perfettamente piat-
to, cioè “a specchio”, questo elemento che il pilota di idrovolante impiega
anni a conoscere e che più conosce più impara a trattare con cautela e rispetto,
è stato in questo caso fortemente sottovalutato. E - se vogliamo personalizzar-
lo - se ne è avuto a male e si è selvaggiamente vendicato.
Detto questo, ecco alcuni suggerimenti ai lettori, sia che siano piloti idro sia
che desiderino diventarlo.
- Non trovarsi mai vicini all’acqua in un assetto piatto o a muso basso.
L’eventuale contatto in questi assetti, con la parte anteriore dei galleggianti o
dello scafo, non lascia scampo e porta al cappottamento, soprattutto se si
opera con aerei con galleggianti.
- Non trovarsi mai vicini all’acqua a velocità molto superiore a quella di
contatto. L’eventuale contatto in questa condizione genera un attrito abnorme
e un momento picchiante che non può essere contrastato con i comandi aero-
dinamici.
Ed ecco un suggerimento prezioso ai piloti privi di esperienza idro: non
avvicinatevi mai alla superficie dell’acqua.
Tornando all’incidente, certamente si tratta di qualcosa che non dovrebbe
mai succedere in una manifestazione, in quanto rovina la festa a un sacco di
gente oltre che al suo artefice e organizzatore, in quel caso all’ottimo André
Maucci. Tuttavia quell’incidente ha fornito una magnifica dimostrazione del-
la sicurezza dei Lake. Se c’era bisogno, infatti, di una dimostrazione che con
quell’aereo ci si può infilare in acqua quasi alla massima velocità e con quasi
tutto motore senza farsi niente, ebbene quella dimostrazione è stata ampia-
mente data.
In quella triste occasione la Francia ha perduto metà della sua flotta di
idrovolanti (se si escludono i Canadair).
Ad alcuni piloti non piace parlare degli incidenti. Chi scrive considera dove-
roso parlarne e diffondere il più possibile ogni informazione ad essi relativa.

101
Avventure di volo

Gli errori commessi da un pilota o i capricci del caso devono essere noti a tutta
la comunità dei piloti, affinché il rischio che si ripeta un certo incidente sia
ridotto. Chi compie una manovra azzardata o si avvicina molto a una condi-
zione critica, pur senza la minima conseguenza, deve fare partecipi di quanto
è successo i colleghi e i componenti della comunità di piloti. Ciò non nello
spirito di una confessione liberatoria per la propria coscienza, che peraltro
può essere salutare, ma perché tutti siano al corrente della sequenza di eventi e
di scelte che, in quel caso, hanno portato quasi all’incidente. Le stesse condi-
zioni possono infatti ripetersi per altri.
Torniamo agli ultimi due giorni della manifestazione. Finalmente il bel tem-
po. E con esso il piacere di volare sulla bellissima cittadina e sulla campagna
francese, nonché di operare sul tratto di fiume a noi riservato. Decollare,
volare e ammarare presso il centro di una città è sempre emozionante.
La popolazione non sembra infastidita dal rumore, ma anzi attratta da esso.
Nei decolli passiamo di fianco al quinto o sesto piano di un alto palazzo e a
ogni balcone molte persone si godono lo spettacolo e salutano. Inoltre gli
eventi del giorno precedente non sembrano avere minimamente ridotto la
voglia di volare sugli idrovolanti. Moltissime persone salgono sui due Lake
presenti e sui molti ultraleggeri per avere il loro battesimo dell’aria (per curio-
sità, il contributo dato per un volo su una macchina che costa 20 000 $ o - in
quel momento - 380.000 $ è lo stesso; l’importante è volare).
Tra i convenuti c’è lo stato maggiore dell’associazione francese dei piloti di
idrovolante e in particolare il neoeletto presidente Hubert de Chevigny, co-
struttore dell’Explorer, un anfibio bimotore sperimentale particolarmente spa-
zioso, ideato come casa-volante/navigante adatta a visitare paesi lontani e
addobbato all’interno anche con vasi di fiori, in un vero spirito “New Age”.
Si parla molto della necessità di fondare un’Associazione europea di piloti
idro, con lo scopo primario di proporre una normativa unificata e il meno
restrittiva possibile sull’impiego delle idrosuperfici. Como è da tutti indicata
come la capitale morale e reale del volo idro in Europa, ma ad altri appare
evidente che la sede debba trovarsi in Francia. Ciò deriva dalla constatazione
che a Como pensiamo solo a volare (il che è tutt’altro che male, beninteso!),
ma che il livello di coscienza del nostro possibile ruolo nel panorama mondia-
le del volo idro è basso. In Francia, invece, non vi sono idrovolanti, ma si
organizzano raduni di livello europeo, c’è l’unica associazione di piloti idro o
simpatizzanti tali dell’Europa centromeridionale e un importante museo sulla
storia dell’idroaviazione, dotato di un ricco centro di documentazione, il Mu-
sée de l’Hydraviation di Biscarrosse.
Un piccolo contributo organizzativo noi di Como lo diamo comunque, con
la proposta del logotipo per la carta intestata. In realtà il nostro contributo
essenziale e di alto valore lo diamo mettendo la nostra ininterrotta e - in quel
momento - sessantennale esperienza e la nostra non disdicevole flotta di otto
aerei a disposizione della comunità idroaviatoria europea.

102
Avventure di volo

Anche negli anni successivi i francesi non riusciranno ad avviare alcuna


attività di scuola di volo idro, se si eccettuano alcuni tentativi di eroiche
persone che, dibattendosi tra mille difficoltà economiche, riusciranno a tenere
in linea in modo sporadico ora un Cessna 172 ora un vecchissimo PA 12, in
situazioni ove eseguire anche solo l’ispezione delle 100 ore rappresenta uno
sforzo ciclopico. Le autorità francesi devono essersi bendate come la dea della
fortuna per approvare quelle operazioni. C’è stato anche un tristissimo mo-
mento in cui l’unico idrovolante francese, un Cessna 172, è stato letteralmente
incenerito da un fulmine mentre si trovava (per fortuna senza persone a bordo)
all’ormeggio.
Dopo quattro o cinque giorni è venuto il momento del ritorno. Il socio
Mainardi, giunto a Lione con un aereo di linea, ha nel frattempo sostituito ai
comandi Panzeri, che è tornato a casa per impegni, sempre con la linea. Si
dice questo a riprova che la possibilità di compiere un’operazione speciale
con un idrovolante dà un tale piacere da indurre a sforzi logistici individuali
anche notevoli.

103
Avventure di volo

Le Bourget
L’aeroporto francese, ove approdò Lindbergh, è la meta del mio primo viaggio
impegnativo all’estero, molto istruttivo per la presenza al mio fianco, almeno
per una parte, di un vero maestro nelle arti del volo: Cesare Musumeci.

C’è una necessità. Il presidente Musumeci ha fatto un accordo con la più


grossa azienda di aerotaxi francese, l’Euralair, basata a Le Bourget, che ri-
chiede che il nostro Lake Buccaneer sia portato presso la loro sede per un paio
di giorni. Quell’azienda, infatti, ha preso la concessione di vendita dei Lake in
Francia e deve certificare il primo. Dunque avrà per due giorni i funzionari del
Bureau Veritas (il corrispondente del nostro RAI) che vaglieranno tutti i docu-
menti e proveranno in volo l’aereo. I funzionari non richiedono prove in ac-
qua, così che le prove in volo saranno condotte dal capopilota dell’Euralair,
Bernard Duchateau. La nostra missione è dunque quella di consegnare l’aereo
nelle mani di Bernard Duchateau, a Le Bourget, sparire, ricomparire dopo due
giorni e riportare l’aereo a Como.
Musumeci, presissimo dal lavoro e comunque sempre molto frettoloso, mi
chiama e dice «L’hai fatta la radiotelefonia in inglese con l’esame, no?» «Sì -
rispondo - sono già andato in Corsica la settimana scorsa.» Il viaggio a Bastia
era stato il mio primo volo all’estero, fatto appena dopo avere conseguito il
brevetto e descritto nel capitolo “Dirottamenti”. «Benissimo. Devi portare il
Lake a Parigi, a Le Bourget. Lo farei io, ma ho alcuni impegni improrogabili.
È una cosa importantissima; ci guadagniamo un sacco di soldi. Non preoccu-
parti; è tutto pagato, aereo, alberghi, ristoranti e così via.»
L’opportunità mi eccita, anche se provo la netta sensazione che la cosa
sarebbe stata più “giusta” sei mesi o un anno dopo. Il problema, operando
nell’aviazione leggera, non è andare da A a B, ma andarci in un momento
preciso. E il Lake lo si deve portare a Parigi in un giorno precisissimo, di lì a
qualche giorno.
Il Lake, in quel momento è a Genova, dove l’ho lasciato tornando dalla
Corsica qualche giorno prima. Sto aspettando un tempo buono sugli Appenni-
ni per riportarlo a Como, ma la situazione generale sull’Europa è molto movi-
mentata e variabile. Dopo un giorno speso nel pianificare il mio volo più
lungo e complesso, fino a quel momento, viene il momento di partire. Il

104
Avventure di volo

tempo, dopo una settimana brutta, si è fatto bello, anzi, bellissimo. Tutto il
Nord Italia è libero da nubi, ma tira un vento molto forte. La meteo francese
presenta invece una situazione drammatica: tutta la Francia è coperta da nubi
e piove dappertutto. Esaminiamo la situazione con Musumeci e lo convinco:
«Vieni anche tu nel viaggio di andata. Tu ritorni immediatamente con la linea;
noi torniamo tranquillamente, quando il tempo è buono. Ci metteremo quel
che ci metteremo, ma intanto la missione è compiuta. Comunque con quel
tempo in Francia non me la sento di andare da solo.» Musumeci guarda i
metar/taf e si rende conto che io non sarei mai in grado di portare l’aereo a
Parigi. Dunque accetta.
Ho un’altra esigenza e la dico a Musumeci: «Senti, è la prima volta che
faccio un viaggio lungo all’estero; nel ritorno sarò preso con le carte e le
comunicazioni in inglese. Devo portarmi dietro uno che almeno mi sappia
tenere l’aereo dritto». Musumeci tergiversa: «Ma sei proprio una lagna. Pensa
che ogni lira che spendiamo per il tuo aiuto-pilota, alberghi, ristoranti, è una
lira in meno per il Club». Musumeci fa infine una proporzione tra il costo di
qualche giorno di vitto e alloggio di quella persona e l’enorme cifra che aveva
ottenuto per l’operazione; fatto sta che partiamo in tre: Musumeci, io e Diego
Bianchi, in possesso da qualche settimana del brevetto di primo grado e quin-
di in grado di tenere in mano un volantino e di tenere l’aereo con le ali
livellate e con un certa prua, tutto quello che richiedo da lui. In poche parole,
il buon Diego deve svolgere il ruolo di un autopilota umano, oltre che di
simpatico compagno di viaggio.
Ci facciamo portare a Genova. Facciamo benzina, saltiamo sull’aereo e
decolliamo in un vento di una trentina di nodi. Prima tappa: Lione. La tratta si
svolge per tutta la prima parte sugli Appennini, poi sulle Alpi, poi sulle prealpi
francesi. Insomma, si svolge quasi tutta in montagna.
Saliamo dunque subito fino a 12.000 piedi, proseguendo a quella quota, che
ci consentirà di attraversare le Alpi Marittime. Da quella quota abbiamo sotto
i nostri occhi l’intera pianura Padana e l’arco alpino per centinaia di chilome-
tri. La condizione di visibilità è eccezionale, di quelle che capitano in poche
giornate all’anno.
Voliamo a una temperatura di -28 °C. Al mio primo accenno a toccare la
levetta del riscaldamento, che sul Lake è a bruciatore di benzina, Musumeci
mi prende delicatamente ma fermamente la mano e la trattiene. «A questa
quota, se qualcosa con il bruciatore va storto, quanto tempo ci mettiamo a
ritornare a terra? Dovevamo accenderlo appena dopo il decollo, non ora.»
Retraggo dunque la mano dal pulsante, ripromettendomi che mai avrei attiva-
to il riscaldamento sul Lake senza averlo prima provato a bassa quota.
Intanto, passato oltre lo spartiacque, i magnifici picchi innevati delle Alpi
hanno lasciato il posto a una superficie grigia perfettamente definita, che si
stende circa 2000 piedi sotto di noi. Qua e là, soprattutto verso nord, da questa
superficie si vedono emergere le cime dei monti più alti. La Francia è intera-

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Avventure di volo

mente coperta, per quel che possiamo vedere, da una spessa coltre di nubi.
Voliamo on top per un’altra ora, finché Musumeci, dopo aver trasformato il
volo da VFR a IFR, ci annuncia l’avvicinamento a Lione e l’inizio della
discesa. Timidamente sussurro: «Beh, faremo ghiaccio...». Musumeci mi ri-
sponde come farebbe un pilota acrobatico a un passeggero che gli dicesse,
durante un looping: «Ma così vedremo il mondo alla rovescia».
«È evidente che faremo ghiaccio. Ma a queste quote e temperature non è
tanto male. Scivola via. Sarà peggio quello che si formerà a quote più basse.
L’importante è scendere sempre, fino a destinazione, e tenere il motore bello
brillante e una bella velocità.»
Viene il momento dell’ingresso in nube. È la mia prima volta: una vera
emozione, accentuata da quel che succede subito dopo. Nel giro di tre o quat-
tro secondi l’aereo si riveste letteralmente di ghiaccio. Non che ci sia qualcosa
da vedere, fuori, ma vedere il ghiaccio dilagare sui vetri anteriori a vista
d’occhio e capire che ha fatto uno strato di un certo spessore fa senso a un
pilotino della mia esperienza. E fa ancora più senso quando penso che quello
stesso strato riveste ora le ali, la fusoliera, i galleggiantini, le superfici mobili,
le antenne, che tenta di appiccicarsi sulle pale dell’elica, che in realtà benefi-
ciano di un particolare sistema antighiaccio che solo pochi aerei - quelli con
elica spingente - hanno: i tubi di scarico.
Vedendo Musumeci tranquillo e pacifico, lì sul sedile di destra, azzardo
qualche commento: «Ma come faremo ad atterrare a Lyon Bron se le finestre
sono rivestite di ghiaccio e non vediamo nulla?» A commenti di questo genere
Musumeci risponde lievemente spazientito, ma in fondo capendo che qualco-
sa si deve pur insegnare a questi novellini che ha a bordo. Con la voce mono-
tona dell’insegnante e gli occhi al cielo recita: «La base delle nubi a Bron è a
800 piedi. Piove. Lo zero è 3 o 4 mila piedi più in alto. Quindi usciremo dalle
nubi quando il ghiaccio sarà già stato lavato via dalla pioggia. Alla peggio
faremo qualche giro sul beacon finché si scioglie del tutto. L’importante è
tenere sempre una bella velocità. Intanto stai tranquillo e pensa a pilotare.»
Succede tutto come è stato previsto da Musumeci, che ha al suo attivo
centinaia di attraversamenti alpini su piccoli bimotori, diurni e notturni, con
qualsiasi tempo. Si vede chiaramente che, al contrario di noi, lui è più tran-
quillo quando vola in IFR che quando vola in VFR.
A Lione giungiamo ormai verso sera. Prevediamo di dormire lì. Il mattino,
dopo essere ripartiti con un piano di volo VFR, voliamo in un ceiling sempre
più basso finché Musumeci butta avanti la manopola della miscela, la manetta
dei giri dell’elica e quella del gas ed entra decisamente in nube, iniziando la
salita. «L’unica è andare avanti in IFR.» Chiede il livello IFR più basso, che
eviti il rischio di volare in condizioni di ghiaccio. Sono 6000 piedi, quota alla
quale andiamo fino a Parigi, volando a una temperatura di due o tre gradi
sopra lo zero, sempre in nube. Io piloto l’aereo e tengo la quota e le radiali che
Musumeci mi dice, mentre lui, che è il vero comandante, anche se si trova

106
Avventure di volo

seduto sul seggiolino del copilota e non toccherà mai i comandi, guarda le
carte e parla alla radio.
Scesi a terra, Musumeci prende subito un taxi per andare al Charles De
Gaulle, da cui tornerà a Milano.
Noi conosciamo Bernard Duchateau, a cui consegniamo l’aereo. Bernard
- diventeremo amici poi - pilota tutti gli aerei della compagnia per cui lavora,
tra cui Lear Jet, Falcon, Boeing 727, ma ha una grande esperienza anche su
aerei leggeri. Si è formato come militare. Da ragazzo ha fatto tutta la guerra in
Algeria. Racconta di come facevano azioni antiguerriglia, in villaggi isolati,
interamente dall’aereo. Identificavano, inseguivano e stanavano i guerriglieri
stando in volo, passando in voli a coltello tra i suk del villaggio o girando
quasi in stallo intorno a casolari isolati, mitragliando in modo selettivo, per
non colpire persone estranee, ma infine facendo uscire e arrendere il nemico.
A quel punto intervenivano le truppe di terra. Insomma, facevano le stesse
cose che faranno dopo qualche anno gli americani in Vietnam, con la differen-
za che gli americani useranno elicotteri, mentre i francesi in Algeria usavano
aerei. Ciò per dire che un pilotino di secondo grado neobrevettato quale ero io
non ha avuto alcun problema a consegnare nelle mani di un pilota con quella
storia il piccolo Buccaneer.
Dopo un paio di giorni di gozzoviglie e visite a musei, tra cui il Musée de
l’Air et de l’Éspace, che ha sede proprio a Le Bourget, torniamo a prendere il
nostro aereo. Lo troviamo in condizioni smaglianti. «Sapete, dovevamo fare
una dimostrazione importante; ci siamo permessi di dargli qualche ritoccatina
qua e là.» Insomma, l’aereo era più bello che da nuovo.
Nel volo di ritorno il tempo ci ha creato qualche problema, tanto che siamo
dovuti dirottare a Troyes. Ridecollati, non abbiamo potuto attraversare le Alpi,
sempre per il maltempo, ma abbiamo dovuto circumnavigarle, percorrendo
tutta la valle del Rodano fino a Marsiglia, per poi proseguire per Nizza, Geno-
va e Como. A Marsiglia ci siamo fermati a dormire e, nell’occasione, per
gustare una buona bouillabaisse.
Musumeci non l’ha presa molto bene: «Ma che ceiling e ceiling; dì la verità,
che avevi voglia di farti una bella vacanzina in Costa Azzurra.» In realtà, da
pilotino quale ero, ho scelto la soluzione di minor rischio, anche se non la più
economica o rapida. Oggi rifarei certamente lo stesso, proprio per farmi la
vacanzina.
Quel che è certo è che non c’è nulla che mi ha svezzato come andare in giro
con Cesare Musumeci o fare cose ai suoi ordini.

107
Avventure di volo

Dal Tevere alla Senna


Il piacere di commemorare, con il nostro piccolo idrovolante, il bicentenario
della Rivoluzione francese e la nascita dell’Europa moderna.

Non è come dagli Appennini alle Ande, ma è comunque un bel viaggetto, se


fatto con un Maule M7 anfibio. L’occasione è la celebrazione del bicentenario
della Rivoluzione francese, nel 1989. Un’associazione culturale romana ha
organizzato un volo postale speciale da Roma a Parigi e ha scelto l’idrovolan-
te come il mezzo più adatto per la missione. Per l’occasione sono stati trovati
due sponsor: l’Aero Club d’Italia e la Mobil, i cui loghi tappezzano l’aereo.
A Roma ho l’opportunità di fare alcune operazioni veramente interessanti.
Innanzitutto vengo eccezionalmente autorizzato a volare sulla città, dall’aero-
porto dell’Urbe al tratto del Tevere da cui l’idrovolante dovrà partire per Pari-
gi. In pratica potrò seguire il Tevere per una quindicina di chilometri, transi-
tando sul centro della “città eterna”, un’esperienza normalmente proibita e
fortemente emozionante.
La superficie di decollo è quella dell’antico Idroscalo di Ostia, quasi alla
foce del Tevere, a poche centinaia di metri da Fiumicino, con la cui torre
dovrò concordare bene le operazioni, dato che il mio braccio di decollo taglia
esattamente il sentiero di decollo/avvicinamento a sud dell’aeroporto.
Dopo una complessa cerimonia, decollo con uno degli organizzatori. La
prima tappa è Marsiglia, ove faccio il pieno e riparto per Parigi. A quel punto
si è levato un bel Mistral di 40-60 nodi, in cui viaggio per circa metà della
tratta, con una velocità rispetto al suolo di circa 50 nodi. L’eccezionale auto-
nomia del Maule mi consentirà di raggiungere comunque Parigi, anche se in
due ore di volo in più del previsto.
Il destino vuole che il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, a
Parigi si svolga una riunione dei sette grandi della Terra, tra cui Reagan e la
Tatcher. La città è proibita per l’aviazione generale e in periferia sono siste-
mate batterie antiaeree, pronte ad abbattere velivoli di eventuali terroristi.
Sono quindi costretto ad atterrare nell’ultimo aeroporto agibile alla periferia
di Parigi, che è Moret-Episy, un bell’aeroportino con pista in erba, e a portare
il sacco postale in treno fino all’ufficio del Pont de l’Alma, ove è previsto il
trattamento del materiale e la timbratura delle buste.

108
Avventure di volo

Seguono giorni e notti di grandi festeggiamenti in tutta la città, particolar-


mente sentiti dallo scrivente, che considera la Déclaration des Droits de l’Hom-
me et du Citoyen del 26 agosto 1789 una delle tappe fondamentali del progres-
so umano. Viene infine il momento della partenza.
Al ritorno facciamo tappa a Lione e il giorno dopo partiamo per Como. Di
quella tratta mi ricordo un fatto curioso. In quel viaggio - come in molti altri -
sono in possesso di carte militari americane 1:500.000, le migliori per la
rappresentazione dei rilievi, ma vecchie, quindi non valide per le informazioni
aeronautiche (per queste ultime sono solito usare le carte di avvicinamento
Bottlang-Jeppesen, ovviamente aggiornate).
Su questa carte militari ho potuto pianificare bene una rotta di attraversa-
mento delle Alpi, ma senza sapere nemmeno i luoghi per cui devo passare, i
cui nomi su quelle carte non sono riportati. Giunto a destinazione, scoprirò di
aver fatto, per la prima volta nella mia vita, il Piccolo San Bernardo, raggiun-
gendo Como da Lione in due ore e dieci minuti.
L’epilogo della missione è stato sgradevole, per gli aspetti filatelici: tutte le
buste che avevamo incluso noi dell’Aero Club nel sacco postale sono state
incamerate dagli organizzatori della spedizione e non ci sono state più restitu-
ite. Di fatto ce le hanno rubate.
Nel 2001, a distanza di 12 anni, capito nel negozio di un filatelico, ove ne
vedo una, che acquisto per 70.000 lire. Mi fa impressione vedere il mio nome
come destinatario e la mia firma di pilota su quella busta che avevo trasportato
e dovere sborsare una discreta cifretta per averla. E pensare che in quel sacco
noi del Club ne avevamo messe parecchie centinaia: al prezzo filatelico di
oggi il valore di un paio di motori!
Ma non è tutto. Il commerciante era entrato in possesso di alcune di quelle
buste che, a differenza delle altre, non erano state da me firmate, come coman-
dante. Dopo che l’ho informato che ero il pilota di quell’aereo, mi ha chiesto
di firmarle. È veramente impressionante “validare”, con una firma, un docu-
mento che piove di un lontano passato, per certi versi “mio”, ma ormai del
tutto alieno e proveniente chissà da dove. Firmo proprio per fare un piacere al
filatelico, ma ho la netta sensazione di profanare in qualche modo il sacro
tempio del dio del tempo.
Morale: diffidate degli organizzatori di voli postali e, se siete il pilota, non
perdete di vista il carico, se in parte è vostro o del vostro esercente.

109
Avventure di volo

Evian
Incontro sul Lemano di tre idrovolanti dell’Aero Club Como, due provenienti
dalla base, uno dall’America. L’occasione è un’interessante manifestazione,
che ha riportato, dopo quasi cinquant’anni di assenza, l’aviazione idro
sul più grande specchio d’acqua europeo.

Evian, grande e prestigiosa stazione termale sulla sponda meridionale del


Lago di Ginevra, centro di produzione dell’omonima acqua minerale, sede nel
2002 di una riunione del G8, durante la quale fu organizzata una manifesta-
zione aerea. Questa è venuta così bene che le autorità locali hanno deciso di
ripeterla ogni due anni.
Per l’edizione 2004 l’organizzatore, il generale in pensione dell’Armée de
l’Air Michel Brugnon, ha avuto un’idea: perché non fare arrivare, sull’acqua,
anche gli idrovolanti? Con ampio anticipo ha contattato il Club, che ovvia-
mente si è reso immediatamente disponibile. L’occasione di scendere su un
lago così importante, su cui l’impiego di idrovolanti è normalmente proibito,
dopo 45 anni che l’ultimo idrovolante ne ha lasciato la superficie, non può
essere persa. L’unico possibile intoppo è rappresentato dalla possente barriera
delle Alpi, che in caso di maltempo impedirebbe la trasvolata. Il tempo, quel
fine settimana, è invece bellissimo e il viaggio da Como alla Val d’Ossola, poi
al Sempione, lungo il Vallese, Sion e Bex, e infine lungo le sponde meridionali
del Lemano, si svolge senza intoppi.
In quegli stessi giorni Roberto Ruberto, con il pilota canadese Klaus Son-
nenberg, ha portato il Maule C-GLAP, acquistato dal Club, dall’America al-
l’Europa, attraversando l’Atlantico del Nord. Un viaggio impegnativo, che
negli anni Trenta era considerato il più ostico dei viaggi transoceanici. Ruber-
to ha previsto proprio Ginevra quale ultima tappa prima di passare le Alpi e
giungere a destinazione. Ovvio è dunque stato il nostro invito a raggiungerci a
Evian, per poi tornare a Como tutti insieme.
Immaginate la sorpresa e l’emozione, proprio nel momento in cui giungia-
mo con il Lake da Como sull’idrosuperficie di Evian, di vedere il Maule a ore
12 proveniente nientemeno che da Halifax, in Canada. Se avessimo pianifica-
to l’evento non saremmo mai a riusciti a ottenere lo stesso risultato. Il Piper è
arrivato poco dopo, determinando la prima riunione della storia di ben tre

110
Avventure di volo

anfibi di proprietà dell’Aero Club Como (non ne abbiamo mai avuti più di due
contemporaneamente; ne abbiamo avuto per qualche brevissimo periodo tre,
ma uno di essi era in esercenza).
La cosa è decisamente appagante per noi dirigenti ai comandi degli aerei
(Schettino sul Piper, lo scrivente e Silvia Antonini sul Lake e Roberto Ruberto
sul Maule). Infatti l’acquisizione di quegli aerei è stata una vera scommessa,
fatta contro il parere di molti soci del Club, che ritenevano che non potessimo
permetterci aerei anfibi. Questa idea sembrava trovare un fondamento anche
nel fatto che nei pochi anni precedenti il Club aveva dismesso quattro aerei: il
Lake 200 di proprietà era stato perduto senza essere rimpiazzato, il Cessna
180 anfibio e un Piper PA 18 erano stati venduti e il Lake in esercenza era
stato danneggiato e deregistrato dai proprietari. Nel 2001 l’unico anfibio ri-
masto dell’epopea degli anfibi iniziatasi nel 1980 con il Lake I-AIIA era il
piccolo Piper I-BUFF. Ma se anche il Club si fosse potuto permettere anfibi,
l’idea di questi soci era che il Lake e il Maule erano aerei inadatti al Club.
Particolari critiche erano riservato al Lake, definito come aereo “difficile” e
“in grado di fare non più di 70-80 ore in un anno”.
Nel recente passato erano stati fatti molti sforzi per dotare il Club di Cessna
anfibi, aerei tanto rumorosi, tanto poco prestanti e con un carico utile tanto
ridotto da dimostrarsi inutilizzabili e da essere presto rivenduti. Chi si era
inoltrato su questa via non aveva fatto tesoro di un analogo errore fatto a metà
degli anni Ottanta, consistente nell’acquisto di un Cessna 185 anfibio, pur-
troppo chiamato con il nome I-AGEL, a ricordo di Francesco Agello. Giunto a
Como già decrepito, l’aereo si era rivelato un mostro da 300 HP e con un
carico utile di pochi chili superiore a quello del Cessnino 150 idro con 100 HP,
ma con un decollo lungo il triplo. Dopo averlo tenuto fermo per sei mesi, a
causa dell’impressionante rumore della sua elica bipala, che ne aveva reso
impossibile l’uso a Como, il mostro era stato rivenduto in Norvegia.
Dunque il primo incontro in un contesto significativo - il Lago di Ginevra -
di due aerei per noi significativi e acquistati in un clima non favorevole è un
evento di fronte al quale la manifestazione aerea che di lì a poco avrà inizio
appare a tutti noi come pressoché priva di importanza.
Vedere assieme, sul piazzale di Annemasse, ove lasciamo gli aerei di notte,
queste due meraviglie ci riempie di orgoglio. Il sentimento è ancora più inten-
so quando pensiamo che quelle macchine sono già interamente pagate e non
costituiscono “debito” per il Club, salvo che per la modesta quota versata da
alcuni soci in anticipo-voli.
La soddisfazione è accentuata da una valutazione delle due macchine: il
Lake, dopo che i suoi detrattori avevano preconizzato - come si è detto - un
impiego marginale, ha dimostrato tutta la sua potenzialità, avendo volato in
meno di un anno quasi 400 ore e avendo fruttato ingenti introiti aggiuntivi per
operazioni speciali e sponsorizzazioni; il Maule che ci troviamo davanti è un
aereo “come nuovo”, costruito con trattamenti speciali anticorrosione, ben

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Avventure di volo

strumentato, con autopilota, un aereo che ha attraversato l’Atlantico in tre


giorni senza il minimo inconveniente.
Lake e Maule. Sui forum americani fervono le discussioni se sia preferibile
uno o l’altro. Un anno e mezzo prima un Consiglio direttivo dell’Aero Club
Como appena insediatosi aveva “bypassato” con un’impegnativa e coraggiosa
decisione questi interrogativi, acquistando uno e l’altro. Entrambi sono aerei
STOL e di alte prestazioni. Il Lake ha un carico utile e una robustezza eccezio-
nali. Il Maule ha un comportamento sulle onde eccezionale.
L’altra lezione che viene dai forum americani, oltre che dalle tristi esperien-
ze fatte a Como, è che i Cessna a pistoni hanno un significato operativo ed
economico quando sono idrovolanti e che perdono tale significato se trasfor-
mati in anfibi, se non per un uso strettamente privato come bi-triposto.
Tutti questi pensieri scorrono nella mia mente in un paio di secondi a partire
dall’istante in cui vedo davanti a me il Maule.
All’aeroporto di Annemasse, a un tiro di schioppo da Ginevra, volano molti
piloti che in passato sono venuti a Como per l’abilitazione. C’è chi chiede di
Edoardo Albonico e chi è stato a Como di recente. Una visione indimenticabi-
le la abbiamo al tramonto del sole: i tre anfibi del Club parcheggiati in fila sul
piazzale, con il Monte Bianco, visto “da dietro”, sullo sfondo, illuminato
dall’ultimo sole.
Annemasse si trova vicinissima a Ginevra, ma è in Francia. Vi volano anche
molti svizzeri, che trovano nel piccolo aeroporto un ambiente amichevole e
meno restrittivo del grande aeroporto ginevrino di Cointrin. Incontriamo un
italiano che opera come agente di borsa a Ginevra da vent’anni e che fa
acrobazia con i CAP del Club. Mi invita a fare un po’ di esercizio proprio su
un CAP 10. Dice che vola spesso, con un suo amico, su un piccolo jet biposto
da acrobazia, della classe del Fouga Magister, con cui, tra una manovra e
l’altra, si divertono a passare a 400 nodi a qualche metro dalla punta del
Monte Bianco, che a quelle velocità si trova a pochi minuti di volo.
Roberto era già stato a Ginevra a metà degli anni Ottanta con il Lake I-AIIA,
accompagnato dal bravissimo istruttore Piercesare Cantoni e vivendo una pic-
cola disavventura. Al momento del ritorno la chiave gli si era spezzata nella
serratura del portello; purtroppo la stessa chiave azionava anche i magneti,
con la conseguenza che l’aereo non poteva essere usato. Ecco dunque Roberto
e Piercesare a fare aero-stop nella saletta VIP dell’aeroporto di Ginevra, tro-
vando subito un passaggio su un Lear Jet per Milano, che hanno raggiunto in
poco più di un quarto d’ora. Ricuperata la chiave di riserva e tornati a Ginevra
in treno, hanno potuto finalmente riportare a Como l’aereo.
Klaus Sonnenberg, il pilota che ha fatto la traversata dell’Atlantico con
Roberto sta con noi mezza giornata, divertendosi molto a fare qualche decollo
e ammaraggio su quelle acque per lui tanto inusuali e potendo rifocillarsi in
un vero ristorante francese. È una persona simpatica e capace, che in Canada
gestisce un’attività di volo charter con bimotori e che ha accompagnato Ro-

112
Avventure di volo

berto attraverso l’Atlantico non per un compenso, ma per il piacere di volare e


“per tenersi in esercizio”.
La manifestazione a Evian è molto ben organizzata e bella, con le pattuglie
svizzere e francesi, tanti acrobati e, tra l’altro, due Tornado che passano a più
di 500 nodi, con i postbruciatori inseriti, appena sopra le nostre teste, lascian-
do la folla a bocca aperta e i nostri visceri piacevolmente rivoltati.
Noi abbiamo presentato i nostri tre anfibi in 10 minuti di esibizione, con
decolli, ammaraggi e passaggi radenti sulla superficie. Alla fine della manife-
stazione e il giorno dopo abbiamo portato in volo molte persone, tra cui auto-
rità locali e il sindaco di Evian, che si è entusiasmato all’idea di poter un
giorno vedere idrovolanti volare regolarmente sulle acque del Lemano.
Gli abitanti e le autorità della sponda francese non nascondono un certo
disappunto nei confronti delle mille restrizioni imposte dai vicini svizzeri
relativamente alle attività che si possono svolgere sul lago. Si legge facilmen-
te loro negli occhi una certa volontà di far prevalere il proverbiale moderni-
smo francese sul conservatorismo svizzero.
Il Lago di Ginevra è contornato da un ambiente naturale e antropico splendi-
do, che possiamo apprezzare appieno dall’aereo. Le sue acque presentano in
modo evidente il fenomeno delle sesse, studiate nel Settecento da Bénédict de
Saussure proprio su questo lago. Le sesse consistono in un periodico innalza-
mento e abbassamento delle acque, simile a una marea. La Luna non è però
implicata nel fenomeno, su cui in questa sede non ci dilunghiamo. L’effetto
finale è lo stesso di quando muoviamo con un leggero movimento circolare,
tenuto con le due mani, un catino pieno d’acqua: l’acqua ruota nel catino
determinando un’onda che si muove progressivamente lungo tutto il perime-
tro. Presenti anche nell’Adriatico, le sesse provocano variazioni di livello
dell’acqua di poche decine di centimetri.
La domenica è il giorno del ritorno. Da Annemasse torniamo su Evian e
ripercorriamo a ritroso il Vallese e il Sempione. In quel giorno i Cessna del
Club sono sul Lago di Varese, a Gavirate, per la manifestazione annuale in cui
portiamo in volo gente del luogo e turisti di passaggio. Nel primo pomeriggio
raggiungiamo dunque i nostri amici sul laghetto prealpino e diamo loro man-
forte volando tutto il pomeriggio anche con i tre anfibi.
Un altro finesettimana denso di avventure idro.

113
Avventure di volo

España
Tutti gli ingredienti per una bella avventura sono sul piatto: una settimana di
tempo, un Lake e una simpatica compagnia di quattro persone affiatate e
amanti del volo (Silvia Antonini, Cesare Baj, Roos Decaesstecker e Luigi
Fara). Ma non è tutto. C'è anche il piacere di andare in un paese per noi
sconosciuto, almeno nelle visioni che si possono avere dall'alto, e di operare
su specchi d'acqua ove mai un idrovolante si è posato, appositamente aperti
per noi da autorità intelligenti e intraprendenti.
L'avventura ha la sua origine nella conoscenza di Carlos Lamela, architetto,
pilota, frequentatore da vari anni dell'Aero Club Como. Carlos ci sta da tempo
invitando in Spagna. Finalmente, grazie alla presenza del Lake, l'aereo ideale
per viaggi lunghi, accettiamo il suo invito.
La missione è: andare a Cordova, operare per un paio di giorni su alcuni
laghi nelle vicinanze e tornare a Como. Come sovente accade, il tempo al
momento della partenza non è dei migliori. Decidiamo dunque di limitare al
massimo il tragitto in mare aperto. Ecco che scendiamo fino ad Alghero e da lì
proseguiamo per le Baleari, affrontando il mare per solo un'ora e mezzo,
ovvero per un'ora in meno che se avessimo scelto la rotta che passa per Can-
nes. Il suggerimento di seguire questa rotta ci è venuto dall'istruttore del Club
Marco De Vitis, che ha elargito i suoi saggi consigli per conferire all'operazio-
ne il massimo della sicurezza.
Dopo la prima facile tappa, all'ARO di Alghero abbiamo subito una brutta
sorpresa: per andare in Spagna, ovvero a ovest, dobbiamo prima raggiungere
un punto molto a nord della Sardegna, in una diversione che comporta almeno
30 minuti di volo in più. Una cosa così stupida che non riusciamo a compren-
dere chi possa averla inventata. Decollati, ci comportiamo da perfetti italiani:
raggiunto un punto poche miglia a nord, dichiariamo alla radio di aver lasciato
il famigerato punto obbligato e di essere in rotta per la nostra destinazione,
verso cui dirigiamo prontamente. Si vede che le regole stupide nessuno ha
voglia di farle osservare, perché i controllori assecondano senza fiatare la
nostra “forzatura”.
Lasciamo così la Sardegna e l'Italia buttandoci nel mare aperto. Un esame
delle carte del vento alle diverse quote, fatto prima della partenza, ci ha per-
messo di definire che a quota bassa abbiamo un vento contro di una decina di

114
Avventure di volo

nodi, mentre a quote alte avremmo un vento contro di una trentina di nodi.
Dunque decidiamo di tenere un livello di volo 45, che è basso per quel tipo di
tragitto e che ci impedirà di ricevere i segnali dei VOR per parecchio tempo,
ma che ci eviterà di avere una forte componente di vento in prua.
L'aereo non è dotato di GPS e nessuno di noi ne ha uno portatile. Dunque ci
dobbiamo basare, per la navigazione, dei bei vecchi metodi tradizionali: la
bussola e il cronometro. L'aereo è però dotato di un ADF. Poco al largo della
Sardegna proviamo a sintonizzarlo sulla frequenza dell'NDB di Minorca. La
lancetta si dirige senza esitazioni in una direzione coerente con quella che
sappiamo essere corretta. Alziamo il volume e possiamo sentire il disturbato,
ma rassicurante suono dei punti e linee che identificano senza ombra di dub-
bio la stazione di Minorca. È bello avere, nel mezzo del nulla, una lancetta che
ti dice dove andare per raggiungere quella che in quel momento è casa tua, il
tuo riparo, la tua salvezza, un porto a cui approdare, un ristorante in cui
mangiare, un letto caldo in cui dormire. Certo, la bussola e il cronometro, se
sei un bravo navigatore, ti porterebbero alla stessa meta, ma quella lancetta ti
fa stare più tranquillo. Il VOR e il DME, come previsto, funzionano per qual-
che decina di miglia dalle coste, poi svaniscono.
Fatto il piano di volo da Alghero per Majorca, arriviamo a Minorca ormai
all'imbrunire, alle 8 di sera, a 40 minuti dalla nostra destinazione, sotto un
cielo completamente coperto e la base delle nubi a 3000 piedi. Dunque non è
difficile prendere la decisione di dirottare sull'aeroporto di quell'isola. Una
scelta fatta in base all'intuito e alla sensazione del momento, ma felice. Innan-
zitutto perché in Spagna - lo scopriremo poi - il volo VFR è consentito non
HJ ± 30, come in Italia, ma HJ, ovvero fino al tramonto, non un minuto di più.
Ma la scelta di dirottare è felice anche perché Minorca è una bellissima
isola, talmente importante da essere stata, in passato, proprietà inglese, con il
porto naturale più bello e profondo del Mediterraneo, con una cittadina capi-
tale, Mahon, interessante e ricca.
Quella sera tutti quelli che ci individuano come italiani non si esimono dal
farci notare in modi piccanti che il Milan ha perso 4-0 con il Deportivo La
Coruña. Tra noi non ci sono tifosi di squadre di calcio, per cui rispondiamo in
modo bonario e disarmato alle provocazioni, da veri sportivi, ovvero dichia-
rando che ci fa piacere quando vince il migliore (se il capomeccanico milani-
sta Danilo fosse stato con noi sarebbero state faville).
Mahon, che vediamo in una serata fuori stagione, è affascinante, con bei
quartieri portuali, nobili palazzi e maestose calate verso la riva. Dalle banchi-
ne del porto guardiamo verso il largo interrogandoci su come procederà e
dove ci porterà il nostro volo di domani, eterna domanda che si pone da
millenni ogni navigatore.
Il volo del giorno successivo ci porterà a sorvolare tutte le isole delle Baleari
e poi a saltare verso la costa spagnola. Facciamo tappa a Murcia, dopo che
l'aeroporto di Alicante, destinazione inizialmente prescelta, ci ha fatto gentil-

115
Avventure di volo

mente sapere che è meglio che andiamo da qualche altra parte. Il tempo è
brutto all'interno e decidiamo di non dirigere verso Cordova, nostra destina-
zione, ma di seguire la costa il più possibile. Ci fermiamo infine a La Axar-
quia, appena prima di Malaga.
La Sierra, che si erge appena dietro la costa, immersa nelle nubi, è un
ostacolo insormontabile in quel momento per un volo VFR. L'amico Lamela
ci viene dunque a prendere in auto e, in un viaggio di due ore, alla media di
80-90 nodi, ci porta a Cordova lungo le strade deserte dell’estremo sud del-
l’Andalusia. Il giorno successivo di maltempo ci consente finalmente un po' di
relax e la visita ai principali monumenti di Cordova, tra cui la celebre e splen-
dida ex moschea. Cordova, infatti, fu la capitale della Spagna araba, ai tempi
in cui quella civiltà era il faro della cultura nel Mediterraneo e uno dei centri
dai quali la scienza e la cultura degli antichi potè tornare in Europa, dando
origine al Rinascimento e alla moderna civoltà occidentale.
Il dì appresso siamo accompagnati a riprendere l'aereo in un viaggio in
macchina di due ore e mezzo, che ci condurrà lungo l'identico percorso che
dovremo di lì a poco fare in aereo. Il tempo è variabile, con nuvoloni, ma
agibile, trovando l'opportuno buco per “passare sopra”. Dopo avere pagato
una cifra irrisoria quale tassa aeroportuale, decolliamo da La Axarquia, tro-
viamo subito l'opportuno buco e a livello 65 passiamo la Sierra facendo un
poco di gimkana tra i cumuli. Al di là, la pianura e il cielo terso. A 50 miglia
da Cordova vediamo le montagne a nord della città e ci sentiamo già in lun-
ghissimo finale per la pista 03, in un volo senza storia in cui siamo per qualche
minuto in contatto con la torre di Granada, splendida città moresca che vor-
remmo avere il tempo di visitare. Giunti a Cordova, sorvoliamo il centro
storico, per guardarlo ben bene e rivedere dall'alto tutto quello che avevamo
visitato il giorno prima, per poi dirigere sul lago aperto alle nostre operazioni.
Il lago è bellissimo, selvaggio, tutto a fiordi, articolato in diversi bracci.
Viene proprio voglia di percorrerne ogni ramo a bassa quota, cosa che faccia-
mo prima dell'ammaraggio. Definita la direzione del vento, ci posiamo sulle
acque, carpiti da quella bellissima emozione che il pilota idro prova quando
“deflora” un lago mai toccato in precedenza da altro scafo, da altro scarpone,
un’emozione che lo fa sentire pioniere in un mondo in cui ormai per definirsi
tale si deve pensare di andare su un altro pianeta.
Approdati, facciamo conoscenza con il responsabile della gestione del Gua-
dalquivir e bacini correlati, tra cui quello in cui ci troviamo. Persona sensibile
e intelligente, ha favorito l'iniziativa, pensando che un idrovolante non può
che rappresentare un valore aggiunto per il bel lago su cui esercita la sua
giurisdizione. La sua intuizione trova una conferma nell'interesse che il nostro
Lake suscita in tutte le persone presenti, che si affollano per prendere posto a
bordo e avere una vista dall'alto dell'area.
Appena a sud della diga, su un monte “orfano”, ovvero solitario, che si
innalza dall'ampia pianura del Guadalquivir, sopra un bianchissimo villaggio

116
Avventure di volo

tipicamente andaluso, c'è il castello di Almodóvar, una fortezza costruita dai


Mori, come si desume dal nome che inizia per “Al”. Qui tutto si riconduce alla
cultura araba, come nello stesso nome del Guadalquivir, ove “Guad” è la
trasposizione in spagnolo dell'arabo “Huad”, “acqua”.
Alla potente civiltà araba, in questa terra di confine si è sostituita un'altret-
tanto potente civiltà cristiana, i cui tratti rivelano la volontà di rivaleggiare con
quella preesistente. Ecco che tutte le manifestazioni della cristianità sono
forti, a partire dalle moschee “cristianizzate” per finire nell'albergo in cui
siamo ospitati a Palma del Rio, che è un antico convento in cui erano organiz-
zate le spedizioni di conquista e cristianizzazione del Nuovo Mondo. Los
Angeles è stata battezzata da alcuni evangelizzatori partiti da questo convento.
Alle pareti di una sala, tracciata sulla pelle di un animale da uno di quegli
antichi colonizzatori, la carta della California.
Tutto ciò per dire che fare un breve volo dal laghetto de La Breña offre una
visione non solo della florida natura della zona, ma su interessanti evidenze
delle civiltà araba e cristiana del passato.
Nella giornata faremo volare molti bambini e tutti i parenti di Carlos, che
sulle rive del lago hanno organizzato un picnic (la famiglia di Juana, moglie di
Carlos, ha una residenza nella zona).
Da un punto di vista idrovolantistico, il volare sul lago de La Breña offre
l'occasione di svolgere vari tipi di operazioni avanzate, quali ammaraggi a
specchio, decolli e ammaraggi su superfici con onda corta con ochette, amma-
raggi su superfici corte con ostacolo e approdi a riva con ostacoli.
Nelle operazioni su bacini sconosciuti il pericolo è sempre in agguato. Noi
lo tocchiamo con mano all'ora di pranzo. Al largo c'è una specie di gavitello,
che gli esperti locali ci dicono collegato a un corpo morto di grandi dimensio-
ni. Vi lasciamo il Lake ormeggiato per andare a mangiare qualcosa nel minu-
scolo e rudimentale circolo nautico sulla riva. A metà bistecca ci rendiamo
conto che la sensazione che avevamo avuto nel mezzo o un minuto precedente
è una tragica realtà: il Lake, sempre perfettamente ormeggiato alla boa, sta
andando alla deriva, spinto da un discreto vento, e presto finirà contro la riva.
Lo sveglissimo gestore del circolo nautico se ne è accorto prima di noi e sta
già navigando con il suo motoscafo verso l'aereo, che aggancia e porta in
salvo. Lo ormeggerà in mezzo al bacino gettando un'ancora e, per maggior
sicurezza, si tratterrà vicino all'aero per ogni evenienza. Proprio una persona
gentile, oltre che capace. Causa dell'inconveniente: il cavo tra la boa e il corpo
morto, evidentemente malandato, si era rotto e boa e aereo si erano trovati in
balia del vento, alla deriva.
Fatto l'ultimo volo all'imbrunire, dopo aver condotto in volo una sessantina
di persone e avere sorvolato vari altri laghi della zona, facciamo ritorno a
Cordova. Lo scrivente e Luigi Fara, i due piloti più esperti della spedizione, si
sono alternati tutto il pomeriggio nel fare i brevi voli sul lago e hanno quel
piacevole mix di stanchezza e compiacimento di chi sa di aver fatto qualcosa

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Avventure di volo

di bello per tante persone. Silvia ha potuto provare l'emozione di fare decolli e
ammaraggi con un Lake su un lago sperduto a 2000 chilometri da casa. Roos
ha passato il pomeriggio a chiacchierare piacevolmente con vari membri del-
l’estesa e simpatica famiglia di Juana Lamela.
Sulla strada del ritorno a Cordova ci viene indicata la residenza del Cor-
dobés, il celebre torero che ha dominato le arene negli anni Sessanta. Ci viene
detto che il celebre personaggio si era appassionato di aviazione e che girava
con il suo bimotore personale in compagnia degli altri tre colleghi toreri che
compongono il gruppo presente nell'arena. Si tramanda che i tre colleghi,
dopo le prime esperienze, si siano rifiutati di salire sull'aereo, dichiarando che
trovarsi disarmati di fronte a un toro infuriato era esperienza di gran lunga più
tranquilla e preferibile a quella di trovarsi su un aereo pilotato dal Cordobés.
A Cordova visitiamo la moderna ed efficiente struttura di Espejo, gestore di
un servizio antincendio con gli Air Tractor e di una modernissima officina
JAR 145. Sta attendendo che gli consegnino alcuni Air Tractor dotati di gal-
leggianti, detti Fire Boss.
Cordova è un aeroporto privo di traffico, non essendo toccato da alcuna
linea aerea. C'è l'embrione di un aero club, che tuttavia non ha ancora aerei. I
pochi soci volano su due vecchi Cessna messi a disposizione dalla ditta Espejo.
Cordova è una bella città, che si può ammirare con piacere dall'alto, ma curio-
samente non si è sviluppata alcuna attività di volo panoramico a favore dei
residenti e dei turisti.
Il ritorno lo affrontiamo percorrendo l'interno della Spagna, da Cordova a
Reus, vicino a Tarragona, poco sotto Barcellona. Il rapporto con i controllori
spagnoli è facile. Ti fanno fare quasi tutto quello che desideri, ti impongono
pochissimo, non sono curiosi, sono sempre molto gentili. Tale atteggiamento
è certamente favorito dallo scarso traffico VFR. Ai controllori italiani e so-
prattutto a quelli francesi non farebbe male una vacanza-studio in Spagna.
Decolliamo da Reus per Cannes nel pomeriggio, girando intorno a Barcello-
na e sorvolando l'aeroporto di Sabadell, ove opera l'aviazione generale. Dopo
essere risaliti verso nord, viene il momento di lasciare la costa e di dirigere
verso Tolone e Hyères. Il Golfo del Leone non tradisce la sua fama: vento
forte (30 e più nodi) e mare bianco di spuma. Proprio una tratta in cui è meglio
non avere una piantata di motore. Per tenere la rotta prefissata siamo costretti
ad adottare un angolo di correzione della deriva di 15 gradi. Anche in questa
tratta di mare l'ADF offre preziose sicurezze quando i segnali dei VOR non
sono più ricevibili.
Nel passaggio da Spagna a Francia perdiamo il contatto con il controllore
spagnolo e non riusciamo a contattare quello francese. Dopo avere tentato con
vari enti ci mettiamo in ascolto sulla frequenza di Tolone Avvicinamento.
Finalmente giunge una voce che chiede all'aereo che sta rispondendo con il
codice transponder 6342 di identificarsi e dichiarare le proprie intenzioni.
Ecco che perdiamo il ruolo di trasvolatori oceanici e rientriamo in contatto

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Avventure di volo

con il normale mondo dell'aviazione. Tale rientro è reso lievemente fastidioso


dall'insistenza dei controllori francesi nel voler sapere ogni dettaglio della
nostra rotta e nel guidarci tra varie aree non sorvolabili per motivi ecologici,
quali le Îles du Levant. Uno dei punti della rotta obbligata nel volo a vista
nella zona, il SE, risulta curiosamente al centro di una delle zone non sorvola-
bili, così che dobbiamo passarvi a una certa distanza (ci chiediamo perché mai
un punto di riporto debba essere situato in un'area regolamentata).
Giungiamo a Cannes proprio durante uno sciopero dei controllori francesi,
così che atterriamo in regime di autoinformazione, senza essere disturbati da
alcuno e conducendo l'operazione con tutto agio, potendoci concentrare final-
mente sui soli fattori essenziali per il volo e la sicurezza.
Il giorno successivo decolliamo da Cannes per Como e otteniamo l'autoriz-
zazione a seguire la comoda rotta degli elicotteri che passa sul mare al largo di
Nizza, a 500 piedi. Rotta breve e che offre una bella visuale sull'ampio anfi-
teatro in cui si adagia la bella metropoli, che parte dalle “piramidi di apparta-
menti” della Baie des Anges. I severi controllori francesi, alla nostra richiesta,
ci hanno subito chiesto il tipo del velivolo; al sentire “light amphibian” hanno
esitato per un istante e poi ci hanno autorizzati.
Gli Appennini, su consiglio di Silvia, li passiamo nell'entroterra di Savona, a
meno di 3000 piedi, percorrendo la valle che porta ad Acqui Terme. Silvia in
quella tratta è in un sedile posteriore, una posizione da cui è più facile avere
una visione del volo strategica e da cui tradizionalmente giungono saggi con-
sigli a chi sta “in prima linea”.
L'arrivo a Como è di quelli problematici, con la superficie completamente
rovinata dalle onde e inagibile, come ce la si può aspettare in una Pasquetta di
bel tempo. Ammariamo in quel braccio di lago che risponde, per noi piloti
idro comaschi, al nome di “Versace” (l'ex proprietario della villa che vi si
affaccia), e dopo 25 minuti di flottaggio lento giungiamo finalmente alla meta.
Siamo tutti soddisfatti, di essere andati a trovare un amico e di avere portato
l'aviazione idro in Spagna.

119
Avventure di volo

Ostacoli
Alle foci del Mera
Il Lake presenta, rispetto agli aerei con galleggianti, un piccolo vantaggio: è
basso. Ciò gli permette di passare in uno spazio molto ridotto. Posso valutare
questa caratteristica facendo un avvicinamento a un fiume, il Mera, proprio in
corrispondenza della sua foce nel lago di Como. Tutto sembra tranquillo.
All’improvviso, ormai poco distante dalla superficie e proprio davanti all’ae-
reo: i cavi! L’istinto suggerirebbe di dare tutta potenza e di cabrare decisa-
mente. Butto invece l’aereo in basso, pensando di usare la gravità a mio van-
taggio, e raggiungo quasi la superficie, passando sotto ai cavi. Se avessi tirato
ci sarei finito in mezzo.
Qualcuno si chiederà come possa non aver visto i cavi. Semplice: i due
piloni sono - come tuttora - sistemati nel bosco, in mezzo alle piante, sui due
lati della riva del fiume, e quindi sono invisibili. I cavi sono poco discernibili
dal paesaggio, trattandosi anche di una linea secondaria.

Valganna
Stiamo provando il Lake LA 250 per valutarne l’acquisto. Il pilota è il france-
se Bernard Duchateau, di grandissima esperienza, a cui il proprietario ha
affidato l’aereo per venderlo in Europa. Ci dice «Va bene provare l’aereo sulle
piste degli aeroporti, ma non c’è in giro qualche striscia di terra corta, con un
brutto fondo e con ostacoli dove vi possa far vedere di che cosa è capace
questa macchina?» Il pensiero va immediatamente all’aviosuperficie posta a
fianco di un capannone industriale in Valganna. Non è poi tanto corta, ma il
fondo è sconnesso e proprio in corrispondenza di una delle testate è ostruita da
una poderosa linea ad alta tensione.
Detto, fatto. Eccoci atterrati su quella striscia di terra. I piloni e i cavi della
linea ad alta tensione, che dall’alto sono quasi mimetizzati nel paesaggio,
appaiono ora in tutta la loro altezza.
L’aviosuperficie non è molto corta, si è detto, ma a renderla corta ci pensa
Bernard, che si porta per il decollo oltre la sua metà. La linea elettrica, distan-
te poche centinaia di metri, ci appare particolarmente vicina e incombente. Dà
tutto motore. Al distacco retrae il carrello e tiene l’aereo a una ventina di
centimetri dal suolo, sempre con la massima potenza inserita. Attende in quel-

120
Avventure di volo

la condizione di essere a una distanza “che lui sa” dai cavi della linea elettrica.
A quel punto cabra decisamente salendo con un angolo impressionante e gua-
dagnando in pochissimi secondi qualche centinaio di piedi di quota. I cavi li
vediamo sfilare sotto di noi da una distanza che ci tranquillizza (come dire
che, proprio volendo fare le cose al limite, avrebbe potuto decollare da una
posizione ancora più avanzata).

Torino
Un’altra situazione in cui posso apprezzare, anche se non mettere a frutto, in
quel caso, il profilo assottigliato in altezza del Lake si verifica a Torino. Dopo
una giornata di voli sul Po abbiamo a bordo tre persone, bagagli, parecchio
materiale che avevamo portato da Como. All’ultimo momento ci affidano una
batteria molto pesante, portata per avviare una altro aereo la cui batteria face-
va le bizze.
Decolliamo per tornare a Como. L’aereo, pesante, fa un po’ fatica a salire
sul redan, anche perché la superficie, già normalmente piatta, è diventata un
olio, a sera ormai inoltrata. Ci stacchiamo in posizione avanzata tra i ponti
Umberto I e Maria Isabella. Imposto immediatamente una salita ripida, ma
subito dopo mi viene il dubbio sul fatto che si riesca a sorvolare il ponte,
parecchio alto sulla superficie.
Guardo le arcate. Volendo, riesco a passare sotto l’arco centrale? Lo spazio è
giusto giusto. Sì, valuto che se proprio voglio riesco. Dunque continuo la
faticosa salita preparandomi alla possibilità di dover picchiare, livellare l’ae-
reo a uno o due decimetri dalla superficie, centrare bene la luce dell’arco del
ponte, passare il ponte e infine cabrare.
Ci sono attimi in cui sono indeciso se adottare una o l’altra delle due strate-
gie. Infine opto per la continuazione della salita. Passiamo parecchi metri
sopra la gente assiepata sul ponte e da quell’istante ci troviamo impegnati ad
affrontare il nostro volo di ritorno a Como.
L’idrovolante è anche questo: un istante prima ti trovi ad affrontare una
situazione di volo che richiede tecniche di conduzione specifiche e che non ha
nulla a che fare con il normale mondo dell’aviazione; un istante dopo ti trovi
immerso nel mondo dei controllori di volo, degli spazi aerei, delle radiali,
delle quote massime VFR e così via.
Commento finale del copilota Rino Caldiroli, per il quale il volo in idrovo-
lante è come l’estasi per la mistica medioevale Hildegarde von Bingen: «Si,
forse ci passavamo sotto. Comunque, se anche ci spiaccicavamo sul ponte per
me andava bene lo stesso».

Pareloup
Il volo dalla logistica più complessa che ho fatto nella mia vita è quello da
Como a Biscarrosse, in Francia, con il Cessna 172 I-BISB. Una delle tappe è il
lago di Pareloup, nelle Cevenne, posto a 2000 piedi di quota. Decollando da

121
Avventure di volo

Como, a 660 piedi, avevamo già avuto delle difficoltà, in quanto l’aereo,
stracarico, con i suoi 190 litri di carburante e tutti i materiali che avevamo
deciso di portare con noi nel lungo viaggio, aveva fatto una bella fatica a salire
sul redan. Ma il lago di Como è lungo decine di chilometri, mentre il laghetto
delle Cevenne è corto ed è tagliato a metà da una struttura, ovvero da un
ostacolo che accorcia le dimensioni del bacino e che devo superare.
In questi casi ogni espediente che renda disponibile uno spazio maggiore
per la corsa di decollo è prezioso. Dunque per il decollo si deve sfruttare
anche la piccola ansa o il tratto di immissario che si getta nel lago. Anche 100
metri in più sono significativi.
Con l’aereo con galleggianti non è generalmente praticabile il decollo circo-
lare, risolutivo invece per un aereo a scafo, ma si può ottenere un importante
risultato con la tecnica del sollevamento di un galleggiante nelle ultimissime
fasi della corsa di decollo. Vi sono aerei più o meno reattivi a questo tratta-
mento e il Cessna 172 non è certo dei più brillanti, ma alla fine di una corsa
difficile, ad accelerazione ormai quasi annullata, il sollevamento del galleg-
giante porta in pochi istanti al distacco.
Così il compianto amico Bruno Confalonieri e lo scrivente hanno fatto a
Pareloup, potendo proseguire il viaggio.

Venezia
A volte gli ostacoli sono perfettamente visibili, ma risulta difficile giostrarsi
tra essi. In altri termini la gestione dell’aereo in qualche modo o per qualche
istante può sfuggirci di mano.
Ciò succede sovente al pilota con poca esperienza che per le prime volte si
trova a volare a bassa quota. Abituato a vedere il paesaggio scorrere lentamen-
te davanti ai suo occhi, può trovarsi sconcertato dallo scoprire quanto veloce-
mente e inesorabilmente l’aereo si stia muovendo verso un ostacolo. Può
allora toccare con mano sia il problema dei propri tempi di reazione sia quello
delle inerzie del sistema di comando, dei sistemi di controllo della potenza e
infine dell’aereo in quanto oggetto, che ha una massa che resiste alle variazio-
ni che si tenta di imprimere al suo moto (come Newton ben ci spiega nelle sue
leggi). Il senno di poi indica che il pilota, in quelle condizioni inusuali, può
anche effettuare manovre peggiorative della situazione.
A me capita a Venezia, in un decollo con il Lake. Operazione complessa e
piena di distrazioni, anche per la magnificenza del paesaggio. Tempistica da
rispettare, aereo a pieno carico, uno stretto canale delimitato da grossi e tozzi
pali di legno, a noi destinato per le operazioni. Un’occhiata fugace alla striscia
di decollo: tutto sembra in ordine. Motore e via.
Ecco però che arriva il momento in cui mi chiedo se ho fatto proprio tutto
per fare quel decollo nella massima sicurezza e in cui sono costretto a rispon-
dermi di no. Non ho guardato bene da che parte arriva il vento, che è certa-
mente leggero, ma che se fosse in coda certo non aiuterebbe. Nel lungo flot-

122
Avventure di volo

taggio precedente non ho usato la pompa di sentina per svuotare lo scafo


dall’acqua accumulata in due o tre ore alla boa. Ma soprattutto non ho usato
tutta la superficie possibile, avendo bruciato forse 200 metri di canale prima
di dare tutta la potenza.
Dunque l’aereo si ostina a correre sull’acqua senza che voglia saperne di
staccarsi, mentre in prua appare sempre più grande e vicino uno di quei grossi
pali descritti sopra. Il canale fa una deviazione, che una barca o battello può
agevolmente affrontare alla sua tipica velocità di 10 nodi, ma che a 40-50 nodi
si presenta come una “S” impossibile. Tra l’aereo e il “fuori pista” sta proprio
quel palo. Sottovalutato quando ho dato motore, il palo appare avvicinarsi a
una velocità sorprendente.
L’aereo a scafo carico che corre su una superficie piatta lo si riesce di solito
a estrarre dall’acqua con espedienti che si applicano in tentativi successivi:
serie di colpetti all’indietro sul volantino, ciascuno seguito da una fase di
rilascio, con guadagno di 1-3 nodi a ogni ciclo, leggero rollio alternato a
destra e sinistra, lievissimo beccheggio di ±1°, alternatore OFF, il tutto mentre
si controlla al meglio l’aereo, con la pallina rigorosamente al centro. Queste
operazioni richiedono un certo tempo e anche un certo sangue freddo, se le si
deve adottare mentre ci si sta dirigendo verso un ostacolo e la velocità aumen-
ta con una lentezza esasperante, ma se si è superato il “punto di non ritorno”
non si ha altra scelta che applicarsi a quel compito con calma e precisione.
Quella volta il distacco è avvenuto in tempo utile per superare l’ostacolo,
ma non è scontato che le cose vadano sempre al meglio.
Morale: quanto poco ci vuole per mettersi nei guai in una situazione in cui si
potrebbe operare nella massima sicurezza!

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Avventure di volo

Autonomia
Gorizia
Molti incidenti hanno le loro origini in un momento lontano nel tempo. Il
quasi-incidente qui raccontato è frutto di una sequenza di scelte fatte nelle 36
ore precedenti al momento critico.
È una bella giornata di giugno del 1981. Il giorno dopo dobbiamo andare a
Ronchi dei Legionari, aeroporto di partenza del Giro Aereo d’Italia. L’aereo,
che useremo fuori dalla base per una settimana (con benzina pagata dall’Aero
Club d’Italia), lo noleggiamo “dry”.
Quel giorno sono casualmente a Lugano e dunque approfitto per fare benzi-
na sdoganata, quel che serve per arrivare comodamente a Ronchi. Faccio
dunque il pieno del centrale, 40 galloni, pari a 152 litri, che consente un’auto-
nomia di quasi quattro ore, con i quali dovremo fare i 15 minuti di volo tra
Lugano e Como e le due ore e un quarto da Como a Ronchi.
Decollo da Lugano e, giunto verso Como, mi rendo conto che sta montando
vento da nord, il tipico föhn. La superficie ora è ammarabilissima, ma non si
sa quanto il vento andrà avanti (sovente dura due giorni). Non posso rischiare
che non riusciamo a fare il Giro Aero d’Italia perché a Como il lago è troppo
mosso per decollare e quindi decido di portare l’aereo all’aeroporto di a Vene-
gono, ove starà per la notte.
Il giorno dopo l’equipaggio, formato da Gerolamo Gavazzi, che per tutto il
Giro sarà il pilota, e dal sottoscritto, che svolge il ruolo di navigatore, va a
prendere l’aereo a Venegono. Facciamo i controlli. I 32 galloni circa rimasti
nel serbatoio dopo i 40 minuti fatti il giorno prima sono “giusti” per la tratta
che dobbiamo fare fino a Ronchi e non ci poniamo problemi.
Il volo è senza storia fino al largo di Monfalcone, ormai a pochi minuti dalla
destinazione. Qui siamo bloccati da un banale incidente che ha reso inagibile
la pista di Ronchi. 73 aerei partecipanti al Giro stanno arrivando sull’aeropor-
to e uno di essi ha rotto il carrello in atterraggio ed è in mezzo alla pista.
Dunque siamo invitati a circuitare su Monfalcone in attesa che l’aereo sia
rimosso. C’è tempo e abbiamo guardato tutto quello che c’è da vedere fuori.
Dunque ci concentriamo sull’aereo. Stiamo facendo un larghissimo “360” e,
dovendo aspettare, sistemiamo l’aereo al meglio: velocità di massima autono-
mia chilometrica (85 MPH), con qualche nodo in meno per avvicinarci a

124
Avventure di volo

quella di massima autonomia oraria; dunque 82-83 MPH, cosa che si ottiene
con un settaggio di circa 16-17” e 2400 giri. Miscela ben smagrita per la
massima economia. Il consumo in quelle condizioni è bassissimo, intorno ai
25 litri/ora.
Dopo una decina di minuti incominciamo a fare un po’ di calcoli. Partiti con
32 galloni; consumati 25 circa per arrivare a Monfalcone; ne avanzano 7. Uno
lo abbiamo già consumato nei 10 minuti di attesa. Dunque abbiamo 6 galloni
nel serbatoio. Intanto arrivano altri aerei destinati a Ronchi e tutti sono messi
in attesa sulla costa. Sono passati altri 10 minuti (5 galloni nel serbatoio).
Ora basta: diciamo chiaramente a Ronchi che abbiamo problemi di autono-
mia e che avremmo piacere di scendere anche sulla porzione di pista libera. In
realtà non avremmo alcuna difficoltà ad atterrare prima o dopo l’aereo inci-
dentato o addirittura a fare un doppio “tocca e riparti” saltandolo, se volessi-
mo. La procedura però non è ammessa.
Tra promesse, contrattazioni e rinvii passano altri 10 minuti (4 galloni nel
serbatoio), finché viene aperto per gli aerei in emergenza l’aeroporto di Gori-
zia. Questo è normalmente chiuso al traffico in quanto la testata est è sul
confine yugoslavo e il circuito per l’atterraggio verso ovest si svolge sul terri-
torio di quel paese, che proibisce la manovra. Data l’emergenza, le autorità
yugoslave collaborano. Dunque siamo autorizzati ad atterrare a Gorizia. È
quel che facciamo, dopo aver rimesso l’aereo in una normale crociera. La
pista è ingiustamente definita “in erba”, perché è in verità un campo di patate
a grosse zolle sconnesse. Per fortuna siamo su un Lake.
Per gli aerei del Giro è organizzato il rifornimento. Ora indovinate quanta
benzina entra nel serbatoio? Esattamente due litri meno della sua massima
capienza. In altri termini: siamo arrivati a destinazione con due litri di benzi-
na. Proprio poco, vero!
Tre gli errori fatti. Il primo è quello di essere partiti da Venegono senza
avere fatto il pieno. Che cosa costava rabboccare quella trentina di litri? Il
secondo è quello di avere abbandonato il mare per l’interno con una quantità
di carburante molto ridotta, ai limiti della certezza di arrivare a destinazione.
Il terzo è stato quello di fare la tratta da Monfalcone a Gorizia con un normale
settaggio di crociera invece che mantenendo rigorosamente il settaggio per la
massima autonomia chilometrica.
C’è da dire che se non avessimo circuitato per mezzora o più con il settaggio
ottimale per l’attesa saremmo finiti senza benzina in un prato tra Ronchi e
Gorizia. Altra dimostrazione, se mai servisse, che è sempre consigliabile fare
le cose al meglio, anche quando non se ne vede una stretta necessità.
Avevamo in realtà un’altra opzione: scendere sulla parte libera della pista di
Ronchi, in barba alle autorizzazioni, ma non abbiamo mai percepito la nostra
condizione come talmente a rischio da dover prendere quella decisione.
Oggi, con vent’anni di esperienza in più, in quelle condizioni opterei per un
ammaraggio nell’insenatura di Monfalcone (ove approderò dopo molti anni,

125
Avventure di volo

come è descritto nel capitolo “Grand Princess”), per restare su una riva in
attesa di ridecollare per Ronchi, eventualmente dopo essere andati a prendere
una tanica o due di benzina e un buon caffè.

Napoli
Franco Panzeri e lo scrivente partono per Lampedusa con il Lake I-AQVA, per
commemorare la scomparsa di Enrico Recchi e Marco Merlo, in seguito al-
l’incendio del Catalina avvenuto a Torino. Giorgio Porta deve andare a Napoli
a prendere il Maule usato a Ischia, per portarlo a fare una manutenzione a
Roma. Dunque Panzeri, Baj e Porta partono con destinazione Napoli.
Come sempre, si fa tardi e come spesso avviene, il tempo è inclemente: gli
Appennini liguri sono tutti dentro le nubi e la copertura è rotta solo verso il
Centro Italia. Dunque da Voghera incominciamo a costeggiare a bassa quota il
versante settentrionale della catena appenninica nella speranza di trovare, pri-
ma o poi, un varco verso il Tirreno. La speranza si avvera in quel di Parma,
ove tra strati più o meno rotti riusciamo a inerpicarci sulla Cisa e poi a tuffarci
verso Sarzana e il mare.
Il volo a vista nel tempo perturbato non è certo un volo che assicura i minori
tempi di percorrenza. Infatti si deve zigzagare in pianura dirigendo man mano
verso le zone di migliore visibilità e seguire percorsi tortuosi nelle zone di
montagna per valicare le catene montuose nei punti più opportuni. Inoltre
capita, una volta saliti sopra le nubi, di dover salire a quote sempre più alte,
per evitare di entrarci e di trovarsi in condizioni IMC, e poi di buttarsi a
capofitto in eventuali squarci nella copertura per ritornare alle basse quote.
Insomma, nel caso in esame, l’aereo, lungi dall’aver seguito la rotta diretta
Como-Saronno-Voghera-Genova-Elba, giunge infine all’Elba dopo aver gira-
to mezza pianura padana e in un tempo molto più lungo.
Il Tirreno lo si attraversa di solito nel volo a vista lungo una rotta che sta
sotto l’aerovia usata dagli aerei di linea, che passa per Genova, Elba e Ponza.
Dunque, giunti a Sarzana, andiamo a intercettare questa rotta al largo delle
coste della Penisola e ci mettiamo a una quota che assicura una buona veloci-
tà. Giunti alla TMA di Roma, siamo però costretti a scendere a quote bassissi-
me per non interferire con il traffico di linea in avvicinamento a o in partenza
da Fiumicino. Altro fatto che comporta una leggera perdita di tempo.
Al traverso di Ostia la velocità rispetto alla superficie, indicata dal DME,
incomincia a diminuire. C’è vento in prua, che ci rallenta. In una decina di
minuti la componente di vento frontale raggiunge i 25 nodi. Non è proprio
quel che si desidera, essendo già tardi e avendo alle spalle ore di volo.
È il momento per fare un ricalcolo accurato dell’autonomia e una ripianifi-
cazione del percorso rimanente. Il Lake possiede un preciso flussometro digi-
tale con totalizzatore e quindi sappiamo esattamente quanta benzina rimane
dei 284 litri di benzina che avevamo alla partenza. Un rapido calcolo ci fa
scoprire che, alla velocità di crociera normale e con il relativo consumo orario

126
Avventure di volo

non potremo arrivare a Napoli. Dunque la scelta più immediata è di dirigere


verso la costa e dirottare a Roma Urbe.
Faccio però alcuni calcoli considerando di adottare parametri di volo previ-
sti per ottenere massima autonomia chilometrica e vedo che possiamo arrivare
a Napoli, ma quasi ai limiti dell’autonomia. Quando si devono prendere deci-
sioni di una certa gravità è bene parlarne con gli altri piloti presenti a bordo.
«Possiamo arrivare a Napoli, ma ci arriveremo con 10-15 litri di benzina. Vi
va? L’alternativa è di dirottare all’Urbe. Se il vento aumenta ancora e vedremo
che a Capodichino non arriviamo potremo fare un ammaraggio di sicurezza
sul Lago di Fusaro. È un traffico perché sarà quasi buio e dovremo dare un
sacco di spiegazioni, ma la cosa è fattibile.»
Decidiamo di proseguire. Dunque adotto subito il settaggio di potenza che
dà una velocità di 84 KTS, velocità di massima autonomia chilometrica, e
smagrisco accuratamente per la massima autonomia, ottenendo un consumo
orario di 34 litri. Con 25 nodi di vento contro la velocità rispetto alla superfi-
cie è di soli 60 KTS, ma a quella velocità e consumando 34 litri/ora si arriva a
Napoli, mentre a 85 KTS, corrispondenti alla velocità rispetto all’aria di 110
KTS meno i 25 nodi di vento e consumando 62 litri/ora a Napoli non si arriva.
Fa impressione, in quanto è antistintivo, procedere verso il buio e una meta
lontana, con vento contrario, e ridurre potenza e velocità, ma la ragione sug-
gerisce di adottare e tenere la velocità di massima autonomia chilometrica,
che è innaturalmente bassa, ma è quella che consente di volare più lontano.
Per accorciare di un poco il percorso non seguiamo più nemmeno l’aerovia,
ma dirigiamo direttamente su Napoli. Arriviamo sul Lago di Fusaro ormai con
un pallido bagliore all’orizzonte occidentale. Verso est, cioè verso Napoli, è
buio pesto, ma proprio al buio le città appaiono in tutto il loro splendore, come
un tappeto di luci multicolori. Dopo aver passato i Campi Flegrei voliamo
lungo la costa del più celebre golfo d’Italia, finché arriviamo alla città.
Le luci di avvicinamento a Capodichino sono ben visibili oltre il tappeto
luminoso. È il momento di fare un ultimo controllo. Infatti dobbiamo abban-
donare la costa e attraversare la città per raggiungere la pista e dobbiamo
essere certi di avere abbastanza benzina per compiere il tragitto. Un amma-
raggio di emergenza con motore piantato a breve distanza da una riva comple-
tamente illuminata è una cosa; un atterraggio di emergenza con motore pian-
tato nel bel mezzo della città di Napoli è ben altra cosa. I calcoli indicano che
il volo si dovrebbe essere svolto secondo la pianificazione fatta al largo di
Ostia; il flussometro conferma. Quindi decido di proseguire.
L’atterraggio notturno su una pista lunga si fa comodamente con la procedu-
ra a specchio. Dunque avvicinamento con potenza per avere 150 piedi e poi
100 piedi a scendere, in attesa del contatto. Carrello giù all’ultimissimo mo-
mento, ormai quasi in pista, nel ricordo di quattro amici che si sono schiantati
senza benzina a 300 metri dalla soglia pista.
Un’altra avventura finita bene.

127
Avventure di volo

Dirottamenti
Dirottare, quando la situazione lo richiede, è una scelta che vale la vita.

Dirottare è una scelta difficile. Infatti dobbiamo ammettere che non siamo in
grado di concludere il volo così come lo avevamo pianificato, forse che non
siamo stati in grado di prevedere l’evoluzione del tempo meteorologico o gli
imprevisti che si sono presentati. Inoltre vuol dire non andare nel luogo desi-
derato, perdere l’incontro di affari o la serata con gli amici e stare in giro per
squallidi alberghi.
Nondimeno, dirottare significa in molti casi scegliere la vita. Io ho dirottato
parecchie volte e sono certo che devo la vita ad alcune di quelle scelte.
Devo confessare che due volte non ho dirottato e me la sono cavata per il
rotto della cuffia (atterrando con le ultime gocce di benzina, la prima volta, e
nel completo buio la seconda), tanto che ho giurato a me stesso che in situa-
zioni simili, da quel momento in poi, avrei sempre dirottato. La seconda di
quelle volte non ho mantenuto la promessa che mi ero fatto la prima volta.
Non c’è stata una terza volta e spero che non ci sia mai più.
Vediamo ora qualche storia di dirottamento, che riporto solo per incoraggia-
re i piloti a riconoscere in tempo le condizioni nelle quali è molto, ma molto
meglio dirottare.
Altri dirottamenti sono narrati nei capitoli “L’avventura dietro l’angolo” e
“Ne va della vita”.

Genova
Il primo dirottamento della mia vita mi capita nel 1980, in occasione del
primo volo di un certo impegno che compio, con un Lake Buccaneer, pochis-
simo dopo avere conseguito il brevetto di secondo grado. È un Como-Elba-
Como. Questa, almeno, sarebbe l’intenzione.
Proprio prima della partenza è compiuta un’operazione sull’impianto elet-
trico che, all’insaputa di tutti, mette fuori uso l’alternatore. Dunque la batteria
non è più ricaricata e tutto ciò che di elettrico c’è a bordo è destinato, prima o
poi, a smettere di funzionare. Ciò avviene nel tratto tra Voghera e Genova,
sugli Appennini, proprio mentre sto facendo una comunicazione con “Milano
Informazioni”. Provate a immaginarvi un controllore che sente una comunica-

128
Avventure di volo

zione proveniente da un aereo che sta volando a vista in montagna interrom-


persi all’istante. Prova e riprova a richiamarlo: nulla, l’aereo non risponde. La
fase di preallarme, inevitabilmente, scatta.
Ma torniamo a bordo. Per me è la prima volta che mi trovo ad affrontare
un’emergenza in cui, oltretutto, non è implicato solo l’aereo, ma anche enti o
strutture esterne. Di colpo, tutto spento. Un passeggero seduto dietro, esperto
pilota di rally (lo sto portando a vedere il Rally dell’Elba) si rende conto della
situazione, mi mette una mano sulla spalla e mi dice con apprensione, ma con
atteggiamento solidale: «Ma se la batteria è fuori uso... il motore si spegnerà».
Mi affretto a tranquillizzarlo: «No, no, nessun problema, la batteria non è
importante; gli aerei hanno i magneti, come le vecchie moto; il motore non si
fermerà mai, finché c’è benzina. E i motori di aereo hanno due candele per
cilindro, ciascuna alimentata da un magnete del tutto indipendente dall’altro».
Vedo il sorriso comparire su un volto che sta riacquistando colore. Probabil-
mente pensa alle panne che ha avuto in macchina e a come sarebbe stato bello
avere magneti anche sulle macchine (mi sono sempre chiesto perché le mac-
chine non li abbiano e non ho mai avuto una risposta convincente).
Che fare? Potrei scendere a Genova. Ma Genova è un grosso aeroporto,
dove dovrei scendere senza radio in mezzo al traffico strumentale. Poco consi-
gliabile. Posso continuare fino a Massa, un piccolo aeroporto, ma faccio un
po’ il furbo e decido di tirare diritto fino alla destinazione. Poi si vedrà.
All’Elba arrivo in un temporale, volando tra gli scrosci d’acqua a 200-300
piedi dalla superficie, l’unico modo per vederla. Devo girare intorno al lobo
occidentale dell’isola raso-acqua, per non entrare nelle nubi, finché raggiungo
la costa meridionale, su cui si affaccia la pista di Marina di Campo.
Volo senza alcuno strumento di navigazione o elettrico (compreso il viro-
metro) e senza alcuna pompa. Per estrarre i flap e il carrello devo usare, per la
prima volta nella mia vita, la pompa a mano. È bello - devo confessarlo - avere
un’emergenza quando si è preparati e si hanno tutti gli strumenti per affrontar-
la. Dà un bel senso di potenza. La pompa a mano del Lake svolge magnifica-
mente il suo compito. La faccio azionare dal passeggero al posto di destra,
felice di potersi rendere utile e visibilmente compiaciuto di come su un aereo
tutto alla fine sia risolvibile anche se cose importanti non funzionano.
Come atterro all’Elba, vedo una mano che esce da un gabbiotto e che agita
una cornetta del telefono, mentre un’altra mi fa segno insistentemente di avvi-
cinarmi. Sì, sì; ho capito. Mi stanno cercando. Dopo avere frettolosamente
parcheggiato, spiego al controllore di “Milano Informazioni” che ho avuto
una panne all’impianto elettrico e che ho continuato secondo il piano di volo.
Lui mi dice che aveva temuto il peggio e che forse avrei fatto meglio ad
atterrare al primo aeroporto. Io faccio il finto tonto e dico che non me la
sentivo di rischiare di scendere a Genova o Pisa senza radio. Tutto si chiarisce
e l’incidente diplomatico ha termine. Intanto sono riuscito a portare i miei
passeggeri a destinazione.

129
Avventure di volo

Ora si tratta di esaminare quel che è successo. Mi faccio caricare la batteria


e verifico che in effetti l’alternatore è morto o comunque che non carica. Tutta
l’energia elettrica che ho è nella batteria ricaricata. Dovrò tornare a Como
solo con quell’energia.
Nulla è semplice nella vita, come si sa. Dunque, all’Elba non c’è benzina,
perché siamo ancora fuori stagione. Il punto più vicino dove farla è Bastia, in
Corsica, a 25 minuti di volo. Per fortuna e prudenza, alla partenza, avevo
caricato di benzina anche i serbatoi supplementari, nei galleggiantini. Ma non
posso contare su un trasferimento grazie alle pompe elettriche, non sapendo
quanto sarebbe durata la batteria, peraltro più utile per altri usi. Dunque scari-
co in taniche la benzina dei serbatoi supplementari, operazione lentissima, e
la trasferisco con un imbuto nel serbatoio principale.
Parto così per Bastia, facendo il mio primo volo internazionale (ottimo
esercizio, in quanto ho appena fatto l’esame di radiotelefonia in inglese). Lì
riempio i serbatoi e riparto per Como.
L’attraversamento del Tirreno settentrionale lo faccio accendendo gli stru-
menti di radionavigazione per pochi secondi ogni dieci minuti, giusto per
controllare se sono in rotta o fuori e adottare le correzioni del caso. Agli enti di
controllo annuncio che non posso mantenere l’ascolto sulla frequenza, per
problemi all’impianto elettrico, e preannuncio l’ora esatta della successiva
comunicazione.
Capita che il tempo peggiori, che la base delle nubi si faccia sempre più
bassa e sono costretto a volare sempre più basso sulla superficie del mare,
tanto che perdo il contato con i radiofari e con i controllori di Genova. Nessun
problema, da quel punto di vista. Infatti il bacino del Tirreno è come una vasca
da bagno: se si va a nord si finisce contro la Liguria centrale; se si va a est si
finisce contro la Toscana settentrionale o la Liguria meridionale. In ogni caso,
usando la sola bussola, si raggiunge una costa ben identificabile, che si può
poi seguire agevolmente.
Giunto alla costa, appare evidente che di passare gli Appennini non si parla.
Impensabile, per il maltempo. Eccomi dunque, dopo il dirottamento al “Cri-
stoforo Colombo”, alla stazione di Genova Brignole, con i miei passeggeri, a
prendere un treno per Zurigo, con in tasca un biglietto per Como.
«Siamo andati all’Elba per vedere il rally - mi dice uno dei passeggeri - ma
che noia, anche perché noi siamo tutti piloti di rally e ne abbiamo già visti
tanti. Poi... in effetti a noi piace pilotare la macchina, non vederla pilotare da
altri. Il vero divertimento è stato il viaggio in aereo, con tutte queste belle e
interessanti avventure! Non vediamo l’ora di farne altri.»

Verona
Metà dicembre, giornata uggiosa. Con un altro pilota (ora in Alitalia), Paolo
Lucini, dobbiamo portare un suo amico a Toscolano-Maderno, un paese della
costa occidentale del lago di Garda, dove deve sbrigare degli affari in un

130
Avventure di volo

cantiere edile, per poi riportarla a Como. Da Como al lago di Garda non vi
sono montagne. Quindi la tratta è percorribile con il nostro Lake Buccaneer
anche con tempo poco favorevole e visibilità scarsa.
In quel periodo alle quattro e mezza del pomeriggio si incomincia a non
vedere più nulla. Come sovente avviene, la persona si attarda e le ore passano.
Sono le tre e la partenza non sembra imminente. Siamo un po’ in apprensione.
Finalmente il “cliente” ha finito le sue faccende e si parte. Imbocchiamo la
rotta da Salò verso Brescia e poi Trezzo e Como non molto prima dell’imbru-
nire. Andando verso ovest, le condizioni peggiorano decisamente: la foschia
si fa sempre più densa e diventa indistinguibile da una nube. Davanti non si
vede nulla. Sotto qualche dettaglio del paesaggio si riconosce a mala pena.
Incomincia a nevicare.
Sono, queste, tipiche condizioni in cui un pilota fa rapidamente il conto
delle opzioni che ha. In genere il pilota di un anfibio ne ha qualcuna in più,
cosa consolante. La prima cosa che facciamo è un’inversione di rotta, per
ritornare verso una zona in cui la visibilità e il tempo erano migliori. Il tempo,
intanto, è trascorso e la visibilità è diminuita.
La nostra posizione è intorno a Brescia, ove vi sono due magnifici aeroporti:
Montichiari e Ghedi. Entrambi sono chiusi al traffico dell’aviazione leggera.
Contatto l’ente di controllo e chiedo di poter dirottare su uno qualsiasi dei due
aeroporti. «Niet.» Spiego meglio la mia situazione, ma loro, laggiù, seduti sull
loro belle poltrone, sono inamovibili. Il senso di quello che dicono è: «Se non
volevi grane dovevi startene a casa, bello».
Cerco di intimorirli: «Non sono in condizioni di continuare il volo in VMC
(condizioni di volo a vista) e non posso trasformare il volo in IFR (in volo
strumentale) perché incontrerei sicuramente condizioni di ghiaccio, presenti
già all’attuale quota di volo (il fatto che non sia abilitato a quel tipo di volo in
quel momento è irrilevante). Confermate che mi negate la possibilità di dirot-
tare a Montichiari?». Mi vedo già un giudice che interroga quel controllore:
«Il pilota aveva dichiarato in modo inequivocabile le sue condizioni di volo, di
evidente emergenza; non avevate altro traffico sull’aeroporto; che cosa l’ha
indotto a negare il dirottamento?». E spero che anche lui si veda davanti a quel
giudice che gli pone quelle domande. Forse i controllori hanno una scarsa
immaginazione; forse quel controllore ha altro a cui pensare. Nulla da fare; la
sua risposta finale può essere tradotta come: «Vattene fuori dalle palle e falla
finita con queste storie. Arrangiati».
Se quella fosse l’unica opzione (prima di un atterraggio di fortuna in un
prato) non ci avrei pensato due volte e avrei “forzato” il blocco, andando ad
atterrare a Montichiari, ovviamente ottenendo prima garanzie sull’assenza di
altro traffico, ma “fregandomene” di qualsiasi diffida a continuare l’avvicina-
mento e atterrare (Arrestatemi pure. Vuol dire che sono vivo!).
Nevica ormai anche in un tratto della rotta che all’andata era ancora decen-
te. Mentre procediamo verso est ci sorpassa un bimotore che vola ancora più

131
Avventure di volo

basso di noi, un po’ sulla destra. È molto vicino, a un centinaio di metri da noi.
Probabilmente ci ha visto ed evitato o, almeno, ce lo auguriamo. Chiediamo
all’ente di controllo se gli risulta che ci sia altro traffico nella zona. Rispondo-
no di no. Un vero aereo-fantasma.
Pilotando un anfibio, un’opzione diversa dall’atterrare a Montichiari o in un
prato (opzione ormai quasi impossibile per la scarsa visibilità) ce l’ho ed è
quella di ritornare sul lago di Garda, cosa possibile anche con visibilità pres-
soché nulla, per compiere un ammaraggio strumentale quando avessimo la
certezza di trovarci in mezzo al lago, e infine dirigerci a bassa velocità, come
una barca, verso una riva. È bello pilotare un anfibio proprio in queste situa-
zioni, in cui una grave emergenza può essere risolta come un’operazione nor-
male o quasi.
Fortuna vuole che nel raggiungere il lago di Garda le condizioni migliorino.
Un’altra opzione fa dunque capolino: raggiungere Verona. Lasciare un aereo
in un aeroporto è una cosa preferibile all’ammarare alla cieca in mezzo a un
lago mentre sta nevischiando e Verona è a soli dieci minuti di volo. Dentro la
massima potenza ammissibile e via verso Verona, ove infine atterriamo pres-
soché al buio, ad aeroporto chiuso.
Sta arrivando l’iradiddio, un terribile fronte che imperverserà su tutta l’Ita-
lia. L’aereo lo ricupereremo - l’autore e il capace vicepresidente Mario Pozzi -
solo dopo 15 giorni, primo momento volabile dopo il dirottamento.

Cremona
Dobbiamo andare sul Lago di Bilancino, a nord di Firenze, a bordo di un
Cessna 172. Equipaggio: Schettino e Baj. Come spesso accade, si fa tardi e si
parte con davanti tanto tempo di luce quanto ne serve per giungere alla meta.
Il tempo non è dei migliori: nubi basse e pioggia.
Volando con un idrovolante gli alternati sono solo gli specchi d’acqua. Pri-
ma degli Appennini se ne trova uno ottimo a Cremona, il porto-canale, poi più
nulla salvo qualche allargamento di fiumi che si gettano nel Po, che nella
stagione estiva sono sovente completamente in secca.
A Cremona si pone un dilemma in realtà facile da risolvere. Se si prosegue e
gli Appennini non sono transitabili si può solo tornare a Cremona, ma ormai al
buio e quindi nell’impossibilità di ammarare. Le alternative, in quella condi-
zione, sarebbero solo due: atterrare sulla pista illuminata di un aeroporto op-
pure ritornare in piena notte a Como e ammarare sulla ben conosciuta superfi-
cie dell’Idroscalo, operazione illegale ma eseguibile per noi in sicurezza.
Trattandosi di soluzioni estreme, la scelta non può essere che una: dirottare
subito a Cremona. Premio: un’ottima cena in un ristorante tipico.

Montalivet-les-Bains
Biscarrosse, sulle coste dell’Atlantico, a sud di Bordeaux, alla fine di una
grande manifestazione. Sono con la mia fidanzata, che mi ha accompagnato.

132
Avventure di volo

Lei, dopo quattro giorni di idrovolanti non ne può più, ma il tempo, nella
Francia sudorientale, sulla via del ritorno a Como, è il peggiore da cent’anni,
con nubifragi, strade interrotte, paesi allagati, telefoni che non funzionano,
voli di linea annullati ormai da giorni.
Dove ci troviamo, sulla costa atlantica, il tempo è bruttino, ma nella norma-
lità. Di tornare non se ne parla almeno per i quattro o cinque giorni a venire.
Bene, è proprio un’ottima occasione per andare a fare un giro nelle regioni
della Francia occidentale, che si dimostrano di grande interesse: la Charente
Maritime, con quella perla di città che è La Rochelle, e la Bretagna.
Piove e il ceiling è basso. Si prevede un peggioramento. Le insistenze per
abbandonare quella specie di fiera dell’idrovolante, un inferno per una perso-
na non interessata, sono fortissime. A Biscarrosse e nelle Lande di Guasco-
gna, infatti, c’è poco da vedere, salvo il Museo dell’idroaviazione. Non mi
lascerei mai convincere a partire, se non pensassi io stesso che tutto quello che
dovevamo fare ormai lo avevamo fatto e che era ora di andare. Inoltre il
ragionamento era il seguente: il tempo è sul brutto, ma in fondo devo solo
mettermi sul mare e andare a nord, finché incontro un aeroporto vicino a un
bel posto, dove scenderò. Il bello, quando si è in vacanza in aereo, è non
programmare. Si va lungo coste e fiumi e si scende dove si è più ispirati al
momento. Un ceiling basso, la pioggia e la scarsa visibilità non possono fer-
mare un idrovolante che vola sul mare e impedirgli di scendere su uno dei
tanti aeroporti che si trovano lungo una costa priva di rilievi.
In conclusione: si va.
Dunque faccio benzina, imbarco i bagagli e ce ne andiamo. Dopo pochi
minuti di volo sono sull’oceano. Piove sempre più forte, una pioggia di goc-
cioline finissime che quasi non fa rumore sulle finestre, ma che le avvolge
come se fosse un olio. Il ceiling si abbassa. Dal largo arrivano vere folate di
nubi basse, di nebbia. Per non perdere il contatto visivo con la superficie devo
scendere a una quota molto bassa. Dopo due o tre minuti mi trovo a volare
lungo la spiaggia a cento o duecento piedi di quota. La nebbia mi avvolge
completamente. Provo a chiamare l’aeroporto di Biscarrosse, annunciando
che sto valutando l’opportunità di ritornarvi. Mi dicono che non vi sono più
condizioni di volo a vista e che è scesa una nebbia impenetrabile. Impossibile,
dunque, dirottare sullo stesso aeroporto di partenza.
Nella stessa nebbia sto volando io. Mi viene in mente che il fenomeno
potrebbe essere simile a quello frequente in California, che in pochi minuti
avvolge il Golden Gate di un vellutato manto biancastro.
Mi viene la tentazione di dare motore e di passare “sopra”, ma questo non è
solo un banco di nebbia; piove e il cielo è di un grigio non molto chiaro. Non
so che cosa c’è là sopra. Meglio stare ben attaccati all’unica certezza che ho:
la spiaggia.
La costa atlantica occidentale francese è un’unica e ininterrotta spiaggia di
sabbia. Mi piazzo dunque a quattro o cinque metri di quota dalla spiaggia, che

133
Avventure di volo

posso vedere anche volando in nube. Sgrano invece gli occhi in avanti, per
evitare eventuali strutture o costruzioni che possano trovarsi erette sulla spiag-
gia. Ma la zona è selvaggia e - per fortuna - non c’è traccia di presenza umana
e di infrastruttura tecnologica; non ci sono strade; non ci sono moli, strutture
in ferro, pali, torri o altro. Comunque la visibilità è di qualche centinaio di
metri e avrei comunque il tempo per una virata di scampo verso l’oceano, se
dovessi trovarmi davanti qualcosa.
Volando sul bagnasciuga, posso visualizzare perfettamente l’angolo di cor-
rezione della deriva, dovuto a un discreto vento che soffia dal mare. L’aereo,
per seguire la costa, procede con una prua di una decina di gradi spostata
verso l’oceano. Non posso portarmi all’interno in quanto la zona è caratteriz-
zata dalla presenza delle celebri foreste di pini marittimi, che si ergono fino a
una quota che è di una decina di metri più alta della quota di volo.
Spulciando la carta vedo che a una cinquantina di miglia a nord c’è un
aeroporto, qualificato come chiuso. Sulla carta il circoletto è sbarrato da una
bella croce. Si trova a meno di un miglio all’interno della cittadina rivierasca
di Montalivet-les-Bains, l’unica di tutto quel tratto di costa, salvo un altro
villaggetto. Intanto cerchiamo di arrivarci. Poi vedremo di che cosa si tratta.
Volo per mezzora a pochi metri dalla spiaggia quando, dal nulla, compare
l’abitato. Vedo sulla carta Michelin al 200.000 (essenziale, come quella del
Touring in Italia, per fare navigazione osservata a bassissima quota) che una
strada si addentra nella foresta di pini marittimi e, a meno di un miglio all’in-
terno, parallela alla strada, c’è la pista dell’aeroporto, anzi, dell’ex aeroporto.
Giunto al centro dell’abitato mi butto verso l’interno, sempre dentro e fuori
dalla nuvolaglia, ma ora usando la distesa delle fronde di pini marittimi come
superficie di riferimento. Volo a pochi metri di quota dal verde “mare” di
fronde, cercando di tenere bene in vista la strada sulla mia sinistra. Dopo una
trentina di secondi so di avere l’aeroporto alla mia sinistra. Vedo infatti che la
foresta è interrotta e che c’è del vuoto. Viro di 90 gradi e mi aspetto di vedere
una pista entro tre o quattro secondi. Il terreno mostra la sua presenza solo
quando guardo quasi in verticale, dalla quota di una trentina di metri alla
quale volo. Ecco, apparire, sotto, un tratto di pista, con la sua linea bianca
tratteggiata sul suo asse.
Quando si vola si deve sempre avere un’altra opzione, ovvero una via di
uscita. In quel momento la mia non è facilissima, ma è tutto sommato sicura.
Se l’aeroporto non esiste, se mi trovo davanti un ostacolo, se la visibilità
scende a zero so già che cosa fare: devo dare tutto motore, salire di due o
trecento piedi, in mezzo alle nubi, ma certamente lontano dagli ostacoli; met-
tere la prua a ovest, per ritornare verso il mare; dopo due minuti circa, quando
sono certamente sul mare, devo impostare una discesa, sempre con prua a
ovest, con un rateo basso, quello tipico dell’avvicinamento a specchio, di 100-
200 piedi al minuto, in attesa di rivedere la superficie (la vedevo prima, a una
quota di circa 100 piedi, quando sono arrivato, la rivedrò ora).

134
Avventure di volo

L’aeroporto è indicato come “chiuso” e non mi è noto il perché. Potrebbe


esserci un buco a metà della pista, come non esistere più ed essere sostituito
da un capannone industriale. Devo dunque fare un’ispezione e quindi percorro
la pista in una direzione, facendo alla fine una virata strettissima per ripercor-
rerla nell’altra direzione. Sì, la pista c’è. Dopo una seconda strettissima virata,
abbasso flap e carrello e atterro nella direzione della costa, da cui tira il vento.
Dopo essere sceso, mi accorgo che la copertura è tutta sbrecciata e che ciuffi
di erba e muschi pervadono la pista, che dunque appare come inutilizzata da
anni. Nulla, tuttavia, che possa dare fastidio alle ruote e al sovradimensionato
carrello di un Lake Renegade.
Dopo avere parcheggiato l’aereo giunge sul posto un simpatico signore, un
ornitologo, ex tecnico di piattaforme petrolifere in pensione, che stava osser-
vando gli uccelli nella foresta quando ha sentito un aereo volare a bassa quota
nella nebbia. Ha capito che stava per succedere qualcosa e si è precipitato
all’aeroporto. È felice di constatare che la situazione che aveva subito identifi-
cato come di emergenza si sia risolta per il meglio. Si offre gentilmente di
portarci in auto nell’abitato, per trovare un albergo.
La sensazione di averla scampata bella è - per così dire - ambivalente per un
pilota. Da un lato si compiace di come sia riuscito a risolvere la situazione.
Dall’altro si chiede se era veramente necessario correre quei rischi. La rispo-
sta razionale è sempre «no». Tuttavia, trovandosi a terra, rilassati, dopo una
doccia, davanti a una bella cenetta, con la propria donna, si è tuttavia felici
dell’avventura vissuta, delle difficoltà superate, del ricordo dei momenti in
cui la sindrome adrenalinica si è manifestata in tutti i suoi effetti.
La mattina dopo, due sorprese. La prima è la verifica di un tentativo di
scasso. Andando via da Biscarrosse ci avevano regalato una cassa di champa-
gne, che si trovava sul sedile posteriore dell’aereo. Malviventi, o meglio tep-
pisti, liberi di accedere all’aeroporto abbandonato o forse ormai inquilini o in
qualche modo padroni di quell’area, avevano cercato di forzare il portello,
nell’evidente tentativo di raggiungere il prezioso liquido francese. Lo hanno
rovinato, ma non sono riusciti ad aprirlo.
La seconda sorpresa è la polizia, che è stata avvisata dell’atterraggio di
emergenza di un aereo nell’aeroporto abbandonato. Molto gentili, i poliziotti
hanno semplicemente fatto un verbale dell’accaduto e, nell’occasione, del
tentato furto.
Il tempo, quella mattina, è bellissimo, come nei giorni successivi, nei quali
faremo una bella vacanza nella regione, visitando tutti i musei de La Rochelle
e spingendoci fino alla bellissima isola di Yeu, appena a sud delle coste della
Bretagna.
In questo caso il dirottamento era d’obbligo, ma era meglio non partire
nemmeno. Morale: se chi vi accompagna è stufo, affittate una macchina, pro-
seguite in treno o partite da lì per una vacanza - per così dire - “secondaria”,
ma non toccate l’aereo, se le condizioni non permettono il volo.

135
Avventure di volo

Due dirottamenti in poche ore


Stiamo tornando a Como da Forlì, ove abbiamo fatto le prove per il rilascio
del certificato acustico del Maule M7-235B, presente l’ingegnere dell’ENAC-
RAI e quello dell’azienda che deve condurre le prove. Equipaggio: lo scriven-
te, Giorgio Porta e il capomeccanico Danilo Pecora. Sapevamo, già all’andata,
il giorno prima, che il tempo era in netto peggioramento.
Dopo le prove, partiamo da Forlì in VFR speciale, con un po’ di pioggerella,
1800 m di visibilità e ceiling basso. Non torniamo lungo la strada fatta all’an-
data, ovvero attraverso il CTR di Bologna, per non interessare una zona traffi-
cata in condizioni marginali. Dunque puntiamo a nord, verso Ferrara, con il
proposito di seguire il Po fino a Cremona, per poi proseguire per il VOR di
Trezzo e Como. L’idea è che in quelle condizioni è bene seguire un riferimen-
to al suolo preciso, quale è un fiume. Il Po, inoltre, consente in quasi ogni
punto un ammaraggio di emergenza, in caso di problemi.
Raggiungiamo facilmente Ferrara e incominciamo a seguire il Po, ansa dopo
ansa. Ostiglia, San Benedetto, Borgoforte, Viadana, Casalmaggiore. Il ceiling
decrescente ci costringe ormai a volare poco sopra i pioppeti, mentre le nostre
lievi salite per passare gli elettrodotti in sicurezza ci portano a lambire le
sfrangiature delle nubi. La visibilità si riduce, calando decisamente sotto il
chilometro. Siamo ormai abbondantemente sotto le minime e rimane una sola
opzione: ammarare. Cerco il punto adatto da una trentina di secondi quando
compaiono due bei pontili. La presenza di un’infrastruttura, che significa una
possibile presenza umana e che rappresenta un’ottima alternativa all’approdo
a una lingua di sabbia, mi fa decidere in un istante di togliere motore, estrarre
i flap, fare i controlli essenziali (carrello dentro) e procedere all’ammaraggio.
L’approdo al pontile in una corrente di 2 metri al secondo è molto facile e si
fa dosando finemente la potenza, fino al contatto (velocità rispetto all’acqua:
2 m/s; velocità rispetto al pontile: 0 m/s).
Siamo approdati a un circolo, la Motonautica Parmense, il cui presidente,
Everardo Padovani, si fa in quattro per aiutarci. Ci informa che siamo a Sacca
di Colorno, poi ci porta in città. La mattina dopo ci viene a prendere in albergo
e ci conduce in un agriturismo di suoi amici, situato vicino al fiume, dove si
trova l’aereo. Qui ci regalano alcuni prodotti gastronomici locali.
Nasce un’idea: «Perché non tornate in primavera con i vostri idrovolanti,
pernottate all’agriturismo e, con le biciclette che vi mettiamo a disposizione,
ve ne andate a scorazzare per i bei borghi dell’antico ducato di Parma, Piacen-
za e Guastalla?» Idea ottima, che sicuramente metteremo in pratica.
La mattina dopo riprendiamo il volo, ma le condizioni non sono molto
migliori del giorno prima. Dopo aver raggiunto Cremona, sempre seguendo il
Po, siamo indecisi se scendere nel porto-canale, ma andiamo a cercare l’aero-
porto volando nella nuvolaglia, ove infine scendiamo e lasciamo l’aereo.
Ancora l’idrovolante si dimostra, oltre che mezzo sicurissimo, strumento
per stabilire nuovi e interessanti rapporti umani.

136
Avventure di volo

Mercatini
Vi sono fisici che hanno avuto un ruolo importante nella storia del volo idro:
le grandi capitali, lo stagno di Berre, Felixtow, Orbetello, Desenzano, Como,
Biscarrosse, Venezia, Foynes, le Azzorre, Bermuda, Lord Howe, Catalina Island,
Pensacola, Lisbona, Sesto Calende, per fare solo qualche esempio. In questi
luoghi si possono vivere avventure di volo per interposta persona, ma non
meno emozionanti. Infatti, girando tra antiquari e collezionisti, si trovano
molti documenti e testimonianze delle imprese compiute con idrovolanti.
Leggere, vedere immagini e sentire testimonianze di vita e di avventure con
idrovolanti dei piloti del passato è molto istruttivo.
L’autore, ovunque va, cerca anche le più piccole vestigia della presenza di
idrovolanti e fa di tutto per accaparrarsi eventuali documenti originali o, se
impossibilitato, copie. Il discorso standard è il seguente: Como è la capitale
europea del volo idro; abbiamo messo in piedi un centro di documentazione
sulla storia del volo sull’acqua; ogni contributo è prezioso; non disperdete il
materiale sul tema, ma donatelo o vendetelo a condizioni particolari, perché
quel materiale verrà valorizzato a favore della collettività e a imperitura me-
moria di fatti e persone che non meritano di cadere nell’oblio.
In questo modo ho recuperato molti materiali interessanti, come le foto
degli idrovolanti di de Pinedo e Balbo alle Azzorre o le foto di Balbo e Blériot
a Villa d’Este, grazie alla segnalazione di Alberto Longatti, così come centina-
ia di cartoline che illustrano attività che sono dimenticate dalle stesse persone
che vivono nei luoghi ove quelle attività erano svolte.
Alle Azzorre ho recuperato presso un oscuro fotografo immagini dei Boeing
314, uno dei celebri “Clipper”, del tutto sconosciute agli storici dell’aviazione
statunitensi, una delle quali (quella che presenta tre aerei di quel tipo all’anco-
ra nella baia di Horta) è pubblicata nel mio libro Seaplane Operations.
Il mandato è: ovunque andiate, cercate e portate a casa, ovvero al centro di
documentazione dell’Aero Club Como, qualsiasi materiale avente a che fare
con il volo idro: dal libro alla cartolina, dal portacenere al modello, dall’au-
toadesivo al francobollo, alla semplice testimonianza orale di una persona che
ha visto un idrovolante in azione.
Si tratta di un patrimonio che prima o poi si disperderà e che sta a noi
conservare. I nostri successori ce ne saranno grati.

137
Avventure di volo

Per un pelo
Sono qui presentate due situazioni inusuali, che mostrano che il rischio
può essere in agguato quando meno lo si aspetta.

A volte si è vivi per un pelo. Abbiamo oltrepassato un incrocio; 5 secondi


dopo un’auto in attesa esce dallo stop, dietro di noi; tutto normale, dunque,
apparentemente. Il conducente, in realtà, era distratto e ha invaso la carreggia-
ta della strada principale senza guardare. Poteva farlo 5 secondi prima. Siamo
vivi per vera fortuna, dunque, per soli 5 secondi, anche se non lo sapremo mai.
Quando invece ci si accorge di quanto vicini si sia giunti alla tragedia si ha
una sensazione ben diversa. Qui di seguito sono descritti due episodi che
hanno a che fare con gli idrovolanti che mi hanno consentito di vedere la vita
di molte persone, in un caso, e di una persona, lo scrivente, nell’altro caso,
giungere veramente al capolinea, ma infine non andare incontro alla terribile
evenienza proprio per un pelo.

Per un pelo 1
Il primo caso ha per teatro una riva ove è stata organizzata una manifestazio-
ne. C’è molto movimento. Idrovolanti partono e arrivano in continuazione;
c’è un po’ di vento dal largo e i decolli e gli ammaraggi avvengono dalla riva
verso il largo. Un elicottero è appena giunto, carico di persone. Infine le stesse
o altre persone risalgono, il motore è avviato, il rotore principale è portato a
regime. L’elicottero si stacca dal suolo, prima lentamente, poi con velocità
progressivamente crescente. Il pilota non ha mai sintonizzato la sua radio
sulla frequenza usata dagli idrovolanti né sulla frequenza usata sulle aviosu-
perfici e non ha familiarità con le procedure seguite dagli idrovolanti. In quel
momento un Piper PA 18, in finale, sbuca dal tetto del palazzo che si trova
sulla riva e passa un paio di metri sopra il rotore dell’elicottero, che ormai è a
una quindicina di metri dal suolo, in rapida salita.
Il pilota del Piper non se ne accorge, dato che il pericolo è esattamente sotto
di lui e, in precedenza era nascosto dietro l’edificio. Il pilota dell’elicottero,
che ha il muso rivolto in una direzione diversa da quella dell’aereo, nemmeno.
Entrambi stenteranno a credere a ciò che poi gli viene raccontato. Molte per-
sone sono vive veramente per un pelo.

138
Avventure di volo

L’episodio mi ha indotto a scrivere quel paragrafo del mio libro sul pilotag-
gio degli idrovolanti che dissuade dal fare finali bassi sopra ostacoli che impe-
discono la vista di ciò che si trova al di là. Nascosto da quell’ostacolo, potreb-
be infatti esserci un elicottero in partenza, come nel caso qui descritto, ma
anche una mongolfiera che si sta innalzando, piuttosto che oggetti che vengo-
no lanciati, come fuochi di artificio. Il mandato è: avere sempre una visuale
dell’area che si sta per sorvolare a bassa quota.
L’episodio ha costituito anche un precedente fondamentale per stabilire le
procedure suggerite dall’esercente dell’Idroscalo di Como nell’ammaraggio
01. Queste raccomandano che venga fatto un controllo visivo che nell’area
dell’idroscalo non vi siano macchine a decollo verticale che possano interferi-
re con l’avvicinamento di aerei per l’ammaraggio.

Per un pelo 2
L’altro episodio è per alcuni versi misterioso. Dopo aver venduto il nostro
Cessna 185 anfibio, inutilizzabile a Como perché troppo rumoroso, a una ditta
norvegese, ci siamo impegnati a portarlo noi a destinazione. Nell’andare a
Oslo e poi all’aeroporto finale dobbiamo passare per Lienz, in Austria, a
prelevare un amico dell’acquirente, a cui dobbiamo dare un passaggio fino in
Norvegia.
Dunque il percorso si snoda da Como a Malpensa, per fare benzina sdoga-
nata, e poi verso Lienz, percorrendo inizialmente il Lago di Como, la val
Bregaglia e infine l’Engadina. Il tempo è freddo, ma molto bello, con aria
immobile, e si sta volando a 11.000 piedi al traverso di Garmisch.
Io occupo il posto di destra, mentre Giorgio Porta è a sinistra. Improvvisa-
mente si sente un rumore fortissimo, ma istantaneo, una specie di fiondata. Il
tutto è già passato e finito prima che possiamo anche solo spaventarci. “Che
diavolo è stato?” ci diciamo all’unisono. Guardinghi, buttiamo fuori uno sguar-
do per vedere se l’aereo è integro e tocchiamo lievemente i comandi per
vedere se risponde. Tutto sembra normale.
Le prime ipotesi sono: abbiamo perso un pezzo, che poi ha colpito parte
della fusoliera; ci hanno sparato addosso. Escludiamo subito la collisione con
un uccello o altro oggetto di relativamente grandi dimensioni, in quanto un
oggetto simile non avrebbe mai prodotto quel rumore istantaneo e metallico.
Il volo prosegue senza storia. Giunti a Lienz, esaminiamo per bene tutto
l’aereo: Non manca nulla e tutto sembra a posto e integro. Nell’ispezione ci
accorgiamo tuttavia di un particolare sconcertante: sulla cappottatura del mo-
tore, sul lato destro, c’è un foro. Si tratta di un forellino del diametro di circa 6
mm, slabbrato verso l’interno della cappottatura, senza che la zona circostante
sia minimamente bombata o scalfita.
È inutile dire che prima di quel volo non c’era. Lo sconcertante è che la
“cosa” che ha colpito l’aereo veniva dall’alto. La prima idea è che un proietti-
le sia stato sparato verso l’alto e, ricadendo, abbia colpito l’aereo. Ma la

139
Avventure di volo

spiegazione non regge. Un oggetto di così piccole dimensioni che segue una
traiettoria balistica non può provocare quel tipo di foro, in quanto la sua
velocità sarebbe troppo ridotta.
Un’altra possibile spiegazione è che un oggetto sia stato “sparato” dall’elica
sulla cappottatura. Ma in un aereo con l’elica trattiva da dove può venire
quell’oggetto (che invece negli aerei con elica spingente, come i Lake, viene
di solito dal motore)? Bisognerebbe ipotizzare che l’aereo abbia incontrato un
proiettile sparato verso l’alto e che l’elica gli abbia impresso un’ulteriore
velocità. Ma le slabbrature indicano che l’oggetto è penetrato nella lamiera
perpendicolarmente, cosa poco compatibile con l’ipotesi di un piccolo ogget-
to vagante propulso dall’elica, che dovrebbe avere impattato la lamiera con un
angolo di 15-45°. Non ci sono spiegazioni semplici.
A fare l’inquietante forellino può essere stato solo un oggetto che viaggiava
a velocità molto alta, anzi altissima, proveniente dall’alto. L’idea, quindi,
sarebbe quella di un proiettile sparato verso il basso. Ma lassù che cosa avreb-
be potuto sparare quel proiettile?
Vediamo ora più precisamente dove si trova il foro. Questo è esattamente
davanti al posto di destra, a circa 110 cm dal seggiolino. Ciò significa che, alla
velocità di crociera di 105 nodi, se avessimo viaggiato con un anticipo di soli
0,02 secondi, ovvero due centesimi di secondo, l’oggetto avrebbe colpito la
cabina esattamente sopra la mia testa. Se la sua forza di penetrazione fosse
stata molto alta, come tutto sembrerebbe indicare, esso avrebbe attraversato la
sottile lamina di alluminio della fusoliera, sarebbe entrato nel mio corpo in
corrispondenza della mia calotta cranica e lo avrebbe trapassato per intero.
Solo due centesimi di secondo mi hanno forse separato da una fine prematura
e impietosa.
Spiegazioni del fenomeno? L’ipotesi più probabile, o almeno plausibile, è
quella di un piccolo meteorite o di un frammento di veicolo spaziale.
Quale che sia la spiegazione, sono vivo proprio per un pelo.

140
IN VOLO SULL’ACQUA

PILOTARE L’IDROVOLANTE

141
Pilotare l’idrovolante

Errori classici
nel pilotaggio dell’idrovolante
È questo un capitolo destinato espressamente ai piloti di idrovolante o a quelli
che intendono diventarlo, con l’augurio che possano godere per tutta la loro vita
di aviatori il piacere di condurre lo straordinario mezzo aereo senza cattivi ricordi.
Ai non piloti questo capitoletto può servire per capire quanto delicato e raffinato
sia il pilotaggio di un idrovolante.

Innumerevoli idrovolanti sono stati persi per errori di pilotaggio banali. È un


peccato, Ed è un trauma per l’esercente, che vede tragicamente ripetersi situa-
zioni che si sarebbero potute evitare se solo piccole conoscenze, piccole espe-
rienze dei piloti più navigati avessero potuto essere condivise con i neofiti.
A questo proposito è utile segnalare il forum della SPA, Seaplane Pilots
Association (indirizzo www.seaplanes.org; dopo essere entrati, cliccare su
FORUM), un luogo ove si può beneficiare dei pareri dei più importanti piloti di
idrovolanti del mondo. Al momento di andare in stampa, anche l’ESPA, Euro-
pean Seaplane Pilots Association (indirizzo www.espa.aero) ha un sito in alle-
stimento contenente suggerimenti tecnici.
Per i piloti che volano a Como è invece molto utile ascoltare ciò che dicono
“i vecchi” sul piazzale. Ogni volta che un aereo compare all’orizzonte, per un
ammaraggio “19”, o che sorvola l’hangar per un ammaraggio “01” oppure
quando sta decollando, i vecchi piloti non possono evitare di seguire le fasi
finali dell’avvicinamento e del contatto o del decollo. La cosa è imbarazzante
quando gli stessi “vecchi” stanno parlando con altra gente; infatti essi, in
quegli attimi, fanno finta di parlare, ascoltare, interloquire, ma in realtà tutti i
loro occhi e i loro emisferi cerebrali sono orientati unicamente alla valutazio-
ne dell’ammaraggio o del decollo in atto. Avendo alle spalle molte migliaia di
decolli e ammaraggi fatti e decine di migliaia di decolli e ammaraggi visti
fare, quei piloti sanno in effetti valutare ciò che sta avvenendo con un elevatis-
simo livello di competenza. Ascoltare il loro parere, quindi, può essere utile.
Comunque, ecco una succinta descrizione degli errori che possono più facil-
mente portare alla perdita di un idrovolante, accompagnata da qualche sugge-
rimento su come evitare di trovarsi in quelle brutte situazioni.

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Pilotare l’idrovolante

«Che colpi!»: decollo su superficie mossa


Le onde sono ostacoli. Incontrarle ad alta velocità sollecita abnormemente le
strutture dell’aereo. Dunque la cosa migliore che possiamo fare se la superfi-
cie è mossa è chiederci: «Posso, in un ragionevole raggio, trovare una superfi-
cie meno mossa e quindi più adatta e sicura per il decollo?» Se sì, è bene
andarci e compiere l’operazione là e non qua. A volte la superficie meno
mossa c’è, ma non è raggiungibile, per esempio perché costringe un aereo con
galleggianti a compiere un tratto di flottaggio con un forte vento al traverso,
condizione di pericolo.
Ci possiamo allora porre la domanda: «Posso attendermi che in un ragione-
vole lasso di tempo la superficie si calmi, diventando più sicura per il decol-
lo?» Anche in questo caso è prudente aspettare un momento più propizio.
Supponiamo che non sia possibile o non si vogliano adottare le strategie
descritte, valutando che la superficie sia entro i limiti che consentono il decol-
lo. Vediamo dunque come ridurre il rischio di danni.
Innanzitutto non si deve scaldare e provare il motore in acqua, dato che
l’operazione è destinata a rovinare l’elica.
Il decollo, su superficie mossa da onde corte, provocate da un vento in atto,
si fa contro vento. Dopo avere messo l’aereo sul redan lo si fa correre sulle
creste delle onde in un assetto leggermente più piatto del normale. È proibito,
su superficie mossa, usare la tecnica del decollo su un galleggiante.
Su onde medie e lunghe è opportuno decollare longitudinalmente, ovvero
parallelamente a esse, anche se con vento laterale.
I piloti comaschi di Lake, che sono, per forza di cose, i più raffinati nel
valutare le situazioni e i più fini nelle manovre vicino alla superficie, hanno
ideato la tecnica del “decollo a planata cautelativa”. L’aereo è messo sul re-
dan, ma a bassa velocità (per esempio il Lake Buccaneer, che sta sul redan dai
25 ai 55 MPH, è tenuto a 28-32 MPH), ovvero a una velocità alla quale
l’impatto con un’onda non può generare danni, pur essendo fastidioso. Si vaga
così sulla superficie e si dà motore per accelerare e decollare esclusivamente
quando la striscia d’acqua davanti all’aereo è certamente adatta al decollo. Se
non si incontrano strisce adatte si deve rinunciare al volo.

«E la superficie... dov’è?»: ammaraggio “normale”


in condizioni “a specchio”
La condizione dello “specchio” è forse quella che ha provocato il maggior
numero di incidenti con idrovolanti. Essa è una condizione di carattere ottico-
percettivo che impedisce al pilota di determinare la propria quota rispetto alla
superficie e quindi gli impedisce ci compiere tempestivamente le manovre
della richiamata e della retta.
Lo “specchio”, in sé, non è una condizione difficile. Infatti, se riconosciuta,
può essere affrontata con tecniche ampiamente alla portata dell’allievo pilota.
Il problema è che molti piloti, che pure sono perfettamente in grado di

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Pilotare l’idrovolante

gestirla, la sottovalutano e provano ad avvicinarsi lo stesso alla superficie


senza adottare la procedura prescritta, ovvero tentano un ammaraggio “nor-
male” su una superficie “a specchio”. Risultato: impatto duro, con danneggia-
mento dell’aereo, sovente seguito da cappottamento.
Suggerimento 1: in qualunque caso vi sia il dubbio che la superficie sia a
specchio, adottate la procedura prevista per lo specchio.
Suggerimento 2: non attendete, per prendere la decisione di cui al punto 1,
quando siete ormai prossimi alla superficie, cioè prossimi all’istante dell’infi-
lamento in acqua e cappottamento, ma prendetela con un congruo anticipo.

«Sì, forse è il momento giusto; proviamo»: retta alta


La superficie non è ben discernibile o è discernibile a chiazze, che tuttavia
scorrono via sotto l’aereo. La superficie non è proprio “a specchio”, ma in
qualche modo si avvicina a quella condizione e, al momento di fare l’arroton-
damento o richiamata, sorge il dubbio: tiro la barra (o il volantino)? Lascio
scendere l’aereo ancora un po’? Se tiro e sono alto, poi farò un bel tonfo. Se
scendo ancora un po’, forse mi avvicino troppo alla superficie con un assetto
“piatto” o addirittura rischio di infilarmi.
Non si creda che questo dubbio sorga al solo neofita. Anzi. È proprio il
pilota più esperto che si pone nel modo più drammatico e critico questo inter-
rogativo. Infatti, per il pilota esperto, l’ammaraggio è la prova della sua capa-
cità e un ammaraggio imperfetto rappresenta un grave colpo per il suo ego.
Suggerimento 1: se mai nell’avvicinamento sorgesse un dubbio che la su-
perficie sia a specchio, alzate immediatamente il muso (quando in aviazione
si dice “immediatamente” significa proprio ciò che dice il termine, a differen-
za di come esso è inteso nella vita normale), date motore e riattaccate, impo-
stando in un secondo tempo un avvicinamento con la procedura “a specchio”.
Suggerimento 2: se avete pratica e “mano”, date motore e trasformate l’am-
maraggio normale in un ammaraggio “a specchio”, ma solo se siete in grado
di impostare la manovra (assetto, velocità, rateo di discesa) in pochi secondi e
a colpo sicuro, senza tentennamenti.
Suggerimento 3: se vi capita spesso di fare rette alte significa che siete giù
di esercizio o avete avuto un’istruzione idro scadente. In ogni caso rivolgetevi
a una scuola e/o a un istruttore esperto di volo sull’acqua per un po’ di salutare
e benefico doppio comando.

«Beh, prima o poi lo devo pur mettere giù» 1:


ammaraggio su superficie mossa
Innanzitutto vale quello che si è detto per il decollo su superficie mossa,
ovvero che è bene andare a cercare il luogo più adatto all’operazione in un
ragionevole raggio, ma con un vantaggio: che l’aereo in volo viaggia veloce-
mente e ci permette in un minuto o due di sorvolare a bassa quota un’ampia
zona, alla ricerca della superficie adatta.

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Pilotare l’idrovolante

I piloti comaschi di Lake hanno un metodo infallibile per ammarare su


superfici mosse o caotiche in modo da non rovinare l’aereo: l’ammaraggio “a
volo di libellula”. Esso consiste nel volare a pochi metri dalla superficie in
configurazione di ammaraggio e a una velocità di poco superiore a quella del
contatto. Non appena la stricia d’acqua esattamente di fronte all’aereo risulta
adatta all’ammaraggio si riduce la potenza e si procede al contatto. Se non si
incontrano superfici adatte si deve cambiare zona o, se l’aereo è anfibio, anda-
re a posarsi sulla pista di un aeroporto.

«Beh, prima o poi lo devo pur mettere giù» 2:


ammaraggio troppo avanti verso la riva
Questo è un errore che ha fatto perdere molti aerei, in genere con ai comandi
un neofita. Il copione è sempre lo stesso: la riva si avvicina, l’aereo è ancora
alto. Ecco il pilota che invece di fare la cosa più intelligente e semplice
- riattaccare e ripresentarsi - butta giù l’aereo per raggiungere presto la super-
ficie. L’aereo accelera e, quando è prossimo alla superficie, ha una bella velo-
cità. Dato che la riva si è ulteriormente avvicinata, il pilota è ansioso di amma-
rare. È così che tocca veloce e sovente appruato, innescando il classico water
loop (equivalente acquatico del ground loop che fanno gli aerei con carrello
biciclo), cappottando subito oppure danneggiando i galleggianti e venendo
sbalzato di nuovo in aria a una certa quota, dalla quale stallerà rovinosamente,
per raggiungere la superficie e sfondare galleggianti e/o fusoliera.
Vediamo ora le ricette. La più semplice è quella detta: riattaccare se si è
lunghi. Ci si può anche impratichire a fare le cosiddette virate di scampo.
Quella classica, che viene insegnata ai militari, è la seguente: si toglie la
potenza; 70° di inclinazione laterale e cloche o volantino molto all’indietro (si
imposta così una virata strettissima evitando di avanzare di un metro in più del
dovuto); compiuti 90° di cambiamento di prua si dà tutto motore; a 135° di
cambiamento di prua si riduce gradatamente l’inclinazione laterale; a 180° di
cambiamento di prua si livellano le ali, riducendo la potenza a quella di cro-
ciera. Nella virata di scampo classica si presuppone che non si debba perdere
un metro di quota (situazione che si presenta per esempio se l’aereo è prossi-
mo alla superficie). Se invece è possibile perdere quota, nell’eseguire la ma-
novra lasceremo tendenzialmente scendere l’aereo, cosa che riduce lievemen-
te le sollecitazioni.
Se si è lunghi in un ammaraggio si deve fare un’altra considerazione: l’idro-
volante, sull’acqua, si fermerà molto presto, a causa della resistenza idrodina-
mica. Se è necessario un arresto rapido, facciamo di tutto per aumentare que-
sta resistenza, sporcando l’aereo e facendo affondare le code in acqua. Se si
opera con un Lake sotto le 30 MPH si ha la possibilità di usare un formidabile
freno: il carrello. Per carità, non fatelo tutti i giorni, ma se dovete fermare
l’aereo che va contro un’ostacolo, giunti alle 30 MPH estraete il carrello
serenamente, che l’aereo non si rompe.

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Pilotare l’idrovolante

«E adesso che faccio?»: carenza di pianificazione


Nel volo capita che si determinino situazioni di più o meno leggera emergenza
e quindi di più o meno forte stress per il pilota. In quel caso il possedere
un’informazione o non possederla rappresenta il paradiso o l’inferno. Tutto
ciò che è scontato, banale, elementare a terra può diventare difficile in volo, in
condizioni di stress.
Per questo la pianificazione è fondamentale. E non sto parlando di una
pianificazione del volo di tipo scolastico, con log perfettamente compilato in
ogni sua casella per il preciso volo che si intende condurre: rotta, declinazio-
ne, deviazione, deriva, prua, ETO, ATO, ecc. ecc. Quella bisogna certamente
saperla fare, soprattutto se la rotta è su superfici senza riferimenti (mari, de-
serti) e se si deve condurre una navigazione stimata, ma la pianificazione che
il pilota deve fare va ben al di là.
Innanzitutto l’ultima cosa che si deve pensare è che la rotta si svolga esatta-
mente lungo le tratte previste. Temporali, istruzioni di controllori, cambia-
menti di programmi di passeggeri o altri fattori possono imporre diversioni e
dirottamenti, che il pilota deve saper ripianificare in volo. Esiste, oltre al
classico plotter (combinazione di goniometro e righello), uno strumento che
consente di ripianificare in volo in modo rapido le tratte successive, anche se
del tutto diverse da quelle inizialmente considerate: il tempometro.
Il tempometro è un righello che consente di indicare e misurare sulla carta
non distanze, ma direttamente minuti di volo. Lo scrivente, prima di ogni
navigazione, se già non possiede il tempometro per la velocità di crociera
dell’aereo e la carta che userà, se ne fabbrica uno segnando con una matita su
un foglietto di carta le tacche corrispondenti a ciascuno di una trentina di
minuti di volo, in base alla velocità dell’aereo e alla scala della carta.
Il tempometro consente non solo di pianificare il volo appoggiandolo sem-
plicemente sulla carta, ma di controllarne accuratamente lo svolgimento al
passare del tempo. Dunque una buona preparazione del volo richiede che si
sia in possesso, oltre che di un comune plotter, del tempometro per la velocità
di crociera dell’aereo usato.
Inoltre si deve pensare a ogni possibile evenienza ed emergenza, del mezzo,
meteorologica, anche in funzione dell’esperienza del pilota.
Pianificare significa prendere conoscenza di tutto ciò che di aeronautica-
mente rilevante sta in un corridoio di una ventina di miglia intorno alla propria
rotta ideale ed essere pronti ad usarlo all’istante. Non si deve scervellarsi o
andare a consultare manuali o interpellare enti via radio per cercare di sapere
tutto su un’aviosuperficie sulla quale potremmo dover fare un atterraggio di
emergenza. Bisogna che queste informazioni siano già note.
Usando idrovolanti, la conoscenza di ogni specchio d’acqua presso la rotta è
preziosa. Il pilota idro pianifica di solito la rotta in modo da seguire corsi
d’acqua e passare di lago in lago, anche allungando un po’ la rotta, per molti-
plicare le possibiltà di raggiungere la superficie liquida in caso di problemi.

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Pilotare l’idrovolante

In ogni punto del percorso può piantare il motore, può scoppiare un incen-
dio, può ridursi la visibilità, può presentarsi un temporale, può farsi buio,
possiamo essere colpiti dalla grandine, può star male un passeggero, ecc. ecc.
A tutto ciò dobbiamo pensare prima, durante la pianificazione, perché quando
ci troveremo in una di quelle situazioni avremo a mala pena il tempo e l’atten-
zione per controllare l’aereo, oltre che per gestire i passeggeri. Ma, se avremo
ben pianificato, sapremo esattamente cosa fare, dove dirigere, che frequenze
mettere sulla radio, che cosa aspettarci, dove andare a parare.

Quella forzicina che si sente con il fondoschiena:


l’insidia delle componenti laterali
Il volo è tutta una questione di equilibrio di forze. Il costruttore fa sì che il
pilota possa agevolmente governare le forze a cui l’aereo è sottoposto agendo
sui comandi, che gli consentono di controllare gli assetti e i movimenti del-
l’aereo stesso. Vi sono tuttavia situazioni in cui le forze agenti sono talmente
intense che i comandi sono insufficienti a controllarle. Si tratta di condizioni
in cui l’aereo non dovrebbe mai trovarsi, in genere frutto di gravi errori di
pilotaggio, ma a volte di condizioni ambientali abnormi.
Venendo subito al caso degli idrovolanti, si deve dire che lo sviluppo da
parte del pilota di una buona sensibilità per le forze laterali è di importanza
vitale. Venire a contatto con la superficie o procedere su di essa lasciando
agire forze laterali è un vero azzardo. Per questo si deve controllare non bene,
ma benissimo la pallina in volo e quando si è sulla superficie e mantenere
assetti, nel flottaggio sul redan, che assicurino una buona stabilità dinamica.
Per lo stesso motivo le manovre che comportano intenzionalmente l’insor-
gere di forze laterali (come il decollo su un galleggiante, il decollo a U o
quello circolare) devono essere praticate solo da piloti di grande esperienza.

«Torna a casa Lassie»: un istinto da tenere a freno


La sindrome nota con il titolo di questo paragrafo ha provocato migliaia di
vittime. In moltissimi di quei casi il pilota avrebbe avuto molte opzioni per
salvare la propria vita e quella dei passeggeri, ma ha optato per la soluzione
che non gli ha lasciato scampo: tornare a casa.
Per il pilota maturo e consapevole “casa” è rimanere in qualsiasi punto della
superficie terrestre, solida o liquida, ma vivo. “Casa” è un buco di baracca,
sperduta in un luogo “dimenticato da dio”, attraverso le cui finestre diafane si
vedono battere le sferzate del maltempo. “Casa” è un pezzetto di terra da
baciare, anche oleoso e pieno di polvere, dopo una brutta avventura vissuta
lassù. “Casa” è “stare dalla parte della ragione”, quando andare verso le pro-
prie usuali quattro mura ha per conseguenza la catastrofe.
Non abbiate fretta di tornare a casa. Le vostre persone care vi saranno enor-
memente grate di non essere tornati quella sera, ma il giorno dopo o dopo
qualche giorno, più esperti e più capaci di prima e soprattutto... vivi.

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Pilotare l’idrovolante

Forze della natura


Non c’è bisogno di andare ai tropici per vedere scatenarsi gli elementi.

I paesaggi lacustri prealpini sono capaci di trasmettere un senso di bellezza, di


pacatezza e di languore infinito. Provando queste sensazioni, poeti e pittori di
tutte le epoche ne hanno fissato un’immagine idillica. Ma, come vedremo, i
nostri laghi sono teatro anche di fenomeni atmosferici di estrema violenza,
degni della tempesta tropicale, dell’uragano. Per essere onesti, questo aspetto,
questo lato oscuro e inquietante dei nostri laghi non era passato del tutto
inosservato e qua e là si trova, nella letteratura, menzione di forti temporali e
tempeste sul lago, così come quadri e stampe che rappresentano imbarcazioni
rovesciate e persone che si dibattono tra i flutti.
Segue la descrizione di alcuni episodi avvenuti nella regione del Lario, che
hanno avuto come protagoniste le più incontrollabili forze della natura.

Armageddon sul lago di Pusiano


La domenica d’estate è bellissima. Partiamo con il Lake Renegade per andare
a zonzo tra i laghi, senza una meta particolare. Finiamo sul lago d’Iseo, dove
facciamo il bagno, andiamo a riva in due o tre posti diversi, in uno dei quali
troviamo un ristorantino. Dopo pranzo prendiamo la via del ritorno. Arrivati
nella nostra zona, decidiamo di scendere sul lago di Pusiano, per fare un altro
bagno e stare un po’ a prendere il sole sulla riva.
Approdiamo al piccolo tratto di costa che appartiene al comune di Eupilio,
in prossimità di un bar ristorante, e lasciamo l’aereo, come si fa con gli anfibi,
sulla riva, parallelamente a essa, con una ruota del carrello sulla battigia.
Dal piccolo laghetto della Brianza facciamo un paio di voletti locali. Duran-
te una delle partenze faccio volare via la gonna a una ragazza che stava pren-
dendo il sole su un molo, un episodio raccontato nel libro Seaplane Opera-
tions per rendere evidente la necessità di sapere esattamente che cosa si trova
nel flusso dell’elica dell’aereo che si sta usando, una precauzione che in quel-
l’occasione non ho adottato. Inutili gli sforzi di Alberto Collini, esperto sub
oltre che pilota idro, per recuperare la gonna della figliola, malgrado abbia
scandagliato per mezz’ora in apnea il fondale limaccioso. L’evento ha avuto
strascichi per rendere poco problematico il ritorno a casa della ragazza.

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Pilotare l’idrovolante

Il lago di Pusiano è sovrastato dalla mole del Cornizzolo, il monte da cui i


deltaplanisti (e oggi i parapendiisti) sono soliti lanciarsi, per andare ad atterra-
re nei prati tra il lago di Pusiano e quello di Annone. Quel giorno ve ne sono a
decine; molti di essi tornano più volte alla cima per un altro lancio.
Il tempo è sempre molto bello, ma nel giro di un paio d’ore i cumuli sono
montati e hanno dato vita a uno di quei grandi cumulonembi tipici dell’estate.
Verso le montagne del Triangolo Lariano le nubi tendono al colore scuro, ma
verso la pianura predomina ancora l’azzurro. Si alza un venticello leggero
leggero, ma insistente, e soprattutto viene dai monti, quando normalmente, il
pomeriggio, la brezza soffia tipicamente dalla pianura. La superficie del lago
incomincia a mostrare piccole increspature. La riva opposta, che nei pomerig-
gi estivi è appena discernibile nella foschia, si presenta decisamente nitida
alla vista. L’aria si è improvvisamente pulita.
«Che facciamo, proseguiamo per Como?» «Mah; aspettiamo un attimo, ve-
diamo come butta.» Due o tre piccole anomalie, ancora poco significative,
danno comunque un’impercettibile sensazione di incertezza. E non c’è nulla
come una sensazione di incertezza che fa provare il piacere di avere i propri
piedi piantati su un solido terreno. Sì, sta cambiando; di poco, ma il tempo sta
decisamente cambiando. Guardo tutti quei deltaplani in cielo, alcuni altissimi.
Le condizioni “frizzanti” li incoraggiano a cercare di salire ancora di più.
A un certo punto, in un inesorabile “crescendo”, in circa due o tre minuti
succede tutto ciò che è qui di seguito descritto.
Il colore, nella Valle del Segrino, a nord del lago di Pusiano, si fa nero. Il
vento prende a soffiare da 5-6 nodi a 15, poi a 20-25, poi a 40, poi ancora di
più. Le acque del lago di Pusiano, che normalmente presentano onde ridotte e
ammarabilissime anche con venti notevoli, incominciano a ribollire. Dopo
essere montate, si fanno bianche di “ochette”. Sulla riva incominciano a batte-
re sempre più forti, per diventare presto piccoli e poi discreti cavalloni, uno
spettacolo mai visto su un piccolo lago e soprattutto su quello di Pusiano,
sulle rive del quale lo scrivente ha vissuto sei anni della sua vita. Nel cielo si
forma uno strato basso, grigio scuro, ben definito, dal quale pendono verso
terra un’infinità di grossi “mammelloni”, apparentemente stabili, ma indica-
tori di condizioni di estrema turbolenza e instabilità. Incominciano a cadere
gocce d’acqua, sempre più fitte. La visibilità prima cala, poi scende verso lo
zero, non si capisce se per il violentissimo acquazzone o per l’aerosol d’acqua
soffiato via dalla superficie del lago. Si vede una fila di pioppi sulla riva
piegati a metà, alcuni spezzati.
Il tutto dura cinque o sei minuti. Poi, lentamente, cala, pur restando molto
instabile e continuando a soffiare una notevole brezza.
Vediamo innanzitutto che cosa abbiamo fatto noi nel momento critico. Il
Lake è stato messo con una ruota sulla battigia e quindi con l’ala protesa sulla
superficie. A un certo punto i cavalloni incominciano a colpirla in modo pre-
occupante. Ma il vero problema è che lo abbiamo casualmente disposto con la

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Pilotare l’idrovolante

coda nella direzione da cui proviene la bufera. Aiutati da due o tre energumeni
che ho subito cooptato sulla spiaggia, ruotiamo l’aereo in modo che presenti il
muso al vento. Poi blocco i comandi e metto uno o due salvagenti dietro la
pedaliera, per attutire le sventolate del timone di direzione.
La situazione fa temere addirittura che il Lake possa essere soffiato via dal
vento. Non c’è né il tempo né le attrezzature per una controventatura seria e
non c’è la possibilità di recuperare pesi o massi a cui ancorare l’aereo. Ci
piazziamo dunque in due o tre persone sotto ciascuna delle ali e una aggrappa-
ta al ruotino anteriore, tenendo cime di controventatura fissate agli appositi
anelli. In alcuni momenti, appeso alla cima, sono leggermente sollevato da
terra dall’ala che si oppone alla forza del vento.
Noi siamo saldamente poggiati a terra e, se anche l’aereo subisse danni, non
abbiamo da temere per la nostra incolumità. La tragedia arriva invece per la
trentina di deltaplanisti che sono in volo. Presi improvvisamente nell’Arma-
geddon che si è abbattuto sulla zona, affrontano la peggiore emergenza della
loro vita. Alcuni, quelli a quota più bassa, si buttano giù e finiscono più o
meno malamente al suolo, ma vivi, seppur feriti. Quelli più in alto sono aspi-
rati dall’immane cumulonembo fino a una quota di migliaia di metri; gli si
congelano subito mani e piedi. Poi, ancora aggrappati alla loro vela, sono
buttati fuori dall’inferno, a 60 o 80 chilometri di distanza.
Cinque di essi non ce la fanno a resistere a quelle immani forze e perdono la
vita, moderni Prometei e Icari, rapiti da una natura che non avevano ancora
imparato a temere a sufficienza.

Su e giù
Sto tornando verso il lago di Como da est. La quota è di circa 10.000 piedi su
Lecco. Dovendo perdere un po’ di tempo per scendere, tanto vale fare il giret-
to panoramico Lecco-Bellagio Como. Metto dunque l’aereo in discesa, ridu-
cendo la potenza e abbassando il muso. Giunto a 9000 piedi, nei dintorni di
Mandello, l’aereo smette di scendere. Spingo il volantino in avanti, ma non
succede nulla. Anzi, è incredibile, ma l’aereo incomincia a salire. Spingo
ulteriormente, facendo assumere all’aereo un assetto di inequivocabile disce-
sa; la velocità sale, ma il variometro è stabile sui 200-300 piedi a salire.
Riduco ulteriormente la potenza. Ora il variometro indica 500 piedi a salire.
La cosa è stranissima e inquietante. Provvedimento immediato: ridurre la
velocità. Guai a farsi trovare a velocità elevata in mezzo alla turbolenza o a
fenomeni atmosferici strani. È vero che l’aria è calmissima, ma ciò che sta
avvenendo lascia ampi dubbi su quel che potrebbe succedere di lì a poco. Guai
anche a ridurre troppo la velocità: l’aereo potrebbe finire per stallare. Dunque
la velocità la mantengo in quella via di mezzo più rassicurante: non troppo
bassa, non troppo alta.
Permanendo comunque la situazione di aria calma, abbasso il carrello, te-
nendo un bell’assetto picchiato. Sporco anche un po’ l’aereo inclinando le ali

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Pilotare l’idrovolante

in una direzione e dando piede contrario. In quelle condizioni il Lake dovreb-


be scendere come un ferro da stiro. Invece il rateo di discesa è pari a zero, con
la lancetta del variometro che dà qualche sussulto all’insù.
Conclusione: l’aereo sta volando in una zona di ascendenza fortissima e
certamente anomala. Retraggo il carrello, rimettendo l’aereo in una condizio-
ne più adatta per affrontare eventuali sferzate, che potrebbero arrivare da un
momento all’altro.
I fenomeni molto intensi hanno due caratteristiche: sono localizzati e dura-
no poco. Dunque decido di aspettare senza arrabattarmi troppo. Dopo un altro
minuto la “cosa” finisce e finalmente posso ricominciare a scendere verso le
basse quote.
L’anomalia della situazione dovrò invece assaporarla in modo più dramma-
tico sull’altro ramo del lago, nel tratto tra Bellagio e Como. Doppiata la punta
della Cavagnola, entro in una zona di turbolenza fortissima. Picchiamo la
testa ripetutamente sul soffitto e l’aereo è sballottato su, giù, a destra, a sini-
stra come un aquilone. Il braccio di Brienno - è stata l’unica volta in vita mia
che ho provato quella sensazione - pare inusualmente stretto, tanto che mi
auguro che la bufera non mi spinga contro il crinale di un monte.
In quelle condizioni il mandato è: non fare quasi nulla; limitarsi a corregge-
re delicatamente e senza alcuna fretta i cambiamenti indesiderati di assetto
(reazioni di correzione più pronte e veloci aiutano l’aereo ad essere abnorme-
mente sollecitato e a trovarsi a operare “fuori dall’inviluppo”). Sempre per il
principio che “se il fenomeno è forte, passerà presto”, me ne sto lì a tocchetta-
re i comandi per tenere l’aereo il più possibile con le ali livellate o per ripor-
tarcelo, finché tutto finisce.
Giunto a Como, in una bellissima situazione di tempo, di calma di vento o
lieve brezza, di normale attività, di decolli e ammaraggi, dò l’allarme: «tiria-
mo su tutto il più presto possibile». Mi prendono un po’ per matto, ma li
convinco che sta per arrivare qualcosa di brutto. Facciamo appena a tempo a
fare ammarare gli aerei in volo e a tirarli fuori dall’acqua che arriva il fini-
mondo: una ventata da nord di quelle potenti e improvvise.

Windshear
La giornata è variabile: nubi basse, intercalate da miglioramenti, piovaschi e
schiarite, vento un po’ indefinibile, da varie direzioni.
Istruttore e allievo, in un momento di netto miglioramento, decidono di
partire con il Piper. Decollano per la 01 sotto i miei occhi. In quel momento
monta all’improvviso un fortissimo vento da nord. L’aerosol di goccioline
sollevate dalla superficie fa calare la visibilità a zero. Corro alla radio e dico:
«ammarate immediatamente e soprattutto non tornate a Como».
Al pontile c’è un Cessna che è investito in pieno dalla ventata. Qualcuno va
sul pontile a tenerlo per il montante, ma il pontile balla come un canotto
durante una discesa sulle rapide.

151
Pilotare l’idrovolante

Dopo due o tre minuti il vento cala e la visibilità aumenta. Scruto la superfi-
cie e il cielo alla ricerca del Piper, ma ai miei occhi appare una scena irreale.
Due persone sono in piedi sul lago, circa un chilometro al largo. Mai visto
nulla di simile. Unica spiegazione possibile: l’aereo si è cappottato e, come
tutti gli idrovolanti, galleggia “appeso” ai galleggianti pieni d’aria. I due occu-
panti sono usciti dalla cabina e sono in piedi sui galleggianti.
Il fenomeno è in netto calo. Prendo dunque l’aereo al pontile e flotto ad alta
velocità verso i naufraghi. Ne carico uno sul galleggiante e ritorno al pontile a
bassa velocità. L’altro è soccorso e riportato a riva da una barca del Tasell.
L’aereo cappottato verrà ricuperato in modo molto professionale dal socio
Porta, tanto che dopo qualche settimana potrà spiccare nuovamente il volo.

Proprio una bella raffica


Il pilota è espertissimo. Decide di partire con un aereo appena acqistato e in
linea da pochi giorni con tre passeggeri, tutti piloti, in una condizione insidio-
sa. Il vento viene da nord ed è forte, a leggere raffiche. I galleggianti “maggio-
rati” del nuovo aereo, vere navi a confronto dei minuscoli EDO 1650 montati
sui Cessna 150 in dotazione al Club, inducono il pilota ad affrontare a cuor
leggero le onde e ochette che pervadono la superficie.
Il decollo lo fa in effetti benissimo, in quel vento: un paio di ondatine nel-
l’elica al massimo dei giri, non proprio benefiche, ma subito i galleggianti si
trovano a scivolare su qualche cresta prima del distacco.
Dopo una ventina di minuti di volo in severe turbulance, una condizione
quasi eccitante per il pilota svezzato, ecco l’aereo presentarsi in finale per
l’ammaraggio per la cosiddetta “33”, l’area tradizionalmente usata dai piloti
comaschi in caso di forte vento da nord, che prevede un circuito sulla città in
senso antiorario, il giro intorno alla cupola del duomo, lo sfioramento dei tetti
dei “grattacielini” di Sant’Agostino e il contatto ben prima della punta di
Geno, oltre la quale l’aereo sarebbe violentemente investito dal vento.
Tutto questo fa il pilota, ma all’ultimo momento è disturbato dalla presenza
di un battello, ugualmente impegnato in un difficile avvicinamento al porto
(l’ammaraggio per la 33 avviene molto vicino alla rotta dei battelli che entra-
no o escono dal porto di Como). Il pilota decide dunque di riattaccare. Dà
tutto motore, sale e imposta la blanda virata a sinistra che lo riporterà a ripete-
re la manovra. Dopo aver completato la virata è in mezzo al bacino e si trova a
volare nel forte vento da nord. Questo vento non è costante, ma a raffiche, o,
per meglio rendere l’idea, a folate. Il pilota non ha adottato una procedura
precauzionale, che sarebbe quella di volare controvento fino a raggiungere
una quota di sicurezza, livellare e fare aumentare la velocità prima di compie-
re qualsiasi virata. Invece, dopo avere impostato la virata poco dopo il decol-
lo, sta ancora salendo, mentre dirige verso la città. Una raffica più forte delle
altre fa suonare il cicalino di stallo - cosa non infrequente in turbolenza - e
subito dopo fa stallare l’aereo. Proprio una bruttissima situazione. L’aereo

152
Pilotare l’idrovolante

precipita sui primi metri della riva del lago, vicino al monumento dei Caduti,
che da quel giorno ricorderà ai soci dell’Aero Club Como anche i quattro
fortunati piloti che escono incolumi dall’aereo distrutto.
Miracolo? Se l’evento avesse visto come protagonista un aereo terrestre
sarebbe difficile negare l’intervento di un’entità trascendente, ma operando
con un idrovolante il miracolo va ascritto a due “santi” con un nome preciso: i
“santi scarponi”. Gli scarponi del magnifico Cessna 172 XP appena acquista-
to hanno assorbito quasi interamente la forza dell’urto e, senza ombra di
dubbio, hanno salvato la vita a quattro persone.

Vento in coda
A bordo c’è un istruttore, espertissimo pilota di 747 in pensione, ma alle
prime armi sugli idrovolanti, con un pilota a cui ha fatto un check.
L’istruttore non conosce ancora i rischi della navigazione con il vento in
coda. Non ha ancora ben chiaro che un idrovolante sulla superficie è sempre a
rischio quando il vento lo investe da una direzione che non è quella della prua.
Finito il volo, ammara per la 01. Soffiando un discreto venticello da nord,
fatica però a fare la virata sottovento. Purtroppo la manovra gli riesce e si
avvia a pochi nodi di velocità verso i pontili. Man mano che procede entra
nella zona in cui batte un vento localissimo, ma forte: il Chiassino.
Giunto a 30-40 metri dal pontile una raffica di Chiassino solleva la coda
dell’aereo, che si rovescia in acqua e si danneggia irrimediabilmente.
Si tratta di un magnifico Maule M7 anfibio quasi nuovo, in linea solo da
pochi mesi dopo che è stato acquistato, a Pensacola, negli Stati Uniti, portato
in Italia, e omologato quale primo aereo del tipo nel nostro paese. Enormi
fatiche logistiche e un ingente investimento economico vanno in fumo in un
istante per una raffica di vento in coda e il mancato riconoscimento di una
condizione di rischio da parte del pilota.
Se c’era bisogno di una dimostrazione che si può perdere un aereo per una
condizione di vento nemmeno troppo anomala... eccola.
Morale: per pilotare gli idrovolanti in sicurezza servono pochissime cogni-
zioni. Una di queste è la seguente: in tutti i casi in cui un idrovolante si trovi
sulla superficie con un certo vento non in prua, i guai stanno arrivando, per
non dire galoppando verso il povero pilota.

Considerazione finale
La natura è tutto meno quello che si vede nelle pubblicità del Mulino Bianco.

153
Pilotare l’idrovolante

Specchio delle mie brame...


La superficie “a specchio” di un magnifico laghetto: uno sfondo idillico...
per un’interminabile catena di incidenti.
Questo testo è stato pubblicato su “Volare” nel giugno 2002.

«Mi ha ingannato il riflesso del sole sull’acqua»: sono queste le prime parole
del pilota subito dopo che, con le sue due passeggere, è stato tratto in salvo da
un motoscafo del servizio pubblico del Lago di Viverone. L’aereo in quel
momento è già sul fondo del lago. In volo a bassa quota, 5 minuti dopo il
decollo dall’aeroporto di Biella, l’aereo ha toccato con l’estremità dell’ala la
superficie del bel laghetto prealpino.
Tutto finisce nel migliore dei modi: nessun danno alle persone, una bella
esperienza per il pilota. La descrizione dell’evento che si legge sul giornale
lascia spazio anche a una nota umoristica: le due passeggere, invitate a salire
su un elicottero di soccorso, giunto sulla riva per condurle in ospedale per un
controllo, si rifiutano categoricamente di farlo, preferendo il rischio di non
essere curate a quello di un altro volo.
Tornando alle cose serie, si deve dire che i tre ragazzi hanno avuto fortuna:
l’acqua del laghetto prealpino, il 27 di dicembre, era gelata e il recupero delle
tre persone, che si trovavano proprio in mezzo al lago, è avvenuto circa 15
minuti dopo l’incidente, un tempo-limite in quelle condizioni. Una delle ra-
gazze non sapeva nuotare (è stata tenuta a galla dal coraggioso pilota). L’altra
non riusciva a liberarsi dalla cintura di sicurezza mentre la cabina si stava
riempiendo d’acqua. Nessuna attrezzatura di salvataggio si trovava a bordo
(come peraltro non è previsto che si trovi).
Si possono immaginare mille piccolissimi particolari che avrebbero potuto
far andare le cose ben diversamente. La memoria va ad altri incidenti che si
sono svolti secondo un identico copione, molti dei quali con esito infausto,
ovvero con la perdita dell’intero o di parte dell’equipaggio. Sono, questi,
incidenti che riguardano generalmente piccoli aerei, con i quali i piloti sono
soliti “razzolare” a bassa quota, ma a cui in passato sono andati incontro
anche quelli grossi.
La situazione non riconosciuta di “specchio”, tipica dei bacini piccoli, tipica
delle belle giornate e tipica dell’inverno, è alla base dell’incidente. Questa

154
Pilotare l’idrovolante

condizione (come pure tutto ciò che si deve fare o non fare nel caso in cui
l’aereo finisca in acqua) è ben nota a tutti i piloti di idrovolante e descritta nei
dettagli nel mio libro Il pilotaggio degli idrovolanti.
Per chi non lo sapesse lo “specchio” è una particolare, ma non infrequente,
condizione dell’atmosfera e della superficie dell’acqua (ma si verifica anche
sulle superfici innevate e sulle distese sabbiose dei deserti), nota anche come
white-out, in cui si fatica a riconoscere le forme del paesaggio circostante ed è
del tutto impossibile stabilire a vista la propria quota. In altri termini, è una
condizione in cui è impossibile compiere un ammaraggio o atterraggio a vista.
Per il pilota di idrovolante lo specchio è “pane quotidiano” in quanto con gli
idrovolanti si deve necessariamente decollare e ammarare sulla superficie e se
questa è a specchio ci si deve decollare e ammarare lo stesso. Per il decollo
non ci sono troppi problemi, anche se va condotto con alcune cautele che qui
non è la sede di esaminare, ma per l’ammaraggio si deve adottare una speciale
tecnica strumentale, completamente diversa da quella normale.
Se si usa la tecnica di ammaraggio normale su una superficie a specchio
l’aereo è probabilmente perso. Se per qualche motivo, su cui non ci si dilun-
gherà, non è possibile adottare la tecnica dell’ammaraggio a specchio la con-
segna per il pilota di idrovolante è di gettare oggetti galleggianti dalla cabina
per rendere discernibile una piccola parte della superficie, sulla quale poi
ammarerà (potendo anche recuperare gli oggetti lanciati), oppure, alla peggio,
fare un atterraggio di emergenza su un prato.
Il volo a bassa quota su una superficie a specchio, se pure è teoricamente
possibile con speciali accorgimenti, è assolutamente da evitare. Si dice questo
per dare un’idea di quanto importante sia, nel volo con idrovolanti e in genera-
le sull’acqua, il riconoscimento della condizione di specchio. Purtroppo que-
sto fenomeno, che è costato un gran numero di vite umane e la perdita di
moltissimi aerei, è poco noto ai piloti “terrestri”.
È vero che le regole prescrivono quote minime di volo e che se il pilota vi si
attenesse incidenti del genere potrebbero essere evitati, ma è anche vero che
tutti i piloti prima o poi cedono alla tentazione di un volo a bassa quota o
addirittura radente, che in effetti dà sensazioni del tutto particolari. Il fatto è
che esistono solo due modi per fare un simile tipo di volo con una certa
sicurezza: sulla pista di un aeroporto con un aereo terrestre (ma la cosa può
durare solo pochi secondi e non è particolarmente attraente) e sull’acqua, con
un idrovolante, se non ci sono condizioni di specchio. In tutti gli altri casi
quella condizione di volo è rischiosa. Nel caso di un aereo terrestre sull’ac-
qua, pilotato da un pilota senza esperienza idro, il rischio è alto e se ci sono
anche condizioni di specchio il rischio raggiunge livelli vertiginosi, per non
dire la quasi-certezza dell’incidente.
Nel libro citato sono descritti molti modi per affrontare lo specchio, ma
sono considerazioni che valgono per chi deve affrontarlo per forza, in quanto
opera con un idrovolante. Per chi vola con aerei terrestri la consegna non può

155
Pilotare l’idrovolante

essere che la seguente: non volare mai a bassa quota sulla superficie dell’ac-
qua. In altri termini: attenersi alle regole dell’aria che impongono una quota
minima di 500 piedi dalla superficie.
Tuttavia vi sono situazioni in cui anche con un aereo terrestre ci si deve
confrontare con una superficie a specchio. Si pensi agli avvicinamenti alla
pista che avvengono quasi per intero su acqua. Si pensi a quando, nel volo a
vista, l’aereo è costretto a volare a una quota bassissima da un ceiling ugual-
mente basso. Per questo ritengo che tutti i piloti, soprattutto i professionisti,
dovrebbero avere un’esperienza di volo con idrovolante, proprio per prendere
dimestichezza con la condizione dello specchio e conoscere le tecniche relati-
ve a come evitarla o affrontarla. Una concausa del secondo incidente di Punta
Raisi, per fare un esempio, può essere stata la poca dimestichezza dei piloti
con gli scherzi che la superficie dell’acqua può fare.
Chi è interessato ad approfondire la conoscenza di quel fenomeno naturale
pressoché sconosciuto ai normali piloti che è lo specchio può venire all’Aero
Club Como a fare il “passaggio” su idrovolante o semplicemente a fare qual-
che volo finalizzato alla familiarizzazione con lo specchio, secondo un pro-
gramma specialmente studiato per i piloti professionisti.
In conclusione: volare basso è affascinante, ma guai a cacciarsi nella trappo-
la, che può essere mortale, dello specchio.

156
Pilotare l’idrovolante

PIC
PIC, pilot in command, ovvero comandante.
È previsto che ce ne sia uno a bordo, ma non sempre è così.

In matematica uno più uno fa due. Nei fenomeni culturali, psicologici e socia-
li ciò può non essere vero. Infatti può fare anche zero.
Si potrebbe pensare che se a bordo di un aereo, invece di un comandante, ce
ne sono due la sicurezza del volo sia più elevata. Nulla è meno vero, come è
noto agli armatori fin dall’antichità, che delegano il potere assoluto rigorosa-
mente a una sola persona. Al comandante di una nave o di un aereo sono
addirittura attribuiti i poteri dell’ufficiale di polizia giudiziaria e di stato civi-
le. Insomma, a bordo di questo tipo di mezzi è tradizione ed è bene che vi sia
un comandante, ma nel vero senso della parola, ovvero un solo comandante.
Quando a bordo si trovano due persone di pari capacità, oppure che si rico-
noscono reciprocamente pari capacità, non importa se ad alto livello o basso
livello, incominciano i guai. Si innescano in quel caso strani meccanismi
psicologici che fanno sì che a bordo non vi sia più un comandante, con conse-
guenze potenzialmente catastrofiche.
A me è capitato di andare da Roma a Olbia e al termine del volo, dopo un
bruttissimo atterraggio, di sentirmi dire «Beh, te ne ho visti fare di migliori...»
La mia risposta spontanea è stata: «Ma come, non pilotavi tu?» Morale: nes-
suno aveva pilotato l’aereo da Roma a Olbia. Ciascuno dei due ha semplice-
mente dato il suo piccolissimo apporto con toccatine di volantino e di pedale
pensando che pilotasse l’altro. A 100 piedi dalla pista, con l’aereo inclinato di
40 gradi da una raffica di vento, entrambi abbiamo dato una bella raddrizzata,
entrambi pensando perché mai l’altro avesse lasciato degenerare fino a quel
punto l’iniziale indesiderato rollio.
I peggiori ammaraggi sono quelli fatti in due. La sperimentazione di mano-
vre avanzate deve essere fatta con un solo pilota a bordo oppure con più piloti,
ma di esperienza e capacità molto diverse.
Se due piloti di capacità simile si mettono a sperimentare manovre strane
c’è un’elevatissima probabilità che le cose finiscano male.
Consiglio finale: o tenete saldamente il comando oppure - a volte è bene che
capiti - lo cedete completamente. Le vie di mezzo sono ad alto rischio.

157
Pilotare l’idrovolante

È successo anche a me
Un’emergenza sottovalutata, che ha bloccato lo sviluppo dell’aviazione generale
per decenni.

L’I-BONG è uno dei due Cessna 150 che il Club ha posseduto per quasi
vent’anni e sul quale si sono formate generazioni di piloti. Mi ricordo quando,
nel 1970, è arrivato. Abituati al Piper PA 18, ci ha dato subito una sensazione
di modernità. Con l’occhio di poi, possiamo affermare senza dubbio che il
confronto tra un Super Cub e un Cessna 150 è impossibile: il primo è una
“Ferrari”, mentre il secondo è una “Fiat 127”. Ma in quel momento eravamo
stati colpiti dal primo aereo tutto metallico che giungesse al Club (dopo gli
ormai dimenticati anfibi Sea Bee e Piaggio P 146), ma soprattutto dal cruscot-
to. «Gli strumenti sono gli stessi e nelle stesse posizioni che sui Caravelle e
sui DC 8!» «Si può fare il volo strumentale!». Inoltre: «Non ha la cloche, ha
un volantino, come gli aerei di linea!» È certo che una delle chiavi del succes-
so dei piccoli Cessna è stato il farli assomigliare ad aerei molto più grossi e
noi ne siamo stati una dimostrazione. Dopo l’I-BONG, il presidente Bocchiet-
ti e il suo valente vice Minarchi hanno immediatamente acquistato un gemel-
lino, l’I-BOMI, la cui sigla, non a caso, evoca i nomi di quelle generose
persone che si sono adoperate non poco per l’acquisto.
Per inciso, si deve notare che sui piccoli Cessna 150 hanno fatto i corsi di
primo e secondo grado piloti anche di notevole peso, grazie anche - bisogna
dirlo - alla corporatura da fantini degli istruttori Roncalli e poi Albonico.
All’epoca dell’avventura che sto per raccontare i due “Cessnini” sono dotati
di motore da 150 HP, contro i 100 dell’edizione originale, grazie a un STC
acquistato e fatto approvare in Italia dal presidente Musumeci. Così potenzia-
ti, i C 150 sono un vera “bomba”. Decollano in un battibaleno e salgono con
un rateo e un angolo di salita impressionante.
Eccomi dunque a decollare per un normalissimo volo di una mezzoretta sul
lago. Dò potenza, decollo e incomincio la salita, con quell’impressionante
angolo dovuto all’esuberante motore.
Tutto normale, come in centinaia di altri decolli, ma succede qualcosa di
inusitato. Il seggiolino scorre all’indietro, con un movimento improvviso e
rapidissimo.

158
Pilotare l’idrovolante

L’istinto mi salva. Apro le mani e lascio il volantino. Mi trovo in fondo alla


cabina, che mi appare in salita come la scala di un abbaino, e sono a gambe
all’aria come un deficiente che sia scivolato su una buccia di banana. In un
aereo così piccolo, spostarmi all’indietro di 60 o 70 cm provoca un sostanziale
cambiamento del bilanciamento, in questo caso molto peggiorativo. Il già
elevato angolo di assetto aumenta ulteriormente.
So di avere uno o due o forse tre secondi prima dello stallo. L’agilità di un
corpo giovanile (bei tempi!) e la consapevolezza della situazione “fanno qua-
ranta”. Uso la parte anteriore del seggiolino come gradino e il sottile bordo del
vano finestra come appiglio e arranco in avanti. Non posso sperare di giungere
a una posizione in cui possa controllare l’aereo, ma arrivo a poter dare una
manata in avanti sul volantino, che fa sì che l’aereo risulti soggetto a un
grossolano appruamento. Ripeto l’operazione altre due o tre volte, mentre una
forza quasi irresistibile mi trascina all’indietro. Riesco in quel modo, a forza
di manate, a portare l’assetto dell’aereo da una condizione di prestallo a una
posizione di volo sempre in salita, ma meno pericolosa. Intanto punto i piedi e
mi attacco a tutto il possibile per guadagnare una posizione stabile avanzata.
Mi aggrappo anche alla maniglia dei timoncini, ma il leggero gancio di attac-
co in alluminio è divelto in un istante e torno all’indietro. Riesco infine, sem-
pre dando manate al volantino, a raggiungere con la mano la “V” (complesso
di due tubi presenti sopra il cruscotto dei Cessna idrovolanti, come rinforzo
strutturale) e, appeso ad essa, riesco a portarmi in avanti in una posizione dalla
quale riesco a controllare il volantino. Infine livello e, con calma, recupero il
seggiolino, riportandolo in avanti e fissandolo bene.
Per me è stata una piccola avventura, dovuta a uno stato non ottimale della
slitta (usurata, con fori ovalizzati), ma non avrei mai pensato che di lì a poco
un identica evenienza avrebbe potuto condizionare in modo determinante il
futuro dell’aviazione generale.
Un Cessna 172 decolla da un piccolo aeroporto americano con quattro per-
sone a bordo. Dopo il distacco, al pilota succede quel che era successo a me,
ma lui non stacca le mani dal volantino. L’aereo stalla e impatta il terreno.
Quattro vite trovano un’ingloriosa fine.
La Cessna aveva già emesso una serie di documenti ufficiali che imponeva-
no la sostituzione o la revisione delle slitte dei seggiolini, operazione non
eseguita sull’aereo dell’incidente. Nondimeno una corte americana condanna
la Cessna a pagare 24 milioni di dollari (6 x 4) alle famiglie degli occupanti.
La Cessna, da quel momento, presto seguita da altre case costruttrici, ha
smesso di produrre aerei per l’aviazione generale più leggeri del Caravan. Ha
ripreso la costruzione solo recentemente, dopo quindici anni da quell’inciden-
te, grazie a un’assicurazione-costruttore che innalza a cifre altissime il prezzo
di vendita degli aerei, così che un nuovo 172 idro finisce di costare quasi
mezzo miliardo di vecchie lire.
Morale: se non siete sicuri di poter controllare i comandi è meglio lasciarli.

159
Pilotare l’idrovolante

Imbrogliato
dal mio stesso cervello
Una certa abitudine alla precisione e tanta fortuna hanno fatto sì che un gravissimo
errore rimanesse senza conseguenze.
L’episodio solleva il problema della posizione del carrello negli anfibi,
che è più complesso di quanto si immagini.

Diciamo subito che è un caso - per quel che ne so - unico. Non mi risulta
infatti che qualcuno sia ammarato con un aereo scarponato con il carrello
estratto senza cappottare o senza arrecare il minimo danno all’aereo. Ma an-
diamo per ordine.
È una fredda, ma bella giornata invernale. Un amico pilota desidera portare
in volo un collega di lavoro, ma è abilitato solo alle macchine più piccole e
vuole fare bella figura. Dunque mi chiama e mi chiede di portare lui e l’altra
persona nella zona dei laghi prealpini sulla macchina più grossa che abbiamo,
il Cessna 185. Lui si siede a destra e conduce l’aereo.
Dopo aver girovagato sul Lago di Como, siamo finiti a est e, sorvolato il
Lago d’Endine, siamo ormai sopra Lovere e il bacino più settentrionale del
Lago d’Iseo. Data la giornata, ci si aspetterebbe una superficie perfettamente
a specchio. Invece no: una leggera brezza da sud increspa la superficie ren-
dendola perfettamente visibile. La situazione è così bella e invitante che il mio
copilota, che continua a condurre l’aereo, suggerisce di far provare un amma-
raggio al suo collega, che è seduto nella fila posteriore. Bene.
Con un breve cenno del dito indico l’area e la direzione dell’ammaraggio, in
funzione del vento e di altri parametri. Quando si portano piloti meno esperti
o non abilitati sulla macchina accompagnati da loro ospiti si fa in modo che
quei piloti comunque si sentano comandanti. Dunque il pilota più esperto non
tocca mai i comandi e dà le necessarie istruzioni con impercettibili segni del
capo e delle dita. Se un parametro non va bene tocca lo strumento che indica il
parametro da mettere a posto. Se interviene sui comandi lo fa con un delicato
tocco, tenendo il volantino con due dita nella parte più bassa. Le correzioni di
pedale, invisibili ai passeggeri, sono invece più brusche e hanno a volte il
significato di una tiratina di orecchie.

160
Pilotare l’idrovolante

Il copilota imposta un sottovento per l’area di ammaraggio sommariamente


definita e poi una base e un finale. Estrae due tacche di flap. Normalmente si
scende proprio con due tacche di flap. Tuttavia la situazione è talmente perfet-
ta (superficie ben visibile con una magnifica e favorevole increspatura, venti-
cello leggero e costante in prua) da essere quella in cui va proprio bene prova-
re a scendere con tre tacche di flap. Capita raramente la condizione giusta per
le tre tacche; ora che c’è, tanto vale approfittarne per fare esperienza. Gli
faccio dunque segno “3” con le dita della mano destra e lui estrae anche la
terza tacca. Appoggio in modo fintamente distratto il braccio sul parasole del
cruscotto, ma mettendo l’unghia del pollice sull’anemometro, in corrispon-
denza della velocità di discesa che deve tenere. Il copilota, non conoscendo
l’aereo, tende a scendere più veloce; lo richiamo all’ordine picchiettando il
pollice sulla velocità corretta. Intanto, con il palmo della mano tenuto in
verticale, suggerisco qualche lieve correzione di rotta per tenere una direzione
lontana dalla riva e che faccia trovare il vento in prua.
Bene, siamo prossimi alla superficie. Faccio visivamente i controlli, ma
soprattutto quello fondamentale operando con un anfibio: il carrello. La leva è
su; perfetto. Guardo fuori per il controllo degli indicatori visivi. Sono su;
perfetto. Mancano ormai poche decine di metri di quota al contatto. Con le
mani suggerisco qualche lieve variazione di assetto per fare trovare l’aereo al
contatto nell’assetto corretto. La velocità è a posto, l’assetto è a posto; non
resta che attendere il contatto.
Proprio qui viene il bello. Appena i galleggianti sfiorano la superficie avvie-
ne il finimondo. L’aereo si tuffa letteralmente in avanti e getta le punte dei
galleggianti nell’acqua, in cui affondano profondamente. La fusoliera si in-
nalza e ci troviamo presto in una cabina che si trova in posizione verticale
rispetto alla superficie. Siamo appesi alle cinture di sicurezza. Per qualche
istante tutto è immobile, finché l’aereo, che potrebbe benissimo cadere in
avanti, ovvero cappottare, cade invece all’indietro, ovvero sui galleggianti.
È inutile dire che ci resto di sasso. La prima idea è che abbia urtato un
oggetto sulla superficie che ha bloccato l’avanzamento dell’aereo. Ma gli
oggetti galleggianti si vedono e la superficie, che avevo ben guardato, era
perfetta. Mi sorge immediatamente anche il dubbio che il carrello sia giù, ma
istintivamente rifiuto l’idea. Avevo ben visto e controllato che era su. Nondi-
meno lo sguardo cade sul comando. Orrore: la leva è giù; dunque il carrello è
giù. Come è possibile? Tocco la leva con il dito e guardo il mio copilota con
sguardo interrogativo. Lui guarda, sbianca e si mette le mani in faccia.
In sintesi: pilota prevalentemente terrestre, è mentalmente condizionato ad
estrarre il carrello in atterraggio. E così ha fatto. Ma se lui avesse fatto quel
gesto, me ne sarei certamente accorto, anche perché nel 185 anfibio la leva è
posta proprio in mezzo al cruscotto. Il caso ha voluto che lui facesse il malsa-
no gesto proprio negli istanti in cui avevo rivolto lo sguardo all’esterno, per
controllare gli indicatori visivi del carrello.

161
Pilotare l’idrovolante

Dopo la sconvolgente esperienza, ci ha riportato alla realtà la voce dell’ospi-


te, che volava su un idrovolante per la prima volta nella sua vita: «Beh, certo
che non pensavo che l’atterraggio con un idrovolante fosse una manovra così
violenta».
È così che ho ammarato con il carrello giù sull’acqua con un aereo scarpo-
nato senza cappottare. Non mi risulta che sia andata così a nessuno nella storia
dell’aviazione idro.
Come mai è andata così bene? Per molti fattori. Innanzitutto l’aereo era
dotato di galleggianti EDO 3500 (ben più lunghi dei 2790 che possono esservi
installati). Poi tutto è stato fatto in modo ottimale: scelta di una direzione di
ammaraggio esattamente controvento, settaggio dei flap per la velocità più
ridotta, adozione di quella velocità, smaltimento nella retta di tutta la velocità
residua, arrivo alla superficie con rateo pressoché nullo. Se solo uno dei para-
metri citati fosse stato minimamente diverso l’aereo, dopo essere stato in
bilico tra il cappottarsi e ricadere all’indietro, si sarebbe cappottato.
Lezione: fare sempre avvicinamenti ottimali, anche quando pare che un
avvicinamento qualsiasi vada ugualmente bene.
La cosa più curiosa della vicenda ha tuttavia a che fare con la psicologia del
pilotaggio. Ritorniamo al momento in cui ho controllato gli indicatori visivi
esterni del carrello, ovvero il momento in cui il copilota ha abbassato la leva
del carrello. È quella una condizione di volo tranquilla e silenziosa, con il
motore quasi al minimo. L’abbassamento della leva del carrello comporta
l’azionamento del motore elettrico che aziona la pompa idraulica, che a sua
volta determina l’estrazione del carrello. Tale pompa si trova dietro il vano
bagagli, in fondo alla cabina ed è molto rumorosa, facendo in modo più rozzo,
ma perfettamente, le veci dei moderni avvisatori vocali dello stato del carrel-
lo. Come è possibile che non l’abbia sentita, in una situazione di motore quasi
al minimo? Da un punto di vista fisico e fisiologico non è possibile e in effetti
il mio orecchio ha certamente ricevuto i corrispondenti stimoli acustici. I
sensi, tuttavia, lungi dall’essere una funzione meccanica, sono solo una fun-
zione periferica del ben più complesso nostro cervello. E il mio cervello, in
quella situazione, evidentemente si è rifiutato di credere che la pompa del
carrello fosse in funzione e ha fatto sì che non la sentissi.
Imbrogliato da un gesto inconsulto del mio copilota, prima, e dal mio stesso
cervello, subito dopo. È così che succedono gli incidenti, un’evenienza che in
quell’occasione abbiamo evitato per il rotto della cuffia.
Questa discussione solleva, in generale, il problema del controllo del carrel-
lo negli anfibi. Si tratta di un’operazione critica, che ha provocato nella storia
dell’aviazione idro un grande numero di incidenti. Il Cessna 180 purtroppo
battezzato come I-DEPI, posseduto dall’Aero Club Como e venduto a un
pilota terrestre, è stato perso al suo primo ammaraggio per cappottamento;
inutile dirlo: aveva il carrello estratto. Il pilota terrestre deve sempre abbassa-
re il carrello durante l’avvicinamento alla superficie. Il pilota di anfibio a

162
Pilotare l’idrovolante

volte lo deve abbassare a volte no. Il pilota terrestre ai comandi di aerei terre-
stri, di conseguenza, ha il compito di gran lunga più facile.
Il non estrarre il carrello di un aereo terrestre in atterraggio è un errore che
può avere un notevole costo, in termini economici, ma non ha di solito conse-
guenze catastrofiche. Per questo i piloti terrestri si possono divertire con la
celebre storiella dei piloti “che si dividono in due categorie...”.
Invece l’errore che si può commettere con gli anfibi di ammarare con il
carrello estratto ha conseguenze certamente catastrofiche per l’aereo (salvo
rarissime eccezioni, come il caso sopra riportato), che possono diventare terri-
bili anche per le persone a bordo. Per questo il pilota idro non si diverte con la
storiella delle due categorie e si scervella per trovare sistemi che evitino, in
modo assoluto, che si verifichi quel caso. Tra i molti possibili errori di impie-
go del carrello solo quello citato è catastrofico, ma quel controllo è talmente
importante che un pilota idro, se commette un qualunque errore riguardante il
carrello anche veniale, anche privo di conseguenze, considera quell’evento
come una gravissima mancanza professionale.
L’errore di non estrarre il carrello di un anfibio in atterraggio non ha conse-
guenze serie, provocando di solito un modesto danneggiamento dei galleg-
gianti o dello scafo. Più gravi sono le conseguenze se il pilota, commettendo
quell’errore, fa una retta alta e lascia sprofondare l’aereo, che dunque “cade”
sulla superficie. Le conseguenze, in generale, sono meno gravi su superfici
non dure, ovvero su campi in erba.
Errori privi di conseguenze sono il dare motore per un decollo dall’acqua
con il carrello estratto (il pilota se ne accorge subito perché l’aereo non avanza
e a volte si apprua), il dimenticare il carrello retratto in una salita sullo scivolo
(che provoca al più una leggera abrasione nella zona del contatto), il dimenti-
care il carrello giù dopo il decollo da terra se la destinazione è un altra super-
ficie in duro (il rateo di salita e la velocità di crociera saranno penalizzate, ma
c’è chi ha compiuto lunghi voli in quella condizione senza accorgersene), e la
retrazione del carrello con l’aereo parcheggiato su terra (ti fa sentire stupido e
richiede qualche particolare espediente per rimettere l’aereo sul carrello, ma
gli impianti idraulici non si rovinano).
Le conseguenze, come si è detto, sono invece sempre gravissime se si am-
mara con il carrello giù. Un danneggiamento esteso dell’aereo o il cappotta-
mento in questo caso sono inevitabili, a volte con danni alle persone.
La condizione più pericolosa è quella in cui si devono compiere operazioni
in serie e ravvicinate nel tempo su terra e su acqua, come il dover portare 7 o 8
gruppi di persone da un’aeroporto a un’idrosuperficie e viceversa. In questi
casi il pilota deve raddoppiare l’attenzione, evitando di essere distratto dai
passeggeri o dalle voci che escono dalla radio e non facendosi stressare da
problematiche di tipo logistico o di tempistica. Il momento del controllo del
carrello in quelle situazioni è equiparabile al momento più sacro di una ceri-
monia religiosa, un vero momento di raccoglimento e di introspezione.

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Pilotare l’idrovolante

Come essere certi che il carrello si trova nella posizione corretta? La rispo-
sta più semplice è: facendo il controllo al momento giusto. Ma la storia inse-
gna che l’esito di quel controllo non sempre è quello che ci si immagina.
Ho visto con i miei occhi fare il controllo del carrello in finale per un
ammaraggio, con il pilota che legge sulla lista “carrello” e lo estrae dicendo
“giù”, per fare un esempio. Dunque il pilota non ha “sbagliato” da un punto di
vista gestuale, facendo proprio quel che voleva fare; purtroppo voleva proprio
fare la cosa sbagliata che il suo cervello distratto in quel momento ha deciso.
Ho visto con i miei occhi un altro pilota che in avvicinamento per una pista
ha letto sulla lista “carrello” e giustamente ha poi detto “giù”, retraendolo. In
questo caso l’idea era giusta, ma il gesto sbagliato. Che cosa può averlo indot-
to a compiere un così imprevedibile errore. Semplice: un errore precedente. Il
pilota aveva lasciato il carrello giù nel precedente decollo, senza accorgerse-
ne, e quando in finale ha deciso di estrarre il carrello era psicologicamente
preparato a variare lo stato del carrello. Dunque lo ha fatto, retraendolo. La
scusante del gesto sbagliato, in quel caso, è che il pilota stava facendo i suoi
primi decolli e atterraggi con il Lake su una pista e non aveva ancora interio-
rizzato la gestualità relativa al carrello, così che il nessun campanello di allar-
me è suonato nel suo cervello.
Gli avvisatori acustici, come quello della Lake & Air, possono servire, ma
possono anche offrire una falsa sicurezza, che induce il pilota ad abbassare la
guardia. Sapendo che prima o poi una voce gli ricorderà il da farsi, il pilota
potrebbe fare il controllo del carrello con minore convinzione.
La mia idea è che un controllo unico, procedurale, che si fa sempre nello
stesso modo e nello stesso momento, è meglio di due o più controlli che si
sovrappongono, nessuno dei quali ha l’importanza e quindi l’efficacia di un
unico vitale controllo. Il sistema acustico, che si innesca al raggiungimento di
una certa velocità, per esempio rimane silenzioso se il pilota fa un avvicina-
mento veloce, tutto al di sopra di quella velocità.
Il mio consiglio è di porsi sempre, con qualsiasi aereo, prima di ogni avvici-
namento e prima di azionare il comando del carrello, le seguenti domande:
- che superficie mi trovo davanti?
- come deve essere il carrello su questa superficie?
- in che stato si trova il carrello ora?
Rispondere con la mente libera a queste domande evita di sbagliare.
Lo stato del carrello è suggerito sovente da spie luminose e da indicatori
meccanici. Questi ultimi sono i più affidabili. Per quel che riguarda le spie, il
discorso si farebbe lungo, perché non è detto che una spia spenta o accesa
indichi proprio il corrispondente stato del carrello. Ciò vale in particolare per
gli idrovolanti, in cui gli interruttori delle spie, esposti alle sollecitazioni fisi-
che e chimiche dell’acqua, si danneggiano frequentemente, non funzionando
più o rimanendo bloccati in una delle posizioni.
In sintesi, occhio al carrello. Può valere l’aereo. Può valere la vita.

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Pilotare l’idrovolante

I flagelli dell’aviazione idro


Si tratta, quasi sempre, di piloti terrestri.

Il primo flagello dell’aviazione idro: i piloti “terrestri” sicuri di sé


«Con le mie 14.000 ore di volo, saprò ben pilotare questo aeroplanetto.»
Pensieri di questo genere animano la mente di molti piloti terrestri al loro
primo approccio con un idrovolante. Se l’atteggiamento è quello, è probabile
che presto accadrà un incidente. Si veda anche, a questo proposito, la descri-
zione dell’incidente accaduto a Vichy, in Francia (nel capitolo “Vichy”).
In generale sono affetti da questa sindrome piloti anche con molte ore, ma
che hanno fatto nella loro vita sostanzialmente un solo mestiere aeronautico,
come i piloti di linea. Invece non ne risultano affetti piloti che hanno un ampio
spettro di esperienze. Un pilota che ha fatto, oltre al volo in compagnia, volo
in montagna o volo a vela, per esempio, sa già che ogni attività specifica, ogni
mezzo specifico richiede un training ugualmente specifico e che un’enorme
esperienza accumulata in traversate atlantiche ai comandi di un 747 serve a
ben poco in un avvicinamento a una superficie innevata con un aereo con gli
sci o a un fiume con un idrovolante, così come serve a poco se si deve decidere
in quale campo atterrare con una mongolfiera che sta esaurendo il propano.
I più guardinghi, attenti e voraci di informazioni relative alla specifica atti-
vità sono i piloti di maggiore esperienza. I collaudatori, gli astronauti, per
esempio, sono i più umili allievi nei corsi di abilitazione all’idrovolante.
Nella storia dell’Aero Club Como parecchi idrovolanti sono stati persi in
quanto condotti da piloti terrestri troppo spavaldi e sicuri di sé.
Suggerimento 1 Il volo sull’acqua offre entusiasmanti possibilità operati-
ve, ma richiede tecniche di pilotaggio raffinate e del tutto specifiche. L’espe-
rienza fatta su altri tipi di aerei serve a poco nelle tipiche situazioni di rischio
per gli idrovolanti. Il pilota terrestre anche esperto deve accettare di buon
grado di diventare di nuovo, per un certo periodo, allievo.
Suggerimento 2 La grande versatilità operativa dell’idrovolante favorisce
il fare il passo più lungo della gamba. Andateci piano; documentatevi bene su
tutti gli aspetti del volo idro leggendo libri, seguendo il forum della SPA
(www.seaplanes.org) e quello dell’ESPA (www.espa.aero) e parlando a lungo
con piloti esperti. Volate molto con istruttori e piloti più esperti di voi. Ciascu-

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Pilotare l’idrovolante

no di essi potrà trasmettervi conoscenze uniche e irripetibili, frutto di decenni


di attività e talvolta derivanti dall’esperienza diretta di incidenti in cui sono
stati persi altri idrovolanti. A Como quell’esperienza è tutta lì, nelle persone
che circolano in hangar e nei pochi metri quadrati del piazzale. Usatela!

Il secondo flagello dell’aviazione idro: gli istruttori terrestri “pigri”


È semplice pilotare in sicurezza un idrovolante. In effetti le situazioni di ri-
schio specifico per questo tipo di aereo sono poche ed esistono ricette per
evitare che queste situazioni giungano a produrre un incidente. Il problema è
che queste ricette sono in genere indigeste ai piloti che non si siano formati su
idrovolanti, ovvero ai piloti terrestri, in quanto comportano manovre e sensi-
bilità speciali che non fanno parte del patrimonio culturale del pilota terrestre.
Il problema diventa serio quando un pilota terrestre troppo sicuro di sé, ma
privo della scintilla dell’interesse per il volo idro, istruttore di professione,
diventa, per qualche strano gioco del destino, istruttore in una scuola idro.
Un pilota terrestre è condizionato in modo irreversibile dall’idea di “pista” e
quindi riconoscerà in ogni striscia d’acqua su cui deve decollare o ammarare
una pista, anche se davanti ai suoi occhi non si c’è in genere altro che un
enorme, se non illimitato specchio d’acqua.
Dunque chiamerà quella striscia d’acqua “pista” e tenderà a usarla proprio
come tale, ovvero a decollare e ammarare nella direzione del suo asse, a
toccare, in atterraggio, dove lui immagina che quella pista abbia la sua soglia
e a staccarsi, in decollo, prima che - sempre secondo lui - quella pista sia abbia
il suo limite.
Questa situazione psicotica provoca guai a non finire quando si usa un idro-
volante. Infatti egli tenderà a operare in moltissimi casi con il vento non in
prua e tenderà a fare compiere agli allievi manovre inaccettabili nel volo idro
per fare sì che essi operino all’interno di ciò che per lui è una “pista”.
Le regole fondamentali del volo idro, la cui osservanza sarebbe valsa la
conservazione di moltissimi idrovolanti, invece andati perduti, sono poche e
molto semplici:
1 - Quando si è a contatto della superficie, trovarsi con il vento in prua.
2 - Scegliere, tra le infinite strisce possibili per un decollo o per un amma-
raggio, la migliore in un ragionevole raggio dal punto in cui si desidererebbe
compiere l’operazione.
3 - Se in tale raggio non si trova una striscia adatta al decollo o all’ammarag-
gio che si intenderebbe effettuare, trovare una superficie adatta all’operazio-
ne, anche se più distante da quella desiderata.
4 - In casi molto critici, atterrare su una superficie adatta. Abbiamo proprio
detto “atterrare”, ovvero scendere con un aereo idro su una superficie solida;
un buon atterraggio su un prato può lasciare l’idrovolante perfettamente inte-
gro, con solo qualche striatura di color verde sotto i galleggianti, quando un
brutto ammaraggio su una superficie liquida inadatta può portare alla sua

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Pilotare l’idrovolante

perdita totale. Il prato ideale è la pista in erba di un piccolo aeroporto.


Certo, seguendo le regole fondamentali sopra citate capita di tanto in tanto
di dover perdere del tempo, ma si è ripagati in quei casi dalla certezza di non
perdere l’idrovolante. Ebbene, a molti parrà incredibile, ma è molto difficile
inculcare in un istruttore terrestre un po’ pigro e riadattato al volo idro l’im-
portanza di queste semplici regole.
Il risultato è che presto potrebbe trovarsi a distruggere un idrovolante o a
danneggiarlo in modo più o meno grave. Ciò è in effetti successo a molti
istruttori formatisi su terra e alle prime armi nell’attività idro.
Suggerimento agli istruttori idro alle prime armi (anche se molto esperti in
altri settori dell’aviazione): informatevi sui rischi del volo idro, parlate molto
con i piloti idro più esperti, imitate il loro modo di compiere le manovre nelle
situazioni critiche. Inoltre: state sempre un passetto più indietro del limite.
Infine: nel volo idro avrete sempre qualcosa da imparare o da fare meglio di
come siete capaci di farla; anche se siete già bravi, non dormite sugli allori e
non perdete la voglia di migliorare. Quel “qualcosa in più” vi tornerà utilissi-
mo quando vi troverete davanti alla situazione-limite, nella quale la differenza
tra la salvezza e il disastro è proprio questione di un nonnulla.
Studi fatti dimostrano che un pilota idro raggiunge una relativa sicurezza
quando la sua esperienza di volo sull’acqua si avvicina alle 500 ore. Ciò vale
anche per gli istruttori, i più intelligenti dei quali usano queste 500 ore per
crescere come piloti idro in modo graduale, esercitando la virtù dell’umiltà.

Il terzo flagello dell’aviazione idro: i piloti inebriati dal senso di libertà


del volo sull’acqua
Il volo idro è sinonimo di libertà. Con un idrovolante si può operare in qual-
siasi luogo vi sia acqua, senza alcuna imposizione o restrizione da parte di
autorità o enti di controllo. Ciò induce molti piloti ad abbassare la guardia. In
questo rischio incorrono di più i piloti terrestri di quelli che si sono formati su
idrovolante. I primi, infatti, sono talmente vessati da controlli, procedure,
autorizzazioni che non vedono l’ora di trovarsi a volare in una condizione
- per così dire - originaria, ove il pilota si trova solo con il suo mezzo e i soli
limiti sono quelli posti dall’ambiente naturale.
Sul bellissimo specchio d’acqua che si trova davanti, il pilota idro ha gene-
ralmente uno spazio indefinito per compiere le manovre, non deve rispondere
a nessuno, parlare con nessuno, avere l’autorizzazione da nessuno. I neofiti, in
quei casi, perdono il senso del pericolo e non si rendono conto che quella
meravigliosa, idillica striscia d’acqua che si stende davanti a loro è in realtà
infarcita di insidie.
Sottovalutando le insidie, finiscono prima o poi per essere vittime di una di
esse. Onda troppo alta, superficie a specchio, riva troppo vicina, ostacolo sulla
superficie, ostacolo sommerso, assetto errato, velocità troppo alta al contatto,
rateo di discesa eccessivo, deriva non percepita, retta troppo alta, ritorno sulla

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Pilotare l’idrovolante

superficie al cessare dell’effetto suolo, cappottamento per assetto troppo piat-


to al contatto o vento in coda, distruzione dell’elica per gli spruzzi in un
flottaggio con potenza, danneggiamento del motore in un tentativo di decollo
prolungato, ecc., ecc.
Ogni decollo o ammaraggio può presentare problemi di questo tipo, sui
quali è bene acquisire conoscenza per via culturale, ovvero facendo tesoro
dell’esperienza di altri, più esperti, e non con il sistema più primitivo, il più
diffuso tra le specie inferiori del mondo animale, che è quello di “prova ed
errore”. Infatti un solo errore può portare al disastro.

Il quarto flagello dell’aviazione idro: gli “armatori idro” improvvisati


Si dice che quando uno non sa più cosa fare nella vita probabilmente fonderà
un giornale o una rivista. Allo scrivente è capitato di fare l’uno e l’altro.
Questo vecchio detto può oggi essere completato aggiungendo una nuova
categoria: quelli che fondano una compagnia aerea con idrovolanti.
Uno arriva al Club di Como o in altra struttura che opera con idrovolanti. Se
ha l’opportunità di fare un volo panoramico o di partecipare, con un pilota
esperto, a qualche operazione speciale, che comporta la partenza e/o l’arrivo
in località particolari, magari esclusive, ove solo l’idrovolante può operare, ne
trarrà un’impressione indelebile. «Perbacco, ma è una cosa fantastica. Qui si
possono veramente fare i soldi.» Dunque ci sono discrete probabilità che uno
sfaccendato che sale su un idrovolante si trasformi in un “armatore idro”.
Il problema è che nella maggior parte dei casi questi neo-entusiasti del volo
sull’acqua non hanno capitali propri, ma sono così convinti della bontà della
propria idea da andare a cercarne a destra e a manca. Per arrivare al risultato è
inevitabile che in qualche modo “indorino la pillola” e prospettino risultati in
tempi e modi o con investimenti che in realtà poi non si rivelano realistici.
Lo scrivente è convinto che aziende di trasporto aereo che operano con
idrovolanti abbiano notevoli possibilità di operare con successo in parecchi
paesi europei e in particolare in molte località del bacino del Mediterraneo.
Lo scrivente opera però nel settore da sufficienti anni per sapere che i margi-
ni entro i quali un’impresa di questo tipo può “stare in piedi” sono strettissimi.
Basta avere un progetto lievemente male mirato, scegliere una macchina lieve-
mente inadatta, avere un capitale iniziale lievemente scarso, sottovalutare lie-
vemente alcuni fattori tecnici e ambientali, gestire in modo lievemente non
ottimale i rapporti con le autorità territoriali e con quelle aeronautiche e l’im-
presa diventa un vicolo cieco, che non lascia speranza all’investitore.
È sconsolante vedere nascere iniziative in cui alcuni fattori sopra elencati
non solo sono lievemente sottovalutati, ma addirittura non sono nemmeno
cosiderati. Il risultato è che alcune di queste imprese finiscono per scontrarsi
molto presto con autorità di ogni tipo, con gli enti di controllo dell’aviazione,
con gli stessi investitori che le hanno inizialmente sostenute.
Quando ciò capita, è lievemente sconveniente per tutta l’aviazione idro.

168
Pilotare l’idrovolante

Incidenti
In ogni attività umana è insita la possibilità di un incidente, ovvero che qual-
cosa vada storto. In aviazione succedono meno incidenti che in altri settori,
ma i mass media provvedono a darne tanta pubblicità che sembra che sia un
miracolo che gli aerei possano stare in aria. Nessuno, invece, informa il pub-
blico dei miliardi di decolli e atterraggi o ammaraggi avvenuti o che avvengo-
no senza il minimo problema. Il risultato finale è che la percezione da parte
del pubblico del rischio del volo è deformata, a favore di una valutazione di
rischio molto più elevato di quello che è realmente.
L’aereo - lo dicono le statistiche e tutti dovrebbero saperlo - è e rimane uno
dei posti più sicuri al mondo in cui ci si possa trovare.
L’aviazione idro ha una particolarità: accadono molti piccoli incidenti con
danni alle macchine, in parecchi casi riparabili in altri no, mentre accadono
pochissimi incidenti con conseguenze per le persone.
I frequenti danni alle macchine sono dovuti al fatto che il pilotaggio di un
idrovolante, nelle manovre che hanno a che fare con l’acqua, richiede più
esperienza del pilotaggio di un aereo terrestre, nelle corrispondenti operazioni
su una pista. Le cause più frequenti del danneggiamento di un idrovolante
sono illustrate nei capitoli “Errori classici nel pilotaggio degli idrovolanti” e
“I flagelli dell’aviazione idro” e dunque qui non ci ripeteremo.
Vale solo la pena di ricordare il cosiddetto “fattore umano”, che oggi è
pressoché l’unica causa degli incidenti. A questo proposito è però bene speci-
ficare che è difficile che un incidente sia dovuto a un semplice errore di
manovra o di valutazione del pilota. In genere una catena di azioni ed errate
valutazioni, fatte da più persone, precede l’incidente. Un aereo è proprietà di
qualcuno, è esercito da qualcuno, è pilotato da qualcuno. Inoltre è mantenuto
da qualcuno, venduto da qualcuno, assegnato da qualcuno, controllato da qual-
cuno. Nella maggior parte degli incidenti la responsabilità, lungi dall’essere
del solo pilota, come sovente si legge sui giornali (soprattutto se il pilota non
c’è più), è da attribuire ad alcuni, se non a parecchi dei “qualcuno” citati.
I poco frequenti danni alle persone in incidenti di idrovolanti sull’acqua si
devono invece - per fortuna - al fatto che in questi incidenti l’incendio è
sconosciuto, la superficie liquida, per quanto dura, ammortizza l’urto e l’idro-
volante è dotato di strutture protettive di enorme efficacia.

169
Pilotare l’idrovolante

Gli idrovolanti a scafo non si cappottano. Quelli scarponati si cappottano,


ma i galleggianti li tengono a galla, consentendo ai passeggeri un’uscita dalla
cabina a volte avventurosa, ma non difficile e a pochi metri o decimetri dalla
superficie. Il fatto che l’aereo galleggi anche cappottato fornisce inoltre ai
naufraghi qualcosa che consente loro di attendere fuori dall’acqua i soccorsi,
cosa particolarmente apprezzabile nella stagione fredda, nella quale i tempi di
sopravvivenza in acqua sono molto brevi.
L’Aero Club Como ha un record di sicurezza elevatissimo. Ha registrato,
nella sua storia, molti danneggiamenti e alcuni casi di perdita di idrovolanti,
ma mai danni alle persone. Ciò è certamente dovuto alla sicurezza intrinseca
dell’idrovolante, sopra descritta, al notevole know how accumulato in quasi un
secolo di attività, ma anche - è doveroso ricordarlo - a una certa dose di
fortuna.
Così come il gatto, che ha nove vite, ciascuno ha un capitale iniziale di
fortuna, che tuttavia non ci è dato di conoscere. Possiamo accorgerci di averne
molto di questo capitale, ma esso può esaurirsi all’improvviso in un momento
in cui abbiamo un gran bisogno di “spenderlo”. In termini più tecnici: la
statistica favorevole non ci deve indurre a eccedere nello sfidare la sorte.
Come prevenire gli incidenti? Fiumi di inchiostro sono fluiti nella trattazio-
ne di questo tema. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di farlo agendo su tutto
ciò che precede il momento in cui un pilota si trova ai comandi di un nostro
idrovolante, ovvero facendo di tutto affinché la macchina che ha tra le mani
sia in eccellente stato e affinché il pilota sia in possesso delle cognizioni e
dell’esperienza per affrontare in sicurezza tutte le condizioni di volo e sull’ac-
qua (queste ultime sono le più insidiose; condurre una ereo in volo è molto più
semplice che condurlo sulla superficie).
La perfezione non esiste nel mondo reale, ovviamente, e la sicurezza assolu-
ta non può che essere un obiettivo a cui cercare di avvicinarsi, ma che non
potrà mai essere raggiunto al 100%. Dovere di chiunque operi nell’aviazione
è quello di agire in ogni circostanza in modo da avvicinarsi il più possibile a
questo obiettivo.
Comunque sia, è sempre valido il detto, vecchio come l’aviazione, che dice:
If you have to have an accident, have it in a seaplane.

170
IN VOLO SULL’ACQUA

IDROVOLANTI

171
Idrovolanti

Scarponati o a scafo?
Metà della storia del volo sull’acqua è stata fatta da aerei con galleggianti, detti
“scarponati”. L’altra metà con aerei a scafo centrale. Un tipo è meglio dell’altro?
A quasi cento anni dalla nascita dell’aviazione idro le discussioni sul tema fervono.

Il primissimo idrovolante francese, quello di Henri Fabre, del 1910, aveva


galleggianti, tre per la cronaca, ma contemporaneamente ne erano in costru-
zione anche di tipo a scafo centrale, come quello di Curtiss, negli Stati Uniti,
che avrebbe volato poco dopo, nel 1912. Nei primi decenni dell’aviazione
grandi imprese sono state compiute sia con un tipo sia con l’altro.
Nella manifestazione idroaviatoria tenutasi a Como, nel 1913, erano presen-
ti prevalentemente idrovolanti con galleggianti, ma non mancavano i “canotti
volanti”, ovvero gli aero a scafo o flying boat ; uno di essi era il biplano di
François Deroye, a cui non mancavano i galleggiantini sotto le ali, a garantire
la stabilità sull’acqua.
Gli anni Trenta, che hanno visto l’esplosione delle attività con idrovolanti,
registrano una certa prevalenza del tipo a scafo, rappresentato per esempio
dagli aerei usati nei grandi raid, quali quelli di de Pinedo, Von Gronau e
Amundsen, e da tutti i grandi aerei da trasporto, quali i Clipper che battevano
le rotte del Pacifico, gli Short dell’Imperial Airways o i plurimotori francesi.
In generale, gli idrovolanti più grossi sono a scafo. Il più grande aereo mai
costruito sarà, dopo la guerra, lo Spruce Goose, condotto dal suo costruttore
Howard Hughes nel suo unico volo di 40 secondi.
Nel frattempo aerei con galleggianti, in genere di piccola stazza, battevano
un record di velocità dopo l’altro, in stretta competizione nella Coppa Schnei-
der o in prove individuali, come quella in cui Francesco Agello superò il muro
dei 700 km/h, tuttora imbattuto.
Un caso curioso ed emblematico del fatto che entrambi i tipi di idrovolante
presentano pregi è quello del Short-Mayo composite, un aereo “doppio”, co-
struito in Inghilterra, composto da un idrovolante a scafo (Maia) che porta
“sul groppone” un idrovolante a galleggianti (Mercury), da lanciare verso la
destinazione finale quando l’insieme dei due si trova già a una certa distanza
dal punto di partenza. Il tutto per ottenere un’autonomia che sarebbe negata a
un singolo aereo. Maia, nella mitologia greca, è la più anziana delle Pleiadi,

172
Idrovolanti

madre di Mercurio. L’impresa più ricordata di questa combinazione di aerei


fu un raid postale senza scalo dall’Inghilterra al Sudafrica, ove il Mercury
ammarò nel fiume Orange.
La seconda guerra mondiale vide un larghissimo impiego di idrovolanti di
ogni tipo, ma dopo di essa la produzione di questo genere di macchine volanti
si ridusse decisamente.
Nondimeno gli idrovolanti hanno svolto per i decenni successivi servizi
fondamentali. L’intero Grande Nord canadese, l’Alaska, zone estremamente
inospitali, quali le Aleutine o la baia di Hudson, sono stati colonizzati con
incredibile caparbia grazie all’idrovolante. Non si può non ricordare a questo
proposito i magnifici De Havilland DHC 1 Beaver e DHC 2 Otter, tutti aerei
con galleggianti, che continuarono brillantemente il lavoro fatto in preceden-
za da altri aerei simili, il più noto dei quali era il Noorduyn Norseman.
Altri impieghi importanti dell’idrovolante sono stati la ricerca e soccorso in
mare e il servizio antincendio, che ha reso noti i Canadair, ma anche i masto-
dontici Martin Mars, tutti aerei a scafo. In Italia il SAR si è servito per molti
anni di Grumman Albatross e di Piaggio P136, altri aerei a scafo.
Nel dopoguerra si è sviluppato un altro filone di utilizzo dell’idrovolante:
quello che vede la simpatica macchina diventare uno strumento di piacere, per
spostarsi con la famiglia, con gli amici o con i clienti in magnifici scenari
naturali o per andare a pescare. Considerato che a pagare il servizio, in questi
casi, è un privato o una società privata, è comprensibile che tutte queste mac-
chine siano piccole e studiate per essere economiche nell’impiego e nella
manutenzione.
Non dovendo compiere un preciso lavoro, ma puntando alla versatilità, e
potendo fruire di un gran numero di piste, molte delle quali eredità della
guerra, sono divenute sempre più gradite le macchine anfibie, pur penalizzate,
in quanto a carico utile, dalla presenza di un carrello e degli impianti destinati
a farlo funzionare. Nel mercato statunitense si diffondono, tra gli altri, i Ces-
sna e i Piper in versione idro, tutti con galleggianti.
Sul fronte dell’aereo a scafo dilagano i Grumman, tutti bimotori, dal più
piccolo Widgeon al colosso Albatross, passando per il Goose e il Mallard.
Grande successo hanno anche gli aerei a scafo leggeri, perlopiù quadriposto,
uno dei quali, protagonista anche di un celebre serial televisivo, è il Republic
Sea Bee, prodotto in un migliaio di esemplari. Tanto diffuso che anche l’Aero
Club Como ne ha posseduto uno, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta.
Fanno capolino anche i progenitori di quello che diventerà il Lake, destinato
ad avere un grande successo negli anni Settanta e Ottanta (l’Aero Club Como
ne metterà in linea quattro in quei due decenni, tre Buccaneer e un più potente
Renegade, quest’ultimo tuttora usato con profitto e soddisfazione).
Il più prestante idrovolante mai costruito da mano umana è comunque un
aereo a scafo, lo Shin Meiwa giapponese. Quadriturbina, è stato dotato di una
quinta turbina supplementare che serve solo per “soffiare” i filetti fluidi lungo

173
Idrovolanti

il dorso delle ali, al fine di consentire il volo a velocità bassissime, alle quali
un grosso aereo di quel tipo sarebbe già stallato da un pezzo. L’ardita e raffi-
nata costruzione permette a quell’aereo di operare nel bacino del Pacifico, per
operazioni di ricerca e soccorso, su onde di 3 metri di altezza, il record assolu-
to nella storia del volo umano.
Attualmente, in Russia, è allo studio un aereo anfibio biturbina, a scafo, per
trasporto di linea di una settantina di passeggeri, il Beriev 200, la cui progetta-
zione e costruzione può beneficiare della grande esperienza accumulata dal-
l’industria aeronautica russa nei decenni scorsi.
In Italia begli esempi di aerei con galleggianti sono il Caproni CA 100, di
cui furono costruiti più di 1000 esemplari (a Como ve ne furono fino a 16), e il
Macchi MB 308 (a Como ne arrivarono quattro), mentre sul fronte degli aerei
a scafo è stato prodotto il Piaggio P 136 (l’unico idrovolante bimotore mai
stato in esercenza all’Aero Club Como) e il prestante e raffinato Siai-Nardi
FN 333 Riviera (collaudando il quale perse la vita Nello Valzania, generoso
rifondatore dell’Aero Club Como nel dopoguerra e valentissimo pilota, aereo
mai posseduto dalla scuola di Como). Il Riviera ha carrello e galleggiantini
retrattili, a tutto vantaggio dell’aerodinamica, e viaggia alla velocità di 150
miglia all’ora. Sia il Piaggio P 136 che il Riviera conobbero il successo com-
merciale nel continente nordamericano (il primo con il nome di Royal Gull).
Dopo che i due Lake presenti a Como erano scomparsi, proprio allo scocca-
re del millennio, molti piloti comaschi hanno sentito una nostalgia tale di quel
tipo di aereo da volerne acquisire un altro al più presto. Un aereo a scafo è
considerato innanzitutto di importanza strategica: una scuola di volo idro com-
pleta, infatti, deve contemplare l’istruzione sui due tipi fondamentali di idro-
volanti, quelli con galleggianti e quelli a scafo. Una scuola siffatta produce
piloti idro più esperti e versatili di una scuola che fa uso di uno solo dei tipi di
idrovolante, ovvero del solo “più facile” tipo con galleggianti.
Qualcuno dice che l’aereo a scafo “è più difficile”, ovvero che richiede
maggiore perizia nella manovra, maggiore finezza nel controllare gli assetti,
maggiore capacità di valutazione delle condizioni ambientali, maggiore espe-
rienza. Ebbene, si deve dunque dedurre che i piloti di idrovolante con galleg-
gianti si sentano tranquilli quando conducono l’aereo in modo approssimati-
vo? O quando compiono operazioni senza averle valutate in tutti i loro aspet-
ti? O che si beffino dell’esperienza o ritengano di poter portare familiari e
amici su un idrovolante facendo cinque o sei ore in totale all’anno? Per alcuni
in effetti è così: «l’aereo a galleggianti è più facile; se anche sono giù di
esercizio in qualche modo me la caverò». Scarsa ambizione di migliorarsi,
poca curiosità, nessun desiderio di diventare un pilota più completo e consa-
pevole. Certo, l’aereo a scafo richiede un certo esercizio e frequenza di impie-
go, ma possiamo ragionevolmente sostenere che il livello di proficiency ri-
chiesto dall’impiego di un aereo a scafo è quello che qualunque pilota idro
dovrebbe desiderare per portare in giro altra gente.

174
Idrovolanti

L’esperienza accumulata su aerei a scafo, dunque, è preziosa. In sintesi:


anche volando su un aereo con galleggianti, sperate che il pilota che è ai
comandi abbia esperienza sugli aerei a scafo. La semplice verità è questa:
avrete a disposizione un pilota migliore.
Ora una curiosità. La scuola di Como ha un primato: è l’unica al mondo che
negli ultimi decenni ha affidato aerei a scafo a piloti solisti dopo l’abilitazio-
ne. E lo ha fatto per 26 anni, da quando il primo Lake giunse dalla Finlandia,
nel lontano 1973, ma aveva incominciato prima ancora, negli anni Cinquanta,
quando era in dotazione il Republic Sea Bee. In questo lungo periodo la cosa
non è stata del tutto indolore e si sono indubbiamente verificati alcuni “incon-
venienti” (tutti senza la minima conseguenza per le persone), anche a causa
dell’alto numero di ore effettuate da quelle macchine.
Il fatto curioso è che gli inconvenienti accadono a piloti di notevole espe-
rienza. Pare non esserci una logica in questo fatto, ma essa è molto semplice.
Il “motore” di tutto ciò è lo stesso che nella storia dell’aviazione ha fatto
perdere molti aerei e vite umane: eccesso di sicurezza e sottovalutazione del
rischio. «Fino a ieri avevo tra le mie mani la cloche di un 104 (o il volantino di
un 747); che cosa vuoi che sia mai questo trabiccolo spinto da poco più di un
ventilatore. E poi quella è acqua, mica cemento o roccia.» Ecco come tutti
quegli esperti piloti hanno gettato alle ortiche un ego costruito in anni o de-
cenni di fatiche, sentendo poi pronunciare da imberbi ragazzini o dal barista
all’angolo le inevitabili analisi “da piazzale” di come invece si doveva fare per
evitare l’inconveniente e il danneggiamento del piccolo aereo.
Poniamoci ora l’altra domanda: come mai aerei rovinati da esperti piloti si
ostinano a passare indenni e a fare migliaia di ore tra le mani di novellini? La
risposta è altrettanto semplice: perché i novellini si avvicinano a quegli aerei
con umiltà, ovvero pensando di avere qualcosa da imparare a applicandosi per
impararla. Inoltre i novellini hanno una gran paura di fare il passo più lungo
della gamba, anche se capita che lo facciano in modo del tutto inconsapevole,
per mancanza di esperienza. Ma probabilmente, in quel caso, sarà un passo
poco più lungo della gamba, quando invece il pilota più esperto e sicuro di sé
rischia di farlo molto più lungo, incorrendo nell’incidente.
A questo punto si deve fare una doverosa considerazione: per molti novelli-
ni si è trattato anche di fortuna. Nella storia della scuola di Como, vi sono stati
momenti in cui un pilota era veramente istruito all’impiego di un aereo a scafo
e altri momenti, per fortuna lontani nel tempo, in cui tale istruzione era più
superficiale («Ma sì; sai già andare in idrovolante; devi solo imparare quelle
due o tre cose di questa strana macchina; se poi vuoi evitare guai, continua a
fare il tuo giretto all’isola Comacina con un Cessnino o il Super Cub e vedrai
che non avrai nessun problema.»).
Lo scrivente ha avuto la fortuna di avvicinarsi al Lake avendo un’ottima
istruzione di base, da parte dell’allora unico istruttore Albonico. Era quello un
momento molto “libertario”. L’I-AIIA nuovo fiammante era dato senza alcu-

175
Idrovolanti

na restrizione a piloti appena brevettati che avevano fatto il loro passaggino di


8 ore sulla macchina. In mano a uno stuolo di giovani piloti con poche decine
di ore totali e una manciata di ore su un aereo a scafo, in piena estate, la
sopravvivenza della macchina era veramente appesa a un filo. Abbiamo avuto
tutti anche una bella fortuna, ma intanto il glorioso Buccaneer ha passato
indenne quei suoi primi anni, facendo centinaia e centinaia di ore all’anno.
Esaminato il “motore” psicologico degli incidenti su macchine difficili, ve-
diamo ora quali sono le precauzioni da adottare per evitare di danneggiare
macchine di questo tipo e in particolare idrovolanti a scafo. Diciamo subito
che si tratta di precauzioni semplicissime (tanto semplici da essere sottovalu-
tate da piloti espertissimi su terra, ma novizi su acqua).
Quella fondamentale, derivante dal rischio di operare su superfici connotate
da pericolose onde medio-lunghe, che inducono il cosiddetto delfinamento o
porpoising, suona così: non decollare o ammarare se la superficie non è adat-
ta. Il che non significa che si debba rinunciare all’operazione che si intende
effettuare. Significa che se l’esatto punto in cui si vorrebbe decollare o amma-
rare non è adatto si deve andare a cercarne un altro (che in genere non si trova
troppo distante, al più qualche minuto di flottaggio o di volo, salvo casi ecce-
zionali). È così che con gli aerei a scafo si sono sviluppate le tecniche del
decollo “a redanata cautelativa” e dell’ammaraggio “a volo di libellula”.
Il decollo “a redanata cautelativa” consiste nel porre l’aereo in planata, ma a
una velocità di planata molto bassa, alla quale l’impatto con onde è senza
conseguenze, anche se alla lunga può dare il voltastomaco, dando tutto moto-
re e accelerando solo quando la striscia innanzi all’aereo è adatta al decollo.
L’ammaraggio “a volo di libellula” consiste nel vagare sulla superficie del
bacino a 1-2 metri di quota, in perfetta configurazione da ammaraggio e a una
velocità di poco superiore a quella del contatto, finché innanzi all’aereo non si
trovi una striscia certamente adatta all’ammaraggio, a cui si può procedere
immediatamente quando è il momento buono.
Corollari: mai dare tutto motore e accelerare, in decollo, e mai procedere al
contatto, in ammaraggio, se non si è certi che la striscia d’acqua innanzi
all’aereo sia adatta all’operazione. Inoltre: mai dare per scontato che si opere-
rà in una determinata area di decollo o ammaraggio. Le manovre avverranno
infatti ove la superficie lo consente.
Se tale semplice linea di azione fosse stata inculcata e seguita... probabil-
mente gli ultimi Lake non sarebbero stati acquistati in quanto i primi sarebbe-
ro ancora in linea di volo. In molti casi la differenza tra il danneggiare o il
conservare l’aereo è stata questione di decidere una diversione di pochi minuti
o anche solo di una manciata di secondi.
Torniamo ora a una valutazione più generale dei due tipi di idrovolante.
Quello a galleggianti è quasi sempre il frutto della conversione di un aereo
“terrestre”. Si tratta dunque di aereo “adattato” all’impiego come idrovolante.
Solo in pochi casi - quelli dei De Havilland Beaver e Otter sono emblematici -

176
Idrovolanti

i costruttori hanno progettato un aereo tenendo in completa considerazione i


suoi possibili usi come aereo da terra, da acqua e da neve.
Quando questi aerei devono diventare anfibi si consuma una vera tragedia in
termini di carico utile: in un piccolo aereo il carrello vale uno-due passeggeri.
Gli aerei a scafo sono progettati espressamente come idrovolanti e, anzi,
quasi sempre come anfibi. Le loro prestazioni e il loro carico utile ne guada-
gnano moltissimo. I Lake, per esempio, detengono molti record mondiali
nella categoria, avendo prestazioni e raggiungendo quote di volo inarrivabili
per aerei con galleggianti di corrispondente potenza.
Queste caratteristiche sono quelle che hanno reso possibili tutti i lunghi
viaggi fatti da piloti del Club con i Lake. Oltre ai viaggi dell’autore, narrati in
questo libro, viaggi significativi sono stati compiuti da molti altri soci del
Club. Ricordiamo, a titolo di esempio, un viaggio a Tunisi di Eugenio Rossi e
Giuseppe Lorini, un viaggio a Zara di Gigi Fara, un viaggio sui laghi del
Centro Italia di Fara, Barozzi, Bianchi e Croserio.
Con i Lake il Club partecipa a tre “Giri aerei d’Italia”. I piloti che fanno
l’interessante esperienza, una vera scuola di volo a vista di precisione, sono
Gavazzi, l’autore e Fabio Croserio. Il Lake si presta ottimamente a svolgere
questa attività, grazie alla magnifica visibilità dalla cabina, che semplifica il
riconoscimento degli elementi del paesaggio e dei traguardi.
Gli idrovolanti a scafo hanno un’altra caratteristica speciale: non si cappot-
tano né su acqua né su terra. Al contrario, gli aerei a galleggianti sono partico-
larmente vulnerabili se sottoposti a vento laterale o in coda, in quanto basta
una relativamente modesta raffica per farli ribaltare (l’unico anfibio a galleg-
gianti che non è stato rivenduto dall’Aero Club Como, un Maule, è stato perso
per ribaltamento, istruttore con poca esperienza idro a bordo).
Gli aerei a scafo, molto bassi e dotati di galleggianti alle estremità alari, si
possono muovere molto spigliatamente sull’acqua, sia a bassa sia ad alta velo-
cità, anche in condizioni di vento e stato della superficie che sarebbero criti-
che o proibitive per aerei con galleggianti.
Il caso in cui la differenza tra i due tipi è più evidente è quello di ammarag-
gio con forte vento verso la riva (a Como con forte vento da nord). In questo
caso si ammara dalla terraferma verso il largo (a Como per 01). Il problema è:
una volta ammarati, come ritornare alla riva, ove si trova la base? Con un
aereo a galleggianti l’operazione è possibile solo con venti leggeri. Con venti
di una certa forza innanzitutto non è nemmeno possibile completare la virata
sottovento. Ma soprattutto si rischia seriamente il cappottamento in qualun-
que istante il muso dell’aereo non sia perfettamente allineato nel vento (il
citato Maule del Club è stato perso per cappottamento in un tentativo di rag-
giungere la riva con il vento in coda, dopo un’azzardata virata sottovento). Le
scelte possibili sono solo quella di veleggiare all’indietro verso il punto di
approdo o di farsi trainare allo stesso da una barca, sempre tenendo il muso
pressoché nella direzione di provenienza del vento.

177
Idrovolanti

Tutto è diverso con un aereo a scafo. Un Lake, per esempio, riesce a compie-
re una virata sottovento anche in presenza di un vento di notevole forza. Ma,
soprattutto, il pilota non dovrà mai temere il cappottamento, pressoché impos-
sibile per un aereo di questo tipo.
La tecnica del “decollo circolare”, per fare un altro esempio, è applicabile
sia con uno che con l’altro tipo di aerei. Tuttavia essa è utile, oltre che spetta-
colare, quando viene praticata con un aereo a scafo, che riesce a raggiungere
la velocità di decollo e a distaccarsi girando in una pozzanghera d’acqua,
ovvero con un raggio strettissimo (il Lake è campione assoluto, per questa
prestazione). Un aereo con galleggianti può fare un decollo circolare con un
raggio di virata enorme e quindi solo in un bacino vastissimo, ove l’applica-
zione di quella tecnica è, oltre che pericolosa, sostanzialmente inutile.
Su terra un aereo anfibio con galleggianti è altissimo sulla superficie e può
operare solo con venti al traverso lievi, pena il ribaltamento laterale. Lo scri-
vente è atterrato a Lampedusa con un Lake Renegade, a scafo, con un vento di
28 nodi esattamente al traverso e senza particolari problemi. Il socio del Club
ed esperto pilota Luigi Fara è atterrato a Marina di Campo, sull’isola d’Elba,
con un Lake Buccaneer con 25 nodi di vento al traverso, pure senza problemi.
Segue un altro esempio del vantaggio di operare con un aereo a scafo. L’Ae-
ro Club ha portato a Venezia due aerei, per una manifestazione che contempla
che i due idrovolanti siano messi alla boa per qualche ora di fronte a Piazza
San Marco. Gli aerei sono un Lake Renegade e un Lake Buccaneer. Dopo
l’ammaraggio in un canale secondario, chiuso al traffico e sorvegliato dalle
vedette della Capitaneria, gli aerei hanno flottato fino al Canale della Giudec-
ca, proprio di fronte a Piazza San Marco. Ebbene, se il Club non ha perso due
aerei è solo perché, per caso, si trattava di aerei a scafo. Infatti il Canale della
Giudecca è trafficatissimo da imbarcazioni di ogni tipo, incluse le vere navi.
Le ondate che hanno investito gli aerei, nelle ore di permanenza, avrebbero
quasi certamente fatto ribaltare un aereo a galleggianti. Ma se anche ciò non
fosse successo, il ribaltamento sarebbe stato certamente causato da un elicot-
tero, comparso all’improvviso sul teatro della manifestazione, un gigantesco
Sikorsky HH3F, che ha incominciato a vagare in hovering a poca distanza dai
Lake alla boa. Gli aerei, per alcuni secondi, si sono trovati in mezzo a una
specie di tornado, con le ali sottovento degli aerei immerse per quattro quinti
nel mare. Un tornado che avrebbe fatto ribaltare qualsiasi idrovolante... con
l’eccezione di uno a scafo (per correttezza, si deve riconoscere che esiste un
aereo con galleggianti che avrebbe potuto sopportare l’abnorme sollecitazio-
ne: il DC 3 anfibio restaurato dal Folsom’s Air Service).
Guardando ai fatti, a Como quattro aerei a scafo hanno operato complessi-
vamente per 26 anni e 5000-6000 ore di volo, mentre quattro anfibi con gal-
leggianti hanno operato complessivamente per un paio d’anni, per un totale di
qualche centinaio di ore (uno è stato perso per cappottamento, come si è detto,
e tre sono stati presto rivenduti, uno dopo un lungo fermo in quanto inutilizza-

178
Idrovolanti

bile per ragioni di rumore e un altro addirittura prima di entrare in linea). Una
realtà che mette indubbiamente in leggero imbarazzo i sostenitori della supe-
riorità degli anfibi con galleggianti.
In conclusione, non si può dire che uno dei due tipi sia superiore in tutto
all’altro e al top delle prestazioni abbiamo sia gli anfibi a scafo sia gli idrovo-
lanti “puri” con galleggianti. Ci sono situazioni in cui uno è superiore e altre
in cui lo è l’altro.
L’operatore di una scuola di volo che abbia i due tipi di idrovolante, dal
canto suo, potrà giovarne grandemente, offrendo un servizio di altissimo valo-
re formativo.
Se l’operatore fa anche manutenzione, come è il caso dell’Aero Club Como,
l’impiego dei due differenti mezzi offre anche all’officina di manutenzione
un’opportunità di perfezionarsi, dovendo affrontare le problematiche relative
ai due tipi storici di idrovolante. È certo che il nostro capomeccanico Danilo
Pecora e gli altri meccanici Adriano Giorgi, Filippo Faglioni e Maurizio Porro
hanno avuto e continuano ad avere, con la manutenzione dei Lake, una rara
occasione di crescita professionale.
È opportuno, a questo punto fare un’altra constatazione: molti piloti di aerei
con galleggianti detestano quelli a scafo, mentre non è vero il contrario. In
genere, infatti, i piloti di aerei a scafo amano volare anche su aerei con galleg-
gianti. Perché? La risposta sembrerebbe risiedere nel fatto che i piloti di aerei
a scafo, salvo poche eccezioni, pilotano anche quelli con galleggianti, mentre
è più raro trovare piloti di aerei con galleggianti che pilotano aerei a scafo.
Mentre i primi hanno una doppia competenza di cui ovviamente sono felici e
fieri, i secondi - questa è l’opinione dell’autore - reagiscono al lieve senso di
inferiorità derivante da saper usare solo uno dei tipi di idrovolante denigrando
l’altro. Insomma l’atteggiamento - sempre secondo l’autore - ha le sue basi in
quel sentimento che ispirò al poeta latino Fedro la favola “La volpe e l’uva”.
Il suggerimento finale dell’autore ai piloti è: imparate a conoscere i due tipi
di idrovolante. Poi avrete l’opportunità di sviluppare una preferenza per uno o
l’altro, ma fondata su un’esperienza diretta e consapevole di entrambi, non su
maldigeriti sentiti-dire. E se infine deciderete di pilotare uno solo dei tipi, fate
comunque tesoro della preziosa esperienza acquisita con l’altro.
Oppure fate come l’autore di queste righe: volate a più non posso su uno e
l’altro tipo di idrovolante.

179
Idrovolanti

Il “Caproncino”
Un piccolo aereo dalla grande storia, riportato alla vita da Gerolamo Gavazzi.

In Europa esiste un solo idrovolante degli anni Trenta tutto originale e in


condizioni di volo. È il Caproni CA 100 idro I-ABOU, un tipo noto a genera-
zioni di comaschi come “Caproncino”.
La storia della resurrezione dell’aereo è narrata nel libro Vecchie ali sul
lago, scritto dallo stesso Gavazzi. È una storia affascinante, una vera avventu-
ra di vita per il proprietario e che ha portato a un risultato che rimarrà impres-
so per sempre nella memoria collettiva del popolo degli aviatori e degli appas-
sionati di aviazione.
Il punto di partenza è un mucchio di legna mezza marcia e di ferro arruggi-
nito. Ai limiti della riconoscibilità come aereo, quel materiale, che un tempo
era stato l’I-ABOU, si trovava in un prato da quindici anni, esposto alle intem-
perie. Il Club, proprietario di quel “materiale”, lo aveva dato a un socio,
industriale della Brianza, per pochi soldi, in uno di quei momenti di sconforto
in cui tutto appare perduto.
Altri Caproncini, come alcuni Macchi MB 308, ormai inservibili, erano
finiti nella stufa a legna che riscaldava l’aula didattica. In alcune lezioni tenute
nel 1970, anno in cui ho incominciato a volare, penso di non avere avuto
freddo in quanto riscaldato dalla fusoliera dell’I-EMAM, per esempio.
Più o meno nello stesso periodo il Club ha ceduto il Caproncino
I-DISC, per qualche motivo ritenuto non più economicamente sfruttabile, alla
famiglia Caproni. La contropartita doveva essere un nuovo aereo o la rimoto-
rizzazione di un aereo del Club. Non è simpatico dirlo, ma nulla è giunto quale
contropartita al Club. Diciamo che abbiamo la soddisfazione di sapere che il
bellissimo I-DISC, esposto al Museo Caproni di Trento, è stato “donato” dal-
l’Aero Club Como, anche se ciò non è scritto sui cartellini. L’I-DISC, per la
cronaca, dopo essere stato acquisito de facto e restaurato dalla famiglia Ca-
proni, ha fatto una bellissima figura al centro della Galleria di Milano, negli
anni Ottanta, ove è stato esposto per parecchie settimane.
I primi anni Settanta erano un periodo particolare per il Club. Basti pensare
che ai semiacrobatici “Macchini” MB 308, ai Caproncini, al magnifico Piper
Super Cub I-OLMO, acquisito nel 1966, era preferito da molti soci del Club il

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Idrovolanti

minuscolo e - detto tra noi - carciofesco Cessna 150, solo perché era dotato di
radio e di strumentazione moderna, che evocava quella degli aerei di linea.
C’era una gran voglia, tipica degli anni sessanta e settanta, di farla finita con il
passato e di evolversi verso il “nuovo”, anche se poi chi si stava muovendo
verso il “nuovo” spesso non si accorgeva di buttare al vento preziosissimi
pezzi, per non dire interi patrimoni di “vecchio”.
Per ritornare al filone principale della nostra storia, bisogna dire che Gavaz-
zi e l’aviazione tutta hanno avuto la fortuna che l’I-ABOU non è finito in una
stufa o nel museo di un’importante famiglia di costruttori aeronautici, ma nel
cortile del già citato industriale della Brianza, che al momento giusto ha resti-
tuito senza troppe resistenze ciò che aveva preso e malamente conservato.
La storia del restauro è una storia di amore tra Gerolamo Gavazzi e quel-
l’opera dell’arte e dell’ingegno umano che è il Caproncino. Rimandiamo al
suo libro chi desidera conoscere i dettagli della vicenda. Solo ricordiamo un
dettaglio curioso, che riguarda il motore. Dopo aver ricuperato cinque o sei
motori originali Colombo, seguendo piste da vero detective, Gavazzi si trova-
va in uno stato di sconforto, non avendo speranza di poter riportare in vita
quella ferraglia ormai inservibile. Ma la fortuna aiuta gli audaci. Scopre che a
Roma, precisamente a Cinecittà, un motore Colombo, asportato decenni ad-
dietro da un Caproncino, è usato come “macchina del vento”. Attraverso una
serie di peripezie, che lo porteranno negli scantinati di Trastevere a trattare
con incredibili personaggi, riesce a impadronirsene e scopre che l’uso ininter-
rotto ha fatto sì che il motore si sia conservato eccellentemente (si conferma la
vecchia regola che i motori si conservano bene quando sono usati).
Gavazzi, in cinque o sei anni di lavoro e dopo un ingente investimento
economico, giunge dunque a rimettere un Caproncino in condizioni di volare.
Un’impresa ciclopica, ma che riscuote un meritato plauso generale. All’inau-
gurazione, nel 1991, all’Aero Club Como giunge il Gotha dell’aviazione ita-
liana. Rappresentanti di case costruttrici, generali, sottosegretari, la contessa
Mariafede Caproni, giornalisti e altre personalità, in tutto 800 persone, osser-
vano ammirati le evoluzioni del rinato CA 100, pilotato dal collaudatore Zor-
zoli. È proprio un giorno di gloria per l’Aero Club Como.
Negli anni successivi Gavazzi usa il Caproni in modo saltuario e infine,
poco considerato dall’amministrazione dell’epoca del Club e sollecitato dal-
l’Aeronautica Militare, lo porta al museo di Vigna di Valle, ove resterà per
alcuni anni. Infine, nel 2004, fortemente sollecitato da un Consiglio direttivo
sensibile alla storia del volo idro, lo riporta a Como, sua culla e sede naturale.
Gavazzi decide nobilmente di adottare una politica di grande apertura e
mette a disposizione l’aereo di tutti i soci del Club. Gradisce anche che alcuni
piloti del Club si abilitino alla macchina. Chi scrive queste righe è il primo
abilitato all’impiego della magnifica macchina, cosa che considera una fortu-
na pari al vincere al superenalotto.
Non è facile descrivere l’emozione di pilotare un CA 100 del 1935 come

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Idrovolanti

pilota responsabile del volo. È come per un violinista suonare uno Stradivari.
È come poter sfogliare sulla poltrona di casa il Codice Atlantico di Leonardo
(oggi prerogativa del solo Bill Gates).
Ma quando ci si trova ai comandi l’emozione passa immediatamente. Si
tratta di pilotare al meglio un aereo, con le sue peculiarità, le sue caratteristi-
che, i suoi pregi e difetti. Un pilotaggio sicuro richiede freddezza. La sola
cosa che conta è riportare l’aereo integro sulla superficie. Che sia una replica
del Flyer dei fratelli Wright, dell’Hydravion di Henri Fabre o uno Space
Shuttle poco importa. Quel che conta è concludere il volo in bellezza.
I controlli pre-volo sono quelli tipici che si fanno su qualsiasi aereo. La
benzina si controlla a vista, guardando nell’unico serbatoio posto tra le ali
superiori, eventualmente con una stecca di misura, oppure azionando l’appo-
sito comodo misuratore posto sul fianco destro della cabina: lo si porta a
fondo corsa all’indietro e poi in avanti, fino a che si blocca sul valore in litri
della benzina presente.
Ci si deve ricordare di rimuovere i cappucci metallici dei tubi di scarico, che
sono rivolti verso l’alto e che, se lasciati liberi ad aereo fermo, potrebbero
essere ostruiti da oggetti o animali. Un altro controllo peculiare è che le punte-
rie, che sono allo scoperto sopra le teste dei cilindri, siano ben ingrassate.
Dopo aver sistemato l’eventuale passeggero nel posto anteriore, ci si siede
in quello posteriore e si allacciano le cinture, che sono due spallacci, e si veste
l’apposito caschetto e gli occhiali.
È il momento di avviare il motore. Bisogna dire subito che governare un
vetusto motore Colombo, uscito dalla fabbrica 70 anni fa, è una piccola im-
presa. L’avviamento, in alcuni modelli di CA 100, avviene a manovella, men-
tre nell’I-ABOU si attua grazie a un motore elettrico a 24 volt fissato al
pavimento della cabina. L’aereo non possiede batteria. Dunque una batteria
esterna è collegata con due speciali spine ad altrettante prese poste sulla fuso-
liera. Un assistente, al momento giusto, stabilisce il contatto e il motore di
avviamento aziona l’elica. Più facile da eseguire con l’aereo sul carrello, per
un successivo alaggio con il motore in moto, l’operazione è più difficile con
l’aereo al pontile. Infatti, appena il motore parte, l’aereo si muove e l’assisten-
te deve essere lesto a tirare il cavo per estrarre le spine dalle prese sulla
fusoliera e poi ad evitare i piani di coda dell’aereo ormai in movimento.
Dal punto di vista del pilota, la procedura di avviamento prevede l’apertura
del rubinetto della benzina, l’apertura del rubinetto del cicchetto, l’aziona-
mento della pompa manuale del cicchetto, la chiusura del rubinetto del cic-
chetto, l’inserimento dei magneti, la regolazione della manetta del gas e di
quella dell’anticipo e infine l’azionamento della manovella del cosiddetto
“magnetino”, che fornisce alle candele un’extra-corrente. Mentre si aziona il
magnetino si fa cenno all’assistente di stabilire il contatto sulla batteria ester-
na. La manopola della manovella del magnetino è in metallo con un nottolo di
legno. Nel farla girare il pollice e l’indice della mano destra tengono il nottolo

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Idrovolanti

di legno, ma vengono periodicamente in contatto con la parte metallica. In


quei momenti una corrente di amperaggio bassissimo, ma di parecchie mi-
gliaia di volt, si trasmette al pilota. Per evitare che ciò accada lo scrivente usa
un guanto isolante.
Se tutto va bene si ha l’accensione in uno o due cilindri e subito dopo negli
altri. Il motore del Caproncino fa un rumore molto tipico e “di soddisfazione”,
favorito dagli scarichi a tubo aperto. Il motore gira “rotondo” e senza le vibra-
zioni a cui siamo abituati sui moderni aerei a quattro cilindri contrapposti. I
suoi sei cilindri in linea gli conferiscono questa piacevole caratteristica.
Dotato di timoncini fissi sempre immersi nell’acqua, il Caproncino si go-
verna piuttosto bene sulla superficie, a bassa velocità. Più critica la situazione
se c’è vento, a causa della grande e multipla velatura e della relativamente
piccola dimensione dei timoncini.
Il flottaggio si fa con il motore al minimo - 700 giri - e, come con tutti gli
idrovolanti a galleggianti, con la cloche tutta all’indietro. In presenza di onde
l’ampia elica è colpita facilmente dagli spruzzi d’acqua, ma per fortuna la
blindatura del bordo di attacco offre una notevolissima protezione. Con que-
sto aereo è comunque sconsigliabile dare tutto motore per il decollo su una
superficie mossa, perché in quel caso gli spruzzi agiscono come mazze sulle
povere pale e possono anche farle a pezzi.
Le manovre sull’acqua ad alta velocità presentano una certa difficoltà per le
la forma degli scafi dei galleggianti. Dotato di un redan (o gradino) basso e di
parte posteriore dei galleggianti non troppo angolata, il Caproncino è lieve-
mente critico nelle ultime fasi della corsa di decollo. Tenendo un assetto “piat-
to” l’aereo scivola bene sulla superficie, ma l’angolo di incidenza delle ali è
lungi dall’essere quello che consente il decollo. Tenendo un assetto più cabra-
to si ottiene un angolo di incidenza delle ali più favorevole, ma si fanno
toccare le code dei galleggianti in acqua, cosa che aumenta la resistenza e
rende difficile accelerare fino alla velocità di distacco.
Dunque il decollo, soprattutto ad aereo carico e in assenza di vento, richiede
l’adozione di espedienti particolari. Uno consiste nell’accelerare fino a una
velocità un po’ superiore a quella del distacco e nel tirare decisamente la
cloche. Ciò fa immergere le code nell’acqua, ma le ali ormai portano in modo
esuberante e sono in grado di estrarre letteralmente l’aereo dall’acqua, vin-
cendone la resistenza.
Un altro espediente consiste, nella fase finale della corsa, nel dare qualche
strappetto all’indietro alla cloche e rilasciandola subito dopo. Le code affon-
dano per qualche istante, ma le ali si mettono a portare e tirano un po’ fuori i
galleggianti dall’acqua, permettendo all’aereo di accelerare un poco (più di
quanto sia rallentato dalle code in acqua). Dopo alcuni strappetti l’aereo,
ormai leggero, ha accelerato a sufficienza e si stacca.
Un altra tecnica che si può adottare nelle ultimissime fasi della corsa sul
redan, se la superficie è calma, è il far pesare l’aereo più su uno scarpone che

183
Idrovolanti

sull’altro, dando la cloche decisamente su un lato (meglio a sinistra; altrimenti


dalla parte del vento, se c’è una componente laterale). Per tenere la direzione
si dà piede dalla parte opposta. La parziale estrazione di uno scarpone dall’ac-
qua fa diminuire la resistenza e favorisce il distacco.
Dal posto posteriore, che è quello del pilota, la visibilità in avanti è molto
scarsa, per non dire pressoché nulla, in tutte le fasi del flottaggio, come in
quelle del volo. Dunque per essere certi di non andare contro un ostacolo sulla
superficie si devono fare leggere e continue “S”.
Il Caproncino in volo è il più facile degli aerei. Docile, reattivo, non pare
nemmeno un idrovolante. Fa un “180” in un fazzoletto, risponde ai comandi
come una farfalla, scodinzola, sollecitato dalla pedaliera, che pare di andare
sugli sci. Gli effetti asimmetrici consentono di fare una virata verso sinistra
decisamente più rapida che verso destra.
È particolarmente emozionante vedere il paesaggio scorrere dalla cabina
aperta, con il vento che ti lambisce il viso in piccoli turbini. L’incastellatura
delle due ali per lato, rese solide da un groviglio di tiranti, appare in tutta la
sua complessità quando si alza il muso decisamente verso il cielo, per fare uno
stallo o una delicata viratina in cabrata.
Non possiede invece doti di grande arrampicatore, soprattutto se è carico,
ma i suoi 200-300 piedi al minuto li tiene bene. In crociera, con il motore a
1500-1600 giri, viaggia a 120-130 km/h.
Sono da tenere bene d’occhio sono le temperature, che nelle fasi della salita
e di volo lento tendono a raggiungere livelli critici per una buona conservazio-
ne del motore.
L’aereo è dotato di un trim a leva, ma non c’è molta necessità di usarlo nelle
varie fasi del volo, una volta che sia regolato per la crociera. È presente anche
uno smagritore o “correttore di quota”, sempre a leva, il cui pomello riporta
incisa, su ciascuna delle tre faccette, la scritta “ALTA QUOTA”.
Il Caproncino stalla in modo dolce e progressivo e la rimessa è facile appli-
cando la tecnica standard.
Nel corso del volo si deve prestare sempre una grande attenzione al buon
funzionamento del motore. Lo “strumento” più sensibile, che può evidenziare
immediatamente un’irregolarità di funzionamento, è il proprio orecchio. Fre-
quenti occhiate alla pressione dell’olio e ai termometri sono opportune.
L’ammaraggio si fa nel solito assetto cabrato, facendo toccare contempora-
neamente redan e code dei galleggianti. Questo assetto è tuttavia lievemente
piatto. Una strategia prudente consiste nel compiere ciò che modernamente è
chiamato “ammaraggio di coda”, ovvero un contatto con le code dei galleg-
gianti, che sfiorano per prime l’acqua. Appena dopo tocca il redan e l’aereo,
dopo un paio di oscillazioni, si stabilizza nella sua corsa di decelerazione. Il
fatto che le code tocchino appena prima del redan è l’indice che l’assetto
dell’aereo è un buon assetto cabrato di sicurezza e che la velocità è conforte-
volmente bassa. Se si esagera, ovvero se l’assetto è troppo cabrato, si ottiene

184
Idrovolanti

un effetto poco desiderabile: le code toccano, inducono un abbassamento del


muso e fanno tuffare la porzione medio-avanzata dei galleggianti nell’acqua,
cosa che induce un indesiderato e sgradevole movimento oscillatorio. In tutti i
casi, dal momento del contatto in poi, la cloche deve essere tutta a cabrare fino
a quando l’aereo sia sceso in modo completo dal redan, passando alla fase del
flottaggio in dislocamento.
Come con ogni idrovolante, un ammaraggio assistito, ovvero con un po’ di
potenza, è più dolce, ma il Caproncino ammara facilmente anche con il moto-
re al minimo, se si bada di fare un buon arrotondamento e di portare il rateo di
discesa pressoché a zero nel momento del contatto.
L’ammaraggio a specchio viene benissimo. Non potendo contare sulla pre-
cisione dei vecchi strumenti presenti sul cruscotto, è meglio fare tutto “a
naso”, ovvero basandosi sulla propria esperienza e sulle sensazioni di reattivi-
tà dei comandi. Si imposta a vista l’assetto ottimale per il contatto e si dà tanta
potenza da avere il rateo che si percepisce come “naturale” per il contatto.
In flottaggio, prima di giungere al pontile, si spegne il motore escludendo i
magneti. In precedenza è bene aver fatto una prova istantanea di magneti a
massa, per essere certi che il motore si spenga nel momento desiderato.
Dopo il volo si deve lavorare parecchio: aprire i portellini dei galleggianti,
rimuovere l’acqua nei compartimenti con la spugna, rimettere tutte le copertu-
re all’aereo, ripulirlo dagli abbondanti trafilaggi d’olio, ricaricare le batterie
esterne e quella della radio.
Quando si pilota un aereo d’epoca con motore ugualmente d’epoca è bene
essere sempre psicologicamente pronti all’emergenza. Un’eventuale piantata
di motore deve trovare il pilota preparato a un ammaraggio o atterraggio di
fortuna nel sito che assicuri i minimi danni.
In caso di incendio l’aereo è dotato di un rilevatore che azione il cosiddetto
“Diavoletto”, un pistoncino metallico rosso che “spara fuori ” sul cruscotto, e
di un sistema di estinzione, che si aziona con una maniglietta posta sotto il
cruscotto, a destra.
L’emergenza più probabile è quella idro-meteorologica, ovvero che le con-
dizioni di vento e superficie non siano più adatte all’ammaraggio o al flottag-
gio, una volta che l’aereo sia già in volo. In questo caso il dirottamento su una
superficie adatta, presumibilmente su un piccolo lago, è una scelta necessaria.
Se si ammara in un discreto vento, è bene non affrontare una virata sotto-
vento per portarsi all’approdo, cosa che potrebbe determinare il danneggia-
mento dell’elica, ma lasciare l’aereo con il muso al vento e farsi trainare a
riva, a motore spento, con un’imbarcazione.
Pilotare un Caproni CA 100 a 70 anni dalla sua fabbricazione è un’esperien-
za unica, che molti soci dell’Aero Club Como hanno potuto fare e potranno
fare negli anni a venire grazie alla magnifica realizzazione e alla generosità di
Gerolamo Gavazzi.

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Idrovolanti

Il “Macchino”
Ali da caccia e galleggianti da idrocorsa: l’aereo più usato dai piloti del Club
negli anni Cinquanta e Sessanta.

L’Aero Club Como, nella sua storia, ha posseduto quattro Macchi MB 308
idro: l’I-AIAJ, l’I-RIVE, l’I-EMAM e l’I-CARE.
La sigla che designa il tipo, nella parte letterale, indica che l’aereo è stato
progettato dall’ingegner Ermanno Bazzocchi (MB significa Macchi-Bazzoc-
chi, così come “MC” indicava i Macchi-Castoldi). Il celebre progettista si è
formato negli anni Trenta alla scuola volovelistica di Como e rimasto alla
guida della società varesina fino alla produzione del reattore MB 339. La
parte numerica indica che l’aereo è l’ottavo progettato dalla Macchi dopo la
seconda guerra mondiale, quando la fabbrica ha reincominciato dal numero
300 la designazione dei suoi modelli.
Dotato di un motore Continental C-85, da 85 cavalli, sufficienti per la ver-
sione terrestre, l’aereo è dotato di un motore C-90 da 90 cavalli per la versione
idro (l’I-EMAM conserva invece l’originale C-85). Infine è approvata l’appli-
cazione del motore Continental-Rolls Royce O200 da 100 cavalli (lo stesso
montato sui Cessna 150 che il Club userà per 17 anni, negli anni Settanta e
Ottanta).
La Macchi, richiesta di produrre una versione idro, dota l’aereo di galleg-
gianti, che risultano però poco adatti a un aereo di così scarsa potenza. Visto
l’insuccesso, il progetto è riassegnato a un team, sempre della Macchi, che
realizza nuovi galleggianti per il piccolo aereo in base ai disegni dei galleg-
gianti dell’idrocorsa MC 72 di Agello. I risultati, come si può immaginare,
non deludono le aspettative e il “Macchino” idro risulta un aereo di ecceziona-
li caratteristiche. Per curiosità, si sappia che il secondo aereo idro di questo
tipo è acquistato dalla marchesa Carina Negroni di Genova, pilota, battitrice
di record e amante del volo sull’acqua.
Il Macchino è uno degli aerei più importanti nella storia del Club. Su di esso
si formano per un quarto di secolo i piloti idro italiani e molti stranieri. Aereo
di legno, quindi estremamente solido, tollera qualsiasi strapazzo.
L’I-CARE e l’I-EMAM sono protagonisti delle belle e romantiche avventu-
re presentate nel film Gli scarponi del cielo, prodotto nei primi anni Sessanta.

186
Idrovolanti

Nel film li si vede sorvolare a bassa quota le rive del Lago di Como, sullo
sfondo di una musica di piano. In una scena Stucchi e Galfetti si incontrano
sul Lago di Varese, allo scalo della Schiranna, ove sono giunti ciascuno con un
Macchino. «Toh, chi si vede - dice Galfetti - da dove vieni di bello?» «Ciao
- risponde sicuro Stucchi - Vengo da Chambery.»
I due aerei sono soliti sorvolare in formazione il monumento ai Caduti nel
corso dell’annuale cerimonia ufficiale, alla presenza di importanti esponenti
di tutte le Forze Armate, come è documentato in belle fotografie. L’effetto,
rapportato alla città di Como, è lo stesso del sorvolo dell’Altare della Patria da
parte delle Frecce Tricolori, per lo spirito e l’emozione provocata.
L’I-AIAJ, distrutto per un urto con la riva dopo un ammaraggio “lungo”
(incolumi, come sempre, gli occupanti), era stato finanziato da un gruppo di
soci, che cavallerescamente rinunciano al loro credito per non mettere in diffi-
coltà il Club.
Il nome dell’I-CARE deriva da quello del suo proprietario, Cademartori
Remo, che sul finire del corso di primo grado decide di acquistare il “suo”
aereo. Proprietario della splendida villa ancora oggi chiamata con il suo nome
sulla sponda orientale del ramo comasco del Lario, Cademartori è protagoni-
sta di un’incredibile operazione finanziaria internazionale, che infine determi-
na un’immediata e definitiva emigrazione in Sudamerica. Dopo una serie di
vicende amministrativo-giudiziarie l’aereo diviene proprietà dell’Aero Club
Como. L’evento può verificarsi a condizioni economiche di enorme favore
grazie alla lungimiranza di un revisore dei conti del Club, il ragionier Valsec-
chi, che tempo prima, in una scrittura privata secondaria, aveva introdotto un
diritto di prelazione a favore del Club.
Tra i piloti che svolgono un’attività intensa sui Macchini nei primi decenni
del dopoguerra ricordiamo, oltre agli istruttori Valzania, Mangoni, Giacopi-
nelli e De Nigris, agli espertissimi piloti di caccia Reiner, Lozei e Galfetti e al
giovane “acrobata” Franceschini, i soci e consiglieri Bocchietti, Minarchi,
Stucchi, Medaglia, Dosi, Di Bona, Scacchi e Cappelletti. I Macchini hanno
anche accolto, in quelle epoche, nel loro stretto abitacolo, quattro autentiche
“Grazie”: Gisella Belgeri, Selene Maltini, Piera Taroni e Cecilia Riva.
All’epoca degli aerei di legno si potevano vedere i meccanici Riedo e Bira-
ghi, aiutati dal Gorla, trasformarsi in maestri d’ascia e l’officina assumere
tutto l’aspetto di una falegnameria. I residui delle lavorazioni erano riciclati
quali combustibile per le stufe.
Nel 1970 ho fatto appena in tempo ad essere abilitato alla macchina,
l’I-CARE, qualche giorno prima della perdita dell’aereo, ultimo esemplare in
possesso del Club, dopo che l’I-EMAM era cappottato nel 1965, in seguito
all’urto con un tronco, nel flottaggio ad alta velocità.
Nel corso della breve abilitazione, siglata dall’istruttore Pio Roncalli, mi
ricordo il duomo roteare davanti ai miei occhi, in uno degli innumerevoli
tonneau che il buon Roncalli mi ha fatto assaporare, dopo i looping, le chan-

187
Idrovolanti

delles e i rovesciamenti (quest’ultima manovra ce la insegnava spiegandoci


come fosse utile per sfuggire ai caccia nemici, mentre il suo pollice ogni
tanto, durante le manovre, premeva involontariamente e insistentemente sul
volantino...).
È interessante considerare come queste eccezionali prestazioni siano posse-
dute da una piccola macchina con ala a sbalzo (se pensassimo che un nostro
moderno Cessna 172 o Piper Pa 18 perdesse i montanti ci sentiremmo giusta-
mente perduti; meno impressione la cosa fa a un pilota di Lake, altro aereo
con ala a sbalzo). L’ala del Macchi MB 308 è tutta da guardare: una vera
“lama”. La sua forma, le sue dimensioni, il suo profilo ci lasciano immaginare
che sia stata progettata da qualcuno che, mentre disegnava e faceva calcoli,
vedeva innanzi a sé duelli e battaglie aeree, inseguimenti e fughe. Insomma il
minuscolo MB 308, oltre ad avere i galleggianti dell’MC 72 in versione “mi-
gnon”, ha anche l’ala di un caccia.
Conseguenza di questa progettazione è un aereo di grande solidità e di
elevate prestazioni. La versione terrestre con 85 cavalli, malgrado il ben di-
mensionato carrello fisso, viaggia in crociera a 190 km/h, consumando 16 litri
di benzina all’ora.
La versione idro, con i galleggianti, molto più ingombranti del carrello, e
un’elica “da salita”, indispensabile per andare sul redan e incominciare la
planata, viaggia in crociera a 130-140 km/h.
Nell’aviazione tutto si paga e a caro prezzo. Dunque come si pagano le
eccezionali prestazioni di questa pulce dell’aviazione idro? Si pagano con una
velocità di stallo e quindi di contatto non molto bassa e con una certa instabi-
lità sull’acqua, conseguenza dei suoi galleggianti “corti”. Queste caratteristi-
che rendono insomma l’aereo non molto amichevole nella fase di contatto con
la superficie e hanno infatti causato la perdita di alcune di queste macchine.
Dopo il contatto il Macchino deve dunque essere governato molto finemente
per quanto attiene all’assetto longitudinale. La leggerezza degli attacchi dei
galleggianti alla fusoliera rende inoltre questo aereo propenso a danneggiarsi
su superfici mosse.
Il Macchi MB 308 non ha solo un interesse storico. Nel mondo infatti esi-
stono alcune di queste macchine (una decina in condizioni di volo) e l’Aero
Club sta recuperando alcuni galleggianti che in epoche passate erano stati
portati via o regalati a terzi, un pratica purtroppo ricorrente nella storia del
nostro storico sodalizio.
Al momento dell’uscita di questo libro sono in corso le valutazioni di fatti-
bilità del progetto di rimettere in linea un MB 308 idro. Nel corso di queste
valutazioni abbiamo provato un Macchino terrestre del tedesco Volker Wer-
chau, che ha condotto il Macchi D-EJCH, che vende, da Monaco a Venegono,
per permetterci di vederlo e provarlo.
Provare un Macchino del 1948, con tutta la sua strumentazione originale e i
suoi magnifici, sovradimensionati volantini, è una bella esperienza. Sceso

188
Idrovolanti

dallo stesso aereo idro, nel 1970, dopo il mio primo e ultimo volo da solista, ci
sono risalito, nella sua versione terrestre, nel 2004.
Il cruscotto, gli interni, le finestre, le finiture sono realizzati con i materiali
di cinquant’anni fa: alluminio, legno, bachelite. Tutti i pomelli sono di allumi-
nio. La levetta dei magneti, quando è in posizione “off”, si può estrarre, fun-
gendo da chiave.
Si rulla direzionando il ruotino anteriore con la pedaliera (una sensazione
inusuale per chi usa abitualmente aerei anfibi, che hanno ruotini anteriori
“folli”) e si frena con una leva posta sul pavimento, dotata di pulsante, del
tutto simile a quella del freno a mano di una Topolino, che agisce contempora-
neamente su entrambi i freni.
L’aereo a pieno carico decolla e sale bene ed è molto manovrabile. Essendo
piccolo, offre una notevole visibilità attraverso le finestrature ed è anche co-
modo. Il comando dei flap, che ha due tacche, è sul soffitto e ha una leva come
quella del freno di una motocicletta, che ne consente l’azionamento. Il carrel-
lo è fisso e quindi non contempla errori.
Si decolla senza flap (nella versione idro non mi ricordo bene, ma suppongo
con una tacca) e si atterra con due tacche. Le ruote della versione terrestre
sono molto alte, essendo state progettate in un epoca in cui i campi erano in
erba o terra battuta.
Dopo aver fatto ritornare il Caproncino all’Idroscalo, il Club potrebbe fare
ritornare anche questo piccolo gioiello della tecnica italiana, di grande signifi-
cato e importanza storica per molti soci del Club di Como e per tutti i coma-
schi appassionati di volo.
Sarebbe l’unico MB 308 idro del mondo.

189
Idrovolanti

Il Piper PA 18 Super Cub


Per i bush pilot dell’arco alpino e del mondo intero.

Il primo amore non si scorda mai. La scintilla è scoccata quando ho incomin-


ciato il corso di primo grado sul Piper Super Cub I-OLMO, nel 1970, e a
distanza di 35 anni il sentimento originario non si è per nulla affievolito.
I Cub e poi il Super Cub sono aerei dalla grandiosa storia nel campo del-
l’aviazione generale e idro, una storia che in questo libro non è nemmeno
possibile delineare, una storia tutta determinata dalle caratteristiche principali
di questo aereo, che sono l’elevata sicurezza e le elevate prestazioni di decollo
e salita. La sicurezza si deve all’ampia velatura e al profilo alare che “perdona
tutto”, mentre le prestazioni si devono alla costruzione in tubi e tela, che
assicurano una notevole leggerezza.
Il Super Cub è l’aereo per atterrare con gli sci sui ghiacciai e per muoversi,
con copertoni da tundra, negli ambienti selvaggi dell’Alaska, ove questo aereo
atterra e decolla in un fazzoletto di terreno, lungo il greto sassoso di torrenti,
sui banchi di sabbia. È anche l’aereo, in versione idro, ideale per operazioni su
bacini corti e ad alta quota. Con queste macchine, diventate il prototipo del-
l’aereo dei bush pilots, sono state compiute importanti spedizioni e arditi
trasporti in zone inospitali.
Il Piper Super Cub vanta vari tentativi di imitazione, il più riuscito dei quali
è rappresentato dall’Husky.
Molti americani hanno attraversato il continente americano alle alte latitudi-
ni con un Piper PA 18 idro, saltando di lago in lago, di fiume in fiume.
A Como il primo Piper giunge nel 1965. È il N5405Y, che diventa I-OLMO.
Dotato di strumenti per la radionavigazione, è l’aereo ideale per i corsi di
secondo grado. I piloti “alla vecchia maniera” sono però poco interessati alla
navigazione e se ne impossessano subito per fare con esso tutta l’acrobazia
possibile. Nei primi anni Settanta un socio viene quasi tutti i giorni, nella
pausa di pranzo, prende il Piper, sale sopra Como a 5000 piedi e fa una serie di
looping in discesa che si interrompe solo con l’ammaraggio, l’arrotondamen-
to e la retta avendo luogo al termine dell’ultimo looping.
L’I-OLMO è usato per fare voli di propaganda, un’attività indispensabile
per pagare i dipendenti a fine mese. Capita che nelle belle giornate due consi-

190
Idrovolanti

glieri partano con la scaletta di alluminio legata ai galleggianti, l’imbuto e due


taniche di benzina supplementare a bordo e si fermino in località frequentate
delle rive lariane a fare volare la gente. In qualche occasione anche un bambi-
no prende parte alla spedizione, stando a gambe per aria nel bagagliaio.
L’I-OLMO si cappotta ed è perso ad Argegno, nel 1971, durante l’esame di
un allievo evidentemente poco attento (l’esaminatore non è mai a bordo du-
rante l’esame e valuta la sola cartina barografica del volo).
Il Piper successivo viene acquistato nel 1978 ed è l’I-SPIC (acronimo di
Scuola Piloti Idro Como). Un anno dopo subisce gravi danni in un ammarag-
gio catastrofico in condizioni di specchio non riconosciuto (a bordo un pilota
terrestre con 1000 ore di esperienza), ma infine viene riparato.
Nel 1987 l’aereo si rovescia in acqua, in seguito al fenomeno di windshear
descritto nel capitolo “Forze della natura”, ed è magistralmente ricuperato
quasi intatto da Giorgio Porta, che lo rimette in linea in tre settimane.
In quegli anni i Piper sono “bruciati” da un’attività intensissima. Dunque si
decide di vendere l’I-SPIC alle soglie di una revisione importante e prenderne
uno nuovo. L’aereo è acquistato presso la CGA di Fiorenzo Sbragi ed è già
immatricolato come I-CGAN. Per inciso, ho il piacere di andarlo a prendere a
Genova, per eseguire il volo di consegna a Como. Ottenuto un permesso di
decollare dalla zona del porto adiacente all’aeroporto, il Piper è messo in
acqua con una gru. Il volo si svolge nel bel tempo e se lo gode anche il socio e
passeggero Avio Bonanomi, in quel momento neobrevettato di primo grado.
L’elevato rendimento del Piper suggerisce l’acquisto di un secondo workhorse
di questo tipo. È così che giunge l’I-BUFF.
Ci sono anni in cui un unico Piper in linea tiene in piedi la scuola, facendo
fino a 700 ore di volo. Con il Piper compiamo imprese belle e interessanti, al
mare, sugli specchi d’acqua dell’arco alpino, come i laghi di Resia e di Santa
Giustina, su molti laghi d’Europa.
I viaggi più notevoli fatti da piloti comaschi sono quelli, con l’I-CGAN in
versione idro, a Ischia (piloti l’autore e Giorgio Porta) e a Biscarrosse (piloti i
fratelli Gerolamo e Paolo Gavazzi), descritti in altri capitoli, ma anche voli
meno clamorosi hanno un fascino particolare perché fatti con questo aereo.
Con lo stesso aereo in versione anfibia l’autore fa un viaggio lungo le coste
della Croazia e Paolo Sommariva compie un viaggio di una settimana nell’ar-
cipelago delle Eolie.
Il Piper, poi, è l’aereo delle riprese fotografiche e video, favorite dal poter
volare con gli ampi portelli aperti.
Intorno all’anno 2000 uno dei Piper di proprietà, l’I-CGAN, è in parte dona-
to e in parte venduto (i soliti maliziosi sul Piazzale aggiungono una “s” inizia-
le a questo verbo) a un socio straniero del Club. Quest’ultimo, anche grazie ai
proventi delle parti avute in dono, converte l’aereo in anfibio e lo dota di
motore da 180 cavalli. Alla trasformazione provvedono gli abili meccanici
dell’officina comasca, che dipingono anche l’aereo nel classico colore giallo

191
Idrovolanti

dei Cub. All’aereo è anche applicato un STC che ne incrementa il carico utile,
cosa indispensabile, dato che l’applicazione dei galleggianti anfibi comporta
un peso a vuoto maggiorato.
In seguito alla cessione dell’I-AN, dopo più di un decennio di impiego di
una coppia di Piper, il Club rimane dunque con solo uno di essi. I dirigenti
decidono di sottoporlo alla stessa trasformazione fatta per il socio straniero.
Dunque l’I-BUFF diventa anfibio e acquisisce un motore da 180 cavalli.
L’ultimo volo in coppia dei “gemellini gialli”, prima della definitiva parten-
za da Como dell’I-CGAN, è fatto nostalgicamente il 30 gennaio 2003 e im-
mortalato in un servizio in cui i due aerei sono ripresi in volo e in flottaggio
sullo sfondo di ville e montagne innevate.
L’ex I-CGAN, al momento dell’uscita di questo libro, si trova deregistrato e
caricato su una nave, destinato a volare sulle grandi praterie del Midwest e
sugli acquitrini della Florida.
Fa impressione pensare che l’antico J2 con 40 cavalli si sia evoluto nello J3
con 65 e in seguito 85 cavalli, poi nel Cub con 90 cavalli, nel Super Cub con
135 e 150 cavalli e infine in questo “mostro” con 180 cavalli.
Il Piper, con l’applicazione di galleggianti Wipline forniti di carrello e di
motore da 180 cavalli, acquista la grande versatilità dell’anfibio, ma perde la
leggerezza e fine manovrabilità e anche una certa piacevolezza nel pilotarlo
che aveva con i galleggianti EDO 2000 e il più leggero motore da 150 cavalli.
Inoltre la trasformazione è molto costosa e il carico utile, come in tutti gli
anfibi scarponati, si riduce, mentre i consumi crescono e l’autonomia è ridot-
ta, un problema serio in un paese come l’Italia, ove trovare la “benzina avio”,
ovvero la 100LL, è un’avventura. I galleggianti Wipline sono più leggeri dei
corrispondenti EDO, ma anche più delicati e soggetti a perdite. La velocità di
crociera, infine, rimane inchiodata a poco più di 70 nodi.
Il risultato finale è un lento e costoso anfibio biposto dotato di un motore
anche troppo esuberante per l’uso che se ne può fare e scarsa autonomia, ma,
malgrado tutto, è sempre un Piper Super Cub e quindi un aereo piacevolmente
utilizzabile per moltissime operazioni a breve raggio, se si è in grado di soste-
nerne l’alto costo di acquisto e di mantenimento.

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Idrovolanti

Il Cessna 150
Piccolo e depotenziato, ma colonna dell’attività del Club per 17 anni.

Tra il 1970 e il 1971, sotto la dinamica presidenza di Franco Bocchietti, Mi-


narchi vicepresidente, il Club acquista due Cessna 150, l’I-BONG e l’I-BOMI.
I nomi rivelano chi ha messo mano al portafogli per consentire al Club di
dotarsi di una flotta scolastica omogenea e moderna: nel primo caso la vedova
del generale Bongiovanni, nel secondo gli stessi Bocchietti e Minarchi.
L’aereo, dotato di motore O200 da 100 cavalli, è sottopotenziato per essere
un idrovolante e fa fatica a decollare con due persone a bordo; guai poi se il
clima è caldo, le persone non sono proprio due ballerini, i serbatoi sono pieni
e c’è un alito di vento in coda. Capita che questo aereo, ammarato su una
superficie con due persone a bordo, non riesca poi ridecollare e che il passeg-
gero sia “mollato” sulla riva e debba tornarsene a casa con altri mezzi.
D’altro canto un aereo poco potente è una palestra di volo idro incredibil-
mente istruttiva. I piloti che si sono formati sul “Cessnino” hanno imparato a
conoscere tutti i trucchi per salire sul redan e poi per favorire il distacco, nella
fase terminale della planata. Trucchi che prima o poi si rivelano preziosissimi
nel volo con idrovolanti anche molto più grossi e potenti.
Nell’inevitabile “corsa alla potenza” che contrassegna la storia di quasi tutti
gli idrovolanti, viene approvato un STC che consente l’applicazione di un
motore da 150 cavalli. Nei primi anni Ottanta il presidente Musumeci applica
la modifica a entrambi gli aerei, che diventano veri “razzi”.
È tuttavia - a dir poco - uno spreco che quei 150 cavalli siano usati su un
aereo biposto. La stessa potenza, infatti, può infatti portare in volo almeno tre
persone. Questa considerazione porterà verso la fine dagli anni Ottanta all’ab-
bandono dei “Cessnini” per i Cessna 172.
L’I-BOMI è perso nel gennaio 1984 sui contrafforti del Bisbino. Il pilota ha
imboccato la valletta cieca di Piazzola e, nel tentativo di completare un’im-
possibile virata, stalla e finisce nella pineta. L’aereo perde ali, piani di coda e
motore, ma entrambi gli occupanti se la cavano con uno spavento e qualche
bozzo. Sono due i santi protettori della vita degli occupanti: i soliti “santi
scarponi”, che hanno assorbito il grosso dell’urto.
L’I-BONG è venduto e sarà trasformato in aereo terrestre.

193
Idrovolanti

Il Cessna 172
Con le ruote o i galleggianti, la perfetta nave-scuola.

I motivi del passaggio ai Cessna 172 sono bene illustrati nel capitolo prece-
dente. Questo aereo, con motore da 160 cavalli e galleggianti EDO 2130 può
essere considerato il miglior idrovolante-scuola mai costruito.
Il presidente Musumeci, dopo la perdita dell’I-BOMI, fa il secondo affare
della sua vita (il primo era stato l’acquisto del Lake I-COMM) e trova in
Olanda un Cessna 172 XP con 70 ore da nuovo, a prezzo di macchina usata. È
perfetto per i galleggianti che erano montati su un Cessna Rocket che il Club
aveva acquistato per sbaglio nel 1977. Non riuscendo a omologarlo in Italia in
versione idro, lo aveva infine ceduto all’Aero Club Milano.
Riacquisiti i galleggianti dall’Aero Club Milano, Musumeci riesce a mette-
re in linea un aereo perfetto e dalle alte prestazioni e carico utile. Peccato che
dopo 15 giorni l’aereo sia perso, per troppa confidenza nell’impiego. Il pilota,
di grande esperienza, decolla in un vento di 30 nodi con raffiche probabilmen-
te a 40 e più, con quattro persone a bordo. All’ammaraggio per la 33 riattacca,
disturbato da un battello, vira per ripresentarsi, ma stalla da una quota di
qualche centinaio di piedi, finendo sulla riva.
In questo caso i già varie volte menzionati santi protettori del pilota idro,
ovvero i “santi scarponi”, fanno un vero miracolo. Tutti illesi salvo il pilota,
che non aveva allacciato lo spallaccio e che si è fratturato il setto nasale sulla
“V” sopra il cruscotto. L’aereo però è perso senza rimedio.
In seguito lo stesso Musumeci ha una giusta intuizione e acquista un set di
galleggianti EDO 2130 per il Cessna 172, ma incontra difficoltà di tipo buro-
cratico a farli approvare, così che quei galleggianti resteranno stoccati in un
angolo dell’hangar per quattro anni.
Nel frattempo è fatta la pessima esperienza dell’acquisto (e successiva velo-
ce vendita) del Cessna 185 I-AGEL ed è acquistato e subito perso anche il
Maule I-AMPH. Il grosso del lavoro di istruzione è fatto sul Cessna 150 che
rimane e sul Piper PA 18, a un certo punto affiancato da un altro Piper, ma la
necessità di possedere una flotta omogenea di aerei-scuola si fa impellente,
anche perché il Club dà vita all’Istituto Aeronautico di Como e si prevede un
forte aumento della richiesta.

194
Idrovolanti

C’è chi dice di acquistare altri Piper e chi dice di dotarsi di una flotta di
Maule, idro per il primo periodo, anfibi per la navigazione.
Contro il parere del Piazzale dell’epoca, alcuni consiglieri decidono di “for-
zare” e di imboccare la strada dei 172. Il primo deve essere acquistato terre-
stre, perché i galleggianti sono già presenti in hangar. La cosa, che apparente-
mente è una grana, perché richiede l’adattamento come idrovolante di un
aereo con le ruote, ha un risvolto estremamente positivo. Infatti il poter sce-
gliere tra l’usato terrestre consente di trovare un 172 “stratosferico”, quasi
nuovo (con 250 ore totali) e “full IFR”. L’aereo, che sarà l’I-BISB, giunge in
Italia attraverso le Azzorre e dimostra presto tutte le sue doti, la sua affidabili-
tà, il suo elevato rendimento, anche dovuto alla solidissima costruzione.
A breve distanza di tempo è acquistato l’I-LSEE, trovato nel Maine con 500
ore da nuovo, e l’I-PUSI, ottenuto (privo di motore) in cambio di un paio di
galleggianti EDO 4580 dimenticati da 30 anni in fondo a un magazzino e
recuperati per quattro soldi grazie all’interessamento di Bernardino Lenzi,
con il risultato finale che quell’aereo è costato molto meno degli altri.
Perso l’I-PUSI per un infelice decollo con cappottamento, causata a sua
volta da un grave errore commesso da un allievo solista, che cade ingenua-
mente nella trappola di abbassare un pochino il muso dopo il distacco («per
guadagnare velocità»), arriva in hangar l’I-SAAB, acquistato “via fax”.
Nei Consigli direttivi degli ultimi vent’anni sono fiorite due scuole di pen-
siero. Una è quella della prova in volo e ispezione tecnica accurata, l’altra è
quella dell’acquisto “via fax”. L’assioma della prima è che non si può acqui-
stare un aereo senza averlo conosciuto a fondo e che questo controllo vale le
spese di viaggio. L’assioma della seconda scuola è che tanto un aereo vale
l’altro e molto lavoro deve poi essere comunque fatto dalla nostra officina, per
cui l’ispezione non vale i soldi della trasferta.
Se facciamo una lista con due colonne, mettendo nella prima gli aerei acqui-
siti negli ultimi vent’anni secondo la procedura della prova e ispezione e nella
seconda quelli acquisiti via fax, ci accorgiamo di come nella prima trovino
posto tutti gli aerei che riacquisteremmo volentierissimo, mentre nella secon-
da troviamo dall’aereo “molto scadente” alla vera “ciofeca”, di cui il Club ha
fatto fatica a liberarsi o che ha perso quasi volentieri. Si capisce che lo scri-
vente è un esponente della prima scuola di pensiero.
Tornando ai Cessna 172, il Club è oggi felice di averne quattro in linea di
volo, che assorbono gran parte del lavoro di istruzione che si fa nella nostra
scuola. Andando avanti così, potrebbe rendersi necessario il quinto.
Con l’I-BISB ho compiuto il raid Como-Biscarrosse, con soste a Marsiglia,
lago di Pareloup, e Moissac, sulla Garonna, con il compianto e caro amico
Bruno Confalonieri, capace e simpatico compagno di viaggi e avventure.
Altri soci hanno fatto viaggi importanti, come quello di Valentino Magni e
Gabriele Ermecini fino ai laghi della Puglia.

195
Idrovolanti

I Cessna 180, 185 e 206


Ottimi idrovolanti, mediocri anfibi.

Questi aerei sono molto diffusi nel continente americano in versione idro. Si
tratta di piccoli workhorse, se paragonati ai Noorduyn Norseman o ai De
Havilland Beaver e Otter, ma sono aerei molto affidabile e capaci di svolgere
gravose missioni di trasporto di persone e cose in tutti i climi.
Se trasformati in anfibi perdono gran parte delle loro belle caratteristiche,
diventando aerei dallo scarso carico utile e molto goffi sull’acqua, da cui
decollano percorrendo distanze lunghissime sul redan.
La situazione migliora leggermente se si applicano alcuni STC che rendono
le superfici più portanti e incrementano il peso massimo al decollo.
L’Aero Club Como ha posseduto i due Cessna della serie 180 con galleg-
gianti anfibi (il 185 I-AGEL e il 180 I-DEPI, nomi dati in onore rispettiva-
mente di Agello e de Pinedo), e ha avuto in uso per un breve periodo il Cessna
206 idro I-SIMJ.
Partiamo a parlare di quest’ultimo. L’aereo, con i suoi 300 cavalli e dotato di
kit che ne incrementa il carico di 90 kg, ha dimostrato tutte le sue potenzialità
in operazioni in piena estate in cui i piloti hanno condotto in volo cinque
passeggeri adulti, anche decollando da superfici perfettamente piatte.
Il 206 ha alcuni evidenti difetti. La visibilità anteriore è molto scarsa, so-
prattutto quando l’aereo è in flottaggio. Lo scrivente, di statura non alta, è
costretto a condurre il decollo “aggrappato” alla “V” che sta sopra il cruscot-
to, con i piedi puntati sui pedali, stando quasi in piedi. Il motore del 206 tende
a surriscaldarsi; guai se si dimenticano i flabelli chiusi in decollo. Inoltre il
posto anteriore a destra non ha portello. In cambio l’aereo è molto spazioso e
ha grossi galleggianti che consentono di operare su superfici brutte e che
conferiscono all’aereo una buona stabilità sull’acqua; per fare cappottare un
206 bisogna proprio mettercela tutta.
Simili pregi e difetti ha il 185, aereo con 300 cavalli, mentre il 180 ha il
problema aggiuntivo di avere solo 230 cavalli, cosa che lo rende decisamente
sottopotenziato (in America molti vi montano un motore da 270 cavalli).
Si tratta, in generale, di aerei molto rumorosi e inutilizzabili in modo regola-
re in area urbana, a meno che non vengano installate particolari eliche tripala,

196
Idrovolanti

che comportano anche una riduzione del regime massimo di giri del motore.
Tra le operazioni fatte nel breve periodo in cui abbiamo posseduto il 185
ricordo un film fatto sul Lago di Sabaudia, nelle acque del quale mi sono
dovuto gettare vestito per attutire l’urto della coda con gli alberi della riva,
dopo che l’aereo andava alla deriva con la batteria defunta.
L’I-AGEL è stato protagonista di un altro film, sul Lago di Garda, diretto da
Lina Wertmuller. Il pilota, in quest’ultima occasione, era il socio Luigi Canta-
rone, che ha dormito in cabina in tutti i giorni di presenza dell’aereo sulle rive
del Benaco per le riprese.
L’aereo vola oggi in Norvegia come terrestre. Lo abbiamo venduto in quan-
to inutilizzabile a Como per l’eccessivo rumore, ma anche per l’elevato costo
di esercizio e l’insufficiente carico utile (per non andare fuori carico era di
fatto usabile solo come biposto).
Con il 180 abbiamo partecipato a un divertente spot, girato a Sestri Levante,
volto a promuovere la vendita di un dolcificante. Equipaggio: Confalonieri e
Baj. Un idrovolante sorvola una bellissima barca, su cui prende il sole un’al-
trettanto bellissima ragazza. L’aereo si posa sull’acqua. Ne esce un ugualmen-
te bellissimo tipo, che si getta in acqua e si porta a nuoto vicino alla barca. La
ragazza lo invita a bordo. Scenetta finale, in cui compaiono in tutta la loro
gloria le bustine di dolcificante: i due conversano e si scambiano sorrisi, sor-
seggiando un caffè. Favoloso l’albergo in cui siamo stati ospitati.
Venduto a un italotedesco dopo un lungo periodo di scarsissimo impiego,
l’aereo si è distrutto al primo ammaraggio in mare. L’italotedesco, solo a
bordo, abituato agli aerei terrestri, ha estratto il carrello in corto finale. Come
al solito, nessuna conseguenza per il pilota, che ha nuotato fino a riva.
Il pilota, al termine dell’abilitazione idro, conseguita a Como, era stato
vivissimamente consigliato dai nostri istruttori di non usare l’aereo come soli-
sta, in quanto la sua preparazione ed esperienza era valutata come nettamente
inadeguata. Ci è spiaciuto che non abbia voluto seguire il consiglio e che
abbia voluto scrivere quella brutta pagina di storia dell’aviazione idro, con-
trassegnata dalla definitiva perdita di un idrovolante.
Il relitto è stato poi acquisito dall’Aero Club Como, per interessamento del
consigliere Giorgio Porta, chiamato a curare il recupero. I galleggianti, dopo
essere rimasti parecchi anni in hangar, sono stati ceduti alla Kenmore Air in
cambio delle parti e degli impianti necessari per mettere a nuovo i galleggianti
del Maule acquisito nel 2004.
Verso la fine degli anni Novanta il Club è stato indotto ad acquistare un altro
Cessna 185, da trasformare in anfibio. Esso è stato però rivenduto senza esse-
re mai stato usato, in quanto facente parte di una serie che, per una particolare
caratteristica, non era possibile trasformare in idrovolante.
Nel complesso, l’esperienza fatta con i grossi Cessna anfibi è stata molto
negativa, mentre l’esperienza fatta con l’unico aereo di questa classe in ver-
sione idro è stata molto positiva.

197
Idrovolanti

Il Maule M7
Tanti pregi e qualche difetto per l’anfibio superstol.

Nel 1986 una delegazione di piloti dell’Aero Club Como va a visitare la


Maule, in Georgia. Vorremmo acquistare un Maule, ma l’aereo ci è sconosciu-
to. Il gruppo è composto dallo scrivente, da Giorgio Porta, da Paolo Lucini,
molto attivo nella gestione del Club, e da Fabio Ponci. Dunque cerchiamo di
carpire ogni informazione utile per prendere una decisione. Alla Maule non è
facile capire l’impossibile lingua degli Stati Uniti del Sud, anche per il fatto
che il signor Maule ci parla a bassa voce da posizione semisdraiata sulla
poltrona, masticando un grosso sigaro e muovendo solo due o tre muscoli del
viso per produrre ciascuna frase. Che si capisca bene o no, la realtà frustrante
è che al momento non c’è alcun Maule dotato di galleggianti in fabbrica.
Arriva però il colpo di fortuna. Per vie traverse scopriamo che a Pensacola,
ai confini con la Louisiana, un avvocato ha esattamente l’aereo che cerchia-
mo, il Maule M7-235 con i galleggianti EDO 2500. Gli telefoniamo, gli spie-
ghiamo che veniamo dall’Italia per capire come va quell’aereo e lo preghiamo
di farcelo provare, ovviamente pagando le spese e il disturbo. L’avvocato si
chiama Antony Fiorentino ed è di lontane origini italiane. Acconsente a farci
provare l’aereo, che ha pochissime ore. Con esso facciamo decolli e atterraggi
su pista e ammaraggi su un fiumone che sbocca nel Golfo del Messico.
Le prestazioni sono impressionanti e la sensazione è quella di trovarsi su un
“Piper a quattro posti”, anche se uno dei decolli, fatto con l’aereo stracarico e
sotto un acquazzone tropicale, avviene con difficoltà.
Fatta la prova, gli buttiamo là una “proposta indecente”. «Certo, siamo qui
per provare l’aereo, ma non sarà mai che magari voglia venderlo?» Lui ci
pensa su un attimo e dice che in effetti ha voglia di acquistarne uno più grosso
e che sì, in fondo potrebbe anche venderlo.
Tornati, perfezioniamo l’acquisto, versiamo il prezzo di 75.000 dollari al-
l’avvocato Fiorentino e avviamo la procedura dell’omologazione in Italia.
L’aereo è portato in Italia da un ferry pilot di grande esperienza. Avete in
mente il film Tora Tora Tora? A un certo punto c’è un caccia che si infila in
volo in un hangar. Il pilota del T6 travestito da Zero era proprio lui. Il nostro
amico ci racconta l’avventura vissuta nell’attraversamento dell’Atlantico. L’ae-

198
Idrovolanti

reo era stato portato a Bangor, nel Maine, per l’installazione del serbatoio
supplementare. Da qui ha avuto inizio la traversata. Al termine della tratta di
circa 500 miglia tra l’America e la Groenlandia, ecco una brutta sorpresa.
L’aeroporto di arrivo è chiuso per una fitta nebbia. Ci sono due alternative:
tornare in America o raggiungere l’aeroporto all’estremo sud della grande
isola, Narsassuaq. I dirottamenti sono equivalenti, richiedendo uno e l’altro
circa 6 ore di volo. È una fortuna che il serbatoio supplementare assicuri
un’autonomia di 12 ore all’aereo, perché altrimenti il nostro Maule finirebbe
in mare, costretto a un ammaraggio di emergenza.
L’aereo lo usiamo con profitto e piacere, anche se si rivela in realtà un tre-
posti, salvo che se ci sono bambini o persone molto leggere a bordo.
L’I-AMPH è infine perso dopo pochi mesi a causa di una sua caratteristica
intrinseca: ha i galleggianti corti e pesa molto davanti. Dunque basta una forte
raffica di Chiassino, il vento che spira da nordovest, per farlo cappottare men-
tre è in flottaggio lento. Il pilota ha sottovalutato la regola numero uno del
volo idro (una versione della quale dice: “Ogniqualvolta non hai il vento di
fronte, aspettati i guai”) e ha perso l’aereo.
Dopo qualche tempo ci richiama Antony, implorandoci di rivendergli l’ae-
reo, dato che, dopo aver acquistato un bimotore, ha scoperto che nessun aereo
è divertente come un idrovolante e si è reso conto che il suo Maule era una
meraviglia. Non vuole saperne dei Cessna e ha scoperto che gli EDO 2500
sono rarissimi e che non ce ne sono sul mercato. Ma l’aereo non c’è più.
L’anno successivo l’Aergolfo di Napoli acquista un aereo identico, che vie-
ne immatricolato come I-SKIA e dato in esercenza all’Aero Club. I piloti del
Club, per un accordo con l’azienda proprietaria, svolgono per due anni, a
Ischia e nel Golfo di Napoli, molta attività di studio e sperimentazione dei
futuri servizi di aerotaxi che l’azienda vuole offrire. Nel frattempo l’aereo lo
usiamo per le normali attività del Club e lo uso personalmente per il volo
postale da Roma a Parigi per il bicentenario della Rivoluzione Francese, de-
scritto nel capitolo “Dal Tevere alla Senna”. Quell’aereo, pressoché nuovo,
finirà a marcire, corroso dalla salsedine, in un hangar, finché i galleggianti
verranno venduti e l’aereo rottamato.
Perso l’I-AMPH e non più esercente dell’I-SKIA, il Club vende i galleg-
gianti che ci erano rimasti quale resto dell’aereo dopo l’incidente. Nel decen-
nio successivo il Club, dopo la deludente esperienza del Cessna 185 I-AGEL,
persevera nella via a fondo cieco dei Cessna anfibi, passando di “ciofeca” in
“ciofeca”. L’ultimo Cessna 185 acquistato è rivenduto addirittura prima di
giungere alla linea di volo.
Il consiglio direttivo eletto nel 2001 ha invece le idee molto chiare: il Club
deve acquistare un Lake e un Maule. Lo fa, come è esposto in altri capitoli,
contro il parere dell’opposizione, che valuta che il Club non possa permettersi
quelle macchine, «destinate a fare poche ore e a costare troppo». Basta un
anno e mezzo di attività per comprendere che la scelta è invece ampiamente

199
Idrovolanti

“pagante”, sia sotto l’aspetto del puro rendimento economico, dato che le
macchine fanno un numero spropositato di ore, sia perché rilancia l’attività di
volo e navigazione dei soci, un’attività ridotta al lumicino negli anni prece-
denti. I soci del Club, infatti, sono stufi di disporre, per “andare in giro”, solo
dei modesti Cessna 172 idro e di un poco capiente e lentissimo Piper anfibio
(del Piper diciamo sovente che è un aereo “molto ecologico”, perché non
ammazza le api quando queste vi cozzano contro, alla normale velocità di
crociera dei due oggetti volanti).
Gli aerei più grossi e più belli hanno anche un altro vantaggio: attirano
investimenti pubblicitari. Questi sono linfa vitale per il Club in quanto copro-
no costi fissi e permettono ai soci di volare a un costo eccezionalmente basso.
Il Maule attualmente posseduto dal Club, per i quale sono stati trovati i
rarissimi galleggianti in modo rocambolesco, è stato portato in volo dalla
Florida al Canada, come aereo terrestre, e poi dal Canada a Como, come
anfibio, dal socio e consigliere Roberto Ruberto.
L’impresa è stata compiuta senza installare serbatoi supplementari e sfrut-
tando quindi i soli quattro serbatoi regolamentari della macchina.
Interessantissima la relazione di Ruberto sulla sua prima traversata atlanti-
ca. Dopo aver lasciato la Nova Scotia, il volo è proseguito a tappe, pressoché
sempre in condizioni IMC, tra nevicate e accrescimenti di ghiaccio sulle su-
perfici, fino alll’Isola di Baffin. Lì si trova l’aeroportino del continente ameri-
cano più vicino alla Groenlandia, solo 380 miglia nautiche.
Ruberto racconta l’emozione, a metà dello Stretto di Davis, a 12.000 piedi,
di vedere davanti i massicci ghiacciati della Groenlandia e dietro quelli del-
l’Isola di Baffin. Il sentire che sta passando da un continente all’altro su quel
minuscolo mezzo aereo, in alcune tra le zone più inospitali del pianeta, gli dà
una precisa immagine della sproporzione che c’è tra la sua forza e quella della
natura in cui si trova immerso. Eppure quell’mmenso mare, quel cielo, quelle
distese di ghiacci lui li sta affrontando con le sole sue forze, dimostrazione di
quanto sia forte quell’istinto che spinge la persona umana a sfidare gli ele-
menti per andare a vedere che cosa ci sia “oltre”.
L’attraversamento della Groenlandia avviene nel bel tempo e lungo una
rotta che conduce Ruberto a sorvolare l’interminabile altopiano, il che gli
assicura visioni di enorme fascino.
Il viaggio prosegue poi velocemente per l’Islanda, la Scozia e giù verso
l’Europa meridionale, fino a Ginevra ed Evian. In quest’ultima località il
Maule si incontra con il Lake e il Piper del Club provenienti da Como (evento
raccontato nel capitolo “Evian”).
L’eccitante viaggio, fatto in questo modo, oltre a rappresentare per Ruberto
un’esperienza unica, ha comportato un risparmio per il Club di 5000 dollari
sui costi di trasferimento dell’aereo in Europa.
Il nostro bel Maule è oggi un tassello importante della strategia di sviluppo
della flotta del Club.

200
Idrovolanti

I Lake
I Lake sono le flying boat, ovvero gli idrovolanti a scafo, per uso civile più diffusi
del mondo e quelli che sono stati costruiti per più tempo e nel maggior numero
di esemplari. Sono aerei eccezionali, per caratteristiche e prestazioni, ma anche
per un altro motivo: la comunità dei proprietari e degli utilizzatori di queste
macchine è molto unita, interessante e simpatica.

Ci sono aerei che hanno più storia, più personalità, più fascino di altri. Nel
campo degli idrovolanti, che sono già in sé aerei particolari, è facile trovarne.
Pensiamo al primo idrovolante di Henri Fabre, che, a vederlo nelle foto sbia-
dite del 1910, pare quasi impossibile che abbia potuto volare, alle macchine
della Coppa Schneider, all’MC 72, al Navy-Curtiss NC4 con cui Read compì
nel 1919 la prima traversata atlantica della storia, all’S 16 ter di de Pinedo,
agli S 55 di Balbo, ai “Clipper” della Pan Am (il Sikorsky S 42, il Martin 130
e il Boeing 314), ai Latécoère che hanno conquistato l’Atlantico del Sud
condotti da Mermoz e Saint Exupery, al Catalina, al Canadair, allo Shin Meiwa.
Si tratta, in tutti i casi di aerei che hanno fatto la storia dell’aviazione, che
hanno consentito di conquistare continenti e oceani, strumenti di lavoro e vita
per moltissime persone, fornitori di servizi impagabili per intere popolazioni
e in certi casi vere macchine salvatrici di uomini.
Nell’elenco abbiamo volutamente evitato di menzionare gli idrovolanti leg-
geri, per parlarne a parte. Ci sono idrovolanti leggeri di grande personalità sia
nel campo delle flying boat, ovvero degli idrovolanti a scafo, sia nel campo
degli idrovolanti con galleggianti. Nel campo degli idrovolanti con galleg-
gianti il Piper Super Cub, per esempio, di personalità ne ha molta, ed è per
questo che è così amato dai piloti comaschi, che lo usano dal 1965, così come
di personalità ne ha il De Havilland Beaver, mentre nel campo degli anfibi a
scafo sia il Republic Sea Bee, anche protagonista di un serial televisivo degli
anni Cinquanta, sia i Grumman hanno avuto una notorietà eccezionale.
Ma veniamo al Lake. Nato fortunato, è stato prodotto in un numero vera-
mente grande di esemplari, oltre 1300. Anche di Sea Bee è pieno il mondo,
essendone stati prodotti circa 1000, ma la produzione è cessata quasi subito
dopo che era iniziata, alla fine degli anni Quaranta. In quel momento era
molto più redditizio costruire per i militari che dedicarsi a soddisfare le esi-

201
Idrovolanti

genze di famigliole che pagavano a rate. È così che nei cieli della Corea
troviamo molti aerei della Republic, mentre i possessori di Sea Bee incomin-
ciano ad accaparrarsi i pezzi di ricambio esistenti. Il Lake, al contrario, è un
aereo che ha avuto un ininterrotto sviluppo e che oggi, a 56 anni dalla nascita,
è ancora sostanzialmente in produzione, sebbene negli ultimi anni i diversi
proprietari della fabbrica abbiano vissuto alterne vicende.
I giudizi sul Lake - di chi se ne intende, naturalmente - sono molto positivi.
L’aereo è considerato la punta avanzata nel campo delle progettazioni di anfi-
bi leggeri, fiorita negli anni Trenta, interrottasi con la seconda guerra mondia-
le e ripresa con vigore negli anni immediatamente successivi.
In un vasto panorama che ha visto nascere e in alcuni casi affermarsi la
macchina della Goodyear, quelle di Percival Spencer - la Spencer Air Car, il
Sea Bee, il Trigull - l’italiana Siai Nardi FN 333 Riviera e un’infinità di
autocostruiti e di aerei rimasti alla fase di prototipo, il Lake ha dimostrato di
essere il progetto più solido, più completo e anche il più longevo e protagoni-
sta di una lunga evoluzione tecnica. A beneficiarne sono le migliaia di piloti
che dalla metà degli anni cinquanta hanno potuto avvicinarsi al volo su idro-
volante a scafo centrale in modo sicuro ed economico.
Chi voglia avere più informazioni sulla storia dei Lake può consultare il mio
libro I Lake dalla A alla Z. Qui veniamo invece subito a parlare dei Lake che
hanno solcato le acque del Lario, ovvero di quelli usati a Como.
Il primo fu acquistato da persone che erano veri pionieri nella gestione di un
aero club. In un mondo in cui pochi in Italia parlavano in inglese, in cui sugli
aerei dell’aviazione generale non c’erano ancora le radio, in cui andare negli
Stati Uniti costava una fortuna, in un momento in cui i dirigenti dell’Aero
Club erano soliti, verso fine mese, andare su qualche spiaggia a fare voli di
propaganda per pagare un esiguo stipendio all’unico istruttore, unica alterna-
tiva al mettere mano al portafogli, ebbene in un mondo e momento come
quello il Club decise di acquistare un Lake.
Una scelta pionieristica ed eroica, fatta da matti dello stesso tipo di quel
signor Ulk, che in un certo momento della storia dell’umanità non rimase
impaurito, come i suoi conoscenti, dal fumo che si sprigionava da due pezzi di
legno strofinati con sufficiente energia uno contro l’altro, oppure da quel
discendente di Ulk che fin da bambino aveva trovato irresistibile il fascino di
un oggetto tondo che rotola su una superficie oppure ancora da quei malati di
mente che, trovandosi davanti un’interminabile distesa di acqua, hanno voluto
andare di persona a vedere se da qualche parte finisse e che cosa c’era al di là.
Insomma quei dirigenti del Club non sapevano bene dove sarebbero andati a
finire, come tutti i loro citati predecessori, e si stavano veramente affacciando
sull’ignoto, ma non si sono tirati indietro e hanno fatto il passo.
Dunque hanno incaricato l’unico istruttore del Club, Pio Roncalli, pilota di
caccia della seconda guerra mondiale in pensione, bergamasco al 100%, non
una sillaba di inglese, di andare a Tomball, nel Texas, a provare l’aereo.

202
Idrovolanti

Non si sa come sia giunto fin nel cuore del continente americano né come se
la sia cavata con la lingua e con la logistica, ma siamo certi che quando si è
trovato ai comandi del Lake sapeva perfettamente e amorevolmente parlare a
tu per tu con il piccolo anfibio, anche se era la prima volta che montava su un
idrovolante a scafo. Roncalli, come era tipico di quella generazione di piloti,
aveva considerazione solo per due cose: l’acrobazia e il volo in formazione.
L’acrobazia la faceva con tutti i piccoli idrovolanti del Club, e non solo con il
Macchino, su cui lo scrivente si ricorda di essere stato introdotto al looping, al
tonneau, alla vite, ma con il Piper PA 18 e addirittura con il Cessna 150, con
100 cavalli, che non ha potuto evitare il tonneau nelle mani di Roncalli (per la
cronaca, non gli è piaciuto e non lo ha fatto più, dopo la prima e unica volta).
Il volo in formazione lo faceva con qualsiasi allievo che gli capitava a tiro; lo
mandava in volo con un aereo e un paio di brevi istruzioni (non c’era radio a
bordo a quei tempi) e lui, con un altro allievo, con un altro aereo, a seguirlo a
distanza ravvicinata in tutte le manovre.
Nessuno ci può riferire intorno alla relazione fatta da Roncalli al suo ritorno
da Tomball, ma lo scrivente (che lo ha avuto come istruttore quando ha inco-
minciato a volare) riesce a immaginare perfettamente quello che può aver
detto, con un perfetto accento orobico: «Massì, l’è un aereo un po’ del casso,
ma è anfibio, ha quattro posti, è bello solido, fila, consuma poco; certo, ha un
difetto: non ha la cloche, ma pasiensa; un pregio ce l’ha: non ha proprio l’ala
bassa, da caccia, ma quasi, certo meglio dei carciofi ad ala alta che abbiamo
qui noi; non mi hanno fatto fare un casso [looping, tonneau, viti, chandelles
rovescie n.d.a], ma appena arriva vediamo come se la cava».
Il Lake preciso da acquistare il Club lo ha poi trovato in Finlandia, presso il
dealer europeo della Lake, una gentile signora e capacissima pilota, che ha
raccontato incredibili avventure di vita con quell’aereo nei climi gelidi della
Scandinavia, tra cui un avvicinamento a un aeroporto durante una nevicata
dopo che il portello era volato via.
L’aereo è arrivato a Como portato da questa signora e da Edoardo Albonico,
allora appassionato socio del Club, ormai quasi istruttore, e immatricolato
come I-BUKA (poco fantasiosa contrazione di Buccaneer).
In aviazione, almeno in certi momenti, sembra che ci sia una regola: quanto
più un aereo è bello, è stato acquistato convenientemente, serve, è raro, è
costato fatica, tanto più breve è la sua vita. L’elenco degli aerei del Club belli,
anzi bellissimi, difficili da acquistare e da omologare, ma persi subito è lungo
e comprende il Maule M7 I-AMPH (4 mesi), il Cessna XP I-EJCB (15 giorni),
il Lake I-COMM (3 mesi), il Cessna I-PUSI (che in realtà un pochino è
durato: quasi 2 anni), per stare solo negli ultimi due decenni.
L’I-BUKA è durato poco, venendo perso in un passaggio basso su una villa
posta sulla riva di un’isola del Tirreno. Quando, per un errore di pilotaggio,
l’estremità dell’ala ha toccato la superficie a una velocità prossima alla massi-
ma (146 MPH), il muso si è tuffato in acqua e l’aereo è affondato. Tutte vive le

203
Idrovolanti

persone che erano a bordo, anche se una di esse non ha proprio alcun motivo
di mantenere un bel ricordo di quella vicenda.
Nel 1980 il ricordo del “Buka” è ormai lontano, il Consiglio direttivo è
completamente cambiato e il “parco-piloti” è del tutto rinnovato. Il presidente
Musumeci, persona dai forti difetti corroborati da fortissimi pregi, ha decisa-
mente rilanciato l’attività e ha fatto un mutuo per acquistare un nuovo Lake
Buccaneer. Unico Lake nuovo dei quattro acquisiti dal Club, è immatricolato
come I-AIIA. Questo nome richiede sempre due o tre ripetizioni quando i
controllori lo riportano come “I-AIAA”, “I-IAIA”, “I-AI... potete ripetere il
nominativo”, ma è stato imposto dall’Aero Club d’Italia, che ha concesso
un’agevolazione sul mutuo e che ha riciclato sul povero Lake il nominativo
che era stato un paio di anni addietro affibbiato al Cessna Rocket messo su
galleggianti, rimasto due anni in hangar e poi smantellato, in quanto risultato
non certificabile come idrovolante.
Con l’I-AIIA abbiamo fatto conoscere all’Italia e all’Europa che l’idrovo-
lante non solo non è morto nel nostro continente, ma che è vivo e vegeto.
L’aereo partecipato anche a tre Giri aerei d’Italia.
L’I-AIIA durerà ben 20 anni, vera nave scuola, che introdurrà centinaia di
piloti all’aereo a scafo centrale. Si tratta di un bel record, considerando che
l’aereo è stato usato perlopiù come addestratore in uno dei bacini più difficili
d’Italia, per la presenza di onde.
Musumeci ha il merito di acquistare un eccellente secondo Lake in Francia
a un prezzo incredibilmente basso, pari a meno di un terzo di quello pagato
poco prima per l’I-IA. Diventerà l’I-COMM e verrà perso - come si è detto -
prestissimo per ammaraggio “duro”.
Dopo un’infelice esperienza con un Cessna 185 anfibio, quasi subito riven-
duto in quanto inutilizzabile a Como, per l’impressionante rumorosità e l’esi-
guo carico utile, dopo la tristissima esperienza del fiammante Maule trovato a
Pensacola e perso per cappottamento davanti ai pontili, il Club acquista un
Cessna 180, ma lo rivende dopo un breve periodo di scarsa utilizzazione,
anche per le prestazioni assolutamente insufficienti. Un quarto tentativo con
anfibi con galleggianti il Club lo fa acquistando un Cessna 185, ma dopo
averlo tenuto fermo per un anno lo rivende senza averlo mai usato, non poten-
do essere quel preciso aereo certificato come idrovolante (il Club ripete dun-
que l’exploit fatto alla fine degli anni Settanta con il 172 Rocket).
L’unico tentativo duraturo con anfibi dotati di galleggianti il Club lo fa
trasformando in anfibio un Piper Super Cub idro. L’aereo conserva molte
caratteristiche della versione idro, pur perdendone la compattezza, la legge-
rezza e la finissima manovrabilità, ma ha notevoli difetti: è un biposto, ha
un’autonomia ridotta e viaggia a 70 KTS, tutte caratteristiche che lo rendono
costosissimo nell’impiego e inadatto ai viaggi a medio-lungo raggio. Inoltre
costa un occhio della testa: come due Lake Buccaneer oppure come un Cessna
206 idro + un Cessna 172 idro. Andare dal punto A al punto B con il Piper

204
Idrovolanti

I-BUFF con due persone a bordo costa, per persona, il triplo che fare lo stesso
percorso con il Lake Renegade con tutti i posti occupati. Dunque il pur bellis-
simo Piperino anfibio non può essere considerato che un aereo-scuola per la
fascia alta degli operatori più facoltosi che possono permettersene l’acquisto
e, nel settore privato, un aereo da amatore per viaggi a corto raggio.
Mentre il Club si avvia, senza apprezzabili risultati, sulla strada di approvvi-
gionarsi e usare anfibi con galleggianti, nel 1987 arriva un altro Lake, il Rene-
gade I-AQVA, in realtà acquistato da una società, l’Idrovoli s.r.l., che lo darà
in esercenza al Club per i 14 anni successivi. Infine lo vende a un socio del
Club a un terzo del suo valore di mercato, il quale a sua volta, dopo averlo
tenuto fermo per due anni, lo rivende al Club stesso, rimasto senza Lake dopo
la perdita dell’I-AIIA.
Al momento di acquistare il Lake Renegade dal menzionato socio, la situa-
zione è paradossale. Infatti i Lake, in quel momento, sono considerati aerei
“difficili”, “per pochi” e hanno un numero esiguo di sostenitori all’interno del
Club. Tutti dicono che gli anfibi con galleggianti sono migliori e più adatti, ma
chi sostiene l’anfibio con galleggianti non rammenta - o evita di dire - che non
ce ne è stato uno che abbia fatto più di 100 o 200 ore (uno addirittura 0 ore!)
prima di essere stato perso (1 caso) o rivenduto (3 casi). I Lake, al contrario,
hanno fatto in totale molte migliaia di ore a Como. L’opinione diffusa di tutti
quelli che comunque remano contro anche senza un motivo preciso, un popo-
lo numeroso in qualsiasi sodalizio, è che il Club non possa permettersi l’ac-
quisto di un anfibio, tanto meno di un anfibio a scafo, ovvero di un Lake.
Come il sociologo Alberoni ha dimostrato, nelle situazioni “nascenti” si
sviluppano energie imprevedibili. Dunque un Consiglio direttivo da poco elet-
to, fatto quasi interamente da persone “nuove” e che non hanno vissuto le
devastanti dinamiche interpersonali tipiche della vita dei gruppi ristretti (alle
quali erano andati invece soggetti Consigli precedenti, tutti fatti da “vecchi
lupi” del Club), decide, contro il parere dei più, di acquistare un Lake.
Va detto che nel nuovo Consiglio, eletto nell’autunno del 2001, è incluso un
“vecchio lupo” del Club, forte sostenitore dei Lake - lo scrivente -, la cui
opinione è però considerata troppo “deformata” a favore del Lake per essere
presa in considerazione e che da solo non riuscirebbe mai a convincere i
colleghi consiglieri e l’assemblea della bontà della scelta di un anfibio a scafo.
Si deve invece proprio al citato “stato nascente” e all’entusiasmo di poche
persone (in particolare quello dell’allora consigliere Mario Camozzi) se l’Ae-
ro Club Como è finalmente rientrato nell’universo degli idrovolanti a scafo.
Questo entusiasmo ha portato all’acquisto, in tempi molto ristretti, del Lake
Renegade numero di costruzione 10, che viene immatricolato come I-AQUA
(altra conseguenza della situazione di “stato nascente”; consigli direttivi fatti
da gente “navigata” hanno impiegato anni per acquistare un nuovo aereo o,
dopo averne parlato all’infinito, non l’hanno acquistato mai).
La fortuna aiuta gli audaci. Il Lake, appena rientrato in linea, può dare prova

205
Idrovolanti

di tutte le sue prerogative e incomincia a essere giudicato dai piloti non più
“per sentito dire”, ma in modo diretto, dopo che ci hanno volato o che hanno
incominciato il corso di abilitazione. E piace subito, per la sua solidità, per le
eccellenti prestazioni, per la visibilità verso l’esterno, l’eccezionale carico
utile, la notevolissima autonomia, l’economicità di impiego, ma anche per il
fatto di essere un aereo “speciale”, che permette ai suoi utilizzatori di entrare
in un club esclusivo, quello dei piloti di aerei a scafo.
Il Lake si rivela inoltre, inaspettatamente per chi non lo conosce, un aereo di
eccezionale appeal. Diventa subito testimonial per spot e immagini pubblici-
tarie. Inoltre viene subito sponsorizzato da un importante industriale dei tra-
sporti in cerca di qualcosa che possa dare un tocco di classe ed esclusività alla
sua immagine aziendale. «Va su terra, sull’acqua e nel cielo; lo stesso faccia-
mo noi con la nostra azienda. E poi è proprio bello.» È così che Mario Pitto-
relli decide di fare apporre sul Renegade I-AQUA le insegne della sua impresa
di trasporti: “Bianchi Group”.
Aereo stol capace di decollare da un laghetto di montagna, il Lake è una
superba macchina per lunghi viaggi, anche perché ben strumentato. Queste
caratteristiche e l’eccezionale capacità di carico fanno del Lake un aereo idea-
le per andare a fare voli di propaganda e dimostrativi in giro per l’Europa.
La prima dimostrazione delle sue doti per questo impiego, dopo il suo rien-
tro in linea a Como, la dà in giugno, quando è ancora immatricolato come
N47LA. Decollato al traverso di Torno dopo un lungo flottaggio sul redan
sulle terribili onde del Tasell e del nuovo catamarano, con tre persone a bordo
e materiali per parecchie decine di chili, a 30 °C di temperatura, ha raggiunto
in due ore il Lago di Mercatale, nelle Marche, alla velocità di 110 KTS; con la
benzina “residua” ha fatto due ore e mezza di voli locali in bacino cortissimo
con ostacoli, andando poi la sera all’aeroporto di Fano. Un profilo di missione
assolutamente impossibile da eguagliare da parte di qualunque altro anfibio
della sua classe e che potrebbe rappresentare la specifica di progetto per un
anfibio leggero di elevate prestazioni.
Un’altra dimostrazione delle sue capacità il Lake la dà pochi mesi dopo a
Mâcon, nella Francia centrale, ove porta in volo 150 persone in un giorno e
mezzo. Tra gli altri, vi trova posto, dietro, un passeggero di almeno 140 kg,
con la figlia nel posto anteriore. Molti decolli sono fatti dal fiume sotto una
pioggia battente con tre “pesi massimi” a bordo e benzina per ore di volo.
La riacquisizione di un Lake all’Aero Club Como mi dà l’opportunità di
scrivere il libro I Lake dalla A alla Z. Destinato inizialmente a fornire ai piloti
locali tutte quelle informazioni che possano favorire un buon impiego ed evi-
tare il danneggiamento della nuova macchina che sta per arrivare, il libro
cresce a poco a poco, anche grazie ai tempi, più lunghi del previsto, di revisio-
ne e approntamento della macchina.
La preparazione del libro è per me una formidabile occasione per conoscere
meglio i Lake nei loro aspetti costruttivi e di impiego, ma soprattutto mi

206
Idrovolanti

consente di prendere confidenza con il mondo dei proprietari e dei piloti di


Lake, un mondo molto particolare, composto da persone, ciascuna per qual-
che aspetto, eccezionale. Proprietari di Lake sono VIP degli Stati Uniti e
persone che fanno fatica a tirare a fine mese, ma che hanno un’enorme espe-
rienza su quelle macchine. Si va dall’operatore turistico delle Tonga o delle
Fiji ai privati che utilizzano il Lake su mari ghiacciati, a latitudini polari. La
comunità include piloti con 14.000 ore di Lake e piloti che hanno appena
acquistato una di queste macchine.
Molti piloti di Lake hanno altre esperienze di vita ricche e interessanti,
hobby particolari, professioni inusuali. Insomma, è un mondo a cui fa piacere
appartenere e che riserva, in ogni occasione, belle sorprese.
Chi vuole averne, di sorprese, deve partecipare a uno dei raduni annuali
organizzati dal Lake Amphibian Flyers Club. L’ultimo, l’unico a cui ho parte-
cipato, si è svolto a Winter Haven, in Florida. Sarebbe lungo descrivere la
ricchezza del mondo, della storia e della cultura dei Lake così come è emersa
nei quattro giorni di conferenze, voli e discussioni con il centinaio di piloti
partecipanti. Ecco qualche impressione.
Tutto bello, fin dal primo impatto. Provenienti da Fort Pierce e dalle Baha-
mas, giungiamo all’aeroporto di Bartow, a qualche miglio da Winter Haven.
Sul piazzale una trentina di Lake. Mai visti tanti Lake insieme. Molti altri
arriveranno nei giorni seguenti.
Al raduno sono presenti il nuovo patron della Lake, Wadi Rahim, uno dei
progettisti dello Skimmer, antenato dei Lake, Herb Lindblad, i quattro proprie-
tari di officine specializzate in Lake, tre americane e una canadese, i più
esperti istruttori su Lake, lo storico dei Lake John Staber, gli autori dei due
libri scritti sui Lake (Steve Reep, autore di “Go to Hull”, e lo scrivente, autore
di “I Lake dalla A alla Z”), nonché piloti che usano i Lake da decenni e vi
hanno fatto migliaia di ore e altri che con i Lake hanno fatto viaggi di rilievo.
Fa impressione a molti partecipanti scoprire che in una piccola cittadina del
lontano continente europeo si vola sull’acqua dai primordi dell’aviazione,
precisamente dal 1913, e che una ricca cultura dei Lake si è sviluppata a
partire dai primi anni Settanta. A molti viene voglia di venirci a trovare a
Como, per volare con un Lake nella nostra zona, le cui bellezze sono promos-
se dalla corposa proiezione di immagini che accompagna la mia relazione.
Devo dire che in aviazione non ho mai incontrato una comunità di piloti così
compatta, solidale e simpatica, ma anche competente, come quella dei pro-
prietari/piloti di Lake. Una comunità alla quale siamo onorati di appartenere.
Nel corso dell’evento abbiamo l’opportunità di provare anche l’Aztec idro e
il Beriev 103. Questo bimotore russo è ora equipaggiato con motori Continen-
tal da 210 HP e avionica occidentale, cosa che ne ha consentito la certificazio-
ne negli USA. L’aereo è solidissimo, la cabina spaziosa, con eccezionale visi-
bilità verso l’esterno, i sedili sono quasi da aereo di linea, la pedaliera sembra
strappata da un Mig 29. Insomma è un aereo ampiamente sovradimensionato,

207
Idrovolanti

proprio alla russa. Come si paga tutto ciò? Con una velocità di crociera non
esaltante e un carico utile scarso.
In volo è un “padre di famiglia”, facile, sicuro. Si atterra innaturalmente. Il
pilota polacco dice seccamente «Vai giù come su una portaerei», dando per
acquisito che in quell’ambiente di piloti di Lake l’appontaggio sia pratica di
tutti i giorni. Capisco che non si deve fare richiamata e retta, ma l’istinto
all’ultimo istante mi tradisce; tiro un po’ e il pilota subito mi corregge. Insom-
ma, si imposta semplicemente la discesa con i parametri giusti finché l’aereo
“si pianta” con i suoi tre carrelli sulla superficie. Enzo, forte della mia espe-
rienza, vissuta da dietro, azzecca meglio il contatto al suo turno di pilotaggio.
L’importatore americano dice che stanno lavorando per aumentare il carico
utile. Sembra un aereo che potrebbe giovarsi di due motori più potenti. Non ce
lo fanno provare su acqua. Dunque il giudizio è sospeso, finché non avremo
fatto un bel numero di decolli e ammaraggi, magari a Como (ricordate la
“prova finestra” del famoso detersivo? Il bacino di Como, per la difficoltà
derivante dalla presenza di onde, è la “prova finestra” degli idrovolanti).
L’ultimo giorno torniamo a Fort Pierce, usufruendo di un passaggio su un
Lake del simpatico amico Tom Schmalz, con cui percorriamo la tratta Winter
Haven-Fort Pierce facendo touch and go in ogni lago sulla rotta. Qui visitiamo
la fabbrica dei Lake, bene accolti dal proprietario Wadi Rahim.
Wadi Rahim, originario del Bangla Desh, fortunato imprenditore aerospa-
ziale nei decenni scorsi, ha deciso di dedicarsi alla costruzione dei Micco,
prestanti aerei acrobatici, e dei Lake. Acquistata la Micco dalla tribù di India-
ni Seminole che ne era proprietaria e la Lake dalla famiglia Rivard, ha riunito
le due fabbriche nella sede della Micco.
Per un anno circa ha prodotto il Renegade 2, il Seafury, dotato di sofisticata
avionica, e il Seawolf, destinato a militari ed enti di controllo del territorio. Il
primo aereo uscito dalla linea di costruzione a Fort Pierce è andato alle Gala-
pagos, ove è impiegato dal Galapagos National Park Service. Il volo dal-
l’Equador alle isole lo ha potuto fare senza problemi, trattandosi di un Seawolf
con 12 ore di autonomia.
Wadi Rahim all’ultimo incontro di Winter Haven ha annunciato la sua di-
sponibilità a riprendere la costruzione del modello 200 EP (l’ultima evoluzio-
ne del fortunato Buccaneer, con motore da 200 HP e albero bilanciato), dotato
di un nuovo pannello di strumenti, se arrivassero una ventina di ordini.
Al momento dell’uscita di questo libro la LanShe ha temporaneamente ces-
sato la produzione dell’aereo per una serie di problemi legali, che la vedono
opposta ai vecchi proprietari, e per gli effetti devastanti di un uragano che ha
colpito la fabbrica nel settembre 2004. Malgrado questa situazione di incer-
tezza riguardo al fabbricante, fare parte della comunità dei piloti di Lake e
pilotare la piccola flying boat continua a essere una grande soddisfazione.
Altre informazioni su questo aereo sono contenute nel capitolo “A galleg-
gianti o a scafo?”

208
Idrovolanti

L’idrovolante più bello del mondo


Provato in uno dei luoghi più belli del mondo

Non capita tutti i giorni di avere a che fare con una persona che desidera
acquistare un idrovolante. E può capitare una volta sola in molte vite di avere
a che fare con una persona che desidera acquistare l’idrovolante più bello del
mondo. La cosa è veramente interessante, soprattutto se si ricopre il ruolo di
consulenti e si ha la possibilità di conoscere a fondo quell’aereo, di volarci, di
compiere con esso interessanti operazioni.
La cosa è ancora più interessante se queste operazioni non avvengono in
uggiose giornate invernali sulle pianure centrali del Nordamerica o nella Pia-
nura Padana, ma lungo l’estesa barriera corallina che contorna la costa nordo-
rientale dell’Australia, in una stagione ideale e in un clima che può essere
definito con un solo termine: perfetto.
L’avventura diventa infine esaltante se vissuta con persone e in ambienti
umani estremamente gradevoli e arricchenti.
Ma, tornando al volo sull’acqua, quale sarà mai l’idrovolante più bello del
mondo? Dobbiamo innanzitutto scartare tutti gli aerei del passato, pur impor-
tanti e bellissimi, ma che oggi non esistono più quali macchine volanti. Se
infatti intendessimo scegliere il più bel idrovolante mai prodotto, potremmo
forse indicare l’elegantissimo S 55, come l’I-BALB di Balbo, o il l’S 16 Ter
con cui de Pinedo compì il suo raid di 55.000 chilometri, idea platonica del
viaggio in idrovolante, o il naviforme e poco prestante DO X, un vero transa-
tlantico dei cieli, oppure il colossale Hercules di Howard Houghes, che, come
un fuco, potè compiere un unico volo di meno di un minuto in tutta la sua
esistenza. Altri potrebbero indicare l’MC 72 del record tuttora imbattuto di
velocità, oppure uno dei rari esemplari di Spitfire o di Zero idro o, ancora, uno
dei celebri, anzi, mitici Clipper della Pan American, che conquistarono il
Pacifico, o altri giganti dell’aria degli anni Trenta.
Per tornare alle radici, qualcuno potrebbe indicare come il più bel idrovo-
lante del mondo il trabiccolo con cui Henri Fabre, nel 1910, dette origine
all’epopea del volo sull’acqua oppure il primo idrovolante a scafo, costruito e
fatto volare per la prima volta nel 1912 da Glen Curtiss, o forse il primo
anfibio, che Voisin fece volare sulla Senna.

209
Idrovolanti

Ma l’idrovolante più bello del mondo deve avere una caratteristica fonda-
mentale: ci si deve poter volare sopra. Dunque, scegliendo tra gli idrovolanti
effettivamente usabili, molti risponderanno: «il Beaver». Certo, il Beaver (“Ca-
storo”), prodotto in migliaia di esemplari, è stato lo strumento della coloniz-
zazione umana del Grande Nord canadese a partire dal dopoguerra. Aereo
molto affidabile e meravigliosamente progettato e costruito dalla De Havil-
land of Canada, il Beaver è l’aereo più classico dei bush pilots e porta sempre
con sé l’enorme fascino delle avventure vissute da quegli eroici piloti.
Ancora meglio, il Turbo Beaver, più moderno e prestante, con la sua turbina
PT6, potrebbe essere considerato il migliore aereo del mondo.
Salendo nella scala delle produzioni De Havilland, dopo il DHC2 troviamo
il DHC3, l’Otter (“Lontra”), che pure ha una versione con motore a turbina, e
il biturboelica Twin Otter, il più grande aereo con galleggianti attualmente in
uso (il più grande in assoluto mai costruito con galleggianti fu l’italiano Cant
Z 511, costruito nel 1940 a Monfalcone).
Per certi versi il piccolo, ma eccezionalmente prestante Piper Super Cub
può avvicinarsi all’ideale di idrovolante.
Andando nello strano, potremmo identificare come il più bell’idrovolante
del mondo il DC3 anfibio, di cui furono prodotti due esemplari, no dei quali è
stato recentemente restaurato quale macchina volante, negli Stati Uniti, dal
Folsom’s Air Service.
Qualcun altro potrebbe dire: «il Catalina». Certo, il Catalina, oltre a essere
l’idrovolante prodotto nel maggior numero di esemplari, è un aereo importan-
tissimo nella storia dell’aviazione sull’acqua. Ed è anche molto simpatico per
alcuni dei ruoli che ha svolto nella sua multiforme carriera: aereo per la ricer-
ca e salvataggio di naufraghi e aereo antincendio. Volare sul Catalina e guar-
dare il paesaggio dai suoi favolosi blister o dalla torretta anteriore è un’espe-
rienza unica, in effetti.
Altri potrebbero indicare gli ultraleggeri idro, in quanto consentono di intro-
durre alla disciplina del volo idro masse di persone il cui potere di acquisto è
particolarmente basso.
Un’altra idea potrebbe essere quella di un aereo antico ancora volante. L’unico
idrovolante che risponda a questo requisito, almeno in Europa, è il Caproni
CA 100 I-ABOU, il Caproncino restaurato con un eroico impegno personale e
finanziario da Gerolamo Gavazzi. Un’altro restauro, eseguito dal compianto
“Buzz” Kaplan, ha riportato in vita il Savoia S56, che ho avuto il grande onore
di pilotare da Como a Vergiate e ritorno. Anche i Cessna 195 idro o il Sikorsky
S-38 ancora volanti negli USA potrebbero giustamente aspirare al titolo di
idrovolante più bello del mondo.
Tutti gli aerei menzionati hanno un grande fascino e interesse e, per alcuni
scopi precisi, uno o l’altro di essi può essere considerato il meglio, ma l’idro-
volante più bello del mondo, secondo il giudizio dell’autore, deve avere un set
di caratteristiche particolari che si può riassumere così: essere effettivamente

210
Idrovolanti

usabile per compiere le operazioni e le imprese più complesse e ad ampio


raggio nel campo del volo idro. Insomma un aereo con cui possano essere
compiute imprese raffrontabili a quelle di de Pinedo, Amundsen, Rodgers,
Von Gronau, Balbo, dei comandanti dei Clipper o degli altri piloti e trasvola-
tori che, su piccole macchine, basandosi perlopiù sulle proprie forze e dota-
zioni, hanno aperto al volo i cieli e le acque del mondo.
È implicito nella possibilità di compiere simili imprese un elevato grado di
sicurezza. Per questo l’idrovolante ideale deve essere una macchina sicura,
dotata di motori moderni ed efficienti.
Secondo il parametro enunciato, che vede come del tutto secondari gli ele-
menti estetici, storici o di mera rarità o preziosità, lo spettro delle possibili
scelte si riduce enormemente.
Ebbene, senza perdere troppo tempo in analisi tecniche, si può ragionevol-
mente affermare che l’idrovolante più bello del mondo è il Grumman Turbo
Mallard.
Si tratta di un anfibio a scafo centrale, prodotto negli ultimi anni Quaranta
per il mercato del trasporto d’affari e privato. Originalmente dotato di due
motori a pistoni radiali da 600 cavalli, il Turbo Mallard è stato poi modificato,
grazie alla conversione Frakes, con l’installazione di due motori a turbina
PT6-34, da 680 cavalli l’uno. Quei motori, originalmente, erogano 800 caval-
li, ma sono stati “deratati”, offrendo un margine di sicurezza in più.
Dei 59 esemplari di Mallard costruiti, 12 hanno subito la conversione Frakes
in Turbo Mallard. Si tratta dunque di un aereo raro e comunque di un classico.
Esso fa infatti parte della famiglia degli anfibi Grumman, il più famoso dei
quali e il primo costruito fu il Goose, seguito dal Widgeon, poi dal Mallard e
infine dall’Albatross.
Il Turbo Mallard è conosciuto in quanto è stato ed è estesamente utilizzato
nei trasporti di passeggeri tra la Florida e le Bahamas, dalla storica compagnia
che oggi si chiama Ocean Chalk’s Airways, divenuta recentemente proprietà
di un italoamericano.
Il Turbo Mallard viaggia a 160 nodi e ha sette ore di autonomia. Con esso si
può dunque girare il mondo, essendogli precluse solo pochissime delle classi-
che tappe dei trasvolatori, quali la San Francisco-Honolulu (2400 miglia nau-
tiche), salvo che lo si doti di serbatoi supplementari.
Sul fronte della seaworthiness, ovvero delle sue capacità di reggere a mari
di una certa forza, il manuale lo dice capace di affrontare onde di 75 cm. In
mano a piloti di una certa esperienza, l’aereo può indubbiamente affrontare
onde anche più alte, ma subentra in questo caso un’altra considerazione. Il
valore della macchina è così alto (circa tre milioni di dollari al momento di
uscita di questo libro) che nessuno ha in realtà voglia di provare a usarla in
condizioni limite, così che i piloti che la usano di frequente sono disposti a
fare qualsiasi tipo di digressione o, al limite, di rinunciare all’operazione che
intenderebbero svolgere pur di non affrontare rischi.

211
Idrovolanti

La macchina, inoltre, è usata sovente nell’ambito di spostamenti di piacere,


un altro fattore che limita l’eventualità di un suo uso in condizioni-limite. In
quel tipo di volo, infatti, la rinuncia a giungere a destinazione, o a giungervi in
ritardo dopo un dirottamento, in molti casi non è un vero problema. Anzi, una
diversione può essere un elemento dell’avventura e rappresentare, per gli oc-
cupanti, un’occasione imprevista di divertimento. Inoltre, trattandosi di un
anfibio, è sovente possibile trovare un aeroporto in cui scendere non troppo
lontano dalla destinazione.
Nonostante tutto ciò che si è detto, il Turbo Mallard può essere considerato
una delle macchine che può meglio affrontare condizioni di mare mosso.
L’aereo è inoltre particolarmente sicuro in quanto bimotore, dotato di moto-
ri modernissimi e affidabili, e in quanto idrovolante, ovvero aereo estrema-
mente solido nella costruzione e con velocità di stallo molto bassa e comun-
que, proprio perché idrovolante, “il migliore aereo con cui si può desiderare di
avere un incidente”.
La macchina è inoltre spaziosa, consentendo a una persona di statura non
eccessiva di stare in piedi al suo interno, e fornita di ampie finestrature, cosa
che assicura una magnifica visione del paesaggio.
La specifica macchina esaminata in Australia ha alcune caratteristiche parti-
colari: è l’unica esistente dotata di sistemi antighiaccio alle ali e alle eliche ed
è configurata al suo interno come “executive di avventura”, ovvero con soli
sette posti, ma con ampi spazi per porre materiali, quali valigie, bauli o una
motocicletta (in configurazione-passeggeri è una macchina in grado di tra-
sportare 17 passeggeri, oltre ai piloti).
Per quanto attiene agli strumenti, la macchina esaminata ha una dotazione
completa e ampiamente ridondante, da Boeing di linea, comprendente anche
radio HF, radar meteo e sistema anticollisione TCAS2.
Sul fronte dell’impiego, il Turbo Mallard, per la sua mole, non è una mac-
chinetta che il pilota può muovere con la massima facilità sulle spiagge, ma ha
i vantaggi di essere un bimotore con eliche a passo reversibile. Esso è quindi
manovrabile in modo raffinato anche negli spazi più ristretti, potendo essere
mosso anche alle minime velocità in avanti e all’indietro e potendo essere
fatto ruotare in modo minuzioso intorno al suo asse.
Definita questa meraviglia della tecnica come il più desiderabile degli idro-
volanti o almeno in una ristrettissima rosa dei più desiderabili, da un puro
punto di vista dell’utilizzatore, non si può non considerare il punto di vista del
gestore. Si tratta, seppure restaurata fino al midollo, di una macchina “vec-
chia”, per la quale i pezzi di ricambio devono essere trovati in modo avventu-
roso o costruiti appositamente, con l’esclusione, ovviamente, dei modernissi-
mi motori e della sofisticata avionica. Si tratta di una macchina che sta ai
limiti dell’utilizzabilità da parte di un comune pilota privato e che richiede,
per il suo pilotaggio, ma soprattutto per la sua gestione in senso più lato, la
presenza di un pilota professionista che vi si dedichi a tempo pieno.

212
Idrovolanti

Insomma si tratta di una macchina “da facoltoso amatore”, ovvero destinata


ad essere posseduta da veri appassionati, il cui amore per il volo idro e per
l’esclusivo piacere di poter volare sull’idrovolante più bello del mondo deve
essere un valore che permette di superare qualsiasi considerazione di tipo
economico e pratico.
È evidente che le persone che rispondono a queste caratteristiche sono po-
chissime nel mondo, così come sono, di conseguenza, pochissimi i Turbo
Mallard esistenti ed effettivamente usati. In realtà possedere e usare una mac-
china di questo tipo non è solo una questione di potere di acquisto. Per utiliz-
zare una macchina di questo tipo ci vuole anche una buona dose di passione e
motivazioni del tutto speciali.
Nella fattispecie, la persona interessata all’acquisto, valutato tutto, ha infine
desistito. Ciò detto, non posso che esprimere la mia riconoscenza sia al poten-
ziale venditore sia all’allora potenziale acquirente di quella meravigliosa mac-
china per avermi consentito di conoscerla nei suoi principali aspetti e di volar-
ci da uno dei posti in cui la si pilota.

213
Idrovolanti

Che cosa vogliamo di più?


Questo libro trabocca di racconti che mostrano quanto l’idrovolante sia versatile
e consenta operazioni impossibili a qualunque altro mezzo. È qui presentato
qualche altro aneddoto che illustra come possa essere dolce la vita del pilota idro.

Carate
Sto da pochi giorni con una ragazza. La porto in moto sul lago, a Carate, a
mangiare qualcosa. Dopo il pranzetto siamo appoggiati alla balaustra della
passeggiata, a chiacchierare.
Si sente il rumore di un aereo a bassa quota. Il pilota, evidentemente, sta
seguendo la costa basso basso, e la scruta, come facciamo sempre tutti noi,
anche dopo la millesima volta che ci passiamo. Ogni volta, infatti, c’è qualco-
sa di nuovo o di interessante da vedere.
A un certo punto l’aereo appare. Gli faccio un segno di saluto. Il pilota mi
vede e mi riconosce, fa un’immediata virata verso il centro lago, estrae i flap,
riduce la potenza e ammara, scendendo dal redan proprio davanti ai nostri
occhi. Spegne il motore ed esce dall’aereo, mettendosi sul galleggiante.
«Ciao. Tutto bene? Avete bisogno di un passaggio?»
È Diego Bianchi, pilota, amico, compagno di battute di caccia nelle vaste
praterie del gentil sesso e di avventure in pub e alberghi fuori mano. Persona
attenta, mi ha riconosciuto nel sorvolo della riva, notando che ero in compa-
gnia di una donna. Dunque, da vero fratello, mi fa fare la bella figura di quello
che con un cenno fa scendere un aereo dal cielo, che si mette al suo servizio.

Sarnico
Un amico che abita a Porlezza deve andare a Sarnico, ai cantieri Riva, a
vedere come procedono i lavori sul suo Aquarama. Dunque decollo da Como,
ammaro a Porlezza, carico il passeggero, rientro in volo sul Lago di Como,
che percorro fino a Lecco, continuando poi per il Lago di Iseo. Ammaro a
Sarnico e flotto fin dentro il porticciolo della Riva, ove solerti maestri d’ascia
e inservienti fissano l’aereo con quattro cime.
L’amico studia la sua barca e parla con chi deve, mentre le maestranze mi
fanno un terzo grado per capire come è che “ ’sto tizio” può permettersi di
arrivare lì con un idrovolante e parcheggiarlo a 10 metri dalla sua barca in

214
Idrovolanti

lavorazione, cosa mai vista né sentita, malgrado la clientela della Riva com-
prenda re, grandi industriali, attori, finanzieri. Sì, è vero che qualcuno di
questi personaggi è venuto a Sarnico in elicottero, ma ha dovuto atterrare in
un polveroso campo lontano dal cantiere. L’idea di queste persone semplici è
che l’elicottero è “da sciuri”, ma oggi se lo possono permettere “anche in
troppi”, mentre l’idrovolante... è un’altra storia.

Porto Cervo
Emanuele Bedetti in quel momento rappresenta una grande casa che produce
auto per la fascia più alta del mercato, la Bentley. È invitato alla festa dell’Aga
Khan allo Yacht Club di Porto Cervo. Ci andiamo con il Lake da Como.
È quasi certo che siamo tra quelli che hanno impiegato, per arrivare al
santuario mondiale del jet set, meno tempo, se si considera il viaggio door to
door. I jet privati e i grossi elicotteri sono infatti più veloci del Lake, quando
sono in volo, ma, salvo casi rari, non si trovano a 5 minuti dall’uscio di casa o
dell’ufficio, alla partenza.

Molo di Sant’Agostino
Ritornate indietro nel tempo a quando avevate 5 anni, o 10. La mamma vi
porta spesso a fare una passeggiatina sul lungolago, a Como. Un bel giorno
arrivate a un pontile, all’interno del molo di Sant’Agostino, dove c’è un aereo,
una visione inaspettata e magnifica. Non avete mai visto, nella vostra vita, un
aereo da vicino. L’aereo galleggia sull’acqua; è un idrovolante.
La mamma parla con delle persone e vi fa salire su questo curiosissimo
mezzo di trasporto, poi sale anche lei. Il motore si avvia, l’aereo si stacca dalla
riva e incomincia a navigare sulla superficie, molto lentamente, come una
barca. Poi si sente un gran rumore e si prova un’emozionante sensazione di
velocità. Il rumore diminuisce e diventa più regolare. State volando!
Guardate fuori dal finestrino. Il paesaggio scorre sotto di voi: case, strade, il
duomo, le macchine, le persone che camminano, i battelli sul lago. L’aereo è
come una farfalla, si muove in qualunque direzione, anche verso il cielo, e può
volare anche basso sull’acqua, dando un’incredibile sensazione di velocità.
Il pilota vi chiede dove abitate e, con pochi gesti sicuri, dirige l’aereo in
quella direzione. A un certo punto vedete qualcosa di familiare; è il vostro
quartiere. Poi vedete la vostra casa. Una visione affascinante. Tutto è diverso
da quassù. Il pilota capisce qual è e ci fa sopra un giro stretto. La nonna o i
fratelli escono e salutano. Voi li riconoscete e provate una grande emozione.
Il pilota vi invita a mettere le mani sul volantino e vi indica come far cabra-
re, picchiare, virare l’aereo. Voi vedete che l’aereo si muove proprio seguendo
i vostri gesti e provate una sensazione di potenza mai provata prima.
Quando il pilota posa l’aereo delicatamente sull’acqua siete esausti e avete
la sensazione di aver passato un pomeriggio nella cabina dell’idrovolante, ma
sono passati solo 10 o 15 minuti.

215
Idrovolanti

Che cosa rende possibile questa magnifica esperienza? Proprio l’idrovolan-


te. Infatti qualsiasi altro aereo si trova in un aeroporto e solo una su diecimila
delle mamme che portano i propri figli sull’idrovolante che si trova sulla
passeggiata a lago andrebbe in un aeroporto per compiere la stessa esperienza.
È così che, per esempio, nel periodo natalizio del 2003, l’Aero Club Como
ha portato in volo 835 bambini, un’iniziativa culturale, didattica e di cono-
scenza del territorio che si è svolta nell’ambito dell’importante manifestazio-
ne “Città dei Balocchi”, organizzata da Daniele Brunati con il contributo degli
“Amici di Como”. A rendere esiguo il costo pro capite del volo in idrovolante
e a fare felici ogni anno centinaia di bimbi provvede l’importante sponsoriz-
zazione di Bianchi Group, generosamente decisa da Mario Pittorelli, una per-
sona a cui moltissimi piccoli comaschi, quasi senza saperlo, devono una delle
esperienze più belle della loro infanzia.

Corvatsch
Il tempo sulle Alpi non è proprio bello, ma sul Maloja c’è ceiling, come
evidenziano le telecamere che via web ci mostrano tutta l’Alta Engadina. Si
esce di casa, dopo 15 minuti si decolla da Como, dopo altri 35 minuti si atterra
a Samaden, dopo 25 minuti si prende la funivia e dopo altri 20 minuti eccoci
in cima al Corvatsch, sci ai piedi, ad affrontare la prima discesa, un’ora e
trentacinque minuti dopo essere usciti di casa e aver passato due dogane.

Place St. Michel


Il tempo sulle Alpi è bello e il Sempione è transitabile. Si esce di casa, dopo
15 minuti si decolla da Como con il Lake, dopo 3 ore e 30 minuti si atterra a
Le Bourget, via Sempione, Losanna, Digione, dopo 15 minuti si prende la
RER, dopo 20 minuti si scende in Place St. Michel, dopo 3 minuti si è al
livello stradale, dopo 2 minuti si può degustare un’ostrica e una coppa di
champagne o acquistare un libro antico in una bancarella sul lungosenna,
quattro ore e venticinque minuti dopo aver girato la chiave della porta di casa.
Provate a battere questo record usando Alitalia o Air France.

Lecco
Una persona deve andare a Lecco per importanti affari. Ha nevicato per due
giorni e le strade sono bloccate. I treni ci mettono ore. Le nubi sono basse e
sfrangiate, ma tra esse e la superficie del Lario la visibilità è decente e ha
smesso di nevicare. A metà pomeriggio saliamo sul Piper Super Cub. Dopo 13
minuti di volo a bassissima quota doppiamo il Capo Spartivento, a Bellagio, e
dopo altri 12 minuti il passeggero scende sul pontiletto della Camera di Com-
mercio di Lecco, dove ha dato appuntamento al suo interlocutore.
Il ritorno avviene all’imbrunire ed è molto suggestivo, avvenendo, oltre che
sotto un ceiling basso, tra le rive del Lario innevate fino al bagnasciuga e
costellate, come in un presepio, da un’infinità di fiochi lumicini.

216
IN VOLO SULL’ACQUA

VITA DI CLUB E DINTORNI

217
Vita di Club e dintorni

«Come hai incominciato?»


«Come ti è venuto in mente?», «Come hai incominciato?» Ogni pilota si è
sentito ripetere mille volte questa domanda, tanto densa di significati da asso-
migliare a quella che ci si fa tra adolescenti riguardo un’altra classica “prima
volta”. Trattandosi di un momento magico della vita, l’inizio dell’avventura
del volo si colora, a distanza di tempo, di tinte emozionanti.
Questa è la mia storia. Ho abitato a Como per buona parte della mia infanzia
e per tutta la mia adolescenza. Da piccolo, come moltissimi bambini di Como,
ho passato molto tempo tra i giardini pubblici e la zona dello stadio e del-
l’hangar. Mi ricordo - avrò avuto otto anni - di aver commesso il classico
errore di andare con la biciclettina sullo scivolo fin dentro l’acqua e, giunto
con la ruota sulle alghette del bagnasciuga, di aver fatto una spianata fino a
inzupparmi completamente.
Confesso che nelle migliaia di giri intorno allo stadio in moto che ho certa-
mente fatto, tra i 14 e i 18 anni, non mi ricordo alcun episodio o visione avente
a che fare con gli idrovolanti.
Il ricordo successivo riguarda la FIAT 850 che ho avuto a 18 anni appena
compiuti. Ogni volta che nevicava andavamo di notte tra il monumento dei
Caduti e Piazzale Somaini a fare le prove di testacoda, grazie al fatto che a
quell’ora la strada era completamente sgombra di auto parcheggiate e il traffi-
co inesistente. Con un’invitante distesa candida e intonsa davanti, prendeva-
mo una rincorsa di un paio di centinaia di metri, a partire dal monumento ai
Caduti; poi, tra la Canottieri e la Motonautica, un colpetto di sterzo a sinistra,
una bella tirata di freno a mano e via a girare come in un valzer, scivolando
sulla neve fino a davanti all’hangar. Era bello vedere gli armonici disegni
tracciati dai quattro pneumatici sul manto nevoso.
È proprio vero che ciò che hai sotto gli occhi tutti i giorni si amalgama nel
nostro cervello in un unico paesaggio indistinto e non riesci più a percepirlo,
finché un bel giorno succede qualcosa, suona un campanello, hai una visione,
ricevi uno stimolo e in quel paesaggio cogli all’improvviso qualcosa di diver-
so e nuovo. Questo succede con le cose e succede con le persone. Quel bel
giorno io l’ho vissuto all’età di 19 anni. Giunto forse per la decimillesima
volta davanti all’hangar, mi sono fermato, ho dato uno scrollone alla testa e mi
sono detto «Per Diana, nel centro della mia città ci sono degli aeroplani.»

218
Vita di Club e dintorni

Io ho vissuto in pieno l’epopea della motorizzazione. Dopo aver guidato da


piccolissimo la Topolino “Giardinetta” e poi la Seicento sulle gambe di papà,
da dodicenne “rubavo” per intere estati i motorini dei miei cugini più grandi; a
tredici anni ho avuto la possibilità, per strani casi della vita, di condurre varie
volte una più interessante Abarth 2300 S Coupé. Negli anni successivi, sem-
pre per casi stranissimi della vita, ho guidato assiduamente, seppure di nasco-
sto, una FIAT 850, che alternavo al motorino, un mezzo, quest’ultimo, che ho
inforcato il giorno stesso del mio fatidico quattordicesimo compleanno. Dopo
poche settimane che avevo compiuto 16 anni, ricevuta la patente della moto,
ho potuto togliermi il gusto di possedere un Motobi 125 Imperiale Special, la
moto di serie più potente dell’epoca, nella sua classe, con motore a quattro
tempi che girava a 9800 giri. Il giorno del diciottesimo compleanno sono
passato senza perdere tempo al Motobi 250 e, nel giro di un paio di mesi,
patente “B” in mano, alla macchina, prima una FIAT 850 poi una FIAT 128, la
mia prima a trazione anteriore. Una vita ancora giovanissima, insomma, ma
assolutamente dedita al motorismo in qualunque sua forma.
Tutto ciò per far capire il senso di sgomento che mi coglie quando, dopo
essere timidamente entrato in hangar a chiedere informazioni, scopro che
quelle fantastiche macchine che ho davanti agli occhi, con quei magnifici
motori e quelle eliche, avrei potuto incominciare a pilotarle già due anni
prima, ovvero a 17 anni (all’epoca età minima per pilotare un aereo).
Ma andiamo per gradi. Entrando, totalmente disinformato, in hangar, al mio
occhio di neofita una vera cattedrale della modernità, non so se ho a che fare
con una struttura civile o militare, non so che attività svolgano gli idrovolanti,
non so che c’è una scuola di volo, non so se per volare sia necessario acquista-
re un aereo, non so a che cosa poi sarebbe servito saper pilotare un aereo, non
so se sto per rendermi ridicolo con domande stupide sul fatto che un ragazzino
come me abbia l’ardire di voler pilotare un aereo. Dunque non so nulla di
nulla e spero solo di ricavare qualche informazione senza far figure.
Avete in mente quello che entra in una gioielleria o in un negozio di antiqua-
riato con l’intenzione di fare un regalino alla fidanzata, che identifica un
oggettino che pensa che possa essere al livello delle 100.000 lire che vuole
spendere e che si sente dire dal gentile commesso che quell’oggetto costa
“solo” 13 milioni e 700 mila lire? Quella prima volta nell’hangar sento di
correre quel rischio, una sensazione resa più acuta dalla visione, là in fondo,
del bimotore Piaggio P136, un oggetto che certamente non corrobora l’idea di
qualcosa che un ragazzetto possa “montare” usando l’argent de poche.
Il primo impatto, a livello umano, ce l’ho con colui che in seguito sarà il mio
istruttore: Pio Roncalli. Alla mia smozzicata domanda «Scusi... ma com’è
che... » lui mi squadra, fa un bel sorriso e mi dice «Sì, sì; quanti soldi hai in
tasca?» Io tiro fuori roba dalle tasche e - per quel che posso ricordare - raci-
molo una somma intorno alle mille lire o poco più. Mi diventerà poi chiaro
che il buon Pio, ex pilota di caccia della seconda guerra mondiale, è una vera

219
Vita di Club e dintorni

“bestia da elica”, la cui vita è un calvario in ogni istante in cui non si trova a
bordo di un aereo. «Bene - dice lui - bastano, bastano. Dài che andiamo a fare
un giro. Ma, senti, per curiosità, che lavoro fa tuo padre?» Intanto si dà da fare
a preparare un aereo, che in seguito conoscerò come il Piper PA 18 I-OLMO.
Poche parole in tutto. Lui ha visto nei miei occhi il guizzo dell’interesse per
il volo, io ho davanti a me una persona che, lungi dal trattarmi con sufficienza,
prova un gran piacere a trasmettermi l’interesse, anzi la gioia per quell’attività
che per millenni è stata il sogno dell’uomo. Ma soprattutto mi trovo davanti
una persona che mi spiega la cosa che avrei dato un braccio per sentirmi dire:
che chiunque, se lo vuole, può diventare pilota. Con un po’ di imbarazzo, mi
comunica che l’ora volo del Piper è stata proprio il giorno prima portata da
9000 a 12.000 lire, ma che la cosa è inevitabile per garantire la continuità
della scuola di volo in quel momento di inflazione galoppante.
«Per fare il brevetto ci vogliono 12 ore [tempo di volo richiesto per conse-
guire la licenza di primo grado], ma non preoccuparti che ti prepariamo a
pilotare l’aereo molto prima; vedrai che a sei o sette ore sei già per aria da solo
e nelle altre ore ci divertiamo.»
Con cautela mi prospetta anche qualche difficoltà nell’impresa di ottenere il
brevetto, che risiede tutta nel fatto che la materia “Navigazione” contempla
l’impiego di “numeri negativi”. In procinto di presentarmi agli esami di matu-
rità scientifica e alle prese con derivate e integrali, non capisco bene. Per me la
difficoltà è pensare che dovrei mettere mano a tutti i comandi che ci sono
sull’aereo e dare un senso a tutti i quadranti che si affollano sul cruscotto.
Confesso che del volo fatto quel giorno non mi ricordo nulla, se non l’esito
di carattere decisionale: «Questa è una cosa che devo assolutamente fare.»
Frastornato, ma, da modernista e motorista accanito, eccitato dall’idea di
poter vivere di persona l’emozione di pilotare un aereo, la sera racconto a mio
padre il tutto. Sono in apprensione. E se mi dicesse di no? Io ho deciso che
avrei comunque imparato a volare, anche di nascosto, anche facendo carte
false, ma il consenso paterno è un elemento che vale certamente la pena di
coltivare, anche solo per i vantaggi economici che può assicurare.
Mio padre, da adolescente, nel perfetto spirito degli anni Trenta, aveva un
sogno: diventare pilota di caccia. Aveva incominciato a volare sugli alianti del
GUF pochi mesi prima dello scoppio della guerra e della sua partenza, come
ufficiale volontario, per la Russia. Quasi terminati gli studi di ingegneria, era
stato assegnato al Genio, con suo profondo rammarico. Si deve dire che se
fosse stato preso in Aeronautica quasi certamente non sarebbe sopravvissuto.
Mio padre, entusiasta, mi dà via libera da tutti i punti di vista e stanzia
immediatamente la cifra necessaria alle operazioni. La mattina dopo sono al
Club a pagare, prendere i moduli per la visita all’IML, acquistare i libri di
testo, che divorerò in pochi giorni, e soprattutto a volare.
Il corso di pilotaggio è intensivo. Si fanno moltissimi voli di 5-8 minuti,
essenzialmente decolli e ammaraggi. Il volo, inteso come rettilineo e livellato,

220
Vita di Club e dintorni

salite, discese e virate, è considerato una condizione così naturale e semplice


da non richiedere una particolare istruzione. Gli allievi fanno il loro primo
volo da solista tra le 5 e le 8 ore (io, un po’ tardo, a 7 ore e 20 minuti; il mio
compagno di corso Ivo Noseda è decollato da solo a 5 ore e 40 minuti).
Nelle ore successive al decollo da soli, fino alle 12 richieste, si segue il
corso più “avanzato”, che finalmente può offrire qualche soddisfazione anche
all’istruttore; un volo tutto fatto di viti, tonneau, looping, chandelles, volo in
formazione. L’idea è che magari l’allievo non è proprio in grado di eseguire
tutte quelle manovre in modo perfetto, ma che il farle prima con l’istruttore
poi da solo è un modo per “sverginarsi” e “prendere su la mano”. L’altra idea
è che se poi l’allievo si mette in qualche guaio non importa. Anzi, è meglio,
così impara subito a conoscere i propri limiti e a tirarsi fuori dalle grane.
È evidente che quella scuola è la stessa da cui uscivano piloti di Reggiane
2000 o Spitfire “Combat Ready” con 10 o 20 ore totali di volo, così come è
evidente che gli standard dell’epoca appaiono oggi discutibili dal punto di
vista della sicurezza. Ricordiamo che nella storia dell’aviazione militare ci
furono periodi in cui la perdita di vite umane in combattimento era pari o
inferiore a quella che si registrava in addestramento.
Conservo un ricordo impressionante dell’esame di primo grado, una licenza
che abilitava al turismo nazionale senza passeggeri [oggi paragonabile all’At-
testato]. Era infatti un esame molto accurato e selettivo. La sola materia “Na-
vigazione” comportava quasi due ore di esame teorico, in cui era messo al
setaccio quel che avevo imparato su un libro di 300 pagine dedicato a quella
sola materia. Non c’era la fonia, dato che la radio non era presente sugli aerei.
La prova pratica la si faceva da soli, con il barografo. La cartina era allegata
agli atti dell’esame e sentenziava da sola l’esito.
A quei tempi il brevetto di secondo grado (l’attuale PPL) richiedeva che
l’allievo fosse atterrato su almeno 20 aeroporti diversi. La cosa era impossibi-
le per i nostri idrovolanti e quindi quel brevetto richiedeva un corso presso un
aeroporto. I pochi piloti che giungevano al termine del percorso tornavano poi
a Como con l’esaltante possibilità di portare passeggeri. Io, per fare un esem-
pio, ho avuto il brevetto di primo grado per dieci anni (con anche qualche
interruzione nell’attività di volo) prima di conseguire quello di secondo.
Avuto il brevetto completo di pilota privato, ovvero di secondo grado, il
primo problema per me è stato: scegliere la cavia che farà per prima da pas-
seggero; è stato un mio amico, a cui sono ancora grato per la fiducia.
Il secondo problema, nell’epoca di cui stiamo parlando, era che l’impiego di
idrosuperfici “segnalate” richiedeva 250 ore di esperienza di volo e l’uso di
idrosuperfici “non segnalate” 350 ore. Per la cronaca, sempre nella stessa
epoca non esistevano idrosuperfici segnalate. Dunque, appena conseguito il
brevetto, il momento in cui avrei potuto prendere l’idrovolante per andare a
pranzo in un ristorante su una riva o in fare voli di propaganda fuori dall’Idro-
scalo era ancora molto lontano.

221
Vita di Club e dintorni

La cosa, in sé terribile e in seguito profondamente cambiata, ha avuto anche


i suoi aspetti positivi. Infatti la limitazione allo svolgimento dell’attività idro
spingeva noi neobrevettati di secondo grado (l’attuale PPL) a buttarci in attivi-
tà non idro. Dunque con il neoacquisito Lake anfibio abbiamo accumulato
200 e più ore, quelle che ci separavano dal ristorantino sulla riva, nel girare
l’Europa e il Mediterraneo, nel fare corsi di basico strumentale, rally aerei e
ogni altra attività di perfezionamento al volo in generale. Nel frattempo non ci
negavamo qualche operazione idro avanzata, condotta di nascosto.
Raggiunte le 350 ore di volo totali (nel mio caso tutte su idrovolanti e anfibi)
ti sentivi una specie di semidio, non tanto per la capacità acquisita, ma quando
pensavi a quanto ti erano costate in termini di tempo e soldi!
In effetti quella legislazione non era del tutto irragionevole. Gli studi ameri-
cani e canadesi indicano infatti che il pilota idro è formato e “sicuro” quando
ha accumulato 500 ore di esperienza idro.
La legislazione successiva ha portato la soglia per poter operare su qualun-
que idrosuperficie a 120 ore, un’esperienza in realtà poco più che embrionale.
L’incongruenza di tutte le regolamentazioni italiane precedenti la più recen-
te, del 2003, è che per l’impiego di idrosuperfici era richiesta una certa espe-
rienza totale, ma non idro. Dunque uno che aveva 350 ore totali di cui solo 4 o
5 di volo idro, quelle fatte per avere il timbro sulla licenza, poteva liberamente
andare con un idrovolante su qualunque idrosuperficie, mentre io, avendo
fatto 349 ore tutte su idrovolanti, non potevo fare lo stesso. Una vera assurdità.
Ancora più assurdo che dal 1988 al giugno 2004 chiunque abbia potuto utiliz-
zare idrosuperfici con sole 120 ore totali e un modesto “passaggino” idro.
L’attuale regolamentazione impone, per l’uso di idrosuperfici occasionali,
un’esperienza su idrovolante di almeno 25 ore. Quell’esperienza è poca, ma la
strada è quella giusta. Finalmente il nostro ministero si è accorto che per
operare con un idrovolante su idrosuperfici serve esperienza su idrovolante.
La stessa legge introduce inoltre il sano concetto che per andare a operare su
idrosuperfici bisogna che qualcuno che ne è capace ti faccia vedere come si fa.
Dunque finalmente, dopo decenni, è previsto un corso per l’utilizzo di idrosu-
perfici, che deve essere svolto presso una scuola di volo approvata dall’ENAC.
In conclusione i piloti della mia generazione hanno fatto un corso di primo
grado avventuroso, hanno avuto grandi difficoltà a conseguire il brevetto di
secondo grado, si sono dovuti riciclare per anni in attività su aeroporti, dunque
come piloti “terrestri” anche se stavano usando un anfibio, per approdare solo
dopo questo lungo percorso alla facoltà di usare un idrovolante in tutte le sue
possibilità o anche solo per andare a mangiare in un ristorante sul lago.
Un percorso lungo e tortuoso e in molte fasi frustrante, ma che, con il senno
di poi, pur con tutte le sue incongruenze, non rinnego e rifarei, anche perché
forse è quello che mi ha evitato di incorrere in “inconvenienti” in quella fase,
tra le 100 e le 400 ore circa, che è la più critica nella vita di ogni pilota e
soprattutto dei piloti idro.

222
Vita di Club e dintorni

Scuole
L’idroaviazione si è affermata a Como negli anni Trenta proprio per la presen-
za delle scuole di volo militare e civile. Nel dopoguerra è rinata, ancora con la
funzione principale di formare piloti idro. Una sola differenza: prima della
guerra Como era una delle scuole di volo idro italiana e una delle tante euro-
pee. Dopo la guerra Como era - come è ancora oggi - l’unica scuola di volo
idro del continente per piloti dell’aviazione generale. L’attività della scuola è
la più importante svolta dal Club, per ore volate e significato strategico.
La lettura dei vari capitoli di questo libro mette in evidenza, attraverso molti
aneddoti, come ci sia stata un’evoluzione nel tipo di preparazione dei piloti e
nelle tecniche di insegnamento del volo.
Per farla breve, gli istruttori che avevano vissuto l’ultima guerra mondiale
tendevano a formare piccoli piloti di caccia e acrobati. Poi è arrivata la gene-
razione degli istruttori che insegnavano a usare l’aereo in modo preciso e
sicuro per fare brevi giri in zona laghi, che in effetti è l’attività che la maggio-
ranza degli allievi poi svolge. Ecco imporsi, a un certo punto, gli istruttori tutti
dediti a formare piccoli piloti IFR e di linea, i cui allievi hanno incominciato a
muoversi per il mondo facendo radionavigazione a un ottimo livello e comu-
nicazioni radio professionali. Un’altra categoria di istruttori ha valorizzato
l’aspetto idro e quindi la formazione di tanti piccoli bush pilots.
In ciascuna di queste scuole c’è del buono e tutte possono offrire all’allievo
un importante patrimonio di preparazione e conoscenza. Quando però un’im-
postazione è troppo spinta su un solo aspetto, eventualmente incrociando una
precisa vocazione da parte di un allievo, sorgono i problemi.
Il discorso si farebbe lunghissimo se volessimo riportare le mille e mille
avventure vissute nel corso di lezioni di volo. Qui basta sottolineare che la
scuola attuale del Club, sotto la direzione di Renato Carnabuci, con Franco
Cereda capopilota, Gabriele Ermecini, Paolo Buscajoni, Marco De Vitis e
Luca Solari istruttori, rappresenta una compagine collaudata, in grado di ad-
destrare all’impiego delle diverse tipologie di idrovolanti (scarponati e a sca-
fo) e di compendiare le diverse impostazioni di cui si è parlato sopra, così da
offrire, oltre ai minimi livelli di preparazione ed esperienza previsti per gli
esami, una preparazione più avanzata e specifica a diversi livelli, anche in
funzione delle inclinazioni dell’allievo.

223
Vita di Club e dintorni

Guerra fredda a Como


Un’avventura mancata... forse di poco

Primissimi anni Ottanta. Nientemeno che un astronauta e generale dell’aero-


nautica sovietica arriva a Como. L’evento è organizzato dall’Associazione
Italia-URSS e prevede un ricevimento in municipio con molte autorità.
In qualità di esponenti locali dell’aviazione siamo invitati anche noi. Faccio
subito sapere ai responsabili che saremmo lietissimi di offrire un volo in
idrovolante all’astronauta, che gli permetta di ammirare le bellezze della no-
stra zona. Dopo qualche giorno veniamo a sapere che l’offerta è stata molto
apprezzata dall’interessato, ma che non si sa se il volo potrà avere luogo per il
nutrito programma di impegni ufficiali.
Arriva il giorno. L’astronauta è condotto per le vie del centro in perfetta
divisa da generale sovietico, con “tappeto” di medaglie sul petto, ciò che fa
una certa impressione. Si va poi tutti in municipio. Dopo i discorsetti ufficiali
dai contenuti prevedibili (“da lassù è tutto più bello perché le divisioni politi-
che non sono così evidenti”, “lassù, con l’intero pianeta sotto il proprio sguar-
do, si desidera solo che tutti i popoli vivano in pace” e via declamando),
giunge il momento dei discorsi informali, con il bicchiere in mano. Il generale
è sempre accompagnato, ma proprio sempre sempre, da due “addetti cultura-
li” dell’ambasciata, che fanno anche da interpreti. Due tizi alti, di poche paro-
le, che non ridono mai e si scambiano tra loro monosillabi di tanto in tanto;
giacche grigie, con un leggero rigonfiamento tra l’ascella e il petto.
Mi avvicino al gruppo e mi presento. «Allora, so che avete ricevuto la nostra
proposta di far fare al generale un voletto sui nostri idrovolanti. Che ne dite?»
Non so se il generale parla inglese, ma comunque mi rivolgo anche diretta-
mente a lui in inglese dicendo la stessa cosa. Ciò indispone visibilmente i due,
abituati evidentemente a mediare ogni rapporto tra il generale e il mondo
esterno. Il generale è impietrito; si vede che vorrebbe dire qualcosa, ma si
trattiene. I due parlano fittamente tra loro in russo, e con il capo non fanno che
movimenti che indicano “no, no e poi no”. Infine il generale dice qualcosa a
denti stretti, al che uno dei due lo fulmina con lo sguardo, gli dice due parole
secche e infine si rivolge gentilissimamente a me: «Abbiamo esaminato atten-
tamente la vostra proposta e vi ringraziamo moltissimo, ma la cosa non è

224
Vita di Club e dintorni

possibile per ragioni di sicurezza. Sa, non possiamo rischiare nemmeno il più
piccolo inconveniente in un viaggio ufficiale».
La spiegazione è ragionevole, in realtà, ma tutto fa pensare che il generale la
pensi molto diversamente. Intanto mi chiedo a che cosa serva andare nello
spazio e diventare famosi se poi non si può fare un giretto su un Piperino,
quando lo si desidera.
Mi rivolgo allora ai responsabili italiani e ripropongo la cosa, comunicando
loro la sensazione che il generale desideri proprio godersi dall’alto le bellezze
del lago di Como. Loro tornano dagli “addetti culturali”, con i quali discutono
in modo impegnato per un paio di minuti. Il generale cerca di capire che cosa
stia succedendo, mi guarda e mi fa un sorriso un po’ enigmatico, ma scuote la
testa. Risultato finale: niet. Non si discute; nulla da fare.
Al termine della festicciola il generale mi saluta stringendomi energicamen-
te la mano fissandomi negli occhi.
Se solo lo avessero lasciato salire sul Piper... Perché proprio il Piper? Ma è
evidente: perché è un biposto e ci saremmo trovati in volo soli, io e lui (casual-
mente, quel giorno, sarebbe stato l’unico aereo in acqua). A quel punto sarei
salito senza dare nell’occhio verso il centro lago, come in un normale volo
turistico. Ma, girata la punta di Torriggia, avrei continuato la salita e avrei
imboccato la Val d’Intelvi, raggiungendo, attraverso la gola della Val Mara, il
lago di Lugano. A quel punto, indicando la città, avrei detto al generale «Swit-
zerland» e avrei atteso di capire se il generale si stava semplicemente godendo
il paesaggio oppure se qualche altra ideuzza gli stesse frullando in quei giorni
nel cervello, come qualche suo atteggiamento poteva suggerire a una mente
un po’ immaginifica come la mia. Non lo saprò mai.
Era qualche giorno che mi preparavo mentalmente a tutte le evenienze:
innanzitutto, colpito dall’enfatica adesione del generale alla proposta del volo
in idrovolante, avevo incominciato seriamente a valutare l’ipotesi che il gene-
rale volesse raggiungere la Svizzera per chiedere asilo politico. È vero che il
regime probabilmente teneva moglie, figli e la vecchia zia del generale quali
ostaggi, ma non si sa mai. Magari la moglie era la segreta amante di un alto
funzionario, durante le passeggiate cosmiche dell’astronauta, e il generale,
sapendolo, immaginava che il regime non avrebbe portato l’affondo sulla sua
famiglia. Magari il generale aveva segretamente organizzato una crociera sul
Mar Nero, da Odessa, della famiglia e proprio quel giorno l’intera sua fami-
glia si trovava nelle viuzze di Istambul, dopo essere scesi dalla nave per fare
qualche acquisto, e stava solo aspettando il segnale per dileguarsi, aiutati da
un ex agente del servizio segreto, compagno di scuola del generale. Oppure,
semplicemente, poteva averne talmente piene le tasche da pensare di trovarsi
la sua soluzione individuale. Chissà.
Ma che fare se eventuali guardie del corpo o agenti (non sapevo che sareb-
bero stati “addetti culturali”) si fossero fatti portare in volo con un altro aereo
del Club? Come seminare l’altro idrovolante? Ho pensato a varie soluzioni,

225
Vita di Club e dintorni

ma non le espongo, perché un giorno potrei trovarmi a doverle adottare. Che


fare se il generale avesse voluto veramente dirottare in Svizzera e avesse
pensato, erroneamente, che io volessi oppormi?
Se avesse voluto dirottare, sarei dovuto scendere sul lago nella baia di Luga-
no, chiamando immediatamente la polizia e i mass media, per fare sapere a
tutto il mondo che cosa era successo, come forma di protezione mediatica del
generale e di me stesso («Ormai è di dominio pubblico... non possiamo più
farci niente») oppure atterrare in un campo militare, per esempio Ambri, ac-
cettando il leggerissimo danno ai galleggianti causato dall’operazione, ma
facendo sparire subito nelle caverne dell’Aeronautica svizzera aereo, generale
- ormai rifugiato politico - e me, fino alla conclusione dell’affaire?
Infine un pensiero: non è che quelli, dopo l’eventuale fattaccio, se la sareb-
bero presi con me? Mi ricordo che, a questo proposito, avevo pensato che
comunque l’URSS era una grande potenza che certamente applicava il princi-
pio che quando la frittata è fatta... è inutile perdersi in quisquiglie e rovinarsi
l’immagine per una piccola vendetta. Il KGB e l’Armata Rossa, dopotutto,
non potevano essere pensati come coschette di mafiosi. Comunque, al di là
delle conseguenze, non avrei potuto non portare il generale in Svizzera, se me
lo avesse chiesto, per elementari ragioni etiche. E non mi dispiaceva per nulla
l’idea di trovarmi nella condizione di farmelo chiedere.
Non che ritenessi probabili o possibili questi e altri scenari, ma era diverten-
te pensarci. E gli atteggiamenti del generale mi hanno dato l’idea che non ero
il solo a fantasticare su questi temi.
Chissà che ne è stato del generale e dei due giannizzeri.

226
Vita di Club e dintorni

Conca di Crezzo
La tragedia nei cieli lariani.

Sento la notizia al telegiornale delle otto e dopo una quindicina di secondi


squilla il telefono. Solo una domanda: «Andiamo?» È Giorgio Porta. «Certo,
ti passo a prendere».
È così che ci ritroviamo, con una radiolina in mano, per sentire le ultime
notizie sulla caduta dell’ATR 42, sui monti del Triangolo Lariano. Incomin-
ciamo a raccogliere informazioni. Inizialmente ci viene riportato solo il “sen-
tito dire”, ma a un certo punto arrivano le prime testimonianze dirette: «un
rumore fortissimo», «una scia di fuoco che ha percorso tutto il cielo» (testi-
monianza di una visione prodotta da un cervello sovraeccitato, del tutto errata,
come in seguito si saprà).
La caduta dell’ATR 42 deve avere interessato i monti più orientali del Trian-
golo Lariano, ma non si capisce bene la località. Dopo un’ora di peregrinare
incontriamo una colonna militare e l’ufficiale ci chiede indicazioni per una
certa località. Giorgio prende la situazione in mano, come è suo solito: «Ab-
biamo appena perlustrato quella zona, non c’è nulla; piuttosto, è più probabile
che laggiù...».
Dopo una decina di minuti Giorgio, connotato, per carattere, da un’inusitata
propensione per il comando, unita alla tendenza a far valere in modo molto
deciso sue eventuali credenziali, si è fatto prendere completamente la mano,
come è ugualmente suo solito: mollata la macchina, siamo stati immediata-
mente aggregati alla colonna.
Io me ne sto seduto dietro, tra giovani militari assonnati; lui sta davanti,
mezzo in piedi, sporto fuori dall’ampio finestrino, indicando a destra e a
sinistra dove andare, dando ordini e ridirigendo in altre direzioni mezzi di
varie armi che intanto si incontrano e che vagano per i monti e le valli della
zona. «No, no; voi andate di là»; «Tenente, può chiedere via radio le fotoelet-
triche?»; «Bisogna incominciare a perlustrare i prati e i boschi con gli uomini
in fila a 10 metri uno dall’altro...»; «Bengala, chieda di portare i bengala».
Gli mancano solo gli occhialoni sulla fronte e un briciolo di statura per
assomigliare alla “Volpe del deserto”, tanto che penso che nei prossimi giorni
lo chiamerò “Volpe del Triangolo Lariano”.

227
Vita di Club e dintorni

Dopo ormai quattro ore di nulla-di-fatto convergiamo in una specie di cam-


po-base che pullula di gente di ogni tipo e autorità di ogni corpo dello stato,
della regione, delle amministrazioni locali, dei vigili del fuoco, più ogni sorta
di esponente di gruppo volontario. Per il momento gli unici che sanno che
cosa sia un aereo siamo noi.
A un certo punto giungono sulla scena il marito di una hostess, accorso da
Milano, comprensibilmente stressato da un’attesa che non lascia presagire
nulla di buono, e altre persone aventi a che fare con la compagnia aerea, con le
agenzie di viaggio implicate, con il consolato tedesco (i passeggeri sono tutti
tedeschi). Non mancano giornalisti e una troupe televisiva, il cui cronista è
quasi linciato da una persona che ha presumibilmente perso un parente stretto
e alla quale lo stesso cronista non la smette di fare domande inopportune.
La mattina dopo, le prime luci dell’alba rivelano ai mezzi del SAR la trage-
dia in tutta la sua drammaticità: l’aereo, tutti i componenti dell’equipaggio e i
passeggeri si sono ridotti a pezzetti e brandelli in un urto di inaudita violenza.
Persone dell’Aero Club Como sono cooptate dal Procuratore della Repub-
blica nelle prime fasi dell’inchiesta e fanno sì che le scatole nere siano date
all’AIB (Accident Investigation Board) inglese, la più prestigiosa struttura
d’indagine sugli incidenti aerei, per i necessari esami.
Detta così, la cosa può sembrare normale, ma non lo è per nulla. All’AIB i
preziosi oggetti giungeranno dopo che noi, piccoli pilotini di aero club, abbia-
mo vinto una piccola e formalmente cortese, ma aspra battaglia con i funzio-
nari della compagnia aerea, a cui letteralmente strappiamo le scatole nere con
la forza, ricorrendo a tutta l’autorità del Procuratore. Questi solerti funzionari
volevano invece portarle via e farle esaminare da non meglio specificati “esper-
ti” in Italia (paese della compagnia aerea proprietaria dell’ATR 42, sul cui
territorio è presente - tanto per dire - Ustica) o in Francia (paese del costrutto-
re dell’ATR, ove le aziende aerospaziali - sempre tanto per dire - sono autoriz-
zate dal governo a scaricare quali costi le tangenti pagate all’estero a ministri
e funzionari, nell’ambito di dichiarati rapporti di corruzione-concussione).
Nel corso del pomeriggio a un certo punto tutti si mettono a correre e a
parlare concitatamente tra loro. «Sta arrivando... sì sta arrivando...». Quando
la persona annunciata entra nell’ampio locale la scena si congela. Tutti si
immobilizzano, come se giocassero a “mosca cieca”. Ci sono situazioni in cui
il carisma fluisce, si espande, lo si può toccare, avvolge tutto e tutti. La scena
è quella dei santini di don Bosco, in cui il celebre educatore è rappresentato a
braccia aperte, avvolto da un’aura, con gli occhi al cielo, circondato da turbe
di bambini in adorazione. Proprio così appare la sala comunale in cui è basato
il quartier generale delle operazioni all’ingresso del cardinale Martini.
Il vedere alti rappresentanti dello stato e delle Forze Armate genuflettersi e
baciargli l’anello dà un’indicazione di quanto forte sia la personalità dell’alto
prelato e quanto debbano avere inciso le sue meritevoli opere, anche se lascia
a bocca aperta un “liberal” come lo scrivente.

228
Vita di Club e dintorni

L’idea grezza che ci siamo fatti dell’incidente deriva dall’aver udito decine
di racconti di attraversamenti delle Alpi condotti con piccoli bimotori a elica
da piloti come l’ex presidente Musumeci o altri che sono impegnati ogni notte
nella particolare attività definita informalmente con il nome di “Overnight”.
Questi piloti trasportano in ogni tempo meteorologico pacchetti e piccole
merci tra gli aeroporti del Norditalia e le città dell’Europa centrale, fino al-
l’Olanda. Sono piloti che non possono salire facilmente oltre la fascia in cui
sono presenti ostacoli e terribili fenomeni meteorologici, come la grandine, la
forte turbolenza o la pioggia sopraffusa, e che hanno imparato negli anni ad
affrontare quell’ambiente ostile. Abbiamo la sensazione che sarebbe stato
meglio se all’ATR fossero stati destinati piloti con quel tipo di esperienza.
Nei mesi seguenti Franco Panzeri, lo scrivente e l’istruttore Albonico assu-
mono compiti di vario genere nell’ambito dell’inchiesta sull’incidente, impo-
stata dal procuratore della Repubblica di Como Mario Del Franco. Ciò può
apparire strano, in quanto esistono al mondo persone enormemente più com-
petenti, da un punto di vista tecnico, di noi piloti di aero club, ma la nostra
presenza è stata giudicata opportuna per l’essere scevri da deformazione pro-
fessionale e presumibilmente non toccati da alcun interesse nel settore.
È impressionante vedere la ricostruzione al computer delle fasi finali del
volo, generata in base ai dati del Flight Data Recorder (coperta da segreto): lo
stallo, la picchiata, l’impatto.
È istruttivo tradurre (questo è il mio compito) migliaia di pagine di docu-
menti e di rapporti su incidenti o inconvenienti accaduti ad ATR 42, relazioni
sulla formazione di ghiaccio su aerei di quella categoria, parti dei manuali di
volo, carteggi tecnici relativi a quell’aereo.
È tragicamente emozionante leggere le trascrizioni dei dialoghi in cabina,
tratte dal Voice Data Recorder, sincronizzate con le trascrizioni delle comuni-
cazioni radio dei due piloti, dei controllori e dei piloti degli aerei che volavano
nell’area nei minuti precedenti e seguenti l’incidente. Da quelle frasi scritte
emerge uno scenario complesso, ma anche i pensieri e la diversa esperienza e
i diversi atteggiamenti dei piloti presenti sulla scena.
Il poter analizzare così nei dettagli un evento di quel genere è un’esperienza
unica per un pilota e particolarmente istruttiva per il gestore di un’attività di
volo, in quanto insegna a riconoscere la catena di piccoli e grandi eventi che
può portare a un incidente.
Fa capire che vi sono incidenti che hanno origini in comportamenti e in
decisioni molto lontani nel tempo e nello spazio dall’evento tragico.
E soprattutto fa capire che, oltre alla capacità, l’umiltà è essenziale per la
sicurezza. Capacità e umiltà del progettista, del costruttore, dell’esercente, dei
manutentori, dei piloti e di ogni altro operatore avente a che fare in qualche
modo con il volo: questo è ciò che fa star su gli aerei.

229
Vita di Club e dintorni

Volare gratis
Ebbene: si può.

Il volo è, in generale, un’attività costosa. Gli aeroplani costano, la manuten-


zione anche, le infrastrutture necessarie per il loro impiego sono ingombranti
e oberate di una quantità di costi, la benzina si vende a un prezzo parecchio
più alto di quella per le automobili, per non parlare delle assicurazioni. Dietro
a ogni aeroplano sta un immenso e costosissimo apparato tecnico e burocrati-
co che ne garantisce la “navigabilità”. Anche imparare a volare costa molto di
più che imparare a guidare la macchina.
Insomma, accumulare 500 o 1000 ore di volo non è solo questione di tempo,
ma anche di un notevole investimento economico.
Eppure c’è il modo di volare gratis, se lo si desidera, e ora vi spiego come.
Sono considerato, non so se a ragione o a torto, un’autorità nel mondo del volo
idro, ma la mia fama come esperto nelle tecniche di pilotaggio degli idrovo-
lanti è piccola cosa rispetto alla fama che godo nell’esercizio di una tecnica
particolare e molto raffinata: il volare gratis. Questa fama è meritatissima e mi
fa piacere condividere con il vasto pubblico dei piloti le conoscenze e l’espe-
rienza che consentano anche ad altri di poter esercitare l’attività di volo in
questo modo particolare.
Ma prima di entrare nel vivo dell’argomento, voglio raccontare una storiel-
la. Chi, come me, ha incominciato a volare una trentina di anni fa e aveva
meno di 22 anni, beneficiava di un contributo statale per il conseguimento del
brevetto circa pari al costo del brevetto stesso. Ciò significa che il brevetto, a
quei tempi (fine anni Sessanta-primi anni Settanta), lo poteva ottenere sostan-
zialmente gratis qualunque giovane lo desiderasse. Nel mio caso specifico,
tuttavia, non ho potuto beneficiarne per un semplice fatto: quando, assaporan-
do la gioia del numero di ore di volo supplementari che mi sarei potuto per-
mettere, l’ho detto entusiasticamente a mio padre, mi sono sentito investire da
un ciclone: «Vergognati. Non ti azzardare a toccare una lira di quel contributo.
Magari è un contributo limitato e tu, usandolo, forse togli la possibilità di
volare a qualche ragazzo che non ha, come te, una famiglia che gli può pagare
il brevetto. Quindi, o lo rifiuti oppure, se proprio ti arriva per forza, lo devolvi
al Club per fare volare qualcuno che ha meno possibilità di te.»

230
Vita di Club e dintorni

Quella è stata certamente la prima e probabilmente l’ultima volta che, po-


tendo, non ho volato gratis. Ma molto tempo sarebbe passato prima che un’al-
tra occasione si ripresentasse.
Per molti anni sono infatti rimasto un pilotino di primo grado e per qualche
tempo ho anche sospeso l’attività, per motivi di lavoro, così che il brevetto di
secondo grado lo ho ottenuto solo dopo 10 anni, nel 1980.
In quel momento il Club era reduce da un lungo e profondo momento di
crisi ed era in fase di completa ristrutturazione, tanto che era anche privo di
istruttore, così che lo stesso corso che ho seguito per conseguire il brevetto di
secondo grado è stato interamente autodidattico (con un bel risparmio - biso-
gna dirlo - sul costo dell’istruttore; non volo gratis, in questo caso, ma volo
auto-istruzionale a tariffa da solista).
Ottenuto il brevetto, in una situazione di Club come quella, l’intraprendenza
è immediatamente premiata. «Sai volare? Sembri affidabile: vai!» È così che,
dieci anni dopo il primo volo, con il brevetto di secondo grado da poco in
mano, ho potuto assaporare per la prima volta nella mia vita il piacere di
volare gratis: facendo voli di propaganda. Stazionando all’hangar per pome-
riggi, sabati e domeniche, ho potuto incominciare ad accumulare 10, 20, 50,
100 ore di volo portando in aria famigliole, turisti, appassionati.
L’aviazione, nel frattempo, mi era entrata proprio nelle vene e ho incomin-
ciato a leggere moltissimo, soprattutto libri americani su ogni specialità del
volo. Inoltre ho incominciato a fare viaggi all’estero, grazie al neoarrivato
Lake Buccaneer.
In poco tempo ho accumulato un centinaio di ore su quell’aereo, metà delle
quali fatte in un raid di un mese con alcuni amici in Lapponia. In quell’epoca
ho avuto fortuna. La mia piccolissima, ma per il Club relativamente grande,
esperienza su quell’aereo ha fatto sì che venissi indicato come “pilota di sicu-
rezza” o “accompagnatore” di altri piloti meno esperti, ma desiderosi di vola-
re sull’inusuale macchina a scafo centrale. È così che in un annetto ho accu-
mulato, oltre al centinaio di ore fatte per mio conto, altre duecento ore - fatte
gratis - come accompagnatore e “perfezionatore” di altri piloti, funzione pe-
raltro estremamente educativa e propedeutica per l’uso del particolare aereo.
In effetti non c’è nulla che insegna di più che il vivere attivamente insieme ad
altri esperienze di volo.
L’essere un pilota molto attivo, casualmente senza molta concorrenza, mi ha
permesso di fare molte interessanti esperienze. Per esempio essere designato
come quello che deve portare a Parigi il Lake per farlo ispezionare dalle
autorità francesi per l’omologazione di quel tipo di aereo in Francia. La mis-
sione era stata magnificamente venduta dall’allora presidente Musumeci e
rese disponibili al Club buona parte dei fondi per acquistare, sempre in Fran-
cia, un secondo Lake, l’I-COMM. Un’altra attività tipica era quella di andare
in giro per le coste italiane a fare manifestazioni e a portare in volo turbe di
passeggeri, iniziative sempre organizzate dal vulcanico presidente Musumeci.

231
Vita di Club e dintorni

L’attivismo come pilota e l’accumulo di conoscenze, nel frattempo, mi ha


anche fatto diventare consigliere dell’AOPA Italia, collaboratore della rivista
“Volare” e di alcune riviste straniere.
Raggiungere una certa esperienza e garantire la disponibilità del proprio
tempo, in generale, permette di fare gratis una buona metà delle ore, il che è
già mica male. Dopo aver raggiunto il migliaio di ore di esperienza idro,
finisci per essere considerato - a torto o a ragione - un esperto, soprattutto se
sei riuscito ad affiancare alla pratica di volo una discreta conoscenza teorica,
frutto di lunghe letture e di studi.
Capita dunque che qualche operatore, bisognoso di consulenza, ti assoldi
per andare ad acquistare un aereo. La cosa è particolarmente lunga e comples-
sa se l’operatore non ha le idee chiare su che tipo di aereo acquistare, cosa
giustificatissima e quasi inevitabile nel campo del volo idro, in cui la scelta di
un aereo è sempre un compromesso derivante da valutazioni estremamente
articolate, un campo in cui anche operatori esperti fanno talvolta gravi errori.
È così, ovvero andando a cercare idrovolanti da acquistare, in particolare
per i fratelli Regine di Napoli, che ho potuto introdurmi nell’affascinante
mondo dell’aviazione nordamericana e fare un gran numero di ore di volo e
una ventina di passaggi su macchine che non mi sarei mai sognato di pilotare
basandomi sulle mie sole forze finanziarie, tra cui i Cessna 180 e 206 idro e
anfibi, i Maule, i De Havilland Beaver e Otter, il Cessna 208 Caravan, su cui
ho volato per quasi una settimana, in compagnia del capopilota e del direttore
commerciale della Cessna. Ho anche potuto pilotare dal posto di sinistra, per
una mezzoretta, il Canadair CL 215, facendo decolli e ammaraggi e scooping
(operazione di carico dell’acqua, seguita dal rilascio) sul San Lorenzo. Il tutto
- è inutile dirlo - gratis.
A queste attività se ne sono poi affiancate molte altre, che operatori per cui
facevamo consulenze o lo stesso Club richiedevano: voli di consegna di aerei
acquistati o venduti, voli di omologazione di nuovi aerei (per esempio sul
Cessna 180 ho fatto ben 16 ore, alcune con il funzionario RAI, solo per il
rilascio del CN, l’omologazione di una particolare marmitta e il rilascio del
certificato acustico), voli dimostrativi di vario genere, sempre gratis.
A questi si devono aggiungere moltissimi voli e altre centinaia di ore volate
nell’ambito di due importanti attività: la scuola di volo, di cui ho avuto per
alcuni anni la direzione, e i voli per film e spot pubblicitari. L’idrovolante
- questa è una vera fortuna - è una macchina rara e molto ambita. Dunque ho
avuto l’occasione di portare i nostri idrovolanti, per film e spot, estremamente
redditizi per il Club, in varie parti d’Europa e del Mediterraneo, fin nel Mare
Egeo, venduti a chi ne aveva bisogno per i suoi film. Il tutto sempre gratis.
Giunto ad avere 2000 e poi 3000 ore su idrovolante e ad avere scritto un
libro sulle tecniche di pilotaggio di questi strani mezzi aerei, poi tradotto in
inglese e francese, ho incominciato ad essere considerato un esperto e quindi
ho scoperto che c’è gente che ambisce a volare con me per farsi tramandare

232
Vita di Club e dintorni

trucchi e trucchetti di questa attività. Anche questo fa sì che possa volare


parecchio come pilota di sicurezza e quindi - è inutile dirlo - del tutto gratis.
In conclusione, il sottoscritto, in quasi 35 anni di varia e più o meno intensa
attività come pilota privato, ha volato su moltissimi tipi di idrovolanti più di
3000 ore, di cui due terzi gratis.
La ricetta finale per volare gratis è dunque molto semplice: all’inizio volate
molto, leggete e studiate moltissimo, ciondolate giorno e notte dove girano
eliche, stazionate negli hangar, parlate molto con i piloti più esperti di voi,
cogliete ogni occasione per volare, anche sui sedili posteriori, da cui si impara
moltissimo. Non perdete tempo in stupide diatribe e nelle tipiche dinamiche
interpersonali da club, sovente avvilenti, che presto distruggeranno il vostro
piacere di volare, ma pensate solo al volo. State vicino a - e fidatevi di -
persone che parlano solo di aerei e di volo.
Ma soprattutto: non fate mai il passo più lungo della gamba e non danneg-
giate mai un aereo, perché questo è il più grande ostacolo alla possibilità di
volare gratis.
Evitate anche di farvi la fama di pilota incostante nel rendimento, che di
tanto in tanto abbassa la guardia e fa qualche stupidata, perché questo limiterà
la vostra possibilità di volare gratis alle sole missioni più “facili”. Ricordate
che ci vogliono anni per costruirsi un’immagine di pilota affidabile, pochi
secondi per distruggerla e sono necessari ancora anni per ricostruirla.
Inoltre, non fatevi eleggere alla carica di consigliere o ad altra carica nel
Club, perché in quella posizione le vostre possibilità di volare gratis si ridur-
ranno fortemente. Molti soci, infatti, vi accuseranno - non conta se giustamen-
te o ingiustamente - di approfittare della vostra carica per non pagare i voli,
anche quando i voli sono già pagati o strapagati da altri, anche quando fate
voli di servizio risparmiando al Club il costo di un pilota professionista, anche
quando mettete la vostra capacità e il vostro tempo al servizio del Club nei
voli di propaganda.
Se non incorrete nelle casistiche esaminate che limitano la vostra possibilità
di volare gratis, all’inizio riuscirete a fare circa un’ora di volo gratis ogni 4 o 5
che fate a pagamento; se ci date dentro, presto potrete arrivare a fare un’ora
gratis per ogni ora a pagamento. Alla lunga finirete per fare 5 o 6 ore gratis per
ogni ora pagata, sempre che la cosa vi interessi, naturalmente.
Ciò facendo renderete anche un bel servigio a chi ha interesse a far girare gli
aerei che usate, in quanto producete attività di volo che senza di voi non si
farebbe o che richiederebbe l’assoldamento di un pilota addirittura da pagare.
A proposito, se uno vola tanto, anzi tantissimo gratis, forse prima o poi
potrebbe venirgli in mente di mettersi a farlo per mestiere e quindi di inco-
minciare a farsi pagare. Il consiglio di un vecchio lupo di aero club ai dirigenti
è dunque: se un socio vola molto gratis, fategli i ponti d’oro. Con tutta proba-
bilità vi porterà moltissime redditizie e soprattutto sicure ore di volo... gratis.

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Vita di Club e dintorni

In transito all’Idroscalo
Como, crocevia di avventurosi piloti... ma non proprio tutti “top gun” idro.

All’Idroscalo di Como giungono migliaia di persone ogni anno. Molti sono


piloti e qualcuno arriva in aereo. Questi ultimi, trattandosi solitamente di
esperti piloti idro, hanno in genere storie interessantissime da raccontare.
Mi vengono in mente alcuni visitatori che sono giunti all’Idroscalo Interna-
zionale con i loro Lake.
Uno è lo svizzero Marc Wertmüller von Elg, che giunge a Como da Yverdon
con il suo Lake Buccaneer con a bordo mamma e nonna. La curiosa compa-
gnia sta facendo un giro in Europa, al termine del quale la nonna verrà lasciata
a Nizza o Montecarlo. Il Lake è malandato e oggetto di ripetute riparazioni
nella nostra officina.
Un altro è il francese Xavier de Pramont, che giunge a Como con moglie e
tre figli, la figlia più anziana di tre anni, il figlio più giovane di 10 giorni. È
emozionante, all’aprirsi del portello del Lake Buccaneer, vedere la mamma
intenta ad allattare teneramente il figlioletto appena nato.
La famiglia è all’inizio di un viaggio di cinque anni che la porterà dalla
Russia alla Groenlandia, all’Alaska, alla Patagonia, con attraversamento del-
l’Atlantico. I bimbi “vengono su” nell’aereo-carrozzone, dormendo sovente
nella tenda montata su una spiaggia sperduta e vivendo ogni giorno un’avven-
tura. Crescono per settimane o mesi con bimbi Inuit e con i bimbi di tribù
amazzoniche, che insegnano loro come vivere di ciò che offre il grande fiume
e la foresta. Hanno i genitori quale elemento centrale di quella piccolissima
società che si muove per mari e continenti sul minuscolo Lake.
Un altro visitatore è un tedesco che giunge a Como con un Lake EP nuovo
fiammante. Il nostro meccanico Danilo gli fa notare un’inusuale perdita di
olio sulla cappottatura e si offre di dare un’occhiata. «L’aereo è appena uscito
da una “100 ore” eseguita da una ditta tedesca e quindi non può essere meno
che perfetto. Nessuno lo tocchi.» Al volo successivo il motore pianta, avendo
perso tutto l’olio (tubo dell’olio non serrato e olio perso quasi interamente
nell’attraversamento delle Alpi). Il tedesco scende in un prato vicino a Merate
e danneggia l’aereo, che poi verrà portato a Como con un elicottero.
Lake people: gente curiosa.

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Vita di Club e dintorni

Idroaeroturismo
nella regione dei laghi prealpini
L’idrovolante è uno dei mezzi del futuro per i trasporti di interesse turistico
in area lacustre. Esso consente di passare con facilità e rapidità dall’ambiente
terrestre a quello acquatico a quello aereo.

Ogni zona d’Italia, il paese che annovera sul suo territorio il 70% del patrimo-
nio artistico mondiale, consente di fare interessanti voli di propaganda.
La zona di Como e del Lario offre la possibilità di fare voli che permettono
di apprezzare il paesaggio lacustre, quello montano, quello di pianura e innu-
merevoli forme di diversa e sempre interessantissima urbanizzazione: dalle
vestigia romane e medievali a quelle rinascimentali, a quelle della Rivoluzio-
ne industriale, a quelle del Razionalismo, tipiche del Novecento. Dalla torre di
guardia alle ville più sontuose, dai resti delle culture preistoriche all’architet-
tura di montagna della civiltà contadina; si può vedere di tutto dall’aereo in
una regione come la Lombardia e in generale nella fascia prealpina e alpina. E
con l’idrovolante si ha anche il vantaggio di potersi fermare lungo il percorso,
ove c’è acqua, ovvero pressoché dappertutto nella nostra zona.
Un consiglio: usate un aereo lento. Si vede meglio e di più.

Il giro classico
Il meglio del lago e dei monti lariani
Da più di settant’anni i visitatori del nostro territorio sono portati a fare il
“giro in idrovolante” qui di seguito descritto, che è il più “popolare”, consen-
tendo di sorvolare le più rinomate località del Lario.
Dopo il decollo da Como il passeggero può vedere, sulla destra, Villa Geno
e le ville private che sorgono appena a nord. Subito dopo lo sguardo si deve
muovere velocemente tra l’abitato di Blevio, a destra, e la conca di Cernobbio,
a sinistra, con Villa Erba, Villa d’Este e Villa Pizzo, dai tenui colori.
Proseguendo, a destra appare la sfilata di ville tra Blevio e Torno, tra cui
Villa Troubetzkoy, Villa Cademartori, Villa Roccabruna e Villa Taverna. Tor-
no appare come un magnifico paesino lacustre, con la piazza, il porticciolo, la
chiesa, le ville a lago dei reali d’Arabia e gli alberghi e ristoranti.

235
Vita di Club e dintorni

Subito dopo il lago si allarga e le rive appaiono lontane. All’estrema destra


si intravvede la suggestiva Villa Pliniana, sede della celebre fontana a sifone,
già descritta da Plinio, preceduta dalla bella “Plinianina”, con archetti in stile
veneziano.
Sulla sinistra lo sfondo è costituito dalla “megalopoli” di Moltrasio-Urio-
Carate-Laglio-Torriggia, una zona intensamente e continuamente - ma molto
piacevolmente - inurbata, ove la fascia a monte è costituita dalla parte povera
degli antichi villaggi, in qualche punto devastata da costruzioni-mostro mo-
derne, mentre la parte a lago è un misto di ville e di piccoli e antichi borghi
portuali. Tra le ville più belle vi sono la Passalacqua di Moltrasio e il cosiddet-
to “Castello” di Urio, sede di incontri internazionali dell’Opus Dei.
A Laglio, nel cimitero che si affaccia sul lago, la curiosa “Piramide”, tomba
dello studioso lituano Joseph Frank, di nobile famiglia, che elesse il Lario
quale sua definitiva dimora dopo avervi a lungo soggiornato.
Sulla destra si stagliano invece, nel verde, gli isolati paeselli di Faggeto e
Pognana, con frazioni montane sperdute, che si immaginano a ragione rag-
giungibili lungo difficili e tortuose strade di montagna.
La punta di Torriggia è detta dai piloti “Venturi”, un termine fisico-ingegne-
ristico che indica il restringimento di una condotta, un luogo sede di speciali
fenomeni fluidodinamici. In effetti nel “Venturi” lariano qualcosa succede
sempre: turbolenza, lago increspato da una brezza “che c’è solo lì”. Insomma,
lo stretto di Torriggia può ben essere identificato come lo “Scilla e Cariddi del
Lario”. I piloti che conducono i turisti in un volo di propaganda conoscono
bene le caratteristiche di quel tratto e cercano, con impercettibili movimenti
della cloche, di neutralizzare gli spostamenti indesiderati dell’aereo provocati
dalla turbolenza, per favorire il conforto dei passeggeri.
Passato il Venturi, il paesaggio cambia decisamente: l’inurbamento conti-
nuo lascia il posto a crinali ricoperti di boschi che si gettano a picco nelle
acque del Lario, interrotti solo da alcuni suggestivi paesini dai contorni molto
ben definiti. A destra Careno, con la ben visibile chiesetta romanica, e Nesso,
dominato da un antico castello, con l’orrido, la cascata, che si vede in fondo
alla profonda fenditura per uno o due secondi, e i due ponti, uno dei quali
risalente a epoca romana. A sinistra si trova l’unico - in quel tratto - paese di
Brienno, letteralmente abbarbicato alle ripide pareti, ove fa bella mostra di sé
un’antica filanda, la cui ciminiera è romanticamente rivestita di rampicanti.
Eccoci ora alla punta della Cavagnola, la porta di ingresso della parte cen-
trale del Lario, antica sede di un fortino e importantissimo punto di osserva-
zione. A sinistra c’è Argegno e l’imbocco della Val d’Intelvi (ove è possibile
proseguire per un altro itinerario, che porta sul Lago di Lugano).
La svolta oltre il crinale della Cavagnola è da vero choc. Infatti, all’improv-
viso, si apre il glorioso scenario del Centro Lago. In un batter d’occhio abbia-
mo innanzi a noi, da sinistra: l’isola Comacina, la punta di Balbianello, lo
sfondo del Legnone e del Legnoncino, la punta di Bellagio, l’incredibile vista

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Vita di Club e dintorni

“di sfilata” di Lezzeno, il paese più lungo del lago, composto da innumerevoli
frazioni, la Grigna.
In genere si prosegue proprio lungo la costa di Lezzeno fino a Bellagio
(anticamente Bilacus, un nome che evoca la divisione del lago in due rami).
Qui si tiene l’aereo un po’ storto e inclinato a destra, per consentire una
migliore visione delle ricchezze architettoniche e paesaggistiche di una delle
più rinomate località turistiche del mondo.
All’inizio del paese si può vedere la bella frazione di San Giovanni, la cui
imponente chiesa domina una piazza a lago. Qui ci si può fermare per visitare
il Museo degli Strumenti di Navigazione e pranzare nella tipica trattoria, ove
la mamma cucina il pesce pescato la notte precedente dal figlio.
La punta di Bellagio appare secata alla base da un lunghissimo prato, termi-
nante sul ramo di Como con un giardino a scalinata e sul ramo di Lecco da una
grossa villa. Si tratta di Villa Giulia, il cui citato stretto e lunghissimo giardino
era usato durante la seconda guerra mondiale come pista per gli Stork, le
“Cicogne”, essendo stata la villa requisita dai Tedeschi e usata come sede di
un comando.
Ma ecco, subito dopo, sulla sponda comasca, Villa Melzi, con il vasto giar-
dino e il suggestivo padiglioncino del tè, dal tipico tetto azzurro, frequentata
nell’Ottocento da molti personaggi illustri, tra cui Stendhal e Listz.
Si giunge così al nucleo del paese, reso evidente dal porto, in cui spicca il
maestoso Grand Hotel Villa Serbelloni. Appena sopra, Villa Serbelloni, ora
sede della Fondazione Rockefeller, con l’immenso parco reso di struggente
dolcezza da gruppi di cipressi.
Con l’aereo si circumnaviga la punta, un vero monte solitario, sulla cui parte
orientale si possono ammirare scoscese scogliere di roccia che si gettano nelle
prime acque del ramo di Lecco.
Nel compiere la virata si ha una visione di tutto l’Alto Lago, con i conoidi di
deiezione che sporgono dalle rive, generati nei millenni dagli apporti alluvio-
nali dei torrenti che si gettano nel Lario, ricoperti di altrettanti paesi. Davanti
c’è Varenna, dominata dalla cosiddetta Torre di Teodolinda, sede dell’impor-
tante Villa Monastero. Al termine si sorvola Pescallo e di nuovo l’abitato di
Bellagio e si prosegue verso Griante, sulla sponda occidentale, ove, verso
Menaggio, si possono ammirare ville e giardini importanti. Nel magnifico
parco di Villa Maria si trova quel che si può definire il “Crystal Palace del
Lario”, una raffinata costruzione in ferro e vetro. Seguono, verso sud, ormai a
Tremezzo, Villa Carlotta, con i suoi giardini botanici, l’imponente Grand Ho-
tel Tremezzo, l’abitato di Tremezzo, con le due ville affiancate La Carlia e La
Quiete, il cui giardino “all’italiana” appare come un complesso intarsio multi-
colore. Si è giunti ormai nell’ampia e languida ansa di Lenno, il cosiddetto
“Golfo di Venere”, che si percorre per intero.
A un’estremità dell’ansa, vicino al pontile di imbarco della Navigazione,
proprio in fondo alla passeggiata, sorge l’Hotel San Giorgio. Dotato di una

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Vita di Club e dintorni

spiaggetta adattissima all’approdo con natanti e idrovolanti, l’albergo è fre-


quente punto di sosta dei piloti comaschi e dei loro passeggeri, che possono
pranzare o sorseggiare una bibita nel magnifico parco, da cui si può godere di
una delle più belle visioni del lago, di Bellagio e della Grigna.
Appena a nord dell’albergo si trovano molte ville di notevole interesse, tra
cui un sobrio villino del Lingeri, Villa Antonini, dalla bella facciata ottocente-
sca, e la costruzione in stile razionalista che negli anni Trenta fu sede del
circolo nautico AMILA.
Qui il paesaggio suggerisce l’immagine di una terra benedetta dagli dei e
lascia comprendere come un tempo questa fosse una zona di produzione del-
l’olio (il frantoio Vanini è tuttora esistente e offre un olio buonissimo). Se-
guendo l’ansa con un’ampia e leggera virata, si giunge alla punta di Balbia-
nello, enormemente abbellita dalla presenza di Villa Monzino, ora proprietà
del FAI, usata quale ambiente in celebri film, una vera perla, tanto che è
azzardato volerne offrirne una descrizione attraverso un mezzo scritto.
Virando stretto a destra, dopo aver passato la stravolgente Villa La Cassinel-
la o Villa Mantegazza, raggiungibile solo dal lago, ci si trova di fronte l’isola
Comacina e ci si avvia verso la “Zoca de l’oli”, lo stretto canale che separa
l’isola dal “continente”, le cui sponde ospitano Sala Comacina e Ossuccio.
Dell’isola, anticamente fortificata e completamente inurbata, è facilmente
visibile la chiesetta di Santa Eufemia e, sulla punta meridionale, il ristorante
celebre per il rito tradizionale officiato a ogni cena dal gestore. Sono facil-
mente visibili dall’idrovolante le due “Case per artisti” progettate dall’archi-
tetto razionalista Lingeri.
Sulle sponde sfilano le due chiesette romaniche di Santa Maria Maddalena,
con cella campanaria gotica, ben visibile nel basso sorvolo, e di San Giacomo,
dotata di un caratteristico campanile a vela. Domina l’isola e il golfo, a mezza
montagna, una torre medioevale e, più a nord, sopra Lenno, l’imponente aba-
zia dell’Acquafredda e il santuario della Madonna del Soccorso, a cui giunge
la via crucis, che si può osservare dall’aereo, con le sue notevoli cappelle.
Da una posizione appena a sudovest dell’isola e da una quota di circa 250
metri dalla superficie si ha una delle visioni più belle del Lago di Como:
guardando verso nord si ha l’isola in primo piano, seguita dalla punta di
Balbianello, dalla Tremezzina e da Bellagio, seguita ancora da Varenna e
infine dalle montagne dell’Alto Lago. Quando la visibilità è buona, le monta-
gne sono parzialmente innevate e il lago ha il suo bel colore azzurro c’è da
restare senza fiato.
La quantità di elementi di interesse paesaggistico e storico in questo lembo
di terra è tale che sovente si fa un lento giro intorno all’isola prima di intra-
prendere il percorso di ritorno.
A questo punto si abbandonano le basse quote e si incomincia a salire. È
bello portarsi quasi contro le pareti dei monti lariani per vedere da vicino i
diversi tipi di insediamenti montani: piccoli paesi, casette immerse nel bosco,

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Vita di Club e dintorni

moltissime costruzioni in pietra un tempo usate come stalle. Dopo aver dop-
piato la punta della Cavagnola si vede sulla sinistra la ripida strada in salita
che porta a Veleso e Zelbio e al Pian del Tivano. Dopo la punta di Torriggia
appaiono a destra, a mezza montagna, le celebri cave di pietra di Moltrasio, un
materiale usato per secoli per la costruzione di case e palazzi e anche - vale la
pena di ricordarlo - delle spalle del ponte in ferro di Paderno.
Salendo ancora ci si porta all’altezza dello spartiacque, che separa quelle
che fluiscono verso il bacino del Lario e quelle che irrorano il Triangolo
Lariano, formando il Lambro. È bello seguire la “via delle creste” dal Bollet-
tone a San Maurizio, a poca distanza dalle creste stesse, disseminate di croci,
baite e sovente gruppi di escursionisti. Guardando a destra c’è il lago, guar-
dando a sinistra i laghetti tra Como e Lecco e la grande pianura padana. Dopo
aver doppiato il faro voltiano ci si lascia scendere a capofitto verso Brunate, di
cui si possono ammirare, tra i pini, belle ville liberty e tipici chalet alpini.
Se la giornata è bella ci si trova di fronte, guardando verso ovest, il grandio-
so gruppo del Monte Rosa. Ma ora l’attenzione è attratta dalla città di Como,
di cui si può percepire perfettamente il centro storico, a pianta romana, e molti
elementi di interesse: il Duomo, San Fedele, la Casa del Fascio di Giuseppe
Terragni, che è la più importante costruzione in stile razionalista, piazza Ca-
vour, il Tempio Voltiano, il monumento ai Caduti, i circoli nautici l’hangar, le
grandi ville della sponda occidentale del bacino cittadino.
Il circuito di avvicinamento ci riporta verso Blevio, poi a sorvolare Cernob-
bio, con Villa Pizzo, Villa d’Este, l’imbarcadero liberty e Villa Erba, con gli
avveniristici padiglioni del centro espositivo, una visione - quest’ultima - che
manda in visibilio i passeggeri modernisti, affascinati da quella specie di
astronave sapientemente mimetizzata tra gli alberi secolari. Appena prima
dell’ammaraggio si ha, sulla destra, il cantiere della Navigazione, con molti
battelli ormeggiati, e poi Villa Olmo, che si vede ormai dal pelo dell’acqua.
Tutto questo in una trentina di minuti o poco più.

Lario, Val d’Intelvi e Ceresio


Val d’Intelvi, Val Mara, Lago di Lugano e Mendrisiotto.
Dopo aver risalito il lago ed essere giunti ad Argegno, si imbocca la stretta
fenditura della Val d’Intelvi, che si percorre in salita. Dopo il passaggio nella
gola iniziale, sulla quale si stende il primo paese della valle, Dizzasco, sede di
antichi mulini, si apre un magnifico anfiteatro, fatto di ampi pianori costellati
di borghi montani. A sinistra si vede Schignano e un monte conico, del tutto
isolato, in cima al quale si trova la chiesetta di Sant’Anna. A destra si adagia-
no sui pendii assolati i paesi principali della valle: Castiglione e San Fedele.
Nel centro del bacino vallivo si possono ancora intravvedere, voltandosi
indietro, le acque del Lago di Como, mentre a destra compaiono quelle del
lago di Lugano, con Porlezza. A sinistra il monte?, sui cui fianchi si scia negli
inverni in cui la zona è innevata (in realtà pochi negli ultimi decenni).

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Vita di Club e dintorni

Proseguendo lungo un ampio arco verso sinistra, si giunge all’altipiano di


Lanzo d’Intelvi, a destra del quale si erge la Sighignola, che, raggiunta da
terra, è uno dei punti più panoramici delle Prealpi. La stessa visione la si avrà
di lì a poco dal nostro piccolo idrovolante. A questo punto si fa quasi fatica a
vedere la stretta fenditura che connette la valle al lago di Lugano. Quando la si
imbocca i passeggeri hanno sovente un piccolo sussulto, affascinati e un po’
intimoriti dalle vicinissime pareti dei monti. Siamo in Val Mara, il cui torrente
è incassatissimo e invisibile nel verde manto di foresta.
Poco dopo avere intravvisto le acque del Ceresio, ecco apparire, sulla de-
stra, la città di Lugano, piccola “Nizza delle Prealpi” splendidamente adagiata
in un anfiteatro naturale che si stende tra il Monte Brè, verso Porlezza, e il San
Salvatore, che ricorda il Pan di Zucchero, verso Melide. La visione è resa più
suggestiva dalle cime delle Alpi, in particolare quando queste sono ancora
innevate, in quanto incoronano un paesaggio che ha del mediterraneo, creando
un affascinante contrasto paesaggistico.
Giunti al lago si vira a sinistra e, dopo aver passato Campione, enclave
italiana in territorio elvetico, con il suo celebre Casinò, Capolago e Riva San
Vitale, si giunge al Mendrisiotto, terra di vigneti e di belle residenze di cam-
pagna. Proseguendo verso Cernobbio si ha una visione particolare della zona
e ci si può rendere conto, in un colpo d’occhio, di come Mendrisio, Coldrerio,
Balerna Chiasso, Maslianico, Cernobbio, Como e Brunate compongano un’uni-
ca conurbazione, in molti tratti di grande bellezza.

Il giro dei due laghi


Val Menaggio, Porlezza, Porto Ceresio
Questo giro è simile al precedente nei suoi tratti iniziale e finale. Ne differisce
in quanto permette di percorrere l’intera Val Menaggio e il ramo porlezzino
del Ceresio. Ci si porta innanzitutto su Menaggio. Sorvolando l’agglomerato
si può “vedere” molto bene l’antico castello, di forma ovale, sostituito da più
moderne costruzioni, che ne hanno però seguito esattamente la forma.
A destra si erge un curioso monte orfano, in cima al quale si trova il santua-
rio della Madonna di Breglia. Passati oltre Menaggio, a sinistra si vedono i
campi del locale Golf Club, uno dei più antichi d’Italia, mentre ormai si vola
sul pianoro di Grandola e Uniti. In un prato isolato si trova la celebre quercia
secolare nota con il nome di “Rogolone”.
Sul versante solatìo della valle si stendono ridenti frazioni e paesi di medio
pendio: Loveno, Codogna, Naggio, Gottro e poi Carlazzo. Dietro, montagne
di nuda roccia dolomitica si ergono a chiudere valli selvagge: Val Sanagra, Val
Cavargna, Val Rezzo. Il versante in ombra della valle è invece, come in molte
valli disposte in senso est-ovest, quasi disabitato.
Prima di giungere a Porlezza si sorvola il piccolissimo Lago di Piano, un’oasi
faunistica. Il pilota può notare come la piana tra il laghetto e Porlezza sia
adatta ad ospitare un’aviosuperficie.

240
Vita di Club e dintorni

La bella cittadina di Porlezza, che economicamente è più “in provincia di


Lugano” che in provincia di Como, è sede di un’idrosuperficie segnalata eser-
cita dall’Aero Club Como. Con gli idrovolanti vi abbiamo operato un’infinità
di volte, come nelle acque antistanti il vicino paese di Osteno.
In rotta verso Lugano, si può ammirare sulla destra un tratto di costa, da
Cima a Gandria, molto languido e gradevole. I monti sulla destra sono inter-
rotti dalla Valsolda, ove il Fogazzaro ha ambientato il più celebre dei suoi
romanzi, Malombra. Si tramanda che le acque di questo ramo del Ceresio
fossero un tempo battute da veri e propri pirati, che dopo le razzie si ritiravano
nelle impenetrabili vallette di queste montagne.
La sponda meridionale del ramo, dopo Osteno, non ha strada e presenta solo
una località significativa, Cantine di Gandria. Sede, come dice il nome, di
antiche cantine, a causa della localizzazione in un sito freschissimo, in quanto
non riceve mai il sole, la località oggi ospita, in una vecchia caserma ristruttu-
rata, il Museo Doganale Svizzero, detto popolarmente “Museo del contrab-
bando”. Vi si può giungere in battello da Gandria o da Lugano. Vi si potrebbe
approdare con la massima facilità anche con l’idrovolante, ma per il momento
la cosa non è possibile sia per la necessità di fare dogana sia per la proibizione
ad ammarare su acque elvetiche.
In questo giro l’ampio anfiteatro di Lugano può essere ammirato in tutto il
suo splendore e la lussureggiante riva, a cui fanno da sfondo palazzi, ville e
grandi alberghi, non può non richiamare immediatamente alla mente la Pro-
menade des Englais o la Croisette, che hanno reso famose Nizza e Cannes.
Dopo Lugano ci si raccorda con l’itinerario descritto in precedenza, salvo
che, invece di prendere il rametto di Capolago, si continui diritto nel ramo di
Porto Ceresio. In questo caso si può vedere da vicino Morcote, uno dei più
suggestivi paesi del Lago di Lugano, sovrastato dai resti di una piccola, ma
massiccia fortezza, che si può ammirare al meglio dall’aereo.
Ben visibile è anche il piccolo cimitero sopra al paese, così ben situato ed
esposto da aver indotto molti illustri personaggi a esprimere il desiderio di
trovare in esso l’ultima dimora.
Da Capolago o da Porto Ceresio si torna a Como in pochi minuti.

Il Triangolo Lariano e i laghi della Brianza


Fino a Bellagio, con ritorno lungo il ramo di Lecco e i laghi della Brianza
Questo giro conduce sino a Bellagio come il giro classico. Il ritorno avviene
invece discendendo lungo il ramo di Lecco.
Dopo avere ammirato il paese di Varenna, con Villa Monastero e, sulle
alture sovrastanti il paese, la torre detta “di Teodolinda”, si imbocca decisa-
mente il ramo lecchese, che non presenta alcuna tortuosità, a differenza di
quello comasco.
Trovandosi in mezzo al lago, tra Bellagio e Varenna, si può arrivare a vedere
tutto il ramo fino a Lecco, ornato a sinistra dai conoidi di deiezione su cui si

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Vita di Club e dintorni

sono sviluppati i paesi di Lierna, Mandello e Abbadia Lariana. Tali conoidi


sono frutto degli apporti in materiali, nel corso dei millenni, da parte dei
torrenti che scendono dalle pareti delle Grigne.
Poco a sud di Varenna sfocia quel che è noto come il più corto fiume d’Ita-
lia, Fiumelatte, immortalato, per l’impetuosità del flusso d’acqua, in molte
stampe dei secoli scorsi.
La sponda occidentale del ramo di Lecco è selvaggia e poco abitata.
Giunti alla città, si vira a destra nella valletta che da Malgrate porta a Civate,
sul lago di Annone. Sboccando in pianura si ha la visione di sfilata di tutti i
laghi brianzoli: Annone, in primo piano, come abbiamo detto, Pusiano, Alse-
rio e, se si vola a quota piuttosto alta, anche Montorfano. Il ritorno a Como
avviene sorvolando tutti questi laghi e il vasto agglomerato di Erba.
Una variante prevede che, giunti ad Abbadia Lariana, si imbocchi la stretta
valle che, passando per Valbrona, Asso e Canzo, conduce allo stretto lago del
Segrino, il primo che ghiaccia in inverno, per poi giungere sul lago di Pusiano.

L’Alto Lario
Lago, alte montagne e vallate alpine
L’alto lago di Como presenta un grande interesse da un punto di vista paesag-
gistico, ma anche da quello artistico. Qui l’itinerario è descritto per la parte a
nord della linea che va da Menaggio a Varenna, essendo i percorsi più a sud
descritti in altri itinerari.
Subito a nord di Menaggio si trova Nobiallo. Questo paese ospita la sede
della Guardia di Finanza, con i relativi motoscafi, che svolge una funzione di
controllo sulle acque del lago, e la “torre di Pisa del Lario”, ovvero il campa-
nile della chiesa, che è inclinato in modo impressionante.
Subito dopo, la curiosa villa “La Gaeta”, in classico stile eclettico dei primi
del Novecento, che imita una dimora medioevale.
Sulla sponda lecchese si protendono nel lago le piane formate dai conoidi di
Bellano e Dervio, sede dei cantieri della Navigazione, e poi quella più piccola
di Corenno Plinio, un paesino nel cui tessuto si può vedere perfettamente
delineata la sagoma del vecchio castello, proteso nelle acque.
Sulla sponda comasca si incontra Rezzonico, con il suo castello, tuttora
esistente e abitato, e Pianello. Qui, proprio sulla riva, si vede il Museo della
Barca Lariana, una magnifica raccolta che racconta la storia della navigazione
sul Lario, della cui esistenza dobbiamo essere grati alla famiglia Zanoletti.
Dopo avere sorvolato Musso si giunge a Dongo, sede delle celebri ferriere
da cui uscirono i pezzi metallici del dirigibile Italia. Segue Gravedona, con i
bei giardini di villa Zanuso, ex Stampa, e del palazzo Gallio, ora sede della
Comunità montana.
Domaso presenta uno dei più evidenti conoidi di deiezione del Lario, oltre a
un gran numero di campeggi. Quando ci si trova a mezz’aria tra Domaso e
Gera si ha una vista interessantissima: davanti vi sono le foci del Mera e si

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Vita di Club e dintorni

stende tutto il Pian di Spagna, oltre il quale si vede il lago di Mezzola, contor-
nato da un’impressionante corona di montagne rocciose. Oltre, la Val Chia-
venna. Verso est si può vedere la foce dell’Adda e la parte più bassa della
Valtellina. In mezzo al pian di Spagna troneggiano le bianche antenne parabo-
liche di Telespazio.
Gli amanti del romanico sono condotti fino alle sponde settentrionali del
Lago di Mezzola, ove sorge la minuscola San Fedelino, esempio dello stile
architettonico romanico nelle sue forme più primitive.
Il ritorno lo si fa solitamente lungo la sponda lecchese. Dopo aver sorvolato
i ruderi del forte di Fuentes, resto del seicentesco sistema di difesa spagnolo e
Colico, si arriva sopra un fortino costruito durante la prima guerra mondiale,
facente parte della “Linea Cadorna”, intesa come ultima linea di difesa se le
forze austriache fossero dilagate lungo la Valtellina. Sono perfettamente visi-
bili, dall’alto, le quattro torrette e i cannoni, mai usati.
A sud si trova la profonda e selvaggia insenatura che forma il laghetto di
Piona, sede di venti forti e del tutto particolari, all’imbocco della quale c’è la
celebre abbazia.
Scendendo verso sud si può apprezzare bene la conformazione dei principa-
li paesi della sponda lecchese, sedi di attività industriali, toccati dalla linea
ferroviaria che collega Milano alla Valtellina, disposti lungo un asse storico di
comunicazione tra la Lombardia e l’Europa centrale. Dunque paesi ricondi-
zionati dalle esigenze dell’industria e dei trasporti, ben diversi da quelli delle
sponde meno “strategiche” del Lario, il cui aspetto più antico e medioevaleg-
giante è più consono a una visione romantica e alle esigenze dei turisti.

Laghi di Varese e Maggiore e Monte Rosa


Acque e montagna tra Lombardia e Piemonte
Un giro richiesto non di frequente, ma molto panoramico, è quello che porta a
ovest, verso l’imponente massiccio del Rosa. Lungo la tratta Como-Varese la
cosa più interessante è il vecchio ed elegante ponte ferroviario di Malnate, a
sud del quale si trova l’aeroporto di Venegono.
Varese è una città molto “sparsa”, che non presenta un centro definito. Nel
sorvolo si possono però ammirare ville ed edifici di grande interesse architet-
tonico, sia classici che in stile modernista. Ciò che colpisce di più sorvolando
(e anche percorrendo in macchina) la provincia di Varese è l’abbondanza di
verde, ovvero la lussureggiante copertura arborea.
Sulle sponde del lago di Varese si trova l’aeroporto di Calcinate del Pesce.
Inoltre, presso il circolo nautico e scalo della Schiranna, si svolgeva negli anni
Sessanta una certa attività degli idrovolanti comaschi, che avevano anche isti-
tuito nel lobo sudorientale del lago un’idrosuperficie. Tutti elementi, ovvia-
mente, di interesse solo per i piloti.
Proseguendo verso ovest si sorvolano i laghi di Comabbio e Monate e si
giunge ad Angera, su cui troneggia la celebre rocca. Piegando verso nord si

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Vita di Club e dintorni

passa Ranco e Ispra, ove si trova una centrale nucleare di ricerca, ben ricono-
scibile per la cupola bianca. Ancora a nord si trova, in un tratto di costa
rocciosa, a picco sul lago, l’eremo di Santa Caterina del Sasso.
A questo punto si passa sulla sponda piemontese, potendo ammirare i gran-
di alberghi di Stresa e le bellissime ville che ricoprono le isole Borromee:
Isola Bella, Isola dei Pescatori, Isola Madre. Sulla sinistra, il Mottarone.
Risalendo verso nord si passano bei paesi, come Oggebbio, e si giunge ai
Castelli di Cannero, suggestivi per quanto sono diroccati, su un’isola appena
al largo dell’omonimo paese.
Ora si fa rotta a est, verso Luino, capitale dell’alto lago Maggiore, sede di
un’importante stazione ferroviaria di frontiera, di varie industrie e, occasio-
nalmente, di una manifestazione sui mezzi di trasporto d’epoca, organizzata
dalla dinamica amministrazione comunale della cittadina e, per gli aspetti
idrovolantistici, dall’Aero Club Como.
Da Luino il ritorno verso Como può avvenire lungo diverse rotte. Una segue
il fiume Tresa, che collega il lago di Lugano, a quota più elevata, con il
Maggiore. Si giunge a Ponte Tresa, in quell’insenatura del lago di Lugano
tanto isolata da costituire quasi un lago a sé. Da qui si prosegue per Morcote,
Porto Ceresio e Como.
Un’altra possibilità è quella di tornare verso sudest percorrendo la Valganna
e, dopo aver sorvolato i laghetti di Ghirla e Ganna, dirigere su Varese dopo
essere passati a fianco del Sacro Monte e della monumentale via crucis.
Da ogni punto del lago Maggiore è possibile fare una diversione verso il
Monte Rosa. Si tratta di salire, salire e poi ancora salire, fino ai limiti consen-
titi dall’aereo che si usa e dalle esigenze di conforto dei passeggeri. Volendo,
si può giungere a circa 3500-4000 metri di quota, godendo di una vista impa-
gabile del massiccio.

L’alta montagna lariana


Dalle Prealpi ai picchi del Lecchese
Chi ama la montagna può farsi condurre a visitare le cime che contornano il
Lago di Como. Si può fare quota lungo il lago e incominciare a percorrere le
creste verso il centro lago. Salendo sempre, si può decidere se percorrere la
Via dei Monti Lariani, a ovest del lago, o se inerpicarsi sui monti del Triango-
lo Lariano. Giunti all’alto Lario, si sorvola il Legnoncino e il Legnone.
È bello ritornare verso sud sorvolando le Grigne, quindi avendo il lago a
destra e la Valsassina a sinistra, e poi il frastagliato Resegone.
Tornati a Como, si può fare la discesa sfiorando la cima del Bisbino.

Il medio corso dell’Adda


Un itinerario di archeologia industriale
Seguire i grandi fiumi è come fare una lezione di storia e di geografia insieme.
L’Adda è interessantissimo, nel suo medio corso, ovvero nel tratto che va da

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Vita di Club e dintorni

Lecco, punto di sbocco dal Lago di Como, a Cassano d’Adda. Ogni cittadino
lombardo dovrebbe conoscerlo, essendo questo tratto di fiume teatro della
prima industrializzazione della Lombardia.
L’ideale è avere una visione d’insieme dall’aereo e, in seguito, compiere lo
stesso itinerario con un mezzo terrestre o acquatico, ove possibile, per poter
visitare in modo accurato tutti gli elementi di interesse. La bicicletta e la
canoa sono i mezzi che consentono di completare nel modo migliore la visio-
ne che si ha dall’aereo.
La descrizione che segue è stata stesa grazie al contributo dello studioso di
archeologia industriale Edo Bricchetti.
Partiamo dunque da Lecco e inoltriamoci sul lago di Garlate. quasi all’estre-
mità sud, sulla sponda occidentale, si trova la filanda Abegg, fondata nel
1841, che ospita l’interessante Muso della Seta, con macchine settecentesche
per la lavorazione della seta naturale e la produzione del famoso organzino.
Separano il lago di Garlate e quello di Olginate la diga di Olginate, che
regola il livello delle acque del Lario, e il ponte stradale di Calolziocorte.
Prima di giungere al ponte ferroviario della linea Calolziocorte-Bergamo, si
fa una piccola diversione all’interno, su Ello, per vedere dall’alto il filatoio
Dell’Oro, con tre caratteristiche ruote ad acqua.
Dopo avere percorso un lungo tratto rettilineo dell’Adda, usato da molti
decenni dai piloti dell’Aero Club Como per esercitarsi nelle tecniche di am-
maraggio e decollo su fiume, si giunge a Brivio. Poco dopo il ponte stradale,
costruito nel 1917, sorge, sulla destra, la filanda Molinazzo, con la tipica
ciminiera, costruita in stile neogotico, e la villa padronale, in posizione lieve-
mente sopraelevata, una combinazione tipica dell’Ottocento.
Segue un tratto del fiume chiamato Valle San Martino o “Valle dei Mulini”,
ove si possono scorgere vecchi mulini e condotte in pietra per la canalizzazio-
ne dell’acqua. A Toffo si può vedere il filatoio Toffo, in un’area nota come
“Foppaluera”, in quanto un tempo vi si ponevano trappole per i lupi. Più a sud
è ancora operativo il traghetto di Imbersago, progettato da Leonardo da Vinci.
Ancora più a sud l’Adda si incassa ed è sbarrato dalla diga di Robbiate, con
la centrale Semenza, per poi formare il cosiddetto cañon di Paderno. Qui
sorge uno dei più significativi monumenti dell’archeologia industriale e sim-
bolo del paesaggio antropico dell’Adda: il ponte di Paderno. È un ponte in
ferro con vie ferroviaria e stradale sovrapposte, costruito negli anni 1887-
1889. Poco a sud c’è una diga e le chiuse che alimentano un canale laterale, il
canale di Paderno, costruito nel 1777, che consente la navigazione in un tratto
altrimenti impossibile a causa delle rapide e del dislivello di 30 metri.
Ancora nel tratto in cui l’Adda è fiancheggiato dal canale sorge la centrale
idroelettrica Bertini, a Porto d’Adda Inferiore, costruita nel 1898. Prima cen-
trale europea di rilievo, consentì l’illuminazione di Piazza del Duomo, a Mila-
no, e l’alimentazione delle tramvie milanesi. Seguono due altre centrali, l’Ester-
le, a Cornate d’Adda, del 1914, famosa per le sue ricche decorazioni, e la

245
Vita di Club e dintorni

magnifica Taccani, a Trezzo d’Adda. Quest’ultima, costruita tra il 1906 e il


1909, sorge a ridosso del castello visconteo, di cui riprende alcuni motivi
architettonici. Subito dopo segue la diga di Trezzo, il ponte della provinciale
per Bergamo e quello dell’autostrada Milano-Venezia.
A questo punto si stacca dall’Adda, sulla destra, il canale della Martesana,
destinato ad alimentare il sistema dei navigli milanesi, mentre sulla sinistra si
stacca il piccolo canale Crespi. Questo attraversa il “villaggio operaio” Crespi
d’Adda, sulla sinistra idrografica, poco prima della confluenza del Brembo.
Costruito nel 1878, l’agglomerato era improntato ai principi che avevano
dato vita al villaggio operaio Menier, in Francia, nel 1862, e alle città-giardino
inglesi. Ogni dettaglio della progettazione urbanistica del villaggio rispec-
chiava una precisa e rigida filosofia di rapporti tra gli individui e le classi che
interagivano in quella realtà sociale e comunque conferiva agli operai che
lavoravano nelle fabbriche presenti una dignità sconosciuta altrove.
A sud si trova la villa Castelbarco, dotata di un “ruotone” destinato a pom-
pare acqua dal naviglio della Martesana. Appena prima del ponte della statale
525 per Bergamo sorge la cartiera Binda, una delle più antiche nel settore
della produzione della carta.
Dopo, sul canale, a Vaprio d’Adda, si può vedere lo stabilimento Velvis
Velluti Visconti, del 1840, situato proprio accanto alla Villa Melzi d’Eril, dalla
tipica architettura neomedioevale, avente le sembianze di un castello.
Presso la diga di Sant’Anna, si stacca, sulla sinistra, un piccolo canale,
lungo il quale sorge il Linificio Canapificio Nazionale di Fara d’Adda, dalla
tipica ciminiera, affiancato dall’omonimo villaggio operaio. Ancora a sud
l’Adda e i canali laterali sono attraversati da un passaggio pedonale, un tempo
usato dagli operai per raggiungere il linificio. Segue una diga, a Cassano
d’Adda, quella del Linificio Canapificio Nazionale, stabilimento che si trova
subito a valle, sulla riva destra, di fronte alla centrale Rusca, che invece è sulla
riva sinistra, costruita per rifornirlo di energia.
Ancora più a sud si nota il ponte ferroviario della linea Milano-Venezia, una
delle primissime del Lombardo-Veneto.
Nelle pietre, nelle ruote, negli ingranaggi e anche nelle ardite architetture e
nelle ricercate decorazioni descitte sta un importante tassello della nostra
storia industriale, ovvero ciò che ha reso la Lombardia forse la più attiva
regione industriale d’Europa.

Itinerari personalizzati
Saper proporre al proprio ospite il “suo” giro preferito
Ogni persona ha gusti diversi. È vero che chi per strada ci apostrofa con il
classico «Mi porti a fare un giro in idrovolante?» è quasi certo che voglia
andare a vedere il lago dall’alto, fino a Centrolago, ma esistono eccezioni e si
deve sempre avere la presenza di spirito di saper soddisfare le esigenze parti-
colari anche dell’ospite più eccentrico.

246
Vita di Club e dintorni

Romanticismo idro
Idrovolante: una cosa speciale scelta da persone speciali per occasioni speciali.

Un momento della vita


Arrivano al club chiedendo di fare un volo. Cosa di tutti i giorni, ordinaria
amministrazione. Ma nel corso di quel volo succede qualcosa di speciale,
destinato a cambiare la vita di due persone.
Lui, a un certo punto, emozionato, tira fuori di tasca una scatoletta, la apre,
prende con dita tremanti un anello, glielo porge e, fissandola negli occhi, le
dice: «Vuoi sposarmi?».
Il pilota, a quel punto, non può che condurre il volo con il minimo di stimoli
e di manovre. In quel momento non c’è Villa d’Este, Villa Carlotta, Cadenab-
bia o Bellagio. Non ci sono virate, salite, discese.
C’è un’atmosfera sospesa, che attende solo che lei sussurri un flebile “Sì”,
gli metta una mano attorno al collo e lo attiri a sé per comunicargli con le
labbra i sentimenti che forse farebbe fatica a esprimere con le parole, nel
cullante ronzio del Lycoming a 2400 giri e nel lieve dondolio del “Venturi”.
Per sottolineare l’importanza del suo “sì” lui ha scelto una situazione ecce-
zionale. Lei pensa che se ha fatto tanto per quel momento, altrettanto conti-
nuerà a fare per il resto della loro vita.
Scendono felici e si avviano verso il loro futuro.

San Valentino
Per fortuna al Club c’è qualcuno che si scervella su come rendere l’idrovolan-
te bello, simpatico, gradevole, elemento di socializzazione e di belle esperien-
ze non solo per gli addetti ai lavori, ma per il pubblico generale, per “la
gente”. Questo qualcuno, in questo caso, si chiama Sergio Tramalloni.
Vero e profondo amante della vita di club, Sergio non riesce a rassegnarsi
all’idea che solo poche centinaia di piloti abbiano il piacere di servirsi di
questo eccezionale mezzo di trasporto e che solo poche migliaia di persone
possano volarvi come passeggeri ogni anno.
Dunque - idealmente - ha la sana aspirazione di far volare sugli idrovolanti
l’intera popolazione comasca, inclusi infanti e trisnonni, e tutti i visitatori che
mettono piede in territorio lariano.

247
Vita di Club e dintorni

Nell’ambito di questo generoso anelito, Sergio inventa il “Volo di San Va-


lentino”. L’idea è ottima, ma la publicizziamo all’ultimo momento, come
avviene per quasi tutte le iniziative del Club. Nondimeno raccoglie consensi,
tanto che il 14 febbraio 2004 molte coppie si presentano per il “loro” volo,
un’esperienza che, per quel che possiamo capire, li incuriosisce e vivifica i
loro sentimenti.
È emozionante vedere i nostri aerei trasformarsi in piccola alcova e divenire
teatro di composte effusioni di coppiette, quasi sempre alla loro prima espe-
rienza di volo.

Due cuori e un idrovolante


Un importante fotografo ci chiede se può usare il nostro piazzale e l’hangar
come set per le fotografie di matrimonio di gente altolocata, che ama avere
fissato il ricordo della loro significativa giornata in vari ambienti particolar-
mente belli o particolarmente curiosi. Accettiamo volentieri, a fronte di un
modesto contributo a favore della nostra associazione.
Gli sposi fanno sapere attraverso gli organizzatori dell’evento, che si svolge
in varie ville della provincia, che dopo le foto avrebbero piacere di essere
condotti con un idrovolante a vedere dall’alto il Lago di Como.
Una decina di minuti prima dell’ora prevista per l’arrivo del corteo nuziale
arriva all’hangar lo staff dei fotografi; questi fanno spostare auto e aerei,
sistemano luci e piazzano cavalletti qua e là. Arriva una serie di persone
dell’organizzazione, che passano il tempo al telefono a dare ordini.
A un certo punto tutti si mettono in agitazione. Eccoli. Una cabriolet di
extralusso arriva in hangar, seguita da una decina di altre macchine, da cui
scendono persone molto ben vestite.
Istintivamente il nostro occhio cerca l’elemento clou del corteo - gli sposi -
e di primo acchito non lo trova. Guarda e riguarda, finalmente capiamo la
situazione. Gli sposi li abbiamo perfettamente sotto i nostri occhi. Sono pro-
prio “sposi”, ovvero uno sposo e uno sposo.
Dopo aver fatto foto in tutti gli angoli dell’idroscalo e vicini a ogni aereo,
non risparmiandosi ogni tipo di effusione, stappano una bottiglia di champa-
gne sul pontile, brindano e salgono sul Cessna 172 per il loro volo nuziale.
Non è la prima né l’ultima volta. In un’altra occasione si presentano due
“lei” per fare un volo insieme. A bordo estraggono dalla borsetta un piccolo
termos e le coppe; versano lo champagne e brindano. Poi, probabilmente
eccitate dall’inusuale situazione, si abbandonano alle più intime effusioni,
mettendo in imbarazzo non poco il pilota, impietrito al suo posto di comando.

La storiografia non ufficiale registra episodi anche molto più piccanti di


quelli qui raccontati, che coinvolgono non solo gli aerei, ma le stesse strutture
a terra, ma lasciamo che essi continuino ad essere tramandati per via orale,
anche perché in qualche caso non è facile distinguere la realtà dal mito.

248
Vita di Club e dintorni

Vita di Club
Questo capitolo, scritto a caldo in un momento di accesa conflittualità interna
all’Aero Club Como, è incluso nel libro perché mette in luce, attraverso lo strumento
dell’ironia e del’autoironia, le tipiche dinamiche interpersonali di un sodalizio
complesso quale è un aero club.
Sembra incredibile, ma tutto quello che è riportato in questo capitolo e presentato
come paradossale è ispirato a precisi casi realmente avvenuti e a episodi di vita
quotidiana del Club. L'anelito alla completezza farà scusare una certa prolissità.
L’autore - è bene specificarlo - non fa una descrizione “al di sopra delle parti”,
alla stregua di un antropologo che studi i comportamenti degli individui di una
popolazione sconosciuta o di un etologo che studi quelli di un branco di scimpanzè,
ma egli stesso è stato parte in passato, e continua a esserlo, di dinamiche
di rapporto interpersonale simili a quelle descritte, anche se le ciocche grigie
che contrassegnano la sua capigliatura lo inducono a vivere tali dinamiche con più
umiltà, senso autocritico e spirito di corpo, anche con il “nemico”, che in passato.

Qui è descritto qualche frammento di vita dell’Aero Club Como, a cui l’auto-
re è iscritto dal 1970, non tanto perché le cronache comasche riportate abbia-
no un particolare significato o interesse, ma per illustrare a chi desideri dedi-
carsi alla pratica del volo come funziona un qualunque aero club.
L’Aero Club Como (come ogni altro aero club) è composto dai soci, dagli
organi dirigenti, dai dipendenti e collaboratori e dal “Piazzale”.

I soci
I soci pagano la quota sociale e sperano di volare quando lo desiderano, con il
minimo di seccature.

Gli organi dirigenti


Gli organi dirigenti hanno le funzioni di quelli di una comune azienda e fanno
di tutto per cercare di gestire il Club in modo efficiente, con qualche possibile
eccezione che verrà esaminata in seguito.

I dipendenti e i collaboratori
Consentono di ottenere gli scopi sociali grazie alla loro prestazione d’opera.

249
Vita di Club e dintorni

Il “Piazzale”
Tra duemila anni si ricorderanno le piazze di Atene, ove davano lezione i
filosofi e nascevano le prime istituzioni democratiche della storia, le belle
piazze delle città italiane del Rinascimento e una piazza speciale, a Como.
Anzi, un “piazzale”, quello antistante l’hangar.
Bisogna innanzitutto dire che il “piazzale” è una vera istituzione, tanto che
da ora verrà indicato con l’iniziale maiuscola. Il Piazzale è in realtà molto più
importante degli stessi organi dirigenti del club. Infatti ogni istituzione nasce,
si evolve e si estingue. Anche quando muore un papa “se ne fa un altro”, come
dice il proverbio. Allo stesso modo, nella vita del Club, decaduto un Consiglio
direttivo, se ne fa un altro. I presidenti si succedono, a volte sono cacciati. Il
Piazzale è invece immanente ed esisterà per sempre, uguale a sé stesso.
Con il termine “Piazzale” si indica, complessivamente, l’opposizione al
Consiglio direttivo in carica, la sede ove l’umore del “popolo” dei soci del
Club può manifestarsi liberamente, l’arena ove avvengono le più acerrime
lotte intestine, l’humus da cui nascono mille e mille leggende metropolitane
relative a chi ricopre cariche, a chi ha responsabilità nel Club, a chi ha una
qualsiasi posizione di preminenza o semplicemente si faccia notare.
Nessuna elezione può legittimare o delegittimare un responsabile della ge-
stione del Club quanto il Piazzale, così come nessuna commissione ministe-
riale potrà mai giudicare un pilota, un istruttore, un direttore della scuola di
volo meglio del Piazzale. Lo stesso Registro Aeronautico Italiano non potrà
mai certificare un aereo con più competenza tecnica del Piazzale.
L’istituzione inglese di consentire a chiunque di esprimere la sua opinione,
qualunque opinione, su una cassetta della frutta messa nello Hyde Park cor-
ner, è un balbettante e primitivo tentativo di democrazia diretta rispetto a quel
che avviene sul Piazzale dell’Aero Club Como, ove il dissenso, inteso nel
senso più lato e selvaggio del termine, usa ogni espediente per affermarsi e
arriva a permeare per mesi o anni l’intera vita dell’associazione.
Ciò detto, esaminiamo un po’ in dettaglio le poche e semplici regole secon-
do le quali si svolgono le funzioni del Piazzale.
Prima e fondamentale regola del Piazzale: “Quelli là [i dirigenti del
Club] sono degli sprovveduti” (in un’altra versione si legge “pirla”, ma vi
sono versioni anche molto più espressive). In altri termini: se pigliano una
decisione, certamente è sbagliata; se è giusta, è perché finalmente hanno fatto,
per errore, quello che il Piazzale da tempo andava dicendo.
Seconda regola del Piazzale: “Gestire il Club è facilissimo, anche perché
la competenza non serve: basta avere la tempra”. Supponiamo, tanto per fare
un esempio, che si desideri acquistare un nuovo aereo e proviamo ad esamina-
re come una simile operazione possa essere semplice e lineare se gestita se-
condo le regole stabilite dal Piazzale (il caso-tipo descritto è proprio del tutto
ipotetico e ha valore esemplificativo; ogni riferimento a fatti reali o persone
esistenti è da ritenersi assolutamente casuale).

250
Vita di Club e dintorni

L’operazione è finanziata, in parte, direttamente dal Club, grazie ai fondi


ricavati dalla vendita di un aereo che era stato acquisito dallo stesso Club
qualche anno prima, ma che aveva solo sorvolato l’area dell’idroscalo, per
essere poi venduto nella Georgia Australe. Il fatto che su quell’aereo, costato
fior di soldi, nessun socio del Club abbia mai volato sembrerebbe un fatto di
cui rammaricarsi, ma è giustamente giudicato dai responsabili dell’acquisto
un’insperata fortuna: almeno non ha inciso sulle voci di bilancio “benzina”,
“assicurazione corpo” e “manutenzione”.
Per un’altra parte, l’operazione è stata finanziata da un gruppo di soci, i cui
fondi sono stati messi su vari conti bancari, in banche diverse, ma anche di
tipo diverso, per esempio uno in franchi svizzeri, uno in sterline, uno in rupie
indiane, conti tra i quali si è continuato a spostare quei fondi, nella certezza
che i variabilissimi tassi dei cambi avrebbero generato un beneficio. Fondi
che infine, per una curiosa alchimia bancario-amministrativo-gestionale, frut-
to di complesse operazioni in almeno tre o quattro paesi del mondo, sono
risultati intestati alla società bocciofila di Rovenna. A quest’ultima tutti i soci
dell’Aero Club si sono iscritti in massa per cercare di eleggere, alle prossime
elezioni, un Consiglio direttivo che ne deliberi la restituzione. La cosa – è
quasi inutile dirlo – ha un aspetto fortemente positivo, avendo fatto scoprire ai
soci un’interessante attività da svolgere nelle giornate di föhn e, per molti di
essi, un’alternativa al volo più adatta alle loro inclinazioni.
Certo, tutti i conteggi aventi a che fare con l’aereo da acquistare richiedono
un bel lavoro, ma ciò non è un problema, dato che essi non sono riportati su un
banale foglietto di carta, probabilmente malscritto e confuso, e quindi inter-
pretabilissimo, ma depositati nella memoria storica di almeno sei o sette “Li-
bri viventi”, figure così ben descritte nel peraltro un po’ bolso film Fahrenheit
451 di François Truffaut. Ciascuno di questi “Libri viventi” può raccontare
per filo e per segno tutte le vicende di ciascuna delle lire o centesimi di euro o
franchi svizzeri che, attraverso cento e cento rivoli, sono confluiti per rendere
possibile il finanziamento dell’operazione.
Il modo di procedere descritto potrebbe apparire, a prima vista, inadeguato,
in quanto darebbe adito a interpretazioni e interminabili discussioni. Tuttavia
l’unanime giudizio del Piazzale è che l’alternativa sarebbe enormemente meno
desiderabile: se infatti gli accordi tra il Club e i finanziatori fossero codificati
in un semplice documento si avrebbe un’inequivocabile dimostrazione di un
bassissimo livello di fiducia tra i soci e tra soci e amministratori, fatto che
minerebbe irrimediabilmente i rapporti e farebbe subito fallire la possibilità di
procedere nell’operazione di finanziamento e acquisto del nuovo aereo.
Il lavorio burocratico necessario per rendere il tutto operativo e per fare
volare l’aereo è immenso e ad esso partecipano schiere di esperti, tra i quali il
barista all’angolo, indubbiamente più competente della maggior parte dei con-
siglieri, dato che ormai di discorsi sugli idrovolanti da acquistare ne sente da
almeno trent’anni, il postino, che legge di nascosto le riviste di aviazione

251
Vita di Club e dintorni

destinate al Club, il cugino finanziere di un ex socio che vent’anni prima ha


fatto un lancio con il paracadute e tanti altri, ciascuno dei quali suggerisce una
linea d’azione diversa dall’altro, ciò che rende lo spettro delle possibilità di
scelta enormemente ampio.
La complessità del processo decisionale e le moltissime diverse posizioni
sulla scelta di un nuovo aereo hanno un altro risvolto altamente positivo sulla
vita sociale del Club. Se la scelta fatta è sbagliata, infatti, può essere sicura-
mente dimostrato che nessuno l’ha fatta e che questa, per così dire, si è fatta
da sola, prodotto finale di un destino ineluttabile.
Qualche malalingua potrebbe insinuare che tale scelta sbagliata era tuttavia
stata votata all’unanimità dai responsabili della gestione del Club. Non è vero!
Tutti erano contrari, come risulta dalle loro dichiarazioni verbali, e hanno
votato a favore, in un conato di altruismo, solo per non mortificare i soci che
erano favorevoli all’acquisto di quell’aereo. Il fatto che quei soci fossero po-
chissimi - o forse uno solo - evidenzia quanta democratica attenzione e rispet-
to gli organi dirigenti del Club riservino alle minoranze.
Se invece la scelta fatta è giusta, ciascuno potrà a ragione vantarne la pater-
nità e certamente lo potranno fare anche i responsabili che, in sede di decisio-
ne, avevano votato contro, che lo hanno fatto per rendere più dialettico il
processo di indagine e più consapevole la decisione.
Ogni responsabile e ogni socio del Club, a modo suo, potrà quindi giusta-
mente vantare meriti speciali nell’utilizzo della nuova macchina, dimostrando
che senza il suo intervento risolutivo l’operazione sarebbe miseramente nau-
fragata, come è notoriamente avvenuto in molti altri casi. Ciò contribuisce a
dare al complesso dei soci del Club uno spirito di corpo e un’unità che altri-
menti non esisterebbero.
Il fatto che ogni socio che sostiene di avere dato un apporto si ritenga esen-
tato dal dovere di pagare la quota sociale è di grande vantaggio per il Club;
infatti quell’atteggiamento rappresenta l’unica spinta a trovare nuovi soci.
Ma esaminiamo ora qualche situazione particolare che si manifesta in occa-
sione di ogni acquisto di aereo. Un idrovolante è fatto di una cellula, di due
galleggianti, di un motore, di un’elica e di una serie di strumenti di volo.
Sarebbe semplice acquistare il tutto già assemblato e funzionante, ma questa è
una soluzione da sprovveduti, quasi sempre scartata; si possono risparmiare
tempo e soldi operando in altri modi, in particolare trovando sul mercato e
finanziando l’acquisto delle sue diverse parti in modo indipendente, così da
ottimizzare, parte per parte, le modalità di acquisizione.
Qui di seguito si continua a illustrare un caso-tipo per mettere in evidenza
come ogni scelta, in un campo così complesso, sia fatta per sfruttare al meglio
tutte le forze di cui si dispone e dando fondo alle competenze presenti nel
Club. Partiamo dalla cellula. Essa tipicamente appartiene già al Club, ma
attraverso una serie di scritture private è, non si capisce più se de jure o de
facto, divenuta proprietà di una persona singola, che tuttavia non ha voluto

252
Vita di Club e dintorni

intestarsela direttamente. Se questa persona abita in Papuasia è molto meglio,


perché ciò renderà sicuramente tutti i rapporti relativi alla proprietà, alla ge-
stione e all’eventuale successiva cessione a terzi dell’aereo più ricchi e inte-
ressanti da un punto di vista culturale. Il Club infatti - per chi non lo sapesse -
è un ente senza fini di lucro e si propone, quasi come primo obiettivo, l’edifi-
cazione culturale degli associati, promuovendo uno spirito di fratellanza tra
tutti i popoli della Terra.
Ma pensare di poter gestire la cosa con un interlocutore unico sarebbe tutta-
via foriero di un sacco di problemi: quella singola persona, per esempio,
potrebbe impazzire (caso peraltro assolutamente impossibile nell’ambiente
delle compravendite di idrovolanti) e... addio aereo. Ecco che le scritture
private che sanciscono l’appartenenza di quel materiale sono emendate e com-
pletate da accordi accessori tramandati oralmente da una serie di persone. Chi
ne volesse conoscere il contenuto, peraltro suscettibile di variazioni a seconda
della situazione, deve ricorrere a una serie di altri “Libri viventi”, ruolo di cui
si è già parlato e che i soci affezionati al Piazzale si prestano sempre ad
assolvere con encomiabile slancio.
Peraltro ogni trattativa tra il Club e il proprietario de jure o de facto di quella
cellula sarebbe inutile e superflua. Infatti almeno tre o quattro frequentatori
del piazzale, in un’epoca o un’altra, sono stati nominati o si sono autonomina-
ti agenti, rappresentanti o ministri plenipotenziari del proprietario, così che
ogni trattativa relativa all’importante parte di aereo, che in teoria dovrebbe
avvenire da un continente all’altro, si svolge in realtà tutta nel piccolo ring del
piazzale. Ciò rende la cosa estremamente più lunga e complessa di una tratta-
tiva che avvenisse con la Kamchatca o la Nuova Zelanda, ma molto più for-
mativa per i soci del Club, ciascuno dei quali può parteciparvi e potrà sostene-
re in futuro di avere fatto un’operazione di compravendita di un aereo.
Ma passiamo ai galleggianti. Questi è bene che siano stati finanziati attra-
verso un’iniziativa indipendente di un certo numero di soci che ne consentono
l’uso. Un bel risparmio, in questo modo, è assicurato e il fatto che i soci
finanziatori pongano una serie di limitazioni nei confronti di altri soci, giudi-
cati inidonei a utilizzare quell’aereo, è indice di lungimiranza, dal momento
che, usandolo in pochi, sarà poi più facile identificare chi avrà fatto danni.
Il motore, dal canto suo, non sarà mai del tipo normale usato su quell’aereo,
che gli ingegneri originali hanno certamente progettato in modo superficiale e
senza tenere veramente conto delle necessità degli utilizzatori idro, ma di un
tipo che, pur richiedendo un lunghissimo processo di omologazione, garantirà
prestazioni certamente superiori. Il potenziale vantaggio di questa soluzione
vale certamente il rischio che l’aereo non possa più essere usato nel nostro
paese o almeno che lo si possa usare in mille modi, ma non come idrovolante.
Sarebbe anzi meglio che fosse così, in quanto tutto il materiale fino a quel
momento acquistato o messo in qualche modo a disposizione potrebbe in quel
caso essere venduto con un utile tale da ripagare ampiamente gli anni di

253
Vita di Club e dintorni

fatiche impiegati nell’operazione, cosa che consentirebbe di ripartire con un


nuovo entusiasmante progetto di acquisto.
La radio, dal canto suo, potrebbe essere acquistata, ma è meglio farsela dare
da un’azienda di lavoro aereo di proprietà di alcuni soci con un contratto di
comodato, ovviamente solo verbale, data l’assoluta fiducia che contraddistin-
gue tutti rapporti all’interno del Club. Questa azienda, inevitabilmente, ha una
storia molto complicata ed è composta da persone, tutte facenti parte del Club,
che la pensano in modo completamente diverso su ogni questione, come è
normale e proficuo in una società pluralista. Il fatto che esse, al momento,
stiano discutendo accesamente sulla reale proprietà di quella radio è irrilevan-
te, in quanto tutte concordano unanimemente su un fatto, in conseguenza del
quale quella radio si è resa disponibile: è molto meglio avere il proprio aereo
incidentato e distrutto piuttosto che in perfette condizioni di volo. È stato anzi
proposto di insignire con un titolo di merito e un apposito distintivo chi si
renda responsabile della distruzione di aerei, in quanto ciò costituisce il bene
del Club, per una serie di motivi che è superfluo descrivere, essendo arcinoti
anche a chi frequenta il sodalizio da pochi giorni.
Il fatto che ciascuna delle molte persone che si avvicendano nel seguire la
pratica di omologazione annulli tutto ciò che ha fatto la persona precedente e
riparta da zero è una soluzione che ha rivelato, negli anni, una sua profonda
validità: in questo modo è infatti assicurato che prima o poi qualcuno, casual-
mente, faccia esattamente ciò che serve affinché la pratica, come d’incanto, si
concluda. Vi ricordate la storia della scimmia dalla vita eterna che batte i tasti
di una macchina da scrivere e che, casualmente, a un certo punto, scrive la
Divina Commedia? Qualcosa del genere avviene immancabilmente a ogni
omologazione e ha prodotto, a oggi, un compendio di conoscenze immenso.
Nel frattempo, non è che le cose possano seguire la relativamente semplice
strada fin qui descritta. Infatti, intorno all’operazione, in modo mutevole di
giorno in giorno, si formano gruppi di opposizione mossi dalle motivazioni
più disparate, cosa ottima, in quanto si sa che un elevato grado di dialettica
interna non può che rendere migliori i risultati finali del processo decisionale.
Uno dei gruppi di opposizione è quello dei soci che da 30 anni sostengono
l’utilizzo di un certo aereo, diverso da quello scelto, e che si opporranno nel
modo più feroce a qualsiasi operazione che non contempli l’acquisto di quel
preciso modello, anche se esso, come il DO X che fece visita all’Idroscalo di
Como nel 1931, non riesce a decollare prima di Bellagio.
Un altro agguerrito gruppo di opposizione, forse il più potente, è formato da
quelli che approvano al 100% l’acquisto della macchina, ma che non tollerano
che proprio quella sia la preferita dal pilota/consigliere più antipatico del
Club. Al debosciato e remissivo atteggiamento di dare soddisfazione a una
persona tanto abietta, che lavora 5 o 6 ore al giorno per il sodalizio (i sabati e
domeniche molto di più), ma in realtà - è evidente - per perseguire intenti di
puro interesse personale, è dunque molto preferibile un’eroica e virile rinun-

254
Vita di Club e dintorni

cia, approvata per acclamazione dal Piazzale, riunito in sessione straordinaria.


Tale stoica rinuncia all’acquisizione della meravigliosa macchina si attua
attraverso una pratica tradizionale particolarmente cara ai comaschi di sesso
maschile (ma molto invidiata dalle femmine della stessa città, che da ciò
traggono un antistorico, ma ineliminabile senso di inferiorità), tanto da essere
presente in tutti i libri di proverbi e locuzioni locali: “privarsi degli attributi
per fare un dispetto alla moglie”.
È bene dire - per inciso - che una simile pratica neokamikazesca, che ha un
alto significato di edificazione morale dei soci, ha molte possibilità di estrin-
secarsi in seno al Club. Se mai, per fare un esempio del tutto ipotetico, un
socio spendesse centinaia di milioni di lire per mettere in hangar un aereo
storico particolarmente bello, interessante ed evocativo, alla cui inaugurazio-
ne potrebbero partecipare 800 persone, tra cui le maggiori autorità dell’avia-
zione civile e militare italiana, e moltissime persone venissero fin da paesi
lontani per vederlo, tra le quali alcuni miliardari americani, disposti a offrire
qualunque cifra per poter pilotare una volta quell’aereo, ebbene, nemmeno
questo potrebbe distogliere la parte che conta del Piazzale dalla summenzio-
nata pratica tradizionale comasca: se infatti il socio in questione, proprietario
dell’aereo, fosse antipatico (cosa molto, molto probabile), sarebbe comunque
preferibile, per un giusto, coerente e irrinunciabile anelito alla decenza, elimi-
nare dall’hangar l’aereo, il socio, gli ammiratori, i visitatori, i miliardari, i
giornalisti, le televisioni e quant’altro sta intorno a questo orribile ambaradan,
vera e “strutturale” turbativa della vita del Piazzale.
L’alto spirito di emulazione delle nobili gesta dei kamikaze da parte di
questi soci-piazzalisti “doc” ha fatto tanto parlare di sé che il governo nippo-
nico, venutone a conoscenza, ha ritenuto di conferire a questi soci del Club un
riconoscimento speciale, erigendo il noto “Monumento al piazzalista-kamika-
ze” che si trova sul marciapiede verso la passeggiata di Villa Olmo.
Tornando a bomba, l’insieme delle discussioni riguardanti la scelta del nuo-
vo aereo potrebbe essere fatto in una riunione, al termine della quale si potreb-
be giungere alle relative decisioni, ma ciò è una soluzione antidemocratica,
che non rende ragione della complessità delle posizioni esistenti nel Club. È
molto meglio che ciascuno esprima con suo completo agio la propria opinione
sul Piazzale. Ciò rappresenta un fatto altamente positivo perché - vedremo
subito come - evita esecrabili scontri diretti, che costituirebbero una rozza e
poco edificante manifestazione, in grado di minare l’unità del Club.
Sul Piazzale, infatti, non si parla mai ai diretti interessati, ma sempre e
rigorosamente per interposta persona. Se per esempio Tizio ha qualcosa da
dire a Caio, è inutile che lo affronti direttamente sul Piazzale, cosa poco sim-
patica; è meglio ed enormemente più rispettoso che dica peste e corna di Caio
a Sempronio, che ovviamente glielo riferirà in un baleno (talvolta anche pri-
ma che Tizio gli abbia parlato). Caio farà lo stesso nei confronti di Tizio e in
questo modo la cosa potrà andare avanti per anni senza che abbia mai a pro-

255
Vita di Club e dintorni

dursi una vera situazione di conflitto. Se Tizio dovesse incontrare Caio sul
Piazzale, cosa che anzi succede spesso, è certo che parleranno di null’altro
che del più e del meno e comunque si troveranno immediatamente solidali nel
giudicare male almeno la metà dei soci, pessimamente i dipendenti e ancora
peggio i membri (o gli altri membri) del Consiglio direttivo.
È questa una forma di sublimazione dell’istinto aggressivo che l’etologo
Konrad Lorenz non voleva credere che potesse manifestarsi anche presso la
specie umana, ma su cui ha dovuto ampiamente ricredersi quando ha spostato
per sei mesi la sede dei suoi studi dallo zoo di Vienna al piazzale dell’Aero
Club Como, compiendo la famosa ricerca che gli valse il Nobel.
Il parlare per interposte persone, formanti anche lunghe catene, rappresenta
un antico metodo di comunicazione che consente a ogni banale “bit” di infor-
mazione di variare e arricchirsi, a ogni passaggio, di nuovi significati, renden-
do il messaggio originale estremamente più “di effetto” e interessante. Ciò
determina quasi ogni giorno una spirale di interpretazioni su ciò che è stato
- forse o eventualmente - detto, una ridda di accuse e controaccuse, difese e
controdifese, su cui si formano sul Piazzale, come nel mare tra Scilla e Carid-
di, immensi gorghi di consenso e dissenso, a tutto vantaggio della completez-
za di valutazione delle questioni sul tappeto e della democraticità dei processi
decisionali che ne conseguono.
Quanto si è detto potrebbe far pensare che i piazzalisti perdano le loro
giornate in discussioni e bla bla bla. Se ciò può rispondere a verità per la
miriade di questioni effimere che ogni giorno vengono alla ribalta, nulla è
meno vero per le questioni veramente importanti. I piazzalisti, nell’esaminare
tali questioni, dimostrano di essere gente molto pratica e che bada al sodo. Lo
attesta il sano odio ancestrale che nutrono per tutto quel “culturame idro” che
ha la sua espressione più degenerata nella pubblicazione di libri e articoli
aventi a che fare con il volo sull’acqua e gli idrovolanti. Per mettere bene in
chiaro come la pensano di questi idro-intellettualoidi, tutta gente montata, i
piazzalisti hanno reintrodotto ogni domenica mattina, copiandole pari pari
dagli ultrafondamentalisti religiosi americani, le cerimonie di book burning,
nel corso delle quali vengono bruciate opere di autori italiani e americani,
copie di Water Flying e Volare che contengono articoli sul volo idro, giornali
locali che riportano storie che hanno a che fare con l’Idroscalo e l’Aero Club.
Tutta roba che serve solo a far perdere tempo. L’intera realtà comasca del
volo idro (altre realtà non interessano, anzi, non esistono; il piazzalista mica è
un ficcanaso) è suscettibile di essere completamente abbracciata e descritta
grazie a forme di divulgazione ed espressività molto sobrie e concise. Ogni
giudizio su persone e fatti consta infatti di alcuni semplici movimenti delle
sopraciglia. Ogni operazione di volo che si svolge sullo specchio dell’idrosca-
lo può essere descritta in modo esaustivo attraverso lievi movimenti degli
angoli della bocca o del capo dei piazzalisti presenti. Quando l’emotività
prorompe, di fronte a fatti di eccezionale portata, si giunge al mugugno, il cui

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Vita di Club e dintorni

significato è immediatamente desumibile dall’inflessione. Piazzalisti molto


estroversi sono uditi sussurrare talvolta sequenze di fonemi riconoscibili, tra
cui è particolarmente frequente la sequenza “m”, “v”, “f”, “n”, “c”. Le sole
frasi complete sono pronunciate in momenti storici e sono quelle tre o quattro
indicate in altre parti di questo scritto. Chi vuole sapere tutto sul volo idro,
dunque, ha tutte le opportunità per farlo senza perdere tempo in letture noiose
e fuorvianti e in discorsi vacui. Basta che stazioni un attimo sul Piazzale.
Tornando al nuovo aereo da mettere in linea, facciamo ora il caso che un
amministratore del Club riesca infine a tessere la complessa rete di rapporti
che consente di portare a termine la missione. Si è certi, in questo caso, che la
reazione può essere solo di due tipi: egli o sarà del tutto ignorato, cosa giusta,
avendo certamente ottenuto il risultato in modo casuale o facendo propria la
linea di condotta indicata, in qualche momento, dal Piazzale, o sarà osteggiato
con tutte le forze, perché rappresenta una contraddizione vivente della prima
regola del Piazzale. Anche quest’ultimo fatto, apparentemente negativo, ha
invece un suo fondo di positività. Infatti un consigliere che abbia ottenuto un
successo potrebbe montarsi la testa e combinare chissà che guai, in futuro.
Inoltre diventerebbe con tutta probabilità una delle persone più antipatiche del
Club, un destino che è bene gli sia risparmiato a tutti i costi, per il senso di
amicizia che accomuna, nel profondo dell’animo, tutti i membri del Club.
Per questo motivo, se dovesse sorgere anche il più piccolo dubbio che la
prima regola del Piazzale, con il suo contenuto di saggezza, possa essere
contraddetta, ovvero che possa dimostrarsi che il Consiglio o un consigliere
abbia fatto una cosa giusta nell’acquisto dell’aereo, un’immediato e unanime
pensiero si farebbe largo sul Piazzale: “Speriamo che l’aereo affondi durante
il volo di omologazione e non arrivi mai in linea.”
La speranza ultima delle multiformi componenti del Piazzale riunite è che a
distruggere l’aereo sia il più esperto pilota di idrovolanti presente sulla piazza.
Questo, che a prima vista potrebbe parere un sentimento gretto e dettato dal-
l’invidia, è in realtà una manifestazione di incondizionata generosità: con
quell’atto, infatti, la persona più odiata del Club potrebbe finalmente finire
per essere considerata simpatica (se questo risultato fosse assicurato, i fondi
per l’acquisto dell’aereo da sacrificare, anche se del valore di 850.000 $, si
troverebbero in un tempo che va dai due ai tre minuti).
Al termine di un iter come quello-tipo sopra descritto si presentano casi in
cui l’aereo giunge effettivamente alla linea di volo. Nell’evenienza emerge
una caratteristica speciale dei piloti idro di Como: sanno pilotare gli idrovo-
lanti in modo innato, per puro istinto. Il già citato etologo Lorenz, che ha
studiato per mesi un preciso stormo di piazzalisti, ha attribuito ciò all’imprin-
ting che ogni comasco riceve appena nato, quando innanzi alle vetrate della
sala-parto dell’ospedale Sant’Anna compare immancabilmente la sagoma di
un idrovolante-mamma (di solito un Cessna anfibio in decollo per la 19), il cui
rombo fa da risposta al primo vagito. Ciò spiegherebbe - sempre secondo

257
Vita di Club e dintorni

l’insigne etologo austriaco - il fatto che quei comaschi che hanno subìto l’im-
printing cercheranno di passare più tempo possibile della loro vita sul Piazza-
le e comunque presso gli idrovolanti, non esistendo né famiglia né occupazio-
ne né viaggio in paese esotico in grado di competere minimamente con questo
profondo e ancestrale richiamo della natura.
La curiosa, ma inequivocabile capacità innata dei piloti comaschi rende
superflua la funzione dell’istruttore, che viene portato in volo dai soci, nei
primi voli sul nuovo aereo, giusto pro forma e solo in quanto richiesto da una
retriva regolamentazione, oppure per un sentimento di pena, in quanto prima o
poi bisogna pure che qualcuno faccia vedere a questi poveri istruttori, che
sono lì tutto il giorno mezzi sfaccendati, come si pilota un idrovolante.
Un’altra conseguenza della speciale attitudine al volo dei piloti di Como è
che è inutile istruire gli istruttori, la cui funzione non è sostanzialmente richie-
sta, se non per inviare oscure carte firmate al ministero. Se uno di essi chiedes-
se espressamente di essere istruito, per esempio all’uso di un nuovo tipo di
aereo, verrebbe messo immediatamente in riga con due considerazioni di lam-
pante evidenza: primo, il fatto che un istruttore chieda di essere istruito al-
l’impiego di un idrovolante è una contraddizione in termini e una dimostra-
zione del fatto che non sa pilotare gli idrovolanti, quindi che la sua funzione è
del tutto inutile, c.d.d.; secondo, se proprio un istruttore vuol fare una cosa
così strana, oltre che inutile, almeno che si paghi il volo (anche gli operai,
quando le cose funzionavano a dovere, si portavano un sacchetto di carbone in
fabbrica, per la stufa, se volevano lavorare al caldo).
È inutile dire che l’istruttore a bordo è una bella seccatura, perché non la
smette un minuto di rompere, peggio di un pappagallo: e “guarda che siamo a
100 piedi e così l’aereo stalla” e “se vai avanti così ci infiliamo” e “occhio che
così il motore pianta di certo” e “stai un paio di metri più in là dal battello
quando sei sul redan” e “già che non ci passi sopra, almeno cerca di passarci
in mezzo” (frase tipica nel decollo 19 dopo l’erezione delle torri-faro) e “no,
le antenne no” (frase tipica invece nell’ammaraggio 01). Ma tutto questo cia-
colare, in fondo, è sopportabile; guai, invece, se l’istruttore si azzardasse a
mettere le mani sui comandi, perché in quel caso, non avendo ricevuto alcuna
istruzione specifica al volo idro, in quanto inutile, l’aereo sarebbe quasi certa-
mente perduto (pur con tutta una serie di vantaggi indotti dall’evento).
I più esperti bypassano l’intera problematica e l’umiliante situazione di
dover essere giudicati da un incompetente evitando di usare l’istruttore, even-
tualmente vantando le centinaia di ore volate su quel tipo di aereo vent’anni
prima in Canada o nell’Antartide, mentre altri si fanno autorizzare a volare
come solisti sul nuovo aereo da un inserviente avventizio di segreteria o della
linea di volo, presente quale stagista («Ah, ma come? Non era il nuovo istrut-
tore? Sì, va be’, stava scopando per terra, ma anch’io la settimana scorsa ho
dato una pulita in hangar... Beh, ormai l’aereo l’ho preso in mano, non voglia-
mo mica farne una questione di principio... sennò alla prossima assemblea

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Vita di Club e dintorni

faccio un casino e magari vedremo in quell’occasione chi per caso ha fatto


qualche volo gratis...»).
Esaminiamo ora un problema molto particolare che si deve immediatamen-
te affrontare subito dopo l’acquisto di un aereo, quale che sia il percorso per
cui esso è giunto alla linea di volo: l’assicurazione. La cosa che disturba di più
un comasco è spendere i soldi; ma la cosa che lo distrugge è spenderli inutil-
mente. Se si assicura un aereo e quello si ostina a non incidentarsi, si deve
deglutire l’amaro boccone dei soldi dell’assicurazione praticamente buttati al
vento. Le soluzioni sono due: o l’aereo finalmente si incidenta, offrendo una
valida giustificazione dei soldi spesi per l’assicurazione, cosa che fa tirare il
fiato agli amministratori, oppure è meglio non assicurare l’aereo o almeno
assicurarlo per la cifra più bassa possibile.
Inutile dire che l’inventiva del Piazzale è senza limiti e produce soluzioni
impensabili al di fuori dei processi decisionali che sono propri di quella istitu-
zione. Una brillante soluzione è quella di assicurare l’aereo un giorno sì e uno
no. Se mai un pilota dovesse andare in volo in un giorno in cui l’aereo non è
assicurato... peggio per lui, doveva informarsi. Intanto è stato risparmiato il
50% dei costi per assicurazioni.
Le risorse del Piazzale sono veramente infinite. Vediamo per esempio il
caso che l’aereo da acquistare sia di proprietà di un componente di spicco
dello stesso Piazzale. Ciò assicura l’immediato ingresso del Club nella storia
dell’aviazione. Infatti quell’aereo potrà essere venduto al Club al prezzo più
alto mai udito e comunque almeno quattro volte più alto del prezzo pagato dal
socio e finire quindi riportato sul Guinness dei Primati, cosa che renderà il
Club famoso in tutto il mondo, fatto in sé già positivo. Ma c’è un ulteriore
vantaggio: migliaia di proprietari di aerei, dopo aver letto l’interessante pub-
blicazione, incominceranno a proporre il proprio aereo al Club, speranzosi di
combinare il migliore affare della loro vita e nel contempo offrendo al Club
l’esaltante possibilità di poter scegliere tra una quantità enorme di offerte.
Infine, a proposito di acquisizione e cessione di aerei, si deve registrare che
il Piazzale ha saputo immaginare operazioni di altissimo valore umanitario.
Al Club arrivano molti piloti da realtà aviatorie esterne. Questi, quando sco-
prono la ricchezza del volo idro, così come è praticato nel nostro paese e in
particolare sul Lario, vanno facilmente incontro a quella leggera e piacevole
psicopatia che è l’innamoramento. Si innamorano del paesaggio lacustre, di
Como, di un istruttore, di un preciso aereo, della nostra bella segretaria, addi-
rittura dei meccanici, per non dire dell’ormai concittadino George Clooney.
Si è assistito negli ultimi anni a vere e proprie dichiarazioni di amore da
parte di allievi piloti maschi - certamente eterosessuali - nei confronti del loro
istruttore, ugualmente maschio. Ciò è molto positivo in un’ottica di sprovin-
cializzazione del Club, in quanto eleva una conservatrice cittadina come Como
al rango di una metropoli come New York, ove anche il più esotico costume
comportamentale è da considerare pura e assoluta normalità.

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Vita di Club e dintorni

È capitato a un certo punto - per raccontare una delle tante storie di innamo-
ramento - che un pilota straniero, dopo avere conseguito l’abilitazione idro, si
sia profondamente innamorato di un preciso aereo. Il Piazzale, in un encomia-
bile conato di generosità, ha ritenuto di non dover deludere i sentimenti e le
aspettative di questo ammiratore degli idrovolanti e, dando fondo a tutti i
propri poteri, reali o presunti, glielo ha pressoché donato.
Nell’occasione è stata ideata un’operazione gestional-legale-amministrativa
di complessità così alta che ancora oggi, a distanza di anni, notai, avvocati e
vari organi dello Stato, tra cui le Dogane, la Guardia di Finanza, il Registro
Aeronautico Nazionale, e perfino la Federal Aviation Administration telefona-
no quasi quotidianamente alla segreteria del Club esprimendo un vero senso
di meraviglia per molti aspetti particolari della faccenda.
Per non perdere tempo in inutili scartoffie, il fortunato visitatore è stato
autorizzato a firmare da solo il contratto di compravendita, sia come compra-
tore sia come venditore, un privilegio che mai era stato concesso ad alcuno
nella quasi centenaria storia dell’idroaviazione a Como. Questa inusuale pro-
cedura, che solo l’inventiva del Piazzale ha potuto concepire, è stata un vero
colpo di genio; infatti ha reso la perdita dell’aereo da parte del Club impercet-
tibile, in quanto nessuno ha mai più saputo quando il trapasso formale di
proprietà è avvenuto e a tutt’oggi non è nemmeno noto se esso sia valido.
È vero che a un certo punto, di colpo, l’aereo è sparito dall’hangar, ma ormai
i soci si erano abituati all’idea che quell’aereo potesse essere indifferentemen-
te di proprietà del Club oppure del citato visitatore straniero e dunque hanno
potuto centellinare in modo quasi indolore il trauma della perdita.
In questo modo il Club ha potuto svolgere il dovere istituzionale di promuo-
vere il volo idro in tutte le sue forme e in particolare promuove il nome
dell’Aero Club Como. Presto infatti quell’aereo, su cui si sono formati i piloti
idro comaschi per 15 anni, volerà nel continente americano, diffondendo il
buon nome del Club di Como nel mondo.
La fondazione di Madre Teresa di Calcutta, informata del fatto, ha immedia-
tamente insignito di laurea ad honorem il dirigente del Piazzale comasco che
ha escogitato la clamorosa operazione umanitaria.
La sezione tibetana dell’Unione Aeronautica Internazionale, dal canto suo,
quando è venuta a conoscenza di questo caso, ha proposto di insignire l’Aero
Club Como del prestigiosissimo “Triumph of the Buddhist Idea Award”, con
la seguente motivazione: “I dirigenti del Piazzale dell’Aero Club Como hanno
dato prova del più alto senso di altruismo, di elevazione spirituale e di distac-
co dalle cose del mondo, nella più pura tradizione buddista, dimostrandosi
capaci di spogliarsi di tutto a favore del primo che passa.”
Sua Santità il Dalai Lama, nel corso della cerimonia di premiazione, ha
detto che «se tutti fossero come i dirigenti del Piazzale dell’Aero Club Como
ogni uomo, ogni donna ogni bambino del nostro pianeta avrebbe il suo idrovo-
lante e il mondo sarebbe di gran lunga migliore».

260
Vita di Club e dintorni

Non credete che un simile episodio possa essere avvenuto? Non credete che
il Club possa aver dato una così completa dimostrazione di disinteressato
altruismo? Nessun problema: fate una prova voi stessi. Acquistate un aereo
oppure fate riparare un vostro aereo privato per una cifra consistente, diciamo
a caso, proprio giusto per dare un ordine di grandezza, 25.000 dollari o euro o
sterline e, al momento di pagare il conto, dite semplicemente al vostro interlo-
cutore/creditore: «Manda la fattura all’Aero Club Como» (tra le valute non
abbiamo citato volutamente i franchi svizzeri perché in Svizzera, notoriamen-
te, è impossibile che esistano aziende che potrebbero prestarsi a questo curio-
so gioco). Vedrete che in nove casi su dieci la fattura verrà pagata.
Fatti simili, quando sono accaduti, hanno avuto un risvolto altamente positi-
vo perché hanno confermato e consolidato il rating “1” attribuito al Club dalla
famosa azienda di certificazione internazionale Bassott&Bassott, il cui signi-
ficato è “Eccellente pagatore”. Quando qualcuno si rivolge a loro per avere
informazioni aggiornate sul Club, i funzionari di quell’azienda, tralasciando
le definizioni ufficiali e desiderosi di non perdere tempo in chiacchiere, ri-
spondono di solito: «Sì, sì, rating “1”: fate un paio di urlacci e mandategli là
un qualunque pezzo di carta; vedrete che sganceranno il grano.”
Qualche dirigente, arrivato da poco al Club e del tutto ignaro della comples-
sità della gestione dell’ente, oltre che spinto da arcaici e rozzi criteri di gestio-
ne, tenta sistematicamente di opporsi a pratiche come quella sopra descritta,
definendole con terminolgie che si richiamano al mondo animale, evocato in
erudite citazioni che coinvolgono frequentemente la volpe, la faina, il cocco-
drillo, la iena, lo squalo, il serpente a sonagli, l’avvoltoio, la locusta, il piraña,
per sconfinare a volte nell’affascinate campo degli animali estinti, quali il
Tyrannosaurus Rex o il Velociraptor. Qualcuno, in ridicoli accessi di vis pole-
mica, ha scomodato addirittura i virus, come il fago T-2 e l’ebola, e il predato-
re perfetto, prodotto da quella moderna mitologia che è la fantascienza: alien.
Ebbene ci vuole sempre un po’ di tempo per fare capire a questi troppo
volonterosi e ingenui neo-amministratori che episodi in cui il Club regala
aerei a estranei o decine di migliaia di euro ai propri soci più intraprendenti
non devono essere avversati, ma che anzi sono assolutamente indispensabili
per dimostrare in modo inequivocabile e senza ombra di dubbio che il Club è
veramente un’associazione “senza fini di lucro”, come recita lo statuto. Quale
migliore dimostrazione, infatti, della natura non lucrativa del Club che il get-
tare alle ortiche i propri beni a cespite e i propri introiti?
Terza regola del Piazzale: “Non c’è competenza che possa reggere al
vaglio del Piazzale”. Questa regola contempla varie sfaccettature. Una è che
non esiste un esperto locale. Nemo propheta in patria: se questo detto è stato
coniato per Gesù Cristo, figuriamoci se non vale per un umile e anonimo socio
dell’Aero Club Como! Un dirigente ha sempre fatto scelte giuste? La cosa lo
rende antipatico e quindi impopolare: anche se è bravo, non potrà ricoprire
ancora per molto tempo una carica di responsabilità. Uno ha fatto tutte le

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Vita di Club e dintorni

scelte sbagliate, anzi sbagliatissime? È ovvio; anzi, era perfettamente previ-


sto; certamente è più simpatico, perché conferma la prima regola del Piazzale;
ma sì, in fondo è un ottimo candidato-presidente alle prossime elezioni.
Un’altra sfaccettatura è che non esiste esperto esterno. Quelli (esaminatori,
ispettori del RAI, dirigenti del Ministero, piloti terrestri con 20.000 ore, liqui-
datori delle assicurazioni, collaudatori, astronauti, scrittori di libri di aviazio-
ne) non sono proprio sprovveduti come i dirigenti e gli istruttori del Club, ma
comunque marcano male, perché vengono sul Piazzale a sciorinare con incre-
dibile arroganza la loro esperienza e la loro competenza, ma non sapranno mai
fare un ammaraggio come il meno esperto dei piazzalisti.
La soddisfazione di vedere giustamente mortificato uno di quei presuntuosi
e antipatici estranei vale certamente un aereo, così che quando lo distruggerà
(perché del tutto ignaro delle procedure a specchio, delle conseguenze del
flottaggio con il vento in coda, dell’azione delle forze laterali e dell’effetto
delle onde sulle strutture, tutte cose che nessuno gli avrà insegnato), il malca-
pitato si sentirà semplicemente dire da qualcuno seduto sulle sedie blu là a
destra: «Tranquillo, tranquillo; nessun problema: succede sempre a quelli che
non hanno incominciato qui».
Il pronunciare questa frase è una delle massime soddisfazioni che il piazza-
lista può provare nella sua vita. Anzi, per alcuni è tanto divertente vedere gli
“esterni” rendersi conto della complessità e talvolta della drammaticità del
volo idro che, quando sta a loro decidere, danno loro in mano l’aereo dopo
solo quattro o cinque ore di doppio-comando.
Insomma, non esiste esperto, interno o esterno, che serva a qualcosa e ciò è
bene, perché gli esperti sono di un’antipatia incredibile e rappresentano un’inu-
tile e non richiesta interferenza nel normale svolgimento della vita del Club e
soprattutto del Piazzale.
Quarta regola del Piazzale: “Il Piazzale ha sempre ragione”. Il Piazzale
assomiglia alla Biblioteca di Babele descritta da Jorge Luis Borges, ovvero a
quella biblioteca infinita, formata da libri di 410 pagine, in cui ogni possibile
opera è presente, ma nella quale, proprio per questo, è difficile trovare un libro
che abbia un senso. Da qualche parte ci sarà certamente la Divina Commedia e
da qualche altra la sua perfetta traduzione in danese o in bantu, così come
un’infinità di edizioni imperfette, che differiscono dall’originale per una sola
lettera, o tradotte in ogni altra lingua, anche se non ancora esistente. Tuttavia,
essendo i libri in numero infinito, è quasi impossibile sapere dove si trovino
quelli che potrebbero interessare. Viandanti hanno girato la Biblioteca di Ba-
bele per una vita, sfogliando milioni e milioni di libri, ma riuscendo a trovare
in essi solo una ventina di frasi compiute.
La memoria storica del Piazzale è molto simile alla Biblioteca di Babele: le
cose dette sul Piazzale hanno infatti una mole talmente vasta che è sempre
possibile estrarre da quell’immenso corpus di conoscenze una frase, un pen-
siero che permetta al piazzalista di dire la sua frase preferita, tanto solenne-

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Vita di Club e dintorni

mente pronunciata che alcuni la faranno iscrivere quale epitaffio sulla pietra
tombale: «L’avevo detto, io”. Ciò favorisce un produttivo e inestinguibile con-
fronto di opinioni, considerato che dallo stesso corpus può essere estratto con
la stessa facilità un pensiero che permette di pronunciare la stessa frase, ma su
una tesi esattamente opposta. Ecco dimostrata la regola che “il Piazzale ha
sempre ragione”, qualunque sia la tesi sostenuta.
Quinta regola del Piazzale: “Piazzalisti si nasce e non si diventa”. O,
almeno, veri piazzalisti “doc” si può solo nascere, in quanto la qualifica ri-
chiede un mix di caratteristiche tale che, se dovesse essere frutto di un proces-
so di formazione, renderebbe necessario un intervento di fatto impossibile da
realizzare nel corso di una vita umana.
Chi ha solo alcune delle caratteristiche di questo mix potrà esercitare la
funzione di piazzalista “gregario”, “aggiunto”, “coadiutore”, “fiancheggiato-
re” o potrà appartenere alla ristretta cerchia dei piazzalisti “adoratori” oppure
iscriversi alla “Società degli Amici del Piazzale” o alla “Confraternita degli
aspiranti piazzalisti” o, se giovanissimo, al “Gruppo Pulcini del Piazzale”, ma
mai potrà svolgere la funzione di vero “Signore della piazza” o Platzkomman-
dantur, personaggio ai vertici della gerarchia di beccata del Piazzale.
A questo punto potrebbe sorgere un dubbio: che cosa mai potrà succedere
qualora un piazzalista “doc”, per qualche strana alchimia di potere o caso del
destino, diventasse dirigente del Club, ovvero assumesse il ruolo di una perso-
na che tradizionalmente è nel mirino dei piazzalisti? Semplice: le regole del
Piazzale, essendo eterne e immutabili, valgono comunque, a partire dalla pri-
ma (“Quelli là sono dei pirla”), anche se in questo caso per “quelli là” si deve
intendere principalmente: i soci, soprattutto se hanno qualche strana idea sul
futuro del Club, non omologata preventivamente dal Piazzale, e tutti coloro
che, in qualità di fornitori, consulenti, funzionari, dipendenti o collaboratori,
hanno a che fare con il Club per ragioni professionali o tecniche, continuando
a mettere i bastoni tra le ruote con i loro non richiesti pareri.
Ma i pirla più pirla saranno, come è prevedibile, i colleghi membri del
Consiglio direttivo, tra cui è molto probabile che vi siano altri piazzalisti
“doc” e con i quali, quindi, avrà immediatamente inizio, subito dopo le elezio-
ni, una lotta intestina ove ciascuno farà di tutto per portare alle dimissioni
almeno metà degli altri consiglieri.
Ciò - è inutile dirlo - è certamente un’opera meritoria, potendosi quasi sem-
pre dimostrare che il consigliere avversario è stato in passato un tossicodipen-
dente, un fallito, un truffatore e sicuramente un pedofilo, oltre ad aver affon-
dato le mani nelle casse del Club per arricchirsi personalmente.
Un piazzalista sarà sempre legato alle sue origini e a quel fazzoletto di
catrame e asfalto su cui ha vissuto e vivrà gli eventi più importanti della sua
vita. Anche se diventasse presidente della Repubblica o dell’ONU non potrà
mai dimenticare dove e come ha fatto la gavetta e continuerà ad applicare
nella vita i principi appresi nel lungo praticantato del Piazzale. Ciò gli confe-

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Vita di Club e dintorni

rirà poteri quasi sovrumani e gli permetterà di sbaragliare qualsiasi nemico.


La scuola del Piazzale, infatti, è durissima ed enormemente formativa per
persone dotate di ambizione e che basino le proprie speranze di successo su
una profonda conoscenza dell’animo umano.
Il Piazzale è anche una grande madre che accoglie tutti. Non c’è persona che
non possa esser annoverata tra i piazzalisti, dal presidente dell’Aero Club a un
passante. L’importante è che si attenga alle previste regole di comportamento
e in particolare: parlare male di tutti, a partire dai colleghi piazzalisti non
presenti; parlare malissimo di quelli che si danno da fare per il Club, tutta
gente che si è montata la testa, e avversare in ogni modo gli organi dirigenti.
Il Piazzale è un’istituzione lungimirante. Per perpetuare sé stesso segue un
programma di ampio respiro, non meno articolato di quello dei più longevi
potentati ideologici capaci di dominare per millenni le menti di adepti assetate
di certezze. Come si sa, le convinzioni più forti, anche se del tutto assurde e
irrazionali, sono quelle che vengono inculcate dalla tenera infanzia.
Dunque enormi energie sono riservate a ciò che alcuni chiamano coltivazio-
ne e altri allevamento di nuovi piazzalisti (a seconda che li si consideri appar-
tenenti al regno vegetale o a quello animale, tema oggetto di ampie discussio-
ni). Non c’è artifizio di tipo psicologico o materiale che non venga usato per
inculcare nel novello “virgulto di piazzale” (se considerato nel regno vegeta-
le) o “cucciolo di piazzale” (se considerato in quello animale) quel sano senti-
mento di odio verso i dirigenti che potrà fare del socio in questione un futuro
combattente e infine forse un eroe del piazzalismo comasco.
Le forze del Piazzale sono, oltre che lungimiranti, anche molto scaltre. Sono
infatti capaci, al momento opportuno, di fornire comprensione e appoggio
incondizionato a una fazione dei dirigenti opportunamente scelta per scardi-
nare l’ordine costituito impersonato dal Consiglio direttivo.
Dunque possono diventare enormemente suadenti e lasciare via libera a
qualunque arbitrio di uno o due consiglieri. Questi, in virtù del fatto che non
trovano alcuna opposizione al proprio operato, si sentiranno tanto forti da
indulgere in un esercizio esagerato del proprio potere. In questo modo l’oppo-
sizione la troveranno inevitabilmente all’interno del Consiglio, in cui si inge-
nererà un’aspra lotta di potere. Ecco che il Piazzale ha realizzato, quasi senza
muovere un dito, l’en plain: il Consiglio direttivo è in lotta al suo interno e
prestissimo si disferà.
I consiglieri inizialmente appoggiati nell’ambito di questa tipica dinamica
fanno la fine di quelli che si sono rivolti allo strozzino: all’inizio, ancora
lusingati, troveranno il caldo abbraccio di qualcuno che capisce i loro proble-
mi e che li aiuta. Eccoli poi nella scomoda situazione in cui devono incomin-
ciare a pagare un debito. Infine, a risultato ottenuto, saranno scaricati brutal-
mente e anche vilipesi come persone abiette e prive di spina dorsale. Se appro-
dati nella squadra del Piazzale, potranno fare al massimo i tirapiedi di un
personaggio di terzo o quarto livello.

264
Vita di Club e dintorni

Un’altra strategia del Piazzale altamente distruttiva, al pari di una bomba


all’idrogeno, è quella di acquistare un idrovolante, di solito anfibio, e fare sì
che in qualche modo finisca in hangar. I piazzalisti più navigati lo offrono in
uso al Club a condizioni “vantaggiosissime” o addirittura gratis.
In genere basta questo per gettare il Consiglio direttivo e l’intero Club nella
confusione più totale. Infatti intorno a quell’aereo incominceranno ad accade-
re i fatti più strabilianti. Molti soci scopriranno che, pur disponendo di ogni
tipo di idrovolante o anfibio a costi orari bassissimi, il volare su quello specia-
le anfibio a costi molto più alti è da considerare un privilegio. I meccanici
dedicheranno incredibili risorse personali, senza alcun compenso, alla manu-
tenzione di quell’aereo, anche se non viene richiesta, trascurando il lavoro
sugli aerei del Club. Le menti più fini ed esperte del Club saranno messe a
disposizione per risolvere ogni problema di importazione, certificazione e
immatricolazione dell’aereo in qualunque paese del mondo. Tutta l’esperien-
za legale e amministrativa del Club sarà messa alla più dura prova per elabora-
re, uno dopo l’altro, contratti di esercenza che non avranno mai corso o, se
ingenuamente firmati da un dirigente del Club, genereranno una sequenza di
guai destinata a protrarsi per decenni. Quell’aereo farà litigare soci, meccani-
ci, assicuratori, funzionari del RAI e ogni altro che ne avrà a che fare, ma
soprattutto spaccherà irrimediabilmente il Consiglio direttivo.
I miti greci del vaso di Pandora e del cavallo di Troia descrivono realtà
elementari rispetto a quelle che si ingenerano nel Club quando viene introdot-
to in hangar l’aereo di un socio o di un gruppo di soci piazzalisti.
Ora una doverosa considerazione. Potrebbe sembrare che gli organi dirigen-
ti del Club siano destinati a essere “crocifissi” quotidianamente dal Piazzale e
così in effetti apparentemente avviene. Ma la realtà è molto più complessa. I
dirigenti, in qualità di ex piazzalisti o comunque sopraffini conoscitori delle
dinamiche di piazzale, sono in grado di contrastare gli attacchi del Piazzale in
modo molto efficace, così come il corpo umano ha imparato, nel corso delle
ére, a generare anticorpi in grado di neutralizzare perfino la peste nera.
In genere questi dirigenti lasciano montare il dissenso anche su temi del
tutto secondari o - anzi - sono loro stessi a fomentarlo, per distoglierlo da
quelli primari. Inoltre, un buon consigliere sa diffondere voci assolutamente
verosimili che possono accreditare o screditare qualsiasi tesi.
Con un buon lavoro ai fianchi sugli elementi più deboli di uno schieramento
avversario, un consigliere può giungere a fare sostenere la propria tesi dal
proprio più acerrimo avversario, ovviamente fingendo di opporsi a tale tesi,
ma con armi volutamente spuntate. Infine il risultato è raggiunto, dando anche
la soddisfazione al capopiazzalista di pensare di aver vinto la battaglia.
Inoltre - non per niente sono stati eletti - i consiglieri sono sovente in grado
di seminare zizzania tra i piazzalisti meglio di qualsiasi piazzalista, creando
una lotta intestina all’interno del Piazzale che non si esaurirà prima di sei mesi
o un anno, così che il Consiglio finisce per godere di una boccata di ossigeno

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Vita di Club e dintorni

per poter gestire a sprazzi il Club e - incredibile - acquistare, nel corso di un


paio di blitz, uno o due aerei, cosa che risulterebbe del tutto impossibile
nell’ambito di una normale interazione Consiglio-Piazzale.
Le strategie più raffinate sono quelle volte a ridirigere le energie del piazza-
le su oggetti o persone diverse dal Club, dagli idrovolanti e dal Consiglio
direttivo. Detto così, sembra un obiettivo facile da ottenere, ma la cosa richie-
de la maestria di un Macchiavelli e del cardinale Mazarino messa insieme.
Se per esempio si riesce a far passare un certo nuovo socio per arrogante e
antipatico, il Consiglio avrà una tregua, perché le forze del Piazzale si ridige-
ranno per un certo tempo su quell’obiettivo, nell’intento di annientarlo.
Questa tecnica è stata oggetto, per i dirigenti del Club, di un preciso corso
tenuto nientemeno che dal Cordobés, che sono andati appositamente a trovare
nella sua città natale: Cordova. Il celebre torero vive in una bella villa su un
altopiano che dà proprio sull’aeroporto e - pochi lo sanno - è un appassionato
pilota. In una lunga sessione di istruzione, ottenuta in cambio di un giro in
idrovolante su un lago dell’Andalusia, la delegazione di dirigenti comaschi ha
potuto apprendere che anche nelle situazioni più difficili il torero e i suoi
assistenti possono riuscire a distrarre il toro, ridirigerlo verso un falso bersa-
glio ed evitare l’incornata, ma solo se si fa un buon lavoro di gruppo.
Un altro modo per ridirigere le energie del Piazzale si basa invece su una
strategia antichissima. I Romani, insuperati maestri di gestione della res pu-
blica, di strategia militare e di politica, la sintetizzarono in tre parole, in cui
sta buona parte della scienza che serve per esercitare il dominio su masse
comunque grandi di persone: panem et circenses.
Si tratta in pratica di gettare sul Piazzale un qualche tipo di “giocattolo” o
elemento di interesse che abbia un notevole appeal, tale da assorbire e neutra-
lizzare le malefiche energie che normalmente sarebbero dirette contro i diri-
genti. Il tutto almeno per quell’attimo che consentirà al Consiglio un fruttuoso
sprazzo di gestione del Club. Ma che cosa potrà mai fare da esca?
Non si può sperare nel richiamo del gentil sesso, un elemento che scarseggia
al Club, tanto che i soci, formanti una società più ristretta di una setta segreta
giapponese, finiscono per scambiarsi le donne esclusivamente tra loro, a volte
in un vero changez-la-dame “a cascata”, e solo ogni vent’anni si assiste a una
new entry. Un Consiglio direttivo, per fomentare questa forma di distrazione,
ha addirittura acquisito e ristrutturato vari locali sul retro dell’hangar per
consentirne un uso “a ore” da parte dei piazzalisti. Questi tuttavia non ci sono
cascati e l’ingente investimento è risultato inutile, tanto da indurre il Consi-
glio a ripiegare sull’uso degli stessi locali per le modestissime funzioni di
foresteria per i soci stranieri e biblioteca.
Non si può nemmeno sperare che le prorompenti energie dei piazzalisti si
ridirigano su un altro hobby, anche se molti anni fa una marginale neutralizza-
zione delle forze del Piazzale era stata ottenuta trasformando la segreteria in
una bisca di scopa d’assi e in tempi più recenti un’operazione simile ha visto

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Vita di Club e dintorni

l’hangar trasformarsi in cantiere navale, ma senza apprezzabili e duraturi ri-


sultati. Gli attuali progetti di mettere in hangar tavolo da ping pong e calcetto
sono da considerare interessanti, ma non certo la soluzione finale.
L’unica, vera carta giocabile è un aereo terrestre. Se uno o più esponenti del
Piazzale finiscono in qualche modo per acquistare un aereo terrestre, inutiliz-
zabile all’Idroscalo di Como, i dirigenti godranno di una profonda boccata di
ossigeno, in quanto enormi energie verranno distolte dall’agorà comasca per
dirigersi sul nuovo oggetto del desiderio.
Ciò avverrà almeno per il tempo che i piazzalisti impiegheranno per scopri-
re che l’acquisto di un aereo di quel tipo è assolutamente inutile, in quanto
l’uso sarà scomodissimo e costosissimo, i rischi del suo impiego più elevati di
quelli corsi nell’impiego di un idrovolante e la soddisfazione nell’usarlo una
piccolissima frazione di quella che può dare anche la più umile delle macchi-
ne che operano sull’acqua.
Gli inevitabili litigi che l’operazione alimenterà tra i piazzalisti coinvolti
nell’acquisto sono ormai tanto “canonici” da essere riportati in un preciso
copione, che può essere acquistato presso la segreteria del Piazzale. Questi
litigi sono di solito sufficientemente intensi da portare il Piazzale stesso allo
sbando per un buon annetto, cosa che, se i consiglieri sanno pigliare la palla al
balzo, vale almeno una ristrutturazione completa dell’hangar, una campagna
di promozione del Club a livello mondiale e l’acquisto di altri due o tre aerei.
Il consigliere avveduto sa anche mettere a profitto la più grande debolezza
intrinseca del Piazzale, che è comune a tutti i movimenti basati non sulla
ragione, ma sulla carica emotiva. Questa debolezza è rappresentata dal fatto
che il Piazzale è forte solo in una condizione di elevato stato di aggregazione
dei suoi membri. Provate a prendere “da soli” il membro di una banda di
blousons noirs, una singola SS nazista, un singolo torturatore del KGB, un
singolo “ultra” da stadio: saranno sempre piccoli coniglietti bagnati, che di
fronte al nemico balbetteranno, perché a corto di argomenti, o scapperanno,
perché tremanti di paura.
Dunque il consigliere esperto sa che al branco unito e vociante di piazzalisti
va sempre lasciato campo libero, perché in quelle condizioni è inutile anche
solo interloquire. Invece, se c’è un risultato da ottenere, prenderà i piazzalisti
uno a uno, ottenendo talvolta il risultato di vederli aderire a un progetto pro-
duttivo. Tipicamente, il piazzalista che lavora da solo è in grado di dimostrare
un’enorme competenza e dedizione e fa sovente cose grandi per il Club.
Per questo motivo, in molti periodi, la guerra più spietata tra il Consiglio e il
Piazzale è fatta per puro divertimento e per dare un senso alle giornate di
vento e onda o ai lunghi e bui pomeriggi invernali, in cui non si vola, mentre la
reale condizione dei rapporti è quella del “conflitto con la pacca sulla spalla”.
In altri termini, provate a chiedere a un consigliere se desideri veder sparire
i piazzalisti e a un piazzalista se voglia veder “cadere” i consiglieri. Entrambi
risponderanno all’unisono, indignati: «Sei pazzo? E dopo chi si diverte più?»

267
Vita di Club e dintorni

Consigli direttivi
Fare il consigliere di un aero club o - peggio ancora - il presidente è un
compito ingrato. Prima il volo era una passione. Poi, da consigliere, diventa
un lavoro. Ma non un normale lavoro. Avere responsabilità di gestione in un
aero club può diventare una bella fonte di grane.
Ci sono consiglieri più o meno bravi, più o meno introdotti nella realtà
locale, più o meno facoltosi, più o meno generosi. Ci sono consiglieri colti e
incolti. Consiglieri che parlano male l’italiano e consiglieri che parlano per-
fettamente quattro lingue. La maggior parte condividono però una caratteristi-
ca: dedicano una grandissima quantità di tempo all’aero club. Ciò merita
considerazione e stima da parte dei soci, anche se si scontra con quell’inesora-
bile “prima regola del piazzale” descritta nel capitolo “Vita di club”.
Ci sono consiglieri che, appena eletti, spariscono e non lasciano traccia. Ce
ne sono invece che, eletti o non più eletti da anni, continuano a lavorare
indefessamente per il bene del Club, anche nell’ombra.
I consiglieri, nel momento in cui sono eletti, si dividono in due categorie:
quelli che sanno quello che fanno, o perché lo hanno già fatto in passato o
perché sono acuti osservatori della vita del Club, e quelli che non sanno quello
che fanno. I primi hanno la vita più difficile, perché si assumono un impegno
sapendo esattamente quel che comporta e, se non sono all’altezza dell’esple-
tamento dei loro doveri, sono proprio da condannare.
I secondi sono in genere forze nuove che emergono dall’amalgama del Club,
sovente neobrevettati, e hanno un compito più facile. Innanzitutto perché,
essendo neofiti, è loro perdonata l’intemperanza, l’eccesso di zelo, i banali
errori dovuti a troppo entusiasmo. Questa seconda categoria di consiglieri,
tuttavia, è preziosa, perché porta all’interno di un Club energie prorompenti,
tali da far smuovere il consesso sociale dall’inedia causata dall’asfittico siste-
ma dell’aviazione civile italiana, dalle vessazioni di carattere burocratico,
contributivo e normativo a cui è sottoposto il popolo volante nel nostro paese.
I nuovi “non sanno” e quindi osano, si arrovellano, si battono. Il bello è che
sovente queste energie hanno effetti tangibili e il Club vive, in quei momenti,
una nuova primavera. Nuove idee, nuovi rapporti con entità esterne e con i
soci dello stesso Club, nuovi modi di fare le cose, nuove prospettive strategi-
che, anche se talvolta a costo di qualche azzardo o battuta d’arresto.

268
Vita di Club e dintorni

Il problema è l’evoluzione generale del Consiglio direttivo. Vi sono Consi-


gli che esauriscono il 90% delle proprie energie in diatribe interne. Vi sono
Consigli che si squagliano, ma il cui lavoro è poi portato avanti magnifica-
mente da solo una o due persone. Vi sono Consigli che funzionano perfetta-
mente e armoniosamente, all’apparenza, ma che non producono nulla di posi-
tivo per il futuro del Club, niente evoluzione, niente idee, niente progetti,
capacità nulla di reagire ad attacchi esterni.
Che fare, nei panni di un socio? La mia ultratrentennale esperienza di Club
suggerisce le seguenti regole:
- Il bene del Club è superiore a qualunque diatriba interna; non subordinate
mai ciò che date al Club, in termini di quota sociale, di impegno personale, di
promozione dell’attività nel mondo esterno, di sopportazione degli inevitabili
disservizi, alla stima che avete per gli attuali dirigenti; il Club è un bene
infinitamente superiore a qualunque dei suoi attuali dirigenti e va conservato a
qualsiasi costo.
- State certi che ogni minima energia che spendete per il Club oggi, anche se
del tutto misconosciuta, darà preziosi frutti in futuro e voi certamente li racco-
glierete. Il fare per il club anche stando in una posizione di minoranza o
emarginata è un grandissimo titolo di merito, che in futuro potrà godere di
solenni encomi. Il tirarsi indietro dopo una sconfitta e pagare solo la quota di
socio ordinario o non iscriversi per protesta è assolutamente da evitare.
- La ragione non sta mai tutta da una sola parte; diffidate dei giudizi estremi;
ascoltate tutte le posizioni e conservate gelosamente un’indipendenza di giu-
dizio; guardate ai fatti, non alle parole; non parteggiate mai per persone che
avviano battaglie volte a mettere all’ostracismo altre persone (“Quello biso-
gna buttarlo fuori”), salvo che abbia commesso veri crimini contro il Club o
abbia infranto le regole in modo clamoroso e reiterato.
- Se proprio la gestione attuale non vi va, mettete in piedi un’alternativa; è
un vostro diritto e per fortuna questo è di tanto in tanto esercitato. Soprattutto
non fate l’errore di criticare, criticare, criticare senza proporre una precisa
alternativa fattibile, di cui voi stessi dovete essere i promotori e possibilmente
gli esecutori (in caso contrario sareste solo i “quaquaraquà” ampiamente de-
scritti, nelle varie forme possibili, nel capitolo “Vita di Club”).
- Identificate bene le persone che sono depositarie dell’esperienza di volo,
dell’esperienza di gestione, della saggezza e della moderazione nel gestire i
rapporti e date credito a queste persone.
- Checché ne dica Andreotti, il potere logora un pochino anche chi ce l’ha
(con la sola eccezione dello stesso inossidabile Andreotti, naturalmente). Se
siete implicati nella gestione del Club da anni, lasciate il posto ad altri, sup-
portandoli dall’esterno. Se dovete votare, fate in modo che a ogni rinnovo del
Consiglio vi siano forze nuove che si affiancano a forze già operanti.
- Andreotti, comunque, ha quasi completamente ragione nell’affermare che
“il potere logora chi non ce l’ha”. Vi sono, nei Club, persone che sono fuori

269
Vita di Club e dintorni

dalla gestione e ne soffrono non perché pensano che il proprio apporto possa
beneficiare il Club, ma perché a loro non è concesso l’onore del cosiddetto
“cadreghino”, ovvero del potere che si amministra all’interno di un club, che è
veramente misero, ma che è pur sempre potere.
Che cosa rovina un Consiglio direttivo? Questa è una bella domanda, a cui i
soci anziani del Club di Como sanno certamente dare una risposta.
La prima cosa che rovina un Consiglio direttivo sono i litigi tra due o più dei
suoi membri. I problemi del Club, in quel caso, diventano a poco a poco
secondari e tutte le energie si concentrano sulla battaglia interna. Le decisioni
non sono più prese nell’interesse del Club, ma in quanto pro o contro una
determinata persona. Capita che vengano prese decisioni evidentemente sba-
gliate solo per fare dispiacere a un avversario. In una situazione di questo tipo
il presidente, se gode ancora di autorità, il Consiglio o un’assemblea devono
intervenire per fare cessare al più presto questa deleteria dinamica, che in
passato è costata la vita a interi club.
Un’altra causa di rovina è quando un membro del Consiglio direttivo, perso
lo spirito di gruppo e quello di servizio verso il Club e i soci, agisce per un
interesse personale. Questo interesse può essere materiale, ma più frequente-
mente è un interesse di carattere psicologico o sociale, derivante dal prestigio
che offre la posizione, che è certamente infimo, ma che è meglio di niente.
Vediamo ora una causa non evidente di rovina per un Consiglio direttivo.
Parrà strano, ma è il troppo successo. Il successo genera invidia nei deboli e
odio nei potenti (ovviamente deboli e potenti appartenenti alla categoria dei
malvagi). Chi non conosce questa realtà e si trova a fare cose egregie per il
Club rischia seriamente la depressione. Infatti finirà per scontrarsi con gente
che, misconoscendo i suoi meriti e le sue conquiste, lo attaccherà continua-
mente su piccole cose, su insulsaggini. Il malcapitato benefattore, sconcerta-
to, finirà per mandare tutti a quel paese e se ne andrà amareggiato, lasciando
in molti casi la piazza proprio a quei Proci che potranno ristabilire nel Club
l’ordine della mediocrità che probabilmente il Club viveva prima dell’avvento
di quella o quelle persone.
L’amministratore che conosce le dinamiche interpersonali tipiche dei club
non si farà invece impressionare da queste malefiche manifestazioni di forza e
andrà avanti diritto per la sua strada. Questa resistenza purtroppo non sempre
ha la meglio. Se infatti le forze negative sono ampiamente prevalenti anche il
più capace e navigato amministratore potrebbe infine soccombere.
Qualcuno si potrà chiedere come mai nella storia di tutti i Club - e quello di
Como non fa eccezione - ci sono momenti in cui l’attività ferve, gli aerei si
moltiplicano, le relazioni con il mondo esterno sono vivaci e produttive e
invece momenti in cui un aereo dopo l’altro è perso o venduto, l’attività lan-
gue e le relazioni con il mondo esterno sono difficili e non portano a nulla. Gli
sprovveduti o coloro che sono in mala fede diranno che si tratta di fortuna nel
primo caso e sfortuna nel secondo. Chi ha fatto l’imprenditore sa benissimo

270
Vita di Club e dintorni

che tutto dipende dalle persone responsabili della gestione. Certo, anche la
fortuna ha un ruolo, ma la fortuna ha sempre bisogno di persone che la sappia-
no cogliere e sfruttare.
Il Club di Como - per quanto mi ricordo o ho potuto apprendere da docu-
menti storici - ha vissuto alcuni momenti di grazia e di grande sviluppo,
intervallati da momenti di declino, che in qualche caso è stato così profondo
da far temere la chiusura, il fallimento, la vendita dei pochi beni rimasti e la
restituzione all’ente pubblico delle strutture. In alcune occasioni è mancato
veramente un soffio al verificarsi della catastrofe.
È vero che le storie più drammatiche e i pettegolezzi più piccanti riguardano
i periodi declino, ma lascio volenteri che quei pettegolezzi e la vasta storio-
grafia dei periodi di malasorte o malgoverno siano evocati sul Piazzale da chi
staziona di solito sulle sedie blu presso lo stipite ovest e ha voglia di perdere il
suo tempo in polemiche (cosa che - beninteso - capita di fare anche allo
scrivente). Qui elencherò solo i momenti di grazia di cui ho conoscenza per i
documenti che ho esaminato o che ho vissuto personalmente. L’elenco non è
detto che sia esaustivo; il Club può aver vissuto altri momenti buoni, ma a me
ignoti. Il viaggio incomincia proprio dai primordi dell’aviazione comasca.
L’invenzione del secolo. Il periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento
vede un’umanità alla frenetica ricerca della possibilità di volare con il mezzo
più pesante dell’aria. Tutti si rendono conto che questo millenario sogno del-
l’uomo è dietro la porta. Prima vari alianti e idroalianti si lanciano lungo
pendii o sono trainati da motoscafi su specchi d’acqua e infine un aereo dotato
di motore si stacca da terra. È il 17 dicembre 1903. Nel 1913 l’aviazione ha
esattamente 10 anni e l’aviazione idro ne ha appena compiuti tre quando
Como diventa teatro di un importante avvenimento: un raduno europeo di
idrovolanti. L’evento elettrizza la città e contribuisce a diffondere nel nostro
territorio l’abitudine a vedere nel cielo quelle strane macchine volanti. Como
diventa una delle culle dall’aviazione idro italiana (l’altra è La Spezia).
Le celebrazioni voltiane. Gli anni Venti, lasciate alle spalle le tragedie
della prima guerra mondiale, sono l’epoca della costruzione di un’aviazione
civile. Nel nostro territorio nasce l’aeroporto di Erba, con relativi hangar e
strutture (1920), Somalvico investe i suoi beni nello sfortunato elicoplano,
che mai volerà (1921), viene organizzata una grande manifestazione aerea
(1922), sono fatti esperimenti di posta aerea tra varie località del lago e del
territorio (1922, 1925).
Il 1927 è l’anno delle celebrazioni del centenario della morte di Alessandro
Volta, illustre scienziato e cittadino comasco. Le grandiose opere realizzate
per l’occasione e il lunghissimo e ricco calendario delle manifestazioni non
possono certo vedere assenti gli aerei. In questa occasione un’aviazione civile
ormai matura fa bella mostra di sé. Dall’hangarino di Villa Olmo, apposita-
mente costruito, centinaia e centinaia di autorità, cittadini, bambini, ospiti e
turisti sono portati in volo dalla prima organizzazione di voli commerciali

271
Vita di Club e dintorni

operante sul nostro territorio.


La nascita della scuola di volo. Gli anni Trenta sono un momento magico
per l’aviazione mondiale, per l’aviazione italiana e di conseguenza anche per
l’aviazione comasca. Interessi militari contribuiscono a far nascere in vari
paesi l’aviazione popolare. In Italia Balbo dà un grande impulso alla nascita
dei club periferici e diffonde la RUNA (Reale Unione Nazionale Aeronautica)
in tutte le province. Nascono decine e decine di campi di volo e di idroscali. Il
Caproncino è uno degli strumenti di questo sviluppo.
A Como, nel 1930, è fondato l’Aero Club e in un batter d’occhio sono
raccolti i fondi per la costruzione dell’hangar. Scuola militare e scuola civile
vivono per alcuni anni un periodo di osmosi molto produttiva. L’imperativo di
quest’epoca è diffondere l’aviazione e produrre piloti.
La resurrezione. Como, nell’immediato dopoguerra, vede risorgere un’at-
tività di volo idro irrimediabilmente defunta grazie agli eroici sforzi di poche
ma determinate persone. Il Caproni CA 100 e il Macchi MB 308 sono prota-
gonisti di questo periodo epico, raccontato nei dettagli nel libro Ali sul Lario.
Primi anni sessanta. In questo periodo il Club riesce ad avere tre idrovo-
lanti (due Macchini e un Caproncino) e un anfibio a quattro posti, il Republic
Sea Bee I-SIBI. Viene prodotto il film “Gli Scarponi del Cielo” e sono orga-
nizzati a Villa Olmo, con l’Aero Club d’Italia, due raduni di piloti di livello
europeo, che indicano la strada da seguire per sviluppare l’aviazione generale
nel nostro continente, compito in seguito pienamente assolto dall’AOPA.
Metà degli anni settanta. Il momento di grazia è brevissimo. Il Club ritor-
na ad avere tre idrovolanti (due Cessna 150 e un Piper PA 18) e acquisisce il
suo primo Lake, il Buccaneer I-BUKA, un’impresa eroica in quegli anni.
Primi anni ottanta. Ad Aero Club virtualmente chiuso, con due aerei vo-
lanti e uno distrutto come unico patrimonio a parzialissima copertura di debiti
a cui non si sa più come fare fronte, il Consiglio direttivo si squaglia. Vari
pescicani comaschi si leccano i baffi al pensiero di poter trasformare l’hangar
in una redditizia rimessa per motoscafi o di poterlo abbattere per costruire le
ultime palazzine possibili in città e attendono fiduciosi che il funerale annun-
ciato si celebri.
Quando quel Consiglio direttivo, esausto, getta la spugna, è sostituito da un
direttivo nuovo al 100%. In soli due anni il Club risorge dalle ceneri e si
doterà di una flotta composta da cinque aerei: tre idrovolanti (i due Cessna
150 e il ricostruito Piper PA 18) e due Lake (che non hanno nulla a che fare
con quello degli anni settanta, miseramente perso poco dopo l’acquisizione).
I piloti comaschi si fanno conoscere per la prima volta in tutta Italia e in
Europa, fino alla lontanissima Lapponia, e partecipano anche a tre “Giri Aerei
d’Italia”. In questo periodo frizzante un ulteriore aereo, un Cessna 172 XP
nuovo fiammante, fa la sua comparsa, ma è perso dopo soli 15 giorni, rappre-
sentando proprio questo avvenimento l’avvio di una nuova fase di “bassa”.
1987-1988. In questo periodo il Club, risolti alcuni suoi problemi interni, fa

272
Vita di Club e dintorni

un salto di qualità decisivo. Sono acquisiti i Cessna 172, in sostituzione dei


Cessna 150, il Maule M7 anfibio e, in esercenza, il Lake Renegade, che si
aggiunge al Buccaneer. Il Club dà vita all’Istituto Aeronautico di Como, fa
approvare una legge che liberalizza tutte le acque della Lombardia, fa promul-
gare un decreto del presidente della Repubblica che sancisce l’esistenza del-
l’idroscalo, brucia tutti i record di ore volate, dà vita alla prima azienda di
trasporto pubblico passeggeri nel nostro paese e offre la propria consulenza
per far nascere la seconda, a Napoli. L’onda lunga di questo strabiliante perio-
do positivo conferisce al Club una flotta mai vista: 3 Cessna 172, un Lake 200,
un Maule M7, un Lake Renegade in esercenza, un L 19 in prestito dall’Aero
Club d’Italia, il Caproni CA 100 quale prestigiosa presenza esterna.
Dal 2001. Il nuovo Consiglio eredita tre Cessna 172 e un Piper Pa 18 anfibio
e si propone subito, quale obiettivo primario, di ricostituire la flotta presente
alla metà degli anni Novanta e di far tornare il Caproncino a Como. Acquista
un Cessna 172 per la scuola, un Lake Renegade e un Maule M7-235 anfibio.
Infine propizia il ritorno del Caproni CA 100, che è reso generosamente di-
sponibile all’uso dei soci da parte del proprietario. In meno di tre anni i quat-
tro aerei di proprietà diventano sette. Inoltre, all’uscita di questo libro, il Club
sta acquistando l’L 19 dall’Aero Club d’Italia. Con il Caproncino gli aerei in
hangar sono 9, un record battuto solo negli anni Trenta dalla scuola militare. I
piani per il futuro a breve/medio non sono ancora definiti, ma potrebbero
includere il restauro di un Macchi MB 308 e l’acquisizione di due idrovolanti
di bassa potenza e basso costo di esercizio, per fare scuola a costi contenuti.
Inoltre è acquisita l’intera palazzina retrostante l’hangar, che è ristrutturata
come centro di documentazione e foresteria, e le ore volate fanno un vero
balzo in avanti, battendo tutti i record precedenti.
Viene poi promulgata in Italia una legge che liberalizza l’uso delle acque
nazionali per gli idrovolanti, un frutto giunto a maturazione dopo decenni di
fatiche di vari dirigenti del Club.
In questo periodo il Club acquisisce una notorietà mai vista sia nei rapporti
con le istituzioni locali sia nella comunità internazionale dei piloti idro. Arti-
coli sul Club sono pubblicati su riviste di tutto il mondo.
Il Club dà vita all’ESPA, l’associazione europea di piloti idro, che ottiene
subito un importante successo: la polizza europea di assicurazione corpo per
idrovolanti, messa a punto in sei mesi di trattative con RAS e Allianz.
Dopo i colpi di frusta delle compagnie assicurative e dell’11 settembre,
l’aviazione idro mondiale è in ginocchio: assicurare un idrovolante è un mi-
raggio, volare come solista su un idrovolante anche. Como diventa l’unica
oasi felice, l’unico luogo del pianeta in cui un privato può affittare un idrovo-
lante, seppure con alcune limitazioni dovute a ragioni di sicurezza. Ciò è
anche il motivo per cui moltissimi stranieri giungono all’Idroscalo internazio-
nale e diventano soci dell’Aero Club Como.

273
Vita di Club e dintorni

Idrovolanti,
ambiente e ambientalisti
L’ambientalismo radicale è oggi una delle più forti minacce alla civiltà occidentale,
quella che ha avuto la sua origine nel materialismo degli antichi filosofi greci come
Leucippo e Democrito, il suo seguito nella civiltà romana e nel Rinascimento
e la sua apoteosi nell’Illuminismo, nella rivoluzione industriale e nelle attuali
conquiste delle tecnologie spaziali, informatiche e genetiche.
L’ambientalismo, come ogni sistema ideologico, attacca i simboli, i vessilli
del nemico. L’aviazione, una delle massime espressioni della potenza
di quella scimmia nuda che è l’homo sapiens, è uno di questi simboli e anche
l’ultimo e più piccolo dei piloti si trova nel mirino delle nuove milizie ecologiste,
anche se quel pilota, personalmente, come la stragrande maggioranza degli altri,
nutre un profondo rispetto e amore per la natura e l’ambiente.
Che l’idrovolante sia un mezzo “ecologico” per eccellenza è dimostrato
da molte ricerche condotte negli Stati Uniti ed è stato testimoniato da Fulco Pratesi,
massimo esponente del WWF, che ha conosciuto il volo idro nei suoi viaggi
nel continente americano e in particolare in Canada.
Il WWF comasco ha espresso un apprezzamento particolare per l’operato
dell’Aero Club Como nel condurre la sua attività.
Eppure, una miscela di ignoranza e fanatismo può eclissare - oltre che screditare -
gli sforzi e l’immagine di chi si occupa seriamente di salvaguardia della natura.

L’idrovolante ha un impatto ambientale pressoché nullo: non immette alcun-


ché nelle acque; non ha parti ricoperte da sostanze dannose per la vegetazione
e le forme di vita acquatica, quali sono le sostanze antivegetative di cui sono
talvolta rivestiti gli scafi delle imbarcazoni; non genera onde consistenti, tali
da disturbare, per esempio, i nidi costruiti in prossimità della battigia.
Che l’impatto del volo idro rasenti lo zero è testimoniato da una serie di
ricerche compiute negli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e in
Canada, paesi che hanno legislazioni in campo ambientale estremamente at-
tente e restrittive, ma nei quali le attività degli idrovolanti sono soggette a
pochissime limitazioni.

274
Vita di Club e dintorni

Fulco Pratesi, presidente del WWF, in un articolo sull’Espresso, nella rubri-


ca “Vacanze ecologiche”, ha decantato l’idrovolante come meraviglioso stru-
mento di scoperta del territorio.
La difesa dell’ambiente è un obiettivo proprio di ogni persona ragionevole:
a nessuno fa piacere l’idea di vivere in un ambiente degradato, in una natura
considerata schiava e passibile di ogni maltrattamento da parte di un indivi-
duo umano che si consideri superiore a essa e suo “padrone”. Un rapporto
equilibrato tra la nostra specie e la natura, che sia frutto di un’ampia consape-
volezza dei fenomeni che governano la dinamica dei grandi sistemi naturali e
artificiali di cui siamo parte, è alla base di uno sviluppo delle società umane
che possa essere chiamato “progresso”.
A questo va aggiunto che i piloti condividono l’esperienza del volo con la
consistente classe degli animali volanti e che ciò induce moltissimi di loro ad
avere, per quegli animali, una grande considerazione. È difficile, in effetti,
trovare maggiori estimatori e protettori degli uccelli che tra i piloti. Non è
possibile pensare di danneggiare o - orrore - uccidere forme di vita che rappre-
sentano per noi il modello perfetto di un’attività che noi riusciamo solo a
imitare a un livello enormemente inferiore di capacità ed efficienza. Si nota
quindi che esiste un magnifico rapporto tra piloti di idrovolante e avifauna,
così come un ottimo rapporto idrovolanti-ambiente.
Si deve tuttavia anche notare, purtroppo, che l’ambientalismo o ecologismo,
di cui non è ragionevole rifiutare i presupposti teorici, è andato incontro, negli
ultimi decenni, a varie forme di deviazione e degradazione, a varie “derive”.
La prima è la “deriva politica”, frutto della confluenza nell’ambientalismo
degli orfani delle rivoluzioni naufragate o già fallite prima di nascere che
hanno costellato il Novecento, di sinistra come di destra. La schiera di questi
ex rivoluzionari, sovente molto agguerriti da un punto di vista intellettuale,
con una buone esperienza di organizzazione e ottimi rapporti con il mondo dei
media, ha fatto da attrattore di quei sentimenti antioccidentali e in particolare
antiamericani che albergano nella nostra variegata società e che abbiamo visto
esplodere per esempio a Genova in occasione del G8.
L’altra deriva è quella “mistica”, che ha visto confluire nell’ambientalismo i
seguaci della New Age, eredi delle ideologie ultraconservatrici e antimoderni-
ste della vecchia Società Teosofica e delle organizzazioni che ne sono deriva-
te, che considerano la Terra e la biosfera come un enorme, unico organismo di
cui la specie umana non sarebbe che un elemento, e, nelle forme che oggi si
estrinsecano, una forma di cancro da estirpare.
Vi è stata, poi, la “deriva burocratica”. Schiere di piccoli funzionari di am-
ministrazioni di ogni ordine hanno scoperto che le paroline magiche “ambien-
te”, “ecologia” e “impatto” conferiscono un potere smisurato a chi le sa usare
opportunamente. Quale migliore arma per poter esercitare l’antica facoltà di
dire “no” a tutto, di ritardare indefinitamente l’esecuzione di progetti, di fare
parlare di sé i media, di essere ago della bilancia in decisioni importanti!

275
Vita di Club e dintorni

Gli ambientalisti seri - ne conosco molti - sanno riconoscere queste derive e


sono capaci di analisi raffinate e di azioni politiche sobrie e ragionevoli.
Tuttavia l’ambientalismo è una vera galassia e non si sa mai, in un certo
momento, nel luogo in cui si sta per andare, nell’istituzione con cui si sta
avviando un rapporto, in che tipo di ambientalista ci si imbatterà...

Torino 1986
Torino, negli anni Venti del XX secolo, fu “stazione di testa” della prima linea
aerea commerciale italiana, gestita dalla Sisa, una società fondata dalla fami-
glia triestina Cosulich. Tale linea toccava le città di Torino, Pavia, Venezia,
Trieste e Portorose, allora nell’Istria italiana, e contemplava come scalo se-
condario anche Casale Monferrato. In un’occasione un idrovolante ammarò
anche su uno dei laghi di Mantova. Gli aerei utilizzati erano tutti idrovolanti,
perlopiù costruiti dai Cantieri Riuniti dell’Adriatico, con sede a Monfalcone.
Lungo tale rotta, che seguiva il Po e che quindi era percorribile da un idro-
volante quasi con ogni tempo meteorologico, come è testimoniato dal quasi
en plain nelle percentuali di effettuazione dei servizi, si mossero per molti
anni migliaia e migliaia di passeggeri.
A Torino gli idrovolanti operavano tra il ponte Principessa Isabella e il ponte
Umberto I, lungo quel tratto di Po reso suggestivo dal parco del Valentino. La
piccola rimessa degli aerei, una palafitta posta in posizione alquanto elevata,
in previsione delle fortissime variazioni di livello delle acque tipico dei fiumi,
era posta presso il ponte Principessa Isabella. Mentre a Pavia, sul Ticino,
un’identica costruzione è ancora visibile ai giorni nostri, a Torino non rimane
alcun ricordo materiale di quella prima compagnia aerea.
Per fortuna, tuttavia, almeno il ricordo di quell’antica impresa e della pre-
senza degli idrovolanti sta ancora nel cuore di qualche torinese, tanto che i
nuovi gestori di un circolo-ristorante posto in prossimità dello scomparso
idroscalo decidono di ribattezzare il locale “L’idrovolante” e si danno da fare
per rinverdire la tradizione idrovolantistica della città.
Pubblicano quindi un fascicolo con una presentazione storica della Sisa,
preparato dallo storico dell’aviazione Giorgio Apostolo, e organizzano una
manifestazione alla quale invitano a partecipare gli idrovolanti di Como.
È difficile descrivere quali e quanti ostacoli burocratici gli eroici gestori
hanno affrontato per ottenere i permessi per compiere un’operazione così
inconsueta. Tuttavia vi riescono. Il tratto di Po tra i due ponti citati viene
chiuso per una giornata domenicale e l’evento è ampiamente pubblicizzato da
“La Stampa”, la “Pravda dei piemontesi” (ma non solo; lo scrivente, pur es-
sendo cernobbiese, la legge tutti i giorni), creando una fortissima aspettativa.
Lo scrivente, accompagnato dall’onnipresente Rino Caldiroli, va a Torino
con il Lake il giorno prima, atterrando all’aeroporto cittadino Aeritalia, in
modo da poter andare a fare con calma, a piedi, tutti i sopralluoghi necessari.
Il giorno dopo arrivano gli altri idrovolanti da Como, un Cessna 150 e un

276
Vita di Club e dintorni

Piper PA 18, e alle 10 di mattina incomincia ad arrivare anche la gente. Mi-


gliaia e migliaia di persone vogliono volare e vedere la propria città dall’alto.
Ogni tipo di autorità è presente e piacevolmente meravigliata nel vedere gli
idrovolanti ammarare proprio nel centro della città. I giornalisti e fotografi
presenti sono eccitati. La manifestazione è partita “alla grande” e noi scom-
mettiamo su quante centinaia di torinesi porteremo in volo entro sera.
Proprio mentre stiamo organizzando l’afflusso dei passeggeri agli aerei una
voce prende a serpeggiare tra gli organizzatori e le autorità: gli ecologisti sono
contrari alla manifestazione e vi si oppongono. Ciò non per l’impatto ambien-
tale degli idrovolanti, che riconoscono non sussistere, ma perché - per loro -
non è ammissibile che il fiume sia usato per un’attività di divertimento basata
su un mezzo a motore. In poche parole: il motore è male, la velocità è male, il
desiderio di volare di migliaia di persone è frutto di un demoniaco invasamen-
to. Tutte le più bieche motivazioni dell’antimodernismo viscerale sono sfode-
rate per bloccare la manifestazione.
Dopo lunghi colloqui tra gli ecologisti, le autorità, capitanate dalla prefettu-
ra, noi piloti e gli organizzatori della manifestazione, gli ecologisti hanno la
meglio. Le autorità, prese dal panico di fronte a una prospettata opposizione
attiva contro i voli, cedono al dictat degli ecologisti: “non si vola”.
Seguono altre discussioni, suscitate dai rappresentanti dei media, che antici-
pano un trattamento non di favore per autorità indecise e incapaci di rendere
operative decisioni da esse stesse prese il giorno prima, in seguito alle quali
gli ecologisti accettano un piccolo compromesso: gli idrovolanti possono vo-
lare, ma solo per i voli con la RAI, con i giornalisti e con le autorità cittadine.
La gente non deve volare.
Noi siamo sul punto di abbandonare il teatro delle operazioni e ritornare a
Como, schifati, avendo la sensazione di trovarci in Cambogia al tempo degli
Khmèr rossi, ove l’alzata di sopracciglio di un commissario politico valeva la
vita di centinaia di persone e più del parere di qualsiasi legittima autorità.
La sensazione più sgradevole la proviamo quando capiamo che lo scopo
degli ecologisti, nemmeno tanto celato, è quello di impedire ai torinesi di
provare un grande godimento attraverso l’impiego di un mezzo a motore.
Tocchiamo dunque con mano una realtà in cui un potere ideologico arbitrario
ha la meglio, piegando la società civile al proprio volere e rendendo superflue
leggi, regolamenti vigenti, diritti, ordinanze emanate da autorità.
Poi, mantenendo tutta la nostra calma e, anzi, meditando una sottile vendet-
ta, ci diciamo: “Bene, visto che la RAI e i giornalisti li possiamo portare,
facciamo in modo che i torinesi possano vedere in tivù e leggere quel che gli
ecologisti gli hanno impedito di vivere.” Inoltre: “Vediamo se le autorità han-
no il fegato di sollazzarsi nei decolli e ammaraggi sul Po dopo aver impedito
alla cittadinanza di vivere la stessa esperienza.”
In realtà restiamo anche per un motivo egoistico: non perdere la possibilità
di compiere un’operazione di estremo interesse tecnico e di importanza stori-

277
Vita di Club e dintorni

ca: volare in una stretta striscia d’acqua nel cuore di una metropoli, ove l’avia-
zione commerciale del nostro paese mosse i suoi primi passi, sotto i ponti da
cui partirono, in quell’1 aprile 1926, i primi aerei di linea italiani.
I voli sono entusiasmanti. Il Po è profondamente incassato nella città di
Torino e, dopo il decollo dalle sue acque, ci si trova come in un cañon formato
dalle rive scoscese, entro il quale si deve lentamente salire per superare il
ponte che ci si para davanti; raggiunto il livello della sede stradale, si deve
salire ancora per altri 100 o 200 piedi, seguendo l’andamento lievemente
curvo del fiume, per trovarsi al livello dei tetti delle case. In quel momento
l’intera città compare all’improvviso agli occhi del pilota, che prova quasi un
colpo al cuore, una sensazione unica e avvincente.
Un’altra sensazione meravigliosa è quella che si prova nel girare a pochi
metri dalla stellina d’oro che sta sulla guglia della mole antonelliana, un vero
capolavoro del modernismo, nella virata in finale per l’ammaraggio.
L’idrovolante permette di volare in quella condizione di inurbamento estre-
mo in piena sicurezza: anche nella remota eventualità di una piantata di moto-
re si può sempre planare e raggiungere di nuovo il fiume per un ammaraggio
di emergenza. Proprio per godere di questa possibilità il mandato tassativo a
tutti i piloti prima dei voli, in quella specifica occasione, è il seguente: “man-
tenere in ogni istante quota e distanza dal Po tale da poter raggiungere di
nuovo l’acqua anche in planata senza motore”.
Nel corso della giornata il termometro del risentimento popolare nei con-
fronti di chi ha impedito alla gente di volare è salito a livelli di guardia.
Per quel che ci riguarda, riceviamo molte richieste di volare a qualunque
costo, anche in barba alle autorità; c’è chi ci offre 500.000 lire, chi un milione
per un volo di 7 o 8 minuti (contro le 30.000 lire di rimborso spese che
chiederemmo per lo stesso volo). Alcuni implorano di salire sull’aereo per
ripetere l’esperienza del nonno che aveva volato sui Cant 10 ter della Sisa.
Non possiamo escludere che alcuni dei molti “giornalisti” che portiamo in
volo non abbiano nulla a che fare con il giornalismo, ma che siano persone
abbastanza potenti da essere in possesso delle credenziali che hanno potuto
imbrogliare i “commissari politici” deputati al controllo. Da parte nostra sia-
mo ben felici di far volare chiunque sia riuscito a passare attraverso la maglia
dei controlli di quell’improvvisato ufficio politico o tribunale speciale, così
come - gratis - il più umile dei lavapiatti del ristorante lì vicino che è riuscito a
passare in un buco della rete e ad arrivare a noi. Chissà perché, parliamo tra
noi del film Urla del Silenzio.
Nell’arcipelago ecologista c’è anche una scheggia che non ha apprezzato
l’apertura nei confronti delle “forze del male idrovolantistiche” e lo svolgi-
mento, pur limitato, di voli. È così che, nel pomeriggio, alcuni fondamentali-
sti ecologici decidono di infrangere il divieto di navigazione e prendono a
scorrazzare, per il bacino delle operazioni, con due kajak, nell’evidente inten-
to di bloccare i voli.

278
Vita di Club e dintorni

Una sfida che diventa per noi occasione di divertimento. Abituati a operare
su laghi affollati di barche e a fare la gimkana tra di esse, possiamo, in tutta
sicurezza, passare a destra e a manca davanti e dietro i kajak, facendo finta di
non vederli, ma tenendocene rigorosamente a distanza di sicurezza, mentre i
capitani degli stessi kajak faticano di remo, ma senza risultati apprezzabili,
per portarsi “pericolosamente” vicino agli aerei in decollo o ammaraggio.
Ciò ci fa pensare che tra i rischi del volo possa esserci anche quello di un
fanatico che immola la propria vita gettandosi deliberatamente nel disco del-
l’elica di un aereo in movimento, per dimostrare che il volo è pericoloso. È
una cosa da pazzi, ma i pazzi non sono così rari sulla faccia della Terra e un
buon pilota deve considerare seriamente anche la più remota possibilità di
incidente e prendere le misure preventive del caso. È così che, dopo esserci
divertiti a sufficienza, chiediamo alle autorità di sgomberare la superficie de-
stinata alle operazioni con idrovolanti, cosa che avviene.
Nella giornata un fotografo de “La Stampa” scatta una delle più belle foto-
grafie mai fatte a nostri idrovolanti, riportata a pag. 247 del libro Ali sul Lario.
La sera lasciamo Torino con la speranza che un giorno potremo tornare per
fare finalmente provare a centinaia o migliaia di torinesi l’ineffabile piacere di
un volo in piena sicurezza sulla propria città, su un mezzo raro e di fascino
quale è l’idrovolante. Quel giorno non è ancora venuto e ciò è una spina che è
infissa nel nostro cuore di propagandatori e storici del volo idro.

Mantova 1990
Sui bei laghetti che rappresentano un allargamento del Mincio e che circonda-
no Mantova siamo scesi molte volte. La prima volta è in occasione di una
grande manifestazione organizzata dalle autorità cittadine, nel corso della
quale è anche esposto un F 104 nella piazza principale della città e sono
proiettati molti rari film e documentari aventi per protagonisti idrovolanti.
Viene un giorno, dopo anni di operazioni, che andiamo a Mantova, ma non
sappiamo che una nuova autorità si è insediata nel territorio: il direttore del
Parco del Mincio. Tale autorità ha stabilito, nel proprio regolamento, che “è
vietato il sorvolo del parco a qualsiasi mezzo aereo a qualsiasi quota.”
Ecco dunque i tre piloti operanti in quell’occasione, Baj, Fara e Bedetti,
vedersi appioppare la multa di un milione. Il piccolo feudatario di Mantova ha
dunque legiferato contro e in seguito represso un’attività consentita dalle leg-
gi vigenti e dalle altre amministrazioni aventi giurisdizione sul territorio.
Facciamo subito ricorso al TAR della Lombardia, ma quel tribunale è certa-
mente preso da più importanti incombenze e passeranno moltissimi anni pri-
ma che esamini la questione.
La Regione Lombardia, dopo qualche tempo, emette una nota indicando che
nessun ente-parco ha l’autorità di legiferare in materia aeronautica, materia
rigorosamente riservata allo Stato. Qualunque prescrizione relativa al volo
contenuta negli statuti e nei regolamenti dei parchi è dunque nulla.

279
Vita di Club e dintorni

Nel caso in cui siamo incorsi si può anche dimostrare un atteggiamento


persecutorio nei confronti dell’Aero Club Como, visto che nessuna multa è
mai stata data ai piloti delle compagnie aeree che normalmente sorvolano il
parco e che infrangono l’incredibile regolamento, così come ai militari, che
hanno varie basi a breve distanza.
È certo, in conclusione, che è stato commesso un abuso di potere in piena
regola, ma il momento in cui le persone ingiustamente perseguite potranno
avere soddisfazione non arriverà mai.
L’ente turistico di Mantova, di cui incontriamo i dirigenti al BIT, dopo aver
capito che i nostri piloti e visitatori stranieri avrebbero piacere di raggiungere
la loro meravigliosa città con questo inusuale mezzo in occasione di molte
mostre o anche per una normale visita ai tesori d’arte che vi sono presenti, ci
fa sapere che in qualche modo potremmo ancora scendere sui laghi. Noi,
d’altro canto, oberati di richieste da località in cui ci amano e non avendo una
ricetta del dottore che ci impone il Mincio, dimentichiamo Mantova.
Il risultato è che non siamo mai più scesi su quei laghi con gli idrovolanti,
per buona pace dei maggiorenti del feudo ecologista di Mantova.
Poco prima di andare in stampa con questo libro giunge, dopo 12 anni, la
sentenza del TAR. Essa dice in sostanza: è vero che l’ente parco non ha alcun
potere di legiferare sul traffico aereo, ma la cosa non è di nostra competenza e
inoltre, se anche lo fosse, ...sono scaduti i termini.
Bene: è di conforto sapere che un tribunale amministrativo regionale veglia
sui cittadini lombardi in modo attento e soprattutto tempestivo ed è pronto a
correggere gli abusi di autorità locali ignoranti e proterve.

Che ne pensa del volo idro il WWF di Como


Veniamo infine all’unico soggetto che si occupa di ambiente che conosce
effettivamente gli idrovolanti, perché questi sono presenti da quasi un secolo
nel territorio “di competenza”: il WWF di Como.
Il WWF ha esaminato la nostra attività e ha stilato un documento il cui testo
è qui riprodotto.

IDROVOLANTI A COMO
È dal 1930 che gli idrovolanti solcano il cielo, e l’acqua, del lago di Como.
Unico sopravvissuto nell’Europa meridionale l’Aero Club Como, “l’hangar”,
come viene richiamato qui, costituisce per i comaschi di molte generazioni una
presenza usuale, talvolta un po’ curiosa e avventurosa.
Situato in piena città, lo scalo utilizza per i decolli e gli ammaraggi un tratto
di lago di circa un chilometro di lunghezza per duecento/trecento metri di
larghezza, interdetto alla navigazione per ogni tipo di imbarcazione. Una am-
pia porzione di lago risulta così impercorribile ai numerosi motoscafi che la
domenica, guidati spesso maldestramente, sfrecciano con grande velocità e

280
Vita di Club e dintorni

fragore sulle acque del lago. Sulla “pista” degli idrovolanti si affaccia una delle
più belle passeggiate della Città di Como.
Una lunga balconata sospesa sull’acqua conduce dai giardini pubblici alla
ottocentesca Villa Olmo, con un ripetersi di ponticelli, piccole darsene, giardi-
ni fioriti. In questo tratto abbondano gli uccelli. Dai giardini giungono i canti
di capinere, usignoli, cince, scriccioli e fringuelli, mentre l’acqua è sorvolata
da balestrucci, rondini, gabbiani, nibbi bruni e da qualche sterna.
Lungo la riva si posano le ballerine e, sotto qualche barca rovesciata tirata in
secca, nidificano alcune coppie di germano reale.
Interessante è la presenza del martin pescatore che, indisturbato, pratica-
mente in ambiente urbano, ha scelto una darsena abbandonata quale sua dimo-
ra. Anche il nibbio bruno nidifica fra i boschi sulle alture e poche centinaia di
metri dal lago.
La presenza discreta degli idrovolanti non reca quindi evidente disturbo agli
uccelli che, dato anche l’esiguo numero di decolli e ammaraggi, proseguono
tranquilli le loro attività. Sono inoltre numerose le persone che vedono di buon
occhio la presenza dei piccoli aerei sul lago di Como, evocatori di spazi liberi e
di scenari spettacolari, rispetto ai motoscafi dai motori potentissimi, rumorosi
e disturbatori della quiete secolare di queste sponde.
Si ritiene poi che, data l’ampiezza del bacino, la piccola onda sollevata dai
galleggianti degli idrovolanti non possa causare eccessivo rimescolamento alle
sponde, con conseguente distruzione durante il periodo riproduttivo, delle uova
dei pesci. Un discorso diverso si porrebbe per i piccoli invasi dalle acque poco
profonde.
La messa a punto dei motori prima di ogni volo garantisce il perfetto funzio-
namento degli stessi, con conseguente ridotto inquinamento atmosferico su
una città che a fronte di dieci idrovolanti che prendono il volo è invasa ogni
giorno da migliaia di autoveicoli.
Il rispetto dell’ambiente è inoltre garantito da alcune norme di comporta-
mento che i piloti dell’Aero Club hanno assunto.
Si sono imposti il divieto di sorvolare a bassa quota e di ammarare nello
specchio antistante il “Pian di Spagna”, una riserva regionale all’estremo nord
del lago di Como dove abbondano gli uccelli acquatici, stanziali e di passo.
Disturbo all’ambiente può essere invece causato dall’eccessivo rumore dei
velivoli al decollo. A Como il problema è stato risolto; l’unico aereo dal rombo
troppo fragoroso è stato venduto dalla società dopo qualche tempo di utilizzo e
qualche mugugno dei cittadini.
Quanto espresso finora è una prima opinione, che tiene conto delle impres-
sioni raccolte tra alcuni collaboratori della sezione WWF di Como.
WWF sez. Como

281
Vita di Club e dintorni

Oltre il volo
Smettere di volare è per alcuni un’esperienza traumatica e in genere lo si fa
solo se costretti, per motivi economici, di salute o di tempo a disposizione.
Negli ultimi anni si sono tuttavia sviluppate al Club di Como svariate inte-
ressanti attività, che possono offrire all’appassionato, al pilota e anche al pilo-
ta con la licenza non più in corso di validità molte occasioni di occupare il
proprio tempo in modo intelligente e gradevole, oltre che, in molti casi, utile.
Innanzitutto il Club ha oggi relazioni con moltissimi enti e strutture esterne,
che possono essere seguite solo in parte dai dirigenti. Dunque si sono create
opportunità di svolgere funzioni di pubbliche relazioni a livelli molto diversi.
Il Club, inoltre, si è dotato di una biblioteca e di un Centro di documentazio-
ne relativi alla storia del volo sull’acqua. La struttura, che può crescere a
dismisura, secondo l’impegno profuso dagli interessati, consente di effettuare
ricerche storiche su una notevole mole di materiali, anche rari.
Nell’ambito del Club, inoltre, è nata l’ESPA, European Seaplane Pilots As-
sociation, l’associazione europea dei piloti di idrovolante. L’iniziativa, da molte
parti sollecitata, è venuta alla luce in un momento di fortissimo interesse per il
volo idro nel nostro continente.
Al momento dell’uscita di questo libro vari soci del Club e membri della
neonata associazione, come gli svizzeri Ivan e Anna Aeberli e la norvegese
Evelyn Bakken, stanno lavorando al portale dell’ESPA, destinato a diventare
il punto focale dell’“idrovolantismo” europeo.
Nell’ambito di questa attività c’è moltissimo da fare a ogni livello: dall’ap-
porto tecnico e di tempo alla gestione del portale all’organizzazione di eventi
europei con idrovolanti, all’interazione con la Comunità Europea e con enti di
ogni paese per rendere possibile o promuovere l’attività con idrovolanti.
Il know how comasco sul volo idro è inoltre prezioso per i molti che oggi
sono intenzionati ad avviare attività commerciali con idrovolanti. Funzioni di
consulenza ad ogni livello ci sono sempre più frequentemente richieste.
A Como, dunque, non si vola solo sull’acqua, ma si gestiscono attività
interessanti in un ambiente sempre più internazionale. Attività che possono
offrire ai soci molte occasioni di evoluzione personale. Attività - questo è
simpatico - che si svolgono in un contesto “non profit”, in cui sono assenti i
condizionamenti - e a volte le miserie - che derivano dal dover produrre utili.

282
IN VOLO SULL’ACQUA

EREDI
DI UNA GRANDIOSA TRADIZIONE

283
Eredi di una grandiosa tradizione

Idrovolanti nella storia


Presentare nei dettagli la nascita e lo sviluppo del volo sull’acqua richiederebbe
un’opera della mole di una grossa enciclopedia. Qui si fa un modestissimo
e succinto excursus in questa interessante storia al fine di ricordare almeno
con il loro nome le persone che vi hanno avuto un ruolo preminente.
Lo scopo, da parte nostra, è di conferire un giusto tributo ai padri fondatori
della nostra disciplina e a coloro che, nell’ambito di essa, realizzarono importanti
imprese come piloti, costruttori o esercenti.
La trattazione che segue si propone anche di offrire al lettore un memorandum
che gli consenta di riconoscere l’elementi di interesse idrovolantistico quando
sta assistendo a un programma storico in TV o quando, in una fiera o negozio,
sta scartabellando tra vecchie cartoline, libri e oggetti o quando giunge per caso
in luoghi lontani toccati in epoche passate da attività con idrovolanti. Il ricordare
il nome di un pilota o di un luogo può essere ciò che gli consente di reperire
preziose informazioni e di salvare dall’oblio documenti od oggetti di interesse
idrovolantistico che altrimenti andrebbero perduti.

Navigare nell’acqua e nell’aria sono attività “cugine”, rese diverse dal solo
fatto che l’aria è 800 volte meno densa dell’acqua. Questa differenza rende
tuttavia più complesso il sostenersi e muoversi nel mezzo meno denso che in
quello più denso. Infatti possiamo sostenerci nell’acqua con i modesti mezzi
offerti dalla natura e muoverci in essa con la forza delle nostre braccia, mentre
per sostenerci e muoverci nell’aria dobbiamo ricorrere a espedienti particolari
e “innaturali”, quali l’impiego di motori, che riescano a esercitare forze centi-
naia di volte più intense di quelle generate dall’uomo o da un animale.
È così che agli esordi del XX secolo l’uomo è giunto a compiere navigazio-
ni raffinate con mezzi di enorme mole e complessità, frutto di millenni di
esperienza e di evoluzione - le navi - quando ancora non riesce a fare stare in
aria un trabiccolo poco più complesso di una motocicletta. Ed è così che
mentre chi si dedica alla prima disciplina gode della massima considerazione,
chi si dedica alla seconda è considerato, ancora ai nostri giorni, forse simpati-
co, certamente intelligente e coraggioso, ma un po’ pazzo.
Si deve dire che, raggiunto il primo risultato utile, lo sviluppo della nuova
disciplina è prorompente, complice l’innata curiosità dell’uomo, l’intima sod-

284
Eredi di una grandiosa tradizione

disfazione di sentirsi epigoni di Prometeo e quell’istinto primordiale che im-


pegna a fondo gli individui della nostra specie quando devono studiare un
nuovo modo per sopraffare il proprio simile.
La similitudine dei due mezzi - aria e acqua - fà sì che terminologia e
tecniche costruttive e di impiego dell’aereo siano mutuate dalle corrisponden-
ti terminologia e tecniche in uso in marina. Dunque le prime macchine volanti
non a caso sono indicate come “navi aeree”.
Dove la cuginanza tra nave e aereo è rimasta più marcata è nel settore del
volo idro. Qui le macchine sono ibridi in grado di operare come navi e come
aerei; veri capolavori di ingegneria, in quanto si tratta di mezzi atti a resistere
a tutte le minacce di cui è prodigo sia l’ambiente acquatico sia quello aereo.
L’aviazione idro è anzi un tassello fondamentale nello sviluppo dell’avia-
zione in generale. Infatti i primi più seri esperimenti di aerodinamica sono
compiuti con velivoli galleggianti privi di propulsore trainati da motoscafi.
Perché questa combinazione? Semplice, perché gli specchi d’acqua offrono
notevolissime estensioni sulle quali si ha tutto il tempo di sperimentare lievi
progressive variazioni di parametri o configurazioni. Il traino di un mezzo
aereo su terra non potrebbe durare che poche decine di secondi prima di
incontrare qualche ostacolo e dover riprendere l’esperimento in direzione op-
posta o ritornare al punto di partenza.
I tentativi più riusciti in questo senso, dopo essere stati immaginati nel 1871
da Alphonse Pénaut, ideatore dell’aereo giocattolo planophore, sono quelli
del francese Gabriel Voisin, nel 1905. Meno noti, ma non meno produttivi,
sono i tentativi che nel 1907 Mario Calderara compie nel Golfo di La Spezia
con il suo idroveleggiatore.
Lasciando agli storici dell’aviazione la discussione su chi sia riuscito a vola-
re per primo (Orville Wright? Clément Ader? Weisskopf?) accenniamo qui al
tentativo dell’austriaco Wilhelm Kress. Sul piccolo lago di Tullnerbach, vici-
no a Vienna, Kress, nell’ottobre del 1901, alla bella età di 68 anni, tenta il
decollo sulla sua macchina volante dotata di galleggianti. L’idrovolante acce-
lera, quasi esce dall’acqua quando un ostacolo si presenta davanti agli occhi
dell’improvvisato pilota, che vira e cappotta, salvandosi a fatica a nuoto.
Nei sette anni successivi al primo volo dei Wright, con i cieli di almeno due
continenti che si popolano di curiosi oggetti volanti, molti tentativi sono fatti
per cercare di far decollare un aereo dall’acqua, per poi farvelo ritornare. La
seconda parte del problema è facilmente risolvibile con i mezzi dell’epoca,
ma la prima pone problemi insormontabili. Il fatto è che nessun motore dispo-
nibile offre la potenza necessaria per vincere la resistenza dell’acqua e “strap-
pare” dalla superficie la macchina volante per farla innalzare nella lieve atmo-
sfera. O - almeno - nessun motore che abbia un peso accettabile.
Perché mai l’idrovolante ha tutto questo fascino? La risposta è semplice ed è
quella che assicurerà a questa macchina il suo successo: perché due terzi della
superficie della Terra sono ricoperti d’acqua e perché uno specchio d’acqua,

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Eredi di una grandiosa tradizione

oltre a non costare nulla, è presente in o presso tutte le località notevoli del
mondo abitato. Ciò vale in particolare nella fase iniziale della storia dell’avia-
zione, che si svolge in un mondo privo di aeroporti.
Mentre molte aziende e privati si scervellano su come risolvere il problema,
il classico inventore solitario, che fa da sé all’insaputa di tutti, riesce nell’im-
presa. Si tratta dell’ingegnere francese Henri Fabre, giovane di buona fami-
glia, senza alcuna esperienza di volo, nemmeno sugli ormai relativamente
evoluti aerei terrestri, che il 28 marzo 1910, alle ore 10:10, nello stagno di
Berre (quello adiacente all’attuale aeroporto di Marsiglia), al largo di Marti-
gues, compie il primo volo della storia sull’idrovolante da lui stesso costruito.
Ha la brillante intuizione di fare assistere all’impresa un cancelliere del
tribunale, che descrive in un atto pubblico lo svolgimento delle operazioni e lo
fa controfirmare a due testimoni. In assenza di quel documento sarebbe poi
difficile per lo sconosciuto Fabre fare valere il suo primato, conteso da più
agguerriti operatori nella stessa Francia e in altri continenti. Oltre al cancellie-
re, hanno assistito all’impresa i fratelli Laurent e Augustin Seguin, costruttori
del motore Gnôme da 50 cavalli montato all’estremità posteriore della mac-
china. Fabre, nel pomeriggio dello stesso giorno, compie due altri voli e la
mattina dopo un altro ancora, ammarando nel porto di Martigues.
L’idrovolante di Fabre è sostanzialmente una coppia di travi a cui è collega-
to il motore spingente, le ali e i più piccoli piani di governo, in posizione
avanzata, in una configurazione che Fabre immediatamente chiama canard
per la somiglianza del tutto a un’anatra in volo (nome che in seguito si appli-
cherà a tutti i velivoli con piani di stabilizzazione e controllo avanzati rispetto
alle ali). Dire che la macchina è spartana è un eufemismo. Il pilota siede
direttamente sulla trave superiore, governa con un’asticciola i piani di gover-
no anteriori e riesce a compiere timide virate inducendo una torsione differen-
ziata alle due semiali. Per gli aspetti idro, l’idrovolante di Fabre è del tipo a
galleggianti (due dietro e uno davanti). Dopo un incidente che porta alla di-
struzione della macchina, Fabre abbandona gli idrovolanti per dedicarsi alla
fabbricazione dei soli galleggianti, che vende ad altri costruttori.
Intanto, a molte migliaia di chilometri di distanza, Glenn Curtiss, che ha
dedicato parecchi anni della sua vita alla costruzione di un idrovolante, riesce
finalmente a farlo volare il 26 gennaio 1911. Ritiene, in perfetta buona fede, di
essere il primo pilota “idro” del mondo, fatto sancito in un atto che ha fatto
redigere alla Corte di Appello di New York, ma non sa che dieci mesi prima
Henri Fabre lo ha preceduto. La querelle va avanti per qualche tempo prima
che gli americani, dopo accurate ricerche, ammettano che il primato appartie-
ne al francese.
Il primo volo idro di Curtiss è spettacolare: decolla dalle acque dell’oceano,
si posa presso la corazzata Pennsylvania, fa issare a bordo della stessa il suo
idrovolante, lo fa posare di nuovo in acqua e ridecolla in direzione della costa.
Curtiss detiene un altro primato: è il primo ad aver costruito un idrovolante

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Eredi di una grandiosa tradizione

a scafo, ovvero la prima flying boat (sebbene i francesi si ostinino ad attribuire


il primo volo di un idrovolante di questo tipo al loro concittadino François
Denhaut). La flying boat di Curtiss vola per la prima volta il 10 gennaio 1912.
È curioso come Curtiss abbia deciso di dedicarsi alla costruzione di idrovo-
lanti. Nel 1910 aveva vinto un premio di 10.000 $ per aver volato per 225 km,
da Albany a New York, lungo il fiume Hudson. Durante il volo, dopo aver
passato alcuni brutti momenti, aveva pensato quanto fosse desiderabile avere
un aereo in grado di posarsi sulle acque del fiume in qualunque momento, in
caso di panne.
Curtiss, grande perfezionatore dell’idrovolante, ha anche il merito di aver
introdotto nella costruzione degli scafi il gradino, detto anche redan o, in
inglese, step. L’idea era venuta alcuni decenni prima all’inglese Ramus. Pa-
store anglicano, Ramus aveva condotto negli anni Settanta del XIX secolo
esperimenti che avevano messo in evidenza il vantaggio di dotare lo scafo di
un gradino. Questo facilita enormemente il passaggio da una sostentazione
idrostatica a una sostentazione idrodinamica. In parole povere il gradino, per-
mettendo di estrarre dall’acqua la parte posteriore dello scafo e riducendo di
colpo la resistenza idrodinamica, consente allo scafo di giungere agevolmente
alla condizione della planata e quindi di procedere ad alta velocità sull’acqua,
requisito indispensabile per consentire alle ali di un aereo di generare portan-
za (i primi idrovolanti decollano a velocità intorno ai 60 km/h). Il problema
dei primi costruttori è di fare raggiungere alla macchina la velocità di sosten-
tamento usando un motore non eccessivamente pesante. Il rapporto peso/po-
tenza del motore è dunque il fattore limitante che ha ritardato la produzione
dell’idrovolante rispetto all’aereo terrestre.
La storia del volo idro vive la successiva tappa fondamentale a Parigi, sulla
Senna, ove sorgono le officine dei fratelli Gabriel e Charles Voisin, il primo
dei quali è lo stesso degli esperimenti del 1905. Divenuto costruttore di aero-
plani con le ruote, Gabriel applica a uno di essi quattro galleggianti costruiti
da Fabre e realizza così il primo anfibio. Il 3 agosto 1911, alle ore 8:00, la
macchina, del peso di 600 kg e dotata di motore Gnôme da 80 cavalli, decolla
da Issy-les-Moulineaux e si posa sulle acque della Senna. Le sei sottili ruote
penetrano nell’acqua senza creare problemi di stabilità. Dopo mezz’ora ride-
colla e torna ad atterrare sul campo da cui era partita, rullando fin nell’hangar.
Per curiosità, la piazza d’armi di Issy-les-Moulineaux era stata nel 1908 il
campo di volo per il Flyer di Wilbur Wright.
Gli italiani non perdono tempo nella corsa alla realizzazione dell’aereo che
decolla dall’acqua. Il primo volo di un idrovolante in Italia avviene il 5 no-
vembre 1911, a La Spezia. A pilotarlo è il capitano del Genio Navale Alessan-
dro Guidoni, che ha adattato due galleggianti a un Farman terrestre. Il primo
volo di un idrovolante interamente italiano avviene, sempre a La Spezia, dopo
un mese, nel dicembre 1911. Lo pilota Mario Calderara, che lo ha realizzato
dopo aver fatto le già citate prove con un idroveleggiatore, nel 1907, e dopo

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Eredi di una grandiosa tradizione

aver soggiornato per qualche tempo a Parigi, nell’officina dei Voisin. Caldera-
ra ha un altro particolare primato: il brevetto di volo numero 1 nel nostro
paese. Lo ha conseguito nel 1909, sul campo di Centocelle, in seguito al corso
di sei ore che gli ha fatto Wilbur Wright, venuto dagli Stati Uniti per commer-
cializzare la macchina costruita con il fratello Orville.
Nel 1912 vola un’altro idrovolante italiano, il primo a scafo centrale. Pro-
gettato da Crocco e Ricaldoni, è pilotato dal tenente di vascello Ginocchio,
che dopo breve tempo progetta e costruisce un suo idrovolante a scafo.
Le alte gerarchie militari stentano a comprendere l’importanza dell’aviazio-
ne e non è fatto alcuno sforzo per svilupparla, se non quello di lasciare che
ufficiali della Marina come Guidoni e Calderara si divertano con i loro “gio-
cattoli” e di inviare alla scuola di Juan-les-Pin un gruppetto di ufficiali, com-
posto da De Filippi, Scelsi, il già citato Ginocchio, Roberti di Castelvero e
Garassini Garbarino. Il gruppo di italiani impara a pilotare l’idrovolante su
macchine Paulhan-Curtiss e Borel.
Da chi ottengono i primi idrovolanti i piloti della Marina? Si immaginereb-
be dalla Marina stessa o dal Ministero. Nulla di tutto ciò. Gli alti comandi non
hanno fondi da stanziare per il più pesante dell’aria e si ostinano a destinare le
limitate risorse al dirigibile. Interviene dunque l’Aero Club d’Italia, che, al-
l’insegna dello slogan “Date ali alla Patria”, lancia una sottoscrizione che
frutta la ragguardevole somma di tre milioni e mezzo. Essa consente l’acqui-
sto di quattro idrovolanti francesi, assegnati subito alla piazzaforte marittima
di Venezia, ove sono trasferiti anche gli idrovolanti sperimentali di Guidoni e
Calderara e dove viene formato il primo nucleo organizzato di idrovolanti.
Guidoni progetta la prima nave portaidrovolanti, ma l’avveniristica idea non
è capita dagli alti comandi, che vedranno dopo non molto tempo il progetto
realizzato dagli inglesi, che adattano al nuovo impiego l’incrociatore Hermes.
La musica cambia quando il viceammiraglio Paolo Thaon de Revel, forte
sostenitore di un’aviazione di Marina, assume la carica di Capo di Stato Mag-
giore. I fondi scarseggiano sempre, ma infine vengono trovati per adattare
l’incrociatore Elba quale portaidrovolanti, poi sostituito dal piroscafo Europa,
che risulterà pronto per l’uso nei primi mesi della Grande Guerra.
Ritorniamo ora al panorama più generale. Nei pochi anni successivi ai voli
di Fabre e di Curtiss sono prodotti idrovolanti, oltre che in Italia, in tutte le
nazioni dell’Occidente. In Europa sono immediatamente organizzati gare e
raduni specifici per questo tipo di aerei.
La prima coppa è messa in palio dal conte Caravadossy d’Aspremont. La
gara si tiene sulle acque di Juan-les-Pins il 2 e 3 marzo 1912 ed è vinta da
Louis Paulhan su idrovolante Paulhan-Curtiss.
Le gare più celebri sono quelle di Monaco. La prima è del marzo 1912, vinta
dai fratelli Henri e Maurice Farman. Il secondo meeting, nell’aprile 1913, fa
registrare un trionfo completo dei francesi, che vincono tutte le prove. Tutti gli
idrovolanti montano galleggianti costruiti da Henri Fabre. Vincitore assoluto è

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Eredi di una grandiosa tradizione

Louis Breguet, sul suo idrovolante monogalleggiante. Nell’aprile 1914 si tie-


ne il terzo meeting, denominato “Rally aereo di Monaco”, che comporta lun-
ghi trasferimenti dei partecipanti in tutto il continente europeo e nel Mediter-
raneo nordoccidentale. Trionfano ancora i francesi (18 idrovolanti), soprattut-
to con Roland Garros, sui soli avversari tedeschi (7 idrovolanti).
Alla fine dell’agosto 1912 si tiene un raduno e concorso di idrovolanti in
Bretagna, a St.-Malo, che prevede una prova di volo andata-ritorno fino al-
l’isola di Jersey, con ammaraggio e sosta obbligatoria nell’isola del Canale.
Il raduno successivo è organizzato dal 7 al 16 settembre dall’Aéro Club du
Belgique, a Tamise, sulla Schelda, con prove particolarmente studiate per
permettere ai militari di scegliere l’idrovolante ideale da acquistare per le
operazioni sul fiume Congo, nell’omonima colonia belga.
Intanto, nelle prime settimane di settembre è organizzata in Germania, a
Heiligendam, una gara non pubblicizzata a cui partecipano per regolamento
solo idrovolanti tedeschi.
Piloti, costruttori, importatori, appassionati civili ed esperti militari creano
in tutto il mondo occasioni di volo per i primi idrovolanti. Curtiss vende le sue
macchine in molti paesi europei, in Russia, in Giappone. Con quegli aerei
Louis Paulhan ha fondato la citata scuola di volo a Juan-les-Pins.
In Svizzera i primissimi idrovolanti volano a Lucerna, sul Lago dei Quattro
Cantoni, sul Lago di Ginevra e di Neuchâtel.
In Gran Bretagna l’aviazione idro nasce nel 1912, soprattutto grazie agli
sforzi di Charles Wakefield, il cui Water Hen vola quasi ogni giorno del 1912,
fatto che per quell’epoca può essere considerato un primato. Nel 1913 Tho-
mas Sopwith progetta la sua Bat Boat, il cui scafo in legno è realizzato e
magnificamente finito dall’esperto costruttore di barche Sam Sounders, di
Cowes. Questo idrovolante a scafo, il primo costruito in Europa, rappresenta
anche il primo anfibio del mondo effettivamente usabile. È impiegato dai
militari per esperimenti di lancio di bombe, per simulare le quali il sottotenen-
te J.L. Travers usa patate, che ha portato a bordo, in un sacchetto.
Nell’agosto 1913 è indetta la corsa per idrovolanti Parigi-Dauville, nel cor-
so della quale gli aerei devono seguire esattamente tutti i meandri della Senna.
All’inizio di ottobre, i principali piloti di idrovolante europei si incontrano a
Como, per partecipare al “Gran circuito dei laghi”, evento descritto nel libro
Ali sul Lario. La competizione è vinta da Roland Garros, anche a seguito di
alcune torbide manovre volte all’esclusione dalle gare del tedesco Hirth.
Nel 1913 sono organizzate altre gare di idrovolanti in Russia, in Spagna e in
Svizzera. Il giornale Daily Mail organizza un Giro d’Inghilterra, ma impone
un regolamento talmente esigente che nessuno riesce a completare il percorso.
Nel frattempo Jacques Schneider ha istituito la celebre competizione che
porta il suo nome, una gara di velocità pura, su un percorso di 150 km. La
prima edizione si tiene a Monaco nel 1913 ed è vinta dal francese Maurice
Prévost su idrovolante Deperdussin, che tiene la media di 72,836 km/h.

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Eredi di una grandiosa tradizione

L’anno successivo, in aprile, la coppa passa agli inglesi.


In America si dedicano alla costruzione di idrovolanti, oltre al citato Curtiss,
anche i fratelli Wright, Thomas Benoist e Glen Martin.
Nel 1913, nasce il primo servizio di trasporto commerciale con idrovolanti,
che si svolge tra St. Petersburg e Tampa con aerei Benoist. L’unico passeggero
trasportato compie, per 5 dollari, i 32 km del percorso in 20 minuti invece che
nelle due ore che sono necessarie in auto.
Sempre nel 1914 l’inglese Lord Northcliff, proprietario di molti dei princi-
pali quotidiani inglesi e grande sostenitore dell’aviazione, offre un premio di
50.000 sterline al primo che riesca ad attraversare l’Atlantico in aereo. Rod-
man Wanamaker, rampollo di una ricca famiglia americana, raccoglie la sfida
e commissiona a Curtiss la costruzione di un aereo che sia in grado di vincere
il premio. Il risultato di questo sforzo, a cui ha partecipato anche l’esperto
pilota inglese John Porte, è l’idrovolante America, che tuttavia non compirà
mai l’impresa a causa dello scoppio della guerra mondiale.
All’inizio della Grande Guerra pochi si rendono conto dell’importanza di
possedere un’aviazione, se non per generiche funzioni di osservazione. Pochi
ma decisi “visionari”, in varie nazioni, avevano invece previsto esattamente
tutte le potenzialità dell’aereo e dell’idrovolante. Ricerche sull’impiego di
idrovolanti per lanciare siluri verso navi nemiche sono compiute in Italia, da
Alessandro Guidoni, nel 1911, e in Inghilterra, nel 1913. L’Italia usa l’aereo
in Libia per i primi bombardamenti aerei della storia, nell’ottobre 1911, al-
l’inizio della guerra italo-turca, mentre l’impero austroungarico schiera i pri-
mi idrovolanti nel 1913, nel corso della guerra dei Balcani.
Nel 1914 Alessandro Guidoni cura all’arsenale di Venezia la costruzione del
primo aerosilurante, inventato dal marchese Raul Pateras-Pescara. L’idrovo-
lante è curiosissimo: ha due galleggianti dotati di alette idrodinanimiche, due
motori da 200 cavalli con eliche contrapposte affacciate nella parte centrale
della fusoliera; ha un peso massimo al decollo di 3200 kg e ben 1200 kg di
carico utile. Il Pateras-Pescara, pilotato da Guidoni, lancia da un aereo il
primo siluro della storia.
Un aereo di notevole successo di quest’epoca è il biposto austriaco Lohner,
usato per osservazione e bombardamento, in grado anche di lanciare bombe di
profondità antisommergibile e dotato di faro di ricerca e mitragliatrice in
prua. L’aereo è tanto ben progettato e prestante che gli italiani, dopo averne
catturato uno intatto subito dopo lo scoppio delle ostilità, nella laguna di
Grado, in soli 34 giorni completano la costruzione della sua prima copia, che
sarà seguita da altri 138 esemplari. Il Lohner italiano, costruito dalla Macchi,
è anzi superiore all’originale, avendo motore più potente.
Due Lohner austriaci sono protagonisti di un’impresa storica: il 15 settem-
bre 1916 affondano nell’Adriatico il sottomarino francese Focault. Dopo aver
compiuto la prima azione di questo genere della storia, i piloti ammarano e
portano cavallerescamente in salvo i naufraghi.

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Eredi di una grandiosa tradizione

Le necessità belliche danno un inevitabile spinta alla costruzione di idrovo-


lanti di ogni tipo e destinati a vari tipi di missione. In Italia se ne producono
molti sia su progetto italiano sia su licenza. I Macchi M5 e successivi sono
idrovolanti a scafo tra i più prestanti prodotti dall’industria aeronautica nazio-
nale. L’idrovolante più usato dagli italiani nel corso del conflitto è tuttavia
l’FBA, costruito su licenza in quasi 1000 esemplari. La guerra produce mi-
gliaia di piloti idro e l’allestimento di molte basi e infrastrutture a terra.
In Inghilterra lo sviluppo di idrovolanti si ha soprattutto a Felixstowe, ad
opera del John Porte, lo stesso che aveva collaborato alla produzione del-
l’America di Curtiss. Nasce lo scafo a gradino multiplo e con forma a “V”, per
reggere bene il mare. Gli idrovolanti della serie “F” compiranno moltissime
importanti missioni contro sommergibili e dirigibili. Porte inventa il primo
“composito”, aereo doppio comprendente un grande idrovolante triplano che
porta un piccolo caccia; questo viene liberato nella zona delle operazioni, per
compiere la sua difficile missione di abbattere gli Zeppelin.
I piloti di Felixstowe diventano noti per le loro geniali invenzioni. C’è neb-
bia? Il mare è a specchio? Si vola lo stesso; un’asticella di legno è applicata
alla cloche e sporge dalla chiglia, così che quando tocca l’acqua spinge la
cloche all’indietro, “invitando” il pilota a completare la richiamata.
Anche la Short incomincia a produrre idrovolanti, che parteciperanno a
importanti operazioni.
Le esigenze belliche fanno nascere l’aviazione imbarcata. Gli aerei sono
perlopiù idrovolanti, che sono calati in mare e issati a bordo al termine della
missione, se il mare consente l’ammaraggio. Gli aerei imbarcati su unità ita-
liane tra il 1913 e il 1918 sono il Curtiss 1912, la Curtiss Flying Boat, il
Lohner L1, il Macchi L2, l’FBA, il Macchi M5 e l’Ansaldo SVAI.
Altra soluzione, destinata ad avere un grande futuro, è la catapulta. Fin dal
1912, quando uno Short S 38 è catapultato dalla nave Hibernia, tutte le marine
militari lavorano per dotare le navi di aerei che possano essere mandati in volo
senza dove decollare dalla superficie del mare. Nei ristretti teatri bellici del-
l’Adriatico e o del Mare del Nord l’idrovolante, al termine della missione, può
dirigere verso un territorio amico, se le condizioni del mare presso la nave non
consento l’ammaraggio.
La fine della guerra rende riciclabili per usi civili migliaia di aerei e piloti,
ma l’avvio di attività di trasporto, pur rispondendo a una generale aspettativa,
è meno facile di quanto si possa prevedere. Ciò è anche dovuto alla condizio-
ne delle industrie aeronautiche dei maggiori paesi, che devono affrontare il
difficile compito di fare progredire l’aviazione a fronte di un drastico calo
delle commesse di aeroplani.
L’attenzione nel dopoguerra si rivolge subito ai grandi progetti che erano
stati bloccati dagli eventi nel 1914. Il primo è l’attraversamento dell’Atlanti-
co. La conquista di questo oceano è compiuta nel maggio 1919 dal capitano
Albert Read, via Azzorre, Lisbona, Plymouth, con l’idrovolante Navy-Curtiss

291
Eredi di una grandiosa tradizione

NC-4. Il tragitto di 7573 km è percorso in 57 ore 16 minuti. All’arrivo, a


Plymouth, i trasvolatori sono fatti approdare e ricevuti esattamente nel punto
in cui tre secoli prima erano partiti per il Nuovo Mondo i Padri Pellegrini.
Sarebbe arduo affrontare in queste pagine una descrizione dettagliata del-
l’“esplosione” dell’aviazione civile e militare idro negli anni Venti e Trenta.
Ci concentreremo dunque sulle sole imprese e realizzazioni più importanti.
Nel 1919 i francesi Lefranc e Monteley, su idrovolanti Donnet-Dehaut, com-
piono spedizioni di esplorazione del fiume Senegal e di altri fiumi africani.
L’Atlantico è più facile sotto l’equatore che sopra di esso, per il clima più
clemente. A compiere per primi l’impresa, dall’Europa al Brasile, sono, nella
primavera del 1922, Gago Coutinho e Arturo de Sacadura Cabral, con un
idrovolante inglese Fairey, battezzato Lusitania. La rotta è da Lisbona alle
Canarie, poi a Capo Verde, per lanciarsi nell’Atlantico. L’idea è di compiere la
traversata da San Vincenzo, una delle isole dell’arcipelago di Capo Verde, a
Pernambuco, in Brasile. Dopo un infruttuoso tentativo di decollare troppo
carichi, i piloti si alleggeriscono di benzina e decidono di conseguenza di
fermarsi in un punto intermedio. Sull’Atlantico del Sud ce ne sono due: l’iso-
lotto di San Paolo e l’isola di Fernando de Noronha. L’equipaggio fa sosta
sull’isolotto, dove l’equipaggio compie un buon ammaraggio, ma la tempesta
che giunge di lì a poco distrugge l’idrovolante. Trasferiti in nave a Fernando
de Noronha, i piloti ricevono in pochi giorni dal Portogallo un aereo identico
al Lusitania e riprendono la traversata, in direzione di Pernambuco, non senza
essere ritornati a sorvolare l’isolotto di San Paolo, per dare una continuità al
loro viaggio. Il motore però pianta a 300 km dalla costa. I due piloti sono
salvati da una nave britannica, mentre l’idrovolante cola a picco. Dopo essersi
fatti lasciare di nuovo a Fernando de Norunha, i due si fanno inviare un terzo
Fairey dal Portogallo, con il quale completano il loro viaggio, ormai durato
due mesi e mezzo. Dopo avere dato una dimostrazione di vera “caparbietà
idrovolantistica” terminano il viaggio e sono accolti trionfalmente al loro
arrivo a Rio de Janeiro.
In Italia, nel gennaio 1921, la Caproni vara nelle acque del Lago Maggiore,
per il collaudo, il gigantesco noviplano C 60, inteso per il trasporto di 100
passeggeri attraverso l’Atlantico. L’aereo si danneggia però irrimediabilmen-
te per un indesiderato spostamento della zavorra e il progetto viene abbando-
nato, rimanendo una delle più curiose realizzazioni della storia dell’aviazione.
In tutto il mondo sono compiuti esperimenti e trasvolate atti a dimostrare le
potenzialità commerciali dell’idrovolante. Nel 1919 un F-5 compie un viag-
gio di 4000 km, con partenza da Felixstowe, che lo porterà in tutti i paesi
scandinavi, senza alcun inconveniente. Nello stesso anno è inaugurata una
linea, con idrovolanti a scafo Supermarine Channell, da Southampton a Le
Havre. Il pilota e i tre passeggeri paganti devono penare non poco per riuscire
a decollare sul piccolo aereo con 160 cavalli, tanto che si riporta che un
passeggero ha ironicamente suggerito che su brevi tratte è più pratico che

292
Eredi di una grandiosa tradizione

l’aereo proceda in flottaggio per l’intero viaggio. Nel mondo degli idrovolanti
capita tuttavia che una piccola modifica faccia di una macchina critica un
gioiello. Quando il Channell è rimotorizzato con motore da 240 cavalli, di-
venta tanto prestante da trovare impiego per molti anni a venire nell’isola di
Bermuda, nella Guiana Britannica, in Cile, Giappone, Nuova Zelanda, Norve-
gia, Svezia e Trinidad. Un esemplare è usato per esplorare l’Orinoco.
Nel 1922 l’americano Walter Hinton, uno dei piloti dell’NC-4 della prima
trasvolata atlantica, organizza un volo da Pensacola a Rio de Janeiro, mai
tentato in precedenza. Dopo essersi fatto finanziare l’impresa dal quotidiano
The New York World, noto per il suo sostegno all’aviazione, parte su un Navy-
Curtiss H-16 battezzato Sampaio Correia. A bordo porta il copilota, il brasi-
liano Pinto Martins, il meccanico, un giornalista e un fotografo.
Tra le tante avventure vissute, quella che porta alla perdita dell’aereo. In
forte ritardo, Hinton giunge al largo di Cuba ormai al buio di una notte senza
luna e decide il dirottamento sulla base navale americana di Guantanamo.
Raggiunta quella che ritiene essere la punta orientale dell’isola, segnalata da
una luce, imposta la discesa pensando di essere nella baia, ma la luce è quella
della USS Danver e l’aereo ammara non nella baia protetta, ma sulle onde
dell’oceano, squartandosi. Dai ponti della Danver molti hanno visto le luci del
Sampaio Correia che finiva in acqua, ma l’ultima cosa che possono pensare è
che possa trattarsi di un aereo e ritengono infatti che si sia trattato di una stella
cadente. Il comandante ha però un ripensamento, ricordandosi di avere letto,
qualche tempo prima, un articolo sul viaggio progettato da Hinton. Ferma la
nave e scandaglia la superficie del mare con i potenti fari di bordo. I naufraghi
sono letteralmente strappati dalle fauci degli squali che stanno accorrendo in
gran numero e li stanno assalendo. Il viaggio è poi portato a termine con un
Sampaio Correia II, che viene messo a disposizione dalla Marina degli Stati
Uniti. Il periplo delle coste dell’America centrale e del Brasile si svolge in
modo avventuroso. Capita che l’aereo alla fonda in un porto si salvi miracolo-
samente dall’incendio della nave ormeggiata nelle vicinanze, oppure che fini-
sca incagliato in un groviglio di alberi, radici e liane in un fiume della Guiana
francese; per liberarsi l’equipaggio deve lavorare con sega e machete per un
giorno intero. Avventure di questo genere si consumano ogni giorno nei primi
decenni di storia dell’aviazione e offrono di questa attività e di questi piloti
un’immagine mitica.
Nel 1924 MacIntyre e Globe compiono con un Fairey III D il giro dell’Au-
stralia. Questo viaggio dà una bella dimostrazione delle possibilità dell’idro-
volante, esattamente come farà un anno dopo, lungo le stesse coste, de Pinedo.
I due piloti australiani partono infatti “alla ventura”, senza prevedere alcuna
delle soste. Si fermano in prossimità di villaggi costieri, dove si procurano la
benzina e di che vivere e ripararsi. Percorrono 18.000 km in 44 giorni, affron-
tando il buio, violenti acquazzoni tropicali e arditi ammaraggi presso le bar-
riere coralline. Nel corso dell’intero viaggio tirano in secca l’aereo solo tre

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Eredi di una grandiosa tradizione

volte, a riprova della robusta costruzione e affidabilità di quelle macchine.


Sempre nel 1924 si compie un’altra grande impresa: il giro del mondo.
Protagonisti sono quattro Duglas World Cruiser, aerei usati perlopiù come
idrovolanti e, in alcune parti del percorso come aerei terrestri. Il viaggio di
44.342 km è terminato solo da due aerei: il Chicago di Lowell Smith e Leslie
Arnold e il New Orleans di Erik Nelson e John Harding. Sul manuale dell’ae-
reo si può leggere la dotazione di attrezzi ritenuta utile per affrontare questo
volo: “martello, pinze, cacciavite, chiave inglese, torcia elettrica”. Il viaggio è
stato “regolato” per fare passare gli allora tre Cruiser sui Champs Elysées
durante la parata del 14 luglio.
Gli aviatori americani, a Reykjavik, incontrano l’italiano Antonio Locatelli,
che con un Dornier Wal sta tentando la traversata dell’Atlantico del Nord.
Decollano insieme diretti a Terranova. Locatelli, a 1500 km dall’Islanda, si
trova a volare in condizioni impossibili e, per evitare il peggio, ammara sulle
onde dell’oceano in tempesta. Perso l’aereo, verrà raccolto dalla nave di soc-
corso Richmond. Per la cronaca, gli aviatori americani dirottano e riescono a
raggiungere felicemente la Groenlandia.
Non c’è zona della terra che sia esente dalla smania di conquista degli
aviatori. Se la meta è lontana e fuori dal “mondo civile” la scelta del mezzo
non può che cadere su un idrovolante. Roald Amundsen, sempre nel 1924, un
anno densissimo di avvenimenti di interesse aviatorio, usa due Dornier Wal,
progettati in Germania ma costruiti in Italia, per lanciarsi verso il Polo nord.
L’impresa è finanziata dal magnate americano Ellsworth, il cui figlio Lincoln
è presente su uno degli aerei.
I due Wal sono specialmente attrezzati per il freddo polare. Ogni tubo è
catramato e intelato, mentre l’acqua di raffreddamento è addizionata per il
40% da glicerina, che ne porta il punto di congelamento a -17 °C. Prima
dell’avviamento i motori sono portati da - 10 a +35 °C grazie a un sistema di
riscaldamento catalitico “senza fiamma”, che evita il rischio di incendio.
A 250 km dal Polo gli idrovolanti atterrano con i loro scafi sulla banchisa,
che si rivela più accidentata del previsto. Uno si danneggia e viene abbando-
nato. La sosta dura un mese e porta gli equipaggi alla fame. Dopo aver riempi-
to di ghiaccio i crepacci e spianato una striscia di lunghezza sufficiente,
l’N-25 viene fortunosamente fatto decollare e procede verso sud alla quota di
100 m, nella nebbia. In quasi 9 ore di volo e di navigazione stimata, condotta
dai piloti in cabina aperta, l’idrovolante giunge al Capo Nord della Terra di
Nordest, nell’arcipelago delle Spitzberg, e ammara in acque libere.
L’N-25 usato da Amundsen sarà usato nel 1930 dal tedesco Wolfgang von
Gronau per la traversata dell’Atlantico del Nord, che lo porta dalla Germania
a New York in sole 44 ore 25 minuti. Il tedesco compirà una seconda traversa-
ta, sempre con un Wal, nel 1931.
Nel 1928 si consuma la tragedia del dirigibile Italia di Umberto Nobile e un
grande sforzo internazionale è organizzato per condurre le ricerche. Gli idro-

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Eredi di una grandiosa tradizione

volanti di molte nazioni vi partecipano. Uno di questi è l’idrovolante francese


Latham-47, che si porta sulla zona delle operazioni dopo aver imbarcato Ro-
ald Amundsen in Norvegia. Decollato da Tromsö, l’aereo svanisce nel nulla,
con il suo equipaggio e il grande esploratore. I naufraghi del dirigibile sono
infine trovati da Umberto Maddalena, ai comandi di un Savoia S 55.
Nel 1924 hanno inizio in Italia le operazioni della SISA, la prima linea aerea
italiana fondata dalla famiglia Cosulich, con base a Portorose e Trieste, ope-
rante esclusivamente con idrovolanti. Collega Torino con Pavia, Venezia, Trie-
ste e Portorose, lungo una rotta che segue il Po e poi la costa veneta. Altre
linee della SISA collegheranno in seguito le più importanti città dell’Adriati-
co, tra cui Ancona e Zara.
Negli suoi anni di vita la SISA fa registrare un’incredibilmente alta percen-
tuale di servizio svolto, a riprova della grande sicurezza offerta da idrovolanti
che volano su acqua e che si trovano sempre in condizione di effettuare un
ammaraggio di emergenza.
Nel 1925 si svolge l’importante impresa di Francesco de Pinedo, un raid di
55.000 km, il più lungo compiuto fino a quel momento, che porta il valente
pilota e navigatore italiano, accompagnato dal meccanico Ernesto Campanel-
li, fino in Australia e in Giappone, senza beneficiare di alcun particolare ap-
poggio logistico. Una breve descrizione del viaggio è riportata nel capitolo
“In onore di Francesco de Pinedo”.
Nello stesso anno il capitano John Rodgers decolla da San Francisco con un
PN9 verso le Hawaii. A 500 km dalle isole finisce la benzina e dopo una
difficile navigazione di 9 giorni condotta grazie a vele improvvisate raggiunge
l’arcipelago. Infine è avvistato e aiutato da un sottomarino americano, ma
ormai è arrivato, trovandosi a una ventina di chilometri dall’isola di Kauai.
Nel 1926 Ramon Franco, fratello del futuro Caudillo, attraversa l’Atlantico
del sud in un raid da Palos a Montevideo, con il Dornier Wal battezzato Plus
Ultra. La località di partenza è volutamente quella da cui partirono le caravel-
le di Colombo.
Nel 1926 Sir Alan Cobham, accompagnato dal meccanico-pilota Elliot, com-
pie con un piccolo idrovolante a galleggianti, il De Havilland DH 50, un raid
di 43.000 km Londra-Melbourne-Londra, per studiare la possibilità di una
futura linea commerciale. Decollato da Bagdad, Cobham è colto da una tem-
pesta di sabbia e ammara precauzionalmente nell’Eufrate. Ridecollato, sorvo-
la territori abitati da tribù arabe ribelli. L’aereo è bersagliato da colpi di fucile,
uno dei quali colpisce mortalmente Elliot. Questo raid dimostra, oltre alla
pericolosità di muoversi in certe parti del mondo, l’alta affidabilità che ormai
hanno raggiunto i motori aeronautici. In Australia, infatti, il motore è revisio-
nato per il volo di ritorno, ma viene rimontato senza sostituzione di pezzi.
Sempre nel 1926 gli argentini Bernardo Duggan ed Edoardo Olivero, dopo
aver assoldato il meccanico italiano Ernesto Campanelli, organizzano un raid
da New York a Buenos Aires con un Savoia Marchetti S59.

295
Eredi di una grandiosa tradizione

La febbre che coglie i piloti di idrovolanti nel 1926 non si placa. Il tenente di
vascello francese Bernard va e torna da Parigi al Madagascar con un Lioré et
Olivier LeO H 194. Lo svizzero Walter Mittelholzer vola da Zurigo a Città del
Capo con un Dornier Do.B battezzato Switzerland, dotato di un radiatore
supplementare per affrontare i caldi africani. Ad Assuan ammara sul Nilo
insieme all’idrovolante di Bernard, di ritorno dal Madagascar. Fanno parte
dell’equipaggio lo scrittore René Gouzy e il geologo e fotografo Arnold Heim,
che realizza il primo reportage fotografico aereo in Africa.
Lo spagnolo Ignacio Jimenez, con i suoi colleghi, i fratelli Llorente, condu-
ce tre Dornier Wal da Melilla a Fernando Poo, nell’Africa equatoriale.
Il maggiore Dargue, della US Army, organizza un lungo raid di 30.000 km
in tutto il Sudamerica con 5 Loening OA 1A, anfibi a galleggiante unico, i
primi a essere dotati di carrello comandato elettricamente. All’arrivo in for-
mazione stretta nei cieli di Buenos Aires, due aerei si urtano e precipitano;
uno solo degli equipaggi si salva saltando con il paracadute.
Nel 1927 il già citato Alan Cobham del raid a Melbourne e Sir Charles
Wakefield partono per un viaggio di esplorazione in Africa di 32.000 km con
uno Short Singapore I, capostipite degli idrovolanti metallici, e quasi naufra-
gano nel Mediterraneo, presso Malta, a causa di una tempesta.
In Europa Umberto Maddalena, con Del Prete, compie con un Savoia S 62
un viaggio di oltre 7000 km nell’Europa centrorientale.
L’Atlantico torna a far parlare di sé, quale teatro della prima traversata
notturna. La compiono il pilota Sarmento de Beires e il navigatore Jorge de
Caltilho con un Dornier Wal costruito a Marina di Pisa. La tappa di 2595 km
tra Bolama, in Guinea, e Fernando de Noronha, è compiuta in 18 ore usando
esclusivamente metodi di navigazione astronomica. Jorge de Castilho, nel
tragitto, compie 158 osservazioni con il sestante, una ogni 7 minuti, per con-
trollare la regolarità della navigazione.
Il 1927 è anche l’anno del viaggio di Francesco de Pinedo nelle Americhe, il
primo che prevede l’andata attraverso il Sud-Atlantico e il ritorno attraverso il
Nord-Atlantico. Tornato dal viaggio in Australia e Giappone, de Pinedo aveva
progettato un complesso viaggio in tutti i continenti di 120.000 km, ma ha poi
dovuto ripiegare sul più “modesto” viaggio nelle Americhe.
Alla partenza si registra un fatto curioso, relativamente all’eterno problema
che ogni pilota di idrovolante deve affrontare prima di un viaggio: il carico.
Temendo di non riuscire a salire sul redan e quindi a decollare con il suo
Savoia S 55 Santa Maria, de Pinedo offre agli operai e ai tecnici un premio
per ogni chilo guadagnato alleggerendo l’aereo.
Tra i molti strumenti di navigazione, a bordo è anche presente un grafome-
tro, da usare per determinare la deriva, grazie all’osservazione di candelotti
fumogeni lasciati cadere in mare.
Dopo essere giunto negli Stati Uniti e ammarato alla Roosevelt Dam, in
Arkansas, de Pinedo vede il suo idrovolante bruciare in pochi minuti, per la

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Eredi di una grandiosa tradizione

sbadataggine di un giovane inserviente, che ha gettato un mozzicone di siga-


retta vicino al punto in cui si sta svolgendo il rifornimento. Un Santa Maria II
è immediatamente inviato via nave, in modo che l’aviatore italiano possa
terminare il suo viaggio.
Nella traversata di ritorno, il vento avverso determina un forte ritardo e de
Pinedo si rende conto di non poter raggiungere le Azzorre. Effettua allora un
ammaraggio precauzionale 300 km a ovest dell’arcipelago, presso un veliero.
Questo, rilevato in seguito da una seconda nave, e poi una nave italiana inviata
in soccorso, trainano l’idrovolante a doppio scafo a Horta, ove vengono ripa-
rate le poche parti danneggiate durante i vari giorni di traino. Il viaggio di
45.000 km prosegue per Lisbona e Barcellona e si conclude a Ostia, ove il
trasvolatore è accolto da un’immensa folla e dal capo del governo.
Torniamo ora sulla rotta dell’Oriente, ove il capitano della Royal Air Force
Brown Cave conduce una spedizione di 4 Supermarine Southampton dall’In-
ghilterra a tutto l’Estremo Oriente e all’Australia, nel corso della quale sono
studiate molte migliorie alla tecnica di costruzione degli idrovolanti.
Sempre nel 1927 Juan Trippe, fondatore della Pan American Airways Sy-
stem, dà inizio, con la consulenza di Charles Lindbergh, alla conquista del-
l’America Centrale e Meridionale. Protagonisti sono i Sikorsky S-36 e S-38 e
in seguito gli S-40 e S-42, fiancheggiati dagli idrovolanti delle compagnie via
via “fatte fallire” dalla spregiudicata politica commerciale di Trippe e incor-
porate nella Pan American.
L’epopea della Pan American è difficile da descrivere in meno di un corposo
volume. Qui basti considerare che in quattro anni la linea di 180 km tra Key
West e L’Avana diventa un sistema di linee regolari lungo 29.000 km.
Nel 1931 un S-38 è dirottato in volo dalla compagnia su Managua, in Nica-
ragua, ove un violento terremoto ha provocato migliaia di vittime. L’idrovo-
lante e la sua radio di bordo permettono di fare arrivare gli aiuti e di coordina-
re le prime operazioni.
Eccoci giunti al momento della prima traversata dell’Atlantico senza scalo,
nel giugno 1928. Una gentildonna inglese, Federica Guest, ha l’ambizione di
essere la prima donna che attraversa l’Atlantico in aereo. Assolda il pilota
Willmur Stultz e il navigatore Lou Gordon e acquista dall’esploratore Richard
Byrd il trimotore Fokker F-VII/3M, denominato Friendship, nome che molto
tempo dopo verrà dato a un commuter di grande successo della nota casa
costruttrice olandese.
Gli amici della gentildonna fanno però di tutto per dissuaderla dal partecipa-
re a un’impresa così pericolosa. Lady Guest infine cede, ma esige che il suo
posto a bordo sia assegnato a una donna che sia rappresentativa dei tempi. La
scelta cade su una ragazza che nel 1922 aveva battuto il record femminile di
quota raggiunta (4600 m), ma che aveva già in sé tutte le caratteristiche che ne
avrebbero fatto in seguito un “gigante dell’aviazione”: Amelia Earhard. Nel
1937 Amelia, dopo aver battuto un record dopo l’altro e aver compiuto varie

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Eredi di una grandiosa tradizione

trasvolate oceaniche, partirà per un giro del mondo su un Lockheed Electra.


Dopo aver percorso 43.500 km, lasciata la Papuasia, sarà attesa invano sul-
l’isola di Howland, sparendo senza lasciare traccia. Oggi le ipotesi sulla sua
fine sono le più varie e circa ogni due anni esce un altro libro che, oltre a
offrire una nuova e più ricca biografia dell’affascinante aviatrice, presenta
un’ulteriore interpretazione di come sono andate le cose.
Tornando al 1928, Amelia dunque è scelta per il volo che porterà il Fokker
da Boston a Trepassey, a Terranova, da dove ha inizio la traversata. La parte
finale del viaggio si svolge con radio in avaria e a corto di carburante. L’aereo
riesce comunque a raggiungere le coste dell’Inghilterra, presso Swansee, nel
Galles, dopo 20 ore 45 minuti di navigazione. Il giorno dopo l’idrovolante
raggiunge Southampton, ove una folla festante accoglie l’equipaggio. Amelia
confessa ai giornalisti che ha il solo rammarico di non aver compiuto quel
volo transatlantico ai comandi dell’aereo, impresa che compirà presto da sola.
Sempre nel 1928 si deve registrare un’impresa italiana: un raid nel Mediter-
raneo occidentale con 60 Savoia S 59, al comando di Francesco de Pinedo,
che si svolge senza alcun inconveniente.
L’anno successivo lo stesso de Pinedo conduce un raid nel Mediterraneo
orientale, fino a Odessa, nel Mar Nero, con una flotta di 31 Savoia S 55.
Il ministro dell’Aeronautica Balbo crede fermamente nella formula delle
crociere “di massa” non solo per offrire una dimostrazione della validità delle
macchine italiane, ma quale momento di formazione di piloti che diventino
l’emblema dello spirito della “nuova” Italia fascista. Le crociere segnano il
passaggio da un’aviazione intesa quale somma di imprese individuali di eroici
“assi” a un’aviazione che diviene prodotto dello uno sforzo ben coordinato da
parte di un’organizzazione efficiente e complessa.
Nel 1929 si svolge anche il volo dei russi Chestakov e Bolotov da Mosca a
New York. I due attraversano la Siberia, le Aleutine, l’ex territorio russo del-
l’Alaska e l’America del Nord. L’aereo è il Tupolev Ant 4, con motori BMW,
che dimostra in questo difficile viaggio tutta la sua robustezza e affidabilità.
Ancora nel 1929 lo spagnolo Ramon Franco, già citato per la sua attraversa-
ta dell’Atlantico del Sud, tenta quella dell’Atlantico del Nord con un Dornier
Wal, ma resta senza benzina prima delle Azzorre, venendo raccolto dopo pa-
recchi giorni dalla portaerei inglese Eagle.
Nel frattempo il Wal della Dornier è costruito su licenza anche in Olanda.
Tre Wal olandesi sono usati per organizzare un raid fino a Surabaya, nell’isola
di Giava, colonia olandese. Uno è distrutto in seguito all’urto di un’ala con un
ponte, nel corso di una prova motore, che causa la morte del pilota e il feri-
mento dei meccanici. Un secondo aereo è perso per incendio nel corso di un
rifornimento. Un solo aereo riesce a terminare il percorso di 15.610 km.
Nel 1931 L’Italia si fa notare con la crociera atlantica organizzata da Italo
Balbo, che porta in Sudamerica una flotta di 9 idrovolanti, su 12 partiti. Gli
equipaggi si sono formati alla scuola di Orbetello, organizzata dallo stesso

298
Eredi di una grandiosa tradizione

Balbo, nota per la vita estremamente spartana, quasi monacale, imposta agli
aspiranti piloti. Una delle prove per i piloti al termine della loro formazione
consiste nell’affrontare il Tirreno durante una tempesta.
Sempre nel 1931 Charles Lindbergh, con la moglie Anne Morrow, è incari-
cato dalla Pan American di fare un viaggio esplorativo fino in Cina. A bordo di
un monomotore Lockheed Sirius, la coppia attraversa migliaia di chilometri
di regioni inospitali, vivendo le interessanti avventure riportate da Anne nel
suo libro North to Orient. In Cina i Lindbergh partecipano con il loro idrovo-
lante alle operazioni di soccorso conseguenti al passaggio di un tifone, nel
corso delle quali l’aereo si danneggia irrimediabilmente.
Trasferiamo ora la nostra attenzione alla Nuova Zelanda. Qui vive Francis
Chichester, inglese, che ha deciso di trasferirsi dall’Inghilterra a questo “nuo-
vo mondo” raggiungendo in volo l’Australia a bordo di un De Havilland DH
60 Gipsy Moth. L’aereo viene poi portato in Nuova Zelanda via nave. Chiche-
ster non è ricco, non lavora per alcuna industria aeronautica, non è un militare
e non ha amici influenti. Inoltre, quando parte dall’Inghilterra, ha il brevetto
di pilota da soli 5 mesi. Questo è probabilmente il più lungo viaggio compiuto
fino a quel momento da un privato che si paga interamente le spese di viaggio.
Chichester dimostra inoltre che un viaggio di quel genere è alla portata di un
pilota di non grande esperienza.
Nel 1931 Chichester organizza un difficile viaggio tra la Nuova Zelanda e
l’Australia, attraverso le isole di Norfolk e Lord Howe. L’impresa la compie
nel Mare di Tasman, noto per i rapidi cambiamenti di tempo e le frequenti
tempeste, in mezzo a mille difficoltà, che risolve via via dando fondo alla
propria intraprendenza: è costretto a ricostruire l’aereo, cappottatosi alla boa a
Lord Howe in seguito a un fortunale; in un incidente perde un dito, che gli
viene amputato; nella tappa finale affida la propria salvezza a due piccioni
viaggiatori, lasciati liberi a centinaia di chilometri dalla costa australiana, in
mezzo alla tempesta, recanti le coordinate della sua posizione del momento.
Le avventure vissute non scoraggiano il grande navigatore, che progetta
subito il proseguimento del viaggio dall’Australia al Giappone. Parte da Sid-
ney con sole 44 sterline in tasca, prestategli da un amico. Attraversato l’arci-
pelago indonesiano, le Filippine e sorvolata Formosa, Chichester giunge in
Cina, precedendo di poco il tifone che porterà alla perdita del Sirius dei Lind-
bergh. Giunge in Giappone, a Katsuura, ove nel corso di un volo, sollecitato
dai notabili locali, urta un palo della linea telefonica, distruggendo l’aereo.
Chichester diventerà famoso negli anni sessanta per le sue traversate in
barca a vela in solitario e, nel 1966, per il primo giro del mondo in solitario.
Nel 1932 si tiene a Roma, organizzato da Balbo, un raduno mondiale di
trasvolatori, noto come “Giornate internazionali dei voli oceanici”, a cui par-
tecipano la gran parte dei piloti citati in precedenza.
Tornato in Germania da questo raduno, il già citato Wolfgang Von Gronau,
che ha alle spalle due traversate atlantiche, riesce nell’impresa di convincere

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Eredi di una grandiosa tradizione

due ministri a finanziargli un giro del mondo. Impresa - quella di farsi finan-
ziare - tutt’altro che facile nella sbrindellata repubblica di Weimar, che conta
al momento sei milioni di disoccupati e che è in procinto di consegnare il
Paese nelle mani di una nuova “guida” venuta dal nulla, ma capace di esercita-
re un indubbio fascino sulle folle.
Il decollo del Dornier Wal da List avviene grazie a una tecnica avanzata
tipica del volo idro: l’aereo si trova a decollare in condizioni di assoluta calma
di vento e piattezza della superficie, condizioni dunque molto sfavorevoli per
un idrovolante carico; sfrutta però la scia ondosa e il vento artificiale apposita-
mente provocati da un aereo che lo precede di poco, in questo caso un quadri-
motore Superwal. La rotta che lo porta in Islanda, Groenlandia e Terranova è
in molti punti contrassegnata da nebbia e visibilità nulla, ma gli aiuti alla
navigazione e l’impiego esteso della radio permettono ormai di affrontare
queste condizioni come una normale operazione.
Negli Stati Uniti von Gronau è assistito in varie traversie da importanti
aziende automobilistiche e da famosi piloti. Dopo aver sorvolato le Aleutine
raggiunge la Kamchatka e percorre le vulcaniche isole Curili, riprendendo
suggestive colate di lava che si gettano nell’oceano.
In Giappone fa revisionare l’aereo alle officine della Kawasaki, che costrui-
sce il Wal su licenza, ma deve subire incessanti domande sulle basi militari
americane nel Pacifico settentrionale.
Il viaggio prosegue per Shangai e Hong Kong, ove il Wal ammara in traffica-
tissimi porti. A Manila von Gronau incontra Douglas Mac Arthur, comandan-
te delle forze americane nel Pacifico. Dopo aver festeggiato il passaggio del-
l’equatore con una coppa di champagne, von Gronau ammara a Surabaya,
capitale di Giava, tra i 14 Wal della Marina olandese alla fonda nel porto.
Radio Berlino riesce a stabilire un collegamento in onde corte e trasmette in
diretta una conversazione di von Gronau con il ministro delle comunicazioni
tedesco, che avviene lungo una distanza di 15.000 km.
Al largo della penisola malese, gli ingranaggi della pompa del liquido di
raffreddamento si deteriorano e il motore anteriore grippa e pianta. Il Wal è
fatto ammarare sul mare in tempesta, con onde alte 5 metri. Il robustissimo
idrovolante resiste per otto ore alle terribili sollecitazioni ed è infine soccorso
dalla nave delle poste britanniche Caragola, che ha ricevuto l’SOS lanciato
dall’operatore radio Albrecht prima dell’ammaraggio. L’idrovolante è traina-
to fino a Rangoon alla notevole velocità di 12 nodi, che la nave deve tenere per
evitare le penali imposte in caso di ritardo. Qui i motori sono revisionati e
vengono prodotti nuovi ingranaggi in bronzo, in sostituzione di quelli danneg-
giati. Il viaggio può quindi proseguire.
Il resto del viaggio è quasi senza storia. All’arrivo in Europa von Gronau è
festeggiato calorosamente da Balbo, a Ostia, e poi a Friedricshafen, per essere
infine ricevuto dal nuovo presidente del Reich Hindenburg e dal nuovo vice-
cancelliere Adolf Hitler.

300
Eredi di una grandiosa tradizione

È giusto ricordare un altro viaggio di un tedesco, Hans Bertram, compiuto


nel 1932-33, con un idrovolante a galleggianti Junkers W 25, battezzato
Atlantis. Bertram, che sottotitola la sua impresa “Dal Reno al Mare di Timor”,
raggiunge l’Australia in un viaggio di 14 mesi, percorrendo lentamente tutto il
medio Oriente e l’Asia meridionale, consentendo al fotografo che lo accom-
pagna di fare ampi reportages di interesse etnografico, oltre che di realizzare
affascinanti immagini dello Junkers in ambienti esotici.
Il 1933 è l’anno di Balbo. Ben 24 Savoia Marchetti S 55X, con a bordo in
totale 99 uomini, compiono un epico viaggio da Orbetello a Chicago e poi
New York, guadagnando un trionfo nella Quinta Strada che fa ingelosire e
andare su tutte furie Mussolini.
Il 1933 vede un’altra grande impresa di Lindbergh, sempre accompagnato
dalla moglie Anne, che con il loro Lockheed Sirius compiono un lungo viag-
gio dall’America all’Europa e alla Russia, per tornare in America attraverso
l’Atlantico del Sud.
La cronaca idrovolantistica degli anni Trenta sarebbe carente se non ricor-
dassimo i nomi di due grandi piloti italiani. Il primo è quello di Mario Stoppa-
ni, la cui carriera è una delle più lunghe e ricche che si possono immaginare.
Aviatore nella prima guerra mondiale, Stoppani fa l’istruttore, il collaudatore,
batte molti record e gira il mondo con i “Cant”, gli idrovolanti dei Cantieri
Riuniti dell’Adriatico, basati a Monfalcone. Collauda il Cant Z 511, il più
grande idrovolante con galleggianti mai costruito e, dopo la guerra, ormai
anziano, collauda il Siai Nardi FN 333 Riviera.
Un altro grande pilota italiano degli anni Trenta è Arturo Ferrarin. Noto per
il suo viaggio da Venegono a Tokio (con aereo terrestre), è meno noto per le
imprese che ha compiuto con idrovolanti, tra cui una traversata dell’Atlantico
del Sud con lo sfortunato meccanico Del Prete, che perde la vita in un inciden-
te durante il viaggio.
Ma ritorniamo ora un momento indietro nel tempo per seguire come sono
andate le gare, riprese dopo la prima guerra mondiale, per la conquista della
Coppa Schneider. Nel 1922, a Napoli, vince il Supermarine Sea Lion II, un
idrovolante a scafo. Nel 1923 vince l’americano Curtiss CR-3, alla velocità di
285 km/h e nel 1925 un altro Curtiss.
Gli italiani, con il Macchi M39 di De Bernardi, vincono la gara del 1926,
evitando che la coppa finisca definitivamente nelle mani degli americani (che
se la sarebbero aggiudicata con la terza vittoria consecutiva).
Nel 1927 la gara si corre a Venezia ed è vinta dagli inglesi, con il Superma-
rine S-5, alla velocità di 454 km/h, sotto gli occhi delusi delle migliaia di
italiani accorsi. Nel 1929 rivincono gli inglesi, con l’S-6, che raggiunge la
velocità di 576 km/h.
Nel 1931 gli inglesi, nella condizione di potersi aggiudicare la coppa, con la
terza vittoria consecutiva, si vedono annullare il sostegno economico del go-
verno. Interviene, a finanziare la preparazione del nuovo aereo, Lady Huston,

301
Eredi di una grandiosa tradizione

che con il suo generoso e patriottico sforzo permette la definitiva conquista


inglese della coppa, ottenuta dall’S-6Bs alla velocità di 547,31 km/h. Lo stes-
so aereo raggiunge in seguito la velocità di 656 km/h. Gli sforzi fatti dalla
Supermarine per conquistare la Coppa Schneider hanno una ricaduta di rilie-
vo, portando alla produzione dello Spitfire, di cui durante la guerra verrà
realizzato anche un curioso esemplare dotato di galleggianti.
Gli italiani, amareggiati dalla sconfitta di Venezia e dal non essere arrivati a
partecipare all’edizione della gara del 1931, si rifanno raggiungendo risultati
sempre più interessanti con il Reparto di Alta Velocità di Desenzano del Gar-
da. Nel 1934 Francesco Agello consegue il record assoluto di velocità con un
aereo a elica, raggiungendo la velocità di 709,209 km/h. Tale record è ancora
valido per la categoria degli idrovolanti a elica.
Gli anni Trenta vedono grandi sviluppi nella costruzione di idrovolanti mili-
tari, di cui in molti casi sono poi prodotte versioni civili. In Inghilterra sono
perlopiù Short. La Germania nazista produce i Dornier (magnifico il Do 18
con motori diesel e il Do 26, con 9000 km di autonomia), i Blohm und Voss,
gli Heinkel, gli Junkers (usati dalle compagnie in molti paesi del mondo nella
versione civile). In Italia i più noti sono i Cant Z 501 e 506, i Savoia, i Macchi,
i Caproni. Il Caproni CA 100 diventa l’aereo “popolare”, venendo prodotto in
quasi 2000 esemplari e contribuendo alla formazione di migliaia di piloti.
Negli Stati Uniti la Martin produce una serie di flying boat sempre più
grosse e nasce il Catalina, forse il più famoso degli idrovolanti militari, pro-
dotto in più di 3000 esemplari, alcuni dei quali volano ancora oggi nelle mani
di collezionisti. In Francia sono prodotti i Breguet, i CAMS, i Lioré et Olivier,
i Latécoère. In Giappone i Kawanishi e gli Aichi, oltre che una curiosissima
versione idro dell’indovinatissimo Zero.
Nel campo del trasporto aereo civile gli anni Venti, in tutto il mondo, ma in
particolare in America e Canada, vedono la nascita di centinaia di compagnie
grandi e piccole che collegano con idrovolanti località affacciate su specchi
d’acqua. Curioso, per fare solo un caso, è un servizio della Aeromarine Ai-
rways, che opera negli Stati Uniti, nella regione dei Grandi Laghi. Nel 1922
un Cruiser Buckeye della compagnia, idrovolante a scafo, trasporta da Cleve-
land a Detroit una Ford T, eseguendo il primo trasporto commerciale di un’au-
to con un aereo. Ai comandi si trova Edwin Musik, che dopo un decennio sarà
il pilota della Pan Am più celebre e amato dalle folle.
Gli anni Trenta vedono invece un’aviazione civile, ormai matura, affermarsi
su centinaia di rotte continentali e di cabotaggio lungo le coste o in piccoli
mari, come il Mediterraneo.
L’impresa di maggiore rilievo la compie la Pan American, che dalla metà
degli anni Trenta si lancia nel Pacifico. L’Atlantico è in effetti più importante
in quanto consentirebbe di immettersi nel ricchissimo mercato dei trasporti
tra il Vecchio e il Nuovo mondo, ma un accordo impedisce a operatori ameri-
cani di avviare trasporti transatlantici finché anche gli operatori inglesi non

302
Eredi di una grandiosa tradizione

siano pronti a fare altrettanto. Gli Short inglesi non riusciranno mai a garanti-
re il collegamento e questa limitazione rimarrà in vigore fino alla fine della
seconda guerra mondiale.
L’attenzione è dunque rivolta al Pacifico. Nel 1935 si apre la linea che da
San Francisco raggiunge Manila, nelle Filippine facendo tappa a Honolulu e
sugli atolli e isole di Midway, Wake e Guam. Viene subito istituita anche una
linea aggiuntiva che da Manila porta a Hong Kong.
L’espansione nel Pacifico delle rotte della Pan Am non è certo sgradita ai
militari, che hanno nella compagnia uno strumento per controllare le opera-
zioni degli aggressivi giapponesi. Sikorsky S-42, Martin 130 e Boeing 314, i
celebri Clipper, sono i protagonisti della conquista dell’oceano più vasto del
pianeta. Si tratta di magnifiche macchine condotte da esperti e coraggiosi
piloti, il più noto dei quali è Edwin Musick, perito infine in un incidente
mentre conduce un S-42 in un volo sperimentale tra Honolulu e la Nuova
Zelanda. Con l’aereo in avaria poco dopo la partenza, il pilota decide di scari-
care l’enorme massa di carburante prima di rientrare all’isola delle Hawaii;
l’aereo esplode in migliaia di minuti pezzettini, probabilmente dopo che la
scia di benzina si è incendiata passando vicino agli scarichi del motore.
Illustra bene la personalità di Edwin Musik, vero condottiero del volo idro,
un episodio di cui è stato protagonista. Noto per la sua riservatezza e il rifiuto
di voler apparire su giornali e riviste, Musik viene calorosamente richiesto
dalla sua compagnia, durante il volo inaugurale di una nuova tratta, di accetta-
re un collegamento radiotelegrafico con la base, il suo messaggio venendo poi
immediatamente diffuso su una rete radiofonica nazionale. Musik, nell’occa-
sione, trasmette solo dati tecnici, del tutto indigesti al pubblico di milioni di
persone che pendono dalle sue labbra. Il conduttore del programma, spazien-
tito, invia un messaggio radiotelegrafico all’aereo in volo, invitando Musik a
dire qualcosa di più, a parlare di ciò che vede e prova in quei momenti di
importanza storica. Invita Musik, per esempio, a descrivere le emozioni che
suscita in lui il tramonto, che sta per cogliere l’idrovolante in volo. La risposta
di Musik giunge laconica: “Sunset: 0638 GMT”.
In Europa nascono le grandi linee destinate a tenere uniti gli estesissimi
imperi coloniali. L’Imperial Airways collega le coste inglesi della Manica con
il Medio Oriente, il Sudafrica, l’India, l’Estremo Oriente, l’Australia e la
Nuova Zelanda.
Spinti dalla spasmodica ricerca di maggiori autonomie, gli inglesi inventano
il rifornimento in volo e il Short-Mayo Composite, un curioso insieme di un
grande idrovolante a scafo che ne porta uno a galleggianti sul dorso, proprio
una bella dimostrazione di quanto i due tipi fondamentali di idrovolanti siano
entrambi utili. L’idrovolante con galleggianti è rilasciato quando l’insieme dei
due ha già raggiunto una certa distanza. Usato per collegare l’Inghilterra al
Nordamerica, il composito compie il suo viaggio più lungo nell’ottobre 1938
tra l’Inghilterra e il fiume Orange, in Sudafrica, lungo un percorso di 9652

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Eredi di una grandiosa tradizione

km. Un’altra invenzione degli inglesi, destinata però a rimanere senza seguito,
è l’idrovolante a monogalleggiante retrattile, costruito dalla Blackburn.
Nel Pacifico meridionale gli americani, alla ricerca di atolli e isolette da
ricondizionare quali basi di rifornimento intermedio, provenienti da nordest,
trovano sulla loro strada gli inglesi, provenienti da sudovest. Non mancano
momenti di lieve tensione tra queste due grandi potenze marinare del XX
secolo, che vedono per esempio gli americani costruire un faro sull’isoletta di
Canton, mentre sulla spiaggia dal lato opposto gli inglesi erigono un solitario
e “utilissimo” ufficio postale, mentre le rispettive Marine sorvegliano da vici-
no le operazioni e assicurano protezione ai pochissimi addetti.
I Francesi, con l’Aéropostale e poi l’Air France, danno vita alla Ligne, la
linea postale che collega la Francia con il Sudamerica, raggiungendo Santiago
del Cile. I più celebri eroi di questa epopea sono Jean Mermoz, Antoine de
Saint Exupery e Henri Guillaumet. Mermoz scompare nell’Atlantico a bordo
della Croix-du-Sud il 7 dicembre 1936, segnando il tramonto di un’epoca e
destando in ogni francese e in ogni amante del volo un’enorme emozione.
Non è facile descrivere un personaggio come Mermoz, su cui sono stati
scritti fiumi di parole, protagonista di avventure che possono riempire volumi.
Valga solo, per descriverne la personalità, la sua considerazione abituale quando
qualcuno gli chiedeva se non aveva paura di morire in un incidente aereo:
«Incidente, per noi, è morire in un letto».
I tedeschi costruiscono l’enorme e poco pratico DO X, nel 1929, che effet-
tua una traversata atlantica, per le prime 2000 miglia in effetto suolo, non
avendo la potenza per elevarsi a quote maggiori. Il DO X Umberto Maddalena
sosta a Como per qualche giorno nel 1931, durante la costruzione dell’hangar.
Nel 1933 i tedeschi inventano un sistema per accelerare la consegna della
posta attraverso l’Atlantico. Quando la nave si trova a un migliaio di miglia
dalle coste americane, un idrovolante è catapultato con il carico di posta da
consegnare. La Deutsche Lufthansa progetta linee regolari anche verso il Me-
dio ed Estremo Oriente.
Anche la piccola Olanda, con la KLM, gestisce linee aeree di grande respi-
ro, usando intelligentemente le infrastrutture delle grandi compagnie. Gli ae-
rei sono i Fokker di fabbricazione nazionale e gli americani Duglas.
L’Italia, oltre a gestire linee nel Tirreno e nell’Adriatico, inaugura linee che
uniscono lo Stivale con le colonie africane (Tripoli, Addis Abeba, Mogadi-
scio, Asmara) e vari paesi del Mediterraneo, raggiungendo anche Tunisi, Cai-
fa, in Palestina, Costantinopoli, Gibilterra e Cadice.
Quando ormai servizi regolari consentono a passeggeri e posta di attraversa-
re gli oceani e i continenti, scoppia la seconda guerra mondiale, un evento che
condiziona pesantemente gli sviluppi dell’aviazione. Durante la guerra gli
idrovolanti svolgono essenzialmente la funzione di osservazione, ricerca e
soccorso in mare e trasporto. Gli idrovolanti non si rivelano più adatti quali
mezzi di attacco, anche se si registrano occasionali affondamenti di navi e

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Eredi di una grandiosa tradizione

sommergibili e l’impiego di alcuni tipi di idrovolanti quali aerosiluranti. Più


ampio, per ovvi motivi, è l’utilizzo di idrovolanti nel teatro del Pacifico, ove
rimangono epiche le operazioni di salvataggio in mare dei Catalina. La fun-
zione di ricerca e soccorso è svolta intensamente anche nel Mediterraneo,
scenario in cui spiccano le ardite imprese dei piloti inglesi dei Walrus, con i
quali hanno strappato al mare molti equipaggi abbattuti.
Le necessità belliche comportano la requisizione di buona parte degli idro-
volanti delle flotte commerciali, mentre l’impossibilità di compiere molte
tratte in sicurezza porta a una generale contrazione dell’aviazione civile.
La guerra porta alla costruzione di enormi flying boat. La più celebre è
l’Hercules di Howard Houghes, poi noto come Sprouce Goose. È il più grande
aereo mai costruito, il cui piano di coda è di 3 metri più ampio delle ali di un B
17. Inteso come aereo da trasporto transatlantico, vera “Liberty dell’aria”,
tutto costruito in legno per non sottrarre preziosi metalli all’economia di guer-
ra, il gigante è pronto quando la guerra è terminata. Fa un solo volo di un
miglio a Long Beach, il 2 novembre 1947, pilotato dal costruttore e celebre
produttore cinematografico.
Altre grandi flying boat sono i Martin Mariner e Mars, l’ultimo dei quali è
usato ancora oggi come water bomber, capace di caricare 28 tonnellate d’ac-
qua. I tedeschi hanno prodotto il grande esamotore Blohm und Voss Bv 238.
La produzione russa è poco nota in occidente, ma consente agli ingegneri di
quel paese di accumulare una preziosa esperienza, che verrà utile a distanza di
qualche decennio, quando la Beriev proporrà il suo jet da trasporto di passeg-
geri e verrà sviluppata la grande famiglia dei curiosi ecranoplani.
Sono degni di essere ricordati due grandi idrovolanti con galleggianti pro-
dotti appena prima o dopo la guerra. Uno è il C47 con galleggianti anfibi,
prodotti dalla Edo, recentemente restaurato e conservato nel Maine. L’altro è
il più grande idrovolante con galleggianti mai costruito, il quadrimotore Cant
Z 511, un vero capolavoro della tecnica italiana, non assurto a maggiore gloria
solo per essere venuto alla luce in un momento sbagliato.
Dopo la guerra mondiale un’altra guerra, quella di Corea, stimola alcuni
sviluppi, rappresentati dal grosso biturboelica Martin Marlin e dall’enorme
idrovolante da sbarco Convair Tradewind, fatto per approdare sulla spiaggia
poggiandovi lo scafo, ribaltare verso l’alto tutta la parte anteriore della fuso-
liera e, dopo aver calato gli scivoli metallici, far sbarcare in pochi minuti
truppe e mezzi corazzati sulla spiaggia. In quegli anni un altro Convair quadri-
motore, il Coronado, svolge missioni di pattugliamento su tutto l’Atlantico.
In Inghilterra si tenta la via dell’idrovolante con motori a getto; è il Saun-
ders-Roe SR/A1, prodotto in tre esemplari. Per essere il primo aereo di questa
classe, si comporta benissimo e dimostra doti inaspettate, ma non può reggere
la concorrenza dei corrispondenti aerei terrestri e infine viene abbandonato.
Negli Stati Uniti l’idrovolante a getto è il Convair Sea Dart, un jet con ali a
delta e sci centrale estraibile, che gli consente di planare sull’acqua. Nell’ago-

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Eredi di una grandiosa tradizione

sto 1954 l’aereo è il primo idrovolante a superare il muro del suono, ma il


programma è definitivamente cancellato in seguito a un grave incidente in cui
incorre uno dei prototipi.
Sul fronte dell’aviazione civile, l’idrovolante, quale mezzo per trasporti tran-
soceanici, ha ancora forti sostenitori. È così che nel 1945 viene prodotto in
Inghilterra il Saunders-Roe SR-45 Princess. Dotato di cabina passeggeri pres-
surizzata a doppio ponte, il gigantesco aereo, con 10 motori turboelica da
3500 cavalli, è in grado di portare 100 passeggeri su tratte di oltre 3200 km.
Dopo che i tecnici della stessa casa hanno terminato lo studio di un’enorme
flying boat di 500 tonnellate, capace di portare 300 passeggeri e 40 tonnellate
di merce attraverso l’Atlantico e malgrado il progetto si sia rivelato fattibile,
tutto viene archiviato.
In Francia la rinata aviazione civile punta le sue carte su alcune grandi
macchine a scafo, la più celebre delle quali è l’esamotore Latécoère 631.
Usato per alcuni anni sulle rotte dell’Estremo Oriente e dell’Indocina, questo
aereo va incontro a una serie di catastrofi che non trovano spiegazione. L’av-
ventura finisce.
Con lo Sprouce Goose ormai divenuto oggetto da museo, con gli insuccessi
della Saunders-Roe e con l’abbandono del 631 da parte dei francesi tramonta-
no definitivamente i sogni di proseguire sulla strada delineata da tanti costrut-
tori e compagnie degli anni Trenta. Ormai nel trasporto aereo dilagano le
macchine con il carrello, più leggere, veloci ed economiche, sebbene non così
sicure e versatili come l’idrovolante.
Nel decennio che segue la fine della guerra l’utilizzo di idrovolanti e anfibi
ereditati da un passato più o meno lontano o sviluppati nel corso del conflitto
vive la sua ultima stagione.
Le grandi flying boat della Short sono perfezionate, migliorate e messe sul
mercato con i nomi di Sandrigham e Solent. I Sunderland sono modificati con
l’asportazione dell’armamento e adattati all’impiego civile, per essere larga-
mente usati anche dai francesi in Africa e in Polinesia.
Tre Boeing 314 sono usati per alcuni anni dalla BOAC sulla rotta dell’At-
lantico e volano più di 3500 ore all’anno ciascuno, ovvero una media di 10 ore
al giorno, una prestazione oggi inimmaginabile. La stessa compagnia usa una
flotta di 21 Sunderland.
Terminate nel 1950 le operazioni con idrovolanti della BOAC, con la par-
tenza per il Sudafrica, il 3 novembre, dell’ultimo volo del Somerset, negli anni
Cinquanta l’iniziativa passa alla Aquila Airways. Questa compagnia rileva a
prezzo di realizzo le grandi flying boat britanniche e ne rilancia l’impiego su
rotte interne, in collegamenti con l’isola di Jersey e le Shilly e in collegamenti
con Lisbona, Madera e le Canarie e con importanti località turistiche europee
e del Mediterraneo. Dall’Inghilterra i passeggeri sono portati direttamente a
Montreaux, sul Lago di Ginevra, e a Santa Margherita Ligure. La compagnia
svolge anche un servizio di trasporto di equipaggi di navi tra l’Inghilterra e i

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Eredi di una grandiosa tradizione

porti ove le navi si trovano al momento. Molti servizi di questo tipo sono
svolti tra Southampton e il porto di Aden.
Incapace di sopportare la concorrenza degli aerei di linea terrestri, che pos-
sono servirsi di un numero crescente di aeroporti, e a corto di pezzi di ricam-
bio per i propri idrovolanti, non più in costruzione, la gloriosa éra delle grandi
flying boat termina, per quel che riguarda l’Europa, il 26 settembre 1958, con
l’ultimo volo per Madera del Solent di nome Awateri.
Un altra flying boat gigante, costruita in tre esemplari alla fine degli anni
Trenta, è l’elegante quadrimotore Vought-Sikorsky VS-44. L’ultimo esempla-
re rimasto, l’Excambian, è riesumato nel 1957 dalla Avalon Air, che lo usa per
il trasporto di quaranta passeggeri tra Long Beach e Avalon Bay, sull’isola di
Catalina, e che lo vende poi alla Antilles Air Boat.
In Nuova Zelanda opera la Tasman Empire Airways con 4 Solent, che con-
fluiranno nel 1955 nella flotta dell’Aquila Airways. Sul Solent dal nome mao-
ri Aoetearora (“Terra della lunga nuvola bianca”) la regina Elisabetta e il
principe Filippo fanno il giro della Nuova Zelanda nel 1953.
Una linea regolare tra Sidney e l’isola di Lord Howe è aperta dalla Trans
Oceanic Airways, poi affiancata dalla Quantas Empire Airways e sostituita
infine dalla Ansett Boats. Queste compagnie, che hanno operato con Catalina
e Short Sunderland, Sandrigham e Solent tra il 1947 e il 1974, hanno rappre-
sentato un elemento di enorme importanza economica per l’isola di Lord
Howe, che grazie alle flying boat ha visto i propri abitanti poter sviluppare
attività commerciali con il resto del mondo e in certi casi avere salva la vita
dopo essere stati trasferiti velocemente in un ospedale del continente. Inoltre
la linea ha consentito di lanciare la magnifica isola tropicale, con le sue mon-
tagne selvagge e le sue barriere coralline, nel circuito turistico internazionale
(in realtà nella fascia più raffinata di esso).
Proprio la linea regolare Sidney-Lord Howe è l’ultima che vede impegnati i
grandi idrovolanti a scafo del passato. La fine definitiva di questa éra, l’addio
finale alle flying boat si registra il 10 settembre 1974, quando lo Short Solent
che ha per nome Islander decolla con l’ultimo carico di passeggeri per Sidney.
Tutta la popolazione dell’isola si è radunata per l’evento. Molti piangono. Il
sindaco fa un discorso commovente. Il grande idrovolante, prima di lasciare
per sempre quei lidi, fa un basso passaggio, dal sapore ironico, sulla ancora
sconnessa pista che le ruspe hanno aperto sventrando una parte della foresta
dell’isola, ove giungeranno presto gli aerei con le ruote.
Negli anni successivi le ultime grandi flying boat, tra cui l’Excambian,
affiancate da alcuni Catalina adattati come aerei passeggeri, sono usate come
aerei privati per qualche spedizione e per sporadiche operazioni di charter di
lusso lungo le coste statunitensi e nei Caraibi. Un Catalina è proposto negli
anni Ottanta da un operatore inglese per viaggi di piccoli gruppi di persone
lungo il Nilo. L’esperienza del sorvolo del grande fiume africano, considerata
la bassa velocità dell’aereo e gli ampi blister, ove erano disposte le mitraglia-

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Eredi di una grandiosa tradizione

trici, che consentono un’eccezionale visibilità verso l’esterno, deve essere


stata indimenticabile, seppure alla portata di pochissimi facoltosi passeggeri.
Alcuni privati che se lo possono permettere tengono in condizioni di volo
alcune di queste macchine per un uso personale e per partecipare a manifesta-
zioni aeree. Oggi i più grandi idrovolanti d’epoca in condizioni di volo sono i
Grumman Albatross, mantenuti da un affiatato gruppo di proprietari.
Purtroppo quelli posseduti dall’Aeronautica Militare Italiana, usati per mol-
ti anni per missioni di ricerca e soccorso, sono stati abbandonati in vari aero-
porti alla metà degli anni Settanta e lasciati andare letteralmente in rovina.
Ultimo rampollo di un’importante stirpe, vola ancora oggi nelle Filippine
un Dornier Do 24 ATT, rimotorizzato con tre motori turboelica. L’aereo è
transitato all’Idroscalo di Como nell’estate 2004 durante un giro del mondo
commemorativo organizzato dalla famiglia Dornier, pilotato dal nipote del
fondatore Iren Dornier.
Non più usati come aerei di linea, ormai pressoché abbandonati dai militari,
se non in rarissimi casi per funzioni SAR, non più in grado di stabilire record,
gli idrovolanti sono usati a partire dagli anni Sessanta semplicemente per i
servizi che possono svolgere in aree del pianeta alle quali l’aereo con le ruote
non ha accesso. Si tratta di eseguire trasporti di persone e materiali verso
destinazioni sprovviste di qualunque infrastruttura e di cui talvolta l’unica
informazione che se ne ha alla partenza è che offrono la presenza, nelle vici-
nanze, di uno specchio d’acqua.
Alcuni degli aerei usati per questi scopi sono di derivazione militare, come i
Grumman, prodotti in quattro tipi, tutti bimotori, dal piccolo Widgeon al gran-
de Albatross, passando per il Goose e il Mallard.
Migliaia di piccoli aerei dell’aviazione generale, tra cui moltissimi Cessna e
Piper, sono trasformati in idrovolanti con l’applicazione dei galleggianti, in
qualche caso galleggianti anfibi.
Vengono prodotte piccole flying boat bi e quadriposto, come il Colonial
Skimmer, derivato da un progetto della Grumman, che si evolve successiva-
mente nei Lake Buccaneer e Renegade; altre diffuse flying boat sono il Repu-
blic Sea Bee, il Siai Nardi Riviera, la Spencer Air Car e il Thurston Teal.
Questo tipo di trasporto ha grande importanza nelle aree ancora selvagge
del pianeta. Tutta la parte settentrionale del Nordamerica e l’Alaska sono
teatro di migliaia di piccole spedizioni e di operazioni di minuscole charter
companies, che in alcuni casi non possiedono che un solo idrovolante.
Questa attività, in queste zone, si è in realtà sviluppata fin dai primordi
dell’aviazione. Si può affermare che queste regioni del mondo devono la colo-
nizzazione umana essenzialmente agli aerei dotati di scafo o galleggianti, a
quelli dotati di sci e in qualche caso pneumatici maggiorati, i tundra tyres.
Una ricca mole di libri e di memorie ricorda le infinite avventure di moltissi-
mi bush pilots, molti dei quali hanno pagato con la vita l’anelito di conquista-
re questa nuova, ultima frontiera.

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Eredi di una grandiosa tradizione

C’è però una differenza tra le operazioni dei bush pilots nei primi decenni
della colonizzazione del Grande Nord e quelle che prendono piede a partire
dagli anni Cinquanta del XX secolo. Le prime sono operazioni per assicurare
una rudimentale sopravvivenza alle comunità sparse di cacciatori, cercatori
d’oro, allevatori, addetti all’industria del legname, oltre che agli esploratori di
queste distese di terre, montagne e laghi ancora sconosciuti. I trasporti riguar-
dano queste avventurose persone e viveri, attrezzature, medicinali, oltre che
l’immancabile posta, di enorme importanza in aree in cui il contatto con la
“civiltà” avviene poche volte o addirittura una volta all’anno.
Nel dopoguerra, con l’arrivo in queste regioni della ferrovia, con la realizza-
zione di aeroporti e la scoperta del petrolio in Alaska il panorama cambia. Gli
idrovolanti e i bush pilots passano al servizio di un pubblico sempre più vasto
in cerca di una natura incontaminata, ove è addirittura un bene che siano
assenti infrastrutture urbane e aeroporti. Ogni azienda che si rispetti ha il suo
idrovolante con cui portare a pescare o a compiere escursioni i clienti di
riguardo. La meta è un laghetto sperduto su cui si affaccia un’unica capanna di
legno, in cui vivere per un week end la rude ed eccitante vita del trapper.
Migliaia di piloti privati, con le loro famiglie, si lanciano alla scoperta di
questi ambienti inconsueti per scopi puramente ludici e turistici. Inevitabile,
in queste condizioni, l’accadere di “inconvenienti”. Da qui il perfezionarsi di
regolamentazioni che impongono ai piloti che si avventurano nelle sparsely
settled areas l’adozione di una serie di misure di sicurezza, che vanno dagli
apparati di comunicazione e sopravvivenza ai mezzi per difendersi dagli orsi.
L’avvento del GPS e dei telefoni satellitari fa fare un deciso salto nella sicu-
rezza di queste operazioni.
L’idrovolante diventa dunque il mezzo per conoscere la natura e muoversi in
essa in modo discreto e sicuro ed è decantato per questa sua caratteristica da
noti ambientalisti, come, in Italia, Fulco Pratesi, presidente del WWF.
L’idrovolante conserva oggi una funzione importante in un settore specifi-
co, quello del volo panoramico, detto sightseeing flight o scenic flight. E ciò
non perché dagli aerei con le ruote non si veda bene il paesaggio, ma per il
fatto che con gli aerei con le ruote si parte necessariamente da un aeroporto,
mentre l’idrovolante consente di partire per il volo dai luoghi più belli e inte-
ressanti del mondo, dal centro storico delle città, dai fiumi, dai laghi. Dunque
l’idrovolante può fornire un servizio nel preciso luogo ove c’è una concentra-
zione di domanda e senza che la cosa richieda un’organizzazione logistica e
perdite di tempo, quali il trasferimento in un aeroporto. Solo l’elicottero ha
potuto fare concorrenza all’idrovolante per questa funzione, ma non in tutti i
luoghi e non allo stesso costo e allo stesso elevato livello di sicurezza.
Altri servizi essenziali oggi svolti con idrovolanti sono quelli di charter,
ovvero di piccolo trasporto privato, di affari e di servizio, in aree prive di
infrastrutture. Un campo che vede ancora il Nord americano e l’Alaska quali
principali teatri.

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Eredi di una grandiosa tradizione

L’idrovolante è stato “scoperto” quale risorsa in molte aree ove era scono-
sciuto. L’esempio più clamoroso è quello delle Maldive. Decine di Twin Otter
e Caravan portano masse di turisti dall’aeroporto intercontinentale diretta-
mente ai resorts sparsi sugli atolli, evitando loro ore di navigazione in mare.
L’impiego degli idrovolanti più conosciuto al grande pubblico è quello nel
suo ruolo di bombardiere d’acqua. Divenuto popolare con la diffusione dei
Canadair, in grado di caricare 6 tonnellate d’acqua, questo ruolo è stato svolto
in passato da Canso Catalina appositamente modificati, e ancora oggi, in
Canada, dagli enormi e “antichi” Martin Mars. La necessità di questo servizio
ha stimolato la costruzione di macchine più piccole, come il Fire Boss, versio-
ne idro dell’Air Tractor (usato per irrorazione), in grado di caricare 3 tonnella-
te d’acqua, ma avente un costo molto inferiore a quello di un Canadair CL
415. Chi ha avuto l’occasione di vedere le ardite picchiate dei Canadair sugli
incendi della macchia mediterranea e le rapide manovre di scooping, ovvero
di caricamento dell’acqua durante lo sfioramento della superficie, rimane af-
fascinato dall’utilità e versatilità di queste macchine.
L’altra attività che si svolge con gli idrovolanti è l’istruzione. Non sono
molti i luoghi ove si può imparare a pilotare un idrovolante, in particolare in
Europa. L’idroscalo di Como e la scuola di volo idro dell’Aero Club Como
hanno assunto, negli ultimi anni, un’importanza crescente in questo settore, in
cui l’attività è di solito penalizzata da una serie di fattori, che fanno sì che sia
pressoché impossibile, nel mondo, affittare un idrovolante per volarci come
pilota solista. Como rappresenta dunque una fortunata e per il momento felice
isola di libertà.
Oltre al già citato Canadair, in tempi recenti si è assistito allo sviluppo di
due idrovolanti di grosse dimensioni: il giapponese Shin Meiwa PS-1 e il
russo Beriev A 40. Il primo, studiato inizialmente con funzioni “antisom”, è
più noto nella sua versione civile e nei suoi impieghi per operazioni di perlu-
strazione, ricerca e soccorso in mare, un compito particolarmente importante
per un Giappone proteso verso l’oceano per molte delle sua attività vitali. Il
PS-1, dotato di 5 turbine, è un vero capolavoro di ingegneria, permettendo
operazioni su onde oceaniche fino a 3 m di altezza, sulle quali si posa all’in-
credibilmente bassa velocità di 42 KTS.
Il russo Beriev A 40, rimasto allo stadio di prototipo, è un anfibio a scafo
biturbina, ha un erede per il mercato civile, il Beriev 200, che potrebbe essere
chiamato “Il Concorde degli idrovolanti”, ancora allo studio, progettato per
ospitare un’ottantina di passeggeri.
Oggi il più grande idrovolante usato per il trasporto commerciale di passeg-
geri è il Turbo Mallard, ovvero il Mallard dotato di turbine invece che degli
originali motori radiali a pistoni. A farne largo uso è la Chalks Ocean Ai-
rways, nome dato dal nuovo proprietario italoamericano alla Chalks, che ope-
ra da tempi immemorabili tra la Florida, Bimini e le Bahamas e che in passato
si è servita anche di molti Albatross, convertiti all’impiego civile.

310
Eredi di una grandiosa tradizione

L’idrovolante potrà svolgere in futuro compiti importanti. Al di là dei ruoli


che oggi svolge con successo - servizio antincendio, volo panoramico, scuola
e piccolo charter - c’è chi prevede un nuovo sviluppo di questi mezzi per
servizi di linea, con macchine in grado di trasportare un centinaio di persone.
Che cosa, oggi, fa rivalutare un mezzo inferiore ai suoi omologhi terrestri,
che lo hanno scalzato dalla scena del trasposto aereo cinquant’anni fa? L’idro-
volante o l’anfibio da trasporto passeggeri è infatti, oggi come allora, più
costoso, più lento e con minore capacità di carico dei modelli-cugini dotati del
solo carrello.
Ebbene, ci sono due ordini di ragioni. La prima risiede nella grande difficol-
tà e negli ormai altissimi costi connessi con la costruzione o l’ampliamento di
un grande aeroporto.
La seconda ci riporta alla caratteristica più connaturata con l’idrovolante, la
versatilità, ovvero la capacità di potersi posare ovunque vi sia acqua.
Dunque la prospettiva di poter operare in migliaia di luoghi servendosi solo
di infrastrutture leggere ed economiche o addirittura temporanee e senza co-
stringere i passeggeri a sottoporsi a lunghi trasferimenti da e per la città è ciò
che potrebbe riservare a questo antico mezzo di trasporto un esaltante futuro.

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Eredi di una grandiosa tradizione

Omaggio
a Francesco de Pinedo
Questo capitolo, tratto dal mio libro I Lake dalla A alla Z, vuole rendere omaggio
a un grande pilota e navigatore, che ha compiuto, con il suo meccanico, un’impresa
epica, narrata nel libro Un volo di 55.000 chilometri (Mondadori, 1926).
Chi desidera vedere molte immagini relative a questa impresa può consultare il mio
libro, citato sopra, mentre chi volesse leggere l’opera originale (cosa consigliabile
a qualsiasi pilota idro) può prenderla in prestito alla biblioteca del Club.

Nel 1925 de Pinedo, con un idrovolante a scafo (non anfibio), un S 16 ter


costruito dalla SIAI (Società Idrovolanti Alta Italia), di stazza di poco supe-
riore a quella del Lake Renegade, ha compiuto un’impresa che ha fatto storia.
Tra il 10 aprile e il 7 novembre, in 370 ore di volo, il valente pilota, partito
da Sesto Calende e passato per Roma, ha attraversato o circumnavigato il
Mediterraneo, il Medio Oriente, l’Oceano Indiano, l’India, il Sudest asiatico,
l’Australia, i mari della Cina, le Filippine il Giappone, la Corea, di nuovo
l’Asia e il Medio Oriente, percorrendo la distanza totale di 55.000 chilometri
(allora il più lungo raid mai compiuto in aereo).
L’impresa l’ha condotta accompagnato dal meccanico Ernesto Campanelli,
dopo essersi spedito, via nave, un motore di ricambio a Tokio e altri ricambi e
rifornimenti in vari punti del percorso, ma senza alcuna assistenza logistica.
Buona parte del percorso asiatico e australiano si svolse in aree in cui il
Gennariello di de Pinedo era il primo aereo che compariva nei cieli. Al suo
passaggio molti indigeni hanno ritenuto di vedere il diavolo. In certe zone de
Pinedo ha dovuto decidere le tappe in funzione della presenza, sulle coste, di
cannibali o di “arcieri abilissimi, capaci di trafiggere con una freccia un uccel-
lo in volo”. In Papuasia è stato consigliato, in caso di avaria, di ammarare al
largo, essendo preferibile essere disperso in mare che trovarsi in competizio-
ne, in qualità di “uomo volante”, con lo stregone locale.
Scopo dell’impresa? Lasciamolo dire al protagonista.
«Mi proponevo con il mio progetto di dimostrare la seguente tesi: che
si possa oggi, con un velivolo del tipo idrovolante, neppure di recente
modello, ma solidamente costruito, viaggiare per il mondo come e

312
Eredi di una grandiosa tradizione

anche meglio che con un piccolo bastimento, contando solo sulle ri-
sorse locali. Ho detto “anche meglio” perché all’idrovolante è possibi-
le navigare anche su terra, ciò che, evidentemente, non è possibile a
una nave».
«Perché la dimostrazione riuscisse davvero convincente, bisognava
che il percorso fosse molto lungo: infatti in progetto risultò di 55.000
chilometri, pari a quasi una volta e mezzo la lunghezza dell’equatore
terrestre, e 12.000 chilometri in più del massimo percorso fino allora
eseguito a volo, ossia del giro del mondo compiuto dai valorosi avia-
tori americani, per un totale di 43.000 chilometri.»
«L’itinerario, inoltre, sempre a dimostrare la bontà della tesi, doveva
estendersi tra le regioni più diverse per clima e posizione geografica.
Quindi lo sviluppo di esso andava dal 10° al 155° meridiano Est Gre-
enwich e dal 45° parallelo Nord al 40° parallelo Sud, descrivendo
sulla terra un immenso triangolo i cui vertici erano Roma, Melbourne,
Tokio, toccando le zone torride e temperate a Nord e a Sud dell’Equa-
tore, tagliando quattro volte il tropico del Cancro e due volte il tropico
del Capricorno.»
«Il percorso si svolgeva per 40.000 chilometri circa lungo le coste o
in vista della terra, per 8000 chilometri sul mare aperto e per 7000
chilometri sopra la terraferma.»
Privo di appoggi (se non, a cose quasi fatte, quello di Mussolini, allora Alto
Commissario dell’Aeronautica), deriso dalla stampa, sicura dell’insuccesso
dell’impresa, de Pinedo potè partire solo perché si impegnò per iscritto a
porre a suo carico o a carico dei suoi eredi il costo dell’aereo in caso di perdita
o insuccesso.
Il viaggio di de Pinedo non è dunque la grande impresa aviatoria dettata
dalla voglia di un’industria di dare una dimostrazione della bontà dei propri
aerei (il suo aereo era vecchio, al tempo dell’impresa); non è dettata dal puro
spirito di battere un record; non è intesa a impressionare le masse; non ha lo
scopo di glorificare una figura di pilota quale essere “superiore”; non è un’im-
presa volta a dare sostegno propagandistico a un regime; non è un mezzo per
imporre la preminenza di una nazione o di un popolo rispetto a un altro (tutte
motivazioni di molte imprese aviatorie di quegli anni). Francesco de Pinedo
ha compiuto un’impresa sobria nella sua organizzazione, interessante per sco-
pi e significati tecnici, simpatica nei suoi aspetti umani e in definitiva moder-
nissima, anzi avveniristica nel suo spirito.
Per questi motivi ci pare più bella di altre note imprese degli anni Venti e
Trenta. Per gli stessi motivi si potrebbe sostenere che il più elevato e completo
modello di pilota, quale si può configurare ai nostri giorni, e in particolare di
pilota idro, sia proprio Francesco de Pinedo, più del comandante di armate
aeree Balbo, più del recordman Agello, più degli “assi”, celebri per il numero
di aerei abbattuti, più dei pur bravissimi acrobati dell’aria.

313
Eredi di una grandiosa tradizione

De Pinedo parla al cento per cento la lingua del pilota idro, la stessa di
Ferrarin, di Von Gronau, di Lindbergh, di Saint-Exupéry, di Mermoz, di Mu-
sik, dei piloti della SISA, della Pan Amercican, dell’Aéropostale, per fare
qualche esempio, tutti piloti che hanno usato l’idrovolante come strumento di
trasporto di persone o cose, aventi la sicurezza del volo, l’arrivo a destinazio-
ne e la consegna del prezioso carico quali obiettivi supremi.
Ogni parola di de Pinedo esprime in modo perfetto i pensieri, i timori, i
dubbi, le gioie del pilota idro. De Pinedo è il prototipo del bush pilot, già
esistente in molte parti del mondo, ma che diverrà celebre, in versione canade-
se e americana, nei decenni successivi.
Le situazioni tecniche che descrive, gli elementi naturali che deve fronteg-
giare, il confronto con sé stesso a cui è chiamato nei momenti difficili sono
tutte cose senza tempo, che qualsiasi navigante ha provato e proverà sempre,
sia esso un cacciatore del Paleolitico o un astronauta che si sta dirigendo verso
un altro pianeta.
Dai suoi racconti si impara molto, anche veri trucchi del mestiere. Quando il
Gennariello sovraccarico non ne vuol sapere di salire sul redan, avendo un
baricentro troppo arretrato, per fare un esempio, de Pinedo inventa l’espedien-
te di fare uscire sul muso il meccanico Campanelli durante la corsa di decollo,
per favorire la manovra.
Ma tutta l’astuzia di un sopraffino pilota idro de Pinedo la dimostra nelle
difficoltà, quando si deve “arrangiare” per risolvere una situazione apparente-
mente impossibile. Il libro abbonda di racconti di questo genere. Ad Amboina,
per esempio, nelle Indie Olandesi, ove gli abitanti vedono per la prima volta
un aereo, gli si rompe un piccolissimo, ma fondamentale pezzo metallico,
senza il quale il motore non può avviarsi. Riesce infine a farne costruire uno
uguale all’originale dall’orologiaio cinese della cittadina (il quale, felice, dopo
l’operazione, appende in vetrina il cartello con la scritta “Si riparano aeropla-
ni”, dimostrando un senso dell’umorismo degno dei 6000 anni di storia della
civiltà di cui è esponente).
Nella prefazione del suo libro de Pinedo dice che chi lo ha accolto all’arrivo
lo ha visto molto più fresco e riposato che alla partenza. Strano? Forse no: de
Pinedo racconta che le peripezie del viaggio sono nulla rispetto al calvario che
ha dovuto affrontare prima della partenza, a contatto con il sistema burocrati-
co italiano, che lo aveva portato alla disperazione.
Prendiamo dunque tutti esempio da questo “gigante dell’aria”, che è riuscito
a compiere un’impresa complessa ed esaltante basandosi quasi esclusivamen-
te sulle sue forze.
Questa è la principale caratteristica del pilota di idrovolante: essere autono-
mi, non avere bisogno di nessuno. Cerchiamo di coltivare questa caratteristica
in noi stessi. Cerchiamo di instillarla nelle nuove generazioni. È utilissima
non solo per giungere in piena salute a destinazione; non solo per pilotare un
qualsiasi tipo di idrovolante. È utilissima nella vita.

314
Eredi di una grandiosa tradizione

Como: una storia unica


Intorno al 1990 due gentili e capaci signori, Aristide Cappelletti e Carlo Luc-
chini, il primo pilota e socio dagli anni Trenta dell’Aero Club Como, il secon-
do presidente dell’Associazione dei Caduti e Mutilati dell’Aeronautica, sezio-
ne di Como, e storico dell’aviazione militare, hanno un’idea: raccogliere ma-
teriale sulla storia dell’aviazione a Como per farne un libro.
Dato che lavoro nell’editoria da qualche decennio, me ne parlano. All’ini-
zio, io stesso ignorante di quella storia, i cui esiti peraltro vivo quotidiana-
mente, penso che se ne possa fare un libriccino di un’ottantina di pagine. Mi
vengono in mente confuse foto di idrovolanti nei decenni iniziali del XX
secolo, viste chissà dove, e un album, abbondantemente saccheggiato, di vec-
chie fotografie di piloti, in un armadio a muro umido in fondo all’hangar.
Insomma tutto quel che abbiamo è probabilmente una serie di foto, da cor-
redare con didascalie, che potrebbero non riportare nemmeno i nomi delle
persone che vi appaiono, probabilmente in molti casi sconosciute.
Il lavoro ha inizio. Cappelletti e Lucchini scorrono tutte le pagine dei gior-
nali locali a partire dalla fine dell’Ottocento. Poi vanno a visitare le famiglie
dei caduti dell’Aeronautica, raccogliendo, oltre che foto, racconti e ricordi
della vita di quelle persone. Il materiale incomincia ad accumularsi.
Un libro di questo genere è come un fiume. Alla sorgente ci sono poche
gocce d’acqua, poi un rigagnolo, finché il rivolo incomincia a essere ingrossa-
to da affluenti e a crescere a vista d’occhio. Gli affluenti sono inizialmente gli
album di fotografie di Gerolamo Gavazzi, che ha restaurato il Caproncino e ha
scritto un libro sulla sua epica impresa, includendovi un corposo capitolo
sulla storia dell’aviazione idro a Como.
Arriva poi l’archivio di fotografie di Enzo Pifferi e intervengono i grandi
collezionisti di materiali riguardanti la storia locale: Giancarlo Ceruti, Elvio
Confalonieri, Enrico Levrini, il Museo Civico, la Biblioteca Comunale.
Quando il rivolo è diventato già torrente e poi fiume, nuovi materiali giun-
gono da celebri fotografi come i Vasconi di Cernobbio, Daniele Pellegrini,
Giancarlo Reggiani, Guido Alberto Rossi o Chicco Rossi, da soci come Vitto-
rio Perotti o Tonino Minarchi, da persone relativamente lontane come il mila-
nese Giorgio Apostolo o i fotografi di “Volare”, da amici come Federico Ca-
nobbio, Eugenio Rossi, Nicola Vanore, Luigi Fara o Renzo Erasmi.

315
Eredi di una grandiosa tradizione

I testi, coordinati e riscritti nella forma finale dallo scrivente, si arricchisco-


no dei saggi di Cesare Piovan, presidente della Società Archeologica, e del
ricercatore locale Furio Ricci, nonché delle memorie dell’ex presidente Fran-
co Bocchietti e di tanti piccoli e grandi cronisti del passato, che hanno immor-
talato in scritti più o meno noti le loro conoscenze della storia aviatoria locale,
le loro esperienze di volo o di gestione del Club.
Amalgamare l’enorme, inaspettata mole di materiale scritto e iconografico
è stata un’impresa esaltante ed enormemente arricchente, un’impresa, svolta
grazie all’aiuto di Andrea Bonelli, che è durata più di dieci anni.
È stato gradevole, infine, vedere il frutto di tutto questo lavoro apprezzato
dai prefatori dell’opera, nelle persone dell’assessore alle Culture, Identità e
Culture della Regione Lombardia Ettore Albertoni, del presidente dell’Ammi-
nistrazione Provinciale di Como Leonardo Carioni, del sindaco di Como Ste-
fano Bruni e del sindaco di Cantù Tiziana Sala. Ed è stato bello vedere il
nostro sforzo riconosciuto e apprezzato in ogni parte del mondo.
Per quel che mi riguarda, devo confessare che nel corso della preparazione
dell’opera ho provato un senso di vergogna. Come è possibile - mi sono chie-
sto - che abbia svolto per decenni questa esaltante attività senza conoscere le
imprese, in certi casi eroiche, di chi mi ha preceduto, le interessantissime
vicende aviatorie di cui la nostra città è stata teatro fin dalle origini della storia
del volo? Questi pensieri sono sfociati in una sensazione gratificante: quel che
stiamo facendo a Como con gli idrovolanti non è un semplice caso, non è
un’attività come un’altra, ma qualcosa di speciale, che merita il massimo
impegno per la sua conduzione e il massimo sforzo di salvaguardia.
Un’altra bella sensazione che ho provato nei dieci e più anni di preparazione
dell’opera è stata quella che moltissime persone, tutte quelle citate e quelle
presenti nelle fotografie, devono a questo libro il fatto che saranno ricordate
per sempre. Queste persone, in altri termini, sono diventate immortali, per ciò
che questo termine può rappresentare all’interno di una cultura umana.
Mi vedo già uno storico dell’aviazione del XXV secolo che analizzerà que-
sto libro, avido di trarne utili informazioni per le sue ricerche, e che in qualche
modo riporterà in vita, a distanza di secoli, gli autori dell’opera, i piloti e le
persone in essa citati, che per ogni altro aspetto saranno ormai ultradimentica-
te dai loro stessi discendenti e da un’umanità che forse non saprà più nemme-
no il significato della parola “idrovolante”.
È stato emozionante, nel corso del lavoro, vivere la transizione dal ruolo di
raccoglitore di informazioni e compilatore di una storia letta o acquisita “per
sentito dire” al ruolo di estensore di una storia vissuta personalmente, quella
di cui sono stato testimone e poi in qualche modo protagonista dopo il 1970.
Infine sono contento, oggi, di poter affiancare alla storia “ufficiale” del-
l’aviazione comasca e del nostro Club, narrata in Ali sul Lario, la storia “non
ufficiale” raccontata nelle pagine di questo libro; una storia più frammentaria
e personale, ma più vissuta e per alcuni versi più “vera”.

316
IN VOLO SULL’ACQUA

EPILOGO

Esprimi un desiderio
Durante un lungo flottaggio per raggiungere una riva strofino, per sbaglio, la
torcetta a stilo hi-tech facente parte del corredo “operazioni avanzate fuori
idroscalo”. Compare il genio della lampada e mi dice: «Sì, sono lo stesso di
quella di Aladino. Mi adatto ai tempi. Puoi esprimere alcuni desideri».
Non faccio il classico errore di bruciare i primi desideri in modo erroneo,
secondo il canovaccio di molte barzellette. Proprio non mi devo arrovellare.
So esattamente che cosa desiderare.
Desidero un paese ove il volo sia un’attività rispettata e coltivata, conside-
rata un elemento di progresso e di edificazione di una società migliore.
Desidero un mondo in cui un idrovolante possa posarsi su ogni specchio
d’acqua ove ciò sia possibile e ragionevole, così come una farfalla si posa sui
fiori che più le aggradano.
Desidero un Aero Club a cui tutti i membri sono fieri di appartenere e che
propone ai piloti conoscenze di prim’ordine ed esperienze di volo avvincenti,
oltre che essere un fattore di evoluzione della comunità locale in cui opera.
Desidero il proliferare di società di trasporto pubblico di passeggeri con
idrovolanti, in grado di fare provare a migliaia, milioni di persone il piacere
di osservare dall’alto luoghi belli e interessanti e di trasportarle tra luoghi
inusuali e non dotati di normali infrastrutture aeronautiche.
Desidero che ogni giovane che si voglia avvicinare all’aviazione possa far-
lo agevolmente e che lo possa fare, se lo desidera, direttamente su un idrovo-
lante, un’esperienza unica ed estremamente arricchente.
È incredibile e piacevole che qualcosa di molto vicino a tutto ciò sia possi-
bile a Como, in Italia, un paese in cui lo sviluppo dell’aviazione ha avuto per
decenni i limiti più forti. Ma la strada per il pieno soddisfacimento dei deside-
ri sopra enunciati è ancora lunga e mille sono le insidie che possono annulla-
re le conquiste fatte e riportare all’indietro le lancette dell’orologio del pro-
gresso. Sta a ciascuno di noi lottare per conservare, per noi stessi e per le
future generazioni, queste prerogative, che a Como sono state coltivate, a
costo di immani fatiche, da generazioni di piloti e di entusiasti del volo.

317
Sommario
5 Prefazione dell’autore
6 Fra acqua e cielo - Saggio introduttivo di Alberto Longatti

IN VOLO SULL’ACQUA
Avventure di volo
16 L’avventura dietro l’angolo
23 Barnstorming acquatico: i voli di propaganda
30 Ne va della vita
38 Paradiso e inferno
42 La strizza
45 Grand Princess
49 Ischia
54 Idroscalo di Milano
57 Lago di Bilancino
59 Navigazione astronomica
63 Un viaggio commemorativo
65 Alta montagna
70 America
74 Tre uomini in barca
81 Unje
82 Myconos
87 Rovaniemi
92 Oslo
95 Biscarrosse
99 Vichy
104 Le Bourget
108 Dal Tevere alla Senna
110 Evian
114 España
120 Ostacoli
124 Autonomia
128 Dirottamenti
137 Mercatini
138 Per un pelo

Pilotare l’idrovolante
142 Errori classici nel pilotaggio dell’idrovolante
148 Forze della natura
154 Specchio delle mie brame...
157 PIC
158 È successo anche a me
160 Imbrogliato dal mio stesso cervello
165 I flagelli dell’aviazione idro
169 Incidenti

Idrovolanti
172 Scarponati o a scafo?
180 Il “Caproncino”
186 Il “Macchino”
190 Il Piper PA 18 Super Cub
193 Il Cessna 150
194 Il Cessna 172
196 Il Cessna 180, 185 e 206
198 Il Maule M7
201 I Lake
209 L’idrovolante più bello del mondo
214 Che cosa vogliamo di più?

Vita di Club e dintorni


218 «Come hai incominciato?»
223 Scuole
224 Guerra fredda a Como
227 Conca di Crezzo
230 Volare gratis
234 In transito all’Idroscalo
235 Idroaeroturismo nella regione dei laghi prealpini
247 Romanticismo idro
249 Vita di Club
268 Consigli direttivi
274 Idrovolanti, ambiente e ambientalisti
282 Oltre il volo

Eredi di una grandiosa tradizione


284 Idrovolanti nella storia
312 Omaggio a Francesco de Pinedo
315 Como: una storia unica

Epilogo
317 Esprimi un desiderio
Finito di stampare
nel novembre 2004
dalla New Press
Como - Via Carso 18
Tel. 031 301268

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