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IN VOLO SULL’ACQUA
Avventure in idrovolante
vissute a Como e nel resto del mondo
in trentacinque anni di attività
EDITORIALE
IN VOLO SULL’ACQUA
Copyright © 2004 Cesare Baj
Editoriale s.r.l. - 22100 Como
Stampa:
New Press
Via Carso 18 - 22100 Como
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In questo libro, oltre a una serie di considerazioni sul volo idro
e sugli idrovolanti, a una succinta storia del volo sull’acqua
e al brillante saggio introduttivo di Alberto Longatti sulla storia
dell’aviazione comasca, sono riunite alcune memorie della mia vita
aviatoria, iniziatasi nel 1970.
Perché affidare a un documento storie e storielle che molti terrebbe-
ro per sé o userebbero al massimo per cercare di rendere più brillante
qualche conversazione? Le motivazioni sono varie.
Innanzitutto i racconti inclusi in questo libro rappresentano
una piccola storia non ufficiale dell’idroaviazione comasca.
Forse noiosi per chi oggi, come socio, come amministratore,
come dipendente o collaboratore, vive la realtà quotidiana
dell’Idroscalo e dell’Aero Club Como, questi frammenti di storia
spicciola potranno diventare godibili in un lontano futuro, così come
oggi siamo avidi anche del più piccolo ricordo della presenza
di idrovolanti negli anni dieci o venti del secolo scorso e dei minimi
episodi della vita dei piloti di quelle epoche lontane.
È stato anche gradevole poter conservare la memoria di persone,
in qualche caso umilissime e altrimenti sconosciute, che hanno
segnato con la loro presenza la vita del Club.
C’è un’altra motivazione. Ho vissuto, nella mia ultratrentennale
esperienza, molte avventure e alcune situazioni di rischio,
che in questo libro racconterò nel modo più crudo e veritiero.
Ciò nella speranza che le mie esperienze possano aiutare altri piloti
a non ripetere gli errori che ho commesso io, anche se la dea bendata
ha voluto, almeno fino a oggi, che quegli errori non mi abbiano mai
fatto incorrere in un incidente.
Infine c’è la speranza che un lettore non ancora pilota, leggendo
per caso un brano di questo scritto, decida di avvicinarsi
alla meravigliosa realtà del volo idro, un’attività enormemente
formativa e, oltretutto, divertente come poche altre.
Cesare Baj
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Fra acqua e cielo
Saggio introduttivo di Alberto Longatti
Nota dell’autore
Le imprese di Napoleone e le invenzioni di Volta ci paiono appartenere a un lontano
passato. Eppure i primi voli di idrovolanti sul Lario sono più vicini nel tempo
a Napoleone e al Volta che ai giorni nostri.
Il volo idro, a Como, in altri termini, è già vera storia. Questa storia è narrata
nel libro Ali sul Lario, uscito nel 2002 e frutto di un lungo lavoro di ricerca.
Esso include un saggio introduttivo di grande interesse, scritto da Alberto Longatti,
giornalista, grande conoscitore della realtà comasca in tutti i suoi aspetti,
in particolare quelli culturali. Lo riportiamo, rivisto dal suo autore appositamente
per questo libro. Coloro che non hanno già avuto modo di leggerlo potranno avere
una visione storica preziosa e di ampio respiro dell’attività idroaviatoria in territo-
rio comasco.
Questo è l’unico testo non dell’autore presente in questo libro.
Quasi una vita sospesi fra acqua e cielo, alla guida di un aereo munito di
pattini al posto delle ruote, che si serve di un campo particolare per levarsi in
volo, un angolo di lago: è la straordinaria esperienza di Cesare Baj che raccon-
ta in questo libro. Quanti conoscono la storia degli idrovolanti a Como, ricca
di avvenimenti, che s’inquadra significativamente nella storia nazionale? Ben
pochi, credo. Eppure è una storia ricca e complessa, che va oltre la pur leggia-
dra danza aerea e le scivolate sul lago delle macchine con le ali. Va oltre
perché coinvolge personaggi di statura internazionale, progetti e idee diramati
in più direzioni, momenti che dovrebbero essere sempre presenti alla memo-
ria e invece sono caduti immeritatamente nell’oblìo.
Ed ecco perché il libro di Baj, dal taglio diaristico, va oltre l’esperienza
personale, s’inserisce in un discorso più vasto sul coraggio, sulla passione,
sull’energia di tutte le persone di ieri e di oggi, di sempre, che hanno l’aspira-
zione atavica di sollevarsi da terra, di guadagnare lo spazio - ancorché lo
spazio minimo di casa propria - di guardarlo dall’alto, di provare l’inebriante
sensazione di pilotare un oggetto pulsante che fende l’aria, si muove docil-
mente seguendo le mosse della mano che impugna il comando; un oggetto che
pare vivo anche lui, vibra sotto i piedi, ronza come un grande insetto.
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È stato, all’inizio di questa storia, un oggetto di ammirazione. Torniamo ai
primi del Novecento: Como è una città in fermento, appena uscita dal succes-
so internazionale della prima Esposizione Voltiana, sta costruendo a tutto spi-
ano attrezzature turistiche di rilievo, le funicolari, gli alberghi, i viali panora-
mici, lo stadio, lo stabilimento balneare. Un giorno, ammiratissimo, arriva un
aerostato, il Condor; ogni tanto sull’area del Prà Pasqué atterra qualche aereo
in transito, ma a fatica, perché il campo d’atterraggio è piccolo, circondato
dalle case. Nel 1912, nel galoppatoio di Mornello viene organizzata finalmen-
te una manifestazione aviatoria e vi partecipa un luganese con un velivolo
Bleriot, leggero, fatto di tela e di legno oltre che di metallo, con le sue ruote a
raggi che paiono quelle di una bicicletta. Il cronista dell’epoca si diffonde con
accenti lirici sulle caratteristiche ardimentose dell’apparecchio, tenuto insie-
me da mille fili “sui quali il vento passa con invisibili dita musicali”. Sembra
impossibile, ma è con modelli del genere che l’esercito italiano parteciperà
alla Grande Guerra, ormai alle porte.
Il 1913 è la volta degli idrovolanti. A Monaco si disputa la prima Coppa
Schneider, sul Lario il Gran Premio dei Laghi. Il solito cronista d’allora,
emozionato, lancia il suo ditirambo: “Sulla verde conca lacuale, le enormi
aquile sapientemente foggiate per il volo umano saliranno maestose e veloci
nel cielo, e una folla di popolo acclamerà dalle rive la loro ascensione quasi
soprannaturale”. “Soprannaturale”, “sicuro”, tale era la sensazione che dava-
no i fragili congegni metallici biposto dalla sagoma snella spinti in alto dalle
eliche, tenuti su da una forza misteriosa, volteggianti non proprio al pari degli
uccelli ma quasi come delle piume, dei fuscelli che sulla superficie del lago
ondeggiano, ammarano, flottano, procedono fendendo l’acqua fra due fiocchi
di spuma. La gente accorre, guarda con gli occhi spalancati, applaude. Cinque
giorni di gare, cinque giorni di evoluzioni condotte da piloti spericolati e
valenti, capitanati da un giovane disinvolto, con la sigaretta perennemente
incollata sulle labbra. Diventerà famoso anche dopo morto, si chiama Roland
Garros. Nei cinque giorni delle gare avvennero incidenti di ogni sorta, motori
che s’inceppano, lotta contro le intemperie. Ma tutto sembra convogliato ad
esaltare meglio la bravura e l’ardimento dei piloti, e finisce bene. Anzi, qual-
cuno del pubblico riesce a salire sugli aerei e prova l’ebbrezza del volo.
E’ l’inizio di un’avventura, che subirà una brusca interruzione alla scoppio
della prima guerra mondiale. Gli fa da preludio il catastrofico incendio del
dirigibile “Città di Milano”, precipitato per un colpo di vento nei campi fra
Vighizzolo, Cantù e Cassina Novello il 9 aprile 1914. Era bastato un soffio più
forte per provocare il disastro: ma in guerra l’aviazione, mezzo determinante
per l’esito del conflitto, avrebbe dovuto affrontare ben altre aggressioni mici-
diali. Fu dalla guerra, per quanto atroce possa essere stata, che uscì un impul-
so nuovo di crescita per la conquista del cielo, anche quella pacificamente
ottenuta. In guerra vennero inviati molti giovani e purtroppo non furono molti
i sopravvissuti; fra di loro, gli addetti all’arma aerea mantennero viva la pas-
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sione per il volo, anche quando non l’avevano nel sangue fin da ragazzi.
Prendiamo il caso di mio padre, Luigi Longatti, per esempio. Venne richiama-
to nel 1915, ventenne, ragioniere, studente al primo anno della Bocconi e
spedito sul Carso, dopo un corso veloce di addestramento per ufficiali. Lassù
regnava la morte: e il defilé dei velivoli che quotidianamente sorvolavano
reticolati e trincee sembrava ai fanti immersi nel fango una diversa, più nobile
e forse anche meno incerta maniera di combattere. Così il sottotenente Luigi
Longatti compilò la sua brava domanda per il trasferimento nell’Arma azzur-
ra, sicuro di non farcela perché prima di lui s’erano prenotati duemila altri
candidati. In un paio di mesi, la lista si ridusse drasticamente, dato che accan-
to a quei nomi venne segnata una croce: e mio padre riuscì nell’intento.
Alla fine della guerra, il capitano aviatore Luigi Longatti, tornato a Como
con un paio di medaglie di bronzo in tasca e il cuore angosciato per aver
assistito alla tragica fine di tanti compagni, rimase convinto che il volo era un
magnifico modo di riacquistare fiducia nella vita e anche una formidabile
palestra fisica, intellettuale, morale. Così, il 20 luglio 1922, convinse un grup-
petto di ex operatori dell’aviazione, che oltre a piloti comprendeva tecnici e
“osservatori” (ovvero gli aviatori non addetti al pilotaggio ma che avevano,
fra l’altro, il compito di maneggiare la mitragliatrice), a fondare l’associazio-
ne “Aviatori Comensi” di cui assunse la presidenza. Primo obiettivo contem-
plato dallo statuto, era il favorire “l’avvenire del turismo aereo” in una zona di
frontiera come quella lariana, creando anche uno scalo ai bordi del lago. L’ini-
ziativa colse nel segno, ottenendo appoggi presso industriali e commercianti.
Il momento era adatto. Le fabbriche di idrovolanti stavano fiorendo anche in
luoghi non lontani da Como, quali la Caproni, la Macchi di Varese, la Savoia
di sesto Calende. Come scrisse il responsabile della Camera di Commercio
comasca in una petizione al Regio Governo, “mentre i vari Stati europei sono
dotati di un esteso sistema di linee in attività di esercizio” l’Italia ne era priva
malgrado la loro utilità “per il progresso delle celeri comunicazioni”.
Gli Aviatori Comensi costituiscono la terza associazione del genere nata in
Italia. E, sventolando l’ardente motto dannunziano “alere flammam”, si ac-
cingono al non facile impegno organizzativo, realizzando nella fase promo-
zionale, ancora una volta, una manifestazione spettacolare, le acrobazie di
maestri della cloche. Alle giornate idroaviatorie del ’22 segue nel 1925 una
settimana con una dimostrazione di posta aerea e altre attività del sodalizio.
Ma sta maturando altrove qualcosa che alimenterà gli sforzi, rinfocolerà gli
entusiasmi, trasformerà un’aspirazione ideale in una realtà densa di promesse.
Il “qualcosa” è in effetti “qualcuno”, Italo Balbo, un protagonista della Marcia
su Roma, un gerarca fascista dotato di una fortissima personalità. Di un’ener-
gia a tutta prova. Despota, ma generoso: e lungimirante. E’ lui che si assume il
compito di formare una flotta aerea capace di imporsi al mondo, di rendere
più temibile l’aviazione militare che dal 1923 è stata resa indipendente dalle
altre armi dell’esercito italiano: è ancora lui che mira a potenziare l’aviazione
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Gianni Mantero, la sede del Circolo della Vela, oltre al condominio Novoco-
mum e al Monumento ai Caduti di Giuseppe Terragni. All’Aeroclub prendeva
decisamente l’avvio un ampio programma di potenziamento della scuola di
volo, grazie alla disponibilità di una flotta di sei velivoli Macchi assegnati
dall’organizzazione nazionale creata principalmente da Balbo, agli ordini di
un ufficiale veneto, il capitano Nardini. Perché non predisporre anche un ser-
vizio regolare di voli turistici sul Lario, che facesse la spola fra i paesi riviera-
schi? Nell’estate del 1933 si dimette dalla carica di presidente Vittorio Bono-
mi, che preferisce dedicarsi allo sviluppo del volo a vela. Gli subentra mio
padre, nella veste di commissario straordinario direttamente nominato dal-
l’on. Marcello Diaz (fatto significativo, non era più un incarico conferito
localmente dai soci): lo affianca un vecchio amico e commilitone, il maggiore
Felice Torelli, che in quel periodo, usufruendo di un temporaneo congedo,
accetta volentieri di organizzare il servizio di trasbordi con Caproncini sul
lago, collaborando a raccogliere fondi. Il suo soggiorno a Como però non durò
molto, perché nel 1934 l’ufficiale colse al volo l’occasione di far parte di una
missione dell’Aeronautica in Cina. Divenuto generale, il Torelli, uomo dal
carattere schietto, esuberante, generoso, galante ma anche un po’ ombroso,
ricordò con simpatia i giorni trascorsi a Como con la famiglia in un libro di
memorie (“Avventure di un pioniere dell’aviazione”, Gastaldi, Milano, 1963)
precisando che il suo compito organizzativo venne agevolato da ciò che era
previsto in alto loco: “Per regolarizzare il servizio di voli turistici vigeva una
disposizione del Ministero dell’Aeronautica, per la quale la Squadriglia na-
zionale da turismo aereo era tenuta a dare assistenza agli Aero Club, sia con
personale che con rifornimenti”.
Nel 1933, quasi a sanzionare l’attenzione condotta sull’attività dell’Aero-
club lariano, giunge inopinatamente a Como proprio lui in persona, il mare-
sciallo Italo Balbo. Piomba dal cielo a bordo di uno dei Savoia-Marchetti con
i quali ha compiuto l’ultima trasvolata atlantica, ammara all’idroscalo dove
sta sorgendo l’intelaiatura metallica dell’hangar. Ma non si ferma in città, la
sua meta è poco distante. Al Grand Hotel Villa d’Este lo attendono ospiti
importanti per una cerimonia d’eccezione: il 13 settembre 1933, nella sala
Impero dell’albergo, dove viene appeso al soffitto, con un’imbragatura im-
provvisata per l’occasione, un modello dell’aereo della trasvolata, un mitico
pioniere dell’aviazione, Luigi Bleriot, consegna a Balbo il trofeo Coppa d’Oro
Villa d’Este e una scheggia dell’apparecchio sul quale egli per primo, agli
albori del volo umano, attraversò la Manica. Con lui c’erano alcuni alti uffi-
ciali dell’Aeronautica, due fra i maggiori industriali del comparto aeronauti-
co, l’ing. Caproni e l’ing. Marchetti, il comandante Ferrarin, numerose ele-
ganti signore e qualche autorità locale. Balbo ringraziò commosso per l’onore
tributatogli e trovò il modo di improvvisare anche una sfilata con il modello
dell’aereo, rievocando la trionfale accoglienza avuta in America. Sembra in-
credibile, ma sul quotidiano “La Provincia” non apparve alcun cenno sull’av-
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quasi per sfida, nella pratica di uno sport di netta impronta virile.
Gli “idro” sul Lario ci sono ancora nel presidio, rimasto unico in Europa,
delle Ali sull’acqua, conquistano nuovi traguardi, prospettano nuovi compiti
da affrontare, di monitoraggio e salvaguardia del territorio. Roteano sopra le
teste dei comaschi, che li accettano come un complemento del paesaggio ma
certo li apprezzeranno meglio conoscendo, anche dalle pagine di questo libro,
quanto sia suggestiva l’esperienza di chi si libra sull’acqua, contemplando
dall’alto il paesaggio lariano.
Da un’altezza media, come quella consentita da un piccolo aereo, si domina
il mondo da un’altra prospettiva ma senza perderlo mai di vista, anzi goden-
done di più i particolari che non si percepiscono a misura d’uomo. Dall’alto
insomma si vede meglio, con la sensazione costante di non sentire più il peso
corporeo, nemmeno la sostanza delle cose che sfilano davanti agli occhi come
figure di un presepio.
Dall’alto si può anche sognare.
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In molti anni di viaggi posso dire di aver girato una discreta fetta di mondo. In
moto, in macchina e su vari tipi di idrovolanti ho viaggiato in quasi tutti gli
ambienti naturali e conosciuto situazioni umane estreme: dal turismo di mas-
sa delle spiagge di Daytona ai suburbi di Calcutta; dall’ambiente rude e ga-
gliardo dei cacciatori di pellicce della British Columbia al Vietnam, Israele e
India in guerra.
Nei viaggi ho sempre cercato l’incontro, l’esperienza, l’avventura, ma non
sempre ho trovato queste cose. Forse perché me le aspettavo, forse perché in
quei luoghi sono andato a fare cose precise, che mi distoglievano dalla reale
vita che vi si svolgeva. O forse perché le situazioni estreme, rispetto alla
propria vita di tutti i giorni, induriscono l’animo e lo rendono impermeabile
agli stimoli esterni. O forse perché la vita dura che si fa in luoghi particolar-
mente ostici rende attenti ai soli fatti relativi alla minima sopravvivenza.
L’avventura può invece giungere in modo del tutto improvviso e inaspettato,
come dimostra l’esperienza qui esposta, che si è svolta interamente nel raggio
di poche decine di chilometri da Como. L’avventura inaspettata - questa è una
lezione che ho ricavato anche dalle vicende qui raccontate - la si vive molto
più intensamente di quelle alle quali si va incontro in modo premeditato.
A Como esiste l’unica base di idrovolanti d’Europa presso la quale, da
ragazzo, ho avuto la fortuna di essere introdotto alla tecnica del volo sull’ac-
qua. Proprio con gli idrovolanti di Como ho compiuto alcuni lunghi viaggi a
cui ho accennato e con un idrovolante ho vissuto l’interessante vicenda che
sto per esporre nei dettagli.
All’origine sussiste un’esigenza molto banale: devo portare da Como a Lo-
carno un idrovolante per una revisione al motore. Un viaggio di una mezzoret-
ta scarsa, perfettamente alla portata di un allievo-pilota dell’Aero Club Como.
Si dà il caso, tuttavia, che il tempo non sia dei migliori.
Sono indeciso se rimandare la partenza, ma la rotta è molto breve e si svolge
per due terzi su acqua, cosa che rende il viaggio con un idrovolante perfetta-
mente sicuro anche nel remoto caso di un’avaria al motore. Da Como devo
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sole qualche chilometro sopra di me, mi senta e possa ripetere il mio messag-
gio all’ente di controllo. Chiamo e richiamo anche sulle frequenze di emer-
genza: niente da fare. Pare proprio che non ci sia in giro nessuno.
Infine, con riluttanza, ma timoroso di esaurire la preziosa energia delle bat-
terie, forse indispensabile più tardi, recido il cordone ombelicale della radio e
spengo tutto. Taglio così l’ultimo labile legame con il volo che dovevo effet-
tuare, con i controllori del traffico aereo con cui ero in contatto, con l’intricato
reticolo di linee invisibili - le rotte aeree - che la mente del pilota “vede” nel
cielo come un film viene visto sullo schermo. A questo punto abbandono
anche la cabina e mi trovo sotto la pioggia, sulla spiaggia deserta di un paese
di cui non so nemmeno il nome. Mi sento proprio solo, quasi “naufragato”.
Questo posto in cui non volevo andare mi dà una sensazione nettissima di
estraneità che non provavo da tanto tempo.
Ecco la prima intensa emozione della giornata: la stranezza di sentire come
familiare l’angusto abitacolo di un idrovolante e tutto ciò che sta lassù, in
quell’orribile ammasso di nubi e di acqua, di sentire come familiari persone
mai viste che parlano per radio un gergo quasi incomprensibile e che si trova-
no sparse a decine o centinaia di chilometri di distanza e di percepire invece
come alieno un comune, ameno paesino del lago Maggiore in un pur piovosis-
simo giorno feriale.
È proprio vero che l’“esotico” non è nell’oggetto, ma nell’angolatura con
cui lo si guarda. La mente, alterata da un’aspettativa, da un’emozione o -
come nel mio caso - dallo stress dell’avventura, ridisegna oggetti e paesaggi
rendendoli strani, alieni, straordinari.
Questi pensieri sono interrotti dall’arrivo di un pescatore. «Dove siamo?»
chiedo subito. La sagoma dell’aereo che si staglia contro il lago, poco lontano,
rende plausibile la strana domanda e ottengo prontamente una risposta. In
qualche minuto raggiungo un telefono [i portatili non erano ancora diffusi
nell’epoca di questa avventura, la metà degli anni Ottanta n.d.a.] e cerco di
ricollegarmi, via filo, con il sistema di comunicazioni aeronautiche da cui mi
sono trovato bruscamente estromesso. La cosa non è facile, dato che il mal-
tempo ha gettato lo scompiglio nelle linee telefoniche ed elettriche. Alla fine,
per vie traverse, riesco appena in tempo a far giungere all’autorità aeronautica
il messaggio telefonico che evita l’allarme e i soccorsi.
L’avventura è finita. Di colpo la tensione si scarica e ridivento un normale
cittadino. L’ambiente intorno a me acquisisce bruscamente i suoi solidi, con-
sueti connotati. Mi trovo nell’unica locanda del paese, che si affaccia sulla
piazzetta principale, e devo solo aspettare che il tempo migliori per ripartire,
ma potrebbero volerci giorni. Si accende lo stimolo della fame, giustificato
anche dall’ora, così che mi metto a tavola, compiaciuto di celebrare con qual-
che rito gestuale il ritorno alla normalità e lo scampato pericolo.
Non c’è come l’aver affrontato situazioni estreme che permette di apprezza-
re le piccole abitudini che ci rendono familiare la vita di tutti i giorni. Proba-
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Durante tutta la mia permanenza nella locanda, durata alcune ore, prende
corpo dentro di me un pensiero e un’emozione. Lo straordinario non è solo
quello che è capitato a me, ma anche, forse soprattutto, quello che stanno
vivendo loro. Il mio piccolo idrovolante mi fa dunque vedere e vivere come
eccezionale la visita in un tranquillo paese lacustre che non avrebbe suscitato
in me alcun interesse passando in motocicletta, ma desta anche clamorosa-
mente il senso dell’eccezionale in un gran numero di persone che mai degne-
rebbero della minima considerazione uno sconosciuto che arriva in paese.
L’evento visibilmente scompone e ricompone molti rapporti tra le stesse per-
sone che vivono in quel luogo.
Se apprezzo il viaggio come occasione di interscambio culturale tra il visi-
tatore e il visitato, come ricerca dell’autenticità di sentimenti e relazioni uma-
ne, del viaggio non artefatto, insomma, posso ritenermi pienamente soddisfat-
to. Sì, forse questa è proprio “avventura”, più di tante che ho vissuto in paesi
esotici e in lontani continenti.
Verso le otto di sera, per fortuna, la situazione migliora leggermente e il
lago si calma quel tanto che basta per indurmi a ripartire. Vengo informato che
l’idroscalo di Como è bloccato da un’enorme massa di detriti, portati a valle,
nella giornata, dall’alluvione. Letteralmente ettari di lago sono ricoperti da
milioni di pezzi di legno, alberi, rami e altro materiale galleggiante e quindi
decido di portare l’idrovolante al più vicino aeroporto in provincia di Varese,
Calcinate del Pesce.
Una piccola processione mi accompagna all’aereo. La risacca e i leggeri
movimenti dell’aereo indotti dalle raffiche di vento hanno fatto affondare le
ruote nella ghiaietta. Con il remo in dotazione, usato come badile, scavo tre
piccoli canali che liberano le ruote, sotto gli occhi curiosi di una cinquantina
di persone.
Infine metto in moto, scendo nell’acqua e mi avvio verso il centro del lago
preparandomi al decollo. Durante la partenza mi investe una ventata di simpa-
tia da parte di tutti i presenti, di molti dei quali conosco i nomi e a cui dò
ormai del tu. Ciascuno mi ha dato qualcosa e anch’io ho lasciato su quelle
sponde qualcosa di me stesso. Ecco un altro significato di “avventura”: il
condividere con un’altra persona o altre persone i tuoi sentimenti, i tuoi timo-
ri, i tuoi obiettivi e sentirti con quella persona, con quelle persone, fratello e
amico per sempre.
Lo straordinario, che talvolta ho inutilmente inseguito nelle foreste tropica-
li, nella tundra artica o nella Saigon assediata dai “Viet”, mi ha investito
inaspettatamente proprio dietro l’angolo di casa.
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Barnstorming acquatico:
i voli di propaganda
Il volo di propaganda è una delle attività istituzionali e più importanti svolte
dagli aero club, che consente a migliaia di persone di provare il piacere del volo
e la fondamentale esperienza culturale di vedere dall’alto i luoghi in cui vive.
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samurai si suicida in caso di sconfitta del signore sono certo che la persona
che mi sta accanto sarebbe la prima a sventrarsi.
Mi chiedo se sia in corso un gioco a premi di quelli televisivi, ove si spendo-
no milioni di dollari o di yen per vedere se una persona è capace di compiere
una certa impresa o di condurre a termine una strana caccia al tesoro.
Il cielo è coperto da uno strato sfrangiato verso il basso, ma verso ovest è più
chiaro. Man mano che procedo lo strato si fa rotto, ma più in alto si scorge un
altro strato. Mi trovo in quelle condizioni sulla sponda occidentale del Lago
Maggiore, da dove, in aria chiara, il massiccio del Rosa lo si vedrebbe torreg-
giare in tutto il suo splendore. Intorno ci sono, invece, solo tonalità di grigio.
Con aria costernata e scuotendo lievemente il capo faccio capire al maggior-
domo che il Monte Rosa, oggi, sarà impossibile vederlo.
Lui trasmette il bollettino di guerra alla fila posteriore. Dopo qualche veloce
scambio di frasi giunge il parere che conta, prontamente tradotto in inglese:
«Va bene, va bene; non interessa se dobbiamo stare in giro anche ore, ma
vediamo di andare sul Monte Rosa».
Che fare? Da un lato sono perfettamente consapevole del mio ruolo di co-
mandante e che se decido di tornare a Como nessuno può battere ciglio. Dal-
l’altro mi chiedo quale possa essere, se proprio fosse questione di vita o di
morte, la possibilità di compiere la “missione impossibile”.
In effetti il cielo ha molte tonalità di grigio, ma tutte grigio chiaro. Ciò vuol
dire che non sono in presenza di un vero “pacco”, ma di una serie di strati non
molto spessi. Così come molte volte, attraversando le Alpi, ho trovato dall’al-
tra parte il cielo coperto da uno strato non troppo spesso e sono andato a
cercare un buco per scendere sotto e raggiungere la meta, allo stesso modo
forse ora posso cercare il buco per passare sopra.
Comunico ai passeggeri che una possibilità potrebbe esserci, ma per tentarla
bisogna andare a girovagare per la Pianura Padana e che comunque il risultato
non è assicurato.
«Benissimo», mi dicono. Dopo pochi secondi sento una mano che dai posti
posteriori scivola sulla mia spalla, come per abbracciarmi, e raggiunge la zona
del taschino della mia camicia. Intravvedo un biglietto da centomila che vi si
infila dentro.
Capita di ricevere mance nei voli di propaganda. Potremmo spiegare, in
quei casi, che noi in realtà facciamo tutto un altro lavoro e che voliamo senza
alcun compenso, senza attenderci alcuna mancia, ma la cosa potrebbe essere
non capita o addirittura essere presa come un segno di sprezzo. In questi casi
preferiamo allora impersonare il ruolo dei pilotini di charter e dopo il volo
raccogliamo chi si trova in hangar e andiamo a berci qualcosa con i proventi
straordinari e inaspettati, oltre che non richiesti, del volo appena fatto.
Una mancia, anche se non ci interessa, è comunque un indice che abbiamo
soddisfatto pienamente la persona per cui abbiamo svolto il servizio, il che è
comunque gratificante.
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Ne va della vita
Ogni pilota ha un dovere morale a cui non può sottrarsi: descrivere
immediatamente alla comunità dei piloti di cui fa parte ogni errore che commette.
Gli altri piloti, lungi dal criticare, deridere o sentirsi superiori al pilota che mette
in evidenza un proprio errore, gli dovranno essere grati, perché questo
atteggiamento permetterà loro di evitare di commetterne uno uguale e forse
di avere salva la propria vita, con quella dei propri passeggeri.
Ecco i miei gravi errori che sarebbero potuti costare carissimi a me e ai miei
passeggeri e che solo un fato benevolo ha voluto far rimanere senza conseguenze.
Non so se c’è un pilota che non ha mai rischiato la vita. Io la rischio ogni
giorno circolando in motocicletta, il mio mezzo di trasporto abituale, statisti-
camente 2000 volte più pericoloso dell’aereo, ma l’ho rischiata in modo grave
- per quel che ne so - tre volte pilotando aeroplani, nella mia trentacinquenna-
le vita volativa, ed è bene che racconti queste esperienze, anche solo per il
fatto che qualcuno, leggendo ciò che segue, forse potrebbe evitare di compiere
i tre gravi errori che io ho compiuto in quelle occasioni.
Quei tre errori non sono giustificabili, in quanto furono dovuti proprio a
eccesso di confidenza con il mezzo aereo e di autoconsiderazione, ovvero a
ciò che costituisce uno dei principale fattori di incidenti aerei.
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normativa nella quale il brevetto di primo grado si consegue con 12 ore di volo
totali. Non so se sia più pericoloso pilotare uno Spit con 12 ore di esperienza o
un Piper PA 18 con 7 ore e 20 primi di esperienza, come è capitato a me. È
certo che, avendo raggiunto le 15 ore di volo totali, con l’istruzione intensiva
dell’epoca, mi senta una specie di semidio. La sensazione è corroborata dal
fatto che intorno alle 10 ore l’istruttore ti ha “ripreso in mano” (ormai, dal
decollo, ti sei fatto le ossa con 3 o 4 ore da solista) e ti ha introdotto nell’affa-
scinante mondo dell’acrobazia aerea. Sul Piper, ma soprattutto sul Macchi
MB 308, abbiamo ormai conosciuto il looping, il tonneau, le scampanate
dritte e rovescie, le virate di scampo e le viti, tutte manovre che le targhette
attualmente presenti sui nostri aerei classificano come “proibite”.
Si può facilmente capire come il ventenne pilotino che sono, dopo quattro o
cinque lezioni di questo genere, si senta in grado di emulare il suo istruttore. E
così faccio... con i risultati qui di seguito descritti.
Passato il paese di Torno e nel bel mezzo del secondo bacino del lago, con il
Cessnino 150, alla notevole quota di 1500 piedi, sono tanto sicuro di me da
improvvisare una virata in cabrata. Le mie capacità sono immediatamente
messe alla più dura prova: tira su, 50 o 60 gradi di inclinazione verticale;
inclina a sinistra; l’aereo sta per completare la virata in cabrata. Improvvisa-
mente mi viene un brivido: non sono più sicuro di quello che sto facendo e mi
rendo conto che la quota è bassa, anzi bassissima; non avrei mai dovuto af-
frontare quella manovra a quella quota. Che fare? Se solo non facessi nulla per
un altro secondo, mi troverei nella fase di uscita dalla “sfogata” e dovrei
solamente tirare lievemente il volantino per risolvere, tenendo ben d’occhio la
pallina, quella situazione critica. Ma questo è il senno di poi.
Invece no: il piccolo conato di paura “fa quaranta” e, appeso verso il cielo da
solo per la prima volta nella mia vita, sbaglio tutto: spingo il volantino in
avanti, pensando di ritornare così nella normale situazione di volo. Invece,
con l’aereo ormai quasi fermo, produco una condizione di volo di estrema
pericolosità: lo stallo rovescio, seguito da un ingresso in vite.
In quel momento non ho la più pallida idea di che cosa sia uno stallo rove-
scio né esperienza di uscita dalla vite. L’unica cosa che vedo è che la terra e il
lago turbinano innanzi a me, che tutto vola anche all’interno della cabina, che
i comandi sono durissimi e che la lancetta dell’anemometro si trova in una
zona sconosciuta che sta intorno a una lineetta rossa tracciata sul quadrante.
Mi trovo a dover mettere in pratica tutto da solo e con la superficie che si
avvicina a velocità impressionante una tecnica che avevo visto semplicemente
eseguire dall’istruttore. So che devo premere il pedale dalla parte opposta a
quella in cui l’aereo si sta avvitando, lasciando il volantino al centro. Così
faccio, al che l’avvitamento rallenta, ma i problemi non sono finiti.
Arrestata la virata, incomincio infatti a tirare il volantino verso di me, ma
l’operazione è molto difficile, dato che l’aereo è in picchiata verticale e io mi
trovo in caduta libera, letteralmente “appeso” alla cintura di sicurezza.
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circa 8500 piedi, e sto sempre procedendo in nube. Trovandomi in una valle,
devo immediatamente assumere una rotta che sia parallela all’asse della valle,
per non rischiare di andare a cozzare. In pratica è una rotta inversa a quella che
tenevo, in aria chiara, per raggiungere il passo. Così faccio e a quel punto
metto i giri del motore al massimo e assumo un assetto che mi faccia salire il
più possibile, nella speranza di uscire dalle nubi al più presto.
Ciò non avviene ed è facile capire il perché: il rateo di salita è di soli 30-40
piedi al minuto. A questo ritmo l’uscita dallo strato appare come un miraggio.
Se la situazione non cambia velocemente si pone un altro problema dramma-
tico: la valle, per rientrare verso la pianura della Svizzera interna, non è rettili-
nea. Nel volo fuori dalle nubi è facile tenersi “a vista” alla giusta distanza
dalle montagne, ma volando in una valle in nube non si vede nulla e prima o
poi ci si va a schiantare da una parte o dall’altra contro un crinale.
L’unica speranza è di tenere l’aereo in modo estremamente scrupoloso negli
assetti che assicurano il massimo angolo di salita e di uscire dalle nubi il più
presto possibile. Tuttavia, nel frattempo, si deve fare il disperato tentativo di
navigare nella valle in nube. Come? C’è un solo modo, che è il più semplice e
antico metodo di navigazione: usando la bussola e l’orologio. La bussola
consente di tenere la direzione desiderata, mentre l’orologio permette di defi-
nire per quanti secondi si devono percorrere le varie tratte della rotta che si
intende seguire.
Misuro sulla carta, con il tempometro, il tempo di percorrenza in minuti
della prima tratta che mi porta verso la pianura e faccio scattare il cronometro.
Non è bello procedere alla cieca sapendo di andare verso una montagna e,
senza vedere nulla, decidere di virare per un’altra prua quando si stimi di
trovarsi nell’asse della nuova tratta. Per fortuna questo tipo di navigazione è
quella che si fa nelle gare di regolarità, ovvero al Giro aereo d’Italia che ho
fatto un paio di mesi prima, e quindi sono ben allenato a controllare i tempi di
percorrenza delle tratte con la precisione del secondo.
La probabilità di compiere un errore o di accumulare impercettibilmente
una somma di piccoli errori, in una situazione come quella descritta, è tuttavia
alta e, di conseguenza, alto - anzi altissimo - è il rischio che sto correndo, con
i miei passeggeri.
Passano i secondi previsti e viro per la nuova prua, con l’aereo che lentissi-
mamente guadagna quota, ma rimane sempre immerso nelle nubi. In occasio-
ne di un paio di rapide occhiate che getto fuori dall’aereo, verso il basso, in un
improvviso squarcetto delle nubi, ho visioni di picchi e frastagliature di roccia
chiazzati di neve, molto vicini. Ogni secondo che passa è un secondo in più di
esistenza strappata all’ingloriosa fine delle quattro persone a bordo, ma il
secondo successivo può essere quello fatale.
Viene il momento della seconda virata. La faccio e dopo qualche secondo
tutto ciò che sta davanti a noi passa in una frazione di secondo dal colore
bianco-latte all’azzurro intenso: siamo fuori.
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larmente grossi, ma sono quei tipi che, dall’impressione che ho avuto in quel
momento, definisco da allora come “di granito”. Ho il serbatoio centrale quasi
pieno e i due serbatoi laterali, che a memoria, prima di salire a bordo, pensavo
di avere riempito per metà, sono in realtà pieni.
In sintesi: sto cercando di decollare da una pista piuttosto corta in terra
battuta, leggermente in salita, fuori carico di più di cento chili, con una tempe-
ratura di circa 32 °C e con un’umidità del 90% circa. “Proprio complimenti -
mi dico -: vent’anni di volo per ottenere questo bel risultato!”
Il “momento della verità” è, come ho detto, quello del distacco. In effetto-
suolo l’aereo galleggia, ma appena tiro lievemente il volantino l’aereo “si
siede” e “sta lì”, ovvero vola a qualche decina di centimetri dalla pista senza
accennare a salire. Molti aerei si sono schiantati a Samaden dopo avere bru-
ciato la pista in effetto-suolo, a causa dell’aria rarefatta, e trovarmi in una
condizione molto simile, per un calcolo sbagliato, è sconsolante.
Proprio una brutta sensazione, considerando che non mi trovo su uno spec-
chio d’acqua di dimensioni illimitate, sul quale mi potrei riposare delicata-
mente in qualsiasi momento senza alcun problema, ma su una striscia di terra
che ormai è finita, oltre la quale vi sono fabbricati, elettrodotti, montagne e la
rete di cinta dell’aeroporto, che non sono per nulla certo di superare.
La scarica di adrenalina e l’aver rifatto in un secondo tutti i calcoli sopra
descritti mi inducono a controllare in pochi istanti i parametri di volo e a
impostare ogni minima manovra in modo da ottenere il miglior risultato.
Retraggo immediatamente il carrello, anche in assenza di una tendenza del-
l’aereo a salire, come suggerirebbero i manuali; anzi, proprio per quello. Ten-
go la pallina al centro “che più al centro non si può”. Volo in effetto-suolo il
più a lungo possibile e il più vicino possibile al suolo (con il Lake, che non ha
eliche che sporgono verso il basso, posso tenere l’aereo a una ventina di
centimetri di quota), cercando di guadagnare preziosa velocità, da trasformare
in un secondo tempo in quota. Così facendo, dopo aver fatto l’inevitabile
richiamata alla fine dell’aeroporto, ottengo dal variometro, che indica la velo-
cità verticale, la segnalazione che sto salendo tra i 50 e i 100 piedi al minuto.
Non molto per superare gli ostacoli che mi si stanno davanti.
Mi assale un pensiero, che deriva da una recente esperienza. Avevo poco
tempo addietro portato il nostro Cessna 185 in Norvegia, a una ditta di lavoro
aereo a cui l’avevamo venduto. Per seguire le relative pratiche burocratiche
ero rimasto a Oslo per circa una settimana. I tempi morti li passavo alla base
della piccola compagnia alla quale avevamo venduto l’aereo. Questa compa-
gnia era molto ben documentata e possedeva, tra l’altro, un dossier che racco-
glieva la descrizione di tutti gli incidenti con idrovolanti avvenuti nel mondo.
Avevo passato intere giornate a leggere tutti i rapporti. Uno di questi racconta-
va come fosse stato lungimirante un pilota che aveva deliberatamente deciso
di atterrare in un terreno sconnesso, ma con l’aereo perfettamente controllabi-
le, piuttosto che cercare di tenere l’aereo in volo, compiendo una virata che si
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Conclusione
1970, 1981, 1992. Pare che il rischio, per metà della mia vita, abbia avuto,
come le macchie solari, un ciclo undecennale. Il ciclo si è felicemente inter-
rotto nel 2003 anno in cui non mi ricordo di essermi cacciato in situazioni di
rischio. Saggezza dovuta all’età? Fortuna? Chi lo sa. Verificheremo spero nel
2014, forse nel 2025 e, ingegneria genetica permettendo, eventualmente nel
2036, nel 2047...
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Paradiso e inferno
Cronaca di una giornata densissima di avvenimenti.
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La strizza
Quel brivido che corre lungo la schiena all’improvviso...
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Grand Princess
Missione speciale in un luogo sacro della storia dell’aviazione idro.
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armati Sherman passa esattamente sopra il Cant Z 511, la cui elica quasi
affiorante - proprio una bella sfortuna! - taglia la gomma dell’imbarcazione,
con il risultato che il mezzo, che pesa 30 tonnellate, affonda e precipita pro-
prio sulla fusoliera dell’aereo, distruggendolo.
Le officine aeronautiche di Monfalcone, da cui sono usciti centinaia di aerei
“Cant” e altrettanti fabbricati su licenza, sono infine rase al suolo in un bom-
bardamento degli alleati, il 20 aprile 1944. Nel dopoguerra la produzione dei
Cantieri riprenderà, ma mai più di aerei.
Tornando al nostro viaggio, che appare come il volo di un moscerino rispet-
to alle vicende di cui sono stati teatro questi luoghi, ammariamo dunque nella
bella e profonda insenatura di Monfalcone, che offre al pilota di idrovolante
una perfetta superficie riparata dal moto ondoso del mare aperto.
Qui ho la seconda sorpresa: uno sciame di piccole imbarcazioni si dirige
all’unisono verso di noi. Vedo motovedette di molti enti ufficiali, tra cui Cara-
binieri, Guardia di Finanza, Capitaneria, Polizia e altre barche i cui equipaggi
ci scrutano con attenzione. A un certo punto compare sulla vedetta della Capi-
taneria un ufficiale che con un megafono scandisce le parole: «C’è il dottor
Aletti a bordo dell’idrovolante?» Fatti i segni affermativi la scena si ricompo-
ne all’istante come avviene quando si scoperchia un alveare. Tutti si agitano e
danno ordini frenetici a tutti gli altri, le barche si aprono a ventaglio e formano
una scorta al nostro piccolo idrovolante. La vedetta della Capitaneria ci prece-
de adattando la sua velocità alla nostra e ci fa dirigere verso le banchine.
Stiamo flottando lentamente lungo il fianco sinistro della nave, che vediamo
ricolma di gente in ogni ponte.
A un certo punto vedo, sulla sinistra un largo scivolo in evidente stato di
abbandono, ingombro di oggetti di vario tipo. A segni faccio capire che quello
è il nostro punto di approdo desiderato. In assenza di quello scivolo dovrem-
mo lasciare l’aereo al largo e organizzare un trasbordo. Le banchine di un
grande porto o cantiere navale, vere muraglie verticali, peggio di quella cinese
per i Mongoli, non sono infatti adatte all’approdo di piccoli idrovolanti.
L’ufficiale capisce al volo i miei segni e dà qualche ordine via radio. Dopo
circa un minuto compare sulla riva un manipolo di persone in divise di vario
tipo che si danno da fare per asportare velocemente tutti i materiali presenti
sullo scivolo. Faccio segno che in realtà basta avere libera una striscia di
qualche metro.
Giunto ormai allo scivolo, sono assistito da finanzieri che entrano in acqua
vestiti fino alla cintola, pensando di poter aiutare l’approdo guidando le ali
negli ultimi metri. Questo generoso intervento risulta prezioso, in quanto an-
che la parte sommersa dello scivolo è ingombra di oggetti. In un paio di
minuti dunque completiamo l’approdo grazie a un’assistenza che mai si po-
trebbe immaginare di avere operando con un idrovolante.
Intanto - e questa è la terza sorpresa - mi rendo conto che lo scivolo è
proprio quello dei gloriosi Cantieri Navali Triestini, poi Cantieri Riuniti del-
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Ischia
Un’idea, una speranza, una bella avventura stroncate brutalmente
dal modo italiano di gestire l’aviazione.
Ischia, per qualche tempo, verso la fine degli anni Ottanta, diventa una dépen-
dance dell’Aero Club Como. Di ciò si devono ringraziare i fratelli Michelan-
gelo e Rocco Regine, proprietari di alberghi e fondatori dell’Aergolfo. Inten-
zionati ad avviare un’attività di trasporto pubblico di passeggeri tra l’aeropor-
to di Napoli Capodichino e l’isola di Ischia e di voli turistici nel golfo di
Napoli, i fratelli Regine ci hanno contattato per scegliere gli aerei e seguirli
nel complesso iter di avviamento di un’attività di TPP con idrovolanti.
L’impresa - è inutile dirlo - è disperata, dovendo svolgersi nel paese più
burocratizzato del mondo, almeno ai tempi in cui la vicenda si svolge. Infatti
naufragherà di lì a qualche anno e dopo molte centinaia di milioni di lire
spese. Ma andiamo per ordine.
Il primo anno che siamo andati a Ischia dobbiamo farlo in un momento in
cui non disponiamo di aerei anfibi, una condizione in cui il Club di tanto in
tanto si trova. Ma non tutto il male vien per nuocere, perché possiamo dimo-
strare che con gli idrovolanti si possono compiere senza problemi viaggi lun-
ghi. Eccoci dunque in partenza per Ischia con il Piper PA 18 idro.
Per raggiungere la lontana meta da Como è necessario fare almeno una
sosta intermedia. Potendo scegliere, quale migliore scalo può esserci che Or-
betello? La laguna è infatti un bacino protetto ed è uno dei siti più importanti
della storia idrovolantistica italiana. Ciò basterebbe a giustificare la scelta.
Inoltre Orbetello si trova circa a metà strada tra Como e Ischia. La prima tratta
è dunque Como-Orbetello. Grazie alla nostra iniziativa, le acque di Orbetello
hanno potuto accogliere, per la prima volta dopo cinquant’anni e dopo le
squadriglie di Balbo, un idrovolante.
Della cosa non si accorge nessuno, ad esclusione del benzinaio che si trova
presso il punto di approdo, che ci fornisce un’ottantina di litri di super, tra una
Fiat 127 e una Citroen GS. Il bello del Piper è che “va” con qualsiasi benzina,
a differenza di quasi tutti gli altri aerei (basta pulire bene le candele dopo).
A Ischia si deve scendere in mare. È vero che, come ci hanno insegnato i
piloti militari degli anni Trenta e Quaranta, c’è sempre uno specchio di mare
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Il primo, il più riuscito, almeno fino a questo momento, è quello della Tran-
saerea, impresa che si è dedicata al trasporto pubblico durante le grandiose
celebrazioni voltiane del 1927, durante le quali migliaia di comaschi e di
turisti, di autorità e giornalisti sono stati portati in volo.
Il secondo è quello degli entusiasti imprenditori della ditta AIAX, di Mila-
no, che negli anni Cinquanta hanno acquistato e largamente usato sul Lario il
monomotore anfibio Republic Sea Bee, mentre il terzo tentativo è avvenuto
negli anni Ottanta e Novanta ad opera dell’Idrovoli. Giunta ad impiantare una
completa e funzionante azienda dotata di CIT e disciplinare per trasporto
pubblico di passeggeri, con tanto di pilota professionista, direttore operativo e
così via, l’Idrovoli è collassata di fronte all’impossibilità di eseguire il suo
scopo sociale e ciò a causa di una legislazione sul trasporto pubblico di pas-
seggeri su idrosuperfici che era stata promessa dalle autorità «entro qualche
mese» e che sarebbe invece giunta solo dopo una dozzina di anni.
Il Lake LA 250 dell’Idrovoli, venduto ad alcuni privati, è poi usato sporadi-
camente, si “inconvenienta” durante un ammaraggio duro e scompare dai cieli
comaschi nel 2001, dopo quasi quindici anni di onorevole servizio, durante i
quali ha fatto apprezzare la tradizione idrovolantistica italiana in tutta Europa.
Come l’araba fenice, ricompare messo completamente a nuovo tre anni dopo,
acquisito dal Club.
L’Italia, una delle culle dell’aviazione idro, è riuscita, grazie agli sforzi di
due o tre generazioni di burocrati, nell’intento di affossare ogni tentativo di far
nascere un’aviazione idro commerciale, che vedevamo invece fiorire magnifi-
camente in molti paesi stranieri.
La situazione, ai nostri giorni è per fortuna cambiata. Gli sforzi congiunti di
molti dirigenti dell’Aero Club Como, di alcuni illuminati funzionari del Mini-
stero e dell’Aero Club d’Italia hanno creato un quadro normativo che rende
possibile il lavoro aereo e l’attività di trasporto pubblico con idrovolanti. Una
nuova legge, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 23 dicembre 2003 ed entra-
ta in vigore sei mesi dopo, sancisce che in Italia tutti gli specchi d’acqua sono
idrosuperfici usabili senza nulla osta o concessione d’uso; basta che non vi sia
proibito il traffico di natanti a motore. Una conquista che ci è oggi invidiata da
molti paesi e che pone l’Italia all’avanguardia nel mondo.
L’augurio è che presto, in questo nuovo quadro normativo, nascano aziende
che siano capaci di fare assaporare a milioni di persone il piacere di posarsi
con un aereo sull’acqua, un’esperienza affascinante e destinata a diventare per
molti addirittura elemento in sé motivante del viaggio.
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Idroscalo di Milano
Grazie alla tenacia di Giovanni Gatti l’Idroscalo torna, almeno in un giorno
all’anno, alla sua funzione originaria.
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Dovendo fare brevissimi voli uno dopo l’altro, ci si deve armare di pazienza
e compiere tutte le operazioni in modo volutamente rallentato, imponendosi
l’esecuzione con calma di tutti i controlli. Ciò per non incorrere nel rischio di
fare i controlli in modo “automatico” e a un basso livello di coscienza.
Inoltre si deve evitare di interagire troppo con i passeggeri, cosa che può
aggiungere disturbo in una situazione già potenzialmente stressogena. Molti
passeggeri non aspettano che di essere sull’aereo per raccontare al pilota tutta
la loro vita di appassionati di aviazione, quasi disinteressandosi del paesaggio
esterno e del volo. Altri fanno mille domande sugli strumenti, i comandi, il
pilotaggio. Quando esagerano devo solo alzare il volume della radio, sintoniz-
zata sulla frequenza di Linate Torre e dalla quale dunque esce un dialogo
ininterrotto tra i piloti e il controllore. Queste voci sovrastano quelle dei pas-
seggeri e hanno un fascino in sé, tale da indurre gli stessi passeggeri a un
attento silenzio.
Le giornate all’Idroscalo sono intense. Arrivano con la voglia di volare le
persone di tipo più diverso, dall’anziana milanese che vuole volare con l’idro-
volante all’Idroscalo, un’esperienza che sa essere unica, alla famigliola di
appassionati e cultori di aviazione, ove il papà che ha fatto il paracadutista,
non perde una manifestazione aerea e lascia il posto davanti al figlioletto, che
pilota perfettamente 747 e Tornado sul simulatore di casa, pregandci di farlo
provare a pilotare.
Non c’è stato anno, prima del 2004, in cui non abbiamo dovuto, a partire
dalle 3 o 4 del pomeriggio, respingere centinaia di richieste perché già preno-
tati fino a sera, anche quando eravamo presenti con vari aerei. Nel 2004,
grazie alla presenza di una flotta particolarmente consistente, abbiamo avuto
per la prima volta il piacere di soddisfare tutte le richieste. È certo dunque che
la domanda c’è ed è forte e che gli idrovolanti soddisfano un bisogno diffuso.
L’idea ora è di aprire l’Idroscalo di Milano agli idrovolanti per più giornate
nell’anno, aggiungendo all’offerta dell’importante struttura un servizio molto
apprezzato e di rilevanza storica e culturale.
Quando, durante la manifestazione, andiamo a fare benzina a Linate e alla
partenza ci chiedono la destinazione e uno stimato della durata del volo dicia-
mo con orgoglio e compiacimento: «Idroscalo di Milano, durata del volo 30
secondi se ci autorizzate a sorvolare la principale».
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Lago di Bilancino
Nel cuore della Toscana, ospiti degli amici dell’Aero Club Firenze
in un agriturismo a cinque stelle.
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menti per portare il Lake sul lago per qualche ora della giornata di domenica,
per il solo piacere di mostrare quanto ci teniamo a mantenere una promessa.
A Bilancino torniamo invece in una curiosa spedizione, condotta sul Cessna
206 della Navigando Air, nel brevissimo periodo di sua permanenza a Como.
L’occasione è una cena di soci dell’Aero Club Firenze, sempre all’agriturismo
Le Novelle, a cui siamo invitati. La giornata è una di quelle prossime al
solstizio d’estate. Effemeridi a tarda serata, dunque.
Dopo essere stati indecisi sul da farsi e sulla rotta da seguire, a causa di
tempo incerto sugli Appennini, ed esserci attardati prima della partenza, presi
dalle abituali scaramucce di piazzale, decolliamo infine alle 19:40. Il pilota è
Paolo Sommariva, accompagnato dallo scrivente e da Enzo Infante. Giungia-
mo in vista del lago alle 21:10 e, dopo l’ammaraggio in inevitabili condizioni
di specchio, portiamo l’aereo in secca grazie a un opportunissimo scivolo.
Gli amici fiorentini sono lì ad attenderci e la piccola combricola raggiunge
in pochi minuti l’agriturismo. Il banchetto è organizzato in una sala dell’anti-
ca costruzione ristrutturata, ove i commensali stanno tutti seduti intorno a una
grossa tavolata.
L’atmosfera è decisamente medioevale e non perché lo sono la casa o il
mobilio o la luce fioca delle vecchie lampade, che conferisce all’ambiente un
aspetto suggestivo, ma perché lo è la situazione. Tante persone che vengono
da posti lontani si trovano una sera intorno a un tavolo a raccontare le loro
storie, le loro vite.
Tra gli amici di Firenze ritroviamo gli organizzatori delle manifestazioni,
che sono i consiglieri Pier Paolo Panti e Daniele Livi, oltre al padrone di casa
Stefano Mazzuoli.
I “viandanti” che hanno fatto la strada più lunga siamo noi. La serata è
allegra. Noi abbiamo tante storie da raccontare, vivendo un periodo intenso e
avvincente della storia del Club ed essendo reduci da viaggi in idrovolante
importanti, ma anche gli amici fiorentini non si tirano indietro.
Non tutte le storie sono allegre. Noi di Como, abituati ad operare in condi-
zioni di assoluta libertà, restiamo allibiti quando ci raccontano le infinite re-
strizioni a cui è sottoposta la vita di un pilota in un aeroporto come quello di
Firenze Peretola dopo l’11 settembre e le minacce del terrorismo. Ci sarebbe
da farsi passare la voglia di volare, se non fosse per la forte passione, una dote
che certo non manca ai nostri amici e colleghi fiorentini.
È bello pensare a ciò che permette un idrovolante: alle sette e mezza di sera
sul piazzale, a Como, presi dai nostri affari, alle dieci meno un quarto a tavola
in un antico casolare, sulle rive di un laghetto sperduto dell’Appennino, a 300
chilometri di distanza.
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Navigazione astronomica
Ho incluso questo breve capitolo per mettere in evidenza come i problemi
di navigazione siano sostanzialmente immutati dall’epoca in cui partivamo
al mattino per andare a procurare di che nutrirci con rudimentali armi di pietra
a oggi, in cui le nostre navi solcano lo spazio dirette verso altri corpi celesti.
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meglio identificabile che alla quota più bassa, così che posso agevolmente
navigare grazie a esso.
Il sole, come direzione di riferimento ha un piccolo problema: si muove. Se
dunque, per tenere la mia prua di 200 gradi, alle 15:30 di un giorno di metà
luglio devo avere il Sole a 50° sulla destra, alle 16:00 devo averlo a 60°,
sempre sulla destra, in quanto l’astrolabio mi dice che nel primo momento il
sole ha un azimut di 250°, mentre nel secondo di 260°.
Arrivano gli Appennini, i cui rilievi intravvedo come una tenuissima imma-
gine solo guardando esattamente verso il basso. Finiti (il colore diffuso sotto
vira al blu), “svolto a destra”, buttandomi giù sulla linea di costa, che seguo a
bassa quota. Ora navigo grazie alla carta del Touring al 200.000, che consente
di riconoscere ogni dettaglio del paesaggio, dunque usando il metodo della
navigazione osservata, e infine raggiungo agevolmente la meta.
Tutto va come deve andare e l’amico Eugenio, sulla spiaggia, “tocca il cielo
(in questo caso sarebbe più opportuno dire “la terra”) con un dito”, ottenendo
un grandioso successo di immagine con sua moglie e con tutti i presenti.
Il bimbo che vede il papà arrivare “dal cielo e dal mare” si chiama Pietro e
diventerà, dopo una quindicina di anni, un appassionato pilota idro e affezio-
nato socio dell’Aero Club Como.
Nel ritorno - il piacere di volare da solo è accentuato dal fatto di farlo molto
raramente - devo volare con il sole quasi a poppa, quindi tenendo angoli di
rotta difficili da materializzare. Uso, nelle fasi iniziali dell’attraversamento
degli Appennini, un altro espediente. Poco dopo il decollo devo sorvolare
Savona, il cui porto dispone di un lungo molo, ben rappresentato sulla carta
del Touring al 200.000. Ne misuro l’orientamento con il goniometro, sulla
carta, poi dispongo l’aereo esattamente parallelo al molo e regolo il direziona-
le sulla direzione misurata. Per i prossimi 10, speriamo 20 minuti potrò volare
usando il direzionale; poi dovrò ritornare a usare la navigazione astronomica.
Il direzionale lo tengo quasi continuamente d’occhio, così che dopo che
eventualmente si sia messo a girare all’impazzata - cosa che fa ogni 10 minuti
circa - possa rimetterlo sull’ultima prua stabile, godendo di un’altra manciata
di minuti di indicazioni utili.
Quando sarò sicuro di aver passato le montagne, scenderò a “razzolare”
rasoterra fino a trovare l’autostrada, che mi riporterà verso Milano e a casa.
Per essere sicuro di trovarla, adotto una tecnica classica dei marinai che devo-
no trovare un’isola, che consiste nell’adottare una rotta volutamente “sbaglia-
ta” che mi porti decisamente alla sinistra dell’autostrada, prevedendo, giunto
presso la superficie, di virare a destra fino a trovarla (se cercassi di navigare
per raggiungerla e se la mancassi, cosa probabile, non saprei più se essa si
trova a sinistra o a destra e sarebbe un piccolo guaio).
Pensandoci bene, non è che Magellano abbia dovuto affrontare problemi
molto diversi. Solo... più tempo per risolverli, viaggiando a pochi nodi di
velocità, ma avendo l’ignoto innanzi a sé.
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Un viaggio commemorativo
Como-Napoli-Catania-Lampedusa-Fano-Como, per ricordare due amici
che non ci sono più.
Due amici, Enrico Recchi e Marco Merlo, volano da Cannes a Torino con un
Catalina. I serbatoi sono quasi pieni. Non riescono a fermare l’aereo sulla
pista bagnata e le due vite si immolano in un terribile rogo.
La famiglia di Enrico Recchi decide di commemorare il primo anniversario
della grave perdita delle due vite umane organizzando un rally aereo dal Nor-
ditalia fino a Lampedusa, luogo amato dal caro familiare scomparso. Franco
Panzeri, presidente del Club, decide di aderire all’iniziativa e richiede la mia
presenza a bordo come copilota del Lake Renegade I-AQVA.
Nel viaggio di andata la prima tratta è Como-Napoli, un volo che terminia-
mo di notte, descritto nel capitolo “Dirottamenti”. Ci accompagna Giorgio
Porta, che dovrà nei giorni successivi compiere alcune operazioni con il Mau-
le I-SKIA dell’Aergolfo.
Dopo aver fatto sosta a Catania per fare benzina, seguiamo la costa occiden-
tale della Sicilia passando al largo della base di Sigonella. Per fortuna la
visibilità è buona, perché dobbiamo fare una manovra diversiva per non entra-
re in collisione con un Galaxy americano in avvicinamento (non ci sentiamo
in colpa, avendo ricevuto istruzioni precise che ci hanno portato proprio lì).
L’atterraggio a Lampedusa è interessante, insistendo sull’aeroporto un ven-
to di 28 nodi esattamente al traverso dell’unica pista esistente. Abbiamo il
dubbio se sia meglio atterrare sulla pista con il vento al traverso o sul piccolo
raccordo e sul piazzale semideserto con il vento in prua. La saggezza consi-
glierebbe di optare per la seconda ipotesi, ma decidiamo di provare a fare un
avvicinamento normale per vedere come va. Il vento è forte, ma costante e
l’aereo, pur con una combinazione accentuata di bank angle e crab angle,
risulta molto stabile in avvicinamento e anche ben manovrabile, cosa che
verifichiamo facendo piccole continue correzioni. Dunque portiamo l’aereo
fino al suolo in quell’assetto curioso, facendo toccare prima la ruota sinistra,
poi la destra, ma sempre facendo volare l’aereo, e infine il ruotino anteriore.
La serata conviviale è gradevole e la cerimonia commemorativa toccante. Fa
una certa impressione trovarsi in un pezzo di Italia a latitudini africane.
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Alta montagna
Operazioni difficili in ambienti ostili, ma di sconvolgente bellezza.
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molto larghe, una specie di muraglione che delimita il lago. Questo è partico-
larmente ampio e presenta una caratteristica unica, il celebre campanile che
emerge dalle acque. È quello della chiesa di Curon Venosta, unico elemento
ancora visibile del paese sommerso in seguito alla formazione del lago artifi-
ciale. A turno ci giriamo intorno con Lake e Piper, per fotografarci a vicenda
vicino all’inusuale cimelio.
Felice Chiappa, pilota del Club, membro della spedizione, ingegnere e alto
dirigente dell’azienda che gestisce le centrali e gli invasi visitati, oltre che
molti altri, ci dice che oggi operazioni che prevedono di far sfollare la popola-
zione di un tratto di valle, come quella che ha creato il Lago di Resia negli
anni Sessanta, oggi sarebbero impensabili.
Decollare a 2000 metri è un’esperienza che qualsiasi pilota deve provare.
L’aria “sottile” toglie cavalli al motore, mentre la velocità di distacco dalla
superficie è più elevata, tutti fattori che concorrono a rendere lunga la corsa di
decollo e a tenere l’aereo incollato alla superficie nelle sue ultime fasi.
Quando si è faticosamente usciti dall’acqua si deve affrontare una salita a
potenza ridotta, un’esperienza particolarmente interessante se ci si trova da-
vanti il possente ostacolo di una diga. È questa una condizione in cui si può
apprezzare che cosa significa avere la pallina al centro o averla fuori di un
quarto, così come si può apprezzare la precisa conoscenza della configurazio-
ne e velocità di massimo angolo di salita.
La sera, dopo la bella esperienza di bush flying nel cuore delle Alpi, siamo
esausti, per il numero di ore volate e per la complessità delle operazioni
svolte, ma felici.
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Idea platonica di aereo per il bush, il Piper I-BUFF è anche in perfetto stato e
colorato di giallo, prestandosi benissimo a scene in cui si deve stagliare sugli
sfondi blu del cielo e delle acque, su quelli verdi della foresta e su quelli
bianchi della neve.
Portano l’aereo da Como al lago lo scrivente e Schettino, in una giornata
primaverile con un cielo pieno di nuvoloni che producono qua e là temporali.
Le Alpi Giulie, così come si possono apprezzare seguendo l’alto corso del
Tagliamento, sono spettacolari. Al lago si arriva staccandosi dalla vallata prin-
cipale e imboccando un’impervia e poco evidente valletta laterale.
La vista del lago, dopo mezza giornata di volo, è allietante, anche se fa
nascere tutti gli interrogativi che il pilota idro si pone quando deve posarsi per
la prima volta su una superficie, in particolare in alta montagna.
Il lago si presenta con le caratteristiche esaminate sulle carte? A volte la
superficie e le dimensioni si dimezzano, rispetto a quelle pubblicate, al calare
del livello delle acque. La risposta in questo caso è confortevolmente positiva.
In che direzione si deve ammarare? La valle è talmente stretta che vi sono
solo due direzioni possibili. Il vento pare assente, per cui si identifica la dire-
zione che consente la migliore riattaccata. Verso sud gli ostacoli sono più
bassi, quindi l’avvicinamento e l’ammaraggio saranno da nord a sud.
Che ostacoli vi sono sul sentiero di avvicinamento? Un’accurata ispezione
visiva non evidenzia ostacoli significativi, se non una linea elettrica, ma verso
il costone della montagna a una certa distanza, e i pini che contornano il lago,
una presenza del tutto normale e ben identificabile.
Vi sono ostacoli sommersi? La tipologia del lago fa escludere la presenza di
grossi ostacoli nel corpo d’acqua prncipale. A vista non si vedono ostacoli
significativi presso le rive, se non un evidente isolotto presso la riva settentrio-
nale, circondato da ben visibile rocce affioranti.
Ora l’altra domanda che ci si deve sempre porre prima di scendere: che cosa
faremo dopo l’ammaraggio? Dall’alto è facile osservare le rive e possiamo
identificare una serie di punti che si prestano all’approdo.
Ciò visto e valutato, Schettino procede all’ammaraggio lambendo le cime
dei pini sulla sponda settentrionale. Per virare in finale abbiamo dovuto proce-
dere verso nord per un paio di miglia, non consentendo la strettissima valle
una virata di 180° nemmeno al piccolo Piper.
Approdati a una rivetta erbosa poco degradante, ci rendiamo conto che il
terreno e il fondo sono molto compatti. Situazione ideale, che consente di
salire sulla riva con il carrello estratto e quindi di poter tirare in secca l’aereo
per la notte e i periodi di inazione.
Lavorare su un set è molto interessante. Ogni scatto richiede il lavoro di una
ventina di persone, inclusi noi piloti. La modella, Linda, originaria della Let-
tonia, ma che parla italiano perfettamente, è costretta a un lavoro infernale:
ferma, al freddo, per ore, con attorno persone che le danno continuamente
ordini e altre che sistemano ogni piccolo elemento del suo abbigliamento.
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Le giornate sono lunghe e lo stesso sono, per molte persone, i tempi morti.
Ecco che si creano molte occasioni di familiarizzazione. La sera tutti sono
stanchi morti, ma con una voglia bestiale di evadere dalle situazioni del dove-
re e del lavoro, che hanno impegnato per 12-15 ore. Dunque nasce spontanea
una voglia di chiacchierare, di conoscersi e anche di berci su qualcosa tutti
assieme o a piccoli gruppetti.
Con il passare del tempo si crea un vero spirito di gruppo, che alla fine dà un
senso alla tua vita, accompagnato da una sensazione di tristezza. Quel gruppo
di persone, in quella magnifica cornice, a fare quel raffinato lavoro, non si
ripeterà mai più nella vita. Si è creato qualcosa di bello e nobile, ma che è
destinato a svanire quasi subito. Ma ognuno sa che quel momento di vita,
quell’esperienza è destinata a lasciare qualcosa che ciascuno dei partecipanti
porterà con sé per sempre.
L’operazione, la cui durata prevista è di cinque giorni, prevede il cambio di
equipaggio. Allo scrivente e Schettino subentrano Paolo Zambra e Marco De
Vitis, che svolgeranno per i tre giorni successivi quel lavoro che per il pilota
idro è la più bella delle vacanze: su un laghetto di alta montagna, con un
idrovolante, a svolgere operazioni interessanti tra gente capace e simpatica.
Samaden
A mezz’ora di volo da Como si trova il più alto degli aeroporti europei, Sama-
den, poco a est di St. Moritz. Ci andiamo ogni inverno a sciare. Da Como si
percorre tutto il lago, si imbocca la Val Chiavenna, si gira a destra per la Val
Bregaglia, si passa il Maloja e si percorre tutto l’altipiano, abbellito dai laghi
di Misurina e Silvaplana (proibitissimo ammarare su quelle acque).
La Svizzera è un paese extraeuropeo, almeno per gli ordinamenti giuridici,
così che per andarci è necessario passare per due dogane. Partendo da Como si
deve chiamare la Polizia di Frontiera, la Dogana e la Guardia di Finanza.
Arrivando in Svizzera ci si trova di fronte di solito il solo funzionario di
polizia, che, al di là del formale controllo dei documenti, dà una bella “inqua-
drata” a tutta la combricola che scende dall’aereo per vedere se qualcuno
presenta un profilo in qualche modo a rischio. In quei frangenti il pronunciare
una o due frasi in dialetto, possibilmente con un’inflessione ticinese, aiutano a
fare sì che si produca subito un’aria rilassata e un amichevole «a’anti».
Samaden non è un aeroporto facile, soprattutto per gli aerei ad ala bassa,
soprattutto in estate. Il pilota dà motore, l’aereo fa una lunga corsa, si stacca,
galleggia a pochi decimetri dalla pista, ma non vuole saperne di lasciare in
modo definito il suolo grigionese. L’effetto suolo lo fa stare su, ma non appe-
na la distanza dal suolo aumenta, l’effetto viene meno e l’aereo torna giù.
L’esito è l’impatto dell’aereo con la recinzione o uno stallo a bassissima quo-
ta, se il pilota fa il disperato tentativo di tirare il volantino per salire.
Tanti anni fa, con il Lake Buccaneer, non mi sono trovato lontano da quella
condizione. Dopo il decollo l’aereo, carico, in un caldo giorno d’estate, in cui
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America
Dalla periferia dell’impero alla capitale del volo idro mondiale.
Prima di incominciare questo breve capitolo non posso non ringraziare gli
sponsor di due viaggi in America alla ricerca di idrovolanti da acquistare:
Michelangelo e Rocco Regine. I due fratelli erano i titolari dell’Aergolfo, la
società che si proponeva di avviare un’attività commerciale di idrovolanti nel
Golfo di Napoli.
A quei tempi, nel nostro paese, chi si faceva venire idee simili aveva meno
probabilità di riuscire di quante ne avesse un portatore di stella gialla sul
cappotto che fosse andato a chiedere una licenza per aprire un negozio nella
Varsavia occupata del 1941.
Perché questo caloroso ringraziamento? Semplice: provate ad andare in
America come pilota e cercate di affittare un idrovolante, provate a fare un
passaggio idro o provate semplicemente a prendere in mano il volantino, dal
posto di destra, di un idrovolante condotto da qualcun altro. Vedrete facce
scure, espressioni di diniego, smanacciate sulle vostre mani. Infatti, in Ameri-
ca, nessuno vi dà in mano un idrovolante, il cui pilotaggio è considerato tanto
raffinato che le assicurazioni sono solo personali e valide per piloti con molta
esperienza.
Per questo in America si vendono tanti idrovolanti. L’idrovolante in Ameri-
ca, in altri termini, lo puoi pilotare solo se lo possiedi. L’unica alternativa è
l’essere detentore, come persona, di una polizza-corpo del valore dell’aereo
che si intende affittare, sempre che la compagnia della polizza sia ben cono-
sciuta e di fiducia di chi vi dovrebbe dare in mano l’idrovolante. È superfluo
dire che l’arrivare a ottenere una simile polizza non è da tutti.
Provate invece ad andare in America con in tasca un importo indefinito di
dollari da spendere e girate alla ricerca di un idrovolante da acquistare. È
inutile dire che tutto è assolutamente diverso, dalla notte al giorno, dall’infer-
no al paradiso. Vuol dire camminare sempre su una passatoia rossa o alla
quota a cui si trova normalmente la portantina di Sua Santità il papa. Ebbene,
questo paradiso l’ho potuto assaporare per qualche piccolo boccone grazie
all’Aero Club Como, per cui ho acquistato in quel Paese cinque aerei, ma in
modo molto più sostanzioso grazie all’Aergolfo, per la quale sono andato alla
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frasi nel cielo con scie di fumo. Ovunque vi sia un aereo si è accolti come re e
si può volare con la massima facilità. Tanto è difficile farsi dare un idrovolan-
te, tanto è facile farsi dare un aereo “terrestre”. Ognuno degli oltre 20.000
aeroporti degli Stati Uniti fa di tutto per attirare visitatori da terra e dal cielo.
Per un pilota l’America è dunque come la Mecca per un mussulmano: biso-
gna andarci almeno una volta nella vita.
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Unje
In quel momento l’unico anfibio che il Club può elargire è un Piper. Dunque,
con la mia consorte Roos, a 70 nodi di velocità, raggiungo Venezia e, in una
facile traversata dell’Adriatico, l’Istria.
Siamo in vacanza per una settimana. Dunque alterniamo brevi voli da un
aeroporto all’altro della Croazia al soggiorno in belle città, al noleggio di
motociclette, con cui partiamo a esplorare le coste e l’interno. È emozionante
vedere dall’alto le abbondanti vestigia romane, come l’anfiteatro di Pola.
Siamo colpiti dall’umanità fiera e rude di quelle zone e non facciamo fatica
a immaginare molte delle persone con cui entriamo in contatto, nella veste di
albergatori, tassisti o negozianti, con il mitra in mano o davanti alla propria
casa colpita da una bomba nella recente guerra di secessione dalla Yugoslavia.
È comunque gente perfettamente capace di “accalappiare” il turista in un
sistema di perfetta accoglienza, prezzi bassi ed elevato senso del servizio. Una
bella concorrenza per sistemi turistici più “maturi”, come quello italiano.
Volare in Croazia è semplice e bello. Pare proprio che il principio sia: l’im-
portante è che veniate qui a spendere i vostri soldi; state certi che noi autorità
aeronautiche porremo il minimo di impedimento a questa vostra attività.
Ciò lo verifichiamo facilmente girando l’intero paese con la nostra radio
pressoché in avaria, che viene sentita “1”, così come sento 1-2 e a tratti le
comunicazioni dei controllori. Supplisco facendo ogni volta un piano di volo
molto dettagliato e attenendomici in modo molto preciso. La speranza è che
non ci caccino via, cosa che in effetti si guardano bene dal fare.
Giunto a Lussino, scopro che nella vicina isola di Unje c’è un aeroporto.
L’isola è un affascinante piccolo mondo, non avendo alcuna infrastruttura
stradale. Dunque dopo l’atterraggio sulla striscia di terra possiamo solo anda-
re in giro a piedi lungo le coste e nella macchia mediterranea dell’interno.
Dopo aver passato la giornata nel bellissimo villaggio e a fare bagni nel
magnifico mare, torniamo all’aereo. Trovo sul finestrino un biglietto da visita,
che indica il nome del panettiere del villaggio, senza altra indicazione. Qual-
cosa mi dice che devo chiamare quel numero. Il panettiere si rivela essere
anche il gestore dell’aeroporto, gentilissima persona, a cui infine paghiamo la
modesta tassa aeroportuale.
Bellissima è anche Zara, tutta costruita in stile veneziano.
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Myconos
Avventure nel profondo Mediterraneo alla fine degli anni Ottanta.
Non capita spesso che ti offrano un sacco di soldi per andare a fare un giro di
decine di ore in aereo in luoghi bellissimi, a meno che tu non sia un operatore
di idrovolanti...
In questo caso un produttore sta realizzando a Myconos, nel Mare Egeo, uno
spot pubblicitario per la Nestlé giapponese. Un messaggio viene diramato in
Europa: serve un idrovolante. La sceneggiatura prevede infatti la presenza di
un idrovolante in tre scene, per un totale di una dozzina di secondi. La curiosa
richiesta raggiunge Guido Natali, un produttore di Milano che è anche pilota,
il quale ci contatta immediatamente. L’affare è fatto. A bordo, oltre al sotto-
scritto, ci sarà lo stesso Natali e Lanfranco Galli, destinato a diventare di lì a
poco pilota dell’Alitalia.
La prima scena ha come set la più bella villa privata dell’isola, l’unica che si
affaccia su una baia isolata. La villa è costruita su rocce rosse, come quelle
dell’Esterel, e in quelle che la separano dal mare è scavata una piscina, comu-
nicante con il mare. Sul bordo di questa piscina naturale i due protagonisti,
marito e moglie, accolgono la sorella di lei con il relativo marito. Come arri-
vano i due ospiti? Proprio con l’idrovolante, che è ritratto sullo sfondo della
scena dei saluti e abbracci, mentre si allontana.
La seconda scena prevede che l’idrovolante sia ripreso mentre vola molto
basso su meravigliosi fondali in cui il blu intenso delle acque è frammisto a
varie tonalità di verde della ricca vegetazione che sta appena sotto il pelo
dell’acqua. Per trovare i migliori fondali giriamo per molte ore lungo le rive
delle Cicladi: la stessa Myconos, Paro, Antiparo, Santorini e altre.
La scena è ripresa da un elicottero attrezzato in modo speciale, con una
struttura alla quale è appeso l’operatore, uno specialista in questo genere di
riprese fatto giungere dalla California. Dopo la prima giornata di riprese di
questa scena il regista decide di buttare via tutto. Le riprese non vanno bene.
La causa è attribuita al fatto che il pilota dell’elicottero dell’Olympic Airways
non parla inglese e non riesce a capire le esigenze del regista.
Il giorno seguente, licenziata l’Olympic, viene affittato un altro elicottero di
una compagnia privata di Atene, con pilota che parla inglese. Si rifà tutto e in
effetti, parlando tutti la stessa lingua, il coordinamento è perfetto e ne escono
riprese altamente soddisfacenti.
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mito di Atlantide. La città si stende sulle pendici del resto di cono vulcanico
sopravvissuto alla distruzione. Il ciglio della caldera ospita le ultime file di
casette bianche, alcune delle quali sono erette già al suo interno, aggrappate
alle ripide pareti. Vista da lontano, la scena appare come se una spuma bianca
fosse risalita sui fianchi del vulcano e abbia incominciato a riversarsi nella
caldera, solidificandosi in quel momento. Un volo “di cresta” a pochi metri
dal ciglio così curiosamente inurbato offre una visione unica e un’emozione
indicibile.
Quell’impresa ci ha lasciato un’eredità. Il Lake 250, all’origine in colore
mimetico marino, giunto a noi ridipinto in un colore blu scuro, è divenuto
infine bianco su richiesta del regista, per esigenze di scena, ed è poi rimasto
definitivamente di quel colore.
Un’altra eredità la abbiamo avuta nel settore della cultura meteorologica.
Nel viaggio di andata ci siamo trovati di fronte a un immenso e altissimo
cumulonembo, che poi si scoprirà avere avvolto l’intero Peloponneso. Per
evitarlo e aggirarlo abbiamo vagato pazientemente per qualche ora nell’Egeo,
raggiungendo anche Creta, a quote tra i 12.000 e i 14.000 piedi (autonomie e
quote rese possibili dalle eccezionali caratteristiche del Lake, che prudenzial-
mente avevamo ben rifornito). Ebbene, nel corso di queste peregrinazioni, ci
siamo trovati in varie occasioni vicini all’area più attiva. Ricordo di avere
visto a un certo punto uno spettacolo unico, mai visto prima e mai più visto
dopo: volando intorno ai 13.000 piedi, innumerevoli cumuli molto circoscritti
crescevano a velocità rapidissima verso l’alto, come enormi vermi che si erge-
vano dal terreno verso l’alta atmosfera. Lo spettacolo era grandioso, ma tale
da terrorizzarci, in quanto poteva farci prevedere che in pochi minuti sarem-
mo stati inclusi in quella selva di pericolose e “solide” ascendenze. Dopo un
attimo di sgomento, le mani di pilota e copilota ruotavano all’unisono il vo-
lantino fino a fare compiere all’aereo una virata di 90°, dirigendolo lontano
dall’area interessata da quegli inusuali fenomeni.
Un altro bel ricordo di quel viaggio è l’incontro a Corfù, al ritorno, di due
elicotteri Chinhook dell’aviazione britannica e in particolare del comandante
di quella spedizione.
Siamo nella piccola sala AIS-MET dell’aeroporto, chinati in due sulle carte,
con documenti di vario genere sparsi sul tavolo, intenti a pianificare la rotta di
ritorno. A un certo punto entra un militare in divisa operativa estiva, con
calzoni corti e calzettoni, distintissimo, due baffi all’insù, passo deciso e oc-
chio che dopo un battito di ciglia aveva già catalogato in ogni dettaglio tutto
quello che c’era da vedere nella stanza.
Si ferma mezzo secondo, ci guarda. «Good morning.» Rispondiamo a tono,
ma rimanendo più o meno stravaccati nelle posizioni tipiche “da pianificazio-
ne” in cui ci troviamo. Lui - lo abbiamo capito dopo - è uno di quelli che si
aspetta che quando dice “Buongiorno” tutti gli astanti siano già in piedi, in
una postura perfetta, e che rispondano in una frazione di secondo con un tono
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Rovaniemi
Un’avventura nell’estremo nord europeo.
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paia di occhiali, uno per parlare con le persone e l’altro per scrivere; il terzo
paio, per così dire, era un binocolo, che alternava agli occhi, con velocissimi
movimenti, alle due paia di occhiali: un’occhiata fuori a uno degli aerei in
movimento sul piazzale, cambio con gli occhiali da lettura per annotare le
marche sul registro, cambio con gli altri occhiali per dare retta a noi; all’orec-
chio gli giunge un ronzio, inforca freneticamente il binocolo, che punta come
un set di mitragliatrici contraeree binate: «Quel bastardo, l’altra volta mi ha
fottuto, ma questa volta lo fotto io». E così via tutto il giorno.
Sempre in Svezia abbiamo acquistato in un negozio di materiale aeronauti-
co un portolano di tutte le basi idro della Scandinavia. Non avendo moneta
locale e non funzionando occasionalmente la mia carta di credito, il titolare
non ha avuto la minima esitazione: «Per carità, tenete la pubblicazione, che vi
serve proprio con il vostro idrovolante. Quando sarete tornati a casa, fatemi
con comodo un bonifico bancario.» Altra lezione. Là funziona tutto così.
Della Finlandia conservo il ricordo degli aeroporti autostradali. Perché af-
frontare la spesa di un aeroporto quando il territorio è pervaso da superfici che
si possono usare come piste? È così che, qui e là, due chilometri di autostrada
sono un po’ più larghi del normale e chiusi da sbarre, come quelle dei passaggi
a livello, che si abbassano, bloccando il traffico, per quel paio di minuti che
servono a un aereo di linea per decollare o atterrare. A fianco, in luogo di una
stazione di rifornimento o un autogrill, si trova una completa aerostazione,
con torre di controllo, piazzale di parcheggio degli aerei e tutto il resto.
Così la Finlandia ha centinaia di aeroporti, ma anche di superfici adatte a un
atterraggio di emergenza. A volte basta un pizzico di genio per ottenere con
poco risultati clamorosi! È inutile dire che in Italia, il paese che ha sacralizza-
to - anzi, deificato - l’auto, contravvenendo a uno dei comandamenti originari
(“Non avrai altro dio al di fuori di me”), la brillante soluzione descritta non
potrebbe mai essere adottata.
Rovaniemi si rivela una bellissima cittadina “di frontiera”, ovvero oltre la
quale si stende solo una natura sterminata e perlopiù inospitale. Inoltre è la
capitale della Lapponia e offre molte possibilità di conoscere la storia e la
cultura dell’affascinate etnia dei Lapponi.
Il fatto che in pieno agosto la temperatura sia intorno allo zero e che siamo
bloccati per un giorno da una tempesta di neve rende la visita ancora più
affascinante. Conseguenza del clima è l’organizzazione degli alberghi. Cia-
scuno è strutturato per poter affrontare l’eventualità che rimanga letteralmen-
te sepolto sotto la neve e isolato. Ogni stanza è fornita di tutto ciò che serve
per affrontare una lunga prigionia, come se fosse un rifugio antiatomico.
Si prova una forte sensazione di intimità quando ci si trova al sicuro, tra
quelle mura amiche e tra quella gente oltremodo ospitale.
Il viaggio di ritorno avviene senza problemi fino alla Germania. Poi di
nuovo il maltempo. Il ceiling è bassissimo, di 300-500 piedi, ma individuo un
percorso lungo fiumi e canali - ricordo il Mittellandkanal - che ci consente di
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Oslo
Un interessante ferry flight
Guai agli aerei rumorosi e guai a chi li usa, soprattutto se opera nel centro di
una città. È così che il Cessna 185 che abbiamo acquistato lo abbiamo dovuto
prima fermare per sei mesi, poi mettere in vendita. Impossibile usarlo a Como.
Troppo rumoroso.
L’acquirente è un norvegese, che paga sull’unghia la cifra richiesta, ma
vuole che l’aereo gli sia consegnato a domicilio. Ottima occasione per fare un
bel viaggetto, per me e Giorgio Porta. Poco prima della partenza, chiede che
passiamo per Lienz a caricare un suo amico. Proprio nell’andare tra Malpensa
e la città austriaca mi capita l’avventura descritta nel capitolo “Per un pelo”.
Di questo viaggio sono degne di nota poche cose. La prima è un’ispezione
doganale di incredibile minuzia che abbiamo dovuto subire ad Alborg, in
Danimarca. Infine abbiamo compreso che tra i paesi scandinavi esiste un
accordo: non appena un aereo sospetto giunge nel primo aeroporto di uno dei
paesi, deve essere controllato a fondo. Ma perché sospetto? Un idrovolante è
già una cosa strana e quelle due enormi cose che ha lì sotto sembrano fatte
apposta per nascondervi qualcosa. In più è italiano ed è passato per l’Austria.
Tutte cose che non possono lasciare dormire sonni tranquilli a un doganiere
smaliziato.
Dopo avere smontato tutti i pannelli dei galleggianti, avere ispezionato ogni
centimetro quadrato della cabina, guardando anche dietro a tutte le pannella-
ture, e ispezionato i bagagli, ci lasciano andare.
È molto suggestivo giungere nel golfo di Oslo alle 11 di sera, volando
ancora nella luce diurna, in quell’eterno crepuscolo dell’estate boreale tipico
delle alte latitudini.
Il giorno successivo, rimasto solo, raggiungo l’aeroportino di destinazione,
a un’oretta di volo da Oslo. La pista è tagliata a metà da una strada di una certa
importanza. Quando un aereo deve decollare o atterrare si abbassano le sbarre
e il traffico stradale è interrotto, finché l’operazione aerea è conclusa. Per
questo, alla partenza da Oslo, mi dicono due o tre volte che non posso assolu-
tamente scendere in quell’aeroporto se non espressamente autorizzato dalla
torre di controllo. In caso contrario, potrei facilmente trovarmi davanti, nella
corsa di decelerazione, un’automobile.
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Già che mi tocca fare il viaggio, ho concordato con l’acquirente, che possie-
de un’azienda di trasporto pubblico con idrovolanti ed elicotteri, che mi sarei
fermato qualche giorno per prendere conoscenza delle operazioni da loro svolte.
Dunque posso partecipare come copilota occasionale a molte operazioni che
l’azienda svolge in quei giorni.
Tra le varie avventure, un bel trasporto di pacchi tra la base dell’idrovolante
e Oslo, un viaggetto breve, normalmente, ma da svolgere in condizioni di
tempo pessime: base delle nubi a poche centinaia di piedi, turbolenza molto
forte e precipitazioni di pioggia, nevischio e neve. Oslo, in quelle condizioni,
è raggiungibile solo circumnavigando a 300-400 piedi dalla superficie il lobo
sudoccidentale della penisola scandinava, quindi in più di tre ore di volo.
Il pilota sa che anch’io sono pilota, ma non mi conosce. È dunque in appren-
sione quando la turbolenza ci fa quasi picchiare la testa sul tetto del 206, ma la
mia totale noncuranza per quel tipo di evenienze - devo confessare, lievemen-
te ostentata, per fare capire di che stoffa sono i piloti italiani - lo tranqullizza.
Invece ci sono momenti di comprensibile apprensione, da parte sua, per la
navigazione. In sintesi, volando nel nevischio e seguendo coste frastagliate e
sequenze infinite di fiordi, capi e insenature, a un certo punto è umano che si
perda la cognizione esatta di dove ci si trovi esattamente.
Dal posto di fianco, non oberato dalle problematiche di conduzione del
mezzo, dotato di una magnifica carta su cui seguire il percorso, tutto è invece
molto più facile. Un’occhiata agli elementi del paesaggio così come si presen-
tano alla vista, un’occhiata alla bussola per “disporre” quegli elementi nel
giusto orientamento, un’occhiata alla carta per riconoscere su di essa gli stessi
elementi, un’ulteriore occhiata di controllo agli elementi del paesaggio e una
alla lancette dell’orologio e il gioco è fatto. In altri termini, in ogni istante sai,
con un buon livello di precisione, dove ti trovi. Ciò lo evidenzio, come fanno
sempre i piloti, tenendo la carta sempre accuratamente orientata con la dire-
zione che la prua dell’aereo ha in quel momento verso l’alto e tenendo il dito
pollice esattamente sulla posizione dell’aereo.
La cosa non sfugge al pilota, che fa la stessa cosa, ma in modo più incostan-
te, dovendo anche condurre l’aereo, cosa impegnativa, dovendosi cavare gli
occhi per essere certo di non finire contro il crinale di un fiordo, così che
confronta regolarmente la posizione del suo pollice con quella del mio.
Per inciso, il pilota norvegese, contrariamente a quanto si potrebbe immagi-
nare, non parla inglese. Nondimeno, la lingua dei navigatori che indicano il
punto-nave su una carta con il pollice è universale ed estremamente compren-
sibile, soprattutto in caso di bisogno. E per me è un piacere poter contrbuire in
modo fattivo allo svolgimento di quel volo.
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ce n’è uno con sole 410 ore da nuovo, con motore ed elica a zero ore.
Il posto dove si trova, Sandefjord, è a un’ottantina di chilometri a sud di
Oslo, quasi sul mare. Il proprietario non ha l’abilitazione idro e non è mai
sceso in acqua con l’aereo. Ci accoglie molto gentilmente e - incredibile
sorpresa - mi dà le chiavi dell’aereo da provare a mio piacimento, senza voler
nemmeno salire a bordo. Non avrei mai pensato che ciò potesse succedere.
È bello poter pilotare un aereo che amo e dal quale il destino mi ha tenuto
separato per anni. Anzi, bellissimo.
Faccio due giri, uno con Schettino e Danilo, l’altro con Mario Camozzi. Né
Schettino né Camozzi conoscono il Lake, quindi i voli sono una specie di
dimostrazione, che permette a me di ripassare le manovre dopo anni di inatti-
vità sul modello e a loro di conoscere di che cosa è capace un Lake. Dopo il
decollo dirigo verso il mare e in un largo fiordo, circondato da paesini nordici
e belle residenze private, scelgo un’area per fare attività sull’acqua.
Proviamo ammaraggi di vario tipo, flottaggi in dislocamento e sul redan,
decolli circolari e ogni altra manovra significativa, che il Lake affronta bril-
lantemente. L’essere in tre a bordo con solo metà del serbatoio centrale pieno
conferisce al Lake un’esuberanza impressionante. La cosa che colpisce di più
il neofita è la brevità della corsa di decollo, ma soprattutto l’angolo di salita
dopo il distacco. Un’altro aspetto impressionante è come il Lake possa essere
strapazzato in discesa per farlo “precipitare” come un ferro da stiro, qualora
ve ne sia la necessità. Ciò che tuttavia lascia letteralmente a bocca aperta chi
ha fino a quel momento volato solo su aerei con galleggianti è la visibilità.
Volare su un Lake è come essere su un balcone proteso nel paesaggio.
Esito della visita: l’aereo è immacolato, lo scafo non ha fatto una goccia
d’acqua, motore e impianti sono nuovi, ma gli interni sono da rifare e il
cruscotto va completato con parecchi strumenti. Inoltre il prezzo è alto. Fini-
sce che decidiamo di non prenderlo, anche perché, al momento, il mercato
mondiale è fiacchissimo e si possono trovare aerei non proprio così immaco-
lati, ma a un prezzo inferiore. Infine prenderemo un Lake Renegade.
Ospiti graditissimi
Nella tarda primavera del 2004 una delegazione di norvegesi, accompagnata
da due svedesi, arriva a Como. Sono tutti piloti idro che hanno passato la loro
vita in compagnie aeree e in particolare alla SAS. Organizzatrice del viaggio è
Evelyn Bakken, ex assistente di cabina, pilota idro da molti anni, segretaria
della Seaplane Pilots Association norvegese.
Grazie ai nostri interventi su Internet e in particolare nel forum della Seapla-
ne Pilots Association, ha scoperto l’esistenza della base di Como ed è entrata
in contatto con noi. Dopo aver ricevuto il mio libro Seaplane Operations ne ha
richieste un centinaio di copie da distribuire nei paesi scandinavi.
Como le è piaciuta. Tornerà e noi andremo presto a trovarla in Norvegia con
i nostri idrovolanti. Proprio un bel rapporto, con una persona appassionata.
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Avventure di volo
Biscarrosse
Come tenere viva la tradizione del volo idro anche senza idrovolanti.
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Avventure di volo
materiale. L’impressione è ancora più grande se pensiamo che noi piloti co-
maschi a quell’epoca siamo del tutto ignari della storia dell’aviazione nel
nostro stesso territorio, abbiamo pochissimi documenti sulla stessa e non ab-
biamo conservato alcun oggetto. Nei decenni precedenti i Caproni e i Macchi
- aerei di legno - che si danneggiavano, venivano fatti a pezzo e bruciati nelle
stufe del Club, per risparmiare in carbone.
Per contro a Biscarrosse vivono unicamente nella storia e addirittura non
sanno che in Europa vi sono alcuni idroscali e idrovolanti che solcano acque e
cieli. Non sanno dell’esistenza della base di Como, per esempio.
Eccomi dunque a proporre una specie di gemellaggio: «voi avete tanta sto-
ria, noi abbiamo tanti idrovolanti; perché non organizzare qualcosa qui, nel-
l’antica base Latécoère, con i nostri idrovolanti?». Madame Vié è una di quel-
le persone a cui una frase del genere attiva stimoli in un paio di miliardi di
sinapsi. In un secondo deve avere immaginato tutto quello che sarebbe suc-
cesso negli anni seguenti. Intanto ci ripromettiamo di organizzare un evento
sperimentale nell’autunno che sta per venire.
Madame ottiene in breve tutte le autorizzazioni, mentre a Como decidiamo
che andare a Biscarrosse con un anfibio è troppo facile. Per onorare la grande
tradizione idrovolantistica francese - e per divertirci di più - pensiamo di
andarci con due piccoli idrovolanti. Si tratta del Cessna 172 I-BISB e del
Piper I-CGAN. Gli equipaggi sono, sul primo, Baj-Confalonieri e sul secondo
i fratelli Gerolamo e Paolo Gavazzi.
Il volo è certamente il più complesso mai compiuto con idrovolanti di Como,
richiedendo una notevole organizzazione per i rifornimenti e la risoluzione di
problemi doganali (destinati a scomparire un decennio dopo, in seguito alla
firma del trattato di Schengen).
L’anno successivo, nel 1992, la manifestazione e raduno di idrovolanti sono
molto più strutturati e si svolgono tra il 18 e il 22 giugno. I comaschi vi
giungono con il Lake Renegade dell’Idrovoli. Presenti, in questa edizione ben
quattro aerei a scafo, tutti nati dalla mente progettuale di David Thurston: due
Lake Renegade (il nostro e quello del tedesco Helmuth Mayer), il Lake Buc-
caneer dell’inglese Bob Willis e il Thurston Teal dell’australiano Kenn Hee-
ley, residente in Inghilterra. Quest’ultima è la macchina più interessante del
raduno, non per le sue caratteristiche, che la rendono decisamente inferiore ai
Lake, ma per la sua rarità.
David Thurston è un leggendario progettista di idrovolanti che ha contribui-
to alla nascita di molti Grumman, del Lake, del Teal e più recentemente di
altre macchine anfibie a scafo.
Il Teal, dotato di motore Lycoming da 150 HP, può portare due persone più
una terza leggera nell’unico posto posteriore, trasversale, e ha fino a 7 ore di
autonomia. Un’occhiata rivela immediatamente l’intento del progettista: quello
di offrire una macchina semplice, economica e altamente affidabile.
Oggi rimangono nel mondo una quindicina di Teal volanti (uno non volante
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Vichy
Un sito ideale per operare con gli idrovolanti... sempre che si sia capaci di usarli.
La voglia di volare sull’acqua “si attacca”. Visti per caso gli idrovolanti di
Como a Biscarrosse, presso Bordeaux, nell’ottobre del ’91, e constatata l’af-
fluenza di pubblico da essi provocata, gli organizzatori della fiera internazio-
nale di Vichy hanno pensato di organizzare nella bella città termale un raduno
europeo di idrovolanti, che si terrà poi dall’8 all’11 dell’aprile 1992.
Le operazioni si svolgono nel tratto dell’Allier su cui si affaccia il centro
cittadino, reso particolarmente largo e calmo da due ponti che fungono da
sbarramento. Il bacino è normalmente usato per gare di canottaggio e di moto-
nautica e come lido. Sulle rive si trovano alcuni dei migliori ristoranti della
regione, campi sportivi, il galoppatoio, il centro-congressi e fieristico. Il tutto
è molto piacevole, la cornice ideale per operare con gli idrovolanti e per
passare qualche giorno di vacanza.
Vichy è proprio nel centro della Francia, forse uno dei criteri che l’hanno
fatta scegliere come capitale dell’amministrazione del generale Petain, presi-
dente imposto dagli occupanti tedeschi. Da Como sono circa 500 km in linea
d’aria. La rotta diretta è Como-Aosta-passo del Piccolo San Bernardo-Cham-
bery-Lione-Roanne-Vichy. Con le Alpi intransitabili la rotta si allunga molto,
passando per Savona, Nizza, Marsiglia, la valle del Rodano fino a Lione e poi
Vichy: una distanza doppia.
La spedizione avrebbe dovuto essere fatta con due Lake, un Buccaneer e un
Renegade, e con un Cessna 172, ma, come spesso avviene, non tutti gli aerei e
i piloti sono disponibili al momento della partenza, così che solo il Renegade
pilotato da Franco Panzeri e dallo scrivente prende la via della Francia.
C’è una netta situazione di Stau e Föhn e il tempo è quindi bellissimo fino
alle Alpi. Di là è tutto nuvolo e sembra proprio che le nubi siano sprovviste di
documenti doganali, arrivando esattamente allo spartiacque, pressoché coin-
cidente con la frontiera. Ma su Lione ci sono cinque ottavi e la cosa ci induce
a continuare, a livello 125, fino a quando si troverà il “buco” per scendere.
A -20 °C le esalazioni di vapore acqueo di quattro persone nell’abitacolo
ghiacciano all’istante al contatto con le finestrature, che si ricoprono di uno
spesso strato di brina, così che un continuo raschiamento con carta di credito è
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Gli errori commessi da un pilota o i capricci del caso devono essere noti a tutta
la comunità dei piloti, affinché il rischio che si ripeta un certo incidente sia
ridotto. Chi compie una manovra azzardata o si avvicina molto a una condi-
zione critica, pur senza la minima conseguenza, deve fare partecipi di quanto
è successo i colleghi e i componenti della comunità di piloti. Ciò non nello
spirito di una confessione liberatoria per la propria coscienza, che peraltro
può essere salutare, ma perché tutti siano al corrente della sequenza di eventi e
di scelte che, in quel caso, hanno portato quasi all’incidente. Le stesse condi-
zioni possono infatti ripetersi per altri.
Torniamo agli ultimi due giorni della manifestazione. Finalmente il bel tem-
po. E con esso il piacere di volare sulla bellissima cittadina e sulla campagna
francese, nonché di operare sul tratto di fiume a noi riservato. Decollare,
volare e ammarare presso il centro di una città è sempre emozionante.
La popolazione non sembra infastidita dal rumore, ma anzi attratta da esso.
Nei decolli passiamo di fianco al quinto o sesto piano di un alto palazzo e a
ogni balcone molte persone si godono lo spettacolo e salutano. Inoltre gli
eventi del giorno precedente non sembrano avere minimamente ridotto la
voglia di volare sugli idrovolanti. Moltissime persone salgono sui due Lake
presenti e sui molti ultraleggeri per avere il loro battesimo dell’aria (per curio-
sità, il contributo dato per un volo su una macchina che costa 20 000 $ o - in
quel momento - 380.000 $ è lo stesso; l’importante è volare).
Tra i convenuti c’è lo stato maggiore dell’associazione francese dei piloti di
idrovolante e in particolare il neoeletto presidente Hubert de Chevigny, co-
struttore dell’Explorer, un anfibio bimotore sperimentale particolarmente spa-
zioso, ideato come casa-volante/navigante adatta a visitare paesi lontani e
addobbato all’interno anche con vasi di fiori, in un vero spirito “New Age”.
Si parla molto della necessità di fondare un’Associazione europea di piloti
idro, con lo scopo primario di proporre una normativa unificata e il meno
restrittiva possibile sull’impiego delle idrosuperfici. Como è da tutti indicata
come la capitale morale e reale del volo idro in Europa, ma ad altri appare
evidente che la sede debba trovarsi in Francia. Ciò deriva dalla constatazione
che a Como pensiamo solo a volare (il che è tutt’altro che male, beninteso!),
ma che il livello di coscienza del nostro possibile ruolo nel panorama mondia-
le del volo idro è basso. In Francia, invece, non vi sono idrovolanti, ma si
organizzano raduni di livello europeo, c’è l’unica associazione di piloti idro o
simpatizzanti tali dell’Europa centromeridionale e un importante museo sulla
storia dell’idroaviazione, dotato di un ricco centro di documentazione, il Mu-
sée de l’Hydraviation di Biscarrosse.
Un piccolo contributo organizzativo noi di Como lo diamo comunque, con
la proposta del logotipo per la carta intestata. In realtà il nostro contributo
essenziale e di alto valore lo diamo mettendo la nostra ininterrotta e - in quel
momento - sessantennale esperienza e la nostra non disdicevole flotta di otto
aerei a disposizione della comunità idroaviatoria europea.
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Le Bourget
L’aeroporto francese, ove approdò Lindbergh, è la meta del mio primo viaggio
impegnativo all’estero, molto istruttivo per la presenza al mio fianco, almeno
per una parte, di un vero maestro nelle arti del volo: Cesare Musumeci.
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tempo, dopo una settimana brutta, si è fatto bello, anzi, bellissimo. Tutto il
Nord Italia è libero da nubi, ma tira un vento molto forte. La meteo francese
presenta invece una situazione drammatica: tutta la Francia è coperta da nubi
e piove dappertutto. Esaminiamo la situazione con Musumeci e lo convinco:
«Vieni anche tu nel viaggio di andata. Tu ritorni immediatamente con la linea;
noi torniamo tranquillamente, quando il tempo è buono. Ci metteremo quel
che ci metteremo, ma intanto la missione è compiuta. Comunque con quel
tempo in Francia non me la sento di andare da solo.» Musumeci guarda i
metar/taf e si rende conto che io non sarei mai in grado di portare l’aereo a
Parigi. Dunque accetta.
Ho un’altra esigenza e la dico a Musumeci: «Senti, è la prima volta che
faccio un viaggio lungo all’estero; nel ritorno sarò preso con le carte e le
comunicazioni in inglese. Devo portarmi dietro uno che almeno mi sappia
tenere l’aereo dritto». Musumeci tergiversa: «Ma sei proprio una lagna. Pensa
che ogni lira che spendiamo per il tuo aiuto-pilota, alberghi, ristoranti, è una
lira in meno per il Club». Musumeci fa infine una proporzione tra il costo di
qualche giorno di vitto e alloggio di quella persona e l’enorme cifra che aveva
ottenuto per l’operazione; fatto sta che partiamo in tre: Musumeci, io e Diego
Bianchi, in possesso da qualche settimana del brevetto di primo grado e quin-
di in grado di tenere in mano un volantino e di tenere l’aereo con le ali
livellate e con un certa prua, tutto quello che richiedo da lui. In poche parole,
il buon Diego deve svolgere il ruolo di un autopilota umano, oltre che di
simpatico compagno di viaggio.
Ci facciamo portare a Genova. Facciamo benzina, saltiamo sull’aereo e
decolliamo in un vento di una trentina di nodi. Prima tappa: Lione. La tratta si
svolge per tutta la prima parte sugli Appennini, poi sulle Alpi, poi sulle prealpi
francesi. Insomma, si svolge quasi tutta in montagna.
Saliamo dunque subito fino a 12.000 piedi, proseguendo a quella quota, che
ci consentirà di attraversare le Alpi Marittime. Da quella quota abbiamo sotto
i nostri occhi l’intera pianura Padana e l’arco alpino per centinaia di chilome-
tri. La condizione di visibilità è eccezionale, di quelle che capitano in poche
giornate all’anno.
Voliamo a una temperatura di -28 °C. Al mio primo accenno a toccare la
levetta del riscaldamento, che sul Lake è a bruciatore di benzina, Musumeci
mi prende delicatamente ma fermamente la mano e la trattiene. «A questa
quota, se qualcosa con il bruciatore va storto, quanto tempo ci mettiamo a
ritornare a terra? Dovevamo accenderlo appena dopo il decollo, non ora.»
Retraggo dunque la mano dal pulsante, ripromettendomi che mai avrei attiva-
to il riscaldamento sul Lake senza averlo prima provato a bassa quota.
Intanto, passato oltre lo spartiacque, i magnifici picchi innevati delle Alpi
hanno lasciato il posto a una superficie grigia perfettamente definita, che si
stende circa 2000 piedi sotto di noi. Qua e là, soprattutto verso nord, da questa
superficie si vedono emergere le cime dei monti più alti. La Francia è intera-
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mente coperta, per quel che possiamo vedere, da una spessa coltre di nubi.
Voliamo on top per un’altra ora, finché Musumeci, dopo aver trasformato il
volo da VFR a IFR, ci annuncia l’avvicinamento a Lione e l’inizio della
discesa. Timidamente sussurro: «Beh, faremo ghiaccio...». Musumeci mi ri-
sponde come farebbe un pilota acrobatico a un passeggero che gli dicesse,
durante un looping: «Ma così vedremo il mondo alla rovescia».
«È evidente che faremo ghiaccio. Ma a queste quote e temperature non è
tanto male. Scivola via. Sarà peggio quello che si formerà a quote più basse.
L’importante è scendere sempre, fino a destinazione, e tenere il motore bello
brillante e una bella velocità.»
Viene il momento dell’ingresso in nube. È la mia prima volta: una vera
emozione, accentuata da quel che succede subito dopo. Nel giro di tre o quat-
tro secondi l’aereo si riveste letteralmente di ghiaccio. Non che ci sia qualcosa
da vedere, fuori, ma vedere il ghiaccio dilagare sui vetri anteriori a vista
d’occhio e capire che ha fatto uno strato di un certo spessore fa senso a un
pilotino della mia esperienza. E fa ancora più senso quando penso che quello
stesso strato riveste ora le ali, la fusoliera, i galleggiantini, le superfici mobili,
le antenne, che tenta di appiccicarsi sulle pale dell’elica, che in realtà benefi-
ciano di un particolare sistema antighiaccio che solo pochi aerei - quelli con
elica spingente - hanno: i tubi di scarico.
Vedendo Musumeci tranquillo e pacifico, lì sul sedile di destra, azzardo
qualche commento: «Ma come faremo ad atterrare a Lyon Bron se le finestre
sono rivestite di ghiaccio e non vediamo nulla?» A commenti di questo genere
Musumeci risponde lievemente spazientito, ma in fondo capendo che qualco-
sa si deve pur insegnare a questi novellini che ha a bordo. Con la voce mono-
tona dell’insegnante e gli occhi al cielo recita: «La base delle nubi a Bron è a
800 piedi. Piove. Lo zero è 3 o 4 mila piedi più in alto. Quindi usciremo dalle
nubi quando il ghiaccio sarà già stato lavato via dalla pioggia. Alla peggio
faremo qualche giro sul beacon finché si scioglie del tutto. L’importante è
tenere sempre una bella velocità. Intanto stai tranquillo e pensa a pilotare.»
Succede tutto come è stato previsto da Musumeci, che ha al suo attivo
centinaia di attraversamenti alpini su piccoli bimotori, diurni e notturni, con
qualsiasi tempo. Si vede chiaramente che, al contrario di noi, lui è più tran-
quillo quando vola in IFR che quando vola in VFR.
A Lione giungiamo ormai verso sera. Prevediamo di dormire lì. Il mattino,
dopo essere ripartiti con un piano di volo VFR, voliamo in un ceiling sempre
più basso finché Musumeci butta avanti la manopola della miscela, la manetta
dei giri dell’elica e quella del gas ed entra decisamente in nube, iniziando la
salita. «L’unica è andare avanti in IFR.» Chiede il livello IFR più basso, che
eviti il rischio di volare in condizioni di ghiaccio. Sono 6000 piedi, quota alla
quale andiamo fino a Parigi, volando a una temperatura di due o tre gradi
sopra lo zero, sempre in nube. Io piloto l’aereo e tengo la quota e le radiali che
Musumeci mi dice, mentre lui, che è il vero comandante, anche se si trova
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Avventure di volo
seduto sul seggiolino del copilota e non toccherà mai i comandi, guarda le
carte e parla alla radio.
Scesi a terra, Musumeci prende subito un taxi per andare al Charles De
Gaulle, da cui tornerà a Milano.
Noi conosciamo Bernard Duchateau, a cui consegniamo l’aereo. Bernard
- diventeremo amici poi - pilota tutti gli aerei della compagnia per cui lavora,
tra cui Lear Jet, Falcon, Boeing 727, ma ha una grande esperienza anche su
aerei leggeri. Si è formato come militare. Da ragazzo ha fatto tutta la guerra in
Algeria. Racconta di come facevano azioni antiguerriglia, in villaggi isolati,
interamente dall’aereo. Identificavano, inseguivano e stanavano i guerriglieri
stando in volo, passando in voli a coltello tra i suk del villaggio o girando
quasi in stallo intorno a casolari isolati, mitragliando in modo selettivo, per
non colpire persone estranee, ma infine facendo uscire e arrendere il nemico.
A quel punto intervenivano le truppe di terra. Insomma, facevano le stesse
cose che faranno dopo qualche anno gli americani in Vietnam, con la differen-
za che gli americani useranno elicotteri, mentre i francesi in Algeria usavano
aerei. Ciò per dire che un pilotino di secondo grado neobrevettato quale ero io
non ha avuto alcun problema a consegnare nelle mani di un pilota con quella
storia il piccolo Buccaneer.
Dopo un paio di giorni di gozzoviglie e visite a musei, tra cui il Musée de
l’Air et de l’Éspace, che ha sede proprio a Le Bourget, torniamo a prendere il
nostro aereo. Lo troviamo in condizioni smaglianti. «Sapete, dovevamo fare
una dimostrazione importante; ci siamo permessi di dargli qualche ritoccatina
qua e là.» Insomma, l’aereo era più bello che da nuovo.
Nel volo di ritorno il tempo ci ha creato qualche problema, tanto che siamo
dovuti dirottare a Troyes. Ridecollati, non abbiamo potuto attraversare le Alpi,
sempre per il maltempo, ma abbiamo dovuto circumnavigarle, percorrendo
tutta la valle del Rodano fino a Marsiglia, per poi proseguire per Nizza, Geno-
va e Como. A Marsiglia ci siamo fermati a dormire e, nell’occasione, per
gustare una buona bouillabaisse.
Musumeci non l’ha presa molto bene: «Ma che ceiling e ceiling; dì la verità,
che avevi voglia di farti una bella vacanzina in Costa Azzurra.» In realtà, da
pilotino quale ero, ho scelto la soluzione di minor rischio, anche se non la più
economica o rapida. Oggi rifarei certamente lo stesso, proprio per farmi la
vacanzina.
Quel che è certo è che non c’è nulla che mi ha svezzato come andare in giro
con Cesare Musumeci o fare cose ai suoi ordini.
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Evian
Incontro sul Lemano di tre idrovolanti dell’Aero Club Como, due provenienti
dalla base, uno dall’America. L’occasione è un’interessante manifestazione,
che ha riportato, dopo quasi cinquant’anni di assenza, l’aviazione idro
sul più grande specchio d’acqua europeo.
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anfibi di proprietà dell’Aero Club Como (non ne abbiamo mai avuti più di due
contemporaneamente; ne abbiamo avuto per qualche brevissimo periodo tre,
ma uno di essi era in esercenza).
La cosa è decisamente appagante per noi dirigenti ai comandi degli aerei
(Schettino sul Piper, lo scrivente e Silvia Antonini sul Lake e Roberto Ruberto
sul Maule). Infatti l’acquisizione di quegli aerei è stata una vera scommessa,
fatta contro il parere di molti soci del Club, che ritenevano che non potessimo
permetterci aerei anfibi. Questa idea sembrava trovare un fondamento anche
nel fatto che nei pochi anni precedenti il Club aveva dismesso quattro aerei: il
Lake 200 di proprietà era stato perduto senza essere rimpiazzato, il Cessna
180 anfibio e un Piper PA 18 erano stati venduti e il Lake in esercenza era
stato danneggiato e deregistrato dai proprietari. Nel 2001 l’unico anfibio ri-
masto dell’epopea degli anfibi iniziatasi nel 1980 con il Lake I-AIIA era il
piccolo Piper I-BUFF. Ma se anche il Club si fosse potuto permettere anfibi,
l’idea di questi soci era che il Lake e il Maule erano aerei inadatti al Club.
Particolari critiche erano riservato al Lake, definito come aereo “difficile” e
“in grado di fare non più di 70-80 ore in un anno”.
Nel recente passato erano stati fatti molti sforzi per dotare il Club di Cessna
anfibi, aerei tanto rumorosi, tanto poco prestanti e con un carico utile tanto
ridotto da dimostrarsi inutilizzabili e da essere presto rivenduti. Chi si era
inoltrato su questa via non aveva fatto tesoro di un analogo errore fatto a metà
degli anni Ottanta, consistente nell’acquisto di un Cessna 185 anfibio, pur-
troppo chiamato con il nome I-AGEL, a ricordo di Francesco Agello. Giunto a
Como già decrepito, l’aereo si era rivelato un mostro da 300 HP e con un
carico utile di pochi chili superiore a quello del Cessnino 150 idro con 100 HP,
ma con un decollo lungo il triplo. Dopo averlo tenuto fermo per sei mesi, a
causa dell’impressionante rumore della sua elica bipala, che ne aveva reso
impossibile l’uso a Como, il mostro era stato rivenduto in Norvegia.
Dunque il primo incontro in un contesto significativo - il Lago di Ginevra -
di due aerei per noi significativi e acquistati in un clima non favorevole è un
evento di fronte al quale la manifestazione aerea che di lì a poco avrà inizio
appare a tutti noi come pressoché priva di importanza.
Vedere assieme, sul piazzale di Annemasse, ove lasciamo gli aerei di notte,
queste due meraviglie ci riempie di orgoglio. Il sentimento è ancora più inten-
so quando pensiamo che quelle macchine sono già interamente pagate e non
costituiscono “debito” per il Club, salvo che per la modesta quota versata da
alcuni soci in anticipo-voli.
La soddisfazione è accentuata da una valutazione delle due macchine: il
Lake, dopo che i suoi detrattori avevano preconizzato - come si è detto - un
impiego marginale, ha dimostrato tutta la sua potenzialità, avendo volato in
meno di un anno quasi 400 ore e avendo fruttato ingenti introiti aggiuntivi per
operazioni speciali e sponsorizzazioni; il Maule che ci troviamo davanti è un
aereo “come nuovo”, costruito con trattamenti speciali anticorrosione, ben
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España
Tutti gli ingredienti per una bella avventura sono sul piatto: una settimana di
tempo, un Lake e una simpatica compagnia di quattro persone affiatate e
amanti del volo (Silvia Antonini, Cesare Baj, Roos Decaesstecker e Luigi
Fara). Ma non è tutto. C'è anche il piacere di andare in un paese per noi
sconosciuto, almeno nelle visioni che si possono avere dall'alto, e di operare
su specchi d'acqua ove mai un idrovolante si è posato, appositamente aperti
per noi da autorità intelligenti e intraprendenti.
L'avventura ha la sua origine nella conoscenza di Carlos Lamela, architetto,
pilota, frequentatore da vari anni dell'Aero Club Como. Carlos ci sta da tempo
invitando in Spagna. Finalmente, grazie alla presenza del Lake, l'aereo ideale
per viaggi lunghi, accettiamo il suo invito.
La missione è: andare a Cordova, operare per un paio di giorni su alcuni
laghi nelle vicinanze e tornare a Como. Come sovente accade, il tempo al
momento della partenza non è dei migliori. Decidiamo dunque di limitare al
massimo il tragitto in mare aperto. Ecco che scendiamo fino ad Alghero e da lì
proseguiamo per le Baleari, affrontando il mare per solo un'ora e mezzo,
ovvero per un'ora in meno che se avessimo scelto la rotta che passa per Can-
nes. Il suggerimento di seguire questa rotta ci è venuto dall'istruttore del Club
Marco De Vitis, che ha elargito i suoi saggi consigli per conferire all'operazio-
ne il massimo della sicurezza.
Dopo la prima facile tappa, all'ARO di Alghero abbiamo subito una brutta
sorpresa: per andare in Spagna, ovvero a ovest, dobbiamo prima raggiungere
un punto molto a nord della Sardegna, in una diversione che comporta almeno
30 minuti di volo in più. Una cosa così stupida che non riusciamo a compren-
dere chi possa averla inventata. Decollati, ci comportiamo da perfetti italiani:
raggiunto un punto poche miglia a nord, dichiariamo alla radio di aver lasciato
il famigerato punto obbligato e di essere in rotta per la nostra destinazione,
verso cui dirigiamo prontamente. Si vede che le regole stupide nessuno ha
voglia di farle osservare, perché i controllori assecondano senza fiatare la
nostra “forzatura”.
Lasciamo così la Sardegna e l'Italia buttandoci nel mare aperto. Un esame
delle carte del vento alle diverse quote, fatto prima della partenza, ci ha per-
messo di definire che a quota bassa abbiamo un vento contro di una decina di
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nodi, mentre a quote alte avremmo un vento contro di una trentina di nodi.
Dunque decidiamo di tenere un livello di volo 45, che è basso per quel tipo di
tragitto e che ci impedirà di ricevere i segnali dei VOR per parecchio tempo,
ma che ci eviterà di avere una forte componente di vento in prua.
L'aereo non è dotato di GPS e nessuno di noi ne ha uno portatile. Dunque ci
dobbiamo basare, per la navigazione, dei bei vecchi metodi tradizionali: la
bussola e il cronometro. L'aereo è però dotato di un ADF. Poco al largo della
Sardegna proviamo a sintonizzarlo sulla frequenza dell'NDB di Minorca. La
lancetta si dirige senza esitazioni in una direzione coerente con quella che
sappiamo essere corretta. Alziamo il volume e possiamo sentire il disturbato,
ma rassicurante suono dei punti e linee che identificano senza ombra di dub-
bio la stazione di Minorca. È bello avere, nel mezzo del nulla, una lancetta che
ti dice dove andare per raggiungere quella che in quel momento è casa tua, il
tuo riparo, la tua salvezza, un porto a cui approdare, un ristorante in cui
mangiare, un letto caldo in cui dormire. Certo, la bussola e il cronometro, se
sei un bravo navigatore, ti porterebbero alla stessa meta, ma quella lancetta ti
fa stare più tranquillo. Il VOR e il DME, come previsto, funzionano per qual-
che decina di miglia dalle coste, poi svaniscono.
Fatto il piano di volo da Alghero per Majorca, arriviamo a Minorca ormai
all'imbrunire, alle 8 di sera, a 40 minuti dalla nostra destinazione, sotto un
cielo completamente coperto e la base delle nubi a 3000 piedi. Dunque non è
difficile prendere la decisione di dirottare sull'aeroporto di quell'isola. Una
scelta fatta in base all'intuito e alla sensazione del momento, ma felice. Innan-
zitutto perché in Spagna - lo scopriremo poi - il volo VFR è consentito non
HJ ± 30, come in Italia, ma HJ, ovvero fino al tramonto, non un minuto di più.
Ma la scelta di dirottare è felice anche perché Minorca è una bellissima
isola, talmente importante da essere stata, in passato, proprietà inglese, con il
porto naturale più bello e profondo del Mediterraneo, con una cittadina capi-
tale, Mahon, interessante e ricca.
Quella sera tutti quelli che ci individuano come italiani non si esimono dal
farci notare in modi piccanti che il Milan ha perso 4-0 con il Deportivo La
Coruña. Tra noi non ci sono tifosi di squadre di calcio, per cui rispondiamo in
modo bonario e disarmato alle provocazioni, da veri sportivi, ovvero dichia-
rando che ci fa piacere quando vince il migliore (se il capomeccanico milani-
sta Danilo fosse stato con noi sarebbero state faville).
Mahon, che vediamo in una serata fuori stagione, è affascinante, con bei
quartieri portuali, nobili palazzi e maestose calate verso la riva. Dalle banchi-
ne del porto guardiamo verso il largo interrogandoci su come procederà e
dove ci porterà il nostro volo di domani, eterna domanda che si pone da
millenni ogni navigatore.
Il volo del giorno successivo ci porterà a sorvolare tutte le isole delle Baleari
e poi a saltare verso la costa spagnola. Facciamo tappa a Murcia, dopo che
l'aeroporto di Alicante, destinazione inizialmente prescelta, ci ha fatto gentil-
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Avventure di volo
mente sapere che è meglio che andiamo da qualche altra parte. Il tempo è
brutto all'interno e decidiamo di non dirigere verso Cordova, nostra destina-
zione, ma di seguire la costa il più possibile. Ci fermiamo infine a La Axar-
quia, appena prima di Malaga.
La Sierra, che si erge appena dietro la costa, immersa nelle nubi, è un
ostacolo insormontabile in quel momento per un volo VFR. L'amico Lamela
ci viene dunque a prendere in auto e, in un viaggio di due ore, alla media di
80-90 nodi, ci porta a Cordova lungo le strade deserte dell’estremo sud del-
l’Andalusia. Il giorno successivo di maltempo ci consente finalmente un po' di
relax e la visita ai principali monumenti di Cordova, tra cui la celebre e splen-
dida ex moschea. Cordova, infatti, fu la capitale della Spagna araba, ai tempi
in cui quella civiltà era il faro della cultura nel Mediterraneo e uno dei centri
dai quali la scienza e la cultura degli antichi potè tornare in Europa, dando
origine al Rinascimento e alla moderna civoltà occidentale.
Il dì appresso siamo accompagnati a riprendere l'aereo in un viaggio in
macchina di due ore e mezzo, che ci condurrà lungo l'identico percorso che
dovremo di lì a poco fare in aereo. Il tempo è variabile, con nuvoloni, ma
agibile, trovando l'opportuno buco per “passare sopra”. Dopo avere pagato
una cifra irrisoria quale tassa aeroportuale, decolliamo da La Axarquia, tro-
viamo subito l'opportuno buco e a livello 65 passiamo la Sierra facendo un
poco di gimkana tra i cumuli. Al di là, la pianura e il cielo terso. A 50 miglia
da Cordova vediamo le montagne a nord della città e ci sentiamo già in lun-
ghissimo finale per la pista 03, in un volo senza storia in cui siamo per qualche
minuto in contatto con la torre di Granada, splendida città moresca che vor-
remmo avere il tempo di visitare. Giunti a Cordova, sorvoliamo il centro
storico, per guardarlo ben bene e rivedere dall'alto tutto quello che avevamo
visitato il giorno prima, per poi dirigere sul lago aperto alle nostre operazioni.
Il lago è bellissimo, selvaggio, tutto a fiordi, articolato in diversi bracci.
Viene proprio voglia di percorrerne ogni ramo a bassa quota, cosa che faccia-
mo prima dell'ammaraggio. Definita la direzione del vento, ci posiamo sulle
acque, carpiti da quella bellissima emozione che il pilota idro prova quando
“deflora” un lago mai toccato in precedenza da altro scafo, da altro scarpone,
un’emozione che lo fa sentire pioniere in un mondo in cui ormai per definirsi
tale si deve pensare di andare su un altro pianeta.
Approdati, facciamo conoscenza con il responsabile della gestione del Gua-
dalquivir e bacini correlati, tra cui quello in cui ci troviamo. Persona sensibile
e intelligente, ha favorito l'iniziativa, pensando che un idrovolante non può
che rappresentare un valore aggiunto per il bel lago su cui esercita la sua
giurisdizione. La sua intuizione trova una conferma nell'interesse che il nostro
Lake suscita in tutte le persone presenti, che si affollano per prendere posto a
bordo e avere una vista dall'alto dell'area.
Appena a sud della diga, su un monte “orfano”, ovvero solitario, che si
innalza dall'ampia pianura del Guadalquivir, sopra un bianchissimo villaggio
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Avventure di volo
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Avventure di volo
di bello per tante persone. Silvia ha potuto provare l'emozione di fare decolli e
ammaraggi con un Lake su un lago sperduto a 2000 chilometri da casa. Roos
ha passato il pomeriggio a chiacchierare piacevolmente con vari membri del-
l’estesa e simpatica famiglia di Juana Lamela.
Sulla strada del ritorno a Cordova ci viene indicata la residenza del Cor-
dobés, il celebre torero che ha dominato le arene negli anni Sessanta. Ci viene
detto che il celebre personaggio si era appassionato di aviazione e che girava
con il suo bimotore personale in compagnia degli altri tre colleghi toreri che
compongono il gruppo presente nell'arena. Si tramanda che i tre colleghi,
dopo le prime esperienze, si siano rifiutati di salire sull'aereo, dichiarando che
trovarsi disarmati di fronte a un toro infuriato era esperienza di gran lunga più
tranquilla e preferibile a quella di trovarsi su un aereo pilotato dal Cordobés.
A Cordova visitiamo la moderna ed efficiente struttura di Espejo, gestore di
un servizio antincendio con gli Air Tractor e di una modernissima officina
JAR 145. Sta attendendo che gli consegnino alcuni Air Tractor dotati di gal-
leggianti, detti Fire Boss.
Cordova è un aeroporto privo di traffico, non essendo toccato da alcuna
linea aerea. C'è l'embrione di un aero club, che tuttavia non ha ancora aerei. I
pochi soci volano su due vecchi Cessna messi a disposizione dalla ditta Espejo.
Cordova è una bella città, che si può ammirare con piacere dall'alto, ma curio-
samente non si è sviluppata alcuna attività di volo panoramico a favore dei
residenti e dei turisti.
Il ritorno lo affrontiamo percorrendo l'interno della Spagna, da Cordova a
Reus, vicino a Tarragona, poco sotto Barcellona. Il rapporto con i controllori
spagnoli è facile. Ti fanno fare quasi tutto quello che desideri, ti impongono
pochissimo, non sono curiosi, sono sempre molto gentili. Tale atteggiamento
è certamente favorito dallo scarso traffico VFR. Ai controllori italiani e so-
prattutto a quelli francesi non farebbe male una vacanza-studio in Spagna.
Decolliamo da Reus per Cannes nel pomeriggio, girando intorno a Barcello-
na e sorvolando l'aeroporto di Sabadell, ove opera l'aviazione generale. Dopo
essere risaliti verso nord, viene il momento di lasciare la costa e di dirigere
verso Tolone e Hyères. Il Golfo del Leone non tradisce la sua fama: vento
forte (30 e più nodi) e mare bianco di spuma. Proprio una tratta in cui è meglio
non avere una piantata di motore. Per tenere la rotta prefissata siamo costretti
ad adottare un angolo di correzione della deriva di 15 gradi. Anche in questa
tratta di mare l'ADF offre preziose sicurezze quando i segnali dei VOR non
sono più ricevibili.
Nel passaggio da Spagna a Francia perdiamo il contatto con il controllore
spagnolo e non riusciamo a contattare quello francese. Dopo avere tentato con
vari enti ci mettiamo in ascolto sulla frequenza di Tolone Avvicinamento.
Finalmente giunge una voce che chiede all'aereo che sta rispondendo con il
codice transponder 6342 di identificarsi e dichiarare le proprie intenzioni.
Ecco che perdiamo il ruolo di trasvolatori oceanici e rientriamo in contatto
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Ostacoli
Alle foci del Mera
Il Lake presenta, rispetto agli aerei con galleggianti, un piccolo vantaggio: è
basso. Ciò gli permette di passare in uno spazio molto ridotto. Posso valutare
questa caratteristica facendo un avvicinamento a un fiume, il Mera, proprio in
corrispondenza della sua foce nel lago di Como. Tutto sembra tranquillo.
All’improvviso, ormai poco distante dalla superficie e proprio davanti all’ae-
reo: i cavi! L’istinto suggerirebbe di dare tutta potenza e di cabrare decisa-
mente. Butto invece l’aereo in basso, pensando di usare la gravità a mio van-
taggio, e raggiungo quasi la superficie, passando sotto ai cavi. Se avessi tirato
ci sarei finito in mezzo.
Qualcuno si chiederà come possa non aver visto i cavi. Semplice: i due
piloni sono - come tuttora - sistemati nel bosco, in mezzo alle piante, sui due
lati della riva del fiume, e quindi sono invisibili. I cavi sono poco discernibili
dal paesaggio, trattandosi anche di una linea secondaria.
Valganna
Stiamo provando il Lake LA 250 per valutarne l’acquisto. Il pilota è il france-
se Bernard Duchateau, di grandissima esperienza, a cui il proprietario ha
affidato l’aereo per venderlo in Europa. Ci dice «Va bene provare l’aereo sulle
piste degli aeroporti, ma non c’è in giro qualche striscia di terra corta, con un
brutto fondo e con ostacoli dove vi possa far vedere di che cosa è capace
questa macchina?» Il pensiero va immediatamente all’aviosuperficie posta a
fianco di un capannone industriale in Valganna. Non è poi tanto corta, ma il
fondo è sconnesso e proprio in corrispondenza di una delle testate è ostruita da
una poderosa linea ad alta tensione.
Detto, fatto. Eccoci atterrati su quella striscia di terra. I piloni e i cavi della
linea ad alta tensione, che dall’alto sono quasi mimetizzati nel paesaggio,
appaiono ora in tutta la loro altezza.
L’aviosuperficie non è molto corta, si è detto, ma a renderla corta ci pensa
Bernard, che si porta per il decollo oltre la sua metà. La linea elettrica, distan-
te poche centinaia di metri, ci appare particolarmente vicina e incombente. Dà
tutto motore. Al distacco retrae il carrello e tiene l’aereo a una ventina di
centimetri dal suolo, sempre con la massima potenza inserita. Attende in quel-
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Avventure di volo
la condizione di essere a una distanza “che lui sa” dai cavi della linea elettrica.
A quel punto cabra decisamente salendo con un angolo impressionante e gua-
dagnando in pochissimi secondi qualche centinaio di piedi di quota. I cavi li
vediamo sfilare sotto di noi da una distanza che ci tranquillizza (come dire
che, proprio volendo fare le cose al limite, avrebbe potuto decollare da una
posizione ancora più avanzata).
Torino
Un’altra situazione in cui posso apprezzare, anche se non mettere a frutto, in
quel caso, il profilo assottigliato in altezza del Lake si verifica a Torino. Dopo
una giornata di voli sul Po abbiamo a bordo tre persone, bagagli, parecchio
materiale che avevamo portato da Como. All’ultimo momento ci affidano una
batteria molto pesante, portata per avviare una altro aereo la cui batteria face-
va le bizze.
Decolliamo per tornare a Como. L’aereo, pesante, fa un po’ fatica a salire
sul redan, anche perché la superficie, già normalmente piatta, è diventata un
olio, a sera ormai inoltrata. Ci stacchiamo in posizione avanzata tra i ponti
Umberto I e Maria Isabella. Imposto immediatamente una salita ripida, ma
subito dopo mi viene il dubbio sul fatto che si riesca a sorvolare il ponte,
parecchio alto sulla superficie.
Guardo le arcate. Volendo, riesco a passare sotto l’arco centrale? Lo spazio è
giusto giusto. Sì, valuto che se proprio voglio riesco. Dunque continuo la
faticosa salita preparandomi alla possibilità di dover picchiare, livellare l’ae-
reo a uno o due decimetri dalla superficie, centrare bene la luce dell’arco del
ponte, passare il ponte e infine cabrare.
Ci sono attimi in cui sono indeciso se adottare una o l’altra delle due strate-
gie. Infine opto per la continuazione della salita. Passiamo parecchi metri
sopra la gente assiepata sul ponte e da quell’istante ci troviamo impegnati ad
affrontare il nostro volo di ritorno a Como.
L’idrovolante è anche questo: un istante prima ti trovi ad affrontare una
situazione di volo che richiede tecniche di conduzione specifiche e che non ha
nulla a che fare con il normale mondo dell’aviazione; un istante dopo ti trovi
immerso nel mondo dei controllori di volo, degli spazi aerei, delle radiali,
delle quote massime VFR e così via.
Commento finale del copilota Rino Caldiroli, per il quale il volo in idrovo-
lante è come l’estasi per la mistica medioevale Hildegarde von Bingen: «Si,
forse ci passavamo sotto. Comunque, se anche ci spiaccicavamo sul ponte per
me andava bene lo stesso».
Pareloup
Il volo dalla logistica più complessa che ho fatto nella mia vita è quello da
Como a Biscarrosse, in Francia, con il Cessna 172 I-BISB. Una delle tappe è il
lago di Pareloup, nelle Cevenne, posto a 2000 piedi di quota. Decollando da
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Avventure di volo
Como, a 660 piedi, avevamo già avuto delle difficoltà, in quanto l’aereo,
stracarico, con i suoi 190 litri di carburante e tutti i materiali che avevamo
deciso di portare con noi nel lungo viaggio, aveva fatto una bella fatica a salire
sul redan. Ma il lago di Como è lungo decine di chilometri, mentre il laghetto
delle Cevenne è corto ed è tagliato a metà da una struttura, ovvero da un
ostacolo che accorcia le dimensioni del bacino e che devo superare.
In questi casi ogni espediente che renda disponibile uno spazio maggiore
per la corsa di decollo è prezioso. Dunque per il decollo si deve sfruttare
anche la piccola ansa o il tratto di immissario che si getta nel lago. Anche 100
metri in più sono significativi.
Con l’aereo con galleggianti non è generalmente praticabile il decollo circo-
lare, risolutivo invece per un aereo a scafo, ma si può ottenere un importante
risultato con la tecnica del sollevamento di un galleggiante nelle ultimissime
fasi della corsa di decollo. Vi sono aerei più o meno reattivi a questo tratta-
mento e il Cessna 172 non è certo dei più brillanti, ma alla fine di una corsa
difficile, ad accelerazione ormai quasi annullata, il sollevamento del galleg-
giante porta in pochi istanti al distacco.
Così il compianto amico Bruno Confalonieri e lo scrivente hanno fatto a
Pareloup, potendo proseguire il viaggio.
Venezia
A volte gli ostacoli sono perfettamente visibili, ma risulta difficile giostrarsi
tra essi. In altri termini la gestione dell’aereo in qualche modo o per qualche
istante può sfuggirci di mano.
Ciò succede sovente al pilota con poca esperienza che per le prime volte si
trova a volare a bassa quota. Abituato a vedere il paesaggio scorrere lentamen-
te davanti ai suo occhi, può trovarsi sconcertato dallo scoprire quanto veloce-
mente e inesorabilmente l’aereo si stia muovendo verso un ostacolo. Può
allora toccare con mano sia il problema dei propri tempi di reazione sia quello
delle inerzie del sistema di comando, dei sistemi di controllo della potenza e
infine dell’aereo in quanto oggetto, che ha una massa che resiste alle variazio-
ni che si tenta di imprimere al suo moto (come Newton ben ci spiega nelle sue
leggi). Il senno di poi indica che il pilota, in quelle condizioni inusuali, può
anche effettuare manovre peggiorative della situazione.
A me capita a Venezia, in un decollo con il Lake. Operazione complessa e
piena di distrazioni, anche per la magnificenza del paesaggio. Tempistica da
rispettare, aereo a pieno carico, uno stretto canale delimitato da grossi e tozzi
pali di legno, a noi destinato per le operazioni. Un’occhiata fugace alla striscia
di decollo: tutto sembra in ordine. Motore e via.
Ecco però che arriva il momento in cui mi chiedo se ho fatto proprio tutto
per fare quel decollo nella massima sicurezza e in cui sono costretto a rispon-
dermi di no. Non ho guardato bene da che parte arriva il vento, che è certa-
mente leggero, ma che se fosse in coda certo non aiuterebbe. Nel lungo flot-
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Avventure di volo
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Avventure di volo
Autonomia
Gorizia
Molti incidenti hanno le loro origini in un momento lontano nel tempo. Il
quasi-incidente qui raccontato è frutto di una sequenza di scelte fatte nelle 36
ore precedenti al momento critico.
È una bella giornata di giugno del 1981. Il giorno dopo dobbiamo andare a
Ronchi dei Legionari, aeroporto di partenza del Giro Aereo d’Italia. L’aereo,
che useremo fuori dalla base per una settimana (con benzina pagata dall’Aero
Club d’Italia), lo noleggiamo “dry”.
Quel giorno sono casualmente a Lugano e dunque approfitto per fare benzi-
na sdoganata, quel che serve per arrivare comodamente a Ronchi. Faccio
dunque il pieno del centrale, 40 galloni, pari a 152 litri, che consente un’auto-
nomia di quasi quattro ore, con i quali dovremo fare i 15 minuti di volo tra
Lugano e Como e le due ore e un quarto da Como a Ronchi.
Decollo da Lugano e, giunto verso Como, mi rendo conto che sta montando
vento da nord, il tipico föhn. La superficie ora è ammarabilissima, ma non si
sa quanto il vento andrà avanti (sovente dura due giorni). Non posso rischiare
che non riusciamo a fare il Giro Aero d’Italia perché a Como il lago è troppo
mosso per decollare e quindi decido di portare l’aereo all’aeroporto di a Vene-
gono, ove starà per la notte.
Il giorno dopo l’equipaggio, formato da Gerolamo Gavazzi, che per tutto il
Giro sarà il pilota, e dal sottoscritto, che svolge il ruolo di navigatore, va a
prendere l’aereo a Venegono. Facciamo i controlli. I 32 galloni circa rimasti
nel serbatoio dopo i 40 minuti fatti il giorno prima sono “giusti” per la tratta
che dobbiamo fare fino a Ronchi e non ci poniamo problemi.
Il volo è senza storia fino al largo di Monfalcone, ormai a pochi minuti dalla
destinazione. Qui siamo bloccati da un banale incidente che ha reso inagibile
la pista di Ronchi. 73 aerei partecipanti al Giro stanno arrivando sull’aeropor-
to e uno di essi ha rotto il carrello in atterraggio ed è in mezzo alla pista.
Dunque siamo invitati a circuitare su Monfalcone in attesa che l’aereo sia
rimosso. C’è tempo e abbiamo guardato tutto quello che c’è da vedere fuori.
Dunque ci concentriamo sull’aereo. Stiamo facendo un larghissimo “360” e,
dovendo aspettare, sistemiamo l’aereo al meglio: velocità di massima autono-
mia chilometrica (85 MPH), con qualche nodo in meno per avvicinarci a
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Avventure di volo
quella di massima autonomia oraria; dunque 82-83 MPH, cosa che si ottiene
con un settaggio di circa 16-17” e 2400 giri. Miscela ben smagrita per la
massima economia. Il consumo in quelle condizioni è bassissimo, intorno ai
25 litri/ora.
Dopo una decina di minuti incominciamo a fare un po’ di calcoli. Partiti con
32 galloni; consumati 25 circa per arrivare a Monfalcone; ne avanzano 7. Uno
lo abbiamo già consumato nei 10 minuti di attesa. Dunque abbiamo 6 galloni
nel serbatoio. Intanto arrivano altri aerei destinati a Ronchi e tutti sono messi
in attesa sulla costa. Sono passati altri 10 minuti (5 galloni nel serbatoio).
Ora basta: diciamo chiaramente a Ronchi che abbiamo problemi di autono-
mia e che avremmo piacere di scendere anche sulla porzione di pista libera. In
realtà non avremmo alcuna difficoltà ad atterrare prima o dopo l’aereo inci-
dentato o addirittura a fare un doppio “tocca e riparti” saltandolo, se volessi-
mo. La procedura però non è ammessa.
Tra promesse, contrattazioni e rinvii passano altri 10 minuti (4 galloni nel
serbatoio), finché viene aperto per gli aerei in emergenza l’aeroporto di Gori-
zia. Questo è normalmente chiuso al traffico in quanto la testata est è sul
confine yugoslavo e il circuito per l’atterraggio verso ovest si svolge sul terri-
torio di quel paese, che proibisce la manovra. Data l’emergenza, le autorità
yugoslave collaborano. Dunque siamo autorizzati ad atterrare a Gorizia. È
quel che facciamo, dopo aver rimesso l’aereo in una normale crociera. La
pista è ingiustamente definita “in erba”, perché è in verità un campo di patate
a grosse zolle sconnesse. Per fortuna siamo su un Lake.
Per gli aerei del Giro è organizzato il rifornimento. Ora indovinate quanta
benzina entra nel serbatoio? Esattamente due litri meno della sua massima
capienza. In altri termini: siamo arrivati a destinazione con due litri di benzi-
na. Proprio poco, vero!
Tre gli errori fatti. Il primo è quello di essere partiti da Venegono senza
avere fatto il pieno. Che cosa costava rabboccare quella trentina di litri? Il
secondo è quello di avere abbandonato il mare per l’interno con una quantità
di carburante molto ridotta, ai limiti della certezza di arrivare a destinazione.
Il terzo è stato quello di fare la tratta da Monfalcone a Gorizia con un normale
settaggio di crociera invece che mantenendo rigorosamente il settaggio per la
massima autonomia chilometrica.
C’è da dire che se non avessimo circuitato per mezzora o più con il settaggio
ottimale per l’attesa saremmo finiti senza benzina in un prato tra Ronchi e
Gorizia. Altra dimostrazione, se mai servisse, che è sempre consigliabile fare
le cose al meglio, anche quando non se ne vede una stretta necessità.
Avevamo in realtà un’altra opzione: scendere sulla parte libera della pista di
Ronchi, in barba alle autorizzazioni, ma non abbiamo mai percepito la nostra
condizione come talmente a rischio da dover prendere quella decisione.
Oggi, con vent’anni di esperienza in più, in quelle condizioni opterei per un
ammaraggio nell’insenatura di Monfalcone (ove approderò dopo molti anni,
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Avventure di volo
come è descritto nel capitolo “Grand Princess”), per restare su una riva in
attesa di ridecollare per Ronchi, eventualmente dopo essere andati a prendere
una tanica o due di benzina e un buon caffè.
Napoli
Franco Panzeri e lo scrivente partono per Lampedusa con il Lake I-AQVA, per
commemorare la scomparsa di Enrico Recchi e Marco Merlo, in seguito al-
l’incendio del Catalina avvenuto a Torino. Giorgio Porta deve andare a Napoli
a prendere il Maule usato a Ischia, per portarlo a fare una manutenzione a
Roma. Dunque Panzeri, Baj e Porta partono con destinazione Napoli.
Come sempre, si fa tardi e come spesso avviene, il tempo è inclemente: gli
Appennini liguri sono tutti dentro le nubi e la copertura è rotta solo verso il
Centro Italia. Dunque da Voghera incominciamo a costeggiare a bassa quota il
versante settentrionale della catena appenninica nella speranza di trovare, pri-
ma o poi, un varco verso il Tirreno. La speranza si avvera in quel di Parma,
ove tra strati più o meno rotti riusciamo a inerpicarci sulla Cisa e poi a tuffarci
verso Sarzana e il mare.
Il volo a vista nel tempo perturbato non è certo un volo che assicura i minori
tempi di percorrenza. Infatti si deve zigzagare in pianura dirigendo man mano
verso le zone di migliore visibilità e seguire percorsi tortuosi nelle zone di
montagna per valicare le catene montuose nei punti più opportuni. Inoltre
capita, una volta saliti sopra le nubi, di dover salire a quote sempre più alte,
per evitare di entrarci e di trovarsi in condizioni IMC, e poi di buttarsi a
capofitto in eventuali squarci nella copertura per ritornare alle basse quote.
Insomma, nel caso in esame, l’aereo, lungi dall’aver seguito la rotta diretta
Como-Saronno-Voghera-Genova-Elba, giunge infine all’Elba dopo aver gira-
to mezza pianura padana e in un tempo molto più lungo.
Il Tirreno lo si attraversa di solito nel volo a vista lungo una rotta che sta
sotto l’aerovia usata dagli aerei di linea, che passa per Genova, Elba e Ponza.
Dunque, giunti a Sarzana, andiamo a intercettare questa rotta al largo delle
coste della Penisola e ci mettiamo a una quota che assicura una buona veloci-
tà. Giunti alla TMA di Roma, siamo però costretti a scendere a quote bassissi-
me per non interferire con il traffico di linea in avvicinamento a o in partenza
da Fiumicino. Altro fatto che comporta una leggera perdita di tempo.
Al traverso di Ostia la velocità rispetto alla superficie, indicata dal DME,
incomincia a diminuire. C’è vento in prua, che ci rallenta. In una decina di
minuti la componente di vento frontale raggiunge i 25 nodi. Non è proprio
quel che si desidera, essendo già tardi e avendo alle spalle ore di volo.
È il momento per fare un ricalcolo accurato dell’autonomia e una ripianifi-
cazione del percorso rimanente. Il Lake possiede un preciso flussometro digi-
tale con totalizzatore e quindi sappiamo esattamente quanta benzina rimane
dei 284 litri di benzina che avevamo alla partenza. Un rapido calcolo ci fa
scoprire che, alla velocità di crociera normale e con il relativo consumo orario
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Avventure di volo
Dirottamenti
Dirottare, quando la situazione lo richiede, è una scelta che vale la vita.
Dirottare è una scelta difficile. Infatti dobbiamo ammettere che non siamo in
grado di concludere il volo così come lo avevamo pianificato, forse che non
siamo stati in grado di prevedere l’evoluzione del tempo meteorologico o gli
imprevisti che si sono presentati. Inoltre vuol dire non andare nel luogo desi-
derato, perdere l’incontro di affari o la serata con gli amici e stare in giro per
squallidi alberghi.
Nondimeno, dirottare significa in molti casi scegliere la vita. Io ho dirottato
parecchie volte e sono certo che devo la vita ad alcune di quelle scelte.
Devo confessare che due volte non ho dirottato e me la sono cavata per il
rotto della cuffia (atterrando con le ultime gocce di benzina, la prima volta, e
nel completo buio la seconda), tanto che ho giurato a me stesso che in situa-
zioni simili, da quel momento in poi, avrei sempre dirottato. La seconda di
quelle volte non ho mantenuto la promessa che mi ero fatto la prima volta.
Non c’è stata una terza volta e spero che non ci sia mai più.
Vediamo ora qualche storia di dirottamento, che riporto solo per incoraggia-
re i piloti a riconoscere in tempo le condizioni nelle quali è molto, ma molto
meglio dirottare.
Altri dirottamenti sono narrati nei capitoli “L’avventura dietro l’angolo” e
“Ne va della vita”.
Genova
Il primo dirottamento della mia vita mi capita nel 1980, in occasione del
primo volo di un certo impegno che compio, con un Lake Buccaneer, pochis-
simo dopo avere conseguito il brevetto di secondo grado. È un Como-Elba-
Como. Questa, almeno, sarebbe l’intenzione.
Proprio prima della partenza è compiuta un’operazione sull’impianto elet-
trico che, all’insaputa di tutti, mette fuori uso l’alternatore. Dunque la batteria
non è più ricaricata e tutto ciò che di elettrico c’è a bordo è destinato, prima o
poi, a smettere di funzionare. Ciò avviene nel tratto tra Voghera e Genova,
sugli Appennini, proprio mentre sto facendo una comunicazione con “Milano
Informazioni”. Provate a immaginarvi un controllore che sente una comunica-
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Avventure di volo
Verona
Metà dicembre, giornata uggiosa. Con un altro pilota (ora in Alitalia), Paolo
Lucini, dobbiamo portare un suo amico a Toscolano-Maderno, un paese della
costa occidentale del lago di Garda, dove deve sbrigare degli affari in un
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Avventure di volo
cantiere edile, per poi riportarla a Como. Da Como al lago di Garda non vi
sono montagne. Quindi la tratta è percorribile con il nostro Lake Buccaneer
anche con tempo poco favorevole e visibilità scarsa.
In quel periodo alle quattro e mezza del pomeriggio si incomincia a non
vedere più nulla. Come sovente avviene, la persona si attarda e le ore passano.
Sono le tre e la partenza non sembra imminente. Siamo un po’ in apprensione.
Finalmente il “cliente” ha finito le sue faccende e si parte. Imbocchiamo la
rotta da Salò verso Brescia e poi Trezzo e Como non molto prima dell’imbru-
nire. Andando verso ovest, le condizioni peggiorano decisamente: la foschia
si fa sempre più densa e diventa indistinguibile da una nube. Davanti non si
vede nulla. Sotto qualche dettaglio del paesaggio si riconosce a mala pena.
Incomincia a nevicare.
Sono, queste, tipiche condizioni in cui un pilota fa rapidamente il conto
delle opzioni che ha. In genere il pilota di un anfibio ne ha qualcuna in più,
cosa consolante. La prima cosa che facciamo è un’inversione di rotta, per
ritornare verso una zona in cui la visibilità e il tempo erano migliori. Il tempo,
intanto, è trascorso e la visibilità è diminuita.
La nostra posizione è intorno a Brescia, ove vi sono due magnifici aeroporti:
Montichiari e Ghedi. Entrambi sono chiusi al traffico dell’aviazione leggera.
Contatto l’ente di controllo e chiedo di poter dirottare su uno qualsiasi dei due
aeroporti. «Niet.» Spiego meglio la mia situazione, ma loro, laggiù, seduti sull
loro belle poltrone, sono inamovibili. Il senso di quello che dicono è: «Se non
volevi grane dovevi startene a casa, bello».
Cerco di intimorirli: «Non sono in condizioni di continuare il volo in VMC
(condizioni di volo a vista) e non posso trasformare il volo in IFR (in volo
strumentale) perché incontrerei sicuramente condizioni di ghiaccio, presenti
già all’attuale quota di volo (il fatto che non sia abilitato a quel tipo di volo in
quel momento è irrilevante). Confermate che mi negate la possibilità di dirot-
tare a Montichiari?». Mi vedo già un giudice che interroga quel controllore:
«Il pilota aveva dichiarato in modo inequivocabile le sue condizioni di volo, di
evidente emergenza; non avevate altro traffico sull’aeroporto; che cosa l’ha
indotto a negare il dirottamento?». E spero che anche lui si veda davanti a quel
giudice che gli pone quelle domande. Forse i controllori hanno una scarsa
immaginazione; forse quel controllore ha altro a cui pensare. Nulla da fare; la
sua risposta finale può essere tradotta come: «Vattene fuori dalle palle e falla
finita con queste storie. Arrangiati».
Se quella fosse l’unica opzione (prima di un atterraggio di fortuna in un
prato) non ci avrei pensato due volte e avrei “forzato” il blocco, andando ad
atterrare a Montichiari, ovviamente ottenendo prima garanzie sull’assenza di
altro traffico, ma “fregandomene” di qualsiasi diffida a continuare l’avvicina-
mento e atterrare (Arrestatemi pure. Vuol dire che sono vivo!).
Nevica ormai anche in un tratto della rotta che all’andata era ancora decen-
te. Mentre procediamo verso est ci sorpassa un bimotore che vola ancora più
131
Avventure di volo
basso di noi, un po’ sulla destra. È molto vicino, a un centinaio di metri da noi.
Probabilmente ci ha visto ed evitato o, almeno, ce lo auguriamo. Chiediamo
all’ente di controllo se gli risulta che ci sia altro traffico nella zona. Rispondo-
no di no. Un vero aereo-fantasma.
Pilotando un anfibio, un’opzione diversa dall’atterrare a Montichiari o in un
prato (opzione ormai quasi impossibile per la scarsa visibilità) ce l’ho ed è
quella di ritornare sul lago di Garda, cosa possibile anche con visibilità pres-
soché nulla, per compiere un ammaraggio strumentale quando avessimo la
certezza di trovarci in mezzo al lago, e infine dirigerci a bassa velocità, come
una barca, verso una riva. È bello pilotare un anfibio proprio in queste situa-
zioni, in cui una grave emergenza può essere risolta come un’operazione nor-
male o quasi.
Fortuna vuole che nel raggiungere il lago di Garda le condizioni migliorino.
Un’altra opzione fa dunque capolino: raggiungere Verona. Lasciare un aereo
in un aeroporto è una cosa preferibile all’ammarare alla cieca in mezzo a un
lago mentre sta nevischiando e Verona è a soli dieci minuti di volo. Dentro la
massima potenza ammissibile e via verso Verona, ove infine atterriamo pres-
soché al buio, ad aeroporto chiuso.
Sta arrivando l’iradiddio, un terribile fronte che imperverserà su tutta l’Ita-
lia. L’aereo lo ricupereremo - l’autore e il capace vicepresidente Mario Pozzi -
solo dopo 15 giorni, primo momento volabile dopo il dirottamento.
Cremona
Dobbiamo andare sul Lago di Bilancino, a nord di Firenze, a bordo di un
Cessna 172. Equipaggio: Schettino e Baj. Come spesso accade, si fa tardi e si
parte con davanti tanto tempo di luce quanto ne serve per giungere alla meta.
Il tempo non è dei migliori: nubi basse e pioggia.
Volando con un idrovolante gli alternati sono solo gli specchi d’acqua. Pri-
ma degli Appennini se ne trova uno ottimo a Cremona, il porto-canale, poi più
nulla salvo qualche allargamento di fiumi che si gettano nel Po, che nella
stagione estiva sono sovente completamente in secca.
A Cremona si pone un dilemma in realtà facile da risolvere. Se si prosegue e
gli Appennini non sono transitabili si può solo tornare a Cremona, ma ormai al
buio e quindi nell’impossibilità di ammarare. Le alternative, in quella condi-
zione, sarebbero solo due: atterrare sulla pista illuminata di un aeroporto op-
pure ritornare in piena notte a Como e ammarare sulla ben conosciuta superfi-
cie dell’Idroscalo, operazione illegale ma eseguibile per noi in sicurezza.
Trattandosi di soluzioni estreme, la scelta non può essere che una: dirottare
subito a Cremona. Premio: un’ottima cena in un ristorante tipico.
Montalivet-les-Bains
Biscarrosse, sulle coste dell’Atlantico, a sud di Bordeaux, alla fine di una
grande manifestazione. Sono con la mia fidanzata, che mi ha accompagnato.
132
Avventure di volo
Lei, dopo quattro giorni di idrovolanti non ne può più, ma il tempo, nella
Francia sudorientale, sulla via del ritorno a Como, è il peggiore da cent’anni,
con nubifragi, strade interrotte, paesi allagati, telefoni che non funzionano,
voli di linea annullati ormai da giorni.
Dove ci troviamo, sulla costa atlantica, il tempo è bruttino, ma nella norma-
lità. Di tornare non se ne parla almeno per i quattro o cinque giorni a venire.
Bene, è proprio un’ottima occasione per andare a fare un giro nelle regioni
della Francia occidentale, che si dimostrano di grande interesse: la Charente
Maritime, con quella perla di città che è La Rochelle, e la Bretagna.
Piove e il ceiling è basso. Si prevede un peggioramento. Le insistenze per
abbandonare quella specie di fiera dell’idrovolante, un inferno per una perso-
na non interessata, sono fortissime. A Biscarrosse e nelle Lande di Guasco-
gna, infatti, c’è poco da vedere, salvo il Museo dell’idroaviazione. Non mi
lascerei mai convincere a partire, se non pensassi io stesso che tutto quello che
dovevamo fare ormai lo avevamo fatto e che era ora di andare. Inoltre il
ragionamento era il seguente: il tempo è sul brutto, ma in fondo devo solo
mettermi sul mare e andare a nord, finché incontro un aeroporto vicino a un
bel posto, dove scenderò. Il bello, quando si è in vacanza in aereo, è non
programmare. Si va lungo coste e fiumi e si scende dove si è più ispirati al
momento. Un ceiling basso, la pioggia e la scarsa visibilità non possono fer-
mare un idrovolante che vola sul mare e impedirgli di scendere su uno dei
tanti aeroporti che si trovano lungo una costa priva di rilievi.
In conclusione: si va.
Dunque faccio benzina, imbarco i bagagli e ce ne andiamo. Dopo pochi
minuti di volo sono sull’oceano. Piove sempre più forte, una pioggia di goc-
cioline finissime che quasi non fa rumore sulle finestre, ma che le avvolge
come se fosse un olio. Il ceiling si abbassa. Dal largo arrivano vere folate di
nubi basse, di nebbia. Per non perdere il contatto visivo con la superficie devo
scendere a una quota molto bassa. Dopo due o tre minuti mi trovo a volare
lungo la spiaggia a cento o duecento piedi di quota. La nebbia mi avvolge
completamente. Provo a chiamare l’aeroporto di Biscarrosse, annunciando
che sto valutando l’opportunità di ritornarvi. Mi dicono che non vi sono più
condizioni di volo a vista e che è scesa una nebbia impenetrabile. Impossibile,
dunque, dirottare sullo stesso aeroporto di partenza.
Nella stessa nebbia sto volando io. Mi viene in mente che il fenomeno
potrebbe essere simile a quello frequente in California, che in pochi minuti
avvolge il Golden Gate di un vellutato manto biancastro.
Mi viene la tentazione di dare motore e di passare “sopra”, ma questo non è
solo un banco di nebbia; piove e il cielo è di un grigio non molto chiaro. Non
so che cosa c’è là sopra. Meglio stare ben attaccati all’unica certezza che ho:
la spiaggia.
La costa atlantica occidentale francese è un’unica e ininterrotta spiaggia di
sabbia. Mi piazzo dunque a quattro o cinque metri di quota dalla spiaggia, che
133
Avventure di volo
posso vedere anche volando in nube. Sgrano invece gli occhi in avanti, per
evitare eventuali strutture o costruzioni che possano trovarsi erette sulla spiag-
gia. Ma la zona è selvaggia e - per fortuna - non c’è traccia di presenza umana
e di infrastruttura tecnologica; non ci sono strade; non ci sono moli, strutture
in ferro, pali, torri o altro. Comunque la visibilità è di qualche centinaio di
metri e avrei comunque il tempo per una virata di scampo verso l’oceano, se
dovessi trovarmi davanti qualcosa.
Volando sul bagnasciuga, posso visualizzare perfettamente l’angolo di cor-
rezione della deriva, dovuto a un discreto vento che soffia dal mare. L’aereo,
per seguire la costa, procede con una prua di una decina di gradi spostata
verso l’oceano. Non posso portarmi all’interno in quanto la zona è caratteriz-
zata dalla presenza delle celebri foreste di pini marittimi, che si ergono fino a
una quota che è di una decina di metri più alta della quota di volo.
Spulciando la carta vedo che a una cinquantina di miglia a nord c’è un
aeroporto, qualificato come chiuso. Sulla carta il circoletto è sbarrato da una
bella croce. Si trova a meno di un miglio all’interno della cittadina rivierasca
di Montalivet-les-Bains, l’unica di tutto quel tratto di costa, salvo un altro
villaggetto. Intanto cerchiamo di arrivarci. Poi vedremo di che cosa si tratta.
Volo per mezzora a pochi metri dalla spiaggia quando, dal nulla, compare
l’abitato. Vedo sulla carta Michelin al 200.000 (essenziale, come quella del
Touring in Italia, per fare navigazione osservata a bassissima quota) che una
strada si addentra nella foresta di pini marittimi e, a meno di un miglio all’in-
terno, parallela alla strada, c’è la pista dell’aeroporto, anzi, dell’ex aeroporto.
Giunto al centro dell’abitato mi butto verso l’interno, sempre dentro e fuori
dalla nuvolaglia, ma ora usando la distesa delle fronde di pini marittimi come
superficie di riferimento. Volo a pochi metri di quota dal verde “mare” di
fronde, cercando di tenere bene in vista la strada sulla mia sinistra. Dopo una
trentina di secondi so di avere l’aeroporto alla mia sinistra. Vedo infatti che la
foresta è interrotta e che c’è del vuoto. Viro di 90 gradi e mi aspetto di vedere
una pista entro tre o quattro secondi. Il terreno mostra la sua presenza solo
quando guardo quasi in verticale, dalla quota di una trentina di metri alla
quale volo. Ecco, apparire, sotto, un tratto di pista, con la sua linea bianca
tratteggiata sul suo asse.
Quando si vola si deve sempre avere un’altra opzione, ovvero una via di
uscita. In quel momento la mia non è facilissima, ma è tutto sommato sicura.
Se l’aeroporto non esiste, se mi trovo davanti un ostacolo, se la visibilità
scende a zero so già che cosa fare: devo dare tutto motore, salire di due o
trecento piedi, in mezzo alle nubi, ma certamente lontano dagli ostacoli; met-
tere la prua a ovest, per ritornare verso il mare; dopo due minuti circa, quando
sono certamente sul mare, devo impostare una discesa, sempre con prua a
ovest, con un rateo basso, quello tipico dell’avvicinamento a specchio, di 100-
200 piedi al minuto, in attesa di rivedere la superficie (la vedevo prima, a una
quota di circa 100 piedi, quando sono arrivato, la rivedrò ora).
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Avventure di volo
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Avventure di volo
136
Avventure di volo
Mercatini
Vi sono fisici che hanno avuto un ruolo importante nella storia del volo idro:
le grandi capitali, lo stagno di Berre, Felixtow, Orbetello, Desenzano, Como,
Biscarrosse, Venezia, Foynes, le Azzorre, Bermuda, Lord Howe, Catalina Island,
Pensacola, Lisbona, Sesto Calende, per fare solo qualche esempio. In questi
luoghi si possono vivere avventure di volo per interposta persona, ma non
meno emozionanti. Infatti, girando tra antiquari e collezionisti, si trovano
molti documenti e testimonianze delle imprese compiute con idrovolanti.
Leggere, vedere immagini e sentire testimonianze di vita e di avventure con
idrovolanti dei piloti del passato è molto istruttivo.
L’autore, ovunque va, cerca anche le più piccole vestigia della presenza di
idrovolanti e fa di tutto per accaparrarsi eventuali documenti originali o, se
impossibilitato, copie. Il discorso standard è il seguente: Como è la capitale
europea del volo idro; abbiamo messo in piedi un centro di documentazione
sulla storia del volo sull’acqua; ogni contributo è prezioso; non disperdete il
materiale sul tema, ma donatelo o vendetelo a condizioni particolari, perché
quel materiale verrà valorizzato a favore della collettività e a imperitura me-
moria di fatti e persone che non meritano di cadere nell’oblio.
In questo modo ho recuperato molti materiali interessanti, come le foto
degli idrovolanti di de Pinedo e Balbo alle Azzorre o le foto di Balbo e Blériot
a Villa d’Este, grazie alla segnalazione di Alberto Longatti, così come centina-
ia di cartoline che illustrano attività che sono dimenticate dalle stesse persone
che vivono nei luoghi ove quelle attività erano svolte.
Alle Azzorre ho recuperato presso un oscuro fotografo immagini dei Boeing
314, uno dei celebri “Clipper”, del tutto sconosciute agli storici dell’aviazione
statunitensi, una delle quali (quella che presenta tre aerei di quel tipo all’anco-
ra nella baia di Horta) è pubblicata nel mio libro Seaplane Operations.
Il mandato è: ovunque andiate, cercate e portate a casa, ovvero al centro di
documentazione dell’Aero Club Como, qualsiasi materiale avente a che fare
con il volo idro: dal libro alla cartolina, dal portacenere al modello, dall’au-
toadesivo al francobollo, alla semplice testimonianza orale di una persona che
ha visto un idrovolante in azione.
Si tratta di un patrimonio che prima o poi si disperderà e che sta a noi
conservare. I nostri successori ce ne saranno grati.
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Avventure di volo
Per un pelo
Sono qui presentate due situazioni inusuali, che mostrano che il rischio
può essere in agguato quando meno lo si aspetta.
Per un pelo 1
Il primo caso ha per teatro una riva ove è stata organizzata una manifestazio-
ne. C’è molto movimento. Idrovolanti partono e arrivano in continuazione;
c’è un po’ di vento dal largo e i decolli e gli ammaraggi avvengono dalla riva
verso il largo. Un elicottero è appena giunto, carico di persone. Infine le stesse
o altre persone risalgono, il motore è avviato, il rotore principale è portato a
regime. L’elicottero si stacca dal suolo, prima lentamente, poi con velocità
progressivamente crescente. Il pilota non ha mai sintonizzato la sua radio
sulla frequenza usata dagli idrovolanti né sulla frequenza usata sulle aviosu-
perfici e non ha familiarità con le procedure seguite dagli idrovolanti. In quel
momento un Piper PA 18, in finale, sbuca dal tetto del palazzo che si trova
sulla riva e passa un paio di metri sopra il rotore dell’elicottero, che ormai è a
una quindicina di metri dal suolo, in rapida salita.
Il pilota del Piper non se ne accorge, dato che il pericolo è esattamente sotto
di lui e, in precedenza era nascosto dietro l’edificio. Il pilota dell’elicottero,
che ha il muso rivolto in una direzione diversa da quella dell’aereo, nemmeno.
Entrambi stenteranno a credere a ciò che poi gli viene raccontato. Molte per-
sone sono vive veramente per un pelo.
138
Avventure di volo
L’episodio mi ha indotto a scrivere quel paragrafo del mio libro sul pilotag-
gio degli idrovolanti che dissuade dal fare finali bassi sopra ostacoli che impe-
discono la vista di ciò che si trova al di là. Nascosto da quell’ostacolo, potreb-
be infatti esserci un elicottero in partenza, come nel caso qui descritto, ma
anche una mongolfiera che si sta innalzando, piuttosto che oggetti che vengo-
no lanciati, come fuochi di artificio. Il mandato è: avere sempre una visuale
dell’area che si sta per sorvolare a bassa quota.
L’episodio ha costituito anche un precedente fondamentale per stabilire le
procedure suggerite dall’esercente dell’Idroscalo di Como nell’ammaraggio
01. Queste raccomandano che venga fatto un controllo visivo che nell’area
dell’idroscalo non vi siano macchine a decollo verticale che possano interferi-
re con l’avvicinamento di aerei per l’ammaraggio.
Per un pelo 2
L’altro episodio è per alcuni versi misterioso. Dopo aver venduto il nostro
Cessna 185 anfibio, inutilizzabile a Como perché troppo rumoroso, a una ditta
norvegese, ci siamo impegnati a portarlo noi a destinazione. Nell’andare a
Oslo e poi all’aeroporto finale dobbiamo passare per Lienz, in Austria, a
prelevare un amico dell’acquirente, a cui dobbiamo dare un passaggio fino in
Norvegia.
Dunque il percorso si snoda da Como a Malpensa, per fare benzina sdoga-
nata, e poi verso Lienz, percorrendo inizialmente il Lago di Como, la val
Bregaglia e infine l’Engadina. Il tempo è freddo, ma molto bello, con aria
immobile, e si sta volando a 11.000 piedi al traverso di Garmisch.
Io occupo il posto di destra, mentre Giorgio Porta è a sinistra. Improvvisa-
mente si sente un rumore fortissimo, ma istantaneo, una specie di fiondata. Il
tutto è già passato e finito prima che possiamo anche solo spaventarci. “Che
diavolo è stato?” ci diciamo all’unisono. Guardinghi, buttiamo fuori uno sguar-
do per vedere se l’aereo è integro e tocchiamo lievemente i comandi per
vedere se risponde. Tutto sembra normale.
Le prime ipotesi sono: abbiamo perso un pezzo, che poi ha colpito parte
della fusoliera; ci hanno sparato addosso. Escludiamo subito la collisione con
un uccello o altro oggetto di relativamente grandi dimensioni, in quanto un
oggetto simile non avrebbe mai prodotto quel rumore istantaneo e metallico.
Il volo prosegue senza storia. Giunti a Lienz, esaminiamo per bene tutto
l’aereo: Non manca nulla e tutto sembra a posto e integro. Nell’ispezione ci
accorgiamo tuttavia di un particolare sconcertante: sulla cappottatura del mo-
tore, sul lato destro, c’è un foro. Si tratta di un forellino del diametro di circa 6
mm, slabbrato verso l’interno della cappottatura, senza che la zona circostante
sia minimamente bombata o scalfita.
È inutile dire che prima di quel volo non c’era. Lo sconcertante è che la
“cosa” che ha colpito l’aereo veniva dall’alto. La prima idea è che un proietti-
le sia stato sparato verso l’alto e, ricadendo, abbia colpito l’aereo. Ma la
139
Avventure di volo
spiegazione non regge. Un oggetto di così piccole dimensioni che segue una
traiettoria balistica non può provocare quel tipo di foro, in quanto la sua
velocità sarebbe troppo ridotta.
Un’altra possibile spiegazione è che un oggetto sia stato “sparato” dall’elica
sulla cappottatura. Ma in un aereo con l’elica trattiva da dove può venire
quell’oggetto (che invece negli aerei con elica spingente, come i Lake, viene
di solito dal motore)? Bisognerebbe ipotizzare che l’aereo abbia incontrato un
proiettile sparato verso l’alto e che l’elica gli abbia impresso un’ulteriore
velocità. Ma le slabbrature indicano che l’oggetto è penetrato nella lamiera
perpendicolarmente, cosa poco compatibile con l’ipotesi di un piccolo ogget-
to vagante propulso dall’elica, che dovrebbe avere impattato la lamiera con un
angolo di 15-45°. Non ci sono spiegazioni semplici.
A fare l’inquietante forellino può essere stato solo un oggetto che viaggiava
a velocità molto alta, anzi altissima, proveniente dall’alto. L’idea, quindi,
sarebbe quella di un proiettile sparato verso il basso. Ma lassù che cosa avreb-
be potuto sparare quel proiettile?
Vediamo ora più precisamente dove si trova il foro. Questo è esattamente
davanti al posto di destra, a circa 110 cm dal seggiolino. Ciò significa che, alla
velocità di crociera di 105 nodi, se avessimo viaggiato con un anticipo di soli
0,02 secondi, ovvero due centesimi di secondo, l’oggetto avrebbe colpito la
cabina esattamente sopra la mia testa. Se la sua forza di penetrazione fosse
stata molto alta, come tutto sembrerebbe indicare, esso avrebbe attraversato la
sottile lamina di alluminio della fusoliera, sarebbe entrato nel mio corpo in
corrispondenza della mia calotta cranica e lo avrebbe trapassato per intero.
Solo due centesimi di secondo mi hanno forse separato da una fine prematura
e impietosa.
Spiegazioni del fenomeno? L’ipotesi più probabile, o almeno plausibile, è
quella di un piccolo meteorite o di un frammento di veicolo spaziale.
Quale che sia la spiegazione, sono vivo proprio per un pelo.
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IN VOLO SULL’ACQUA
PILOTARE L’IDROVOLANTE
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Pilotare l’idrovolante
Errori classici
nel pilotaggio dell’idrovolante
È questo un capitolo destinato espressamente ai piloti di idrovolante o a quelli
che intendono diventarlo, con l’augurio che possano godere per tutta la loro vita
di aviatori il piacere di condurre lo straordinario mezzo aereo senza cattivi ricordi.
Ai non piloti questo capitoletto può servire per capire quanto delicato e raffinato
sia il pilotaggio di un idrovolante.
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Pilotare l’idrovolante
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Pilotare l’idrovolante
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Pilotare l’idrovolante
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Pilotare l’idrovolante
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Pilotare l’idrovolante
In ogni punto del percorso può piantare il motore, può scoppiare un incen-
dio, può ridursi la visibilità, può presentarsi un temporale, può farsi buio,
possiamo essere colpiti dalla grandine, può star male un passeggero, ecc. ecc.
A tutto ciò dobbiamo pensare prima, durante la pianificazione, perché quando
ci troveremo in una di quelle situazioni avremo a mala pena il tempo e l’atten-
zione per controllare l’aereo, oltre che per gestire i passeggeri. Ma, se avremo
ben pianificato, sapremo esattamente cosa fare, dove dirigere, che frequenze
mettere sulla radio, che cosa aspettarci, dove andare a parare.
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Pilotare l’idrovolante
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Pilotare l’idrovolante
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Pilotare l’idrovolante
coda nella direzione da cui proviene la bufera. Aiutati da due o tre energumeni
che ho subito cooptato sulla spiaggia, ruotiamo l’aereo in modo che presenti il
muso al vento. Poi blocco i comandi e metto uno o due salvagenti dietro la
pedaliera, per attutire le sventolate del timone di direzione.
La situazione fa temere addirittura che il Lake possa essere soffiato via dal
vento. Non c’è né il tempo né le attrezzature per una controventatura seria e
non c’è la possibilità di recuperare pesi o massi a cui ancorare l’aereo. Ci
piazziamo dunque in due o tre persone sotto ciascuna delle ali e una aggrappa-
ta al ruotino anteriore, tenendo cime di controventatura fissate agli appositi
anelli. In alcuni momenti, appeso alla cima, sono leggermente sollevato da
terra dall’ala che si oppone alla forza del vento.
Noi siamo saldamente poggiati a terra e, se anche l’aereo subisse danni, non
abbiamo da temere per la nostra incolumità. La tragedia arriva invece per la
trentina di deltaplanisti che sono in volo. Presi improvvisamente nell’Arma-
geddon che si è abbattuto sulla zona, affrontano la peggiore emergenza della
loro vita. Alcuni, quelli a quota più bassa, si buttano giù e finiscono più o
meno malamente al suolo, ma vivi, seppur feriti. Quelli più in alto sono aspi-
rati dall’immane cumulonembo fino a una quota di migliaia di metri; gli si
congelano subito mani e piedi. Poi, ancora aggrappati alla loro vela, sono
buttati fuori dall’inferno, a 60 o 80 chilometri di distanza.
Cinque di essi non ce la fanno a resistere a quelle immani forze e perdono la
vita, moderni Prometei e Icari, rapiti da una natura che non avevano ancora
imparato a temere a sufficienza.
Su e giù
Sto tornando verso il lago di Como da est. La quota è di circa 10.000 piedi su
Lecco. Dovendo perdere un po’ di tempo per scendere, tanto vale fare il giret-
to panoramico Lecco-Bellagio Como. Metto dunque l’aereo in discesa, ridu-
cendo la potenza e abbassando il muso. Giunto a 9000 piedi, nei dintorni di
Mandello, l’aereo smette di scendere. Spingo il volantino in avanti, ma non
succede nulla. Anzi, è incredibile, ma l’aereo incomincia a salire. Spingo
ulteriormente, facendo assumere all’aereo un assetto di inequivocabile disce-
sa; la velocità sale, ma il variometro è stabile sui 200-300 piedi a salire.
Riduco ulteriormente la potenza. Ora il variometro indica 500 piedi a salire.
La cosa è stranissima e inquietante. Provvedimento immediato: ridurre la
velocità. Guai a farsi trovare a velocità elevata in mezzo alla turbolenza o a
fenomeni atmosferici strani. È vero che l’aria è calmissima, ma ciò che sta
avvenendo lascia ampi dubbi su quel che potrebbe succedere di lì a poco. Guai
anche a ridurre troppo la velocità: l’aereo potrebbe finire per stallare. Dunque
la velocità la mantengo in quella via di mezzo più rassicurante: non troppo
bassa, non troppo alta.
Permanendo comunque la situazione di aria calma, abbasso il carrello, te-
nendo un bell’assetto picchiato. Sporco anche un po’ l’aereo inclinando le ali
150
Pilotare l’idrovolante
Windshear
La giornata è variabile: nubi basse, intercalate da miglioramenti, piovaschi e
schiarite, vento un po’ indefinibile, da varie direzioni.
Istruttore e allievo, in un momento di netto miglioramento, decidono di
partire con il Piper. Decollano per la 01 sotto i miei occhi. In quel momento
monta all’improvviso un fortissimo vento da nord. L’aerosol di goccioline
sollevate dalla superficie fa calare la visibilità a zero. Corro alla radio e dico:
«ammarate immediatamente e soprattutto non tornate a Como».
Al pontile c’è un Cessna che è investito in pieno dalla ventata. Qualcuno va
sul pontile a tenerlo per il montante, ma il pontile balla come un canotto
durante una discesa sulle rapide.
151
Pilotare l’idrovolante
Dopo due o tre minuti il vento cala e la visibilità aumenta. Scruto la superfi-
cie e il cielo alla ricerca del Piper, ma ai miei occhi appare una scena irreale.
Due persone sono in piedi sul lago, circa un chilometro al largo. Mai visto
nulla di simile. Unica spiegazione possibile: l’aereo si è cappottato e, come
tutti gli idrovolanti, galleggia “appeso” ai galleggianti pieni d’aria. I due occu-
panti sono usciti dalla cabina e sono in piedi sui galleggianti.
Il fenomeno è in netto calo. Prendo dunque l’aereo al pontile e flotto ad alta
velocità verso i naufraghi. Ne carico uno sul galleggiante e ritorno al pontile a
bassa velocità. L’altro è soccorso e riportato a riva da una barca del Tasell.
L’aereo cappottato verrà ricuperato in modo molto professionale dal socio
Porta, tanto che dopo qualche settimana potrà spiccare nuovamente il volo.
152
Pilotare l’idrovolante
precipita sui primi metri della riva del lago, vicino al monumento dei Caduti,
che da quel giorno ricorderà ai soci dell’Aero Club Como anche i quattro
fortunati piloti che escono incolumi dall’aereo distrutto.
Miracolo? Se l’evento avesse visto come protagonista un aereo terrestre
sarebbe difficile negare l’intervento di un’entità trascendente, ma operando
con un idrovolante il miracolo va ascritto a due “santi” con un nome preciso: i
“santi scarponi”. Gli scarponi del magnifico Cessna 172 XP appena acquista-
to hanno assorbito quasi interamente la forza dell’urto e, senza ombra di
dubbio, hanno salvato la vita a quattro persone.
Vento in coda
A bordo c’è un istruttore, espertissimo pilota di 747 in pensione, ma alle
prime armi sugli idrovolanti, con un pilota a cui ha fatto un check.
L’istruttore non conosce ancora i rischi della navigazione con il vento in
coda. Non ha ancora ben chiaro che un idrovolante sulla superficie è sempre a
rischio quando il vento lo investe da una direzione che non è quella della prua.
Finito il volo, ammara per la 01. Soffiando un discreto venticello da nord,
fatica però a fare la virata sottovento. Purtroppo la manovra gli riesce e si
avvia a pochi nodi di velocità verso i pontili. Man mano che procede entra
nella zona in cui batte un vento localissimo, ma forte: il Chiassino.
Giunto a 30-40 metri dal pontile una raffica di Chiassino solleva la coda
dell’aereo, che si rovescia in acqua e si danneggia irrimediabilmente.
Si tratta di un magnifico Maule M7 anfibio quasi nuovo, in linea solo da
pochi mesi dopo che è stato acquistato, a Pensacola, negli Stati Uniti, portato
in Italia, e omologato quale primo aereo del tipo nel nostro paese. Enormi
fatiche logistiche e un ingente investimento economico vanno in fumo in un
istante per una raffica di vento in coda e il mancato riconoscimento di una
condizione di rischio da parte del pilota.
Se c’era bisogno di una dimostrazione che si può perdere un aereo per una
condizione di vento nemmeno troppo anomala... eccola.
Morale: per pilotare gli idrovolanti in sicurezza servono pochissime cogni-
zioni. Una di queste è la seguente: in tutti i casi in cui un idrovolante si trovi
sulla superficie con un certo vento non in prua, i guai stanno arrivando, per
non dire galoppando verso il povero pilota.
Considerazione finale
La natura è tutto meno quello che si vede nelle pubblicità del Mulino Bianco.
153
Pilotare l’idrovolante
«Mi ha ingannato il riflesso del sole sull’acqua»: sono queste le prime parole
del pilota subito dopo che, con le sue due passeggere, è stato tratto in salvo da
un motoscafo del servizio pubblico del Lago di Viverone. L’aereo in quel
momento è già sul fondo del lago. In volo a bassa quota, 5 minuti dopo il
decollo dall’aeroporto di Biella, l’aereo ha toccato con l’estremità dell’ala la
superficie del bel laghetto prealpino.
Tutto finisce nel migliore dei modi: nessun danno alle persone, una bella
esperienza per il pilota. La descrizione dell’evento che si legge sul giornale
lascia spazio anche a una nota umoristica: le due passeggere, invitate a salire
su un elicottero di soccorso, giunto sulla riva per condurle in ospedale per un
controllo, si rifiutano categoricamente di farlo, preferendo il rischio di non
essere curate a quello di un altro volo.
Tornando alle cose serie, si deve dire che i tre ragazzi hanno avuto fortuna:
l’acqua del laghetto prealpino, il 27 di dicembre, era gelata e il recupero delle
tre persone, che si trovavano proprio in mezzo al lago, è avvenuto circa 15
minuti dopo l’incidente, un tempo-limite in quelle condizioni. Una delle ra-
gazze non sapeva nuotare (è stata tenuta a galla dal coraggioso pilota). L’altra
non riusciva a liberarsi dalla cintura di sicurezza mentre la cabina si stava
riempiendo d’acqua. Nessuna attrezzatura di salvataggio si trovava a bordo
(come peraltro non è previsto che si trovi).
Si possono immaginare mille piccolissimi particolari che avrebbero potuto
far andare le cose ben diversamente. La memoria va ad altri incidenti che si
sono svolti secondo un identico copione, molti dei quali con esito infausto,
ovvero con la perdita dell’intero o di parte dell’equipaggio. Sono, questi,
incidenti che riguardano generalmente piccoli aerei, con i quali i piloti sono
soliti “razzolare” a bassa quota, ma a cui in passato sono andati incontro
anche quelli grossi.
La situazione non riconosciuta di “specchio”, tipica dei bacini piccoli, tipica
delle belle giornate e tipica dell’inverno, è alla base dell’incidente. Questa
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Pilotare l’idrovolante
condizione (come pure tutto ciò che si deve fare o non fare nel caso in cui
l’aereo finisca in acqua) è ben nota a tutti i piloti di idrovolante e descritta nei
dettagli nel mio libro Il pilotaggio degli idrovolanti.
Per chi non lo sapesse lo “specchio” è una particolare, ma non infrequente,
condizione dell’atmosfera e della superficie dell’acqua (ma si verifica anche
sulle superfici innevate e sulle distese sabbiose dei deserti), nota anche come
white-out, in cui si fatica a riconoscere le forme del paesaggio circostante ed è
del tutto impossibile stabilire a vista la propria quota. In altri termini, è una
condizione in cui è impossibile compiere un ammaraggio o atterraggio a vista.
Per il pilota di idrovolante lo specchio è “pane quotidiano” in quanto con gli
idrovolanti si deve necessariamente decollare e ammarare sulla superficie e se
questa è a specchio ci si deve decollare e ammarare lo stesso. Per il decollo
non ci sono troppi problemi, anche se va condotto con alcune cautele che qui
non è la sede di esaminare, ma per l’ammaraggio si deve adottare una speciale
tecnica strumentale, completamente diversa da quella normale.
Se si usa la tecnica di ammaraggio normale su una superficie a specchio
l’aereo è probabilmente perso. Se per qualche motivo, su cui non ci si dilun-
gherà, non è possibile adottare la tecnica dell’ammaraggio a specchio la con-
segna per il pilota di idrovolante è di gettare oggetti galleggianti dalla cabina
per rendere discernibile una piccola parte della superficie, sulla quale poi
ammarerà (potendo anche recuperare gli oggetti lanciati), oppure, alla peggio,
fare un atterraggio di emergenza su un prato.
Il volo a bassa quota su una superficie a specchio, se pure è teoricamente
possibile con speciali accorgimenti, è assolutamente da evitare. Si dice questo
per dare un’idea di quanto importante sia, nel volo con idrovolanti e in genera-
le sull’acqua, il riconoscimento della condizione di specchio. Purtroppo que-
sto fenomeno, che è costato un gran numero di vite umane e la perdita di
moltissimi aerei, è poco noto ai piloti “terrestri”.
È vero che le regole prescrivono quote minime di volo e che se il pilota vi si
attenesse incidenti del genere potrebbero essere evitati, ma è anche vero che
tutti i piloti prima o poi cedono alla tentazione di un volo a bassa quota o
addirittura radente, che in effetti dà sensazioni del tutto particolari. Il fatto è
che esistono solo due modi per fare un simile tipo di volo con una certa
sicurezza: sulla pista di un aeroporto con un aereo terrestre (ma la cosa può
durare solo pochi secondi e non è particolarmente attraente) e sull’acqua, con
un idrovolante, se non ci sono condizioni di specchio. In tutti gli altri casi
quella condizione di volo è rischiosa. Nel caso di un aereo terrestre sull’ac-
qua, pilotato da un pilota senza esperienza idro, il rischio è alto e se ci sono
anche condizioni di specchio il rischio raggiunge livelli vertiginosi, per non
dire la quasi-certezza dell’incidente.
Nel libro citato sono descritti molti modi per affrontare lo specchio, ma
sono considerazioni che valgono per chi deve affrontarlo per forza, in quanto
opera con un idrovolante. Per chi vola con aerei terrestri la consegna non può
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Pilotare l’idrovolante
essere che la seguente: non volare mai a bassa quota sulla superficie dell’ac-
qua. In altri termini: attenersi alle regole dell’aria che impongono una quota
minima di 500 piedi dalla superficie.
Tuttavia vi sono situazioni in cui anche con un aereo terrestre ci si deve
confrontare con una superficie a specchio. Si pensi agli avvicinamenti alla
pista che avvengono quasi per intero su acqua. Si pensi a quando, nel volo a
vista, l’aereo è costretto a volare a una quota bassissima da un ceiling ugual-
mente basso. Per questo ritengo che tutti i piloti, soprattutto i professionisti,
dovrebbero avere un’esperienza di volo con idrovolante, proprio per prendere
dimestichezza con la condizione dello specchio e conoscere le tecniche relati-
ve a come evitarla o affrontarla. Una concausa del secondo incidente di Punta
Raisi, per fare un esempio, può essere stata la poca dimestichezza dei piloti
con gli scherzi che la superficie dell’acqua può fare.
Chi è interessato ad approfondire la conoscenza di quel fenomeno naturale
pressoché sconosciuto ai normali piloti che è lo specchio può venire all’Aero
Club Como a fare il “passaggio” su idrovolante o semplicemente a fare qual-
che volo finalizzato alla familiarizzazione con lo specchio, secondo un pro-
gramma specialmente studiato per i piloti professionisti.
In conclusione: volare basso è affascinante, ma guai a cacciarsi nella trappo-
la, che può essere mortale, dello specchio.
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Pilotare l’idrovolante
PIC
PIC, pilot in command, ovvero comandante.
È previsto che ce ne sia uno a bordo, ma non sempre è così.
In matematica uno più uno fa due. Nei fenomeni culturali, psicologici e socia-
li ciò può non essere vero. Infatti può fare anche zero.
Si potrebbe pensare che se a bordo di un aereo, invece di un comandante, ce
ne sono due la sicurezza del volo sia più elevata. Nulla è meno vero, come è
noto agli armatori fin dall’antichità, che delegano il potere assoluto rigorosa-
mente a una sola persona. Al comandante di una nave o di un aereo sono
addirittura attribuiti i poteri dell’ufficiale di polizia giudiziaria e di stato civi-
le. Insomma, a bordo di questo tipo di mezzi è tradizione ed è bene che vi sia
un comandante, ma nel vero senso della parola, ovvero un solo comandante.
Quando a bordo si trovano due persone di pari capacità, oppure che si rico-
noscono reciprocamente pari capacità, non importa se ad alto livello o basso
livello, incominciano i guai. Si innescano in quel caso strani meccanismi
psicologici che fanno sì che a bordo non vi sia più un comandante, con conse-
guenze potenzialmente catastrofiche.
A me è capitato di andare da Roma a Olbia e al termine del volo, dopo un
bruttissimo atterraggio, di sentirmi dire «Beh, te ne ho visti fare di migliori...»
La mia risposta spontanea è stata: «Ma come, non pilotavi tu?» Morale: nes-
suno aveva pilotato l’aereo da Roma a Olbia. Ciascuno dei due ha semplice-
mente dato il suo piccolissimo apporto con toccatine di volantino e di pedale
pensando che pilotasse l’altro. A 100 piedi dalla pista, con l’aereo inclinato di
40 gradi da una raffica di vento, entrambi abbiamo dato una bella raddrizzata,
entrambi pensando perché mai l’altro avesse lasciato degenerare fino a quel
punto l’iniziale indesiderato rollio.
I peggiori ammaraggi sono quelli fatti in due. La sperimentazione di mano-
vre avanzate deve essere fatta con un solo pilota a bordo oppure con più piloti,
ma di esperienza e capacità molto diverse.
Se due piloti di capacità simile si mettono a sperimentare manovre strane
c’è un’elevatissima probabilità che le cose finiscano male.
Consiglio finale: o tenete saldamente il comando oppure - a volte è bene che
capiti - lo cedete completamente. Le vie di mezzo sono ad alto rischio.
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Pilotare l’idrovolante
È successo anche a me
Un’emergenza sottovalutata, che ha bloccato lo sviluppo dell’aviazione generale
per decenni.
L’I-BONG è uno dei due Cessna 150 che il Club ha posseduto per quasi
vent’anni e sul quale si sono formate generazioni di piloti. Mi ricordo quando,
nel 1970, è arrivato. Abituati al Piper PA 18, ci ha dato subito una sensazione
di modernità. Con l’occhio di poi, possiamo affermare senza dubbio che il
confronto tra un Super Cub e un Cessna 150 è impossibile: il primo è una
“Ferrari”, mentre il secondo è una “Fiat 127”. Ma in quel momento eravamo
stati colpiti dal primo aereo tutto metallico che giungesse al Club (dopo gli
ormai dimenticati anfibi Sea Bee e Piaggio P 146), ma soprattutto dal cruscot-
to. «Gli strumenti sono gli stessi e nelle stesse posizioni che sui Caravelle e
sui DC 8!» «Si può fare il volo strumentale!». Inoltre: «Non ha la cloche, ha
un volantino, come gli aerei di linea!» È certo che una delle chiavi del succes-
so dei piccoli Cessna è stato il farli assomigliare ad aerei molto più grossi e
noi ne siamo stati una dimostrazione. Dopo l’I-BONG, il presidente Bocchiet-
ti e il suo valente vice Minarchi hanno immediatamente acquistato un gemel-
lino, l’I-BOMI, la cui sigla, non a caso, evoca i nomi di quelle generose
persone che si sono adoperate non poco per l’acquisto.
Per inciso, si deve notare che sui piccoli Cessna 150 hanno fatto i corsi di
primo e secondo grado piloti anche di notevole peso, grazie anche - bisogna
dirlo - alla corporatura da fantini degli istruttori Roncalli e poi Albonico.
All’epoca dell’avventura che sto per raccontare i due “Cessnini” sono dotati
di motore da 150 HP, contro i 100 dell’edizione originale, grazie a un STC
acquistato e fatto approvare in Italia dal presidente Musumeci. Così potenzia-
ti, i C 150 sono un vera “bomba”. Decollano in un battibaleno e salgono con
un rateo e un angolo di salita impressionante.
Eccomi dunque a decollare per un normalissimo volo di una mezzoretta sul
lago. Dò potenza, decollo e incomincio la salita, con quell’impressionante
angolo dovuto all’esuberante motore.
Tutto normale, come in centinaia di altri decolli, ma succede qualcosa di
inusitato. Il seggiolino scorre all’indietro, con un movimento improvviso e
rapidissimo.
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Imbrogliato
dal mio stesso cervello
Una certa abitudine alla precisione e tanta fortuna hanno fatto sì che un gravissimo
errore rimanesse senza conseguenze.
L’episodio solleva il problema della posizione del carrello negli anfibi,
che è più complesso di quanto si immagini.
Diciamo subito che è un caso - per quel che ne so - unico. Non mi risulta
infatti che qualcuno sia ammarato con un aereo scarponato con il carrello
estratto senza cappottare o senza arrecare il minimo danno all’aereo. Ma an-
diamo per ordine.
È una fredda, ma bella giornata invernale. Un amico pilota desidera portare
in volo un collega di lavoro, ma è abilitato solo alle macchine più piccole e
vuole fare bella figura. Dunque mi chiama e mi chiede di portare lui e l’altra
persona nella zona dei laghi prealpini sulla macchina più grossa che abbiamo,
il Cessna 185. Lui si siede a destra e conduce l’aereo.
Dopo aver girovagato sul Lago di Como, siamo finiti a est e, sorvolato il
Lago d’Endine, siamo ormai sopra Lovere e il bacino più settentrionale del
Lago d’Iseo. Data la giornata, ci si aspetterebbe una superficie perfettamente
a specchio. Invece no: una leggera brezza da sud increspa la superficie ren-
dendola perfettamente visibile. La situazione è così bella e invitante che il mio
copilota, che continua a condurre l’aereo, suggerisce di far provare un amma-
raggio al suo collega, che è seduto nella fila posteriore. Bene.
Con un breve cenno del dito indico l’area e la direzione dell’ammaraggio, in
funzione del vento e di altri parametri. Quando si portano piloti meno esperti
o non abilitati sulla macchina accompagnati da loro ospiti si fa in modo che
quei piloti comunque si sentano comandanti. Dunque il pilota più esperto non
tocca mai i comandi e dà le necessarie istruzioni con impercettibili segni del
capo e delle dita. Se un parametro non va bene tocca lo strumento che indica il
parametro da mettere a posto. Se interviene sui comandi lo fa con un delicato
tocco, tenendo il volantino con due dita nella parte più bassa. Le correzioni di
pedale, invisibili ai passeggeri, sono invece più brusche e hanno a volte il
significato di una tiratina di orecchie.
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volte lo deve abbassare a volte no. Il pilota terrestre ai comandi di aerei terre-
stri, di conseguenza, ha il compito di gran lunga più facile.
Il non estrarre il carrello di un aereo terrestre in atterraggio è un errore che
può avere un notevole costo, in termini economici, ma non ha di solito conse-
guenze catastrofiche. Per questo i piloti terrestri si possono divertire con la
celebre storiella dei piloti “che si dividono in due categorie...”.
Invece l’errore che si può commettere con gli anfibi di ammarare con il
carrello estratto ha conseguenze certamente catastrofiche per l’aereo (salvo
rarissime eccezioni, come il caso sopra riportato), che possono diventare terri-
bili anche per le persone a bordo. Per questo il pilota idro non si diverte con la
storiella delle due categorie e si scervella per trovare sistemi che evitino, in
modo assoluto, che si verifichi quel caso. Tra i molti possibili errori di impie-
go del carrello solo quello citato è catastrofico, ma quel controllo è talmente
importante che un pilota idro, se commette un qualunque errore riguardante il
carrello anche veniale, anche privo di conseguenze, considera quell’evento
come una gravissima mancanza professionale.
L’errore di non estrarre il carrello di un anfibio in atterraggio non ha conse-
guenze serie, provocando di solito un modesto danneggiamento dei galleg-
gianti o dello scafo. Più gravi sono le conseguenze se il pilota, commettendo
quell’errore, fa una retta alta e lascia sprofondare l’aereo, che dunque “cade”
sulla superficie. Le conseguenze, in generale, sono meno gravi su superfici
non dure, ovvero su campi in erba.
Errori privi di conseguenze sono il dare motore per un decollo dall’acqua
con il carrello estratto (il pilota se ne accorge subito perché l’aereo non avanza
e a volte si apprua), il dimenticare il carrello retratto in una salita sullo scivolo
(che provoca al più una leggera abrasione nella zona del contatto), il dimenti-
care il carrello giù dopo il decollo da terra se la destinazione è un altra super-
ficie in duro (il rateo di salita e la velocità di crociera saranno penalizzate, ma
c’è chi ha compiuto lunghi voli in quella condizione senza accorgersene), e la
retrazione del carrello con l’aereo parcheggiato su terra (ti fa sentire stupido e
richiede qualche particolare espediente per rimettere l’aereo sul carrello, ma
gli impianti idraulici non si rovinano).
Le conseguenze, come si è detto, sono invece sempre gravissime se si am-
mara con il carrello giù. Un danneggiamento esteso dell’aereo o il cappotta-
mento in questo caso sono inevitabili, a volte con danni alle persone.
La condizione più pericolosa è quella in cui si devono compiere operazioni
in serie e ravvicinate nel tempo su terra e su acqua, come il dover portare 7 o 8
gruppi di persone da un’aeroporto a un’idrosuperficie e viceversa. In questi
casi il pilota deve raddoppiare l’attenzione, evitando di essere distratto dai
passeggeri o dalle voci che escono dalla radio e non facendosi stressare da
problematiche di tipo logistico o di tempistica. Il momento del controllo del
carrello in quelle situazioni è equiparabile al momento più sacro di una ceri-
monia religiosa, un vero momento di raccoglimento e di introspezione.
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Come essere certi che il carrello si trova nella posizione corretta? La rispo-
sta più semplice è: facendo il controllo al momento giusto. Ma la storia inse-
gna che l’esito di quel controllo non sempre è quello che ci si immagina.
Ho visto con i miei occhi fare il controllo del carrello in finale per un
ammaraggio, con il pilota che legge sulla lista “carrello” e lo estrae dicendo
“giù”, per fare un esempio. Dunque il pilota non ha “sbagliato” da un punto di
vista gestuale, facendo proprio quel che voleva fare; purtroppo voleva proprio
fare la cosa sbagliata che il suo cervello distratto in quel momento ha deciso.
Ho visto con i miei occhi un altro pilota che in avvicinamento per una pista
ha letto sulla lista “carrello” e giustamente ha poi detto “giù”, retraendolo. In
questo caso l’idea era giusta, ma il gesto sbagliato. Che cosa può averlo indot-
to a compiere un così imprevedibile errore. Semplice: un errore precedente. Il
pilota aveva lasciato il carrello giù nel precedente decollo, senza accorgerse-
ne, e quando in finale ha deciso di estrarre il carrello era psicologicamente
preparato a variare lo stato del carrello. Dunque lo ha fatto, retraendolo. La
scusante del gesto sbagliato, in quel caso, è che il pilota stava facendo i suoi
primi decolli e atterraggi con il Lake su una pista e non aveva ancora interio-
rizzato la gestualità relativa al carrello, così che il nessun campanello di allar-
me è suonato nel suo cervello.
Gli avvisatori acustici, come quello della Lake & Air, possono servire, ma
possono anche offrire una falsa sicurezza, che induce il pilota ad abbassare la
guardia. Sapendo che prima o poi una voce gli ricorderà il da farsi, il pilota
potrebbe fare il controllo del carrello con minore convinzione.
La mia idea è che un controllo unico, procedurale, che si fa sempre nello
stesso modo e nello stesso momento, è meglio di due o più controlli che si
sovrappongono, nessuno dei quali ha l’importanza e quindi l’efficacia di un
unico vitale controllo. Il sistema acustico, che si innesca al raggiungimento di
una certa velocità, per esempio rimane silenzioso se il pilota fa un avvicina-
mento veloce, tutto al di sopra di quella velocità.
Il mio consiglio è di porsi sempre, con qualsiasi aereo, prima di ogni avvici-
namento e prima di azionare il comando del carrello, le seguenti domande:
- che superficie mi trovo davanti?
- come deve essere il carrello su questa superficie?
- in che stato si trova il carrello ora?
Rispondere con la mente libera a queste domande evita di sbagliare.
Lo stato del carrello è suggerito sovente da spie luminose e da indicatori
meccanici. Questi ultimi sono i più affidabili. Per quel che riguarda le spie, il
discorso si farebbe lungo, perché non è detto che una spia spenta o accesa
indichi proprio il corrispondente stato del carrello. Ciò vale in particolare per
gli idrovolanti, in cui gli interruttori delle spie, esposti alle sollecitazioni fisi-
che e chimiche dell’acqua, si danneggiano frequentemente, non funzionando
più o rimanendo bloccati in una delle posizioni.
In sintesi, occhio al carrello. Può valere l’aereo. Può valere la vita.
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Incidenti
In ogni attività umana è insita la possibilità di un incidente, ovvero che qual-
cosa vada storto. In aviazione succedono meno incidenti che in altri settori,
ma i mass media provvedono a darne tanta pubblicità che sembra che sia un
miracolo che gli aerei possano stare in aria. Nessuno, invece, informa il pub-
blico dei miliardi di decolli e atterraggi o ammaraggi avvenuti o che avvengo-
no senza il minimo problema. Il risultato finale è che la percezione da parte
del pubblico del rischio del volo è deformata, a favore di una valutazione di
rischio molto più elevato di quello che è realmente.
L’aereo - lo dicono le statistiche e tutti dovrebbero saperlo - è e rimane uno
dei posti più sicuri al mondo in cui ci si possa trovare.
L’aviazione idro ha una particolarità: accadono molti piccoli incidenti con
danni alle macchine, in parecchi casi riparabili in altri no, mentre accadono
pochissimi incidenti con conseguenze per le persone.
I frequenti danni alle macchine sono dovuti al fatto che il pilotaggio di un
idrovolante, nelle manovre che hanno a che fare con l’acqua, richiede più
esperienza del pilotaggio di un aereo terrestre, nelle corrispondenti operazioni
su una pista. Le cause più frequenti del danneggiamento di un idrovolante
sono illustrate nei capitoli “Errori classici nel pilotaggio degli idrovolanti” e
“I flagelli dell’aviazione idro” e dunque qui non ci ripeteremo.
Vale solo la pena di ricordare il cosiddetto “fattore umano”, che oggi è
pressoché l’unica causa degli incidenti. A questo proposito è però bene speci-
ficare che è difficile che un incidente sia dovuto a un semplice errore di
manovra o di valutazione del pilota. In genere una catena di azioni ed errate
valutazioni, fatte da più persone, precede l’incidente. Un aereo è proprietà di
qualcuno, è esercito da qualcuno, è pilotato da qualcuno. Inoltre è mantenuto
da qualcuno, venduto da qualcuno, assegnato da qualcuno, controllato da qual-
cuno. Nella maggior parte degli incidenti la responsabilità, lungi dall’essere
del solo pilota, come sovente si legge sui giornali (soprattutto se il pilota non
c’è più), è da attribuire ad alcuni, se non a parecchi dei “qualcuno” citati.
I poco frequenti danni alle persone in incidenti di idrovolanti sull’acqua si
devono invece - per fortuna - al fatto che in questi incidenti l’incendio è
sconosciuto, la superficie liquida, per quanto dura, ammortizza l’urto e l’idro-
volante è dotato di strutture protettive di enorme efficacia.
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IN VOLO SULL’ACQUA
IDROVOLANTI
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Scarponati o a scafo?
Metà della storia del volo sull’acqua è stata fatta da aerei con galleggianti, detti
“scarponati”. L’altra metà con aerei a scafo centrale. Un tipo è meglio dell’altro?
A quasi cento anni dalla nascita dell’aviazione idro le discussioni sul tema fervono.
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il dorso delle ali, al fine di consentire il volo a velocità bassissime, alle quali
un grosso aereo di quel tipo sarebbe già stallato da un pezzo. L’ardita e raffi-
nata costruzione permette a quell’aereo di operare nel bacino del Pacifico, per
operazioni di ricerca e soccorso, su onde di 3 metri di altezza, il record assolu-
to nella storia del volo umano.
Attualmente, in Russia, è allo studio un aereo anfibio biturbina, a scafo, per
trasporto di linea di una settantina di passeggeri, il Beriev 200, la cui progetta-
zione e costruzione può beneficiare della grande esperienza accumulata dal-
l’industria aeronautica russa nei decenni scorsi.
In Italia begli esempi di aerei con galleggianti sono il Caproni CA 100, di
cui furono costruiti più di 1000 esemplari (a Como ve ne furono fino a 16), e il
Macchi MB 308 (a Como ne arrivarono quattro), mentre sul fronte degli aerei
a scafo è stato prodotto il Piaggio P 136 (l’unico idrovolante bimotore mai
stato in esercenza all’Aero Club Como) e il prestante e raffinato Siai-Nardi
FN 333 Riviera (collaudando il quale perse la vita Nello Valzania, generoso
rifondatore dell’Aero Club Como nel dopoguerra e valentissimo pilota, aereo
mai posseduto dalla scuola di Como). Il Riviera ha carrello e galleggiantini
retrattili, a tutto vantaggio dell’aerodinamica, e viaggia alla velocità di 150
miglia all’ora. Sia il Piaggio P 136 che il Riviera conobbero il successo com-
merciale nel continente nordamericano (il primo con il nome di Royal Gull).
Dopo che i due Lake presenti a Como erano scomparsi, proprio allo scocca-
re del millennio, molti piloti comaschi hanno sentito una nostalgia tale di quel
tipo di aereo da volerne acquisire un altro al più presto. Un aereo a scafo è
considerato innanzitutto di importanza strategica: una scuola di volo idro com-
pleta, infatti, deve contemplare l’istruzione sui due tipi fondamentali di idro-
volanti, quelli con galleggianti e quelli a scafo. Una scuola siffatta produce
piloti idro più esperti e versatili di una scuola che fa uso di uno solo dei tipi di
idrovolante, ovvero del solo “più facile” tipo con galleggianti.
Qualcuno dice che l’aereo a scafo “è più difficile”, ovvero che richiede
maggiore perizia nella manovra, maggiore finezza nel controllare gli assetti,
maggiore capacità di valutazione delle condizioni ambientali, maggiore espe-
rienza. Ebbene, si deve dunque dedurre che i piloti di idrovolante con galleg-
gianti si sentano tranquilli quando conducono l’aereo in modo approssimati-
vo? O quando compiono operazioni senza averle valutate in tutti i loro aspet-
ti? O che si beffino dell’esperienza o ritengano di poter portare familiari e
amici su un idrovolante facendo cinque o sei ore in totale all’anno? Per alcuni
in effetti è così: «l’aereo a galleggianti è più facile; se anche sono giù di
esercizio in qualche modo me la caverò». Scarsa ambizione di migliorarsi,
poca curiosità, nessun desiderio di diventare un pilota più completo e consa-
pevole. Certo, l’aereo a scafo richiede un certo esercizio e frequenza di impie-
go, ma possiamo ragionevolmente sostenere che il livello di proficiency ri-
chiesto dall’impiego di un aereo a scafo è quello che qualunque pilota idro
dovrebbe desiderare per portare in giro altra gente.
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Tutto è diverso con un aereo a scafo. Un Lake, per esempio, riesce a compie-
re una virata sottovento anche in presenza di un vento di notevole forza. Ma,
soprattutto, il pilota non dovrà mai temere il cappottamento, pressoché impos-
sibile per un aereo di questo tipo.
La tecnica del “decollo circolare”, per fare un altro esempio, è applicabile
sia con uno che con l’altro tipo di aerei. Tuttavia essa è utile, oltre che spetta-
colare, quando viene praticata con un aereo a scafo, che riesce a raggiungere
la velocità di decollo e a distaccarsi girando in una pozzanghera d’acqua,
ovvero con un raggio strettissimo (il Lake è campione assoluto, per questa
prestazione). Un aereo con galleggianti può fare un decollo circolare con un
raggio di virata enorme e quindi solo in un bacino vastissimo, ove l’applica-
zione di quella tecnica è, oltre che pericolosa, sostanzialmente inutile.
Su terra un aereo anfibio con galleggianti è altissimo sulla superficie e può
operare solo con venti al traverso lievi, pena il ribaltamento laterale. Lo scri-
vente è atterrato a Lampedusa con un Lake Renegade, a scafo, con un vento di
28 nodi esattamente al traverso e senza particolari problemi. Il socio del Club
ed esperto pilota Luigi Fara è atterrato a Marina di Campo, sull’isola d’Elba,
con un Lake Buccaneer con 25 nodi di vento al traverso, pure senza problemi.
Segue un altro esempio del vantaggio di operare con un aereo a scafo. L’Ae-
ro Club ha portato a Venezia due aerei, per una manifestazione che contempla
che i due idrovolanti siano messi alla boa per qualche ora di fronte a Piazza
San Marco. Gli aerei sono un Lake Renegade e un Lake Buccaneer. Dopo
l’ammaraggio in un canale secondario, chiuso al traffico e sorvegliato dalle
vedette della Capitaneria, gli aerei hanno flottato fino al Canale della Giudec-
ca, proprio di fronte a Piazza San Marco. Ebbene, se il Club non ha perso due
aerei è solo perché, per caso, si trattava di aerei a scafo. Infatti il Canale della
Giudecca è trafficatissimo da imbarcazioni di ogni tipo, incluse le vere navi.
Le ondate che hanno investito gli aerei, nelle ore di permanenza, avrebbero
quasi certamente fatto ribaltare un aereo a galleggianti. Ma se anche ciò non
fosse successo, il ribaltamento sarebbe stato certamente causato da un elicot-
tero, comparso all’improvviso sul teatro della manifestazione, un gigantesco
Sikorsky HH3F, che ha incominciato a vagare in hovering a poca distanza dai
Lake alla boa. Gli aerei, per alcuni secondi, si sono trovati in mezzo a una
specie di tornado, con le ali sottovento degli aerei immerse per quattro quinti
nel mare. Un tornado che avrebbe fatto ribaltare qualsiasi idrovolante... con
l’eccezione di uno a scafo (per correttezza, si deve riconoscere che esiste un
aereo con galleggianti che avrebbe potuto sopportare l’abnorme sollecitazio-
ne: il DC 3 anfibio restaurato dal Folsom’s Air Service).
Guardando ai fatti, a Como quattro aerei a scafo hanno operato complessi-
vamente per 26 anni e 5000-6000 ore di volo, mentre quattro anfibi con gal-
leggianti hanno operato complessivamente per un paio d’anni, per un totale di
qualche centinaio di ore (uno è stato perso per cappottamento, come si è detto,
e tre sono stati presto rivenduti, uno dopo un lungo fermo in quanto inutilizza-
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bile per ragioni di rumore e un altro addirittura prima di entrare in linea). Una
realtà che mette indubbiamente in leggero imbarazzo i sostenitori della supe-
riorità degli anfibi con galleggianti.
In conclusione, non si può dire che uno dei due tipi sia superiore in tutto
all’altro e al top delle prestazioni abbiamo sia gli anfibi a scafo sia gli idrovo-
lanti “puri” con galleggianti. Ci sono situazioni in cui uno è superiore e altre
in cui lo è l’altro.
L’operatore di una scuola di volo che abbia i due tipi di idrovolante, dal
canto suo, potrà giovarne grandemente, offrendo un servizio di altissimo valo-
re formativo.
Se l’operatore fa anche manutenzione, come è il caso dell’Aero Club Como,
l’impiego dei due differenti mezzi offre anche all’officina di manutenzione
un’opportunità di perfezionarsi, dovendo affrontare le problematiche relative
ai due tipi storici di idrovolante. È certo che il nostro capomeccanico Danilo
Pecora e gli altri meccanici Adriano Giorgi, Filippo Faglioni e Maurizio Porro
hanno avuto e continuano ad avere, con la manutenzione dei Lake, una rara
occasione di crescita professionale.
È opportuno, a questo punto fare un’altra constatazione: molti piloti di aerei
con galleggianti detestano quelli a scafo, mentre non è vero il contrario. In
genere, infatti, i piloti di aerei a scafo amano volare anche su aerei con galleg-
gianti. Perché? La risposta sembrerebbe risiedere nel fatto che i piloti di aerei
a scafo, salvo poche eccezioni, pilotano anche quelli con galleggianti, mentre
è più raro trovare piloti di aerei con galleggianti che pilotano aerei a scafo.
Mentre i primi hanno una doppia competenza di cui ovviamente sono felici e
fieri, i secondi - questa è l’opinione dell’autore - reagiscono al lieve senso di
inferiorità derivante da saper usare solo uno dei tipi di idrovolante denigrando
l’altro. Insomma l’atteggiamento - sempre secondo l’autore - ha le sue basi in
quel sentimento che ispirò al poeta latino Fedro la favola “La volpe e l’uva”.
Il suggerimento finale dell’autore ai piloti è: imparate a conoscere i due tipi
di idrovolante. Poi avrete l’opportunità di sviluppare una preferenza per uno o
l’altro, ma fondata su un’esperienza diretta e consapevole di entrambi, non su
maldigeriti sentiti-dire. E se infine deciderete di pilotare uno solo dei tipi, fate
comunque tesoro della preziosa esperienza acquisita con l’altro.
Oppure fate come l’autore di queste righe: volate a più non posso su uno e
l’altro tipo di idrovolante.
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Il “Caproncino”
Un piccolo aereo dalla grande storia, riportato alla vita da Gerolamo Gavazzi.
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minuscolo e - detto tra noi - carciofesco Cessna 150, solo perché era dotato di
radio e di strumentazione moderna, che evocava quella degli aerei di linea.
C’era una gran voglia, tipica degli anni sessanta e settanta, di farla finita con il
passato e di evolversi verso il “nuovo”, anche se poi chi si stava muovendo
verso il “nuovo” spesso non si accorgeva di buttare al vento preziosissimi
pezzi, per non dire interi patrimoni di “vecchio”.
Per ritornare al filone principale della nostra storia, bisogna dire che Gavaz-
zi e l’aviazione tutta hanno avuto la fortuna che l’I-ABOU non è finito in una
stufa o nel museo di un’importante famiglia di costruttori aeronautici, ma nel
cortile del già citato industriale della Brianza, che al momento giusto ha resti-
tuito senza troppe resistenze ciò che aveva preso e malamente conservato.
La storia del restauro è una storia di amore tra Gerolamo Gavazzi e quel-
l’opera dell’arte e dell’ingegno umano che è il Caproncino. Rimandiamo al
suo libro chi desidera conoscere i dettagli della vicenda. Solo ricordiamo un
dettaglio curioso, che riguarda il motore. Dopo aver ricuperato cinque o sei
motori originali Colombo, seguendo piste da vero detective, Gavazzi si trova-
va in uno stato di sconforto, non avendo speranza di poter riportare in vita
quella ferraglia ormai inservibile. Ma la fortuna aiuta gli audaci. Scopre che a
Roma, precisamente a Cinecittà, un motore Colombo, asportato decenni ad-
dietro da un Caproncino, è usato come “macchina del vento”. Attraverso una
serie di peripezie, che lo porteranno negli scantinati di Trastevere a trattare
con incredibili personaggi, riesce a impadronirsene e scopre che l’uso ininter-
rotto ha fatto sì che il motore si sia conservato eccellentemente (si conferma la
vecchia regola che i motori si conservano bene quando sono usati).
Gavazzi, in cinque o sei anni di lavoro e dopo un ingente investimento
economico, giunge dunque a rimettere un Caproncino in condizioni di volare.
Un’impresa ciclopica, ma che riscuote un meritato plauso generale. All’inau-
gurazione, nel 1991, all’Aero Club Como giunge il Gotha dell’aviazione ita-
liana. Rappresentanti di case costruttrici, generali, sottosegretari, la contessa
Mariafede Caproni, giornalisti e altre personalità, in tutto 800 persone, osser-
vano ammirati le evoluzioni del rinato CA 100, pilotato dal collaudatore Zor-
zoli. È proprio un giorno di gloria per l’Aero Club Como.
Negli anni successivi Gavazzi usa il Caproni in modo saltuario e infine,
poco considerato dall’amministrazione dell’epoca del Club e sollecitato dal-
l’Aeronautica Militare, lo porta al museo di Vigna di Valle, ove resterà per
alcuni anni. Infine, nel 2004, fortemente sollecitato da un Consiglio direttivo
sensibile alla storia del volo idro, lo riporta a Como, sua culla e sede naturale.
Gavazzi decide nobilmente di adottare una politica di grande apertura e
mette a disposizione l’aereo di tutti i soci del Club. Gradisce anche che alcuni
piloti del Club si abilitino alla macchina. Chi scrive queste righe è il primo
abilitato all’impiego della magnifica macchina, cosa che considera una fortu-
na pari al vincere al superenalotto.
Non è facile descrivere l’emozione di pilotare un CA 100 del 1935 come
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Idrovolanti
pilota responsabile del volo. È come per un violinista suonare uno Stradivari.
È come poter sfogliare sulla poltrona di casa il Codice Atlantico di Leonardo
(oggi prerogativa del solo Bill Gates).
Ma quando ci si trova ai comandi l’emozione passa immediatamente. Si
tratta di pilotare al meglio un aereo, con le sue peculiarità, le sue caratteristi-
che, i suoi pregi e difetti. Un pilotaggio sicuro richiede freddezza. La sola
cosa che conta è riportare l’aereo integro sulla superficie. Che sia una replica
del Flyer dei fratelli Wright, dell’Hydravion di Henri Fabre o uno Space
Shuttle poco importa. Quel che conta è concludere il volo in bellezza.
I controlli pre-volo sono quelli tipici che si fanno su qualsiasi aereo. La
benzina si controlla a vista, guardando nell’unico serbatoio posto tra le ali
superiori, eventualmente con una stecca di misura, oppure azionando l’appo-
sito comodo misuratore posto sul fianco destro della cabina: lo si porta a
fondo corsa all’indietro e poi in avanti, fino a che si blocca sul valore in litri
della benzina presente.
Ci si deve ricordare di rimuovere i cappucci metallici dei tubi di scarico, che
sono rivolti verso l’alto e che, se lasciati liberi ad aereo fermo, potrebbero
essere ostruiti da oggetti o animali. Un altro controllo peculiare è che le punte-
rie, che sono allo scoperto sopra le teste dei cilindri, siano ben ingrassate.
Dopo aver sistemato l’eventuale passeggero nel posto anteriore, ci si siede
in quello posteriore e si allacciano le cinture, che sono due spallacci, e si veste
l’apposito caschetto e gli occhiali.
È il momento di avviare il motore. Bisogna dire subito che governare un
vetusto motore Colombo, uscito dalla fabbrica 70 anni fa, è una piccola im-
presa. L’avviamento, in alcuni modelli di CA 100, avviene a manovella, men-
tre nell’I-ABOU si attua grazie a un motore elettrico a 24 volt fissato al
pavimento della cabina. L’aereo non possiede batteria. Dunque una batteria
esterna è collegata con due speciali spine ad altrettante prese poste sulla fuso-
liera. Un assistente, al momento giusto, stabilisce il contatto e il motore di
avviamento aziona l’elica. Più facile da eseguire con l’aereo sul carrello, per
un successivo alaggio con il motore in moto, l’operazione è più difficile con
l’aereo al pontile. Infatti, appena il motore parte, l’aereo si muove e l’assisten-
te deve essere lesto a tirare il cavo per estrarre le spine dalle prese sulla
fusoliera e poi ad evitare i piani di coda dell’aereo ormai in movimento.
Dal punto di vista del pilota, la procedura di avviamento prevede l’apertura
del rubinetto della benzina, l’apertura del rubinetto del cicchetto, l’aziona-
mento della pompa manuale del cicchetto, la chiusura del rubinetto del cic-
chetto, l’inserimento dei magneti, la regolazione della manetta del gas e di
quella dell’anticipo e infine l’azionamento della manovella del cosiddetto
“magnetino”, che fornisce alle candele un’extra-corrente. Mentre si aziona il
magnetino si fa cenno all’assistente di stabilire il contatto sulla batteria ester-
na. La manopola della manovella del magnetino è in metallo con un nottolo di
legno. Nel farla girare il pollice e l’indice della mano destra tengono il nottolo
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Il “Macchino”
Ali da caccia e galleggianti da idrocorsa: l’aereo più usato dai piloti del Club
negli anni Cinquanta e Sessanta.
L’Aero Club Como, nella sua storia, ha posseduto quattro Macchi MB 308
idro: l’I-AIAJ, l’I-RIVE, l’I-EMAM e l’I-CARE.
La sigla che designa il tipo, nella parte letterale, indica che l’aereo è stato
progettato dall’ingegner Ermanno Bazzocchi (MB significa Macchi-Bazzoc-
chi, così come “MC” indicava i Macchi-Castoldi). Il celebre progettista si è
formato negli anni Trenta alla scuola volovelistica di Como e rimasto alla
guida della società varesina fino alla produzione del reattore MB 339. La
parte numerica indica che l’aereo è l’ottavo progettato dalla Macchi dopo la
seconda guerra mondiale, quando la fabbrica ha reincominciato dal numero
300 la designazione dei suoi modelli.
Dotato di un motore Continental C-85, da 85 cavalli, sufficienti per la ver-
sione terrestre, l’aereo è dotato di un motore C-90 da 90 cavalli per la versione
idro (l’I-EMAM conserva invece l’originale C-85). Infine è approvata l’appli-
cazione del motore Continental-Rolls Royce O200 da 100 cavalli (lo stesso
montato sui Cessna 150 che il Club userà per 17 anni, negli anni Settanta e
Ottanta).
La Macchi, richiesta di produrre una versione idro, dota l’aereo di galleg-
gianti, che risultano però poco adatti a un aereo di così scarsa potenza. Visto
l’insuccesso, il progetto è riassegnato a un team, sempre della Macchi, che
realizza nuovi galleggianti per il piccolo aereo in base ai disegni dei galleg-
gianti dell’idrocorsa MC 72 di Agello. I risultati, come si può immaginare,
non deludono le aspettative e il “Macchino” idro risulta un aereo di ecceziona-
li caratteristiche. Per curiosità, si sappia che il secondo aereo idro di questo
tipo è acquistato dalla marchesa Carina Negroni di Genova, pilota, battitrice
di record e amante del volo sull’acqua.
Il Macchino è uno degli aerei più importanti nella storia del Club. Su di esso
si formano per un quarto di secolo i piloti idro italiani e molti stranieri. Aereo
di legno, quindi estremamente solido, tollera qualsiasi strapazzo.
L’I-CARE e l’I-EMAM sono protagonisti delle belle e romantiche avventu-
re presentate nel film Gli scarponi del cielo, prodotto nei primi anni Sessanta.
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Nel film li si vede sorvolare a bassa quota le rive del Lago di Como, sullo
sfondo di una musica di piano. In una scena Stucchi e Galfetti si incontrano
sul Lago di Varese, allo scalo della Schiranna, ove sono giunti ciascuno con un
Macchino. «Toh, chi si vede - dice Galfetti - da dove vieni di bello?» «Ciao
- risponde sicuro Stucchi - Vengo da Chambery.»
I due aerei sono soliti sorvolare in formazione il monumento ai Caduti nel
corso dell’annuale cerimonia ufficiale, alla presenza di importanti esponenti
di tutte le Forze Armate, come è documentato in belle fotografie. L’effetto,
rapportato alla città di Como, è lo stesso del sorvolo dell’Altare della Patria da
parte delle Frecce Tricolori, per lo spirito e l’emozione provocata.
L’I-AIAJ, distrutto per un urto con la riva dopo un ammaraggio “lungo”
(incolumi, come sempre, gli occupanti), era stato finanziato da un gruppo di
soci, che cavallerescamente rinunciano al loro credito per non mettere in diffi-
coltà il Club.
Il nome dell’I-CARE deriva da quello del suo proprietario, Cademartori
Remo, che sul finire del corso di primo grado decide di acquistare il “suo”
aereo. Proprietario della splendida villa ancora oggi chiamata con il suo nome
sulla sponda orientale del ramo comasco del Lario, Cademartori è protagoni-
sta di un’incredibile operazione finanziaria internazionale, che infine determi-
na un’immediata e definitiva emigrazione in Sudamerica. Dopo una serie di
vicende amministrativo-giudiziarie l’aereo diviene proprietà dell’Aero Club
Como. L’evento può verificarsi a condizioni economiche di enorme favore
grazie alla lungimiranza di un revisore dei conti del Club, il ragionier Valsec-
chi, che tempo prima, in una scrittura privata secondaria, aveva introdotto un
diritto di prelazione a favore del Club.
Tra i piloti che svolgono un’attività intensa sui Macchini nei primi decenni
del dopoguerra ricordiamo, oltre agli istruttori Valzania, Mangoni, Giacopi-
nelli e De Nigris, agli espertissimi piloti di caccia Reiner, Lozei e Galfetti e al
giovane “acrobata” Franceschini, i soci e consiglieri Bocchietti, Minarchi,
Stucchi, Medaglia, Dosi, Di Bona, Scacchi e Cappelletti. I Macchini hanno
anche accolto, in quelle epoche, nel loro stretto abitacolo, quattro autentiche
“Grazie”: Gisella Belgeri, Selene Maltini, Piera Taroni e Cecilia Riva.
All’epoca degli aerei di legno si potevano vedere i meccanici Riedo e Bira-
ghi, aiutati dal Gorla, trasformarsi in maestri d’ascia e l’officina assumere
tutto l’aspetto di una falegnameria. I residui delle lavorazioni erano riciclati
quali combustibile per le stufe.
Nel 1970 ho fatto appena in tempo ad essere abilitato alla macchina,
l’I-CARE, qualche giorno prima della perdita dell’aereo, ultimo esemplare in
possesso del Club, dopo che l’I-EMAM era cappottato nel 1965, in seguito
all’urto con un tronco, nel flottaggio ad alta velocità.
Nel corso della breve abilitazione, siglata dall’istruttore Pio Roncalli, mi
ricordo il duomo roteare davanti ai miei occhi, in uno degli innumerevoli
tonneau che il buon Roncalli mi ha fatto assaporare, dopo i looping, le chan-
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dallo stesso aereo idro, nel 1970, dopo il mio primo e ultimo volo da solista, ci
sono risalito, nella sua versione terrestre, nel 2004.
Il cruscotto, gli interni, le finestre, le finiture sono realizzati con i materiali
di cinquant’anni fa: alluminio, legno, bachelite. Tutti i pomelli sono di allumi-
nio. La levetta dei magneti, quando è in posizione “off”, si può estrarre, fun-
gendo da chiave.
Si rulla direzionando il ruotino anteriore con la pedaliera (una sensazione
inusuale per chi usa abitualmente aerei anfibi, che hanno ruotini anteriori
“folli”) e si frena con una leva posta sul pavimento, dotata di pulsante, del
tutto simile a quella del freno a mano di una Topolino, che agisce contempora-
neamente su entrambi i freni.
L’aereo a pieno carico decolla e sale bene ed è molto manovrabile. Essendo
piccolo, offre una notevole visibilità attraverso le finestrature ed è anche co-
modo. Il comando dei flap, che ha due tacche, è sul soffitto e ha una leva come
quella del freno di una motocicletta, che ne consente l’azionamento. Il carrel-
lo è fisso e quindi non contempla errori.
Si decolla senza flap (nella versione idro non mi ricordo bene, ma suppongo
con una tacca) e si atterra con due tacche. Le ruote della versione terrestre
sono molto alte, essendo state progettate in un epoca in cui i campi erano in
erba o terra battuta.
Dopo aver fatto ritornare il Caproncino all’Idroscalo, il Club potrebbe fare
ritornare anche questo piccolo gioiello della tecnica italiana, di grande signifi-
cato e importanza storica per molti soci del Club di Como e per tutti i coma-
schi appassionati di volo.
Sarebbe l’unico MB 308 idro del mondo.
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dei Cub. All’aereo è anche applicato un STC che ne incrementa il carico utile,
cosa indispensabile, dato che l’applicazione dei galleggianti anfibi comporta
un peso a vuoto maggiorato.
In seguito alla cessione dell’I-AN, dopo più di un decennio di impiego di
una coppia di Piper, il Club rimane dunque con solo uno di essi. I dirigenti
decidono di sottoporlo alla stessa trasformazione fatta per il socio straniero.
Dunque l’I-BUFF diventa anfibio e acquisisce un motore da 180 cavalli.
L’ultimo volo in coppia dei “gemellini gialli”, prima della definitiva parten-
za da Como dell’I-CGAN, è fatto nostalgicamente il 30 gennaio 2003 e im-
mortalato in un servizio in cui i due aerei sono ripresi in volo e in flottaggio
sullo sfondo di ville e montagne innevate.
L’ex I-CGAN, al momento dell’uscita di questo libro, si trova deregistrato e
caricato su una nave, destinato a volare sulle grandi praterie del Midwest e
sugli acquitrini della Florida.
Fa impressione pensare che l’antico J2 con 40 cavalli si sia evoluto nello J3
con 65 e in seguito 85 cavalli, poi nel Cub con 90 cavalli, nel Super Cub con
135 e 150 cavalli e infine in questo “mostro” con 180 cavalli.
Il Piper, con l’applicazione di galleggianti Wipline forniti di carrello e di
motore da 180 cavalli, acquista la grande versatilità dell’anfibio, ma perde la
leggerezza e fine manovrabilità e anche una certa piacevolezza nel pilotarlo
che aveva con i galleggianti EDO 2000 e il più leggero motore da 150 cavalli.
Inoltre la trasformazione è molto costosa e il carico utile, come in tutti gli
anfibi scarponati, si riduce, mentre i consumi crescono e l’autonomia è ridot-
ta, un problema serio in un paese come l’Italia, ove trovare la “benzina avio”,
ovvero la 100LL, è un’avventura. I galleggianti Wipline sono più leggeri dei
corrispondenti EDO, ma anche più delicati e soggetti a perdite. La velocità di
crociera, infine, rimane inchiodata a poco più di 70 nodi.
Il risultato finale è un lento e costoso anfibio biposto dotato di un motore
anche troppo esuberante per l’uso che se ne può fare e scarsa autonomia, ma,
malgrado tutto, è sempre un Piper Super Cub e quindi un aereo piacevolmente
utilizzabile per moltissime operazioni a breve raggio, se si è in grado di soste-
nerne l’alto costo di acquisto e di mantenimento.
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Il Cessna 150
Piccolo e depotenziato, ma colonna dell’attività del Club per 17 anni.
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Il Cessna 172
Con le ruote o i galleggianti, la perfetta nave-scuola.
I motivi del passaggio ai Cessna 172 sono bene illustrati nel capitolo prece-
dente. Questo aereo, con motore da 160 cavalli e galleggianti EDO 2130 può
essere considerato il miglior idrovolante-scuola mai costruito.
Il presidente Musumeci, dopo la perdita dell’I-BOMI, fa il secondo affare
della sua vita (il primo era stato l’acquisto del Lake I-COMM) e trova in
Olanda un Cessna 172 XP con 70 ore da nuovo, a prezzo di macchina usata. È
perfetto per i galleggianti che erano montati su un Cessna Rocket che il Club
aveva acquistato per sbaglio nel 1977. Non riuscendo a omologarlo in Italia in
versione idro, lo aveva infine ceduto all’Aero Club Milano.
Riacquisiti i galleggianti dall’Aero Club Milano, Musumeci riesce a mette-
re in linea un aereo perfetto e dalle alte prestazioni e carico utile. Peccato che
dopo 15 giorni l’aereo sia perso, per troppa confidenza nell’impiego. Il pilota,
di grande esperienza, decolla in un vento di 30 nodi con raffiche probabilmen-
te a 40 e più, con quattro persone a bordo. All’ammaraggio per la 33 riattacca,
disturbato da un battello, vira per ripresentarsi, ma stalla da una quota di
qualche centinaio di piedi, finendo sulla riva.
In questo caso i già varie volte menzionati santi protettori del pilota idro,
ovvero i “santi scarponi”, fanno un vero miracolo. Tutti illesi salvo il pilota,
che non aveva allacciato lo spallaccio e che si è fratturato il setto nasale sulla
“V” sopra il cruscotto. L’aereo però è perso senza rimedio.
In seguito lo stesso Musumeci ha una giusta intuizione e acquista un set di
galleggianti EDO 2130 per il Cessna 172, ma incontra difficoltà di tipo buro-
cratico a farli approvare, così che quei galleggianti resteranno stoccati in un
angolo dell’hangar per quattro anni.
Nel frattempo è fatta la pessima esperienza dell’acquisto (e successiva velo-
ce vendita) del Cessna 185 I-AGEL ed è acquistato e subito perso anche il
Maule I-AMPH. Il grosso del lavoro di istruzione è fatto sul Cessna 150 che
rimane e sul Piper PA 18, a un certo punto affiancato da un altro Piper, ma la
necessità di possedere una flotta omogenea di aerei-scuola si fa impellente,
anche perché il Club dà vita all’Istituto Aeronautico di Como e si prevede un
forte aumento della richiesta.
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C’è chi dice di acquistare altri Piper e chi dice di dotarsi di una flotta di
Maule, idro per il primo periodo, anfibi per la navigazione.
Contro il parere del Piazzale dell’epoca, alcuni consiglieri decidono di “for-
zare” e di imboccare la strada dei 172. Il primo deve essere acquistato terre-
stre, perché i galleggianti sono già presenti in hangar. La cosa, che apparente-
mente è una grana, perché richiede l’adattamento come idrovolante di un
aereo con le ruote, ha un risvolto estremamente positivo. Infatti il poter sce-
gliere tra l’usato terrestre consente di trovare un 172 “stratosferico”, quasi
nuovo (con 250 ore totali) e “full IFR”. L’aereo, che sarà l’I-BISB, giunge in
Italia attraverso le Azzorre e dimostra presto tutte le sue doti, la sua affidabili-
tà, il suo elevato rendimento, anche dovuto alla solidissima costruzione.
A breve distanza di tempo è acquistato l’I-LSEE, trovato nel Maine con 500
ore da nuovo, e l’I-PUSI, ottenuto (privo di motore) in cambio di un paio di
galleggianti EDO 4580 dimenticati da 30 anni in fondo a un magazzino e
recuperati per quattro soldi grazie all’interessamento di Bernardino Lenzi,
con il risultato finale che quell’aereo è costato molto meno degli altri.
Perso l’I-PUSI per un infelice decollo con cappottamento, causata a sua
volta da un grave errore commesso da un allievo solista, che cade ingenua-
mente nella trappola di abbassare un pochino il muso dopo il distacco («per
guadagnare velocità»), arriva in hangar l’I-SAAB, acquistato “via fax”.
Nei Consigli direttivi degli ultimi vent’anni sono fiorite due scuole di pen-
siero. Una è quella della prova in volo e ispezione tecnica accurata, l’altra è
quella dell’acquisto “via fax”. L’assioma della prima è che non si può acqui-
stare un aereo senza averlo conosciuto a fondo e che questo controllo vale le
spese di viaggio. L’assioma della seconda scuola è che tanto un aereo vale
l’altro e molto lavoro deve poi essere comunque fatto dalla nostra officina, per
cui l’ispezione non vale i soldi della trasferta.
Se facciamo una lista con due colonne, mettendo nella prima gli aerei acqui-
siti negli ultimi vent’anni secondo la procedura della prova e ispezione e nella
seconda quelli acquisiti via fax, ci accorgiamo di come nella prima trovino
posto tutti gli aerei che riacquisteremmo volentierissimo, mentre nella secon-
da troviamo dall’aereo “molto scadente” alla vera “ciofeca”, di cui il Club ha
fatto fatica a liberarsi o che ha perso quasi volentieri. Si capisce che lo scri-
vente è un esponente della prima scuola di pensiero.
Tornando ai Cessna 172, il Club è oggi felice di averne quattro in linea di
volo, che assorbono gran parte del lavoro di istruzione che si fa nella nostra
scuola. Andando avanti così, potrebbe rendersi necessario il quinto.
Con l’I-BISB ho compiuto il raid Como-Biscarrosse, con soste a Marsiglia,
lago di Pareloup, e Moissac, sulla Garonna, con il compianto e caro amico
Bruno Confalonieri, capace e simpatico compagno di viaggi e avventure.
Altri soci hanno fatto viaggi importanti, come quello di Valentino Magni e
Gabriele Ermecini fino ai laghi della Puglia.
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Questi aerei sono molto diffusi nel continente americano in versione idro. Si
tratta di piccoli workhorse, se paragonati ai Noorduyn Norseman o ai De
Havilland Beaver e Otter, ma sono aerei molto affidabile e capaci di svolgere
gravose missioni di trasporto di persone e cose in tutti i climi.
Se trasformati in anfibi perdono gran parte delle loro belle caratteristiche,
diventando aerei dallo scarso carico utile e molto goffi sull’acqua, da cui
decollano percorrendo distanze lunghissime sul redan.
La situazione migliora leggermente se si applicano alcuni STC che rendono
le superfici più portanti e incrementano il peso massimo al decollo.
L’Aero Club Como ha posseduto i due Cessna della serie 180 con galleg-
gianti anfibi (il 185 I-AGEL e il 180 I-DEPI, nomi dati in onore rispettiva-
mente di Agello e de Pinedo), e ha avuto in uso per un breve periodo il Cessna
206 idro I-SIMJ.
Partiamo a parlare di quest’ultimo. L’aereo, con i suoi 300 cavalli e dotato di
kit che ne incrementa il carico di 90 kg, ha dimostrato tutte le sue potenzialità
in operazioni in piena estate in cui i piloti hanno condotto in volo cinque
passeggeri adulti, anche decollando da superfici perfettamente piatte.
Il 206 ha alcuni evidenti difetti. La visibilità anteriore è molto scarsa, so-
prattutto quando l’aereo è in flottaggio. Lo scrivente, di statura non alta, è
costretto a condurre il decollo “aggrappato” alla “V” che sta sopra il cruscot-
to, con i piedi puntati sui pedali, stando quasi in piedi. Il motore del 206 tende
a surriscaldarsi; guai se si dimenticano i flabelli chiusi in decollo. Inoltre il
posto anteriore a destra non ha portello. In cambio l’aereo è molto spazioso e
ha grossi galleggianti che consentono di operare su superfici brutte e che
conferiscono all’aereo una buona stabilità sull’acqua; per fare cappottare un
206 bisogna proprio mettercela tutta.
Simili pregi e difetti ha il 185, aereo con 300 cavalli, mentre il 180 ha il
problema aggiuntivo di avere solo 230 cavalli, cosa che lo rende decisamente
sottopotenziato (in America molti vi montano un motore da 270 cavalli).
Si tratta, in generale, di aerei molto rumorosi e inutilizzabili in modo regola-
re in area urbana, a meno che non vengano installate particolari eliche tripala,
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che comportano anche una riduzione del regime massimo di giri del motore.
Tra le operazioni fatte nel breve periodo in cui abbiamo posseduto il 185
ricordo un film fatto sul Lago di Sabaudia, nelle acque del quale mi sono
dovuto gettare vestito per attutire l’urto della coda con gli alberi della riva,
dopo che l’aereo andava alla deriva con la batteria defunta.
L’I-AGEL è stato protagonista di un altro film, sul Lago di Garda, diretto da
Lina Wertmuller. Il pilota, in quest’ultima occasione, era il socio Luigi Canta-
rone, che ha dormito in cabina in tutti i giorni di presenza dell’aereo sulle rive
del Benaco per le riprese.
L’aereo vola oggi in Norvegia come terrestre. Lo abbiamo venduto in quan-
to inutilizzabile a Como per l’eccessivo rumore, ma anche per l’elevato costo
di esercizio e l’insufficiente carico utile (per non andare fuori carico era di
fatto usabile solo come biposto).
Con il 180 abbiamo partecipato a un divertente spot, girato a Sestri Levante,
volto a promuovere la vendita di un dolcificante. Equipaggio: Confalonieri e
Baj. Un idrovolante sorvola una bellissima barca, su cui prende il sole un’al-
trettanto bellissima ragazza. L’aereo si posa sull’acqua. Ne esce un ugualmen-
te bellissimo tipo, che si getta in acqua e si porta a nuoto vicino alla barca. La
ragazza lo invita a bordo. Scenetta finale, in cui compaiono in tutta la loro
gloria le bustine di dolcificante: i due conversano e si scambiano sorrisi, sor-
seggiando un caffè. Favoloso l’albergo in cui siamo stati ospitati.
Venduto a un italotedesco dopo un lungo periodo di scarsissimo impiego,
l’aereo si è distrutto al primo ammaraggio in mare. L’italotedesco, solo a
bordo, abituato agli aerei terrestri, ha estratto il carrello in corto finale. Come
al solito, nessuna conseguenza per il pilota, che ha nuotato fino a riva.
Il pilota, al termine dell’abilitazione idro, conseguita a Como, era stato
vivissimamente consigliato dai nostri istruttori di non usare l’aereo come soli-
sta, in quanto la sua preparazione ed esperienza era valutata come nettamente
inadeguata. Ci è spiaciuto che non abbia voluto seguire il consiglio e che
abbia voluto scrivere quella brutta pagina di storia dell’aviazione idro, con-
trassegnata dalla definitiva perdita di un idrovolante.
Il relitto è stato poi acquisito dall’Aero Club Como, per interessamento del
consigliere Giorgio Porta, chiamato a curare il recupero. I galleggianti, dopo
essere rimasti parecchi anni in hangar, sono stati ceduti alla Kenmore Air in
cambio delle parti e degli impianti necessari per mettere a nuovo i galleggianti
del Maule acquisito nel 2004.
Verso la fine degli anni Novanta il Club è stato indotto ad acquistare un altro
Cessna 185, da trasformare in anfibio. Esso è stato però rivenduto senza esse-
re mai stato usato, in quanto facente parte di una serie che, per una particolare
caratteristica, non era possibile trasformare in idrovolante.
Nel complesso, l’esperienza fatta con i grossi Cessna anfibi è stata molto
negativa, mentre l’esperienza fatta con l’unico aereo di questa classe in ver-
sione idro è stata molto positiva.
197
Idrovolanti
Il Maule M7
Tanti pregi e qualche difetto per l’anfibio superstol.
198
Idrovolanti
reo era stato portato a Bangor, nel Maine, per l’installazione del serbatoio
supplementare. Da qui ha avuto inizio la traversata. Al termine della tratta di
circa 500 miglia tra l’America e la Groenlandia, ecco una brutta sorpresa.
L’aeroporto di arrivo è chiuso per una fitta nebbia. Ci sono due alternative:
tornare in America o raggiungere l’aeroporto all’estremo sud della grande
isola, Narsassuaq. I dirottamenti sono equivalenti, richiedendo uno e l’altro
circa 6 ore di volo. È una fortuna che il serbatoio supplementare assicuri
un’autonomia di 12 ore all’aereo, perché altrimenti il nostro Maule finirebbe
in mare, costretto a un ammaraggio di emergenza.
L’aereo lo usiamo con profitto e piacere, anche se si rivela in realtà un tre-
posti, salvo che se ci sono bambini o persone molto leggere a bordo.
L’I-AMPH è infine perso dopo pochi mesi a causa di una sua caratteristica
intrinseca: ha i galleggianti corti e pesa molto davanti. Dunque basta una forte
raffica di Chiassino, il vento che spira da nordovest, per farlo cappottare men-
tre è in flottaggio lento. Il pilota ha sottovalutato la regola numero uno del
volo idro (una versione della quale dice: “Ogniqualvolta non hai il vento di
fronte, aspettati i guai”) e ha perso l’aereo.
Dopo qualche tempo ci richiama Antony, implorandoci di rivendergli l’ae-
reo, dato che, dopo aver acquistato un bimotore, ha scoperto che nessun aereo
è divertente come un idrovolante e si è reso conto che il suo Maule era una
meraviglia. Non vuole saperne dei Cessna e ha scoperto che gli EDO 2500
sono rarissimi e che non ce ne sono sul mercato. Ma l’aereo non c’è più.
L’anno successivo l’Aergolfo di Napoli acquista un aereo identico, che vie-
ne immatricolato come I-SKIA e dato in esercenza all’Aero Club. I piloti del
Club, per un accordo con l’azienda proprietaria, svolgono per due anni, a
Ischia e nel Golfo di Napoli, molta attività di studio e sperimentazione dei
futuri servizi di aerotaxi che l’azienda vuole offrire. Nel frattempo l’aereo lo
usiamo per le normali attività del Club e lo uso personalmente per il volo
postale da Roma a Parigi per il bicentenario della Rivoluzione Francese, de-
scritto nel capitolo “Dal Tevere alla Senna”. Quell’aereo, pressoché nuovo,
finirà a marcire, corroso dalla salsedine, in un hangar, finché i galleggianti
verranno venduti e l’aereo rottamato.
Perso l’I-AMPH e non più esercente dell’I-SKIA, il Club vende i galleg-
gianti che ci erano rimasti quale resto dell’aereo dopo l’incidente. Nel decen-
nio successivo il Club, dopo la deludente esperienza del Cessna 185 I-AGEL,
persevera nella via a fondo cieco dei Cessna anfibi, passando di “ciofeca” in
“ciofeca”. L’ultimo Cessna 185 acquistato è rivenduto addirittura prima di
giungere alla linea di volo.
Il consiglio direttivo eletto nel 2001 ha invece le idee molto chiare: il Club
deve acquistare un Lake e un Maule. Lo fa, come è esposto in altri capitoli,
contro il parere dell’opposizione, che valuta che il Club non possa permettersi
quelle macchine, «destinate a fare poche ore e a costare troppo». Basta un
anno e mezzo di attività per comprendere che la scelta è invece ampiamente
199
Idrovolanti
“pagante”, sia sotto l’aspetto del puro rendimento economico, dato che le
macchine fanno un numero spropositato di ore, sia perché rilancia l’attività di
volo e navigazione dei soci, un’attività ridotta al lumicino negli anni prece-
denti. I soci del Club, infatti, sono stufi di disporre, per “andare in giro”, solo
dei modesti Cessna 172 idro e di un poco capiente e lentissimo Piper anfibio
(del Piper diciamo sovente che è un aereo “molto ecologico”, perché non
ammazza le api quando queste vi cozzano contro, alla normale velocità di
crociera dei due oggetti volanti).
Gli aerei più grossi e più belli hanno anche un altro vantaggio: attirano
investimenti pubblicitari. Questi sono linfa vitale per il Club in quanto copro-
no costi fissi e permettono ai soci di volare a un costo eccezionalmente basso.
Il Maule attualmente posseduto dal Club, per i quale sono stati trovati i
rarissimi galleggianti in modo rocambolesco, è stato portato in volo dalla
Florida al Canada, come aereo terrestre, e poi dal Canada a Como, come
anfibio, dal socio e consigliere Roberto Ruberto.
L’impresa è stata compiuta senza installare serbatoi supplementari e sfrut-
tando quindi i soli quattro serbatoi regolamentari della macchina.
Interessantissima la relazione di Ruberto sulla sua prima traversata atlanti-
ca. Dopo aver lasciato la Nova Scotia, il volo è proseguito a tappe, pressoché
sempre in condizioni IMC, tra nevicate e accrescimenti di ghiaccio sulle su-
perfici, fino alll’Isola di Baffin. Lì si trova l’aeroportino del continente ameri-
cano più vicino alla Groenlandia, solo 380 miglia nautiche.
Ruberto racconta l’emozione, a metà dello Stretto di Davis, a 12.000 piedi,
di vedere davanti i massicci ghiacciati della Groenlandia e dietro quelli del-
l’Isola di Baffin. Il sentire che sta passando da un continente all’altro su quel
minuscolo mezzo aereo, in alcune tra le zone più inospitali del pianeta, gli dà
una precisa immagine della sproporzione che c’è tra la sua forza e quella della
natura in cui si trova immerso. Eppure quell’mmenso mare, quel cielo, quelle
distese di ghiacci lui li sta affrontando con le sole sue forze, dimostrazione di
quanto sia forte quell’istinto che spinge la persona umana a sfidare gli ele-
menti per andare a vedere che cosa ci sia “oltre”.
L’attraversamento della Groenlandia avviene nel bel tempo e lungo una
rotta che conduce Ruberto a sorvolare l’interminabile altopiano, il che gli
assicura visioni di enorme fascino.
Il viaggio prosegue poi velocemente per l’Islanda, la Scozia e giù verso
l’Europa meridionale, fino a Ginevra ed Evian. In quest’ultima località il
Maule si incontra con il Lake e il Piper del Club provenienti da Como (evento
raccontato nel capitolo “Evian”).
L’eccitante viaggio, fatto in questo modo, oltre a rappresentare per Ruberto
un’esperienza unica, ha comportato un risparmio per il Club di 5000 dollari
sui costi di trasferimento dell’aereo in Europa.
Il nostro bel Maule è oggi un tassello importante della strategia di sviluppo
della flotta del Club.
200
Idrovolanti
I Lake
I Lake sono le flying boat, ovvero gli idrovolanti a scafo, per uso civile più diffusi
del mondo e quelli che sono stati costruiti per più tempo e nel maggior numero
di esemplari. Sono aerei eccezionali, per caratteristiche e prestazioni, ma anche
per un altro motivo: la comunità dei proprietari e degli utilizzatori di queste
macchine è molto unita, interessante e simpatica.
Ci sono aerei che hanno più storia, più personalità, più fascino di altri. Nel
campo degli idrovolanti, che sono già in sé aerei particolari, è facile trovarne.
Pensiamo al primo idrovolante di Henri Fabre, che, a vederlo nelle foto sbia-
dite del 1910, pare quasi impossibile che abbia potuto volare, alle macchine
della Coppa Schneider, all’MC 72, al Navy-Curtiss NC4 con cui Read compì
nel 1919 la prima traversata atlantica della storia, all’S 16 ter di de Pinedo,
agli S 55 di Balbo, ai “Clipper” della Pan Am (il Sikorsky S 42, il Martin 130
e il Boeing 314), ai Latécoère che hanno conquistato l’Atlantico del Sud
condotti da Mermoz e Saint Exupery, al Catalina, al Canadair, allo Shin Meiwa.
Si tratta, in tutti i casi di aerei che hanno fatto la storia dell’aviazione, che
hanno consentito di conquistare continenti e oceani, strumenti di lavoro e vita
per moltissime persone, fornitori di servizi impagabili per intere popolazioni
e in certi casi vere macchine salvatrici di uomini.
Nell’elenco abbiamo volutamente evitato di menzionare gli idrovolanti leg-
geri, per parlarne a parte. Ci sono idrovolanti leggeri di grande personalità sia
nel campo delle flying boat, ovvero degli idrovolanti a scafo, sia nel campo
degli idrovolanti con galleggianti. Nel campo degli idrovolanti con galleg-
gianti il Piper Super Cub, per esempio, di personalità ne ha molta, ed è per
questo che è così amato dai piloti comaschi, che lo usano dal 1965, così come
di personalità ne ha il De Havilland Beaver, mentre nel campo degli anfibi a
scafo sia il Republic Sea Bee, anche protagonista di un serial televisivo degli
anni Cinquanta, sia i Grumman hanno avuto una notorietà eccezionale.
Ma veniamo al Lake. Nato fortunato, è stato prodotto in un numero vera-
mente grande di esemplari, oltre 1300. Anche di Sea Bee è pieno il mondo,
essendone stati prodotti circa 1000, ma la produzione è cessata quasi subito
dopo che era iniziata, alla fine degli anni Quaranta. In quel momento era
molto più redditizio costruire per i militari che dedicarsi a soddisfare le esi-
201
Idrovolanti
genze di famigliole che pagavano a rate. È così che nei cieli della Corea
troviamo molti aerei della Republic, mentre i possessori di Sea Bee incomin-
ciano ad accaparrarsi i pezzi di ricambio esistenti. Il Lake, al contrario, è un
aereo che ha avuto un ininterrotto sviluppo e che oggi, a 56 anni dalla nascita,
è ancora sostanzialmente in produzione, sebbene negli ultimi anni i diversi
proprietari della fabbrica abbiano vissuto alterne vicende.
I giudizi sul Lake - di chi se ne intende, naturalmente - sono molto positivi.
L’aereo è considerato la punta avanzata nel campo delle progettazioni di anfi-
bi leggeri, fiorita negli anni Trenta, interrottasi con la seconda guerra mondia-
le e ripresa con vigore negli anni immediatamente successivi.
In un vasto panorama che ha visto nascere e in alcuni casi affermarsi la
macchina della Goodyear, quelle di Percival Spencer - la Spencer Air Car, il
Sea Bee, il Trigull - l’italiana Siai Nardi FN 333 Riviera e un’infinità di
autocostruiti e di aerei rimasti alla fase di prototipo, il Lake ha dimostrato di
essere il progetto più solido, più completo e anche il più longevo e protagoni-
sta di una lunga evoluzione tecnica. A beneficiarne sono le migliaia di piloti
che dalla metà degli anni cinquanta hanno potuto avvicinarsi al volo su idro-
volante a scafo centrale in modo sicuro ed economico.
Chi voglia avere più informazioni sulla storia dei Lake può consultare il mio
libro I Lake dalla A alla Z. Qui veniamo invece subito a parlare dei Lake che
hanno solcato le acque del Lario, ovvero di quelli usati a Como.
Il primo fu acquistato da persone che erano veri pionieri nella gestione di un
aero club. In un mondo in cui pochi in Italia parlavano in inglese, in cui sugli
aerei dell’aviazione generale non c’erano ancora le radio, in cui andare negli
Stati Uniti costava una fortuna, in un momento in cui i dirigenti dell’Aero
Club erano soliti, verso fine mese, andare su qualche spiaggia a fare voli di
propaganda per pagare un esiguo stipendio all’unico istruttore, unica alterna-
tiva al mettere mano al portafogli, ebbene in un mondo e momento come
quello il Club decise di acquistare un Lake.
Una scelta pionieristica ed eroica, fatta da matti dello stesso tipo di quel
signor Ulk, che in un certo momento della storia dell’umanità non rimase
impaurito, come i suoi conoscenti, dal fumo che si sprigionava da due pezzi di
legno strofinati con sufficiente energia uno contro l’altro, oppure da quel
discendente di Ulk che fin da bambino aveva trovato irresistibile il fascino di
un oggetto tondo che rotola su una superficie oppure ancora da quei malati di
mente che, trovandosi davanti un’interminabile distesa di acqua, hanno voluto
andare di persona a vedere se da qualche parte finisse e che cosa c’era al di là.
Insomma quei dirigenti del Club non sapevano bene dove sarebbero andati a
finire, come tutti i loro citati predecessori, e si stavano veramente affacciando
sull’ignoto, ma non si sono tirati indietro e hanno fatto il passo.
Dunque hanno incaricato l’unico istruttore del Club, Pio Roncalli, pilota di
caccia della seconda guerra mondiale in pensione, bergamasco al 100%, non
una sillaba di inglese, di andare a Tomball, nel Texas, a provare l’aereo.
202
Idrovolanti
Non si sa come sia giunto fin nel cuore del continente americano né come se
la sia cavata con la lingua e con la logistica, ma siamo certi che quando si è
trovato ai comandi del Lake sapeva perfettamente e amorevolmente parlare a
tu per tu con il piccolo anfibio, anche se era la prima volta che montava su un
idrovolante a scafo. Roncalli, come era tipico di quella generazione di piloti,
aveva considerazione solo per due cose: l’acrobazia e il volo in formazione.
L’acrobazia la faceva con tutti i piccoli idrovolanti del Club, e non solo con il
Macchino, su cui lo scrivente si ricorda di essere stato introdotto al looping, al
tonneau, alla vite, ma con il Piper PA 18 e addirittura con il Cessna 150, con
100 cavalli, che non ha potuto evitare il tonneau nelle mani di Roncalli (per la
cronaca, non gli è piaciuto e non lo ha fatto più, dopo la prima e unica volta).
Il volo in formazione lo faceva con qualsiasi allievo che gli capitava a tiro; lo
mandava in volo con un aereo e un paio di brevi istruzioni (non c’era radio a
bordo a quei tempi) e lui, con un altro allievo, con un altro aereo, a seguirlo a
distanza ravvicinata in tutte le manovre.
Nessuno ci può riferire intorno alla relazione fatta da Roncalli al suo ritorno
da Tomball, ma lo scrivente (che lo ha avuto come istruttore quando ha inco-
minciato a volare) riesce a immaginare perfettamente quello che può aver
detto, con un perfetto accento orobico: «Massì, l’è un aereo un po’ del casso,
ma è anfibio, ha quattro posti, è bello solido, fila, consuma poco; certo, ha un
difetto: non ha la cloche, ma pasiensa; un pregio ce l’ha: non ha proprio l’ala
bassa, da caccia, ma quasi, certo meglio dei carciofi ad ala alta che abbiamo
qui noi; non mi hanno fatto fare un casso [looping, tonneau, viti, chandelles
rovescie n.d.a], ma appena arriva vediamo come se la cava».
Il Lake preciso da acquistare il Club lo ha poi trovato in Finlandia, presso il
dealer europeo della Lake, una gentile signora e capacissima pilota, che ha
raccontato incredibili avventure di vita con quell’aereo nei climi gelidi della
Scandinavia, tra cui un avvicinamento a un aeroporto durante una nevicata
dopo che il portello era volato via.
L’aereo è arrivato a Como portato da questa signora e da Edoardo Albonico,
allora appassionato socio del Club, ormai quasi istruttore, e immatricolato
come I-BUKA (poco fantasiosa contrazione di Buccaneer).
In aviazione, almeno in certi momenti, sembra che ci sia una regola: quanto
più un aereo è bello, è stato acquistato convenientemente, serve, è raro, è
costato fatica, tanto più breve è la sua vita. L’elenco degli aerei del Club belli,
anzi bellissimi, difficili da acquistare e da omologare, ma persi subito è lungo
e comprende il Maule M7 I-AMPH (4 mesi), il Cessna XP I-EJCB (15 giorni),
il Lake I-COMM (3 mesi), il Cessna I-PUSI (che in realtà un pochino è
durato: quasi 2 anni), per stare solo negli ultimi due decenni.
L’I-BUKA è durato poco, venendo perso in un passaggio basso su una villa
posta sulla riva di un’isola del Tirreno. Quando, per un errore di pilotaggio,
l’estremità dell’ala ha toccato la superficie a una velocità prossima alla massi-
ma (146 MPH), il muso si è tuffato in acqua e l’aereo è affondato. Tutte vive le
203
Idrovolanti
persone che erano a bordo, anche se una di esse non ha proprio alcun motivo
di mantenere un bel ricordo di quella vicenda.
Nel 1980 il ricordo del “Buka” è ormai lontano, il Consiglio direttivo è
completamente cambiato e il “parco-piloti” è del tutto rinnovato. Il presidente
Musumeci, persona dai forti difetti corroborati da fortissimi pregi, ha decisa-
mente rilanciato l’attività e ha fatto un mutuo per acquistare un nuovo Lake
Buccaneer. Unico Lake nuovo dei quattro acquisiti dal Club, è immatricolato
come I-AIIA. Questo nome richiede sempre due o tre ripetizioni quando i
controllori lo riportano come “I-AIAA”, “I-IAIA”, “I-AI... potete ripetere il
nominativo”, ma è stato imposto dall’Aero Club d’Italia, che ha concesso
un’agevolazione sul mutuo e che ha riciclato sul povero Lake il nominativo
che era stato un paio di anni addietro affibbiato al Cessna Rocket messo su
galleggianti, rimasto due anni in hangar e poi smantellato, in quanto risultato
non certificabile come idrovolante.
Con l’I-AIIA abbiamo fatto conoscere all’Italia e all’Europa che l’idrovo-
lante non solo non è morto nel nostro continente, ma che è vivo e vegeto.
L’aereo partecipato anche a tre Giri aerei d’Italia.
L’I-AIIA durerà ben 20 anni, vera nave scuola, che introdurrà centinaia di
piloti all’aereo a scafo centrale. Si tratta di un bel record, considerando che
l’aereo è stato usato perlopiù come addestratore in uno dei bacini più difficili
d’Italia, per la presenza di onde.
Musumeci ha il merito di acquistare un eccellente secondo Lake in Francia
a un prezzo incredibilmente basso, pari a meno di un terzo di quello pagato
poco prima per l’I-IA. Diventerà l’I-COMM e verrà perso - come si è detto -
prestissimo per ammaraggio “duro”.
Dopo un’infelice esperienza con un Cessna 185 anfibio, quasi subito riven-
duto in quanto inutilizzabile a Como, per l’impressionante rumorosità e l’esi-
guo carico utile, dopo la tristissima esperienza del fiammante Maule trovato a
Pensacola e perso per cappottamento davanti ai pontili, il Club acquista un
Cessna 180, ma lo rivende dopo un breve periodo di scarsa utilizzazione,
anche per le prestazioni assolutamente insufficienti. Un quarto tentativo con
anfibi con galleggianti il Club lo fa acquistando un Cessna 185, ma dopo
averlo tenuto fermo per un anno lo rivende senza averlo mai usato, non poten-
do essere quel preciso aereo certificato come idrovolante (il Club ripete dun-
que l’exploit fatto alla fine degli anni Settanta con il 172 Rocket).
L’unico tentativo duraturo con anfibi dotati di galleggianti il Club lo fa
trasformando in anfibio un Piper Super Cub idro. L’aereo conserva molte
caratteristiche della versione idro, pur perdendone la compattezza, la legge-
rezza e la finissima manovrabilità, ma ha notevoli difetti: è un biposto, ha
un’autonomia ridotta e viaggia a 70 KTS, tutte caratteristiche che lo rendono
costosissimo nell’impiego e inadatto ai viaggi a medio-lungo raggio. Inoltre
costa un occhio della testa: come due Lake Buccaneer oppure come un Cessna
206 idro + un Cessna 172 idro. Andare dal punto A al punto B con il Piper
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Idrovolanti
I-BUFF con due persone a bordo costa, per persona, il triplo che fare lo stesso
percorso con il Lake Renegade con tutti i posti occupati. Dunque il pur bellis-
simo Piperino anfibio non può essere considerato che un aereo-scuola per la
fascia alta degli operatori più facoltosi che possono permettersene l’acquisto
e, nel settore privato, un aereo da amatore per viaggi a corto raggio.
Mentre il Club si avvia, senza apprezzabili risultati, sulla strada di approvvi-
gionarsi e usare anfibi con galleggianti, nel 1987 arriva un altro Lake, il Rene-
gade I-AQVA, in realtà acquistato da una società, l’Idrovoli s.r.l., che lo darà
in esercenza al Club per i 14 anni successivi. Infine lo vende a un socio del
Club a un terzo del suo valore di mercato, il quale a sua volta, dopo averlo
tenuto fermo per due anni, lo rivende al Club stesso, rimasto senza Lake dopo
la perdita dell’I-AIIA.
Al momento di acquistare il Lake Renegade dal menzionato socio, la situa-
zione è paradossale. Infatti i Lake, in quel momento, sono considerati aerei
“difficili”, “per pochi” e hanno un numero esiguo di sostenitori all’interno del
Club. Tutti dicono che gli anfibi con galleggianti sono migliori e più adatti, ma
chi sostiene l’anfibio con galleggianti non rammenta - o evita di dire - che non
ce ne è stato uno che abbia fatto più di 100 o 200 ore (uno addirittura 0 ore!)
prima di essere stato perso (1 caso) o rivenduto (3 casi). I Lake, al contrario,
hanno fatto in totale molte migliaia di ore a Como. L’opinione diffusa di tutti
quelli che comunque remano contro anche senza un motivo preciso, un popo-
lo numeroso in qualsiasi sodalizio, è che il Club non possa permettersi l’ac-
quisto di un anfibio, tanto meno di un anfibio a scafo, ovvero di un Lake.
Come il sociologo Alberoni ha dimostrato, nelle situazioni “nascenti” si
sviluppano energie imprevedibili. Dunque un Consiglio direttivo da poco elet-
to, fatto quasi interamente da persone “nuove” e che non hanno vissuto le
devastanti dinamiche interpersonali tipiche della vita dei gruppi ristretti (alle
quali erano andati invece soggetti Consigli precedenti, tutti fatti da “vecchi
lupi” del Club), decide, contro il parere dei più, di acquistare un Lake.
Va detto che nel nuovo Consiglio, eletto nell’autunno del 2001, è incluso un
“vecchio lupo” del Club, forte sostenitore dei Lake - lo scrivente -, la cui
opinione è però considerata troppo “deformata” a favore del Lake per essere
presa in considerazione e che da solo non riuscirebbe mai a convincere i
colleghi consiglieri e l’assemblea della bontà della scelta di un anfibio a scafo.
Si deve invece proprio al citato “stato nascente” e all’entusiasmo di poche
persone (in particolare quello dell’allora consigliere Mario Camozzi) se l’Ae-
ro Club Como è finalmente rientrato nell’universo degli idrovolanti a scafo.
Questo entusiasmo ha portato all’acquisto, in tempi molto ristretti, del Lake
Renegade numero di costruzione 10, che viene immatricolato come I-AQUA
(altra conseguenza della situazione di “stato nascente”; consigli direttivi fatti
da gente “navigata” hanno impiegato anni per acquistare un nuovo aereo o,
dopo averne parlato all’infinito, non l’hanno acquistato mai).
La fortuna aiuta gli audaci. Il Lake, appena rientrato in linea, può dare prova
205
Idrovolanti
di tutte le sue prerogative e incomincia a essere giudicato dai piloti non più
“per sentito dire”, ma in modo diretto, dopo che ci hanno volato o che hanno
incominciato il corso di abilitazione. E piace subito, per la sua solidità, per le
eccellenti prestazioni, per la visibilità verso l’esterno, l’eccezionale carico
utile, la notevolissima autonomia, l’economicità di impiego, ma anche per il
fatto di essere un aereo “speciale”, che permette ai suoi utilizzatori di entrare
in un club esclusivo, quello dei piloti di aerei a scafo.
Il Lake si rivela inoltre, inaspettatamente per chi non lo conosce, un aereo di
eccezionale appeal. Diventa subito testimonial per spot e immagini pubblici-
tarie. Inoltre viene subito sponsorizzato da un importante industriale dei tra-
sporti in cerca di qualcosa che possa dare un tocco di classe ed esclusività alla
sua immagine aziendale. «Va su terra, sull’acqua e nel cielo; lo stesso faccia-
mo noi con la nostra azienda. E poi è proprio bello.» È così che Mario Pitto-
relli decide di fare apporre sul Renegade I-AQUA le insegne della sua impresa
di trasporti: “Bianchi Group”.
Aereo stol capace di decollare da un laghetto di montagna, il Lake è una
superba macchina per lunghi viaggi, anche perché ben strumentato. Queste
caratteristiche e l’eccezionale capacità di carico fanno del Lake un aereo idea-
le per andare a fare voli di propaganda e dimostrativi in giro per l’Europa.
La prima dimostrazione delle sue doti per questo impiego, dopo il suo rien-
tro in linea a Como, la dà in giugno, quando è ancora immatricolato come
N47LA. Decollato al traverso di Torno dopo un lungo flottaggio sul redan
sulle terribili onde del Tasell e del nuovo catamarano, con tre persone a bordo
e materiali per parecchie decine di chili, a 30 °C di temperatura, ha raggiunto
in due ore il Lago di Mercatale, nelle Marche, alla velocità di 110 KTS; con la
benzina “residua” ha fatto due ore e mezza di voli locali in bacino cortissimo
con ostacoli, andando poi la sera all’aeroporto di Fano. Un profilo di missione
assolutamente impossibile da eguagliare da parte di qualunque altro anfibio
della sua classe e che potrebbe rappresentare la specifica di progetto per un
anfibio leggero di elevate prestazioni.
Un’altra dimostrazione delle sue capacità il Lake la dà pochi mesi dopo a
Mâcon, nella Francia centrale, ove porta in volo 150 persone in un giorno e
mezzo. Tra gli altri, vi trova posto, dietro, un passeggero di almeno 140 kg,
con la figlia nel posto anteriore. Molti decolli sono fatti dal fiume sotto una
pioggia battente con tre “pesi massimi” a bordo e benzina per ore di volo.
La riacquisizione di un Lake all’Aero Club Como mi dà l’opportunità di
scrivere il libro I Lake dalla A alla Z. Destinato inizialmente a fornire ai piloti
locali tutte quelle informazioni che possano favorire un buon impiego ed evi-
tare il danneggiamento della nuova macchina che sta per arrivare, il libro
cresce a poco a poco, anche grazie ai tempi, più lunghi del previsto, di revisio-
ne e approntamento della macchina.
La preparazione del libro è per me una formidabile occasione per conoscere
meglio i Lake nei loro aspetti costruttivi e di impiego, ma soprattutto mi
206
Idrovolanti
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Idrovolanti
proprio alla russa. Come si paga tutto ciò? Con una velocità di crociera non
esaltante e un carico utile scarso.
In volo è un “padre di famiglia”, facile, sicuro. Si atterra innaturalmente. Il
pilota polacco dice seccamente «Vai giù come su una portaerei», dando per
acquisito che in quell’ambiente di piloti di Lake l’appontaggio sia pratica di
tutti i giorni. Capisco che non si deve fare richiamata e retta, ma l’istinto
all’ultimo istante mi tradisce; tiro un po’ e il pilota subito mi corregge. Insom-
ma, si imposta semplicemente la discesa con i parametri giusti finché l’aereo
“si pianta” con i suoi tre carrelli sulla superficie. Enzo, forte della mia espe-
rienza, vissuta da dietro, azzecca meglio il contatto al suo turno di pilotaggio.
L’importatore americano dice che stanno lavorando per aumentare il carico
utile. Sembra un aereo che potrebbe giovarsi di due motori più potenti. Non ce
lo fanno provare su acqua. Dunque il giudizio è sospeso, finché non avremo
fatto un bel numero di decolli e ammaraggi, magari a Como (ricordate la
“prova finestra” del famoso detersivo? Il bacino di Como, per la difficoltà
derivante dalla presenza di onde, è la “prova finestra” degli idrovolanti).
L’ultimo giorno torniamo a Fort Pierce, usufruendo di un passaggio su un
Lake del simpatico amico Tom Schmalz, con cui percorriamo la tratta Winter
Haven-Fort Pierce facendo touch and go in ogni lago sulla rotta. Qui visitiamo
la fabbrica dei Lake, bene accolti dal proprietario Wadi Rahim.
Wadi Rahim, originario del Bangla Desh, fortunato imprenditore aerospa-
ziale nei decenni scorsi, ha deciso di dedicarsi alla costruzione dei Micco,
prestanti aerei acrobatici, e dei Lake. Acquistata la Micco dalla tribù di India-
ni Seminole che ne era proprietaria e la Lake dalla famiglia Rivard, ha riunito
le due fabbriche nella sede della Micco.
Per un anno circa ha prodotto il Renegade 2, il Seafury, dotato di sofisticata
avionica, e il Seawolf, destinato a militari ed enti di controllo del territorio. Il
primo aereo uscito dalla linea di costruzione a Fort Pierce è andato alle Gala-
pagos, ove è impiegato dal Galapagos National Park Service. Il volo dal-
l’Equador alle isole lo ha potuto fare senza problemi, trattandosi di un Seawolf
con 12 ore di autonomia.
Wadi Rahim all’ultimo incontro di Winter Haven ha annunciato la sua di-
sponibilità a riprendere la costruzione del modello 200 EP (l’ultima evoluzio-
ne del fortunato Buccaneer, con motore da 200 HP e albero bilanciato), dotato
di un nuovo pannello di strumenti, se arrivassero una ventina di ordini.
Al momento dell’uscita di questo libro la LanShe ha temporaneamente ces-
sato la produzione dell’aereo per una serie di problemi legali, che la vedono
opposta ai vecchi proprietari, e per gli effetti devastanti di un uragano che ha
colpito la fabbrica nel settembre 2004. Malgrado questa situazione di incer-
tezza riguardo al fabbricante, fare parte della comunità dei piloti di Lake e
pilotare la piccola flying boat continua a essere una grande soddisfazione.
Altre informazioni su questo aereo sono contenute nel capitolo “A galleg-
gianti o a scafo?”
208
Idrovolanti
Non capita tutti i giorni di avere a che fare con una persona che desidera
acquistare un idrovolante. E può capitare una volta sola in molte vite di avere
a che fare con una persona che desidera acquistare l’idrovolante più bello del
mondo. La cosa è veramente interessante, soprattutto se si ricopre il ruolo di
consulenti e si ha la possibilità di conoscere a fondo quell’aereo, di volarci, di
compiere con esso interessanti operazioni.
La cosa è ancora più interessante se queste operazioni non avvengono in
uggiose giornate invernali sulle pianure centrali del Nordamerica o nella Pia-
nura Padana, ma lungo l’estesa barriera corallina che contorna la costa nordo-
rientale dell’Australia, in una stagione ideale e in un clima che può essere
definito con un solo termine: perfetto.
L’avventura diventa infine esaltante se vissuta con persone e in ambienti
umani estremamente gradevoli e arricchenti.
Ma, tornando al volo sull’acqua, quale sarà mai l’idrovolante più bello del
mondo? Dobbiamo innanzitutto scartare tutti gli aerei del passato, pur impor-
tanti e bellissimi, ma che oggi non esistono più quali macchine volanti. Se
infatti intendessimo scegliere il più bel idrovolante mai prodotto, potremmo
forse indicare l’elegantissimo S 55, come l’I-BALB di Balbo, o il l’S 16 Ter
con cui de Pinedo compì il suo raid di 55.000 chilometri, idea platonica del
viaggio in idrovolante, o il naviforme e poco prestante DO X, un vero transa-
tlantico dei cieli, oppure il colossale Hercules di Howard Houghes, che, come
un fuco, potè compiere un unico volo di meno di un minuto in tutta la sua
esistenza. Altri potrebbero indicare l’MC 72 del record tuttora imbattuto di
velocità, oppure uno dei rari esemplari di Spitfire o di Zero idro o, ancora, uno
dei celebri, anzi, mitici Clipper della Pan American, che conquistarono il
Pacifico, o altri giganti dell’aria degli anni Trenta.
Per tornare alle radici, qualcuno potrebbe indicare come il più bel idrovo-
lante del mondo il trabiccolo con cui Henri Fabre, nel 1910, dette origine
all’epopea del volo sull’acqua oppure il primo idrovolante a scafo, costruito e
fatto volare per la prima volta nel 1912 da Glen Curtiss, o forse il primo
anfibio, che Voisin fece volare sulla Senna.
209
Idrovolanti
Ma l’idrovolante più bello del mondo deve avere una caratteristica fonda-
mentale: ci si deve poter volare sopra. Dunque, scegliendo tra gli idrovolanti
effettivamente usabili, molti risponderanno: «il Beaver». Certo, il Beaver (“Ca-
storo”), prodotto in migliaia di esemplari, è stato lo strumento della coloniz-
zazione umana del Grande Nord canadese a partire dal dopoguerra. Aereo
molto affidabile e meravigliosamente progettato e costruito dalla De Havil-
land of Canada, il Beaver è l’aereo più classico dei bush pilots e porta sempre
con sé l’enorme fascino delle avventure vissute da quegli eroici piloti.
Ancora meglio, il Turbo Beaver, più moderno e prestante, con la sua turbina
PT6, potrebbe essere considerato il migliore aereo del mondo.
Salendo nella scala delle produzioni De Havilland, dopo il DHC2 troviamo
il DHC3, l’Otter (“Lontra”), che pure ha una versione con motore a turbina, e
il biturboelica Twin Otter, il più grande aereo con galleggianti attualmente in
uso (il più grande in assoluto mai costruito con galleggianti fu l’italiano Cant
Z 511, costruito nel 1940 a Monfalcone).
Per certi versi il piccolo, ma eccezionalmente prestante Piper Super Cub
può avvicinarsi all’ideale di idrovolante.
Andando nello strano, potremmo identificare come il più bell’idrovolante
del mondo il DC3 anfibio, di cui furono prodotti due esemplari, no dei quali è
stato recentemente restaurato quale macchina volante, negli Stati Uniti, dal
Folsom’s Air Service.
Qualcun altro potrebbe dire: «il Catalina». Certo, il Catalina, oltre a essere
l’idrovolante prodotto nel maggior numero di esemplari, è un aereo importan-
tissimo nella storia dell’aviazione sull’acqua. Ed è anche molto simpatico per
alcuni dei ruoli che ha svolto nella sua multiforme carriera: aereo per la ricer-
ca e salvataggio di naufraghi e aereo antincendio. Volare sul Catalina e guar-
dare il paesaggio dai suoi favolosi blister o dalla torretta anteriore è un’espe-
rienza unica, in effetti.
Altri potrebbero indicare gli ultraleggeri idro, in quanto consentono di intro-
durre alla disciplina del volo idro masse di persone il cui potere di acquisto è
particolarmente basso.
Un’altra idea potrebbe essere quella di un aereo antico ancora volante. L’unico
idrovolante che risponda a questo requisito, almeno in Europa, è il Caproni
CA 100 I-ABOU, il Caproncino restaurato con un eroico impegno personale e
finanziario da Gerolamo Gavazzi. Un’altro restauro, eseguito dal compianto
“Buzz” Kaplan, ha riportato in vita il Savoia S56, che ho avuto il grande onore
di pilotare da Como a Vergiate e ritorno. Anche i Cessna 195 idro o il Sikorsky
S-38 ancora volanti negli USA potrebbero giustamente aspirare al titolo di
idrovolante più bello del mondo.
Tutti gli aerei menzionati hanno un grande fascino e interesse e, per alcuni
scopi precisi, uno o l’altro di essi può essere considerato il meglio, ma l’idro-
volante più bello del mondo, secondo il giudizio dell’autore, deve avere un set
di caratteristiche particolari che si può riassumere così: essere effettivamente
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Idrovolanti
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Idrovolanti
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Idrovolanti
Carate
Sto da pochi giorni con una ragazza. La porto in moto sul lago, a Carate, a
mangiare qualcosa. Dopo il pranzetto siamo appoggiati alla balaustra della
passeggiata, a chiacchierare.
Si sente il rumore di un aereo a bassa quota. Il pilota, evidentemente, sta
seguendo la costa basso basso, e la scruta, come facciamo sempre tutti noi,
anche dopo la millesima volta che ci passiamo. Ogni volta, infatti, c’è qualco-
sa di nuovo o di interessante da vedere.
A un certo punto l’aereo appare. Gli faccio un segno di saluto. Il pilota mi
vede e mi riconosce, fa un’immediata virata verso il centro lago, estrae i flap,
riduce la potenza e ammara, scendendo dal redan proprio davanti ai nostri
occhi. Spegne il motore ed esce dall’aereo, mettendosi sul galleggiante.
«Ciao. Tutto bene? Avete bisogno di un passaggio?»
È Diego Bianchi, pilota, amico, compagno di battute di caccia nelle vaste
praterie del gentil sesso e di avventure in pub e alberghi fuori mano. Persona
attenta, mi ha riconosciuto nel sorvolo della riva, notando che ero in compa-
gnia di una donna. Dunque, da vero fratello, mi fa fare la bella figura di quello
che con un cenno fa scendere un aereo dal cielo, che si mette al suo servizio.
Sarnico
Un amico che abita a Porlezza deve andare a Sarnico, ai cantieri Riva, a
vedere come procedono i lavori sul suo Aquarama. Dunque decollo da Como,
ammaro a Porlezza, carico il passeggero, rientro in volo sul Lago di Como,
che percorro fino a Lecco, continuando poi per il Lago di Iseo. Ammaro a
Sarnico e flotto fin dentro il porticciolo della Riva, ove solerti maestri d’ascia
e inservienti fissano l’aereo con quattro cime.
L’amico studia la sua barca e parla con chi deve, mentre le maestranze mi
fanno un terzo grado per capire come è che “ ’sto tizio” può permettersi di
arrivare lì con un idrovolante e parcheggiarlo a 10 metri dalla sua barca in
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Idrovolanti
lavorazione, cosa mai vista né sentita, malgrado la clientela della Riva com-
prenda re, grandi industriali, attori, finanzieri. Sì, è vero che qualcuno di
questi personaggi è venuto a Sarnico in elicottero, ma ha dovuto atterrare in
un polveroso campo lontano dal cantiere. L’idea di queste persone semplici è
che l’elicottero è “da sciuri”, ma oggi se lo possono permettere “anche in
troppi”, mentre l’idrovolante... è un’altra storia.
Porto Cervo
Emanuele Bedetti in quel momento rappresenta una grande casa che produce
auto per la fascia più alta del mercato, la Bentley. È invitato alla festa dell’Aga
Khan allo Yacht Club di Porto Cervo. Ci andiamo con il Lake da Como.
È quasi certo che siamo tra quelli che hanno impiegato, per arrivare al
santuario mondiale del jet set, meno tempo, se si considera il viaggio door to
door. I jet privati e i grossi elicotteri sono infatti più veloci del Lake, quando
sono in volo, ma, salvo casi rari, non si trovano a 5 minuti dall’uscio di casa o
dell’ufficio, alla partenza.
Molo di Sant’Agostino
Ritornate indietro nel tempo a quando avevate 5 anni, o 10. La mamma vi
porta spesso a fare una passeggiatina sul lungolago, a Como. Un bel giorno
arrivate a un pontile, all’interno del molo di Sant’Agostino, dove c’è un aereo,
una visione inaspettata e magnifica. Non avete mai visto, nella vostra vita, un
aereo da vicino. L’aereo galleggia sull’acqua; è un idrovolante.
La mamma parla con delle persone e vi fa salire su questo curiosissimo
mezzo di trasporto, poi sale anche lei. Il motore si avvia, l’aereo si stacca dalla
riva e incomincia a navigare sulla superficie, molto lentamente, come una
barca. Poi si sente un gran rumore e si prova un’emozionante sensazione di
velocità. Il rumore diminuisce e diventa più regolare. State volando!
Guardate fuori dal finestrino. Il paesaggio scorre sotto di voi: case, strade, il
duomo, le macchine, le persone che camminano, i battelli sul lago. L’aereo è
come una farfalla, si muove in qualunque direzione, anche verso il cielo, e può
volare anche basso sull’acqua, dando un’incredibile sensazione di velocità.
Il pilota vi chiede dove abitate e, con pochi gesti sicuri, dirige l’aereo in
quella direzione. A un certo punto vedete qualcosa di familiare; è il vostro
quartiere. Poi vedete la vostra casa. Una visione affascinante. Tutto è diverso
da quassù. Il pilota capisce qual è e ci fa sopra un giro stretto. La nonna o i
fratelli escono e salutano. Voi li riconoscete e provate una grande emozione.
Il pilota vi invita a mettere le mani sul volantino e vi indica come far cabra-
re, picchiare, virare l’aereo. Voi vedete che l’aereo si muove proprio seguendo
i vostri gesti e provate una sensazione di potenza mai provata prima.
Quando il pilota posa l’aereo delicatamente sull’acqua siete esausti e avete
la sensazione di aver passato un pomeriggio nella cabina dell’idrovolante, ma
sono passati solo 10 o 15 minuti.
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Idrovolanti
Corvatsch
Il tempo sulle Alpi non è proprio bello, ma sul Maloja c’è ceiling, come
evidenziano le telecamere che via web ci mostrano tutta l’Alta Engadina. Si
esce di casa, dopo 15 minuti si decolla da Como, dopo altri 35 minuti si atterra
a Samaden, dopo 25 minuti si prende la funivia e dopo altri 20 minuti eccoci
in cima al Corvatsch, sci ai piedi, ad affrontare la prima discesa, un’ora e
trentacinque minuti dopo essere usciti di casa e aver passato due dogane.
Lecco
Una persona deve andare a Lecco per importanti affari. Ha nevicato per due
giorni e le strade sono bloccate. I treni ci mettono ore. Le nubi sono basse e
sfrangiate, ma tra esse e la superficie del Lario la visibilità è decente e ha
smesso di nevicare. A metà pomeriggio saliamo sul Piper Super Cub. Dopo 13
minuti di volo a bassissima quota doppiamo il Capo Spartivento, a Bellagio, e
dopo altri 12 minuti il passeggero scende sul pontiletto della Camera di Com-
mercio di Lecco, dove ha dato appuntamento al suo interlocutore.
Il ritorno avviene all’imbrunire ed è molto suggestivo, avvenendo, oltre che
sotto un ceiling basso, tra le rive del Lario innevate fino al bagnasciuga e
costellate, come in un presepio, da un’infinità di fiochi lumicini.
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IN VOLO SULL’ACQUA
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Vita di Club e dintorni
“bestia da elica”, la cui vita è un calvario in ogni istante in cui non si trova a
bordo di un aereo. «Bene - dice lui - bastano, bastano. Dài che andiamo a fare
un giro. Ma, senti, per curiosità, che lavoro fa tuo padre?» Intanto si dà da fare
a preparare un aereo, che in seguito conoscerò come il Piper PA 18 I-OLMO.
Poche parole in tutto. Lui ha visto nei miei occhi il guizzo dell’interesse per
il volo, io ho davanti a me una persona che, lungi dal trattarmi con sufficienza,
prova un gran piacere a trasmettermi l’interesse, anzi la gioia per quell’attività
che per millenni è stata il sogno dell’uomo. Ma soprattutto mi trovo davanti
una persona che mi spiega la cosa che avrei dato un braccio per sentirmi dire:
che chiunque, se lo vuole, può diventare pilota. Con un po’ di imbarazzo, mi
comunica che l’ora volo del Piper è stata proprio il giorno prima portata da
9000 a 12.000 lire, ma che la cosa è inevitabile per garantire la continuità
della scuola di volo in quel momento di inflazione galoppante.
«Per fare il brevetto ci vogliono 12 ore [tempo di volo richiesto per conse-
guire la licenza di primo grado], ma non preoccuparti che ti prepariamo a
pilotare l’aereo molto prima; vedrai che a sei o sette ore sei già per aria da solo
e nelle altre ore ci divertiamo.»
Con cautela mi prospetta anche qualche difficoltà nell’impresa di ottenere il
brevetto, che risiede tutta nel fatto che la materia “Navigazione” contempla
l’impiego di “numeri negativi”. In procinto di presentarmi agli esami di matu-
rità scientifica e alle prese con derivate e integrali, non capisco bene. Per me la
difficoltà è pensare che dovrei mettere mano a tutti i comandi che ci sono
sull’aereo e dare un senso a tutti i quadranti che si affollano sul cruscotto.
Confesso che del volo fatto quel giorno non mi ricordo nulla, se non l’esito
di carattere decisionale: «Questa è una cosa che devo assolutamente fare.»
Frastornato, ma, da modernista e motorista accanito, eccitato dall’idea di
poter vivere di persona l’emozione di pilotare un aereo, la sera racconto a mio
padre il tutto. Sono in apprensione. E se mi dicesse di no? Io ho deciso che
avrei comunque imparato a volare, anche di nascosto, anche facendo carte
false, ma il consenso paterno è un elemento che vale certamente la pena di
coltivare, anche solo per i vantaggi economici che può assicurare.
Mio padre, da adolescente, nel perfetto spirito degli anni Trenta, aveva un
sogno: diventare pilota di caccia. Aveva incominciato a volare sugli alianti del
GUF pochi mesi prima dello scoppio della guerra e della sua partenza, come
ufficiale volontario, per la Russia. Quasi terminati gli studi di ingegneria, era
stato assegnato al Genio, con suo profondo rammarico. Si deve dire che se
fosse stato preso in Aeronautica quasi certamente non sarebbe sopravvissuto.
Mio padre, entusiasta, mi dà via libera da tutti i punti di vista e stanzia
immediatamente la cifra necessaria alle operazioni. La mattina dopo sono al
Club a pagare, prendere i moduli per la visita all’IML, acquistare i libri di
testo, che divorerò in pochi giorni, e soprattutto a volare.
Il corso di pilotaggio è intensivo. Si fanno moltissimi voli di 5-8 minuti,
essenzialmente decolli e ammaraggi. Il volo, inteso come rettilineo e livellato,
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Scuole
L’idroaviazione si è affermata a Como negli anni Trenta proprio per la presen-
za delle scuole di volo militare e civile. Nel dopoguerra è rinata, ancora con la
funzione principale di formare piloti idro. Una sola differenza: prima della
guerra Como era una delle scuole di volo idro italiana e una delle tante euro-
pee. Dopo la guerra Como era - come è ancora oggi - l’unica scuola di volo
idro del continente per piloti dell’aviazione generale. L’attività della scuola è
la più importante svolta dal Club, per ore volate e significato strategico.
La lettura dei vari capitoli di questo libro mette in evidenza, attraverso molti
aneddoti, come ci sia stata un’evoluzione nel tipo di preparazione dei piloti e
nelle tecniche di insegnamento del volo.
Per farla breve, gli istruttori che avevano vissuto l’ultima guerra mondiale
tendevano a formare piccoli piloti di caccia e acrobati. Poi è arrivata la gene-
razione degli istruttori che insegnavano a usare l’aereo in modo preciso e
sicuro per fare brevi giri in zona laghi, che in effetti è l’attività che la maggio-
ranza degli allievi poi svolge. Ecco imporsi, a un certo punto, gli istruttori tutti
dediti a formare piccoli piloti IFR e di linea, i cui allievi hanno incominciato a
muoversi per il mondo facendo radionavigazione a un ottimo livello e comu-
nicazioni radio professionali. Un’altra categoria di istruttori ha valorizzato
l’aspetto idro e quindi la formazione di tanti piccoli bush pilots.
In ciascuna di queste scuole c’è del buono e tutte possono offrire all’allievo
un importante patrimonio di preparazione e conoscenza. Quando però un’im-
postazione è troppo spinta su un solo aspetto, eventualmente incrociando una
precisa vocazione da parte di un allievo, sorgono i problemi.
Il discorso si farebbe lunghissimo se volessimo riportare le mille e mille
avventure vissute nel corso di lezioni di volo. Qui basta sottolineare che la
scuola attuale del Club, sotto la direzione di Renato Carnabuci, con Franco
Cereda capopilota, Gabriele Ermecini, Paolo Buscajoni, Marco De Vitis e
Luca Solari istruttori, rappresenta una compagine collaudata, in grado di ad-
destrare all’impiego delle diverse tipologie di idrovolanti (scarponati e a sca-
fo) e di compendiare le diverse impostazioni di cui si è parlato sopra, così da
offrire, oltre ai minimi livelli di preparazione ed esperienza previsti per gli
esami, una preparazione più avanzata e specifica a diversi livelli, anche in
funzione delle inclinazioni dell’allievo.
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Vita di Club e dintorni
possibile per ragioni di sicurezza. Sa, non possiamo rischiare nemmeno il più
piccolo inconveniente in un viaggio ufficiale».
La spiegazione è ragionevole, in realtà, ma tutto fa pensare che il generale la
pensi molto diversamente. Intanto mi chiedo a che cosa serva andare nello
spazio e diventare famosi se poi non si può fare un giretto su un Piperino,
quando lo si desidera.
Mi rivolgo allora ai responsabili italiani e ripropongo la cosa, comunicando
loro la sensazione che il generale desideri proprio godersi dall’alto le bellezze
del lago di Como. Loro tornano dagli “addetti culturali”, con i quali discutono
in modo impegnato per un paio di minuti. Il generale cerca di capire che cosa
stia succedendo, mi guarda e mi fa un sorriso un po’ enigmatico, ma scuote la
testa. Risultato finale: niet. Non si discute; nulla da fare.
Al termine della festicciola il generale mi saluta stringendomi energicamen-
te la mano fissandomi negli occhi.
Se solo lo avessero lasciato salire sul Piper... Perché proprio il Piper? Ma è
evidente: perché è un biposto e ci saremmo trovati in volo soli, io e lui (casual-
mente, quel giorno, sarebbe stato l’unico aereo in acqua). A quel punto sarei
salito senza dare nell’occhio verso il centro lago, come in un normale volo
turistico. Ma, girata la punta di Torriggia, avrei continuato la salita e avrei
imboccato la Val d’Intelvi, raggiungendo, attraverso la gola della Val Mara, il
lago di Lugano. A quel punto, indicando la città, avrei detto al generale «Swit-
zerland» e avrei atteso di capire se il generale si stava semplicemente godendo
il paesaggio oppure se qualche altra ideuzza gli stesse frullando in quei giorni
nel cervello, come qualche suo atteggiamento poteva suggerire a una mente
un po’ immaginifica come la mia. Non lo saprò mai.
Era qualche giorno che mi preparavo mentalmente a tutte le evenienze:
innanzitutto, colpito dall’enfatica adesione del generale alla proposta del volo
in idrovolante, avevo incominciato seriamente a valutare l’ipotesi che il gene-
rale volesse raggiungere la Svizzera per chiedere asilo politico. È vero che il
regime probabilmente teneva moglie, figli e la vecchia zia del generale quali
ostaggi, ma non si sa mai. Magari la moglie era la segreta amante di un alto
funzionario, durante le passeggiate cosmiche dell’astronauta, e il generale,
sapendolo, immaginava che il regime non avrebbe portato l’affondo sulla sua
famiglia. Magari il generale aveva segretamente organizzato una crociera sul
Mar Nero, da Odessa, della famiglia e proprio quel giorno l’intera sua fami-
glia si trovava nelle viuzze di Istambul, dopo essere scesi dalla nave per fare
qualche acquisto, e stava solo aspettando il segnale per dileguarsi, aiutati da
un ex agente del servizio segreto, compagno di scuola del generale. Oppure,
semplicemente, poteva averne talmente piene le tasche da pensare di trovarsi
la sua soluzione individuale. Chissà.
Ma che fare se eventuali guardie del corpo o agenti (non sapevo che sareb-
bero stati “addetti culturali”) si fossero fatti portare in volo con un altro aereo
del Club? Come seminare l’altro idrovolante? Ho pensato a varie soluzioni,
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Conca di Crezzo
La tragedia nei cieli lariani.
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L’idea grezza che ci siamo fatti dell’incidente deriva dall’aver udito decine
di racconti di attraversamenti delle Alpi condotti con piccoli bimotori a elica
da piloti come l’ex presidente Musumeci o altri che sono impegnati ogni notte
nella particolare attività definita informalmente con il nome di “Overnight”.
Questi piloti trasportano in ogni tempo meteorologico pacchetti e piccole
merci tra gli aeroporti del Norditalia e le città dell’Europa centrale, fino al-
l’Olanda. Sono piloti che non possono salire facilmente oltre la fascia in cui
sono presenti ostacoli e terribili fenomeni meteorologici, come la grandine, la
forte turbolenza o la pioggia sopraffusa, e che hanno imparato negli anni ad
affrontare quell’ambiente ostile. Abbiamo la sensazione che sarebbe stato
meglio se all’ATR fossero stati destinati piloti con quel tipo di esperienza.
Nei mesi seguenti Franco Panzeri, lo scrivente e l’istruttore Albonico assu-
mono compiti di vario genere nell’ambito dell’inchiesta sull’incidente, impo-
stata dal procuratore della Repubblica di Como Mario Del Franco. Ciò può
apparire strano, in quanto esistono al mondo persone enormemente più com-
petenti, da un punto di vista tecnico, di noi piloti di aero club, ma la nostra
presenza è stata giudicata opportuna per l’essere scevri da deformazione pro-
fessionale e presumibilmente non toccati da alcun interesse nel settore.
È impressionante vedere la ricostruzione al computer delle fasi finali del
volo, generata in base ai dati del Flight Data Recorder (coperta da segreto): lo
stallo, la picchiata, l’impatto.
È istruttivo tradurre (questo è il mio compito) migliaia di pagine di docu-
menti e di rapporti su incidenti o inconvenienti accaduti ad ATR 42, relazioni
sulla formazione di ghiaccio su aerei di quella categoria, parti dei manuali di
volo, carteggi tecnici relativi a quell’aereo.
È tragicamente emozionante leggere le trascrizioni dei dialoghi in cabina,
tratte dal Voice Data Recorder, sincronizzate con le trascrizioni delle comuni-
cazioni radio dei due piloti, dei controllori e dei piloti degli aerei che volavano
nell’area nei minuti precedenti e seguenti l’incidente. Da quelle frasi scritte
emerge uno scenario complesso, ma anche i pensieri e la diversa esperienza e
i diversi atteggiamenti dei piloti presenti sulla scena.
Il poter analizzare così nei dettagli un evento di quel genere è un’esperienza
unica per un pilota e particolarmente istruttiva per il gestore di un’attività di
volo, in quanto insegna a riconoscere la catena di piccoli e grandi eventi che
può portare a un incidente.
Fa capire che vi sono incidenti che hanno origini in comportamenti e in
decisioni molto lontani nel tempo e nello spazio dall’evento tragico.
E soprattutto fa capire che, oltre alla capacità, l’umiltà è essenziale per la
sicurezza. Capacità e umiltà del progettista, del costruttore, dell’esercente, dei
manutentori, dei piloti e di ogni altro operatore avente a che fare in qualche
modo con il volo: questo è ciò che fa star su gli aerei.
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Volare gratis
Ebbene: si può.
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In transito all’Idroscalo
Como, crocevia di avventurosi piloti... ma non proprio tutti “top gun” idro.
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Idroaeroturismo
nella regione dei laghi prealpini
L’idrovolante è uno dei mezzi del futuro per i trasporti di interesse turistico
in area lacustre. Esso consente di passare con facilità e rapidità dall’ambiente
terrestre a quello acquatico a quello aereo.
Ogni zona d’Italia, il paese che annovera sul suo territorio il 70% del patrimo-
nio artistico mondiale, consente di fare interessanti voli di propaganda.
La zona di Como e del Lario offre la possibilità di fare voli che permettono
di apprezzare il paesaggio lacustre, quello montano, quello di pianura e innu-
merevoli forme di diversa e sempre interessantissima urbanizzazione: dalle
vestigia romane e medievali a quelle rinascimentali, a quelle della Rivoluzio-
ne industriale, a quelle del Razionalismo, tipiche del Novecento. Dalla torre di
guardia alle ville più sontuose, dai resti delle culture preistoriche all’architet-
tura di montagna della civiltà contadina; si può vedere di tutto dall’aereo in
una regione come la Lombardia e in generale nella fascia prealpina e alpina. E
con l’idrovolante si ha anche il vantaggio di potersi fermare lungo il percorso,
ove c’è acqua, ovvero pressoché dappertutto nella nostra zona.
Un consiglio: usate un aereo lento. Si vede meglio e di più.
Il giro classico
Il meglio del lago e dei monti lariani
Da più di settant’anni i visitatori del nostro territorio sono portati a fare il
“giro in idrovolante” qui di seguito descritto, che è il più “popolare”, consen-
tendo di sorvolare le più rinomate località del Lario.
Dopo il decollo da Como il passeggero può vedere, sulla destra, Villa Geno
e le ville private che sorgono appena a nord. Subito dopo lo sguardo si deve
muovere velocemente tra l’abitato di Blevio, a destra, e la conca di Cernobbio,
a sinistra, con Villa Erba, Villa d’Este e Villa Pizzo, dai tenui colori.
Proseguendo, a destra appare la sfilata di ville tra Blevio e Torno, tra cui
Villa Troubetzkoy, Villa Cademartori, Villa Roccabruna e Villa Taverna. Tor-
no appare come un magnifico paesino lacustre, con la piazza, il porticciolo, la
chiesa, le ville a lago dei reali d’Arabia e gli alberghi e ristoranti.
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Vita di Club e dintorni
“di sfilata” di Lezzeno, il paese più lungo del lago, composto da innumerevoli
frazioni, la Grigna.
In genere si prosegue proprio lungo la costa di Lezzeno fino a Bellagio
(anticamente Bilacus, un nome che evoca la divisione del lago in due rami).
Qui si tiene l’aereo un po’ storto e inclinato a destra, per consentire una
migliore visione delle ricchezze architettoniche e paesaggistiche di una delle
più rinomate località turistiche del mondo.
All’inizio del paese si può vedere la bella frazione di San Giovanni, la cui
imponente chiesa domina una piazza a lago. Qui ci si può fermare per visitare
il Museo degli Strumenti di Navigazione e pranzare nella tipica trattoria, ove
la mamma cucina il pesce pescato la notte precedente dal figlio.
La punta di Bellagio appare secata alla base da un lunghissimo prato, termi-
nante sul ramo di Como con un giardino a scalinata e sul ramo di Lecco da una
grossa villa. Si tratta di Villa Giulia, il cui citato stretto e lunghissimo giardino
era usato durante la seconda guerra mondiale come pista per gli Stork, le
“Cicogne”, essendo stata la villa requisita dai Tedeschi e usata come sede di
un comando.
Ma ecco, subito dopo, sulla sponda comasca, Villa Melzi, con il vasto giar-
dino e il suggestivo padiglioncino del tè, dal tipico tetto azzurro, frequentata
nell’Ottocento da molti personaggi illustri, tra cui Stendhal e Listz.
Si giunge così al nucleo del paese, reso evidente dal porto, in cui spicca il
maestoso Grand Hotel Villa Serbelloni. Appena sopra, Villa Serbelloni, ora
sede della Fondazione Rockefeller, con l’immenso parco reso di struggente
dolcezza da gruppi di cipressi.
Con l’aereo si circumnaviga la punta, un vero monte solitario, sulla cui parte
orientale si possono ammirare scoscese scogliere di roccia che si gettano nelle
prime acque del ramo di Lecco.
Nel compiere la virata si ha una visione di tutto l’Alto Lago, con i conoidi di
deiezione che sporgono dalle rive, generati nei millenni dagli apporti alluvio-
nali dei torrenti che si gettano nel Lario, ricoperti di altrettanti paesi. Davanti
c’è Varenna, dominata dalla cosiddetta Torre di Teodolinda, sede dell’impor-
tante Villa Monastero. Al termine si sorvola Pescallo e di nuovo l’abitato di
Bellagio e si prosegue verso Griante, sulla sponda occidentale, ove, verso
Menaggio, si possono ammirare ville e giardini importanti. Nel magnifico
parco di Villa Maria si trova quel che si può definire il “Crystal Palace del
Lario”, una raffinata costruzione in ferro e vetro. Seguono, verso sud, ormai a
Tremezzo, Villa Carlotta, con i suoi giardini botanici, l’imponente Grand Ho-
tel Tremezzo, l’abitato di Tremezzo, con le due ville affiancate La Carlia e La
Quiete, il cui giardino “all’italiana” appare come un complesso intarsio multi-
colore. Si è giunti ormai nell’ampia e languida ansa di Lenno, il cosiddetto
“Golfo di Venere”, che si percorre per intero.
A un’estremità dell’ansa, vicino al pontile di imbarco della Navigazione,
proprio in fondo alla passeggiata, sorge l’Hotel San Giorgio. Dotato di una
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moltissime costruzioni in pietra un tempo usate come stalle. Dopo aver dop-
piato la punta della Cavagnola si vede sulla sinistra la ripida strada in salita
che porta a Veleso e Zelbio e al Pian del Tivano. Dopo la punta di Torriggia
appaiono a destra, a mezza montagna, le celebri cave di pietra di Moltrasio, un
materiale usato per secoli per la costruzione di case e palazzi e anche - vale la
pena di ricordarlo - delle spalle del ponte in ferro di Paderno.
Salendo ancora ci si porta all’altezza dello spartiacque, che separa quelle
che fluiscono verso il bacino del Lario e quelle che irrorano il Triangolo
Lariano, formando il Lambro. È bello seguire la “via delle creste” dal Bollet-
tone a San Maurizio, a poca distanza dalle creste stesse, disseminate di croci,
baite e sovente gruppi di escursionisti. Guardando a destra c’è il lago, guar-
dando a sinistra i laghetti tra Como e Lecco e la grande pianura padana. Dopo
aver doppiato il faro voltiano ci si lascia scendere a capofitto verso Brunate, di
cui si possono ammirare, tra i pini, belle ville liberty e tipici chalet alpini.
Se la giornata è bella ci si trova di fronte, guardando verso ovest, il grandio-
so gruppo del Monte Rosa. Ma ora l’attenzione è attratta dalla città di Como,
di cui si può percepire perfettamente il centro storico, a pianta romana, e molti
elementi di interesse: il Duomo, San Fedele, la Casa del Fascio di Giuseppe
Terragni, che è la più importante costruzione in stile razionalista, piazza Ca-
vour, il Tempio Voltiano, il monumento ai Caduti, i circoli nautici l’hangar, le
grandi ville della sponda occidentale del bacino cittadino.
Il circuito di avvicinamento ci riporta verso Blevio, poi a sorvolare Cernob-
bio, con Villa Pizzo, Villa d’Este, l’imbarcadero liberty e Villa Erba, con gli
avveniristici padiglioni del centro espositivo, una visione - quest’ultima - che
manda in visibilio i passeggeri modernisti, affascinati da quella specie di
astronave sapientemente mimetizzata tra gli alberi secolari. Appena prima
dell’ammaraggio si ha, sulla destra, il cantiere della Navigazione, con molti
battelli ormeggiati, e poi Villa Olmo, che si vede ormai dal pelo dell’acqua.
Tutto questo in una trentina di minuti o poco più.
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L’Alto Lario
Lago, alte montagne e vallate alpine
L’alto lago di Como presenta un grande interesse da un punto di vista paesag-
gistico, ma anche da quello artistico. Qui l’itinerario è descritto per la parte a
nord della linea che va da Menaggio a Varenna, essendo i percorsi più a sud
descritti in altri itinerari.
Subito a nord di Menaggio si trova Nobiallo. Questo paese ospita la sede
della Guardia di Finanza, con i relativi motoscafi, che svolge una funzione di
controllo sulle acque del lago, e la “torre di Pisa del Lario”, ovvero il campa-
nile della chiesa, che è inclinato in modo impressionante.
Subito dopo, la curiosa villa “La Gaeta”, in classico stile eclettico dei primi
del Novecento, che imita una dimora medioevale.
Sulla sponda lecchese si protendono nel lago le piane formate dai conoidi di
Bellano e Dervio, sede dei cantieri della Navigazione, e poi quella più piccola
di Corenno Plinio, un paesino nel cui tessuto si può vedere perfettamente
delineata la sagoma del vecchio castello, proteso nelle acque.
Sulla sponda comasca si incontra Rezzonico, con il suo castello, tuttora
esistente e abitato, e Pianello. Qui, proprio sulla riva, si vede il Museo della
Barca Lariana, una magnifica raccolta che racconta la storia della navigazione
sul Lario, della cui esistenza dobbiamo essere grati alla famiglia Zanoletti.
Dopo avere sorvolato Musso si giunge a Dongo, sede delle celebri ferriere
da cui uscirono i pezzi metallici del dirigibile Italia. Segue Gravedona, con i
bei giardini di villa Zanuso, ex Stampa, e del palazzo Gallio, ora sede della
Comunità montana.
Domaso presenta uno dei più evidenti conoidi di deiezione del Lario, oltre a
un gran numero di campeggi. Quando ci si trova a mezz’aria tra Domaso e
Gera si ha una vista interessantissima: davanti vi sono le foci del Mera e si
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stende tutto il Pian di Spagna, oltre il quale si vede il lago di Mezzola, contor-
nato da un’impressionante corona di montagne rocciose. Oltre, la Val Chia-
venna. Verso est si può vedere la foce dell’Adda e la parte più bassa della
Valtellina. In mezzo al pian di Spagna troneggiano le bianche antenne parabo-
liche di Telespazio.
Gli amanti del romanico sono condotti fino alle sponde settentrionali del
Lago di Mezzola, ove sorge la minuscola San Fedelino, esempio dello stile
architettonico romanico nelle sue forme più primitive.
Il ritorno lo si fa solitamente lungo la sponda lecchese. Dopo aver sorvolato
i ruderi del forte di Fuentes, resto del seicentesco sistema di difesa spagnolo e
Colico, si arriva sopra un fortino costruito durante la prima guerra mondiale,
facente parte della “Linea Cadorna”, intesa come ultima linea di difesa se le
forze austriache fossero dilagate lungo la Valtellina. Sono perfettamente visi-
bili, dall’alto, le quattro torrette e i cannoni, mai usati.
A sud si trova la profonda e selvaggia insenatura che forma il laghetto di
Piona, sede di venti forti e del tutto particolari, all’imbocco della quale c’è la
celebre abbazia.
Scendendo verso sud si può apprezzare bene la conformazione dei principa-
li paesi della sponda lecchese, sedi di attività industriali, toccati dalla linea
ferroviaria che collega Milano alla Valtellina, disposti lungo un asse storico di
comunicazione tra la Lombardia e l’Europa centrale. Dunque paesi ricondi-
zionati dalle esigenze dell’industria e dei trasporti, ben diversi da quelli delle
sponde meno “strategiche” del Lario, il cui aspetto più antico e medioevaleg-
giante è più consono a una visione romantica e alle esigenze dei turisti.
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passa Ranco e Ispra, ove si trova una centrale nucleare di ricerca, ben ricono-
scibile per la cupola bianca. Ancora a nord si trova, in un tratto di costa
rocciosa, a picco sul lago, l’eremo di Santa Caterina del Sasso.
A questo punto si passa sulla sponda piemontese, potendo ammirare i gran-
di alberghi di Stresa e le bellissime ville che ricoprono le isole Borromee:
Isola Bella, Isola dei Pescatori, Isola Madre. Sulla sinistra, il Mottarone.
Risalendo verso nord si passano bei paesi, come Oggebbio, e si giunge ai
Castelli di Cannero, suggestivi per quanto sono diroccati, su un’isola appena
al largo dell’omonimo paese.
Ora si fa rotta a est, verso Luino, capitale dell’alto lago Maggiore, sede di
un’importante stazione ferroviaria di frontiera, di varie industrie e, occasio-
nalmente, di una manifestazione sui mezzi di trasporto d’epoca, organizzata
dalla dinamica amministrazione comunale della cittadina e, per gli aspetti
idrovolantistici, dall’Aero Club Como.
Da Luino il ritorno verso Como può avvenire lungo diverse rotte. Una segue
il fiume Tresa, che collega il lago di Lugano, a quota più elevata, con il
Maggiore. Si giunge a Ponte Tresa, in quell’insenatura del lago di Lugano
tanto isolata da costituire quasi un lago a sé. Da qui si prosegue per Morcote,
Porto Ceresio e Como.
Un’altra possibilità è quella di tornare verso sudest percorrendo la Valganna
e, dopo aver sorvolato i laghetti di Ghirla e Ganna, dirigere su Varese dopo
essere passati a fianco del Sacro Monte e della monumentale via crucis.
Da ogni punto del lago Maggiore è possibile fare una diversione verso il
Monte Rosa. Si tratta di salire, salire e poi ancora salire, fino ai limiti consen-
titi dall’aereo che si usa e dalle esigenze di conforto dei passeggeri. Volendo,
si può giungere a circa 3500-4000 metri di quota, godendo di una vista impa-
gabile del massiccio.
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Lecco, punto di sbocco dal Lago di Como, a Cassano d’Adda. Ogni cittadino
lombardo dovrebbe conoscerlo, essendo questo tratto di fiume teatro della
prima industrializzazione della Lombardia.
L’ideale è avere una visione d’insieme dall’aereo e, in seguito, compiere lo
stesso itinerario con un mezzo terrestre o acquatico, ove possibile, per poter
visitare in modo accurato tutti gli elementi di interesse. La bicicletta e la
canoa sono i mezzi che consentono di completare nel modo migliore la visio-
ne che si ha dall’aereo.
La descrizione che segue è stata stesa grazie al contributo dello studioso di
archeologia industriale Edo Bricchetti.
Partiamo dunque da Lecco e inoltriamoci sul lago di Garlate. quasi all’estre-
mità sud, sulla sponda occidentale, si trova la filanda Abegg, fondata nel
1841, che ospita l’interessante Muso della Seta, con macchine settecentesche
per la lavorazione della seta naturale e la produzione del famoso organzino.
Separano il lago di Garlate e quello di Olginate la diga di Olginate, che
regola il livello delle acque del Lario, e il ponte stradale di Calolziocorte.
Prima di giungere al ponte ferroviario della linea Calolziocorte-Bergamo, si
fa una piccola diversione all’interno, su Ello, per vedere dall’alto il filatoio
Dell’Oro, con tre caratteristiche ruote ad acqua.
Dopo avere percorso un lungo tratto rettilineo dell’Adda, usato da molti
decenni dai piloti dell’Aero Club Como per esercitarsi nelle tecniche di am-
maraggio e decollo su fiume, si giunge a Brivio. Poco dopo il ponte stradale,
costruito nel 1917, sorge, sulla destra, la filanda Molinazzo, con la tipica
ciminiera, costruita in stile neogotico, e la villa padronale, in posizione lieve-
mente sopraelevata, una combinazione tipica dell’Ottocento.
Segue un tratto del fiume chiamato Valle San Martino o “Valle dei Mulini”,
ove si possono scorgere vecchi mulini e condotte in pietra per la canalizzazio-
ne dell’acqua. A Toffo si può vedere il filatoio Toffo, in un’area nota come
“Foppaluera”, in quanto un tempo vi si ponevano trappole per i lupi. Più a sud
è ancora operativo il traghetto di Imbersago, progettato da Leonardo da Vinci.
Ancora più a sud l’Adda si incassa ed è sbarrato dalla diga di Robbiate, con
la centrale Semenza, per poi formare il cosiddetto cañon di Paderno. Qui
sorge uno dei più significativi monumenti dell’archeologia industriale e sim-
bolo del paesaggio antropico dell’Adda: il ponte di Paderno. È un ponte in
ferro con vie ferroviaria e stradale sovrapposte, costruito negli anni 1887-
1889. Poco a sud c’è una diga e le chiuse che alimentano un canale laterale, il
canale di Paderno, costruito nel 1777, che consente la navigazione in un tratto
altrimenti impossibile a causa delle rapide e del dislivello di 30 metri.
Ancora nel tratto in cui l’Adda è fiancheggiato dal canale sorge la centrale
idroelettrica Bertini, a Porto d’Adda Inferiore, costruita nel 1898. Prima cen-
trale europea di rilievo, consentì l’illuminazione di Piazza del Duomo, a Mila-
no, e l’alimentazione delle tramvie milanesi. Seguono due altre centrali, l’Ester-
le, a Cornate d’Adda, del 1914, famosa per le sue ricche decorazioni, e la
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Itinerari personalizzati
Saper proporre al proprio ospite il “suo” giro preferito
Ogni persona ha gusti diversi. È vero che chi per strada ci apostrofa con il
classico «Mi porti a fare un giro in idrovolante?» è quasi certo che voglia
andare a vedere il lago dall’alto, fino a Centrolago, ma esistono eccezioni e si
deve sempre avere la presenza di spirito di saper soddisfare le esigenze parti-
colari anche dell’ospite più eccentrico.
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Romanticismo idro
Idrovolante: una cosa speciale scelta da persone speciali per occasioni speciali.
San Valentino
Per fortuna al Club c’è qualcuno che si scervella su come rendere l’idrovolan-
te bello, simpatico, gradevole, elemento di socializzazione e di belle esperien-
ze non solo per gli addetti ai lavori, ma per il pubblico generale, per “la
gente”. Questo qualcuno, in questo caso, si chiama Sergio Tramalloni.
Vero e profondo amante della vita di club, Sergio non riesce a rassegnarsi
all’idea che solo poche centinaia di piloti abbiano il piacere di servirsi di
questo eccezionale mezzo di trasporto e che solo poche migliaia di persone
possano volarvi come passeggeri ogni anno.
Dunque - idealmente - ha la sana aspirazione di far volare sugli idrovolanti
l’intera popolazione comasca, inclusi infanti e trisnonni, e tutti i visitatori che
mettono piede in territorio lariano.
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Vita di Club
Questo capitolo, scritto a caldo in un momento di accesa conflittualità interna
all’Aero Club Como, è incluso nel libro perché mette in luce, attraverso lo strumento
dell’ironia e del’autoironia, le tipiche dinamiche interpersonali di un sodalizio
complesso quale è un aero club.
Sembra incredibile, ma tutto quello che è riportato in questo capitolo e presentato
come paradossale è ispirato a precisi casi realmente avvenuti e a episodi di vita
quotidiana del Club. L'anelito alla completezza farà scusare una certa prolissità.
L’autore - è bene specificarlo - non fa una descrizione “al di sopra delle parti”,
alla stregua di un antropologo che studi i comportamenti degli individui di una
popolazione sconosciuta o di un etologo che studi quelli di un branco di scimpanzè,
ma egli stesso è stato parte in passato, e continua a esserlo, di dinamiche
di rapporto interpersonale simili a quelle descritte, anche se le ciocche grigie
che contrassegnano la sua capigliatura lo inducono a vivere tali dinamiche con più
umiltà, senso autocritico e spirito di corpo, anche con il “nemico”, che in passato.
Qui è descritto qualche frammento di vita dell’Aero Club Como, a cui l’auto-
re è iscritto dal 1970, non tanto perché le cronache comasche riportate abbia-
no un particolare significato o interesse, ma per illustrare a chi desideri dedi-
carsi alla pratica del volo come funziona un qualunque aero club.
L’Aero Club Como (come ogni altro aero club) è composto dai soci, dagli
organi dirigenti, dai dipendenti e collaboratori e dal “Piazzale”.
I soci
I soci pagano la quota sociale e sperano di volare quando lo desiderano, con il
minimo di seccature.
I dipendenti e i collaboratori
Consentono di ottenere gli scopi sociali grazie alla loro prestazione d’opera.
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Il “Piazzale”
Tra duemila anni si ricorderanno le piazze di Atene, ove davano lezione i
filosofi e nascevano le prime istituzioni democratiche della storia, le belle
piazze delle città italiane del Rinascimento e una piazza speciale, a Como.
Anzi, un “piazzale”, quello antistante l’hangar.
Bisogna innanzitutto dire che il “piazzale” è una vera istituzione, tanto che
da ora verrà indicato con l’iniziale maiuscola. Il Piazzale è in realtà molto più
importante degli stessi organi dirigenti del club. Infatti ogni istituzione nasce,
si evolve e si estingue. Anche quando muore un papa “se ne fa un altro”, come
dice il proverbio. Allo stesso modo, nella vita del Club, decaduto un Consiglio
direttivo, se ne fa un altro. I presidenti si succedono, a volte sono cacciati. Il
Piazzale è invece immanente ed esisterà per sempre, uguale a sé stesso.
Con il termine “Piazzale” si indica, complessivamente, l’opposizione al
Consiglio direttivo in carica, la sede ove l’umore del “popolo” dei soci del
Club può manifestarsi liberamente, l’arena ove avvengono le più acerrime
lotte intestine, l’humus da cui nascono mille e mille leggende metropolitane
relative a chi ricopre cariche, a chi ha responsabilità nel Club, a chi ha una
qualsiasi posizione di preminenza o semplicemente si faccia notare.
Nessuna elezione può legittimare o delegittimare un responsabile della ge-
stione del Club quanto il Piazzale, così come nessuna commissione ministe-
riale potrà mai giudicare un pilota, un istruttore, un direttore della scuola di
volo meglio del Piazzale. Lo stesso Registro Aeronautico Italiano non potrà
mai certificare un aereo con più competenza tecnica del Piazzale.
L’istituzione inglese di consentire a chiunque di esprimere la sua opinione,
qualunque opinione, su una cassetta della frutta messa nello Hyde Park cor-
ner, è un balbettante e primitivo tentativo di democrazia diretta rispetto a quel
che avviene sul Piazzale dell’Aero Club Como, ove il dissenso, inteso nel
senso più lato e selvaggio del termine, usa ogni espediente per affermarsi e
arriva a permeare per mesi o anni l’intera vita dell’associazione.
Ciò detto, esaminiamo un po’ in dettaglio le poche e semplici regole secon-
do le quali si svolgono le funzioni del Piazzale.
Prima e fondamentale regola del Piazzale: “Quelli là [i dirigenti del
Club] sono degli sprovveduti” (in un’altra versione si legge “pirla”, ma vi
sono versioni anche molto più espressive). In altri termini: se pigliano una
decisione, certamente è sbagliata; se è giusta, è perché finalmente hanno fatto,
per errore, quello che il Piazzale da tempo andava dicendo.
Seconda regola del Piazzale: “Gestire il Club è facilissimo, anche perché
la competenza non serve: basta avere la tempra”. Supponiamo, tanto per fare
un esempio, che si desideri acquistare un nuovo aereo e proviamo ad esamina-
re come una simile operazione possa essere semplice e lineare se gestita se-
condo le regole stabilite dal Piazzale (il caso-tipo descritto è proprio del tutto
ipotetico e ha valore esemplificativo; ogni riferimento a fatti reali o persone
esistenti è da ritenersi assolutamente casuale).
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dursi una vera situazione di conflitto. Se Tizio dovesse incontrare Caio sul
Piazzale, cosa che anzi succede spesso, è certo che parleranno di null’altro
che del più e del meno e comunque si troveranno immediatamente solidali nel
giudicare male almeno la metà dei soci, pessimamente i dipendenti e ancora
peggio i membri (o gli altri membri) del Consiglio direttivo.
È questa una forma di sublimazione dell’istinto aggressivo che l’etologo
Konrad Lorenz non voleva credere che potesse manifestarsi anche presso la
specie umana, ma su cui ha dovuto ampiamente ricredersi quando ha spostato
per sei mesi la sede dei suoi studi dallo zoo di Vienna al piazzale dell’Aero
Club Como, compiendo la famosa ricerca che gli valse il Nobel.
Il parlare per interposte persone, formanti anche lunghe catene, rappresenta
un antico metodo di comunicazione che consente a ogni banale “bit” di infor-
mazione di variare e arricchirsi, a ogni passaggio, di nuovi significati, renden-
do il messaggio originale estremamente più “di effetto” e interessante. Ciò
determina quasi ogni giorno una spirale di interpretazioni su ciò che è stato
- forse o eventualmente - detto, una ridda di accuse e controaccuse, difese e
controdifese, su cui si formano sul Piazzale, come nel mare tra Scilla e Carid-
di, immensi gorghi di consenso e dissenso, a tutto vantaggio della completez-
za di valutazione delle questioni sul tappeto e della democraticità dei processi
decisionali che ne conseguono.
Quanto si è detto potrebbe far pensare che i piazzalisti perdano le loro
giornate in discussioni e bla bla bla. Se ciò può rispondere a verità per la
miriade di questioni effimere che ogni giorno vengono alla ribalta, nulla è
meno vero per le questioni veramente importanti. I piazzalisti, nell’esaminare
tali questioni, dimostrano di essere gente molto pratica e che bada al sodo. Lo
attesta il sano odio ancestrale che nutrono per tutto quel “culturame idro” che
ha la sua espressione più degenerata nella pubblicazione di libri e articoli
aventi a che fare con il volo sull’acqua e gli idrovolanti. Per mettere bene in
chiaro come la pensano di questi idro-intellettualoidi, tutta gente montata, i
piazzalisti hanno reintrodotto ogni domenica mattina, copiandole pari pari
dagli ultrafondamentalisti religiosi americani, le cerimonie di book burning,
nel corso delle quali vengono bruciate opere di autori italiani e americani,
copie di Water Flying e Volare che contengono articoli sul volo idro, giornali
locali che riportano storie che hanno a che fare con l’Idroscalo e l’Aero Club.
Tutta roba che serve solo a far perdere tempo. L’intera realtà comasca del
volo idro (altre realtà non interessano, anzi, non esistono; il piazzalista mica è
un ficcanaso) è suscettibile di essere completamente abbracciata e descritta
grazie a forme di divulgazione ed espressività molto sobrie e concise. Ogni
giudizio su persone e fatti consta infatti di alcuni semplici movimenti delle
sopraciglia. Ogni operazione di volo che si svolge sullo specchio dell’idrosca-
lo può essere descritta in modo esaustivo attraverso lievi movimenti degli
angoli della bocca o del capo dei piazzalisti presenti. Quando l’emotività
prorompe, di fronte a fatti di eccezionale portata, si giunge al mugugno, il cui
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l’insigne etologo austriaco - il fatto che quei comaschi che hanno subìto l’im-
printing cercheranno di passare più tempo possibile della loro vita sul Piazza-
le e comunque presso gli idrovolanti, non esistendo né famiglia né occupazio-
ne né viaggio in paese esotico in grado di competere minimamente con questo
profondo e ancestrale richiamo della natura.
La curiosa, ma inequivocabile capacità innata dei piloti comaschi rende
superflua la funzione dell’istruttore, che viene portato in volo dai soci, nei
primi voli sul nuovo aereo, giusto pro forma e solo in quanto richiesto da una
retriva regolamentazione, oppure per un sentimento di pena, in quanto prima o
poi bisogna pure che qualcuno faccia vedere a questi poveri istruttori, che
sono lì tutto il giorno mezzi sfaccendati, come si pilota un idrovolante.
Un’altra conseguenza della speciale attitudine al volo dei piloti di Como è
che è inutile istruire gli istruttori, la cui funzione non è sostanzialmente richie-
sta, se non per inviare oscure carte firmate al ministero. Se uno di essi chiedes-
se espressamente di essere istruito, per esempio all’uso di un nuovo tipo di
aereo, verrebbe messo immediatamente in riga con due considerazioni di lam-
pante evidenza: primo, il fatto che un istruttore chieda di essere istruito al-
l’impiego di un idrovolante è una contraddizione in termini e una dimostra-
zione del fatto che non sa pilotare gli idrovolanti, quindi che la sua funzione è
del tutto inutile, c.d.d.; secondo, se proprio un istruttore vuol fare una cosa
così strana, oltre che inutile, almeno che si paghi il volo (anche gli operai,
quando le cose funzionavano a dovere, si portavano un sacchetto di carbone in
fabbrica, per la stufa, se volevano lavorare al caldo).
È inutile dire che l’istruttore a bordo è una bella seccatura, perché non la
smette un minuto di rompere, peggio di un pappagallo: e “guarda che siamo a
100 piedi e così l’aereo stalla” e “se vai avanti così ci infiliamo” e “occhio che
così il motore pianta di certo” e “stai un paio di metri più in là dal battello
quando sei sul redan” e “già che non ci passi sopra, almeno cerca di passarci
in mezzo” (frase tipica nel decollo 19 dopo l’erezione delle torri-faro) e “no,
le antenne no” (frase tipica invece nell’ammaraggio 01). Ma tutto questo cia-
colare, in fondo, è sopportabile; guai, invece, se l’istruttore si azzardasse a
mettere le mani sui comandi, perché in quel caso, non avendo ricevuto alcuna
istruzione specifica al volo idro, in quanto inutile, l’aereo sarebbe quasi certa-
mente perduto (pur con tutta una serie di vantaggi indotti dall’evento).
I più esperti bypassano l’intera problematica e l’umiliante situazione di
dover essere giudicati da un incompetente evitando di usare l’istruttore, even-
tualmente vantando le centinaia di ore volate su quel tipo di aereo vent’anni
prima in Canada o nell’Antartide, mentre altri si fanno autorizzare a volare
come solisti sul nuovo aereo da un inserviente avventizio di segreteria o della
linea di volo, presente quale stagista («Ah, ma come? Non era il nuovo istrut-
tore? Sì, va be’, stava scopando per terra, ma anch’io la settimana scorsa ho
dato una pulita in hangar... Beh, ormai l’aereo l’ho preso in mano, non voglia-
mo mica farne una questione di principio... sennò alla prossima assemblea
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È capitato a un certo punto - per raccontare una delle tante storie di innamo-
ramento - che un pilota straniero, dopo avere conseguito l’abilitazione idro, si
sia profondamente innamorato di un preciso aereo. Il Piazzale, in un encomia-
bile conato di generosità, ha ritenuto di non dover deludere i sentimenti e le
aspettative di questo ammiratore degli idrovolanti e, dando fondo a tutti i
propri poteri, reali o presunti, glielo ha pressoché donato.
Nell’occasione è stata ideata un’operazione gestional-legale-amministrativa
di complessità così alta che ancora oggi, a distanza di anni, notai, avvocati e
vari organi dello Stato, tra cui le Dogane, la Guardia di Finanza, il Registro
Aeronautico Nazionale, e perfino la Federal Aviation Administration telefona-
no quasi quotidianamente alla segreteria del Club esprimendo un vero senso
di meraviglia per molti aspetti particolari della faccenda.
Per non perdere tempo in inutili scartoffie, il fortunato visitatore è stato
autorizzato a firmare da solo il contratto di compravendita, sia come compra-
tore sia come venditore, un privilegio che mai era stato concesso ad alcuno
nella quasi centenaria storia dell’idroaviazione a Como. Questa inusuale pro-
cedura, che solo l’inventiva del Piazzale ha potuto concepire, è stata un vero
colpo di genio; infatti ha reso la perdita dell’aereo da parte del Club impercet-
tibile, in quanto nessuno ha mai più saputo quando il trapasso formale di
proprietà è avvenuto e a tutt’oggi non è nemmeno noto se esso sia valido.
È vero che a un certo punto, di colpo, l’aereo è sparito dall’hangar, ma ormai
i soci si erano abituati all’idea che quell’aereo potesse essere indifferentemen-
te di proprietà del Club oppure del citato visitatore straniero e dunque hanno
potuto centellinare in modo quasi indolore il trauma della perdita.
In questo modo il Club ha potuto svolgere il dovere istituzionale di promuo-
vere il volo idro in tutte le sue forme e in particolare promuove il nome
dell’Aero Club Como. Presto infatti quell’aereo, su cui si sono formati i piloti
idro comaschi per 15 anni, volerà nel continente americano, diffondendo il
buon nome del Club di Como nel mondo.
La fondazione di Madre Teresa di Calcutta, informata del fatto, ha immedia-
tamente insignito di laurea ad honorem il dirigente del Piazzale comasco che
ha escogitato la clamorosa operazione umanitaria.
La sezione tibetana dell’Unione Aeronautica Internazionale, dal canto suo,
quando è venuta a conoscenza di questo caso, ha proposto di insignire l’Aero
Club Como del prestigiosissimo “Triumph of the Buddhist Idea Award”, con
la seguente motivazione: “I dirigenti del Piazzale dell’Aero Club Como hanno
dato prova del più alto senso di altruismo, di elevazione spirituale e di distac-
co dalle cose del mondo, nella più pura tradizione buddista, dimostrandosi
capaci di spogliarsi di tutto a favore del primo che passa.”
Sua Santità il Dalai Lama, nel corso della cerimonia di premiazione, ha
detto che «se tutti fossero come i dirigenti del Piazzale dell’Aero Club Como
ogni uomo, ogni donna ogni bambino del nostro pianeta avrebbe il suo idrovo-
lante e il mondo sarebbe di gran lunga migliore».
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Non credete che un simile episodio possa essere avvenuto? Non credete che
il Club possa aver dato una così completa dimostrazione di disinteressato
altruismo? Nessun problema: fate una prova voi stessi. Acquistate un aereo
oppure fate riparare un vostro aereo privato per una cifra consistente, diciamo
a caso, proprio giusto per dare un ordine di grandezza, 25.000 dollari o euro o
sterline e, al momento di pagare il conto, dite semplicemente al vostro interlo-
cutore/creditore: «Manda la fattura all’Aero Club Como» (tra le valute non
abbiamo citato volutamente i franchi svizzeri perché in Svizzera, notoriamen-
te, è impossibile che esistano aziende che potrebbero prestarsi a questo curio-
so gioco). Vedrete che in nove casi su dieci la fattura verrà pagata.
Fatti simili, quando sono accaduti, hanno avuto un risvolto altamente positi-
vo perché hanno confermato e consolidato il rating “1” attribuito al Club dalla
famosa azienda di certificazione internazionale Bassott&Bassott, il cui signi-
ficato è “Eccellente pagatore”. Quando qualcuno si rivolge a loro per avere
informazioni aggiornate sul Club, i funzionari di quell’azienda, tralasciando
le definizioni ufficiali e desiderosi di non perdere tempo in chiacchiere, ri-
spondono di solito: «Sì, sì, rating “1”: fate un paio di urlacci e mandategli là
un qualunque pezzo di carta; vedrete che sganceranno il grano.”
Qualche dirigente, arrivato da poco al Club e del tutto ignaro della comples-
sità della gestione dell’ente, oltre che spinto da arcaici e rozzi criteri di gestio-
ne, tenta sistematicamente di opporsi a pratiche come quella sopra descritta,
definendole con terminolgie che si richiamano al mondo animale, evocato in
erudite citazioni che coinvolgono frequentemente la volpe, la faina, il cocco-
drillo, la iena, lo squalo, il serpente a sonagli, l’avvoltoio, la locusta, il piraña,
per sconfinare a volte nell’affascinate campo degli animali estinti, quali il
Tyrannosaurus Rex o il Velociraptor. Qualcuno, in ridicoli accessi di vis pole-
mica, ha scomodato addirittura i virus, come il fago T-2 e l’ebola, e il predato-
re perfetto, prodotto da quella moderna mitologia che è la fantascienza: alien.
Ebbene ci vuole sempre un po’ di tempo per fare capire a questi troppo
volonterosi e ingenui neo-amministratori che episodi in cui il Club regala
aerei a estranei o decine di migliaia di euro ai propri soci più intraprendenti
non devono essere avversati, ma che anzi sono assolutamente indispensabili
per dimostrare in modo inequivocabile e senza ombra di dubbio che il Club è
veramente un’associazione “senza fini di lucro”, come recita lo statuto. Quale
migliore dimostrazione, infatti, della natura non lucrativa del Club che il get-
tare alle ortiche i propri beni a cespite e i propri introiti?
Terza regola del Piazzale: “Non c’è competenza che possa reggere al
vaglio del Piazzale”. Questa regola contempla varie sfaccettature. Una è che
non esiste un esperto locale. Nemo propheta in patria: se questo detto è stato
coniato per Gesù Cristo, figuriamoci se non vale per un umile e anonimo socio
dell’Aero Club Como! Un dirigente ha sempre fatto scelte giuste? La cosa lo
rende antipatico e quindi impopolare: anche se è bravo, non potrà ricoprire
ancora per molto tempo una carica di responsabilità. Uno ha fatto tutte le
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mente pronunciata che alcuni la faranno iscrivere quale epitaffio sulla pietra
tombale: «L’avevo detto, io”. Ciò favorisce un produttivo e inestinguibile con-
fronto di opinioni, considerato che dallo stesso corpus può essere estratto con
la stessa facilità un pensiero che permette di pronunciare la stessa frase, ma su
una tesi esattamente opposta. Ecco dimostrata la regola che “il Piazzale ha
sempre ragione”, qualunque sia la tesi sostenuta.
Quinta regola del Piazzale: “Piazzalisti si nasce e non si diventa”. O,
almeno, veri piazzalisti “doc” si può solo nascere, in quanto la qualifica ri-
chiede un mix di caratteristiche tale che, se dovesse essere frutto di un proces-
so di formazione, renderebbe necessario un intervento di fatto impossibile da
realizzare nel corso di una vita umana.
Chi ha solo alcune delle caratteristiche di questo mix potrà esercitare la
funzione di piazzalista “gregario”, “aggiunto”, “coadiutore”, “fiancheggiato-
re” o potrà appartenere alla ristretta cerchia dei piazzalisti “adoratori” oppure
iscriversi alla “Società degli Amici del Piazzale” o alla “Confraternita degli
aspiranti piazzalisti” o, se giovanissimo, al “Gruppo Pulcini del Piazzale”, ma
mai potrà svolgere la funzione di vero “Signore della piazza” o Platzkomman-
dantur, personaggio ai vertici della gerarchia di beccata del Piazzale.
A questo punto potrebbe sorgere un dubbio: che cosa mai potrà succedere
qualora un piazzalista “doc”, per qualche strana alchimia di potere o caso del
destino, diventasse dirigente del Club, ovvero assumesse il ruolo di una perso-
na che tradizionalmente è nel mirino dei piazzalisti? Semplice: le regole del
Piazzale, essendo eterne e immutabili, valgono comunque, a partire dalla pri-
ma (“Quelli là sono dei pirla”), anche se in questo caso per “quelli là” si deve
intendere principalmente: i soci, soprattutto se hanno qualche strana idea sul
futuro del Club, non omologata preventivamente dal Piazzale, e tutti coloro
che, in qualità di fornitori, consulenti, funzionari, dipendenti o collaboratori,
hanno a che fare con il Club per ragioni professionali o tecniche, continuando
a mettere i bastoni tra le ruote con i loro non richiesti pareri.
Ma i pirla più pirla saranno, come è prevedibile, i colleghi membri del
Consiglio direttivo, tra cui è molto probabile che vi siano altri piazzalisti
“doc” e con i quali, quindi, avrà immediatamente inizio, subito dopo le elezio-
ni, una lotta intestina ove ciascuno farà di tutto per portare alle dimissioni
almeno metà degli altri consiglieri.
Ciò - è inutile dirlo - è certamente un’opera meritoria, potendosi quasi sem-
pre dimostrare che il consigliere avversario è stato in passato un tossicodipen-
dente, un fallito, un truffatore e sicuramente un pedofilo, oltre ad aver affon-
dato le mani nelle casse del Club per arricchirsi personalmente.
Un piazzalista sarà sempre legato alle sue origini e a quel fazzoletto di
catrame e asfalto su cui ha vissuto e vivrà gli eventi più importanti della sua
vita. Anche se diventasse presidente della Repubblica o dell’ONU non potrà
mai dimenticare dove e come ha fatto la gavetta e continuerà ad applicare
nella vita i principi appresi nel lungo praticantato del Piazzale. Ciò gli confe-
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Consigli direttivi
Fare il consigliere di un aero club o - peggio ancora - il presidente è un
compito ingrato. Prima il volo era una passione. Poi, da consigliere, diventa
un lavoro. Ma non un normale lavoro. Avere responsabilità di gestione in un
aero club può diventare una bella fonte di grane.
Ci sono consiglieri più o meno bravi, più o meno introdotti nella realtà
locale, più o meno facoltosi, più o meno generosi. Ci sono consiglieri colti e
incolti. Consiglieri che parlano male l’italiano e consiglieri che parlano per-
fettamente quattro lingue. La maggior parte condividono però una caratteristi-
ca: dedicano una grandissima quantità di tempo all’aero club. Ciò merita
considerazione e stima da parte dei soci, anche se si scontra con quell’inesora-
bile “prima regola del piazzale” descritta nel capitolo “Vita di club”.
Ci sono consiglieri che, appena eletti, spariscono e non lasciano traccia. Ce
ne sono invece che, eletti o non più eletti da anni, continuano a lavorare
indefessamente per il bene del Club, anche nell’ombra.
I consiglieri, nel momento in cui sono eletti, si dividono in due categorie:
quelli che sanno quello che fanno, o perché lo hanno già fatto in passato o
perché sono acuti osservatori della vita del Club, e quelli che non sanno quello
che fanno. I primi hanno la vita più difficile, perché si assumono un impegno
sapendo esattamente quel che comporta e, se non sono all’altezza dell’esple-
tamento dei loro doveri, sono proprio da condannare.
I secondi sono in genere forze nuove che emergono dall’amalgama del Club,
sovente neobrevettati, e hanno un compito più facile. Innanzitutto perché,
essendo neofiti, è loro perdonata l’intemperanza, l’eccesso di zelo, i banali
errori dovuti a troppo entusiasmo. Questa seconda categoria di consiglieri,
tuttavia, è preziosa, perché porta all’interno di un Club energie prorompenti,
tali da far smuovere il consesso sociale dall’inedia causata dall’asfittico siste-
ma dell’aviazione civile italiana, dalle vessazioni di carattere burocratico,
contributivo e normativo a cui è sottoposto il popolo volante nel nostro paese.
I nuovi “non sanno” e quindi osano, si arrovellano, si battono. Il bello è che
sovente queste energie hanno effetti tangibili e il Club vive, in quei momenti,
una nuova primavera. Nuove idee, nuovi rapporti con entità esterne e con i
soci dello stesso Club, nuovi modi di fare le cose, nuove prospettive strategi-
che, anche se talvolta a costo di qualche azzardo o battuta d’arresto.
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dalla gestione e ne soffrono non perché pensano che il proprio apporto possa
beneficiare il Club, ma perché a loro non è concesso l’onore del cosiddetto
“cadreghino”, ovvero del potere che si amministra all’interno di un club, che è
veramente misero, ma che è pur sempre potere.
Che cosa rovina un Consiglio direttivo? Questa è una bella domanda, a cui i
soci anziani del Club di Como sanno certamente dare una risposta.
La prima cosa che rovina un Consiglio direttivo sono i litigi tra due o più dei
suoi membri. I problemi del Club, in quel caso, diventano a poco a poco
secondari e tutte le energie si concentrano sulla battaglia interna. Le decisioni
non sono più prese nell’interesse del Club, ma in quanto pro o contro una
determinata persona. Capita che vengano prese decisioni evidentemente sba-
gliate solo per fare dispiacere a un avversario. In una situazione di questo tipo
il presidente, se gode ancora di autorità, il Consiglio o un’assemblea devono
intervenire per fare cessare al più presto questa deleteria dinamica, che in
passato è costata la vita a interi club.
Un’altra causa di rovina è quando un membro del Consiglio direttivo, perso
lo spirito di gruppo e quello di servizio verso il Club e i soci, agisce per un
interesse personale. Questo interesse può essere materiale, ma più frequente-
mente è un interesse di carattere psicologico o sociale, derivante dal prestigio
che offre la posizione, che è certamente infimo, ma che è meglio di niente.
Vediamo ora una causa non evidente di rovina per un Consiglio direttivo.
Parrà strano, ma è il troppo successo. Il successo genera invidia nei deboli e
odio nei potenti (ovviamente deboli e potenti appartenenti alla categoria dei
malvagi). Chi non conosce questa realtà e si trova a fare cose egregie per il
Club rischia seriamente la depressione. Infatti finirà per scontrarsi con gente
che, misconoscendo i suoi meriti e le sue conquiste, lo attaccherà continua-
mente su piccole cose, su insulsaggini. Il malcapitato benefattore, sconcerta-
to, finirà per mandare tutti a quel paese e se ne andrà amareggiato, lasciando
in molti casi la piazza proprio a quei Proci che potranno ristabilire nel Club
l’ordine della mediocrità che probabilmente il Club viveva prima dell’avvento
di quella o quelle persone.
L’amministratore che conosce le dinamiche interpersonali tipiche dei club
non si farà invece impressionare da queste malefiche manifestazioni di forza e
andrà avanti diritto per la sua strada. Questa resistenza purtroppo non sempre
ha la meglio. Se infatti le forze negative sono ampiamente prevalenti anche il
più capace e navigato amministratore potrebbe infine soccombere.
Qualcuno si potrà chiedere come mai nella storia di tutti i Club - e quello di
Como non fa eccezione - ci sono momenti in cui l’attività ferve, gli aerei si
moltiplicano, le relazioni con il mondo esterno sono vivaci e produttive e
invece momenti in cui un aereo dopo l’altro è perso o venduto, l’attività lan-
gue e le relazioni con il mondo esterno sono difficili e non portano a nulla. Gli
sprovveduti o coloro che sono in mala fede diranno che si tratta di fortuna nel
primo caso e sfortuna nel secondo. Chi ha fatto l’imprenditore sa benissimo
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che tutto dipende dalle persone responsabili della gestione. Certo, anche la
fortuna ha un ruolo, ma la fortuna ha sempre bisogno di persone che la sappia-
no cogliere e sfruttare.
Il Club di Como - per quanto mi ricordo o ho potuto apprendere da docu-
menti storici - ha vissuto alcuni momenti di grazia e di grande sviluppo,
intervallati da momenti di declino, che in qualche caso è stato così profondo
da far temere la chiusura, il fallimento, la vendita dei pochi beni rimasti e la
restituzione all’ente pubblico delle strutture. In alcune occasioni è mancato
veramente un soffio al verificarsi della catastrofe.
È vero che le storie più drammatiche e i pettegolezzi più piccanti riguardano
i periodi declino, ma lascio volenteri che quei pettegolezzi e la vasta storio-
grafia dei periodi di malasorte o malgoverno siano evocati sul Piazzale da chi
staziona di solito sulle sedie blu presso lo stipite ovest e ha voglia di perdere il
suo tempo in polemiche (cosa che - beninteso - capita di fare anche allo
scrivente). Qui elencherò solo i momenti di grazia di cui ho conoscenza per i
documenti che ho esaminato o che ho vissuto personalmente. L’elenco non è
detto che sia esaustivo; il Club può aver vissuto altri momenti buoni, ma a me
ignoti. Il viaggio incomincia proprio dai primordi dell’aviazione comasca.
L’invenzione del secolo. Il periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento
vede un’umanità alla frenetica ricerca della possibilità di volare con il mezzo
più pesante dell’aria. Tutti si rendono conto che questo millenario sogno del-
l’uomo è dietro la porta. Prima vari alianti e idroalianti si lanciano lungo
pendii o sono trainati da motoscafi su specchi d’acqua e infine un aereo dotato
di motore si stacca da terra. È il 17 dicembre 1903. Nel 1913 l’aviazione ha
esattamente 10 anni e l’aviazione idro ne ha appena compiuti tre quando
Como diventa teatro di un importante avvenimento: un raduno europeo di
idrovolanti. L’evento elettrizza la città e contribuisce a diffondere nel nostro
territorio l’abitudine a vedere nel cielo quelle strane macchine volanti. Como
diventa una delle culle dall’aviazione idro italiana (l’altra è La Spezia).
Le celebrazioni voltiane. Gli anni Venti, lasciate alle spalle le tragedie
della prima guerra mondiale, sono l’epoca della costruzione di un’aviazione
civile. Nel nostro territorio nasce l’aeroporto di Erba, con relativi hangar e
strutture (1920), Somalvico investe i suoi beni nello sfortunato elicoplano,
che mai volerà (1921), viene organizzata una grande manifestazione aerea
(1922), sono fatti esperimenti di posta aerea tra varie località del lago e del
territorio (1922, 1925).
Il 1927 è l’anno delle celebrazioni del centenario della morte di Alessandro
Volta, illustre scienziato e cittadino comasco. Le grandiose opere realizzate
per l’occasione e il lunghissimo e ricco calendario delle manifestazioni non
possono certo vedere assenti gli aerei. In questa occasione un’aviazione civile
ormai matura fa bella mostra di sé. Dall’hangarino di Villa Olmo, apposita-
mente costruito, centinaia e centinaia di autorità, cittadini, bambini, ospiti e
turisti sono portati in volo dalla prima organizzazione di voli commerciali
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Idrovolanti,
ambiente e ambientalisti
L’ambientalismo radicale è oggi una delle più forti minacce alla civiltà occidentale,
quella che ha avuto la sua origine nel materialismo degli antichi filosofi greci come
Leucippo e Democrito, il suo seguito nella civiltà romana e nel Rinascimento
e la sua apoteosi nell’Illuminismo, nella rivoluzione industriale e nelle attuali
conquiste delle tecnologie spaziali, informatiche e genetiche.
L’ambientalismo, come ogni sistema ideologico, attacca i simboli, i vessilli
del nemico. L’aviazione, una delle massime espressioni della potenza
di quella scimmia nuda che è l’homo sapiens, è uno di questi simboli e anche
l’ultimo e più piccolo dei piloti si trova nel mirino delle nuove milizie ecologiste,
anche se quel pilota, personalmente, come la stragrande maggioranza degli altri,
nutre un profondo rispetto e amore per la natura e l’ambiente.
Che l’idrovolante sia un mezzo “ecologico” per eccellenza è dimostrato
da molte ricerche condotte negli Stati Uniti ed è stato testimoniato da Fulco Pratesi,
massimo esponente del WWF, che ha conosciuto il volo idro nei suoi viaggi
nel continente americano e in particolare in Canada.
Il WWF comasco ha espresso un apprezzamento particolare per l’operato
dell’Aero Club Como nel condurre la sua attività.
Eppure, una miscela di ignoranza e fanatismo può eclissare - oltre che screditare -
gli sforzi e l’immagine di chi si occupa seriamente di salvaguardia della natura.
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Torino 1986
Torino, negli anni Venti del XX secolo, fu “stazione di testa” della prima linea
aerea commerciale italiana, gestita dalla Sisa, una società fondata dalla fami-
glia triestina Cosulich. Tale linea toccava le città di Torino, Pavia, Venezia,
Trieste e Portorose, allora nell’Istria italiana, e contemplava come scalo se-
condario anche Casale Monferrato. In un’occasione un idrovolante ammarò
anche su uno dei laghi di Mantova. Gli aerei utilizzati erano tutti idrovolanti,
perlopiù costruiti dai Cantieri Riuniti dell’Adriatico, con sede a Monfalcone.
Lungo tale rotta, che seguiva il Po e che quindi era percorribile da un idro-
volante quasi con ogni tempo meteorologico, come è testimoniato dal quasi
en plain nelle percentuali di effettuazione dei servizi, si mossero per molti
anni migliaia e migliaia di passeggeri.
A Torino gli idrovolanti operavano tra il ponte Principessa Isabella e il ponte
Umberto I, lungo quel tratto di Po reso suggestivo dal parco del Valentino. La
piccola rimessa degli aerei, una palafitta posta in posizione alquanto elevata,
in previsione delle fortissime variazioni di livello delle acque tipico dei fiumi,
era posta presso il ponte Principessa Isabella. Mentre a Pavia, sul Ticino,
un’identica costruzione è ancora visibile ai giorni nostri, a Torino non rimane
alcun ricordo materiale di quella prima compagnia aerea.
Per fortuna, tuttavia, almeno il ricordo di quell’antica impresa e della pre-
senza degli idrovolanti sta ancora nel cuore di qualche torinese, tanto che i
nuovi gestori di un circolo-ristorante posto in prossimità dello scomparso
idroscalo decidono di ribattezzare il locale “L’idrovolante” e si danno da fare
per rinverdire la tradizione idrovolantistica della città.
Pubblicano quindi un fascicolo con una presentazione storica della Sisa,
preparato dallo storico dell’aviazione Giorgio Apostolo, e organizzano una
manifestazione alla quale invitano a partecipare gli idrovolanti di Como.
È difficile descrivere quali e quanti ostacoli burocratici gli eroici gestori
hanno affrontato per ottenere i permessi per compiere un’operazione così
inconsueta. Tuttavia vi riescono. Il tratto di Po tra i due ponti citati viene
chiuso per una giornata domenicale e l’evento è ampiamente pubblicizzato da
“La Stampa”, la “Pravda dei piemontesi” (ma non solo; lo scrivente, pur es-
sendo cernobbiese, la legge tutti i giorni), creando una fortissima aspettativa.
Lo scrivente, accompagnato dall’onnipresente Rino Caldiroli, va a Torino
con il Lake il giorno prima, atterrando all’aeroporto cittadino Aeritalia, in
modo da poter andare a fare con calma, a piedi, tutti i sopralluoghi necessari.
Il giorno dopo arrivano gli altri idrovolanti da Como, un Cessna 150 e un
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ca: volare in una stretta striscia d’acqua nel cuore di una metropoli, ove l’avia-
zione commerciale del nostro paese mosse i suoi primi passi, sotto i ponti da
cui partirono, in quell’1 aprile 1926, i primi aerei di linea italiani.
I voli sono entusiasmanti. Il Po è profondamente incassato nella città di
Torino e, dopo il decollo dalle sue acque, ci si trova come in un cañon formato
dalle rive scoscese, entro il quale si deve lentamente salire per superare il
ponte che ci si para davanti; raggiunto il livello della sede stradale, si deve
salire ancora per altri 100 o 200 piedi, seguendo l’andamento lievemente
curvo del fiume, per trovarsi al livello dei tetti delle case. In quel momento
l’intera città compare all’improvviso agli occhi del pilota, che prova quasi un
colpo al cuore, una sensazione unica e avvincente.
Un’altra sensazione meravigliosa è quella che si prova nel girare a pochi
metri dalla stellina d’oro che sta sulla guglia della mole antonelliana, un vero
capolavoro del modernismo, nella virata in finale per l’ammaraggio.
L’idrovolante permette di volare in quella condizione di inurbamento estre-
mo in piena sicurezza: anche nella remota eventualità di una piantata di moto-
re si può sempre planare e raggiungere di nuovo il fiume per un ammaraggio
di emergenza. Proprio per godere di questa possibilità il mandato tassativo a
tutti i piloti prima dei voli, in quella specifica occasione, è il seguente: “man-
tenere in ogni istante quota e distanza dal Po tale da poter raggiungere di
nuovo l’acqua anche in planata senza motore”.
Nel corso della giornata il termometro del risentimento popolare nei con-
fronti di chi ha impedito alla gente di volare è salito a livelli di guardia.
Per quel che ci riguarda, riceviamo molte richieste di volare a qualunque
costo, anche in barba alle autorità; c’è chi ci offre 500.000 lire, chi un milione
per un volo di 7 o 8 minuti (contro le 30.000 lire di rimborso spese che
chiederemmo per lo stesso volo). Alcuni implorano di salire sull’aereo per
ripetere l’esperienza del nonno che aveva volato sui Cant 10 ter della Sisa.
Non possiamo escludere che alcuni dei molti “giornalisti” che portiamo in
volo non abbiano nulla a che fare con il giornalismo, ma che siano persone
abbastanza potenti da essere in possesso delle credenziali che hanno potuto
imbrogliare i “commissari politici” deputati al controllo. Da parte nostra sia-
mo ben felici di far volare chiunque sia riuscito a passare attraverso la maglia
dei controlli di quell’improvvisato ufficio politico o tribunale speciale, così
come - gratis - il più umile dei lavapiatti del ristorante lì vicino che è riuscito a
passare in un buco della rete e ad arrivare a noi. Chissà perché, parliamo tra
noi del film Urla del Silenzio.
Nell’arcipelago ecologista c’è anche una scheggia che non ha apprezzato
l’apertura nei confronti delle “forze del male idrovolantistiche” e lo svolgi-
mento, pur limitato, di voli. È così che, nel pomeriggio, alcuni fondamentali-
sti ecologici decidono di infrangere il divieto di navigazione e prendono a
scorrazzare, per il bacino delle operazioni, con due kajak, nell’evidente inten-
to di bloccare i voli.
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Una sfida che diventa per noi occasione di divertimento. Abituati a operare
su laghi affollati di barche e a fare la gimkana tra di esse, possiamo, in tutta
sicurezza, passare a destra e a manca davanti e dietro i kajak, facendo finta di
non vederli, ma tenendocene rigorosamente a distanza di sicurezza, mentre i
capitani degli stessi kajak faticano di remo, ma senza risultati apprezzabili,
per portarsi “pericolosamente” vicino agli aerei in decollo o ammaraggio.
Ciò ci fa pensare che tra i rischi del volo possa esserci anche quello di un
fanatico che immola la propria vita gettandosi deliberatamente nel disco del-
l’elica di un aereo in movimento, per dimostrare che il volo è pericoloso. È
una cosa da pazzi, ma i pazzi non sono così rari sulla faccia della Terra e un
buon pilota deve considerare seriamente anche la più remota possibilità di
incidente e prendere le misure preventive del caso. È così che, dopo esserci
divertiti a sufficienza, chiediamo alle autorità di sgomberare la superficie de-
stinata alle operazioni con idrovolanti, cosa che avviene.
Nella giornata un fotografo de “La Stampa” scatta una delle più belle foto-
grafie mai fatte a nostri idrovolanti, riportata a pag. 247 del libro Ali sul Lario.
La sera lasciamo Torino con la speranza che un giorno potremo tornare per
fare finalmente provare a centinaia o migliaia di torinesi l’ineffabile piacere di
un volo in piena sicurezza sulla propria città, su un mezzo raro e di fascino
quale è l’idrovolante. Quel giorno non è ancora venuto e ciò è una spina che è
infissa nel nostro cuore di propagandatori e storici del volo idro.
Mantova 1990
Sui bei laghetti che rappresentano un allargamento del Mincio e che circonda-
no Mantova siamo scesi molte volte. La prima volta è in occasione di una
grande manifestazione organizzata dalle autorità cittadine, nel corso della
quale è anche esposto un F 104 nella piazza principale della città e sono
proiettati molti rari film e documentari aventi per protagonisti idrovolanti.
Viene un giorno, dopo anni di operazioni, che andiamo a Mantova, ma non
sappiamo che una nuova autorità si è insediata nel territorio: il direttore del
Parco del Mincio. Tale autorità ha stabilito, nel proprio regolamento, che “è
vietato il sorvolo del parco a qualsiasi mezzo aereo a qualsiasi quota.”
Ecco dunque i tre piloti operanti in quell’occasione, Baj, Fara e Bedetti,
vedersi appioppare la multa di un milione. Il piccolo feudatario di Mantova ha
dunque legiferato contro e in seguito represso un’attività consentita dalle leg-
gi vigenti e dalle altre amministrazioni aventi giurisdizione sul territorio.
Facciamo subito ricorso al TAR della Lombardia, ma quel tribunale è certa-
mente preso da più importanti incombenze e passeranno moltissimi anni pri-
ma che esamini la questione.
La Regione Lombardia, dopo qualche tempo, emette una nota indicando che
nessun ente-parco ha l’autorità di legiferare in materia aeronautica, materia
rigorosamente riservata allo Stato. Qualunque prescrizione relativa al volo
contenuta negli statuti e nei regolamenti dei parchi è dunque nulla.
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Vita di Club e dintorni
IDROVOLANTI A COMO
È dal 1930 che gli idrovolanti solcano il cielo, e l’acqua, del lago di Como.
Unico sopravvissuto nell’Europa meridionale l’Aero Club Como, “l’hangar”,
come viene richiamato qui, costituisce per i comaschi di molte generazioni una
presenza usuale, talvolta un po’ curiosa e avventurosa.
Situato in piena città, lo scalo utilizza per i decolli e gli ammaraggi un tratto
di lago di circa un chilometro di lunghezza per duecento/trecento metri di
larghezza, interdetto alla navigazione per ogni tipo di imbarcazione. Una am-
pia porzione di lago risulta così impercorribile ai numerosi motoscafi che la
domenica, guidati spesso maldestramente, sfrecciano con grande velocità e
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Vita di Club e dintorni
fragore sulle acque del lago. Sulla “pista” degli idrovolanti si affaccia una delle
più belle passeggiate della Città di Como.
Una lunga balconata sospesa sull’acqua conduce dai giardini pubblici alla
ottocentesca Villa Olmo, con un ripetersi di ponticelli, piccole darsene, giardi-
ni fioriti. In questo tratto abbondano gli uccelli. Dai giardini giungono i canti
di capinere, usignoli, cince, scriccioli e fringuelli, mentre l’acqua è sorvolata
da balestrucci, rondini, gabbiani, nibbi bruni e da qualche sterna.
Lungo la riva si posano le ballerine e, sotto qualche barca rovesciata tirata in
secca, nidificano alcune coppie di germano reale.
Interessante è la presenza del martin pescatore che, indisturbato, pratica-
mente in ambiente urbano, ha scelto una darsena abbandonata quale sua dimo-
ra. Anche il nibbio bruno nidifica fra i boschi sulle alture e poche centinaia di
metri dal lago.
La presenza discreta degli idrovolanti non reca quindi evidente disturbo agli
uccelli che, dato anche l’esiguo numero di decolli e ammaraggi, proseguono
tranquilli le loro attività. Sono inoltre numerose le persone che vedono di buon
occhio la presenza dei piccoli aerei sul lago di Como, evocatori di spazi liberi e
di scenari spettacolari, rispetto ai motoscafi dai motori potentissimi, rumorosi
e disturbatori della quiete secolare di queste sponde.
Si ritiene poi che, data l’ampiezza del bacino, la piccola onda sollevata dai
galleggianti degli idrovolanti non possa causare eccessivo rimescolamento alle
sponde, con conseguente distruzione durante il periodo riproduttivo, delle uova
dei pesci. Un discorso diverso si porrebbe per i piccoli invasi dalle acque poco
profonde.
La messa a punto dei motori prima di ogni volo garantisce il perfetto funzio-
namento degli stessi, con conseguente ridotto inquinamento atmosferico su
una città che a fronte di dieci idrovolanti che prendono il volo è invasa ogni
giorno da migliaia di autoveicoli.
Il rispetto dell’ambiente è inoltre garantito da alcune norme di comporta-
mento che i piloti dell’Aero Club hanno assunto.
Si sono imposti il divieto di sorvolare a bassa quota e di ammarare nello
specchio antistante il “Pian di Spagna”, una riserva regionale all’estremo nord
del lago di Como dove abbondano gli uccelli acquatici, stanziali e di passo.
Disturbo all’ambiente può essere invece causato dall’eccessivo rumore dei
velivoli al decollo. A Como il problema è stato risolto; l’unico aereo dal rombo
troppo fragoroso è stato venduto dalla società dopo qualche tempo di utilizzo e
qualche mugugno dei cittadini.
Quanto espresso finora è una prima opinione, che tiene conto delle impres-
sioni raccolte tra alcuni collaboratori della sezione WWF di Como.
WWF sez. Como
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Vita di Club e dintorni
Oltre il volo
Smettere di volare è per alcuni un’esperienza traumatica e in genere lo si fa
solo se costretti, per motivi economici, di salute o di tempo a disposizione.
Negli ultimi anni si sono tuttavia sviluppate al Club di Como svariate inte-
ressanti attività, che possono offrire all’appassionato, al pilota e anche al pilo-
ta con la licenza non più in corso di validità molte occasioni di occupare il
proprio tempo in modo intelligente e gradevole, oltre che, in molti casi, utile.
Innanzitutto il Club ha oggi relazioni con moltissimi enti e strutture esterne,
che possono essere seguite solo in parte dai dirigenti. Dunque si sono create
opportunità di svolgere funzioni di pubbliche relazioni a livelli molto diversi.
Il Club, inoltre, si è dotato di una biblioteca e di un Centro di documentazio-
ne relativi alla storia del volo sull’acqua. La struttura, che può crescere a
dismisura, secondo l’impegno profuso dagli interessati, consente di effettuare
ricerche storiche su una notevole mole di materiali, anche rari.
Nell’ambito del Club, inoltre, è nata l’ESPA, European Seaplane Pilots As-
sociation, l’associazione europea dei piloti di idrovolante. L’iniziativa, da molte
parti sollecitata, è venuta alla luce in un momento di fortissimo interesse per il
volo idro nel nostro continente.
Al momento dell’uscita di questo libro vari soci del Club e membri della
neonata associazione, come gli svizzeri Ivan e Anna Aeberli e la norvegese
Evelyn Bakken, stanno lavorando al portale dell’ESPA, destinato a diventare
il punto focale dell’“idrovolantismo” europeo.
Nell’ambito di questa attività c’è moltissimo da fare a ogni livello: dall’ap-
porto tecnico e di tempo alla gestione del portale all’organizzazione di eventi
europei con idrovolanti, all’interazione con la Comunità Europea e con enti di
ogni paese per rendere possibile o promuovere l’attività con idrovolanti.
Il know how comasco sul volo idro è inoltre prezioso per i molti che oggi
sono intenzionati ad avviare attività commerciali con idrovolanti. Funzioni di
consulenza ad ogni livello ci sono sempre più frequentemente richieste.
A Como, dunque, non si vola solo sull’acqua, ma si gestiscono attività
interessanti in un ambiente sempre più internazionale. Attività che possono
offrire ai soci molte occasioni di evoluzione personale. Attività - questo è
simpatico - che si svolgono in un contesto “non profit”, in cui sono assenti i
condizionamenti - e a volte le miserie - che derivano dal dover produrre utili.
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IN VOLO SULL’ACQUA
EREDI
DI UNA GRANDIOSA TRADIZIONE
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Eredi di una grandiosa tradizione
Navigare nell’acqua e nell’aria sono attività “cugine”, rese diverse dal solo
fatto che l’aria è 800 volte meno densa dell’acqua. Questa differenza rende
tuttavia più complesso il sostenersi e muoversi nel mezzo meno denso che in
quello più denso. Infatti possiamo sostenerci nell’acqua con i modesti mezzi
offerti dalla natura e muoverci in essa con la forza delle nostre braccia, mentre
per sostenerci e muoverci nell’aria dobbiamo ricorrere a espedienti particolari
e “innaturali”, quali l’impiego di motori, che riescano a esercitare forze centi-
naia di volte più intense di quelle generate dall’uomo o da un animale.
È così che agli esordi del XX secolo l’uomo è giunto a compiere navigazio-
ni raffinate con mezzi di enorme mole e complessità, frutto di millenni di
esperienza e di evoluzione - le navi - quando ancora non riesce a fare stare in
aria un trabiccolo poco più complesso di una motocicletta. Ed è così che
mentre chi si dedica alla prima disciplina gode della massima considerazione,
chi si dedica alla seconda è considerato, ancora ai nostri giorni, forse simpati-
co, certamente intelligente e coraggioso, ma un po’ pazzo.
Si deve dire che, raggiunto il primo risultato utile, lo sviluppo della nuova
disciplina è prorompente, complice l’innata curiosità dell’uomo, l’intima sod-
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oltre a non costare nulla, è presente in o presso tutte le località notevoli del
mondo abitato. Ciò vale in particolare nella fase iniziale della storia dell’avia-
zione, che si svolge in un mondo privo di aeroporti.
Mentre molte aziende e privati si scervellano su come risolvere il problema,
il classico inventore solitario, che fa da sé all’insaputa di tutti, riesce nell’im-
presa. Si tratta dell’ingegnere francese Henri Fabre, giovane di buona fami-
glia, senza alcuna esperienza di volo, nemmeno sugli ormai relativamente
evoluti aerei terrestri, che il 28 marzo 1910, alle ore 10:10, nello stagno di
Berre (quello adiacente all’attuale aeroporto di Marsiglia), al largo di Marti-
gues, compie il primo volo della storia sull’idrovolante da lui stesso costruito.
Ha la brillante intuizione di fare assistere all’impresa un cancelliere del
tribunale, che descrive in un atto pubblico lo svolgimento delle operazioni e lo
fa controfirmare a due testimoni. In assenza di quel documento sarebbe poi
difficile per lo sconosciuto Fabre fare valere il suo primato, conteso da più
agguerriti operatori nella stessa Francia e in altri continenti. Oltre al cancellie-
re, hanno assistito all’impresa i fratelli Laurent e Augustin Seguin, costruttori
del motore Gnôme da 50 cavalli montato all’estremità posteriore della mac-
china. Fabre, nel pomeriggio dello stesso giorno, compie due altri voli e la
mattina dopo un altro ancora, ammarando nel porto di Martigues.
L’idrovolante di Fabre è sostanzialmente una coppia di travi a cui è collega-
to il motore spingente, le ali e i più piccoli piani di governo, in posizione
avanzata, in una configurazione che Fabre immediatamente chiama canard
per la somiglianza del tutto a un’anatra in volo (nome che in seguito si appli-
cherà a tutti i velivoli con piani di stabilizzazione e controllo avanzati rispetto
alle ali). Dire che la macchina è spartana è un eufemismo. Il pilota siede
direttamente sulla trave superiore, governa con un’asticciola i piani di gover-
no anteriori e riesce a compiere timide virate inducendo una torsione differen-
ziata alle due semiali. Per gli aspetti idro, l’idrovolante di Fabre è del tipo a
galleggianti (due dietro e uno davanti). Dopo un incidente che porta alla di-
struzione della macchina, Fabre abbandona gli idrovolanti per dedicarsi alla
fabbricazione dei soli galleggianti, che vende ad altri costruttori.
Intanto, a molte migliaia di chilometri di distanza, Glenn Curtiss, che ha
dedicato parecchi anni della sua vita alla costruzione di un idrovolante, riesce
finalmente a farlo volare il 26 gennaio 1911. Ritiene, in perfetta buona fede, di
essere il primo pilota “idro” del mondo, fatto sancito in un atto che ha fatto
redigere alla Corte di Appello di New York, ma non sa che dieci mesi prima
Henri Fabre lo ha preceduto. La querelle va avanti per qualche tempo prima
che gli americani, dopo accurate ricerche, ammettano che il primato appartie-
ne al francese.
Il primo volo idro di Curtiss è spettacolare: decolla dalle acque dell’oceano,
si posa presso la corazzata Pennsylvania, fa issare a bordo della stessa il suo
idrovolante, lo fa posare di nuovo in acqua e ridecolla in direzione della costa.
Curtiss detiene un altro primato: è il primo ad aver costruito un idrovolante
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aver soggiornato per qualche tempo a Parigi, nell’officina dei Voisin. Caldera-
ra ha un altro particolare primato: il brevetto di volo numero 1 nel nostro
paese. Lo ha conseguito nel 1909, sul campo di Centocelle, in seguito al corso
di sei ore che gli ha fatto Wilbur Wright, venuto dagli Stati Uniti per commer-
cializzare la macchina costruita con il fratello Orville.
Nel 1912 vola un’altro idrovolante italiano, il primo a scafo centrale. Pro-
gettato da Crocco e Ricaldoni, è pilotato dal tenente di vascello Ginocchio,
che dopo breve tempo progetta e costruisce un suo idrovolante a scafo.
Le alte gerarchie militari stentano a comprendere l’importanza dell’aviazio-
ne e non è fatto alcuno sforzo per svilupparla, se non quello di lasciare che
ufficiali della Marina come Guidoni e Calderara si divertano con i loro “gio-
cattoli” e di inviare alla scuola di Juan-les-Pin un gruppetto di ufficiali, com-
posto da De Filippi, Scelsi, il già citato Ginocchio, Roberti di Castelvero e
Garassini Garbarino. Il gruppo di italiani impara a pilotare l’idrovolante su
macchine Paulhan-Curtiss e Borel.
Da chi ottengono i primi idrovolanti i piloti della Marina? Si immaginereb-
be dalla Marina stessa o dal Ministero. Nulla di tutto ciò. Gli alti comandi non
hanno fondi da stanziare per il più pesante dell’aria e si ostinano a destinare le
limitate risorse al dirigibile. Interviene dunque l’Aero Club d’Italia, che, al-
l’insegna dello slogan “Date ali alla Patria”, lancia una sottoscrizione che
frutta la ragguardevole somma di tre milioni e mezzo. Essa consente l’acqui-
sto di quattro idrovolanti francesi, assegnati subito alla piazzaforte marittima
di Venezia, ove sono trasferiti anche gli idrovolanti sperimentali di Guidoni e
Calderara e dove viene formato il primo nucleo organizzato di idrovolanti.
Guidoni progetta la prima nave portaidrovolanti, ma l’avveniristica idea non
è capita dagli alti comandi, che vedranno dopo non molto tempo il progetto
realizzato dagli inglesi, che adattano al nuovo impiego l’incrociatore Hermes.
La musica cambia quando il viceammiraglio Paolo Thaon de Revel, forte
sostenitore di un’aviazione di Marina, assume la carica di Capo di Stato Mag-
giore. I fondi scarseggiano sempre, ma infine vengono trovati per adattare
l’incrociatore Elba quale portaidrovolanti, poi sostituito dal piroscafo Europa,
che risulterà pronto per l’uso nei primi mesi della Grande Guerra.
Ritorniamo ora al panorama più generale. Nei pochi anni successivi ai voli
di Fabre e di Curtiss sono prodotti idrovolanti, oltre che in Italia, in tutte le
nazioni dell’Occidente. In Europa sono immediatamente organizzati gare e
raduni specifici per questo tipo di aerei.
La prima coppa è messa in palio dal conte Caravadossy d’Aspremont. La
gara si tiene sulle acque di Juan-les-Pins il 2 e 3 marzo 1912 ed è vinta da
Louis Paulhan su idrovolante Paulhan-Curtiss.
Le gare più celebri sono quelle di Monaco. La prima è del marzo 1912, vinta
dai fratelli Henri e Maurice Farman. Il secondo meeting, nell’aprile 1913, fa
registrare un trionfo completo dei francesi, che vincono tutte le prove. Tutti gli
idrovolanti montano galleggianti costruiti da Henri Fabre. Vincitore assoluto è
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l’aereo proceda in flottaggio per l’intero viaggio. Nel mondo degli idrovolanti
capita tuttavia che una piccola modifica faccia di una macchina critica un
gioiello. Quando il Channell è rimotorizzato con motore da 240 cavalli, di-
venta tanto prestante da trovare impiego per molti anni a venire nell’isola di
Bermuda, nella Guiana Britannica, in Cile, Giappone, Nuova Zelanda, Norve-
gia, Svezia e Trinidad. Un esemplare è usato per esplorare l’Orinoco.
Nel 1922 l’americano Walter Hinton, uno dei piloti dell’NC-4 della prima
trasvolata atlantica, organizza un volo da Pensacola a Rio de Janeiro, mai
tentato in precedenza. Dopo essersi fatto finanziare l’impresa dal quotidiano
The New York World, noto per il suo sostegno all’aviazione, parte su un Navy-
Curtiss H-16 battezzato Sampaio Correia. A bordo porta il copilota, il brasi-
liano Pinto Martins, il meccanico, un giornalista e un fotografo.
Tra le tante avventure vissute, quella che porta alla perdita dell’aereo. In
forte ritardo, Hinton giunge al largo di Cuba ormai al buio di una notte senza
luna e decide il dirottamento sulla base navale americana di Guantanamo.
Raggiunta quella che ritiene essere la punta orientale dell’isola, segnalata da
una luce, imposta la discesa pensando di essere nella baia, ma la luce è quella
della USS Danver e l’aereo ammara non nella baia protetta, ma sulle onde
dell’oceano, squartandosi. Dai ponti della Danver molti hanno visto le luci del
Sampaio Correia che finiva in acqua, ma l’ultima cosa che possono pensare è
che possa trattarsi di un aereo e ritengono infatti che si sia trattato di una stella
cadente. Il comandante ha però un ripensamento, ricordandosi di avere letto,
qualche tempo prima, un articolo sul viaggio progettato da Hinton. Ferma la
nave e scandaglia la superficie del mare con i potenti fari di bordo. I naufraghi
sono letteralmente strappati dalle fauci degli squali che stanno accorrendo in
gran numero e li stanno assalendo. Il viaggio è poi portato a termine con un
Sampaio Correia II, che viene messo a disposizione dalla Marina degli Stati
Uniti. Il periplo delle coste dell’America centrale e del Brasile si svolge in
modo avventuroso. Capita che l’aereo alla fonda in un porto si salvi miracolo-
samente dall’incendio della nave ormeggiata nelle vicinanze, oppure che fini-
sca incagliato in un groviglio di alberi, radici e liane in un fiume della Guiana
francese; per liberarsi l’equipaggio deve lavorare con sega e machete per un
giorno intero. Avventure di questo genere si consumano ogni giorno nei primi
decenni di storia dell’aviazione e offrono di questa attività e di questi piloti
un’immagine mitica.
Nel 1924 MacIntyre e Globe compiono con un Fairey III D il giro dell’Au-
stralia. Questo viaggio dà una bella dimostrazione delle possibilità dell’idro-
volante, esattamente come farà un anno dopo, lungo le stesse coste, de Pinedo.
I due piloti australiani partono infatti “alla ventura”, senza prevedere alcuna
delle soste. Si fermano in prossimità di villaggi costieri, dove si procurano la
benzina e di che vivere e ripararsi. Percorrono 18.000 km in 44 giorni, affron-
tando il buio, violenti acquazzoni tropicali e arditi ammaraggi presso le bar-
riere coralline. Nel corso dell’intero viaggio tirano in secca l’aereo solo tre
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La febbre che coglie i piloti di idrovolanti nel 1926 non si placa. Il tenente di
vascello francese Bernard va e torna da Parigi al Madagascar con un Lioré et
Olivier LeO H 194. Lo svizzero Walter Mittelholzer vola da Zurigo a Città del
Capo con un Dornier Do.B battezzato Switzerland, dotato di un radiatore
supplementare per affrontare i caldi africani. Ad Assuan ammara sul Nilo
insieme all’idrovolante di Bernard, di ritorno dal Madagascar. Fanno parte
dell’equipaggio lo scrittore René Gouzy e il geologo e fotografo Arnold Heim,
che realizza il primo reportage fotografico aereo in Africa.
Lo spagnolo Ignacio Jimenez, con i suoi colleghi, i fratelli Llorente, condu-
ce tre Dornier Wal da Melilla a Fernando Poo, nell’Africa equatoriale.
Il maggiore Dargue, della US Army, organizza un lungo raid di 30.000 km
in tutto il Sudamerica con 5 Loening OA 1A, anfibi a galleggiante unico, i
primi a essere dotati di carrello comandato elettricamente. All’arrivo in for-
mazione stretta nei cieli di Buenos Aires, due aerei si urtano e precipitano;
uno solo degli equipaggi si salva saltando con il paracadute.
Nel 1927 il già citato Alan Cobham del raid a Melbourne e Sir Charles
Wakefield partono per un viaggio di esplorazione in Africa di 32.000 km con
uno Short Singapore I, capostipite degli idrovolanti metallici, e quasi naufra-
gano nel Mediterraneo, presso Malta, a causa di una tempesta.
In Europa Umberto Maddalena, con Del Prete, compie con un Savoia S 62
un viaggio di oltre 7000 km nell’Europa centrorientale.
L’Atlantico torna a far parlare di sé, quale teatro della prima traversata
notturna. La compiono il pilota Sarmento de Beires e il navigatore Jorge de
Caltilho con un Dornier Wal costruito a Marina di Pisa. La tappa di 2595 km
tra Bolama, in Guinea, e Fernando de Noronha, è compiuta in 18 ore usando
esclusivamente metodi di navigazione astronomica. Jorge de Castilho, nel
tragitto, compie 158 osservazioni con il sestante, una ogni 7 minuti, per con-
trollare la regolarità della navigazione.
Il 1927 è anche l’anno del viaggio di Francesco de Pinedo nelle Americhe, il
primo che prevede l’andata attraverso il Sud-Atlantico e il ritorno attraverso il
Nord-Atlantico. Tornato dal viaggio in Australia e Giappone, de Pinedo aveva
progettato un complesso viaggio in tutti i continenti di 120.000 km, ma ha poi
dovuto ripiegare sul più “modesto” viaggio nelle Americhe.
Alla partenza si registra un fatto curioso, relativamente all’eterno problema
che ogni pilota di idrovolante deve affrontare prima di un viaggio: il carico.
Temendo di non riuscire a salire sul redan e quindi a decollare con il suo
Savoia S 55 Santa Maria, de Pinedo offre agli operai e ai tecnici un premio
per ogni chilo guadagnato alleggerendo l’aereo.
Tra i molti strumenti di navigazione, a bordo è anche presente un grafome-
tro, da usare per determinare la deriva, grazie all’osservazione di candelotti
fumogeni lasciati cadere in mare.
Dopo essere giunto negli Stati Uniti e ammarato alla Roosevelt Dam, in
Arkansas, de Pinedo vede il suo idrovolante bruciare in pochi minuti, per la
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Balbo, nota per la vita estremamente spartana, quasi monacale, imposta agli
aspiranti piloti. Una delle prove per i piloti al termine della loro formazione
consiste nell’affrontare il Tirreno durante una tempesta.
Sempre nel 1931 Charles Lindbergh, con la moglie Anne Morrow, è incari-
cato dalla Pan American di fare un viaggio esplorativo fino in Cina. A bordo di
un monomotore Lockheed Sirius, la coppia attraversa migliaia di chilometri
di regioni inospitali, vivendo le interessanti avventure riportate da Anne nel
suo libro North to Orient. In Cina i Lindbergh partecipano con il loro idrovo-
lante alle operazioni di soccorso conseguenti al passaggio di un tifone, nel
corso delle quali l’aereo si danneggia irrimediabilmente.
Trasferiamo ora la nostra attenzione alla Nuova Zelanda. Qui vive Francis
Chichester, inglese, che ha deciso di trasferirsi dall’Inghilterra a questo “nuo-
vo mondo” raggiungendo in volo l’Australia a bordo di un De Havilland DH
60 Gipsy Moth. L’aereo viene poi portato in Nuova Zelanda via nave. Chiche-
ster non è ricco, non lavora per alcuna industria aeronautica, non è un militare
e non ha amici influenti. Inoltre, quando parte dall’Inghilterra, ha il brevetto
di pilota da soli 5 mesi. Questo è probabilmente il più lungo viaggio compiuto
fino a quel momento da un privato che si paga interamente le spese di viaggio.
Chichester dimostra inoltre che un viaggio di quel genere è alla portata di un
pilota di non grande esperienza.
Nel 1931 Chichester organizza un difficile viaggio tra la Nuova Zelanda e
l’Australia, attraverso le isole di Norfolk e Lord Howe. L’impresa la compie
nel Mare di Tasman, noto per i rapidi cambiamenti di tempo e le frequenti
tempeste, in mezzo a mille difficoltà, che risolve via via dando fondo alla
propria intraprendenza: è costretto a ricostruire l’aereo, cappottatosi alla boa a
Lord Howe in seguito a un fortunale; in un incidente perde un dito, che gli
viene amputato; nella tappa finale affida la propria salvezza a due piccioni
viaggiatori, lasciati liberi a centinaia di chilometri dalla costa australiana, in
mezzo alla tempesta, recanti le coordinate della sua posizione del momento.
Le avventure vissute non scoraggiano il grande navigatore, che progetta
subito il proseguimento del viaggio dall’Australia al Giappone. Parte da Sid-
ney con sole 44 sterline in tasca, prestategli da un amico. Attraversato l’arci-
pelago indonesiano, le Filippine e sorvolata Formosa, Chichester giunge in
Cina, precedendo di poco il tifone che porterà alla perdita del Sirius dei Lind-
bergh. Giunge in Giappone, a Katsuura, ove nel corso di un volo, sollecitato
dai notabili locali, urta un palo della linea telefonica, distruggendo l’aereo.
Chichester diventerà famoso negli anni sessanta per le sue traversate in
barca a vela in solitario e, nel 1966, per il primo giro del mondo in solitario.
Nel 1932 si tiene a Roma, organizzato da Balbo, un raduno mondiale di
trasvolatori, noto come “Giornate internazionali dei voli oceanici”, a cui par-
tecipano la gran parte dei piloti citati in precedenza.
Tornato in Germania da questo raduno, il già citato Wolfgang Von Gronau,
che ha alle spalle due traversate atlantiche, riesce nell’impresa di convincere
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due ministri a finanziargli un giro del mondo. Impresa - quella di farsi finan-
ziare - tutt’altro che facile nella sbrindellata repubblica di Weimar, che conta
al momento sei milioni di disoccupati e che è in procinto di consegnare il
Paese nelle mani di una nuova “guida” venuta dal nulla, ma capace di esercita-
re un indubbio fascino sulle folle.
Il decollo del Dornier Wal da List avviene grazie a una tecnica avanzata
tipica del volo idro: l’aereo si trova a decollare in condizioni di assoluta calma
di vento e piattezza della superficie, condizioni dunque molto sfavorevoli per
un idrovolante carico; sfrutta però la scia ondosa e il vento artificiale apposita-
mente provocati da un aereo che lo precede di poco, in questo caso un quadri-
motore Superwal. La rotta che lo porta in Islanda, Groenlandia e Terranova è
in molti punti contrassegnata da nebbia e visibilità nulla, ma gli aiuti alla
navigazione e l’impiego esteso della radio permettono ormai di affrontare
queste condizioni come una normale operazione.
Negli Stati Uniti von Gronau è assistito in varie traversie da importanti
aziende automobilistiche e da famosi piloti. Dopo aver sorvolato le Aleutine
raggiunge la Kamchatka e percorre le vulcaniche isole Curili, riprendendo
suggestive colate di lava che si gettano nell’oceano.
In Giappone fa revisionare l’aereo alle officine della Kawasaki, che costrui-
sce il Wal su licenza, ma deve subire incessanti domande sulle basi militari
americane nel Pacifico settentrionale.
Il viaggio prosegue per Shangai e Hong Kong, ove il Wal ammara in traffica-
tissimi porti. A Manila von Gronau incontra Douglas Mac Arthur, comandan-
te delle forze americane nel Pacifico. Dopo aver festeggiato il passaggio del-
l’equatore con una coppa di champagne, von Gronau ammara a Surabaya,
capitale di Giava, tra i 14 Wal della Marina olandese alla fonda nel porto.
Radio Berlino riesce a stabilire un collegamento in onde corte e trasmette in
diretta una conversazione di von Gronau con il ministro delle comunicazioni
tedesco, che avviene lungo una distanza di 15.000 km.
Al largo della penisola malese, gli ingranaggi della pompa del liquido di
raffreddamento si deteriorano e il motore anteriore grippa e pianta. Il Wal è
fatto ammarare sul mare in tempesta, con onde alte 5 metri. Il robustissimo
idrovolante resiste per otto ore alle terribili sollecitazioni ed è infine soccorso
dalla nave delle poste britanniche Caragola, che ha ricevuto l’SOS lanciato
dall’operatore radio Albrecht prima dell’ammaraggio. L’idrovolante è traina-
to fino a Rangoon alla notevole velocità di 12 nodi, che la nave deve tenere per
evitare le penali imposte in caso di ritardo. Qui i motori sono revisionati e
vengono prodotti nuovi ingranaggi in bronzo, in sostituzione di quelli danneg-
giati. Il viaggio può quindi proseguire.
Il resto del viaggio è quasi senza storia. All’arrivo in Europa von Gronau è
festeggiato calorosamente da Balbo, a Ostia, e poi a Friedricshafen, per essere
infine ricevuto dal nuovo presidente del Reich Hindenburg e dal nuovo vice-
cancelliere Adolf Hitler.
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siano pronti a fare altrettanto. Gli Short inglesi non riusciranno mai a garanti-
re il collegamento e questa limitazione rimarrà in vigore fino alla fine della
seconda guerra mondiale.
L’attenzione è dunque rivolta al Pacifico. Nel 1935 si apre la linea che da
San Francisco raggiunge Manila, nelle Filippine facendo tappa a Honolulu e
sugli atolli e isole di Midway, Wake e Guam. Viene subito istituita anche una
linea aggiuntiva che da Manila porta a Hong Kong.
L’espansione nel Pacifico delle rotte della Pan Am non è certo sgradita ai
militari, che hanno nella compagnia uno strumento per controllare le opera-
zioni degli aggressivi giapponesi. Sikorsky S-42, Martin 130 e Boeing 314, i
celebri Clipper, sono i protagonisti della conquista dell’oceano più vasto del
pianeta. Si tratta di magnifiche macchine condotte da esperti e coraggiosi
piloti, il più noto dei quali è Edwin Musick, perito infine in un incidente
mentre conduce un S-42 in un volo sperimentale tra Honolulu e la Nuova
Zelanda. Con l’aereo in avaria poco dopo la partenza, il pilota decide di scari-
care l’enorme massa di carburante prima di rientrare all’isola delle Hawaii;
l’aereo esplode in migliaia di minuti pezzettini, probabilmente dopo che la
scia di benzina si è incendiata passando vicino agli scarichi del motore.
Illustra bene la personalità di Edwin Musik, vero condottiero del volo idro,
un episodio di cui è stato protagonista. Noto per la sua riservatezza e il rifiuto
di voler apparire su giornali e riviste, Musik viene calorosamente richiesto
dalla sua compagnia, durante il volo inaugurale di una nuova tratta, di accetta-
re un collegamento radiotelegrafico con la base, il suo messaggio venendo poi
immediatamente diffuso su una rete radiofonica nazionale. Musik, nell’occa-
sione, trasmette solo dati tecnici, del tutto indigesti al pubblico di milioni di
persone che pendono dalle sue labbra. Il conduttore del programma, spazien-
tito, invia un messaggio radiotelegrafico all’aereo in volo, invitando Musik a
dire qualcosa di più, a parlare di ciò che vede e prova in quei momenti di
importanza storica. Invita Musik, per esempio, a descrivere le emozioni che
suscita in lui il tramonto, che sta per cogliere l’idrovolante in volo. La risposta
di Musik giunge laconica: “Sunset: 0638 GMT”.
In Europa nascono le grandi linee destinate a tenere uniti gli estesissimi
imperi coloniali. L’Imperial Airways collega le coste inglesi della Manica con
il Medio Oriente, il Sudafrica, l’India, l’Estremo Oriente, l’Australia e la
Nuova Zelanda.
Spinti dalla spasmodica ricerca di maggiori autonomie, gli inglesi inventano
il rifornimento in volo e il Short-Mayo Composite, un curioso insieme di un
grande idrovolante a scafo che ne porta uno a galleggianti sul dorso, proprio
una bella dimostrazione di quanto i due tipi fondamentali di idrovolanti siano
entrambi utili. L’idrovolante con galleggianti è rilasciato quando l’insieme dei
due ha già raggiunto una certa distanza. Usato per collegare l’Inghilterra al
Nordamerica, il composito compie il suo viaggio più lungo nell’ottobre 1938
tra l’Inghilterra e il fiume Orange, in Sudafrica, lungo un percorso di 9652
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km. Un’altra invenzione degli inglesi, destinata però a rimanere senza seguito,
è l’idrovolante a monogalleggiante retrattile, costruito dalla Blackburn.
Nel Pacifico meridionale gli americani, alla ricerca di atolli e isolette da
ricondizionare quali basi di rifornimento intermedio, provenienti da nordest,
trovano sulla loro strada gli inglesi, provenienti da sudovest. Non mancano
momenti di lieve tensione tra queste due grandi potenze marinare del XX
secolo, che vedono per esempio gli americani costruire un faro sull’isoletta di
Canton, mentre sulla spiaggia dal lato opposto gli inglesi erigono un solitario
e “utilissimo” ufficio postale, mentre le rispettive Marine sorvegliano da vici-
no le operazioni e assicurano protezione ai pochissimi addetti.
I Francesi, con l’Aéropostale e poi l’Air France, danno vita alla Ligne, la
linea postale che collega la Francia con il Sudamerica, raggiungendo Santiago
del Cile. I più celebri eroi di questa epopea sono Jean Mermoz, Antoine de
Saint Exupery e Henri Guillaumet. Mermoz scompare nell’Atlantico a bordo
della Croix-du-Sud il 7 dicembre 1936, segnando il tramonto di un’epoca e
destando in ogni francese e in ogni amante del volo un’enorme emozione.
Non è facile descrivere un personaggio come Mermoz, su cui sono stati
scritti fiumi di parole, protagonista di avventure che possono riempire volumi.
Valga solo, per descriverne la personalità, la sua considerazione abituale quando
qualcuno gli chiedeva se non aveva paura di morire in un incidente aereo:
«Incidente, per noi, è morire in un letto».
I tedeschi costruiscono l’enorme e poco pratico DO X, nel 1929, che effet-
tua una traversata atlantica, per le prime 2000 miglia in effetto suolo, non
avendo la potenza per elevarsi a quote maggiori. Il DO X Umberto Maddalena
sosta a Como per qualche giorno nel 1931, durante la costruzione dell’hangar.
Nel 1933 i tedeschi inventano un sistema per accelerare la consegna della
posta attraverso l’Atlantico. Quando la nave si trova a un migliaio di miglia
dalle coste americane, un idrovolante è catapultato con il carico di posta da
consegnare. La Deutsche Lufthansa progetta linee regolari anche verso il Me-
dio ed Estremo Oriente.
Anche la piccola Olanda, con la KLM, gestisce linee aeree di grande respi-
ro, usando intelligentemente le infrastrutture delle grandi compagnie. Gli ae-
rei sono i Fokker di fabbricazione nazionale e gli americani Duglas.
L’Italia, oltre a gestire linee nel Tirreno e nell’Adriatico, inaugura linee che
uniscono lo Stivale con le colonie africane (Tripoli, Addis Abeba, Mogadi-
scio, Asmara) e vari paesi del Mediterraneo, raggiungendo anche Tunisi, Cai-
fa, in Palestina, Costantinopoli, Gibilterra e Cadice.
Quando ormai servizi regolari consentono a passeggeri e posta di attraversa-
re gli oceani e i continenti, scoppia la seconda guerra mondiale, un evento che
condiziona pesantemente gli sviluppi dell’aviazione. Durante la guerra gli
idrovolanti svolgono essenzialmente la funzione di osservazione, ricerca e
soccorso in mare e trasporto. Gli idrovolanti non si rivelano più adatti quali
mezzi di attacco, anche se si registrano occasionali affondamenti di navi e
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porti ove le navi si trovano al momento. Molti servizi di questo tipo sono
svolti tra Southampton e il porto di Aden.
Incapace di sopportare la concorrenza degli aerei di linea terrestri, che pos-
sono servirsi di un numero crescente di aeroporti, e a corto di pezzi di ricam-
bio per i propri idrovolanti, non più in costruzione, la gloriosa éra delle grandi
flying boat termina, per quel che riguarda l’Europa, il 26 settembre 1958, con
l’ultimo volo per Madera del Solent di nome Awateri.
Un altra flying boat gigante, costruita in tre esemplari alla fine degli anni
Trenta, è l’elegante quadrimotore Vought-Sikorsky VS-44. L’ultimo esempla-
re rimasto, l’Excambian, è riesumato nel 1957 dalla Avalon Air, che lo usa per
il trasporto di quaranta passeggeri tra Long Beach e Avalon Bay, sull’isola di
Catalina, e che lo vende poi alla Antilles Air Boat.
In Nuova Zelanda opera la Tasman Empire Airways con 4 Solent, che con-
fluiranno nel 1955 nella flotta dell’Aquila Airways. Sul Solent dal nome mao-
ri Aoetearora (“Terra della lunga nuvola bianca”) la regina Elisabetta e il
principe Filippo fanno il giro della Nuova Zelanda nel 1953.
Una linea regolare tra Sidney e l’isola di Lord Howe è aperta dalla Trans
Oceanic Airways, poi affiancata dalla Quantas Empire Airways e sostituita
infine dalla Ansett Boats. Queste compagnie, che hanno operato con Catalina
e Short Sunderland, Sandrigham e Solent tra il 1947 e il 1974, hanno rappre-
sentato un elemento di enorme importanza economica per l’isola di Lord
Howe, che grazie alle flying boat ha visto i propri abitanti poter sviluppare
attività commerciali con il resto del mondo e in certi casi avere salva la vita
dopo essere stati trasferiti velocemente in un ospedale del continente. Inoltre
la linea ha consentito di lanciare la magnifica isola tropicale, con le sue mon-
tagne selvagge e le sue barriere coralline, nel circuito turistico internazionale
(in realtà nella fascia più raffinata di esso).
Proprio la linea regolare Sidney-Lord Howe è l’ultima che vede impegnati i
grandi idrovolanti a scafo del passato. La fine definitiva di questa éra, l’addio
finale alle flying boat si registra il 10 settembre 1974, quando lo Short Solent
che ha per nome Islander decolla con l’ultimo carico di passeggeri per Sidney.
Tutta la popolazione dell’isola si è radunata per l’evento. Molti piangono. Il
sindaco fa un discorso commovente. Il grande idrovolante, prima di lasciare
per sempre quei lidi, fa un basso passaggio, dal sapore ironico, sulla ancora
sconnessa pista che le ruspe hanno aperto sventrando una parte della foresta
dell’isola, ove giungeranno presto gli aerei con le ruote.
Negli anni successivi le ultime grandi flying boat, tra cui l’Excambian,
affiancate da alcuni Catalina adattati come aerei passeggeri, sono usate come
aerei privati per qualche spedizione e per sporadiche operazioni di charter di
lusso lungo le coste statunitensi e nei Caraibi. Un Catalina è proposto negli
anni Ottanta da un operatore inglese per viaggi di piccoli gruppi di persone
lungo il Nilo. L’esperienza del sorvolo del grande fiume africano, considerata
la bassa velocità dell’aereo e gli ampi blister, ove erano disposte le mitraglia-
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C’è però una differenza tra le operazioni dei bush pilots nei primi decenni
della colonizzazione del Grande Nord e quelle che prendono piede a partire
dagli anni Cinquanta del XX secolo. Le prime sono operazioni per assicurare
una rudimentale sopravvivenza alle comunità sparse di cacciatori, cercatori
d’oro, allevatori, addetti all’industria del legname, oltre che agli esploratori di
queste distese di terre, montagne e laghi ancora sconosciuti. I trasporti riguar-
dano queste avventurose persone e viveri, attrezzature, medicinali, oltre che
l’immancabile posta, di enorme importanza in aree in cui il contatto con la
“civiltà” avviene poche volte o addirittura una volta all’anno.
Nel dopoguerra, con l’arrivo in queste regioni della ferrovia, con la realizza-
zione di aeroporti e la scoperta del petrolio in Alaska il panorama cambia. Gli
idrovolanti e i bush pilots passano al servizio di un pubblico sempre più vasto
in cerca di una natura incontaminata, ove è addirittura un bene che siano
assenti infrastrutture urbane e aeroporti. Ogni azienda che si rispetti ha il suo
idrovolante con cui portare a pescare o a compiere escursioni i clienti di
riguardo. La meta è un laghetto sperduto su cui si affaccia un’unica capanna di
legno, in cui vivere per un week end la rude ed eccitante vita del trapper.
Migliaia di piloti privati, con le loro famiglie, si lanciano alla scoperta di
questi ambienti inconsueti per scopi puramente ludici e turistici. Inevitabile,
in queste condizioni, l’accadere di “inconvenienti”. Da qui il perfezionarsi di
regolamentazioni che impongono ai piloti che si avventurano nelle sparsely
settled areas l’adozione di una serie di misure di sicurezza, che vanno dagli
apparati di comunicazione e sopravvivenza ai mezzi per difendersi dagli orsi.
L’avvento del GPS e dei telefoni satellitari fa fare un deciso salto nella sicu-
rezza di queste operazioni.
L’idrovolante diventa dunque il mezzo per conoscere la natura e muoversi in
essa in modo discreto e sicuro ed è decantato per questa sua caratteristica da
noti ambientalisti, come, in Italia, Fulco Pratesi, presidente del WWF.
L’idrovolante conserva oggi una funzione importante in un settore specifi-
co, quello del volo panoramico, detto sightseeing flight o scenic flight. E ciò
non perché dagli aerei con le ruote non si veda bene il paesaggio, ma per il
fatto che con gli aerei con le ruote si parte necessariamente da un aeroporto,
mentre l’idrovolante consente di partire per il volo dai luoghi più belli e inte-
ressanti del mondo, dal centro storico delle città, dai fiumi, dai laghi. Dunque
l’idrovolante può fornire un servizio nel preciso luogo ove c’è una concentra-
zione di domanda e senza che la cosa richieda un’organizzazione logistica e
perdite di tempo, quali il trasferimento in un aeroporto. Solo l’elicottero ha
potuto fare concorrenza all’idrovolante per questa funzione, ma non in tutti i
luoghi e non allo stesso costo e allo stesso elevato livello di sicurezza.
Altri servizi essenziali oggi svolti con idrovolanti sono quelli di charter,
ovvero di piccolo trasporto privato, di affari e di servizio, in aree prive di
infrastrutture. Un campo che vede ancora il Nord americano e l’Alaska quali
principali teatri.
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L’idrovolante è stato “scoperto” quale risorsa in molte aree ove era scono-
sciuto. L’esempio più clamoroso è quello delle Maldive. Decine di Twin Otter
e Caravan portano masse di turisti dall’aeroporto intercontinentale diretta-
mente ai resorts sparsi sugli atolli, evitando loro ore di navigazione in mare.
L’impiego degli idrovolanti più conosciuto al grande pubblico è quello nel
suo ruolo di bombardiere d’acqua. Divenuto popolare con la diffusione dei
Canadair, in grado di caricare 6 tonnellate d’acqua, questo ruolo è stato svolto
in passato da Canso Catalina appositamente modificati, e ancora oggi, in
Canada, dagli enormi e “antichi” Martin Mars. La necessità di questo servizio
ha stimolato la costruzione di macchine più piccole, come il Fire Boss, versio-
ne idro dell’Air Tractor (usato per irrorazione), in grado di caricare 3 tonnella-
te d’acqua, ma avente un costo molto inferiore a quello di un Canadair CL
415. Chi ha avuto l’occasione di vedere le ardite picchiate dei Canadair sugli
incendi della macchia mediterranea e le rapide manovre di scooping, ovvero
di caricamento dell’acqua durante lo sfioramento della superficie, rimane af-
fascinato dall’utilità e versatilità di queste macchine.
L’altra attività che si svolge con gli idrovolanti è l’istruzione. Non sono
molti i luoghi ove si può imparare a pilotare un idrovolante, in particolare in
Europa. L’idroscalo di Como e la scuola di volo idro dell’Aero Club Como
hanno assunto, negli ultimi anni, un’importanza crescente in questo settore, in
cui l’attività è di solito penalizzata da una serie di fattori, che fanno sì che sia
pressoché impossibile, nel mondo, affittare un idrovolante per volarci come
pilota solista. Como rappresenta dunque una fortunata e per il momento felice
isola di libertà.
Oltre al già citato Canadair, in tempi recenti si è assistito allo sviluppo di
due idrovolanti di grosse dimensioni: il giapponese Shin Meiwa PS-1 e il
russo Beriev A 40. Il primo, studiato inizialmente con funzioni “antisom”, è
più noto nella sua versione civile e nei suoi impieghi per operazioni di perlu-
strazione, ricerca e soccorso in mare, un compito particolarmente importante
per un Giappone proteso verso l’oceano per molte delle sua attività vitali. Il
PS-1, dotato di 5 turbine, è un vero capolavoro di ingegneria, permettendo
operazioni su onde oceaniche fino a 3 m di altezza, sulle quali si posa all’in-
credibilmente bassa velocità di 42 KTS.
Il russo Beriev A 40, rimasto allo stadio di prototipo, è un anfibio a scafo
biturbina, ha un erede per il mercato civile, il Beriev 200, che potrebbe essere
chiamato “Il Concorde degli idrovolanti”, ancora allo studio, progettato per
ospitare un’ottantina di passeggeri.
Oggi il più grande idrovolante usato per il trasporto commerciale di passeg-
geri è il Turbo Mallard, ovvero il Mallard dotato di turbine invece che degli
originali motori radiali a pistoni. A farne largo uso è la Chalks Ocean Ai-
rways, nome dato dal nuovo proprietario italoamericano alla Chalks, che ope-
ra da tempi immemorabili tra la Florida, Bimini e le Bahamas e che in passato
si è servita anche di molti Albatross, convertiti all’impiego civile.
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Omaggio
a Francesco de Pinedo
Questo capitolo, tratto dal mio libro I Lake dalla A alla Z, vuole rendere omaggio
a un grande pilota e navigatore, che ha compiuto, con il suo meccanico, un’impresa
epica, narrata nel libro Un volo di 55.000 chilometri (Mondadori, 1926).
Chi desidera vedere molte immagini relative a questa impresa può consultare il mio
libro, citato sopra, mentre chi volesse leggere l’opera originale (cosa consigliabile
a qualsiasi pilota idro) può prenderla in prestito alla biblioteca del Club.
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anche meglio che con un piccolo bastimento, contando solo sulle ri-
sorse locali. Ho detto “anche meglio” perché all’idrovolante è possibi-
le navigare anche su terra, ciò che, evidentemente, non è possibile a
una nave».
«Perché la dimostrazione riuscisse davvero convincente, bisognava
che il percorso fosse molto lungo: infatti in progetto risultò di 55.000
chilometri, pari a quasi una volta e mezzo la lunghezza dell’equatore
terrestre, e 12.000 chilometri in più del massimo percorso fino allora
eseguito a volo, ossia del giro del mondo compiuto dai valorosi avia-
tori americani, per un totale di 43.000 chilometri.»
«L’itinerario, inoltre, sempre a dimostrare la bontà della tesi, doveva
estendersi tra le regioni più diverse per clima e posizione geografica.
Quindi lo sviluppo di esso andava dal 10° al 155° meridiano Est Gre-
enwich e dal 45° parallelo Nord al 40° parallelo Sud, descrivendo
sulla terra un immenso triangolo i cui vertici erano Roma, Melbourne,
Tokio, toccando le zone torride e temperate a Nord e a Sud dell’Equa-
tore, tagliando quattro volte il tropico del Cancro e due volte il tropico
del Capricorno.»
«Il percorso si svolgeva per 40.000 chilometri circa lungo le coste o
in vista della terra, per 8000 chilometri sul mare aperto e per 7000
chilometri sopra la terraferma.»
Privo di appoggi (se non, a cose quasi fatte, quello di Mussolini, allora Alto
Commissario dell’Aeronautica), deriso dalla stampa, sicura dell’insuccesso
dell’impresa, de Pinedo potè partire solo perché si impegnò per iscritto a
porre a suo carico o a carico dei suoi eredi il costo dell’aereo in caso di perdita
o insuccesso.
Il viaggio di de Pinedo non è dunque la grande impresa aviatoria dettata
dalla voglia di un’industria di dare una dimostrazione della bontà dei propri
aerei (il suo aereo era vecchio, al tempo dell’impresa); non è dettata dal puro
spirito di battere un record; non è intesa a impressionare le masse; non ha lo
scopo di glorificare una figura di pilota quale essere “superiore”; non è un’im-
presa volta a dare sostegno propagandistico a un regime; non è un mezzo per
imporre la preminenza di una nazione o di un popolo rispetto a un altro (tutte
motivazioni di molte imprese aviatorie di quegli anni). Francesco de Pinedo
ha compiuto un’impresa sobria nella sua organizzazione, interessante per sco-
pi e significati tecnici, simpatica nei suoi aspetti umani e in definitiva moder-
nissima, anzi avveniristica nel suo spirito.
Per questi motivi ci pare più bella di altre note imprese degli anni Venti e
Trenta. Per gli stessi motivi si potrebbe sostenere che il più elevato e completo
modello di pilota, quale si può configurare ai nostri giorni, e in particolare di
pilota idro, sia proprio Francesco de Pinedo, più del comandante di armate
aeree Balbo, più del recordman Agello, più degli “assi”, celebri per il numero
di aerei abbattuti, più dei pur bravissimi acrobati dell’aria.
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De Pinedo parla al cento per cento la lingua del pilota idro, la stessa di
Ferrarin, di Von Gronau, di Lindbergh, di Saint-Exupéry, di Mermoz, di Mu-
sik, dei piloti della SISA, della Pan Amercican, dell’Aéropostale, per fare
qualche esempio, tutti piloti che hanno usato l’idrovolante come strumento di
trasporto di persone o cose, aventi la sicurezza del volo, l’arrivo a destinazio-
ne e la consegna del prezioso carico quali obiettivi supremi.
Ogni parola di de Pinedo esprime in modo perfetto i pensieri, i timori, i
dubbi, le gioie del pilota idro. De Pinedo è il prototipo del bush pilot, già
esistente in molte parti del mondo, ma che diverrà celebre, in versione canade-
se e americana, nei decenni successivi.
Le situazioni tecniche che descrive, gli elementi naturali che deve fronteg-
giare, il confronto con sé stesso a cui è chiamato nei momenti difficili sono
tutte cose senza tempo, che qualsiasi navigante ha provato e proverà sempre,
sia esso un cacciatore del Paleolitico o un astronauta che si sta dirigendo verso
un altro pianeta.
Dai suoi racconti si impara molto, anche veri trucchi del mestiere. Quando il
Gennariello sovraccarico non ne vuol sapere di salire sul redan, avendo un
baricentro troppo arretrato, per fare un esempio, de Pinedo inventa l’espedien-
te di fare uscire sul muso il meccanico Campanelli durante la corsa di decollo,
per favorire la manovra.
Ma tutta l’astuzia di un sopraffino pilota idro de Pinedo la dimostra nelle
difficoltà, quando si deve “arrangiare” per risolvere una situazione apparente-
mente impossibile. Il libro abbonda di racconti di questo genere. Ad Amboina,
per esempio, nelle Indie Olandesi, ove gli abitanti vedono per la prima volta
un aereo, gli si rompe un piccolissimo, ma fondamentale pezzo metallico,
senza il quale il motore non può avviarsi. Riesce infine a farne costruire uno
uguale all’originale dall’orologiaio cinese della cittadina (il quale, felice, dopo
l’operazione, appende in vetrina il cartello con la scritta “Si riparano aeropla-
ni”, dimostrando un senso dell’umorismo degno dei 6000 anni di storia della
civiltà di cui è esponente).
Nella prefazione del suo libro de Pinedo dice che chi lo ha accolto all’arrivo
lo ha visto molto più fresco e riposato che alla partenza. Strano? Forse no: de
Pinedo racconta che le peripezie del viaggio sono nulla rispetto al calvario che
ha dovuto affrontare prima della partenza, a contatto con il sistema burocrati-
co italiano, che lo aveva portato alla disperazione.
Prendiamo dunque tutti esempio da questo “gigante dell’aria”, che è riuscito
a compiere un’impresa complessa ed esaltante basandosi quasi esclusivamen-
te sulle sue forze.
Questa è la principale caratteristica del pilota di idrovolante: essere autono-
mi, non avere bisogno di nessuno. Cerchiamo di coltivare questa caratteristica
in noi stessi. Cerchiamo di instillarla nelle nuove generazioni. È utilissima
non solo per giungere in piena salute a destinazione; non solo per pilotare un
qualsiasi tipo di idrovolante. È utilissima nella vita.
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IN VOLO SULL’ACQUA
EPILOGO
Esprimi un desiderio
Durante un lungo flottaggio per raggiungere una riva strofino, per sbaglio, la
torcetta a stilo hi-tech facente parte del corredo “operazioni avanzate fuori
idroscalo”. Compare il genio della lampada e mi dice: «Sì, sono lo stesso di
quella di Aladino. Mi adatto ai tempi. Puoi esprimere alcuni desideri».
Non faccio il classico errore di bruciare i primi desideri in modo erroneo,
secondo il canovaccio di molte barzellette. Proprio non mi devo arrovellare.
So esattamente che cosa desiderare.
Desidero un paese ove il volo sia un’attività rispettata e coltivata, conside-
rata un elemento di progresso e di edificazione di una società migliore.
Desidero un mondo in cui un idrovolante possa posarsi su ogni specchio
d’acqua ove ciò sia possibile e ragionevole, così come una farfalla si posa sui
fiori che più le aggradano.
Desidero un Aero Club a cui tutti i membri sono fieri di appartenere e che
propone ai piloti conoscenze di prim’ordine ed esperienze di volo avvincenti,
oltre che essere un fattore di evoluzione della comunità locale in cui opera.
Desidero il proliferare di società di trasporto pubblico di passeggeri con
idrovolanti, in grado di fare provare a migliaia, milioni di persone il piacere
di osservare dall’alto luoghi belli e interessanti e di trasportarle tra luoghi
inusuali e non dotati di normali infrastrutture aeronautiche.
Desidero che ogni giovane che si voglia avvicinare all’aviazione possa far-
lo agevolmente e che lo possa fare, se lo desidera, direttamente su un idrovo-
lante, un’esperienza unica ed estremamente arricchente.
È incredibile e piacevole che qualcosa di molto vicino a tutto ciò sia possi-
bile a Como, in Italia, un paese in cui lo sviluppo dell’aviazione ha avuto per
decenni i limiti più forti. Ma la strada per il pieno soddisfacimento dei deside-
ri sopra enunciati è ancora lunga e mille sono le insidie che possono annulla-
re le conquiste fatte e riportare all’indietro le lancette dell’orologio del pro-
gresso. Sta a ciascuno di noi lottare per conservare, per noi stessi e per le
future generazioni, queste prerogative, che a Como sono state coltivate, a
costo di immani fatiche, da generazioni di piloti e di entusiasti del volo.
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Sommario
5 Prefazione dell’autore
6 Fra acqua e cielo - Saggio introduttivo di Alberto Longatti
IN VOLO SULL’ACQUA
Avventure di volo
16 L’avventura dietro l’angolo
23 Barnstorming acquatico: i voli di propaganda
30 Ne va della vita
38 Paradiso e inferno
42 La strizza
45 Grand Princess
49 Ischia
54 Idroscalo di Milano
57 Lago di Bilancino
59 Navigazione astronomica
63 Un viaggio commemorativo
65 Alta montagna
70 America
74 Tre uomini in barca
81 Unje
82 Myconos
87 Rovaniemi
92 Oslo
95 Biscarrosse
99 Vichy
104 Le Bourget
108 Dal Tevere alla Senna
110 Evian
114 España
120 Ostacoli
124 Autonomia
128 Dirottamenti
137 Mercatini
138 Per un pelo
Pilotare l’idrovolante
142 Errori classici nel pilotaggio dell’idrovolante
148 Forze della natura
154 Specchio delle mie brame...
157 PIC
158 È successo anche a me
160 Imbrogliato dal mio stesso cervello
165 I flagelli dell’aviazione idro
169 Incidenti
Idrovolanti
172 Scarponati o a scafo?
180 Il “Caproncino”
186 Il “Macchino”
190 Il Piper PA 18 Super Cub
193 Il Cessna 150
194 Il Cessna 172
196 Il Cessna 180, 185 e 206
198 Il Maule M7
201 I Lake
209 L’idrovolante più bello del mondo
214 Che cosa vogliamo di più?
Epilogo
317 Esprimi un desiderio
Finito di stampare
nel novembre 2004
dalla New Press
Como - Via Carso 18
Tel. 031 301268