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Ali di legno
sul mare
Volle le ali
Fossero pure umili
« Ali di legno ».
Con esse volò in Cielo.
MARIO LOFFREDO
Ali di legno
sul mare
Questa constatazione statistica è solo un pallido espediente per evocare la drammaticità delle
situazioni che questi speciali equipaggi si trovarono ad affrontare. L’evocazione del dramma
avviene attraverso la narrazione documentata di situazioni e di eventi; un insieme di attendibili
riferimenti a uomini, materiali, località e tecnologie; la ricostruzione di un ambiente operativo
pervaso da intense tensioni psicologiche e scandito da un tragico rosario di nomi di amici e
compagni man mano scomparsi.
È ciò che ha fatto il Comandante Loffredo per sé, per i familiari, per gli amici, per i marinai di
tutte le classi e di tutti i ranghi, per tutti i giovani che vorranno cercare e che troveranno in
questo volume, valori forse non dimenticati, ma troppo spesso sopiti.
La narrazione è scarna, incisiva e sintetica; il volume non deve perciò essere letto in maniera
frettolosa.
L'Autore non è alieno dal disseminare il testo di sarcasmi, battute scherzose, lepidezze, forse in
onore del Console romano che ha dato il nome alla sua città di adozione.
Per contro la trattazione è molto seria e meditata e credo che solo poche pagine trascorrano
senza rilievi e valutazioni di ordine tecnico per le quali il Comandante Loffredo possiede non
solo la piena qualifica ma anche il « bernoccolo » che gli ha consentito di realizzare strumenti
originali di ausilio alla navigazione aerea quale era a quel tempo.
Al di là dei rilievi tecnici si avverte poi il rammarico per la inadeguata efficienza operativa e
logistica del tempo, quasi una premonizione dell'aspirazione da tanti e da tanto tempo avvertita
di conferire finalmente omogeneità e unità di comando al complesso dei mezzi aerei destinato a
operare sui mari.
Talune parti del testo, raggiungono alti livelli di « pathos », come se l'Autore si lasciasse
prendere la mano da intime, struggenti vibrazioni evocate dagli eterni valori dell'amore,
dell'amicizia, del coraggio, del sacrificio.
Compio oggi il mio sessantacinquesimo anno. Sto riordinando la mia roba perché mi accingo a
lasciare la casa nella quale pensavo di trascorrere i miei ultimi anni.
Ecco perché sto raccogliendo le mie cose; quaranta anni di ricordi: lo spadino da allievo
dell'Accademia Navale, il libro del Mak Il... e i miei « libretti personali di volo ». Si, perché il
destino volle che io diventassi un marinaio anfibio, mezzo marinaio e mezzo aviatore. Non certo
un'aquila e neppure un gabbiano, ma piuttosto anitra. Il patetico CantZ 501 richiamava infatti
decisamente questo volatile. Lo chiamavamo affettuosamente il « Mammaiuto ».
Sui libretti di volo è tutto annotato con cura; date, luoghi, ore, minuti.
È come un invito a ricordare.
Siamo all'inizio del 1940; sono un giovane Ufficiale imbarcato sul cacciatorpediniere
GRANATIERE con le mansioni di Ufficiale di Rotta. Il mio comandante è il Cap. di Vascello
Geraldo Galatà *, un tipo piuttosto « difficile ». Un giorno mi chiama nel suo alloggio; il suo
volto è peggio che scuro, è decisamente « incazzato ».
— « Tu m'u putevi pure dicere che m'avevi cumbinato 'u servizio! » (me lo potevi dire che mi
avevi combinato lo scherzetto!).
« Le assicuro, Comandante, che non ho chiesto io di andare a fare l'aviatore: Le dirò anzi, che la
cosa non mi entusiasma affatto. »
Rapido miglioramento di umore.
« Se è così, la cosa è molto semplice: ora telefono al Ministero dove « tengo qualche maniglia »
e faccio annullare il tuo trasferimento. »
Il bello della Marina dei miei tempi era che tutti « tenevano qualche maniglia ». Era come se
nessuno ne avesse.
Ed infatti, dopo qualche giorno, il Comandante mi richiama e dice:
« Nient'a fa' [niente da fare]; il Duce ha scoperto che, se guerra ci sarà, non sarà sul Brennero
(peccato perché è stato accuratamente fortificato) ma sul mare dove, come sai, non è facile
orientarsi « perché pe' mmare nun ce stanno taverne » [perché per mare non ci sono osterie]; data
l'urgenza non c'è altro che trasferire un certo numero di Ufficiali di Marina in Servizio
Aereonautico.
Visita di controllo di idoneità al volo; ci ritroviamo in un certo numero di « volontari per forza »;
tutti così onesti da non simulare inesistenti magagne, ma nemmeno così entusiasti da occultare
eventuali insufficienze. Io, che non ero mai riuscito a ballare il valzer, pensavo: « se alla prova
del seggiolino girevole dovessi, al momento dell'arresto, sentire che sto perdendo l'equilibrio,
non farò certo l'acrobata per restare in piedi ». Infatti all'arresto andai platealmente a gambe
levate.
« Ottimo disse il medico; organi dell'equilibrio efficientissimi! »
Mi spiegarono poi che se fossi riuscito a mantenere l'equilibrio mi avrebbero scartato. Proprio il
contrario di quanto credevo.
Debbo precisare che io fui uno dei pochissimi (forse una diecina) che furono trasferiti d'autorità
in servizio aereonautico; tutti gli altri, e furono centinaia, furono tutti volontari.
Va anche notato che se vi fu una certa difficoltà, in tempo di pace, a reperire volontari per questa
specialità un po' anomala per un Marinaio, vi fu, viceversa, un accorrere di giovani Ufficiali in
tempo di guerra quando le probabilità di sopravvivenza per un Osservatore erano proprio
pochine.
Alla fine della guerra gli Osservatori erano molti di più che all'inizio.
Questo è uno degli elementi che giustificano il mio orgoglio di aver appartenuto alla Marina
Italiana.
Ma non credo di esagerare affermando che questo onora non solo la Marina ma l'Italia intera.
Più volte mi venne, in seguito, l'impulso di lamentarmi con colleghi o superiori per il fatto che
una vera e propria imposizione mi avesse spinto verso una attività così diversa da quella che fin
da ragazzo avevo sognata. Non lo feci mai.
Preciso subito che ciò che mi distolse dal farlo non fu né fermezza di carattere né spirito di
rassegnazione. Quello che tratteneva me e gli altri marinai dal farlo era un pensiero di ben altra
natura: ero sicuro che mi sarei sentito apostrofare con uno sfottetto che risaliva ai vecchi tempi,
forse alla Marina borbonica:
Il rubinetto aperto
Giunge finalmente l'alba tanto sospirata; gli incubi notturni si dileguano, anche perché sostituiti
da una tremenda « incazzatura »: il Capitano di ispezione, appena arrivato la mattina, mi chiama
e mi annuncia drammaticamente che ha trovato un rubinetto aperto nei lavandini dei
Radiotelegrafisti; mi consideri quindi agli arresti.
Confesso che né allora né mai seppi dove era il suddetto locale; l'aereoporto era una vera città
sparpagliata in un bosco ed io, fino a pochi giorni prima mi trovavo su una nave!
Saggezza
Lo specchio
Un altro « bang »
Chi pensa che le promozioni in massa siano una invenzione recente, ad es. del 1968, ignora che
vi è un precedente che risale, nientemeno, alla primavera del 1940.
Appunto in quell'epoca il Colonnello riunisce i Frequentatori del Corso ed annuncia:
a) che il corso è finito.
b) niente esami: tutti promossi!
Il suo senso dell'umorismo gli impedisce, infatti, di indire degli esami che avrebbero provocato
una lotta a coltello fra allievi che desideravano ardentemente di essere bocciati (nessuno di noi
aveva scelto volontariamente questa svolta nella propria vita) ed una Commissione di esami
fermamente decisa a promuovere. Pertanto potevamo, da quel giorno, pagandocela, appuntarci
sul petto un'aquila d'oro.
11/6/1940 - In guerra
Da questa data in poi vedo che i voli, sul mio libretto, sono segnati in rosso. Siamo in guerra.
La prima annotazione reca: Scorta antisommergibile. Si tratta di proteggere dalle insidie la nostra
flotta schierata al gran completo in formazione Uno-Effe-Gamma. È uno spettacolo magnifico:
uno spiegamento di navi che occupa più di venti chilometri di mare. C'è da essere orgogliosi!
Noto solo, con una stretta al cuore, che vi è nella formazione come un vuoto incolmabile: manca
la primadonna: « La Portaerei ».
Intere generazioni di Marinai hanno invano sognato questa Super-Star, questa Circe. Forse molti
la sognano ancora.
E sempre invano.
Mi scuso di riferire qui una battuta dei Fratelli De Rege; oggi può apparire un po' stantia, ma a
quei tempi mi piaceva assai.
— Dimmi un animale feroce.
— U' lupo!
— Più feroce.
— 'Na tigre!
— Più feroce ancora.
— 'Nu lione!
— Assai più feroce ancora.
— 'NU LIONE INCAZZATO!
Ebbene, quella mattina, sullo scivolo, il Colonnello, era proprio 'NU LIONE INCAZZATO.
Causa: una cosetta da nulla; l'Ufficiale di picchetto aveva ricevuto, durante la notte, un «
fonogramma » che segnalava in quale luogo ed in quali ore un « nostro » sommergibile avrebbe
fatto esercitazioni di addestramento; la ragione era ovvia: si voleva evitare che qualche nostro
aereo si coprisse di facile gloria affondandolo.
Ebbene, l'Ufficiale di picchetto si era scordato il fonogramma in tasca senza dare la dovuta
pubblicità al contenuto. « Dobbiamo ringraziare lo stellone », gridava il Colonnello; e
conformava le dita delle mani in modo da delimitare un cerchio di circa venti centimetri!
Alludeva a una stella o a qualcosa d'altro?
Conclusione: tutti gli Ufficiali sono privati, per quella sera, della libera uscita.
La punizione mi lasciava assolutamente indifferente. Tutto sonno in più.
Non era così per il bravo Ardinghi che vedeva sbocciare, proprio in quei giorni, un legame forse
duraturo. Dopo pochi minuti « U LIONE » non era più incazzato, anzi si dava da fare per
rallegrare la clausura che ci aveva imposta.
Fece procedere alla rapida costruzione di un palcoscenico improvvisato ed organizzò una
rappresentazione pomeridiana della Compagnia dei Fratelli De Vico. [Uno di essi, Pietro, ha
rallegrato per anni alla T.V. grandi e piccini nelle vesti del pirata Nicolino]
C'era anche un nutrito corpo di ballo di graziose fanciulle.
Finito lo spettacolo la Compagnia viene ricondotta a Taranto con gli autobus dell'Aeroporto. Uno
di questi è a disposizione del balletto; le ragazze salgono allegre e cinguettanti; tutte carine, direi;
meno una dai tratti decisamente mascolini.
Sfido io, è Ardinghi! L'amore aguzza l'ingegno.
Il giorno 17 Giugno va ricordato come un giorno di attività abbastanza spinta in quanto ebbi ad
effettuare due missioni nella stessa giornata.
La prima con inizio all'alba fu una semplice osservazione di routine nello Jonio alla ricerca di
sommergibili nemici.
La seconda fu una esplorazione notturna sempre alla ricerca di un sommergibile nemico
avvistato non so da chi e con quale attendibilità. Non capii allora, come non capisco adesso,
come si potesse sperare di avvistare un sommergibile, anche se in emersione, in piena notte!
Penso che nelle alte sfere si nutrisse una fiducia esageratamente elevata nella acutezza visiva
degli Osservatori.
Forse fu per questo che non si incoraggiarono gli esperimenti sul radiotelemetro che si
svolgevano, già nel 1937, presso l'Istituto Elettrotecnica di Livorno sotto l'impulso, circondato
dallo scetticismo, del Cap. A.N. Tiberio, del Prof. Carrara e di altri. Io, appassionato per la
tecnica, li consideravo dei semidei; i « Pappagoni » li consideravano dei perditempo.
In ogni modo, siccome purtroppo non è vero che gli ordini sbagliati non si eseguono, partimmo
alle 21,55 con un « Mammaiuto » pilotato dal S. Ten. Tomolillo. Avevamo a bordo due bombe
di profondità regolate a 20 metri.
É superfluo io dica che il risultato fu negativo sia perché di notte non ci si vede, sia perché forse
il sommergibile se l'erano sognato.
Verso le una di notte dopo aver gironzolato per lo Jonio per circa tre ore riprendiamo la via del
ritorno. Naturalmente, come prescritto, sganciamo le bombe di profondità perché poteva
accadere che si sganciassero ed esplodessero in fase di ammaraggio. Con un sospiro di sollievo
constato che si erano sganciate regolarmente. Perché qualche volta non si sganciavano ed allora
erano guai, come dirò appresso.
Dirigo non su Taranto ma su porto Cesareo perché quel paesino sulla riva ovest della penisola
salentina aveva una torre quadrata bianca che speravo fosse visibile anche di notte e da una certa
distanza.
Debbo dire che non mi sentivo tranquillo perché a quei tempi l'unico strumento di navigazione
era la bussola che non sempre era precisa, senza contare l'incognita del vento.
Dopo parecchi minuti trascorsi col fiato sospeso eccola finalmente di prora la torre bianca! Certo,
più fortuna che abilità; ma quello che conta sono i risultati e Tomolillo mi abbraccia entusiasta.
Ma le difficoltà non sono finite, almeno per il pilota. Infatti all'arrivo sull'idroscalo avremmo
dovuto trovare il « sentiero luminoso » acceso; e invece è spento.
I1 sentiero luminoso non è in sostanza che una serie di potenti lampade fissate su una fila di
zatteroni; su uno di questi è piazzato un gruppo elettrogeno che le alimenta.
Evidentemente non erano riusciti a mettere in moto il motore a scoppio che trascina la dinamo.
Giriamo per alcuno minuti sul Mar Piccolo come anime in pena. Finalmente vediamo che sugli
zatteroni vengono accesi dei falò di paglia; a Tomolillo basta e ne avanza per ammarare da par
suo.
Una nota buffa: appresi in seguito che i gruppi elettrogeni erano stati forniti da una ditta -della
quale divenni Direttore Tecnico nell'immediato dopoguerra.
Il timore che le bombe non si sganciassero era pienamente giustificato e la prova ce la dette
pochi giorni dopo una avventura capitata allo stesso S. Ten. Tomolillo.
Il giorno 15 Luglio un trimotore Cant Z 506 della 171a da Ricognizione Marittima pilotato dal
Cap. MANCINI ed avente a bordo il T.V. Buggi rientrava a Taranto alla fine di una esplorazione
di routine allorché uno dei motori improvvisamente si incendiò. Quasi certamente fu l'impiego
dell'olio di ricino come lubrificante a provocare l'incendio.
La cabina fu subito minacciata dalle fiamme; ma il pilota, malgrado il fuoco lambisse il suo
seggiolino, riuscì ad ammarare e generosamente incitò i compagni a gettarsi in acqua prima che
il fuoco raggiungesse i serbatoi alari e li facesse esplodere. Quando fu certo che nessuno fosse
più a bordo si preoccupò di portare l'apparecchio lontano dai naufraghi che altrimenti avrebbero
potuto essere coinvolti dall'esplosione che infatti avvenne di lì a poco.
Fatto questo, sebbene gravemente ustionato, trovò ancora la forza di gettarsi in mare, ma solo per
morirvi. Alla sua memoria fu concessa la medaglia d'oro. Per i superstiti cominciò un'attesa che
potremmo chiamare agonia.
Fortuna volle che l'incidente fosse accaduto circa 50 miglia a sud di Santa Maria di Leuca, zona
di passaggio obbligato sia per gli aerei in partenza da Taranto che per quelli in arrivo. Ed infatti
ecco sopraggiungere un « Mammaiuto » col S. Ten. Tomolillo e l'Osservatore Camilletti; mio
allievo quest'ultimo quando nel 1937 ero istruttore all'Accademia Navale.
La decisione fu concorde e immediata: ammarare a qualsiasi costo. Ma prima, come prescritto, si
dovette procedere allo sgancio delle bombe antisommergibile. Ma quella destra non ne volle
sapere di sganciarsi nonostante tentativi e imprecazioni durate quasi mezz'ora. Visti vani tutti gli
sforzi, Tomolillo, romanaccio irruento, ammarò egualmente.
Manco a dirlo la bomba capricciosa decise di sganciarsi ed esplodere proprio durante
l'ammaraggio.
L'ala destra, sollevata dall'enorme bolla d'acqua prodotta dall'esplosione subacquea, si sollevò e
fece tuffare bruscamente in acqua l'ala sinistra il cui galleggiante andò in pezzi.
Unico vantaggio dell'operazione: i naufraghi, che non erano più cinque ma dieci, avevano
qualcosa di consistente su cui attendere il soccorso.
Li salvò la torpediniera Canopo. Il velivolo per fortuna andò perduto.
Dico per fortuna perché quella povera anatra di legno contribuiva ben poco alle operazioni
belliche, mentre era in compenso una divoratrice di uomini.
***
Qualche giorno dopo mi si avvicina VIOLA (due corsi avanti al mio); un simpaticone pieno di
lentiggini; è preoccupato. Ha avuto dal Col. Marini l'incarico di compilare la relazione che
accompagnerà la proposta di una medaglia d'oro alla memoria del povero Mancini. « Aiutami tu
che hai fatto il Classico — mi dice — perché io ho l'impressione che il mio elaborato non sia un
gran che » e me lo legge.
Io replico spietatamente: « Ha una venatura di comico che non mi sembra intonata alla
circostanza; ci mancava che tu dicessi che "interrogato il morto non rispose"! »
E lui: « anch'io avevo questo sospetto ».
Povero simpaticissimo Viola; qualcuno finì per lui il travagliato componimento; infatti qualche
giorno dopo, il 29 Settembre, fu abbattuto a nord di Marsa Matruh assieme al Maggiore
COVACOVICH.
25/6/1940 - La manica
Non siamo in sartoria: la manica è quel cono di stoffa dai colori vivaci che, negli aereoporti,
indica la direzione del vento.
Un apparecchio appositamente attrezzato ne poteva rimorchiare, tramite un cavetto di acciaio,
una enorme; non per indicare il vento ma per fare da bersaglio. Sono appunto in volo sopra la
LITTORIO e rimorchio questa variopinta propaggine; su di essa si accaniscono le artiglierie
contraeree della nave (i famosi 90 mm. c.a.).
Non è che io dubiti della bravura degli artiglieri di bordo, ma è la prima volta che sparano (la
Littorio è da poco entrata in Squadra) ed uno spiritello maligno mi fa riflettere che se questi
artiglieri fossero esenti da qualsiasi errore non avrebbero bisogno di esercitarsi sparandomi sulla
coda al ritmo di una salva al minuto. E poi, chi non sbaglia mai?
Non ne faccio un dramma, ma non sarei sincero se non riferissi che per tre ore e venti minuti fui
in preda ad una leggera apprensione. Nulla di notevole; non vi sono gli estremi per definirla col
termine marinaresco di « strizza ». Termine che, evidentemente allude ad un restringimento o
strizione: di che cosa, indovini il lettore.
Ma le mie apprensioni, mi accorgo, erano anche «burocraticamente » ingiustificate; infatti rilevo
che questo volo è trascritto in nero e non in rosso; questo significa che una apposita circolare
aveva chiarito che questi ed altri simili voli non erano da considerare voli di guerra.
L'olio di ricino
È strano come quest'olio nauseabondo sia destinato a suscitare in me tanti ricordi, e tutti amari.
Da bambino mio Padre me lo rifilava in dosi massicce non appena avessi un banalissimo
malessere; per colmo di raffinatezza lo diluiva in latte bollente, il che lo rendeva addirittura
perfido.
Sorvolo sull'uso che se ne fece durante la lotta politica che portò al Fascismo. Io ero un ragazzo e
ne parlo per sentito dire.
Il Fascismo poi, ormai affermato, portò nuovamente alla ribalta questo prodotto nauseabondo
rivelatosi prezioso per lo sviluppo della nascente aviazione. Per un momento sperai che questa
svolta lo sottraesse all'uso purgativo: vana speranza! Evidentemente ve n'era a suffi- cienza per
tutti gli impieghi.
Ora ricordo il perché di tanta abbondanza: tutti i ragazzi delle scuole furono un bel giorno
mobilitati perché seminassero, dovunque vi fosse un fazzoletto di terra, quegli odiosi
pseudo-fagioli. Una manciatina di questi semi fu distribuita ad ogni fanciullo.
Quando cominciai a bazzicare con gli aereoplani appresi che, per fortuna, i motori venivano
lubrificati con olio minerale di provenienza demo-plutocratica. Ma questo lusso non durò a lungo;
poche settimane dopo lo scoppio della guerra vennero iniziate le prime forniture di olio di ricino;
forse perché le scorte di olio minerale si andavano assottigliando, oppure per non deludere i
bimbi delle scuole che avevano con tanta passione coltivato le pianticelle di ricino.
Sta di fatto che questo ricino non era gradito ai motori come non era gradito ai ragazzi.
Aveva il vizio di produrre lacche e gomme che tendevano a far incollare le valvole nelle loro
guide.
Il vecchio Mancini è la prima vittima.
Questa volta pare che l'olio di ricino abbia scelto me come vittima dei suoi scherzi di cattivo
gusto. Sto eseguendo una ricognizione R.25 che consiste nel partire da Taranto, passare in vista
di Creta, proseguire fino al centro del Mediterraneo; il ritorno avviene con rotta opposta ma
spostata dalla precedente di una trentina di miglia. Vi era tutta una gamma di queste ricognizioni,
indicate con la lettera R.; il Comando in Capo assegnava giornalmente quelle più appropriate in
base alle ipotesi sui movimenti del naviglio nemico. Proprio arrivata alla massima distanza dalla
base il motore centrale comincia a vibrare; il pilota lo spegne fulmineamente prima che si
incendi.
Il mare è almeno forza sette e quindi un ammaraggio di emergenza sarebbe pura follia.
Ha inizio così l'odissea del rientro con due soli motori. I quali sostenevano bene l'apparecchio ma
al prezzo di un riscaldamento eccessivo; mi sembrò allora buona tattica salire di un mezzo metro
al secondo fino a quando un certo indicatore della temperatura non arrivasse ad indicare 1800;
dopo di che discesa lentissima che arrecava evidente sollievo ai motori.
E via così per quasi tre ore; mai più il tempo mi sembrò così lento a passare; veramente mi
sbaglio: più di un anno dopo le ore da passare furono più di trenta ed altrettanto lente a
trascorrere.
Mi sono spesso chiesto se questa astuzia sia stata utile o meno; sta di fatto che arrivammo a
Taranto in buona salute.
Il mio libretto porta, sotto questa data, solamente l'annotazione « Ricerca anti-sommergibile »;
ma i miei ricordi ancora vivissimi, mi spingono ad aggiungere qualche dettaglio. L'ordine era di
ispezionare, lungo la direttrice 1800 dal Faro di Gallipoli, la rotta di rientro della nostra Squadra
Navale.
Ecco perché avreste potuto vedere, verso mezzogiorno, un Mammaiuto procedere con rotta 180°
e velocità la... solita. Ai comandi il Ten. Michele Zezza ed il suo secondo.
Quasi a prua estrema del Mammaiuto si apriva un buco tondo orlato di cuoio. Che raffinatezza!
E da questo buco sporgeva « dalla cintola in su » una specie di Farinata degli Uberti con
occhialoni da motociclista.
Quel Farinata ero io, l'Osservatore.
Al comfort dell'Osservatore provvedevano: gli occhiali suddetti (comperati a proprie spese); un
parabrezza alto quattro dita per proteggere dal vento l'ombelico; un seggiolino tipo motocicletta
fissato alla chiglia; il complesso richiamava l'idea di un Marziano seduto sul bidè ed immerso
nella galleria del vento.
In ogni modo debbo dire che questa sistemazione, comica finché si vuole, era razionale e
permetteva di « vedere » bene, il che era la nostra ragion d'essere. E poi, quella mitragliatrice
fissata all'orlo del « buco », dava coraggio!
Ma un bel giorno qualcuno, volendo offrire all'Osservatore mollezze addirittura orientali, decise
di togliere la mitragliatrice e coprire il « buco » con una bella cupola di celluloide.
Il problema del vento fu così risolto brillantemente; purtroppo a scapito della visibilità, perché la
cupola era sempre coperta di salino, e della sicurezza perché la mitragliatrice.., non c'era più.
Seguo la rotta 180° per quasi un paio d'ore; nella zona prevista, come era da attendersi, avvisto
una maestosa formazione navale; a proravia di essa un apparecchietto esegue scorta protettiva.
Preparo il bengala di riconoscimento, secondo le norme prescritte, badando che sia del colore
corrispondente al giorno nove. Non è che io sia un pignolo, ma so che i marinai hanno il grilletto
facile.
All'improvviso mi colpisce un particolare: la maestosa Squadra navale non ha la solita lacuna, è
proprio quella dei miei sogni! Infatti c'è anche la Super-Star: La Portaerei! Il passaggio dal sogno
alla realtà è rapido: QUELLA È LA FLOTTA INGLESE!
E poi a fugare ogni dubbio arrivano le prime nuvolette nere delle granate contraeree; non
precisissime, per fortuna. Ma allora quell'apparecchietto che gironzola davanti alla formazione
non è un nostro catapultabile ma un apparecchio della portaerei!
Fortuna vuole che il collega inglese non ritenga sia il caso di distogliere l'attenzione dalla
superficie del mare per andare ad infastidire un povero Mammaiuto. Ci guardiamo per un po' in
cagnesco e ci separiamo ognuno con i propri pensieri.
Allontanatomi alquanto, lancio all'aria il segnale di scoperta; abbastanza accurato, come seppi
poi. La portaerei era proprio una portaerei, sebbene fra le più piccole. Per me la battaglia di
Punta Stilo finisce qui. Durante la rotta di rientro a Taranto, rassetto, come d'abitudine, le mie
cose, quando cosa ti vedo ai miei piedi? Quel bengala che stàvo per lanciare quando la vista della
Super-Star mi aveva affascinato: lo avevo lasciato cadere all'interno anziché lanciarlo fuori!
Per fortuna la miccia non si era accesa!
Rimane per me un dilemma ancora insoluto: Ero io fuori dalla mia rotta o era la flotta inglese
fuori dalla sua?
Durante la guerra mi sono chiesto spesso se quésto segnale di scoperta, lanciato così
avventurosamente, era stato ricevuto e si era rivelato utile alla nostra Squadra. Solo di
recente,dopo quasi quaranta anni, la mia curiosità è stata soddisfatta.
Sfogliando il vol. IV della pubblicazione dell'Ufficio Storico della Marina, « Le azioni navali nel
Mediterraneo » leggo a pag. 115:
...« Ma immediatamente dopo, alle ore 13,30 un velivolo della 142.ma Squadriglia da
Ricognizione Marittima Lontana comunicava l'avvistamento di due navi da battaglia, otto
cacciatorpediniere, una Nave portaerei ecc. Rotta del nemico 330°; velocità 22 nodi; circa
ottanta miglia a Nord-Est della posizione del grosso italiano.
Questa comunicazione — importantissima, perché era la prima che l'Ammiraglio Campioni
ricevesse il giorno 9 circa il nemico — contribuì a chiarire l'equivoco... »
12/7/1940 - Arriva la quindicina
Sono passati solo tre giorni dalla battaglia di Punta Stilo. Finalmente inizio a volare con un
trimotore, il Cant. Z 506. È bello, non c'è che dire; unico difetto, il solito; è esso pure di legno. E
perché facevamo la guerra con aerei di legno? Perché altrimenti gli operai dei Cantieri Zappata
sarebbero rimasti senza lavoro. Lo Stato assistenziale non è una invenzione dell'ultimo
dopo-guerra!
Leggo sul libretto che si tratta di una ricognizione offensiva, fatta quindi (con partenza da
Brindisi) presso un reparto da bombardamento al quale venivo ceduto in « prestito ».
Questa faccenda del prestito diventerà in seguito una abitudine. Data la scarsezza di Osservatori
e la pressante richiesta anche da parte di reparti non di Marina, divenne prassi normale che gli
Osservatori venissero trasferiti da una base all'altra « seguendo la flotta ». Naturalmente
seguendo la flotta inglese.
Non è che questi trasferimenti avvenissero a ritmo quindicinale; ma ciò non pertanto invalse l'uso,
al nostro arrivo sugli aereoporti, di accoglierci al grido di « è arrivata la quindicina »! Qualcuno
meno delicato esclamava: « sono arrivate le puttane! ». Io ero appunto una di esse e non me ne
vergogno.
La civetta
Il mio libretto reca: scoperta Squadra navale inglese. Vi era, se ben ricordo, anche un convoglio
di navi mercantili; la visibilità era frammentaria a causa di nuvole sparse che però riscuotevano
la mia simpatia; una nuvola è un buon nascondiglio per il povero ricognitore sorpreso da un
caccia avversario. Trasmetto il regolare segnale di scoperta; poi mi sovviene che un tipo di im-
piego tattico previsto per i ricognitori era quello di fare la « civetta »; dato il titolo che ci avevano
affibbiato chi sa cosa penserà il lettore!
Si trattava di questo: il ricognitore doveva trattenersi fino al limite dell'autonomia sulla
formazione nemica e trasmette in continuazione un « bip-bip » che captato dai radiogoniometri
dei nostri bombardieri, li avrebbe guidati infallibilmente sul nemico.
Questa norma tattica mi era sembrata, alla prima lettura, veramente geniale. In seguito, però, la
mia ammirazione diminuì alquanto per effetto di due amare constatazioni:
1°) Gli Inglesi potevano seccarsi di quel « bip-bip » e mandare dalla portaerei un caccia ad
abbattere il disturbatore.
2°) Non vidi mai in seguito apparecchio alcuno dotato di radiogoniometro di bordo. L'antenna ad
anello sarebbe stata ben visibile.
Per essere esatti, un apparecchio dei nostri aveva l'antenna ad anello, ma non gli apparati
utilizzatori dell'antenna.
Mi vien fatto di pensare a quei giovanotti che, per darsi delle arie (senza spesa eccessiva)
mettono sulla macchina l'antenna ma non la relativa radio ricevente. Arrivato al limite
dell'autonomia rinuncio a raggiungere Menelao, nostra base nel golfo di Bomba, e dirigo per
Bengasi.
Quivi prendiamo tutti alloggio nel migliore Hotel; il Berenice, se ben ricordo.
Il conto, naturalmente, al Comando Marina.
L'asso inglese
Ho già parlato delle difficoltà che gli idrovolanti incontravano all'ammaraggio: lo « specchio »
quando il mare era troppo calmo, le onde quando il mare era troppo mosso.
Alla partenza le difficoltà erano dimezzate: solo le onde davano fastidio.
In particolare il Cant. Z 501, che era a scafo centrale, veniva investito da valanghe d'acqua non
appena entrava in velocità; il parabrezza perdeva ogni trasparenza. Purtroppo nessun tergivetro
era previsto.
Poteva quindi accadere che, ad un certo momento, il Pilota perdesse la nozione della giusta
direttrice di decollo e procedesse in una direzione decisamente errata fino ad andare a finire in
una zona dove, ormeggiati a gavitelli, vecchi prototipi mai entrati in servizio, attendevano una
morte ingloriosa.
Qualche volta l'errore portò danni agli aerei; per fortuna mai alle persone.
Incidenti di questo genere si accanirono con ingiusta frequenza su un simpatico giovane: il
Tenente Javarone. Sta di fatto che non per imperizia ma per sfortuna il povero Javarone aveva
arrecato danni non lievi alla nostra linea di volo.
Con molto senso dell'humour un bel giorno il Colonnello lo qualificò il « valoroso asso
inglese »!
Questo soprannome gli rimase in via definitiva in sostituzione del cognome che, d'altronde,
iniziando con un dittongo di non facile pronuncia, veniva regolarmente storpiato in Chiavarone.
Il mio libretto indica, sotto questa data, l'inizio di una specie di gimkana effettuata col vecchio
«Mammaiuto».
Mi sembra di ricordare che all'andata eravamo in due apparecchi che viaggiavano di conserva;
non è che due monomotori affiancati dessero la sicurezza di un buon bimotore, ma sul piano
psicologico a qualcosa serviva. Quella volta il Pilota era il S. Ten. Vernale.
Sull'apparecchio sezionano aveva preso posto un simpatico Tenente di Vascello alquanto più
anziano di me: Curzio CASTAGNACCI. Un giovane compostamente entusiasta; faceva quei voli
volontariamente in quanto il suo incarico al Comando in Capo non prevedeva attività di volo;
credo, anzi, che il suo superiore diretto non apprezzasse queste scappatelle di tipo sportivo; il
buon Curzio diceva infatti che voleva sfruttare il privilegio di poter volare gratis, mentre i
« borghesi » dovevano pagare profumatamente questo lusso. Povero, caro Curzio! Non ebbe
modo di sfruttare a lungo questo privilegio.
Gli Inglesi non glielo permisero.
Menelao
La meta finale di questa esplorazione (denominata R. 42) era una nostra base nel Golfo di Bomba,
poche miglia ad ovest di Tobruk. Perché questa base fosse stata denominata Menelao non saprei
dire; sarei grato a chi riuscisse a spiegarmi la correlazione fra un eroe omerico ed una base di
idrovolanti sulle coste dell' Africa.
In ogni modo, in questa località, non segnata su alcuna carta, in una insenatura ben protetta, un
certo numero di gavitelli consentiva l'ormeggio degli idrovolanti. Una baracca accoglieva la
mensa; un'altra il Comando. Tutto il personale alloggiava in tende « Moretti », sparpagliate nel
deserto sabbioso a forte distanza l'una dall'altra; era questa l'unica difesa dagli attacchi aerei ne-
mici. Tutti indistintamente dormivano sotto le tende. Una sola eccezione: i motoristi dormivano
nell'unico rifugio interrato e veramente sicuro. Era questo lo spontaneo riconoscimento che
veniva offerto alla categoria che era, senza alcun dubbio, la più sacrificata: quella dei Motoristi.
Infatti per la insufficienza numerica essi volavano forse di più degli Osservatori stessi.
Inoltre, finito il volo, per essi e solo per essi, il lavoro non era affatto finito; rifornimenti,
revisioni e controlli portavano anche a diciotto ore la loro giornata lavorativa. In queste
condizioni ha del miracoloso che durante tutta la guerra le perdite per avaria siano state
pressoché nulle; nessuna certamente per colpa.
Sento il dovere di far cenno qui ad una enorme ingiustizia che colpiva questi ragazzi, per lo più
di leva o richiamati.
Sebbene rischiassero la vita esattamente come i Piloti e gli Osservatori, non fruivano
dell'indennità mensile di volo, ma di una indennità oraria di qualche liretta; né potevano con
orgoglio ostentare un'aquila, magari di latta, sul petto.
Successivamente quest'ultima ingiustizia « morale » fu sanata. Non certo quella della mancata
indennità di volo.
Spero vivamente che oggi non si verifichino più ingiustizie del genere.
L'esploratore
La nostra base occupava non più di cinquecento metri a partire dalla spiaggia; più oltre, verso
sud, si stendeva a perdita d'occhio un deserto cespuglioso apparentemente disabitato; dico
apparentemente perché si mormorava che qualche tribù di beduini conducesse la sua misera vita
verso l'interno. Notizie di questo genere venivano saltuariamente portate; al nostro
accampamento da un giovane Ufficiale Pilota (S. Ten. Corvaia) nel cui petto si era all'improvviso
svegliata la vocazione dell'esploratore. Come affascinato da questo nulla che si estendeva verso
sud, spariva senza vettovaglie… stava assente qualche giorno o qualche settimana, poi all'im-
provviso riappariva. Si limitava a dire che aveva vissuto presso i beduini coi quali si trovava a
suo agio; poi tornava a sparire.
Non ho mai pensato ai beduini come a degli allegroni coi quali sia piacevole convivere, ma non
ho difficoltà a convenire che, sotto le loro tende sferzate dal vento, l'atmosfera fosse meno
lugubre di quella che, quella sera, regnava nella base di Menelao.
Onori militari
Tirava, ricordo, un vento che sollevava nuvole di sabbia. La mensa era appena finita; in verità
non era né finita né cominciata perché la tempesta di sabbia aveva fermato il camion dei viveri e
ci eravamo dovuti accontentare di pochi rimasugli.
Nonostante non fosse tardi era già buio pesto ed io mi accingevo a raggiungere la tenda degli
« Ufficiali di passaggio ».
In quel momento vedo degli avieri, armati di moschetto, uscire dalla baracca Comando ed
avviarsi nel buio verso la spiaggia spazzata da raffiche di sabbia. Apprendo solo allora che, due
giorni addietro, un 501 era partito regolarmente ma di lui non si era saputo più nulla; non aveva
dato segno alcuno fin dal momento della partenza, quando, appena dopo il decollo, avrebbe
dovuto entrare in collegamento radio con Marina Tobruk.
Ed ora il mare aveva ributtato a riva la salma del primo Pilota che veniva amorevolmente calata
in una buca di sabbia.
Con i dovuti onori militari resi da sei « Avieri di governo » che oscillavano sotto le raffiche di
vento. Povero Tenente LALA, morto in maniera così misteriosa e dal mare restituito alla pietà
degli amici. Io non osai avvicinarmi alla mesta cerimonia. Forse preferivo ricordarti come eri
quattro giorni prima quando avevamo trascorso un pomeriggio di « franchigia » insieme. Anzi,
ricordo, avevamo addirittura osato abbordare due fanciulle, paghi di poter scambiare quattro
chiacchiere amichevoli con due rappresentanti dell'altro sesso.
Mi sembra di aver già illustrato dei validi motivi per i quali non posso avere un buon ricordo del
primo soggiorno a Menelao.
Altri se ne dovevano aggiungere.
Quando, infatti, dopo la mesta cerimonia, mi accingo a raggiungere la tenda assegnatami, mi
sovviene che non ho provveduto, durante il giorno, a definire quale
rotta debba seguire per raggiungere, partendo dalla baracca del Comando, questa benedetta tenda
degli « Ufficiali di passaggio ». Ed ora è buio pesto.
Parto quindi seguendo una direzione approssimativa e mi considero fortunato quando vedo
emergere dal buio l'ombra di una tenda; non ho però motivo di compiacermi a lungo; un coro di
voci mi avverte che quella è la tenda dei Montatori. Non mi resta che ritornare alla baracca del
Comando e ripartire con una rotta leggermente modificata; approdo, purtroppo, alla tenda dei
Sergenti Piloti. E così di seguito fino a mezzanotte.
Trovata finalmente la tenda giusta non cado in un sonno ristoratore perché le piccole cimici del
deserto si avventano con rinnovata ingordigia su un baldo rappresentante della nuova «
quindicina ».
Solo privandosi della coperta si aveva un po' di tregua; ma allora il freddo del mattino faceva
addirittura battere i denti.
Alle 9,20 lasciamo senza rimpianti la base di Menelao. Siccome il mio libretto reca « scoperta
formazione inglese » senza altri dettagli, ne deduco che non vi fu alcun disturbo da parte
dell'aviazione nemica; in altre parole non vi era una portaerei nella formazione suddetta;
altrimenti non saremmo rimasti impunemente a gironzolare nei dintorni fino al limite
dell'autonomia. Dopo di che, impossibilitati a raggiungere Taranto, dirigemmo per Bengasi. A
dir la verità avrei potuto tornare a Menelao; ma, fatto un rapido confronto fra l'Hotel Berenice e
la tenda Moretti, la decisione fu facile.
Ecco perché mi trovai la sera del 31 Agosto a Bengasi, deciso a godere in pieno delle mollezze
che la città offriva.
Oltre all'ormai abituale alloggio al Berenice, offrii una cena quasi succulenta ai cinque
componenti l'equipaggio in un ristorante che, naturalmente, si qualificava « bolognese ».
Tutto era squisito e, direi, sano e non mi sento quindi di incolpare il cibo; ma sta di fatto che
dopo qualche giorno ebbi dei tremendi attacchi di colite; forse il mio passato di Giovane
Esploratore non mi aveva temprato al punto da resistere al freddo umido che regnava sotto la
tenda verso mattino.
Questo disturbo mi sarà fedele compagno per il resto della guerra, come narrerò in seguito;
insieme alla inseparabile fisarmonica.
Sono perfettamente conscio che parlare di certe cose appannerà un poco la mia immagine di
volatore romantico; ma nel caso mio questa è la semplice realtà. D'altronde non mi considero un
eroe e quindi non mi sento limitato ad avere un eventuale punto debole solo nel tallone, come il
prode Achille.
Il mattino dopo Marina Bengasi, con ironia certamente non voluta, ci rispedì a Menelao.
Finalmente il 2 Settembre rientrammo a Taranto.
Piccole invenzioni
Ho già accennato che ho sempre avuto la mania delle invenzioni; forse c'era in me il germe del
futuro Ingegnere.
D'altro canto, ripensandoci, non erano poi tanto peregrine, almeno per quei tempi. Ne farò cenno
in maniera un po' scherzosa.
Sia il Cant Z 501 che il Cant Z 506 avevano delle bussole veramente buone; ma, come è noto, le
bussole vanno continuamente controllate e « compensate ». La compensazione ed il controllo
finale si effettuavano con i « giri di bussola ». Non descrivo le operazioni; in sintesi dirò che esse
richiedevano per lo meno una mattinata per ogni apparecchio ed una squadra di almeno dieci
Avieri per manovrarlo a terra.
Divenne subito chiaro che le bussole bisognava tenersele come erano e cercare di « arrangiarsi ».
Mi arrovellai per un poco alla ricerca di una soluzione che consentisse il controllo in volo.
Ecco allora venir buono il Corso di Calcolo Numerico, Grafico e Meccanico che il valente Prof.
Pesci (ottantaduenne!) ci aveva tenuto in Accademia (2).
Un abaco costruito secondo i dettami di questa materia mi permetteva di ricavare in volo, in un
paio di minuti, l'AZIMUT del sole con la precisione di due o tre gradi.
Una volta ricavato l'Azimut del sole relativo al punto in cui mi trovavo ed all'istante
corrispondente, bastava che il Pilota navigasse per un poco con, prua al sole, o poppa al sole o
ala in direzione del sole: se l'indicazione della bussola (corretta di declinazione e deviazione)
andava d'accordo con il rilevamento del sole determinato con questo sistema sbrigativo, si
riprendeva la rotta; altrimenti si teneva conto della differenza.
La concordanza era quasi sempre soddisfacente; d'altro canto non valeva la pena andare tanto per
il sottile, dal momento che il vento introduceva delle incertezze ben superiori agli errori della
bussola... come dirò in seguito.
2°) Il regolo a scala deformabile
Va precisato che la carta regolamentare di navigazione era, a quei tempi, una proiezione di
Mercatore avente scala 1 : 2.000.000 sul parallelo 42°.
Per chi non lo sappia va detto che la proiezione di Mercatore ha dei pregi insostituibili (conserva
gli angoli, rettifica la lossodromia...) ma ha anche un difetto: la scala è variabile con la latitudine.
Mi proposi di fare e realizzai un regolo che rispondeva al requisito di poter leggere direttamente
in minuti di volo la distanza fra due punti A e B della carta regolamentare; oppure risolvere il
problema fondamentale della navigazione stimata: essendo partito da A ed avendo navigato con
una certa rotta per tot minuti, dove mi trovo adesso? Calcoli aboliti, tempo risparmiato; ed ogni
minuto destinato al carteggio distoglieva dallo scrutare spasmodicamente il mare, che era la
nostra ragion d'essere! Per la presenza di due variabili (la latitudine e la velocità) è ovvio che la
scala misuratrice del regolo doveva essere deformabile in funzione delle due variabili suddette.
La scala dei minuti era, infatti, impressa su un nastro di gomma, estensibile in funzione della
velocità e della latitudine del punto stimato.
La figura illustra questo aggeggio: su un corsoio mobile sono incise le latitudini che interessano
il Mediterraneo.
Sulla parte fissa sono tracciate delle linee quotate con le velocità (di quei tempi!).
Portando a coincidere la latitudine con la linea quotata alla propria velocità, la scala misuratrice
assumeva il passo appropriato. Modestamente, era una cosetta seria e rispondeva assai bene allo
scopo.
Nel famoso romanzo e film « Prigionieri del cielo » (ricordate la bella canzone omonima?) si cita
il caso di un errore di calcolo commesso dal navigatore, per aver confuso i chilometri con le
miglia, in un momento altamente drammatico.
Col mio regolo non avrebbe commesso quell'errore; modestamente!
3°) Regolo circolare per correggere rotta e velocità in funzione del vento
L'aggeggio è riportato in figura e non mi pare valga la pena di spendere parole per spiegarne
l'uso. Dovrei io stesso rinfrescarmi la memoria! E poi sono invenzioncelle che ormai fanno parte
della preistoria dell'Aviazione.
Il punto debole di questo strumento era che permetteva di tener conto del vento una volta che
questo fosse noto.
Ma proprio qui stava il « busillis »!
I BERNACCA, con tutta l'organizzazione di satelliti metereologici alle loro spalle, non
esistevano neppur nella mente dei più fantasiosi metereologi.
In sintesi il vero problema della navigazione stimata sul mare era il vento che « portava via con
sé »... Ricordate quella canzone così in voga a quei tempi. « Vento, vento, portami via con te... »?
Nessun Osservatore di Marina l'ha mai cantata perché considerata apportatrice di « scalogna ».
Per dare un'idea degli scherzi che può fare un vento ignoto, farò un esempio molto semplice.
Una navigazione verso sud (velocità 180!) da Taranto alle coste dell'Africa durava circa cinque
ore.
Se durante queste cinque ore spirava un vento sconosciuto di 40 km/ora (ad es. da Ovest) esso
portava a prender contatto con l'Africa in un punto 200 km. più ad Est del previsto. Se noi il
vento era di 60 km/ora (nulla di straordinario) l'errore si 'portava a 300 km.!
Finché si volava bassi, es. 500 metri, l'orientamento delle onde, il modo di frangere delle creste,
la dimensione delle onde stesse consentivano di apprezzare il vento con una certa precisione;
tanto più che la bassa quota rendeva plausibile l'ipotesi che il vento fosse identico a quello in
superficie.
Ma quando si cominciò a volare alti (3.000 metri ed oltre) l'osservazione diretta delle onde non
era agevole neppure col binocolo ed in ogni modo avrebbe potuto risultare ingannevole, perché
non era detto che ad alta quota regnasse lo stesso vento che in superficie.
Era quindi invalso l'uso di dirigere la navigazione un poco (ad es. 30 miglia) ad Ovest o ad Est
della mèta; poi, una volta entrati in contatto con la costa africana, seguirla (verso Est od Ovest)
fino a raggiungere la mèta. Il percorso veniva un poco allungato, ma non vedo quale altro
accorgimento potesse essere adottato, dal momento che regola fondamentale ed inflessibile era
che la radio venisse usata per segnalare scoperta di navi nemiche e non per farsi
radiogoniometrare dalle nostre stazioni.
4°) Sopracifratore
Al circolo incontro il T.V. Micali mio compagno di Accademia ma due anni più anziano di me.
Un « sergente di ferro ».
Ora mi spiego perché le cose almeno nel campo Ricognizione aerea funzionavano bene.
Dopo una cena frugale mi ritiro nel rifugio interrato dove, protetto da un enorme strato di
cemento armato, conto di dormire saporitamente tutta la notte. Verso le dieci, all'improvviso,
* In sette ore oggi si attraversa l'Atlantico; e noi sette ore ce le facevamo quasi tutti i giorni e...
CON ALI DI LEGNO
** Atterrare non significa solo prendere materialmente contatto con la terra, ma anche avvistare
la costa.
cominciano a sparare tutte le artiglierie e le mitragliatrici contraeree di ogni calibro. Non è facile
dormire con quel frastuono, né di molto aiuto sono le luci azzurre regolamentari che creano una
ingannevole atmosfera da cabaret.
In questa atmosfera quasi surreale vedo, ad un certo momento aggirarsi per il locale una persona
anziana in pigiama; penso si trattasse di un Ufficiale del CREM. Con una pompetta del flit dava
la caccia ad invisibili e non udibili zanzare, che, almeno per lui, rappresentavano un fastidio
superiore a quello delle cannonate. Questione di idee!
***
Dal 28 Settembre al 10 Ottobre 1940 trascorro un periodo di attività quasi giornaliera ma senza
storia. Il compito era, in genere, quello di fornire protezione antisommergibile al nostro naviglio.
Il vecchio « Mammaiuto » doveva ronzare per quattro o cinque ore stando di prora alla
formazione da proteggere descrivendo ampi cerchi; in caso di avvistamento
di un sommergibile doveva segnalarne la presenza facendo una energica picchiata sul punto
stesso dove il sommergibile si trovava.
Sistema semplice ed efficace.
Purtroppo col nervosismo del momento o per altro motivo non identificato accadde che il S.T.
CARNIELLI non riuscì a richiamare in tempo l'apparecchio che si schiantò in mare.
Nessuno si salvò.
Per ingannare la noia di queste quattro o cinque ore girate in tondo si facevano le cose più strane.
Io nei momenti meno impegnativi facevo esercizio di pilotaggio; il motorista, con una acrobazia
da circo veramente impressionante perché eseguita all'aria libera, scendeva dalla gondola del
motore (posta nell'ala) dentro lo scafo dove poteva fumare una sigaretta e scambiare due parole
coi piloti. Talvolta il motivo della discesa era di carattere idraulico perché quando non era
proprio possibile resistere c'era pur sempre la sentina dello scafo a disposizione del sofferente.
I gabinetti chimici non erano ancora stati inventati.
Sento proprio il bisogno di fare oggetto di scherno questo puerile dispositivo ed ancor di più tutto
l'impianto per il puntamento e lo sgancio delle bombe antisommergibile.
La punteria non era un fatto quasi instantaneo, come sarebbe stato auspicabile, ma richiedeva
tutto un cerimoniale preparatorio che assorbiva qualche minuto; nel frattempo anche alla nostra
modesta velocità si percorreva un lungo tratto. Ma la cosa più buffa era che l'Osservatore che
stava nel buco di prora (di cui vi ho già parlato) doveva, una volta avvistato il sommergibile,
strisciare come un verme passando fra le gambe dei due piloti, per arrivare a metà scafo. Quivi
doveva aprire uno sportello laterale, spingere in fuori il sullodato apparecchio Jozza e poi fare la
punteria manovrando una specie di volante di automobile che era collegato alla pedaliera del
posto di pilotaggio.
È inutile dire che nel frattempo il sommergibile poteva immergersi con tutta calma.
Riporto queste osservazioni affinché possa il lettore rendersi conto come sia demoralizzante, in
guerra, dover constatare che certamente nessuno aveva mai provato precedentemente un
apparecchio di dotazione; e non un accessorio qualunque ma un dispositivo connesso alla ragion
d'essere dell'aereo antisommergibile.
Assieme al mio caro amico Michele Zezza cercammo di combinare qualche cosa di più semplice
anche se risibilmente rudimentale. Convenimmo che l'attacco avrebbe dovuto aver luogo senza
che io mi spostassi dal buco. All'avvistamento il pilota doveva portarsi rapidamente a quota 200
metri; così la variabile quota diventava una quantità fissa; analogamente la velocità doveva
essere esattamente 180 km/ora.
L'allineamento fra due chiodini con la capocchia pitturata di rosso mi indicava il momento dello
sgancio. Facemmo delle prove lanciando a mano delle bombette di cemento contro un bersaglio
rimorchiato da un mezzo del Comando Marina. I risultati non furono certo brillanti. Fu già un
buon risultato che non colpissimo il rimorchiatore! Pensandoci bene non valeva neppure la pena
che ci dessimo tanto da fare per risolvere un problema che non esisteva perché il sommergibile è
raro emerga totalmente di giorno e di notte... non ci si vede.
Ma una volta...
Per amor di giustizia debbo dire che una volta lo Jozza servì a qualche cosa, come mi riferì
personalmente un mio compagno di Accademia.
Sul Cent Z 506 l'apparecchio infernale era piazzato in una cabina posta ventralmente a prora e
vetrata; l'Osservatore talvolta vi stazionava per poter vedere verticalmente verso il basso.
E lì appunto si trovava il mio amico FRANCHI (del corso avanti) quando il 506 fu attaccato
dalla caccia nemica.
Ebbene, una pallottola fu deviata proprio dallo Jozza; altrimenti lo avrebbe colpito in quella parte
dove un uomo di normale virilità non ama essere ferito.
Per il povero Franchi si trattò solo di un breve rinvio. Il 21 Aprile 1941, essendo passato ai
siluranti S. 79, fu abbattuto a Sud di Candia; con lui perì il Capitano Pii. Oscar CIMOLINI.
Il dieci di ottobre svolgo l'ultima missione con il « Mammaiuto ». Lo saluto non certo con affetto
ma neppure con odio; piuttosto con quell'atteggiamento di pietosa commiserazione che
riserviamo agli esseri il cui destino ,è la sconfitta.
Penso che un analogo sentimento ispiri questa ballata composta per lui da un compagno ignoto:
***
Dal 9 Marzo, inizio del Corso di Osservazione Aerea, ad oggi 10 Ottobre ho volato quasi tutti i
giorni; talvolta oltre sette ore al giorno.
Durante le prime settimane di guerra si faceva quasi a gara per volare; vi era forse il timore che
la guerra non sarebbe durata abbastanza per permettere a ciascuno di avere la sua briciola di
gloria.
Ma ora cominciavo a sentire il peso di una attività così intensa, aggravata dalle nefaste
conseguenze dei freddi pernottamenti sotto la tenda a Menelao. Il mio personale tallone di
Achille mi aveva fatto perdere quasi dieci chili.
Penso che, in considerazione della intensa attività svolta, il Ministero o chi per esso, abbia
considerato utile un avvicendamento che consentisse un ricupero di energie, visto che la guerra
aveva tutta l'aria di voler durare assai di più delle poche settimane previste.
Ecco quindi che il giorno 11 Ottobre mi arriva il « movimento »; così si chiama in gergo
burocratico il cambiamento di destinazione. Imbarcherò sull'Incrociatore DUCA degli
ABRUZZI.
Rilevo dal mio foglio matricolare che in data 11-10-1940 fui promosso Tenente di Vascello
(stipendio annuo lordo di L. 14.400, con una retroattività di 10 giorni; una vera pacchia!)
Il bello è che debbo aver appreso con molto ritardo di questa promozione perché ricordo che i
primi tempi sull'Abruzzi avevo due soli galloni sul berretto. D'altronde con la promozione
cambiava solo qualche cosa sul berretto; per il resto l'attività restava la stessa e gli Inglesi
continuavano ad abbatterci senza contare quanti galloni avevamo in testa.
Pensare che si è sempre detto che siano loro gli inventori del fairplay!
Parte seconda
DI NUOVO A BORDO
SULL'ABRUZZI
Sul bell'Incrociatore sarò ancora destinato al servizio aereo. Così stando le cose non si tratta
propriamente di, una villeggiatura.
Le ore mensili di volo saranno certamente meno; ma vi è un particolare di non secondaria
importanza.
Una volta tornato su una nave dovrò svolgere tutti i compiti che la mia qualità di Ufficiale di
Marina comporta; in particolare i massacranti turni di guardia che non mi consentiranno più di
dormire una nottata intera. In sostanza il volo sarà un di più in aggiunta ai normali impegni che
attengono al servizio della nave. Come villeggiatura non c'è male! Come se non bastasse dovrò
sperimentare anche il catapultamento che non è certamente un esercizio idoneo a ritemprare un
sistema nervoso un po’ logoro.
Arrivo a bordo
Quando si imbarca su una nave, la prima domanda che uno si pone è: « Chi è il Comandante? »
Perché è indubbio che dipende da lui se la vita a bordo sarà piacevole anche in tempo di guerra
oppure un inferno anche in tempo di pace.
In questo caso la persona del « Gran Capo » è quanto mai rassicurante; si tratta del Comandante
Bacigalupi che era stato mio insegnante di Storia all'Accademia Navale. Un vero gentiluomo;
purtroppo senza prospettive di carriera, almeno sotto il fascismo, perché scapolo convinto; e
questa è una ulteriore prova della sua brillante intelligenza.
Però… c'è un però: la mia dipendenza dal Comandante sarà puramente formale. In pratica io sarò,
operativamente, l'occhio dell'Ammiraglio che comanda la divisione costituita da Abruzzi e
Garibaldi.
Ebbene questo Ammiraglio, non risvegliava in me gradevoli ricordi.
Quattro anni prima, da giovane Guardiamarina, ero imbarcato sull'Incrociatore Pola. Ero
timidissimo, complessato.
Lui allora era il Comandante della nave. Pluridecorato della prima guerra mondiale; io lo
guardavo come si guarda un idolo: un idolo massiccio, sanguigno, con volto da mastino. Era noto
col soprannome di « Mortadella ». I sopravvissuti di quell'epoca ricorderanno il perché di questo
soprannome.
Mi dovetti accorgere ben presto che il mastino mordeva forte, specialmente i timidi.
Siamo in Spagna a Palma di Majorca; svolgo il mio servizio di guardia al barcarizzo. Insieme a
centinaia di marinai e sottufficiali, che si recano in franchigia, scende a terra un Secondo Capo,
uno tra i tanti; debbo precisare che i Sottufficiali non subivano una verifica sul loro diritto di
recarsi a terra; ci si fidava della loro onestà. Se avessi fatto un'indagine avrei appurato che il
Sottufficiale in parola aveva non il diritto, ma il dovere di andarsene dalla nave perché trasferito
su una nave ausiliaria in vista del rimpatrio.
Il giorno dopo, senza essere interpellato, mi vedo recapitare non uno ma due « biglietti di
punizione »: un massimo di rigore per « aver consentito ad un Sottufficiale punito di recarsi a
terra » ed un massimo di semplice « per aver consegnato in segreteria la relazione trimestrale con
tre ore di ritardo. »
Seppi poi che il reato per cui il sottufficiale era sotto il mirino del Comandante era quello di
essersi trovato una ragazza a terra.
Dico la verità che mi limitai ad invidiare la sua intraprendenza, tanto più che non era un Adone!
Questa mitragliata di punizioni mi ferì molto più di quanto « Mortadella » potesse immaginare.
Forse un episodio così banale non meritava gli onori di questa mia cronaca, ma ho voluto citarlo
per esprimere la speranza che nella Marina di oggi cose del genere non accadano più.
Furioso e umiliato ero fèrmamente deciso, al rientro in Italia, a « reclamare per via gerarchica »
fino al più alto livello. Ma non ne feci di nulla.
Al rientro a La Spezia ebbi l'impressione che il Comandante stesso si fosse reso conto di avere
un poco calcato la mano; io almeno detti questo significato al fatto che una sera mentre ero di
guardia mi chiamò col solito tono brusco e mi disse: « tu, levati la sciarpa e vieni qui a poppa
vestito elegante, ché do un ricevimento ad alcune signore: tu farai loro da cavaliere. »
Non dico la mia timidezza! Tanto più che il ricevimento risultò tutt'altro che allegro; le signore
avevano forse i mariti lontani oppure altri motivi di tristezza; il fatto è che, ad un certo punto, mi
trovai appoggiato ad un cannone da 203 della torre di poppa con una signora per lato; entrambe
piangevano (non so perché) ed io in mezzo non sapevo che contegno darmi.
Avrei pagato uno stipendio (ben ottocento lire!) per essere giù nel quadratino dei
Guardiamarina (3).
Per fortuna, dato il buio non si vedeva il rossore del mio volto.
Visto che sono tornato col pensiero in Spagna (al tempo della guerra civile), racconterò un
ricordo buffo.
Il Conte Rossi
Destino beffardo
Ed ecco che il destino beffardo mi mette di nuovo alle prese con Mortadella divenuto
Ammiraglio. Rimuginavo su questa « scalogna » durante un interminabile turno di guardia
quando ebbi una folgorazione: i tempi sono cambiati da quando ero un umile e timido
Guardiamarina! Ora sono praticamente invulnerabile (purtroppo solo nei suoi confronti).
Se gli sono tuttora antipatico cosa può farmi? Essendo il mio incarico di gran lunga il più
pericoloso di qualsiasi altro che il Ministero potesse assegnarmi, un trasferimento equivarrebbe
ad una diminuzione di rischio. Se poi mi facesse cacciare dalla Marina, cosa inconcepibile in
tempo di guerra, niente paura: mi manca un solo esame per la laurea in Ingegneria.
Rinfrancato da queste riflessioni assunsi nei suoi confronti un atteggiamento sempre rispettoso
nella forma ma decisamente salace nella sostanza.
La mia metamorfosi lo lasciava perplesso e senza parola; alla fine si decise a chiedermi se ero lo
stesso che aveva avuto un « guaio » sul Pola; risposi che non ricordavo affatto un dettaglio così
banale.
Il Grillo
Il 16 Ottobre faccio il primo voletto di ambientamento con il Ro. 43; il pilota è il Serg. Magg.
Tacchinardi. Questo apparecchietto agile e nervoso sembrava proprio un grillo, ed infatti così era
stato battezzato.
Costruito in tubi di alluminio e tela aveva due posti messi in tandem; non era cabinato e quindi
l'aria non mancava di certo. Per la medesima ragione il rumore era assordante. Casco e occhiali
erano indispensabili. Eseguo un primo collegamento radio con la mia nave; poi ammaraggio e
cambio di pilota; subentra il Cap. Novelli; effettuo un secondo collegamento radio. Questo
Novelli è un virtuoso della stabilità; con lui fare l'operatore radio è un piacere!
Però, finito il collegamento, Novelli mi dice: « rassetta tutto, rientra il filo della radio e legati al
seggiolino »; Me lo dice a gesti perché il rumore del motore ed il sibilare del vento impedivano
di capirsi a voce.
Dopo di che Novelli inizia una serie di capriole; questa volta Novelli si rivela non un virtuoso
della stabilità ma un virtuoso dell'acrobazia; le sue esibizioni mi lasciano senza fiato; vedo la
terra in alto ed il sole in basso; la radio sospesa a degli elastici si sposta di mezzo metro per parte
a seguito delle accelerazioni violente. Io stesso vengo sballottato come un sacco di patate.
L'esibizione acrobatica dura solo pochi minuti che però a me sembrano eterni. Come primo
impulso, una volta a terra, fui tentato di dire a Novelli che non ero entusiasta di questo sport; mi
trattenni perché pensai che l'acrobazia era l'unica difesa per il povero « Grillo »; non certo le due
mitragliatrici di dotazione.
E poi Novelli non aveva per me una grande simpatia, cosa che io gli perdonavo perché traeva
origine da un sentimento nobile. Egli aveva un vero affetto per il mio predecessore (T.V. Tattoni,
un vero santo) che io avevo sostituito a bordo mentre lui aveva preso il mio posto a Taranto. Ora,
il povero TATTONI, al rientro da uno dei primi voli dopo il nostro scambio era stato abbattuto
proprio vicino a Taranto ad opera di un Maryland di Malta, il 30 Ottobre.
Non so se Novelli abbia appreso, circa un anno dopo, che un altro Maryland (o forse lo stesso)
mi fece passare l'anima dei guai, come narrerò in seguito.
Il fatto che a bordo del Grillo non mi fosse possibile comunicare a voce col pilota che mi stava
davanti mise il moto il mio solito pallino delle invenzioni; la soluzione risultò quasi oscena ma
efficace.
Andai all'infermeria di bordo e mi feci dare una cannula di clistere con relativo terminale.
L'impianto risultò così congegnato: il terminale il pilota, in via di eccezione, se lo ficcava
nell'orecchio, tenuto a posto dal caschetto di cuoio. All'altra estremità un imbutino, razziato nelle
cucine, dentro al quale strillavo i miei messaggi.
Un collegamento in senso inverso non risultava indispensabile perché poco il pilota aveva da
dirmi ed i suoi gesti mi erano ben visibili perché lui mi stava davanti. Mi rendo conto che
troverete il tutto molto ridicolo, ma vi posso assicurare che funzionava.
La catapulta
E infine arriva il non certo sospirato momento della catapulta. Farò una piccola digressione per
descrivere questo strano strumento di tortura.
In sostanza si tratta di un binario lungo circa 10 metri sul quale corre un carrellino e sul
carrellino appoggia l'aereo che all'epoca era il Ro43.
A questo carrello si può imprimere, mediante un cavo traente, una accelerazione tale da
raggiungere alla fine dei dieci metri di percorso una velocità di 80-85 km/ora; non di più perché
una eccessiva accelerazione porterebbe ad uno svenimento non della durata di un secondo, come
è la norma, ma di parecchi secondi, con un eccessivo ritardo nella presa in pugno dei comandi
dell'apparecchio ormai librato in aria ma senza margine di sicurezza verso il basso in quanto il
distacco dalla catapulta avveniva ad una quota di 7-8 metri dal pelo dell'acqua.
Ora risulta chiaro anche al profano che 80 km/ora non erano sufficienti per il sostentamento; ne
occorrevano almeno 120. La differenza veniva colmata: a) lanciando l'aereo in direzione della
prua e portando la nave a velocità sostenuta (almeno 20 nodi) per modo che la velocità della nave
si sommasse a quella impressa dalla catapulta. b) avendo l'avvertenza che la nave, al momento
del lancio, avesse il vento contro e non in poppa. Se il vento era notevole, questo era un
accorgimento di basilare importanza; rappresentava la differenza fra un buon decollo e .la caduta
dell'aereo davanti alla prora come fosse un mattone. Ma una volta...; ma ne parleremo a tempo
debito.
Il primo catapultamento
Apro una breve parentesi perché il Sergente (poi Maresciallo) Salotti merita una breve
digressione.
Si tratta di un giovanotto quasi mingherlino, con un naso veramente rispettabile; non un nasone
arcuato come il mio, che i tedeschi chiamano « naso romano », ma orgogliosamente rettilineo
« come gnomone in meridiana ». Un tipo riservato, di poche parole.
Come pilota era un mago. Aveva solo un piccolo difetto: la sua condotta di volo era un poco
irrequieta; forse lo distraevano le visioni che tutti avevano a bordo di questi aereoplanini. Vi
parlerò in seguito di questo fenomeno. Sta di fatto che pochi minuti dopo la partenza venivo
assalito da un terribile mal d'aria che non è nulla di diverso o di meno spiacevole del mal di mare;
i miei messaggi radio constavano di punti, linee… e conati di vomito. Ma il bello veniva alla fine
della missione, dulcis in fundo! Quando finalmente veniva l'ora del rientro, una volta raggiunta S.
Maria di Leuca, mi rannicchiavo nel buco per rassettare la radio e rientrare l'antenna monofilare.
Durante questa fase, circa all'altezza del castello di Leporano, il caro Salotti improvvisamente si
scatenava; eseguiva tutto un repertorio di numeri acrobatici sempre girando in tondo intorno ad
una torre nel bel mezzo della penisola salentina. Durante questa esibizione venivo sbatacchiato a
destra e a manca a rischio di sfondare la tela della carlinga.
Il mistero di questo cerimoniale regolarmente ripetuto ad ogni rientro mi spinse infine a chiedere
la ragione di tanta frenesia. Risposta: « vede, Comandante, sulla torre c'è sempre una ragazza che
fa il bagno di sole « nuda »; è una professoressa ». Chiuso l'argomento, perché, come ho detto,
era un tipo di poche parole. Ma per me era evidente che l'amico non mi aveva detto tutto. Alla
fine non potei fare a meno di replicare: « perché tu possa capire che è una professoressa imma-
gino che abbia il diploma di laurea stampato sul sederino! » Spero apprezzerete la raffinatezza
del mio linguaggio! Forse accolse questa mia spiritosaggine con l'ombra di un sorriso, ma non ne
sono sicuro.
L'attacco su Taranto
I primi giorni di Novembre trovo sul mio libretto segnate esercitazioni di tiro coi grossi calibri
con osservazione degli scarti da parte del « Grillo ». Tutte si svolgono senza che vi sia nulla da
segnalare; questo vale anche per quella del mattino del giorno 11; dico del mattino perché nel
pomeriggio qualcosa da segnalare c'è e gli avvenimenti successivi diranno che si trattava di un
indizio di un certo rilievo.
Alla fine della esercitazione ci ormeggiamo in Mar Grande e dopo la manovra monto di guardia.
Ad un certo momento vedo quasi sulla verticale un aereo che sorvola la baia; poiché il sorvolo
del Mar Grande era interdetto ai nostri aerei, non ho esitazione e col megafono ordino di aprire il
fuoco. Ma Mortadella che era in coperta grida: « sei matto? e se è nostro? » al che io replico:
« quello è inglese e ci sta fotografando ».
Nel frattempo l'aereo è scomparso ed è scomparso nel suo alloggio anche Mortadella forse
imbarazzato dal sospetto che un fessacchiotto con tre soli galloni potesse, almeno questa volta,
avere ragione.
Nello stesso pomeriggio l'Abruzzi si trasferisce nel Mar Piccolo, che è il porto più interno di
Taranto, e si ormeggia alla banchina.
***
Dal Mar Piccolo la visuale verso il Mar Grande è ostacolata dai fabbricati della città nuova e
quindi ben poco posso riferire sul famoso attacco aereosilurante nemico. Posso solo dire che vari
allarmi si erano susseguiti durante il pomeriggio e quindi non era con particolare preoccupazione
che, poco prima delle 23 eravamo a posto di combattimento. Ed ecco che all'improvviso ve-
demmo accendersi un bengala circa a 500 metri di quota all'inizio dell'arco orientale del Mar
Grande; a questo altri 7 od 8 ne seguirono ad egual distanza l'uno dall'altro; luminosissimi.
Sembravano fissi nel cielo; misurai col cronometro che la loro luce durava ben 13 minuti.
Questa luminaria dette il via alla reazione contraerea di tutta la piazzaforte; rinuncio a descrivere
la grandiosità di questa manifestazione pirotecnica perché non mi sento all'altezza di farlo; mai
avevo visto un incrociarsi in tutti i sensi di traccie luminose di ogni colore. Il frastuono poi era
spaventoso.
Verso le 23,50 si accesero altri due gruppi di bengala quasi nella stessa posizione di quelli
lanciati un'ora prima. Questo dette il via ad una nuova, frenetica sparatoria di tutta la contraerea.
Qualche bomba, sganciata più tardi sul Mar Piccolo cadde nella vicinanza nostra e di alcuni
cacciatorpediniere.
Questo è tutto quanto vidi, del famoso attacco. Non è molto. Chi volesse saperne di più è bene si
rivolga alle pubblicazioni ufficiali.
Voglio però riferire un mio rilievo del quale sono sicurissimo: durante gli attacchi con bombe sul
Mar Piccolo notai che un aereo nemico ronzava sulla zona rimorchiando con un lungo cavo un
lumino rosso; contro di esso si accanivano tutte le mitragliatrici contraeree che venivano così
distolte da far fuoco sui bombardieri.
Non ho trovato citato in nessuna pubblicazione questo dettaglio che dimostra come gli Inglesi
avessero oltre a coraggio, mezzi e addestramento, anche una notevole e invidiabile dose di
fantasia.
Cessato l'allarme, dopo una giornata che mi aveva visto in volo il mattino, di guardia il
pomeriggio e a posto di combattimento durante la notte, mi precipitai in cuccetta e caddi in un
sonno ristoratore.
Al mattino apprendo la triste notizia: Cavour, Littorio e Duilio colpite da siluri!
Una batosta coi fiocchi.
Dovemmo attendere più di un anno per avere la soddisfazione di rendere agli Inglesi la pariglia
con i nostri Mezzi d'Assalto che ad Alessandria affondarono due corazzate ed una petroliera. Con
in più l'orgoglio di aver ottenuto questi risultati con mezzi artigianali (i maiali) milioni di volte
meno costosi della squadra navale impiegata dal nemico per l'attacco di Taranto.
Il giorno dopo seppi che un apparecchio nemico abbattuto era stato ricuperato e depositato in
Aereoporto; mi recai a ispezionarlo, immediatamente; e feci bene perché solo dopo pochi giorni
si era trasformato in tagliacarte, posacarte, portacenere ed altri gingilli ricordo.
Mentre curiosavo intorno al Sword-Fish silurante, mi vedo vicino il Cap. Tondi, altro veterano
dei catapultabili; parliamo del più e del meno sulla brillante impresa degli Inglesi.
Ad un certo momento il bravo Tondi tronca bruscamente il discorso e mi fa: « Sono un po'
preoccupato; quando sono in volo col Ro 43 mi succedono fenomeni strani: appena dalla bussola
sposto lo sguardo sull'orizzonte vedo disegnarsi nell'atmosfera rosata strane visioni; schiere di
seni procaci, schiere di c... posteriori ancor più procaci; quando il volo dura a lungo diventa una
vera ossessione; non starò per caso diventando un adoratore della "signorina grandi firme"? ».
Provai un gran senso di liberazione. Perché anche io avevo avuto queste visioni ossessive ma non
avevo mai osato confessarmi con qualcuno.
Fu quindi con grande sollievo che replicai: « Mettiti tranquillo, anche io, con questo benedetto
Ro 43 di navi nemiche non ne ho ancora avvistata nemmeno una, ma di seni e di sederi intere
formazioni, in linea di fronte, linea di fila, linea di rilevamento!
Credo sia un effetto, non previsto dai progettisti, della forte vibrazione dovuta al motore. Non ti
preoccupare ». (5)
***
Ho già detto che durante la prima quindicina di Gennaio il supplizio della catapulta mi fu inflitto
parecchie volte. In compenso durante i voli lungo le coste nemiche non ebbi a fare cattivi
incontri e quindi… niente strizze; niente da parte del nemico, ma una di dimensioni medio-grandi
da parte del nemico-Mortadella.
Credo vi sia ben chiaro, perché l'ho già detto, che è indispensabile che, al momento del lancio la
nave navighi controvento; altrimenti i risultati potevano essere disastrosi. Era pertanto mia
abitudine osservare la fiamma in testa d'albero (6) per vedere se, ben tesa verso poppa,
rassicurava che il vento venisse preso per il giusto verso.
Ma questa volta, perbacco, quando già il motore è a regime, vedo che la fiamma penzola inerte
denunciando che il vento spira di poppa e non di prora; e non è un venticello da poco se riesce a
neutralizzare i 20 nodi che fa la nave. Penso, quasi con ironia, che sarebbe un bello scherzo se mi
catapultassero proprio adesso! Ed invece si! Proprio in quell'istante vedo affacciarsi dalla plancia
l'Ammiraglio e ordinare con voce stentorea: « Lanciare l'apparecchio! »
Per fortuna ognuno di noi ha un angelo custode che questa volta è privo di ali ed ha le sembianze
del Direttore di Macchina Blandini che dirige la manovra. Con un gesto perentorio del braccio
traccia un bel no nella direzione di Mortadella. Successivamente la nave accosta di 180 gradi ed
il lancio viene eseguito correttamente.
Avrei potuto omettere questo episodio; di strizze ne ho provate tante che una più una meno...
Ma l'ho voluto citare perché contiene una morale che ancora stenta a farsi strada nelle Forze
Armate: l'aereoplano è un'arma come tutte le altre; certamente la più importante. Il suo impiego,
le sue esigenze, le sue possibilità debbono essere ben presenti alla mente di chi comanda ed
avrebbero dovuto esserlo anche ai tempi della seconda guerra mondiale.
Viceversa la maggioranza degli Ufficiali anziani snobbava l'aereo.
Se uno avesse chiesto ai Comandanti dell'epoca in che cosa consistesse il problema aereo-navale,
moltissimi (non tutti per fortuna) avrebbero risposto: « Il problema aereonavale consiste in
questo: che io mi tengo a bordo due Ufficiali che mi stanno proprio sui... sulle scatole.
Uno, d'Aereonautica, gironzola per la nave eternamente disoccupato e annoiato. L'altro, di
Marina, appena può appende la sciarpa al chiodo (abbandona il servizio a bordo) e si squaglia in
Aereoporto. »
Cade in questo periodo una strana operazione navale di cui non trovo traccia né nel mio libretto,
perché non fui catapultato, né negli atti ufficiali della Marina. Certo non fu rilevante
nell'economia generale della guerra. L'ordine era di bombardare la costa greca in appoggio alle
nostre truppe. La divisione Abruzzi - Garibaldi procedeva lentamente perché impacciata dai
dispositivi antimina fissati alla prora.
Arrivati in vista della costa i tiri si svolsero regolarmente con risultati, io penso, modesti.
Quello che merita menzione è quanto avvenne sulla via del ritorno. Il Garibaldi procedeva in
testa e l'Abruzzi, nonostante fosse nave ammiraglia, seguiva.
Ad un certo momento viene avvistata una formazione aerea nemica a quota 1500 metri circa; una
ventina di bombardieri con caccia di scorta. Proviene da sud e dirige per passare sopra la nostra
formazione; le intenzioni sono chiare; ma noi impacciati dai cavi antimina non possiamo
eseguire rapidi serpeggiamenti per disturbare il puntamento avversario; ci dobbiamo limitare a
confidare nello « stellone ».
Col binocolo osservo con una certa trepidazione la formazione che ci sorvola; ed ecco, proprio
quando gli apparecchi sono esattamente sull'Abruzzi, dei puntini neri si staccano dal loro ventre.
Non posso trattenere un egoistico sospiro di sollievo; le bombe, sganciate sulla nostra verticale,
cadranno molto più avanti; ma più avanti c'è il Garibaldi! Ho ben motivo di vergognarmi del mio
impulsivo egoismo.
L'attesa è spasmodica; infine ecco formarsi un grosso fascio di colonne d'acqua di poco sulla
destra del Garibaldi; proprio di poco, ma poco assai. Si vede che gli Inglesi non hanno lo Jozza
come apparecchio di puntamento!
Poco dopo avviene uno scontro fra la caccia nostra e la caccia avversaria; mi sembra di ricordare
che due aerei per parte caddero in mare.
Poveri ragazzi! Sarebbe stato meglio che non avessero rintracciato con tanta precisione, la nostra
formazione navale.
Durante questa fase me ne stavo, come prescritto, in uno spiazzo contiguo alla plancia di
comando, addetto all'avvistamento di aerei nemici; è inutile dire che dopo il primo attacco stavo
con occhi spalancati nel timore di una seconda ondata. Ed ecco infatti che, sempre da sud, vedo
avanzare una seconda formazione. Non disordinata come la precedente, ma ordinatissima nella
sua formazione a cuneo. « Aerei da poppa », grido. Non passa molto che dobbiamo con sollievo
constatare che si tratta di una formazione... di gru o cicogne! Sospiro generale di sollievo e
sguardi ironici verso di me, occhio di lince della Divisione.
Guardiamarina Siniscalchi! Ricordo ancora la sghignazzata che mi facesti in faccia, nonostante
non rientri nelle norme di comportamento sghignazzare in faccia a un superiore. Finalmente
Mortadella ebbe la sospirata occasione di darmi del fesso; in ogni modo mi fu facile replicare che
in guerra è meglio scambiare cicogne per aerei che aerei per cicogne.
Capo Matapan
Non aspettatevi che vi possa narrare qualche cosa di inedito su questa infelice battaglia, perché...
non vi presi parte. D'altro canto anche l'Abruzzi ne rimase fuori, perché, essendo all'avanguardia,
non venne a contatto col nemico. A me era accaduto che la radice di un dente mi avesse
provocato un ascesso con febbri altissime; per qualche giorno rimasi nella mia cuccetta sempre
tremando di freddo o scoppiando dal caldo. Ad un certo punto anche l'ascesso si decise a
scoppiare lasciando un enorme buco che metteva in comunicazione la gengiva col palato.
Il Comandante venne a farmi visita e mi riferì, e quasi piangeva, che Mortadella aveva
diagnosticato che la mia malattia si chiamava « paura ». Al che il Galantuomo aveva replicato
che durante la notte avevo avuto la febbre ad oltre quaranta, come il medico di bordo poteva
testimoniare.
Il giorno dopo, dovendo la nave uscire in mare, si ritenne opportuno sbarcarmi all'ospedale.
Ecco perché non partecipai alla battaglia di Capo Matapan e non ho nulla su di essa da raccontare;
ma fiumi d'inchiostro defluiti sull'argomento mettono a disposizione dell'eventuale interessato
una enorme documentazione.
***
Giunto all'ospedale fui sistemato, io e la mia fisarmonica, in una bella stanza tutta per me. A
rendere più piacevole il soggiorno si aggiunse il fatto che nella camera accanto alloggiavano due
cari amici: l'Osservatore Bernstein ed il pilota S. Ten. Azzolini. Quest'ultimo aveva avuto la
scarogna di ammarare proprio su una boa. Lo scarpone (galleggiante centrale) si era staccato di
netto e i due meschini erano volati in acqua; indenni, salvo qualche escoriazione. Portati
all'ospedale il medico aveva loro praticato una iniezione antitetanica; cosa certamente ben fatta;
ma non lo fu altrettanto l'idea di Bernstein di mettersi sul terrazzo a fare la cura del sole. Tutto il
suo corpo si ricoprì di bolle di orticaria; il prurito lo portò quasi alla follia, al punto che avendo
Azzolini insinuato che somigliava ad un'aragosta bollita gli lanciò contro la bottiglia dell'acqua
minerale; per fortuna il buon Peppino riuscì a scansarsi in tempo.
I sopramobili
Bernstein ha portato la pelle a casa e, laureatosi in ingegneria, svolgeva fino a qualche anno fa la
sua professione a Roma dove ebbi occasione di incontrarlo.
Di Azzolini non so più nulla né oso informarmi per tema di sentirmi dire che anche lui è caduto
in questa infelice guerra.
All'epoca era già un veterano dei catapultabili coi quali bazzicava fino dal tempo di pace. Ed era
simpaticamente noto a tutti. Una figura caratteristica.
Di statura era piccoletto ma ben proporzionato; lineamenti regolari, capelli a spazzola. La sua
città di origine mi pare fosse Brescia o dintorni, come si desumeva dal parlare. Ma non era
questo di lui che colpiva quando apriva bocca, bensì che da quella bocca uscisse un vocione
assolutamente insospettabile in un fisico di formato ridotto. Era un virtuoso della fisarmonica a
patto che gli si chiedesse di suonare soltanto in fa maggiore e l'uno o l'altro di questi due pezzi:
« Rosamunda » e « Rapsodia svedese ».
Non era di molte parole e quindi non fu certo lui a riferirmi un episodio accadutogli in Sicilia.
Credo a Messina gli accadde di essere invitato ad un piccolo ricevimento familiare durante il
quale ballò e si trattenne a far due chiacchiere con una signorina addirittura microscopica;
accanto a lei il Nostro sembrava un gigante. Ad un certo momento si avvicina una anziana
signora, di quelle, così frequenti nel meridione, che hanno la vocazione delle paraninfe, e così lo
apostrofa:
« Signor Azzolini, che bbella coppia che siete! « perché non s'a sposa sta bbella rragazza? »
Al che Azzolini col suo vocione:
« Così si fa i sopramobili! »
Caro, simpatico Peppino: tu non passerai alla storia al pari di tutti noi della Ricognizione
Marittima che non fummo né aquile né leoni ma solo muli cocciuti e pazienti. E poi... passeresti
alla storia come « Peppino il sopramobile »!
Una sigla nuova: RADAR.
Al rientro della mia Divisione a Brindisi raggiunsi immediatamente il mio Abruzzi. Vi trovai
un'atmosfera pesante; la perdita di tre incrociatori nei pressi di Capo Matapan costituiva una
sconfitta grave.
Fu allora che in un messaggio rivolto dal Comandante all'equipaggio sentii citare per la prima
volta la magica sigla: RADAR; e fu allora che mi resi conto che una Nazione dove i giovani non
amano lo studio ed i politici, vecchi e nuovi, non tengono nella dovuta considerazione il
progresso scientifico, sarebbe bene non scendesse mai in guerra.
Il Comandante avrebbe avuto un argomento per tirar su un pochino il morale della gente. Ma
forse non era ancora a conoscenza che all'inizio del ciclo operativo, la notte del 26 Marzo, sei
motoscafi esplosivi (guidati dal T.V. Faggioni) avevano affondato l'Incrociatore York (più altro
naviglio ausiliario) nella baia di Suda.
L'incrociatore York era una nave onusta di gloria; assieme alla gemella Exeter aveva portato alla
distruzione la Graf von Spee, alle foci del Rio de la Plata. L'incrociatore Exeter è
ormeggiato tuttora sulla sponda destra del Tamigi, trasformato in museo galleggiante. (7)
Finalmente in licenza
Credo che circa in quest'epoca mi ebbi la sospirata licenza. Avrei dovuto averla prima, ma
sfortuna volle che dovessi sostituire l'Osservatore del Garibaldi che andava.., in licenza.
È chiaro che qualcuno, pensava che io fossi caduto a bordo all'Abruzzi « scutuliando (scuotendo)
l'albero dei fessi ».
In ogni modo, eccomi finalmente a casa.
Rivedo dopo un anno e mezzo la mia bambina nata poco dopo l'inizio della guerra. Ormai è una
signorina! Un angelo biondo e riccioluto. Ogni giorno trascorso in licenza è per me una felicità
che mi dà le vertigini.
E la mia felicità non ha limiti quando un telegramma mi comunica che avrei fruito di una
settimana di proroga.
Sebbene non fosse Mortadella lo scrivente, la logica delle cose voleva che fosse lui all'origine di
tanta generosità.
Qualsiasi risentimento nei suoi confronti sparì d'incanto; anzi mi vergognai di me stesso per i
passati rancori.
Il brutto è che il giorno dopo altra comunicazione mi annunciò che « .spiacente ma... la proroga
di licenza doveva intendersi annullata ».
Essendo questo scherzo accaduto ad altri anche in tempi passati, mi viene il dubbio (ma è solo un
dubbio) che Mortadella usasse questo espediente per guadagnarsi la fama di Gran Capo bonario e
generoso senza peraltro contravvenire alle disposizioni ministeriali in materia di licenze.
Addio all'Abruzzi
Poco dopo il rientro a bordo dalla licenza ecco arrivare di nuovo il movimento: torno
all'Aereoporto di Taranto, alla mia vecchia 142a Squadriglia.
Lascio la mia nave con una certa emozione e fors’anche nostalgia; in fin dei conti quella di
marinaio era la mia vocazione.
Note
2. Non ho mai capito perché un corso così prezioso non si tenesse nelle scuole di Ingegneri.
4. È molto importante che il carrello parta quando il cavo di trazione esercita uno sforzo ben
determinato. Dopo molte prove deludenti con ganci tarati e simili il problema era stato
finalmente risolto fissando il carrello alla coperta con una barretta di rame di sezione appropriata;
lo strappo della barretta determinava con molta precisione la trazione sotto la quale il carrello
veniva lasciato libero.
5. La « Signorina Grandi Firme » era una invenzione grafica della rivista omonima diretta, mi
pare, da Pittigrilli. Questa signorina impersonava l'ideale fascista della bella ragazza: disinvolta,
procace, lattifera! Debbo dire che degli ideali del fascismo questo riscuoteva la mia approvazione
e lo riscuoterebbe ancora adesso se non avessi i capelli bianchi.
6 .La « fiamma » è una bandierina tricolore alta una spanna e lunghissima che viene issata in
testa d'albero.
DI NUOVO A TARANTO
Il Capo Osservatore
Come, arrivando a bordo, la prima domanda era: « chi è il Comandante? », così arrivando in
Aereoporto la prima domanda era: « Chi è il Capo Osservatore? » Inutilmente cerchereste nelle
pubblicazioni ufficiali citata la mansione di Capo Osservatore; era una mansione nata
spontaneamente e dotata di un prestigio che galloni e greche non avrebbero conferito certamente.
Il Capo Osservatore non era altro che il più anziano (non di età ma di graduatoria sul « libro
verde » (1) fra gli Osservatori presenti in un Aereoporto.
Le sue mansioni erano di vasta portata; spaziavano dall’impiego in tutti i suoi aspetti
all'assegnazione dei turni di volo fra gli Osservatori presenti, all'addestramento dei rincalzi
talvolta giovanissimi che ricevevano fraterni consigli dalle vecchie volpi.
Il tutto in un'atmosfera simpaticamente distesa nonostante le severe perdite.
Mai mi accadde di sentire una lamentela relativamente al turno di volo assegnato o a una seconda
missione resa necessaria dopo aver volato cinque o sei ore nella mattinata; e questo ha 'del
miracoloso.
E da cosa traeva origine tanto prestigio ed autorità dei Capi Osservatori? Da un fatto molto
semplice, un segreto quasi banale: i Capi Osservatori volavano come gli altri o più degli altri,
avendo cura di scegliere per sé le missioni più pericolose.
Certo, questo indiscusso prestigio richiedeva un prezzo, un prezzo molto alto.
Infatti al mio rientro a Taranto apprendo che i Capi Osservatori succedutisi in quella base erano
tutti caduti in missioni idi volo: VIOLA, TATTONI, LEHMAN... Anche il Cap. di Fregata
CASANA è morto. Aveva lasciato da pochi giorni la Scuola di Osservazione per assumere il
comando del Cacciatorpediniere « Lancere » col quale era affondato il 23 Marzo 1941.
***
Al mio rientro a Taranto trovo come Capo Osservatore Massimo GAETA, molto più anziano di
me e quindi mio rispettato superiore nonostante siamo entrambi Tenenti di Vascello. Persona
molto seria ed accurata aveva stabilito alcune regole che scherzosamente chiamava il « il
buscidò », alla giapponese. Uno dei principi di comportamento che il buscidò prescriveva era che
l'Osservatore doveva fare immediatamente al rientro il rapporto di volo, anche se negativo; se
accadeva che qualcuno se ne dimenticasse, lungi da Gaeta l'idea di fare un rimprovero, lui aveva
altri metodi.
Inviava in città un aviere autista che, seguendo le sue indicazioni, trovava a colpo sicuro lo
smemorato; perché Gaeta conosceva i suoi polli e sapeva dove indirizzare l'autista: o a La SEM,
noto caffè elegante, o al caffè all'aperto Greco, o a casa se il distratto aveva famiglia, o da
« Rina » se era un « pomicione ».
Accadde anche a me una volta di essere rintracciato dall'aviere; per l'esattezza al penultimo di
questi recapiti e non all'ultimo!
19/5/1941 - Ricomincia il tran-tran
Il giorno 19 riprendo i voli col Cant Z 506. Questa volta il primo pilota è un Sottotenente di
complemento quasi imberbe, il S. Ten. Tacoli. Trito e malvestito, come del resto eravamo tutti
noi.
Poco meno di quaranta anni dopo ho appreso che era nientemeno che il Marchese Filippo Tacoli
di Valdalbero da Modena, quasi mio concittadino. Essendo egli deceduto nel 1965, i figli hanno
curato il riordino di un suo diario che poi è apparso nel 1978 con il titolo: « Partita a poker con
la morte ».
Questa volta abbiamo a bordo anche un ospite; si tratta di un gerarchetto di non alto livello; il
caso vuole che sia di una cittadina che è circa a metà strada fra Reggio, che è la mia città, e
Modena. Un tris di emiliani!
Molti ricorderanno che ogni tanto capitavano negli aereoporti dei gerarchetti; era divenuta
consuetudine che facessero un volo di guerra (ma non troppo); dopo di che si svolgeva
puntualmente questa sceneggiata secondo un copione ormai collaudato: il Colonnello offriva
all'ospite una medaglia ricordo dell'Idroscalo, di quelle con sopra scritto: « Duo maria una virtus
». Il gerarchetto ringraziava e con la timidezza di una sposa alla prima notte chiedeva: « Potrei
sperare in una proposta per medaglia di bronzo? Sa, sarebbe molto utile per la mia carriera...; il
Colonnello aderiva (forse in ottemperanza ad una disposizione pervenutagli in via ufficiosa)
salvo poi commentare: « Pur di levarmelo dai c... lo proporrei anche per la medaglia d'oro! ».
Ma questa volta la conquista del « bronzino » non è poi così agevole perché viene complicata da
una pesantissima nebbia che forma una cortina impenetrabile dal mare ai 2.000 metri.
Il povero Tacoli tenta invano di proseguire a pelo d'acqua, mentre il gerarchetto mi chiede più di
una volta, pieno di meraviglia, perché non proseguo la navigazione viaggiando al di sopra dei
banchi di nebbia.
Finalmente decido, dopo solo due ore di volo, di rientrare alla base. E qui nuovamente il
gerarchetto mi rinnova la sua meraviglia, che è quasi un rimprovero, perché non avevo
proseguito al disopra della nebbia. Questa volta non riesco a trattenermi: « Caro amico, non
potremo mai trovarci d'accordo perché tu pensi che noi andiamo per mare a caccia di medaglie e
solo in via subordinata di navi nemiche, mentre noi andiamo a caccia di navi nemiche e solo in
via subordinata di medaglie. »
Con me non tornò più in volo ma si fece ancora vivo con una bella pensata. Essendo io in
partenza per le isole della Grecia, mi dette in tutta fretta un involto con un biglietto; in esso era
scritto: « Ti prego di un favore: ad Argostoli acquistami nei vari negozi del caffè che
confezionerai nel sacco qui accluso... ».
Sembrava che con ciò avesse risolto il problema più arduo, quello del sacco; ed invece il
problema più grave era di come riempirlo, questo sacco, che era enorme, un sacco da frumento.
Credo che non sarebbe bastato il caffè reperibile non dico in Cefalonia, ma nella Grecia intera,
per riempirlo! Infine trovai un'« oka » (2) di pessimo caffè e me la tenni, perché nel famoso
sacco si sarebbe persa sul fondo .
Sempre a proposito di Gerarchi mi sovviene uno sfottetto che appresi durante una mia sosta in
Africa. Mi fece ridere, nonostante obiettivamente parlando, ci fosse ben poco da ridere. Eccolo:
La metrica lascia un poco perplessi; ma avrei voluto vedere se Giacomo Leopardi, sperduto nel
deserto, mal vestito e mal nutrito avrebbe saputo fare di meglio!
Un mese di villeggiatura
Il mese di Giugno, stando al mio libretto, si presenta piuttosto tranquillo. Si alternano scorte col
501, ricognizioni col 506 e vigilanze nello Jonio sempre alla ricerca vana di sommergibili
nemici.
Il 4 Giugno eseguo una esplorazione nella zona di Capo Papas, cioè all'imboccatura del Golfo di
Patrasso. Forse lo scopo era la individuazione di banchi di mine disseminate dal nemico su delle
rotte per noi obbligate per rifornire le nostre truppe di occupazione.
L'acqua limpida e tranquilla mi consente di individuare uno sbarramento di mine sferiche proprio
sulla sponda opposta a Capo Papas. Nemiche o nostre non lo so. Le segnalo al mio rientro.
L'apparecchio è il 501, il pilota è il Mar. PIOTTI. Questo giovanissimo Maresciallo riscuote le
mie più vive simpatie, perché gli sono grato di aver risolto, tempo addietro, con la sua abilità e
sangue freddo, una situazione piuttosto critica.
Avevamo decollato dal Mar Piccolo per uno dei soliti voli; io ero alle spalle dei due piloti; fatta
un po' di quota vedo dei gesti di incertezza da parte di entrambi; il volantino gira a destra e a
sinistra ma non succede nulla.
Il bravo Piotti, senza perdere la calma, riesce in qualche maniera, manovrando i soli alettoni, a
virare e tornare all'ammaraggio. Fu poi appurato che il Capo Montatore, dopo una revisione
generale dei cavi di comando, aveva dimenticato di allacciare quelli del timone di direzione.
In gergo: il classico scherzo da prete.
Ed ora eccoci col simpatico Piotti a gironzolare verso il tramonto nei dintorni di Capo Papas. La
ricerca durò circa sei ore ed il buio ci sorprese ancora in volo. Dirigemmo quindi per ammarare
ad Argostoli senza sentiero luminoso, senza fuochi di paglia, senza nulla. Ma la luna piena
rendeva la notte così limpida che per Piotti l'ammaraggio fu un gioco da ragazzi. I guai vennero
dopo; c'era un vento fortissimo che ci sospingeva verso la costa ed il motoscafo di rimorchio
tardava ad arrivare. Allora annaspai ai miei piedi (io ero nel « buco » davanti) e trovai un
ancorotto che pur non facendo miracoli, rallentò la deriva verso costa.
Finalmente arrivò il motoscafo di rimorchio.
Il buon Piotti si profuse in ringraziamenti per il mio intervento marinaresco; al che io replicai:
« Una volta per uno a salvare la baracca; l'altra volta è toccato a te, questa volta a me; ma l'altra
volta non si trattava di questa baracca di Mammaiuto ma della pelle! Puoi segnare un punto a tuo
favore ».
Avendo trovato ad Argostoli una situazione di disordine nella sezione colà distaccata, rientrai a
Taranto e proposi al Colonnello di rispedirmi a Cefalonia per impostare un minimo di
organizzazione in quel piccolo reparto. Ecco perché il giorno 6 Giugno, dopo cinque ore di scorta
antisommergibile ad una nostra formazione, ammaro ad Argostoli per restarvi un periodo più o
meno lungo a mio giudizio.
Vi rimango infatti dal 6 Giugno fino ai primi di Luglio.
Vacanza ad Argostoli
Considero questo periodo trascorso in Grecia come un periodo di vacanza. I voli erano quasi
giornalieri ma di non lunga durata e nel complesso piacevoli perché si svolgevano fra isole e
golfi pittoreschi; mi aggiravo su località che evocavano ricordi liceali: Zante, Cefalonia, Itaca,
Prevesa, Naupatto (Lepanto).
I miei compagni di equipaggio erano tutti dei gran bravi ragazzi; ricordo alcuni nomi: Serg.
Verduri, S. Ten. Pezzan, Serg. M. Tasso, Serg. Orzan ed il caro Michele Zezza che la sorte mi ha
fatto incontrare più volte durante la guerra.
Fra i giovani Osservatori ricordo Lukes Niceforo (dove l'aveva pescato quel nome?) ed il
Guardiamarina Mascagni.
Di quest'ultimo debbo fare un cenno particolare: era di Livorno come il concittadino di lui ben
più famoso; ma non credo che fosse suo parente. Amava la musica, ma non quella del suo
omonimo; la sua passione erano le canzonette; direi che metà del tempo la trascorreva
fischiettando « Polvere di stelle » che solo allora si affacciava in Italia. Piaceva molto a lui ma
penso che sarebbe piaciuta anche al Mascagni senior; quel pezzo è divenuto un classico.
Oltre a questa simpatica caratteristica ne aveva un'altra di grande utilità pratica. Aveva
conoscenze, non so il perché, in tutte le compagnie di varietà che si avvicendavano a Taranto e si
dava molto da fare per introdurre nell'ambiente teatrale anche gli amici.
In particolare era stato compagno di studi (scienze economiche) con un capocomico che aveva
scelto come nome d'arte nientemeno che « Fanfulla »; si, quello da Lodi, condottiero di gran
rinomanza...
Ricordo che una sera mi presentò al suo amico il quale gentilmente mi invitò a cenare assieme a
lui e a tutta la compagnia. Con me, al suo tavolo, c'era l'inseparabile mamma e tutto il balletto
viennese (ma i balletti sono tutti viennesi?); dico la verità che la sola vicinanza di tante belle
figliole era una vera cura ricostituente per il mio fisico un po' debilitato.
Ma lui, Mascagni, l'amica del cuore l'aveva in un'altra compagnia; era una fanciulla giovanissima
(forse minorenne) che lo ricambiava con molto ardore. Gli aveva lasciato come ricordo una
sottoveste di seta che lui portava sempre in volo a guisa di sciarpa, come portafortuna.
E di fortuna la sciarpa, almeno per la durata della guerra, gliene portò, perché ne uscì sano e
salvo. Purtroppo, nel dopoguerra, morì prematuramente a Pisa nel 1959.
***
Ad Argostoli affittai una vecchia Ford con la quale mi muovevo nei dintorni senza precauzione
alcuna; ho letto quindi con meraviglia nel libro di Tacoli che episodi di guerra partigiana siano
avvenuti ad Argostoli.
Io, viceversa, ricordo che la popolazione si era dimostrata gentilissima nei confronti di noi
Italiani: i bambini avevano come ritornello: « Italiano buono, Tedesco non buono ».
Certo che, quando la popolazione ha visto che Cefalonia veniva occupata dagli Italiani e non dai
Tedeschi, deve aver tirato un bel sospiro di sollievo.
Pertanto la popolazione sopportava di buon grado anche l'ottusità di alcuni reparti di occupazione
nostrani. Più volte fui invitato a prendere il the presso famiglie del luogo; mi recavo in macchina
a fare queste visite e mai mi accadde di essere molestato.
Una persona particolarmente gentile nei nostri riguardi era un greco che per tanti anni aveva fatto
il guidatore di taxi a Parigi e col gruzzolo accumulato si era costruita una bella villetta in vista di
una magnifica spiaggia. Stando sul terrazzo si vedevano in mare numerose testuggini che
venivano spesso catturate e fornivano una carne deliziosa.
Truppe di occupazione
Noi Ufficiali eravamo aggregati per i pasti alla mensa del Comando della Milizia che costituiva
la forza di occupazione dell'isola. Posso dire che era tutta brava gente. Non aveva certo il pugno
duro; tutte storie.
Magari c'era qualche manifestazione di stupidità da parte di un paio di gerarchetti che fungevano
da commissari politici, alla maniera russa.
Una mattina tutti i muri della cittadina apparvero tappezzati di manifesti con su scritto: « Kairete
fasisti » (salutate alla maniera fascista). Non ricordo se i manifesti fossero scritti in caratteri greci
o latini; la cosa non era rilevante, perché anche queste isole, come tasso di analfabetismo non
scherzavano! Nessuno degli isolani si sognò di fare il saluto romano e nessuno degli occupanti
dimostrò di accorgersene.
Il bello dell'Italiano è che possiede una enorme capacità di smussare gli angoli; in mano a lui un
quadrato, a forza di smussare diventa un cerchio senza che nessuno se ne accorga.
Fra questi ufficiali della Milizia vi era un'alta percentuale di romani, tutti bravi ragazzi; era la
prima volta che mi trovavo a tu per tu con dei romani ed una cosa mi colpì della loro personalità:
sapevano tutto su tutti; sembravano aver familiarità con alti gerarchi, alti funzionari, senza poi
dire delle attrici del cinema, delle quali sapevano i segreti più intimi.
Ce n'era uno che conosceva vita e miracoli di Alida Valli, attrice che allora era al massimo del
suo fulgore. E noi poveri provinciali ascoltavamo a bocca aperta. L'esperienza successiva mi ha
poi insegnato che è questo un carattere saliente dei Romani: la mania di voler apparire informati
sulle più segrete cose; una mania che confina con la mitomania!
Non posso accomiatarmi da questo reparto di militari privi di stellette senza far cenno al loro
Cappellano. Era un frate e si chiamava Frate Lupo. Simpatico, disinvolto, una figura
assolutamente all'opposto del cliché tipico del fraticello!
Se mi sentirete pronunciare qualche frase spinta o addirittura boccaccesca, potete giurare che
l'appresi da lui nell'isola di Cefalonia!
Riporto ora una cosa buffa che ci accadeva di rilevare quando ci avvicinavamo in volo a dei
centri abitati: Decine di specchietti concentravano sull'aereo i raggi del sole; era strano questo
luccichio che proveniva da terrazzi, balconi e giardini. Non ho mai saputo il perché di questa
abitudine. Era una tradizione? Aveva un significato?
Qualcuno insinuava che gli isolani credendoci Inglesi, e gli Inglesi erano i loro amici del cuore,
volessero salutarli o fare loro dei segnali. Penso sia un po' tardi per levarmi questa curiosità.
Verso i primi di Luglio cominciai a vergognarmi di una vacanza così prolungata e ritornai a
Taranto. Essendo il primo che aveva soggiornato un po' a lungo in Grecia immediatamente dopo
l'occupazione, voi penserete che al rientro i colleghi mi chiedessero notizie sull'isola, sui suoi
abitanti, sulla situazione politica; vuol dire che conoscete poco gli Italiani! La domanda di
prammatica era un'altra, la solita: come si sta a donne nelle isole? Per la verità non si rivolgevano
ad un esperto; non sono un romano, io, e nemmeno frate Lupo!
Se ben ricordo ad Argostoli c'era qualche bella figliola come dovunque. Però quella che più
attirava gli sguardi non era una greca, ma nientemeno che un'abissina; una gran bella figliola, di
carnagione soltanto leggermente scura.
Spero che non l'abbiano, alla fine della guerra, accusata di collaborazionismo, perché di
collaborazione con gli Italiani certamente ne aveva fatta. A modo suo.
Ricerca naufraghi
Dal mio libretto rilevo che già il 6 Luglio ero di nuovo alle prese con una R. 24 della durata di
circa sei ore e, nello stesso giorno effettuavo una ricerca di naufraghi.
Un paio di volte ho avuto occasione di effettuare una di queste missioni e sempre, purtroppo, con
esito negativo. È superfluo dica che sia io che gli altri affrontavamo questo compito con il
massimo zelo e ci offrivamo, in questi casi, come volontari anche se già stanchi per un lungo
volo.
Io, seguendo la mia inclinazione, mi sforzavo di dare una base razionale a questa come a
qualsiasi altra missione.
Quindi, abbandonando la costa, consideravo concetto basilare quello di non dirigere esattamente
sul punto indicatoci come probabile dell'incidente. Infatti, se avessi superato detto punto senza
avvistare il naufrago, non avrei saputo se proseguire la ricerca a destra o a sinistra del punto
probabile.
Pertanto dirigevo per un punto spostato ad es. a destra di 5-10 miglia e poi iniziavo dei va e vieni
spostandomi ogni volta di un paio di miglia fino a portarmi di 5 o 10 miglia a sinistra del punto
probabile.
Come ho detto non trovai mai nulla e da allora cominciai ad arzigogolare come si potesse
operare per dare ai naufraghi qualche possibilità in più di essere avvistati dagli aerei.
Un'idea che mi sembrò buona fu quella di dotare ogni membro dell'equipaggio di un sacchetto di
fluorina. La fluorina era quella sostanza colorante che, durante il lancio dei siluri per
esercitazione, veniva emessa dal siluro stesso per indicare, a corsa ultimata, la sua posizione e
facilitarne il ricupero. Versata in acqua dal naufrago avrebbe fatto una enorme e vistosissima
macchia gialla che avrebbe facilitato il compito dei soccorritori. Convinto della bontà di questa
mia idea riuscii a far inoltrare una richiesta di questa sostanza a chi la deteneva, cioè alla
Direzione Generale delle Armi navali. La risposta fu: « Non possiamo cedere fluorina perché
serve per i siluri ». Come se per me la cosa fosse una novità; si dà il caso che nel '36, con il C.T.
Ostro, fossi a disposizione del Silurificio di Napoli proprio per i lanci di prova!
Cito questa risposta (che proveniva da un Alto Ufficiale con tanto di laurea) per mettere in
evidenza di quanto fosse grande l'incomprensione dell'importanza e delle esigenze del mezzo
aereo; in particolare del mezzo aereo che operava sul mare. Per questi sopravvissuti della prima
guerra mondiale l'aviatore era ancora uno sportivo costoso ed inutile e non un professionista
come tanti altri.
Non vi è dubbio che gli Inglesi abbiano trovato un insperato aiuto da parte di questi
« Pappagoni » affetti da miopia grave. Ma quello che più colpisce il mio ricordo è il fatto che
tutti, a cominciare dal sottoscritto, accettammo con rassegnazione questa risposta che poteva
essere un verdetto di morte per qualche naufrago; senza replicare, senza protestare.
Forse, e lo spero, questo comportamento derivava da quella sensazione di impotenza che si prova
di fronte alla ottusità della burocrazia; ma potrebbe anche essere l'amaro frutto della
interpretazione troppo rigida del concetto di disciplina; in tal caso posso solo dire che la
disciplina può anche portare talvolta a delle forme degenerative di cui è bene tener conto.
Luglio tranquillo
I giorni successivi di Luglio, sebbene abbia volato quasi tutti i giorni con una media di quattro
ore per volta, non trovo sia accaduto nulla degno di essere menzionato.
Il giorno 19 rivedo con simpatia Argostoli, ma solo di passaggio, per fare una esplorazione che il
mio libretto qualifica « speciale », non ricordo proprio il perché. Fu allora che, il 21 luglio, mi
chiese un passaggio, per il rientro in Italia, un mio caro compagno di Corso, l'ing. Pippo Salza.
Dovete sapere che Pippo era (ed è) il cervellone del Corso e lo ha dimostrato anche nel
dopoguerra divenendo Professore universitario e Amministratore delegato di una grande azienda
di telecomunicazioni.
Bene, sapete perché era andato peregrinando per le coste delle isole? Per la verifica dei
generatori a bicicletta in dotazione alle stazioni semaforiche della Marina installate di fresco
lungo le coste delle isole! Che risate!
Il decollo risultò piuttosto « lungo »; non per colpa del peso di Pippo ma bensì delle latte di olio,
che, per quanto di qualità abominevole, era pur sempre manna nell'Italia affamata.
Anche i giorni di Agosto, almeno i primi, corrono monotoni sebbene con voli quasi giornalieri.
Ormai le nostre esplorazioni nel Mediterraneo non fanno più capo a Menelao ma sono con
partenza e ritorno a Taranto. La durata era circa sei ore. Ricordo che volai, in queste esplorazioni
a largo raggio, con Tacoli, Savino, e col Ten. Floré. Quest'ultimo non solo era un valente pilota
ma anche un affermato chirurgo.
Fu durante i preparativi per la partenza che, passeggiando avanti e indietro sull'ala, mi dette
nozioni precise e confortanti sulla malattia che mio padre stava attraversando e che mi teneva in
grande ansietà.
In tutte le cose, per fortuna c'è una nota comica; Floré aveva in mano il megafono che aveva
usato per lanciare un saluto a truppe alpine forse in partenza per la Grecia. Proprio in quel
momento cominciarono a sparare le batterie contraeree della piazza di Taranto; molte scheggie di
granata cadevano in acqua attorno all'apparecchio; Floré non trovò di meglio, per proteggersi,
che infilare in testa il megafono … sembrava il Mago di Oz con un bel pizzetto nero.
Fino ad oggi erano ormai mesi che non facevo più parte di una « quindicina ». Mi illudevo di
essermi rifatto una reputazione. Ma oggi, 23 Agosto, precipito di nuovo nella degradazione!
Parto di prima mattina, col S. Ten. Bertoni, diretto ad Elmas (Cagliari); evidentemente una
squadra inglese si aggira per il Mediterraneo occidentale e la Sardegna ha bisogno di rinforzi.
A pensarci bene la posizione di Taranto è veramente infelice; quando una squadra inglese è nel
Mediterraneo orientale è nostro compito rintracciarla, e questo è giusto. Ma per gli Osservatori
sono di competenza anche le formazioni inglesi che si aggirano nel Mediterraneo occidentale,
attraverso il collaudato sistema della « quindicina ».
Adesso poi accade che ai « clienti » abituali » se ne aggiungano anche altri: sono gli S. 79
siluranti di Decimomannu e Cagliari. Sono senza dubbio amatori prestanti, ma diventano
piuttosto timidi alla vista del mare. Nulla di strano; si trattava di reparti che provenivano dall'alta
Italia; gli equipaggi avevano al massimo una conoscenza balneare di questo infido elemento.
Scherzosamente dicevamo che non navigavano per « ortodromia o lossodromia » (3) ma per
ferrodromia o stradadromia (4). Alle 10,00 del 23, dopo aver scavalcato la Calabria, arriviamo
dunque col nostro 506 ad Elmas. Il resto della giornata mi sembra sia stato di riposo; un riposo
relativo, perché proprio in quel giorno l'idroscalo fu attaccato da sei apparecchi nemici che spara-
rono sugli idrovolanti ormeggiati ai loro gavitelli. Uno con a bordo Capeder, era in procinto di
partire; sotto la gragnuola dei colpi l'equipaggio credette opportuno buttarsi in acqua e ripararsi
in qualche maniera sotto i motori.
L'Idroscalo di Elmas aveva anche una difesa contraerea costituita da due mitragliere Vikers da 40
mm.; mi viene il dubbio che risalissero all'altra guerra. Il loro nome confidenziale era pom-pom
che rende bene l'idea della loro rapidità, anzi lentezza, di tiro: direi poco più di un colpo al
secondo.
Un Aviere sparava con questa pom-pom, e questo è normale. Ma indovinate chi c'era al suo
fianco che sbraitava « spara, spara » come se con ciò potesse affrettare il ritmo di tiro? C'era il
Maggiore Bianchini, prostituta onoraria! L'avevo incontrato a Taranto all'inizio del conflitto; poi
a Tobruk, poi qui a Elmas. Solo ad Augusta non l'ho mai incontrato perché in quell'Idroscalo non
ho mai messo piede. Ma non è finita; verso il 25 Luglio '43 lo incontrai a Roma, al Ministero,
dove faceva un giusto periodo di riposo mettendo a soqquadro qualche segreteria.
È per me un'esperienza nuova volare con i terrestri; come prostituta ho l'illusione di essere salita
ad un livello un poco superiore.
Scopo del volo è una esplorazione offensiva fino alle Baleari; l'apparecchio è un S. 79; il primo
pilota il S. Tenente Dessi. La partenza è quanto mai piacevole: sfido! il carrello ha molleggio e
ammortizzatori, proprio come una Cadillac. Non altrettanto confortevole è la mia sistemazione a
bordo.
Forse saprete che il 79 aveva a tergo dei due piloti una specie di gobba; l'apparecchio veniva
infatti chiamato il « gobbo maledetto ». Ebbene, dentro la gobba c'ero io; in piedi, come del resto
in piedi dovevo stare anche sul 506, perché solo così potevo sbirciare obliquamente verso il
basso, sulla superficie del mare.
Davanti avevo i due piloti affiancati e, per fortuna, potevo tener d'occhio le loro bussole; la carta
di navigazione la tenevo appoggiata al palmo della mano o alla schiena di uno dei piloti. No, non
era una sistemazione di prima classe! In compenso non mancava l'aria pura! L'ordine era di
percorrere la rotta che congiunge Capo Teulada con le Baleari. Essendo il tempo limpidissimo
voliamo ad alta quota per aumentare l'ampiezza di controllo visivo. Così dall'alto la superficie
del mare ha un aspetto quasi lattiginoso, ma per un occhio esercitato le scie di navi si vedrebbero
come biscioline sottilissime e bianche.
E avanti così per un paio d'ore. Ad un certo momento mi pare che la superficie sottostante abbia
un colore che tende al rosa; non mi ci vuol molto a rendermi conto che sto da qualche minuto
navigando sulle Baleari; un vento in coda assolutamente imprevedibile, mi ha fatto correre quasi
come un caccia!
Zitto e mosca, dico al 1° Pilota che possiamo invertire la rotta e tornare verso la Sardegna, senza
specificare che abbiamo navigato per qualche minuto su territorio neutrale; per fortuna si tratta di
una neutralità, quella spagnola, non solo benevola, ma anche disarmata.
Avessi tardato ad accorgermi che ero su terra e non su mare avrei forse raggiunto le coste della
Spagna; ed allora sì, avrei fatto crollare il prestigio delle tanto apprezzate quindicine!
Il giorno dopo altra ricognizione strategica coi 79. Il primo pilota è il S. Ten. Trinchero; durata
del volo 5 ore esatte. Così pure il giorno appresso col 1° Pilota Ten. Costa.
Nessun cattivo incontro … per fortuna.
Finito il ciclo ed essendo la flotta Inglese rientrata a Gibilterra, ci rispediscono a Taranto senza
nemmeno un grazie; almeno le prostitute lucrano « marchette » convertibili in denaro sonante.
Poco prima di scavalcare la Calabria avvistiamo in mare un grosso motoscafo: sulla coperta, a
prora, ha distesa una bandiera britannica; a poppa ha, ben rizzato, un battellino. È assolutamente
immobile. Un po' per curiosità e un po' per rompere la monotonia del volo, cominciamo a girargli
intorno. Nel nostro intimo speriamo che a bordo vi sia qualcuno; essendo il mare come l'olio
potremmo ammarare e, sotto la minaccia della temibile 12.7, fare qualche prigioniero; sarebbe
proprio una bella avventura. Ma nessuno appare. Nemmeno una sventagliata di mitraglia spinge
qualcuno a farsi vivo.
Allora, alquanto delusi, crivelliamo il motoscafo di colpi finché vediamo levarsi un denso fumo a
poppa. Proseguiamo il viaggio con l'aria di bimbi a cui sia stato negato un piacevole
divertimento.
Era destino che dovessi restare con la mia curiosità inappagata: che ci faceva lì quel motoscafo?
Sul libretto trovo anche scritto: « Scarica su due di essi ». Sarà vero; però non credo sia stato
questo a metterli in fuga; il fatto è che andavano molto più forte di noi e forse non avevano
tempo da perdere.
Parlare di volo in formazione per dei ricognitori, può sembrare un'eresia. La solitudine è infatti la
maledizione del ricognitore; per ore e ore vola sul mare solo, assolutamente solo. L'unico mezzo
che potrebbe creare almeno l'illusione di non essere abbandonato da Dio e dagli uomini, la radio,
gli è precluso in maniera drastica: la radio si usa solo per segnalare la scoperta di navi nemiche.
Quindi troverete un po' strano che a me sia accaduto di volare in formazione con altri sette
apparecchi; non a lungo ma per un paio di memorabili minuti. Eseguivo la solita R. 25 col Ten.
Bertoni ai comandi. Ci si portava costa costa fino a Crotone e di qui si prendeva il mare aperto
fino al 35° parallelo; poi ritorno con rotta spostata di 20-30 miglia.
Fino a Crotone si navigava a nervi rilassati magari invidiando chi poteva concedersi qualche
bagno nelle magnifiche spiagge della Calabria.
Stavolta arrivati quasi sopra Crotone, osserviamo qualche nuvoletta e molto polverone nei pressi
di una piccolissima fabbrica; non mi sono mai preoccupato di chiedere che fabbrica fosse; direi
un forno da calce; in ogni caso nulla che fosse degno dell'attenzione della R.A.F.
Ad un certo momento, quando già dirigevamo verso il mare aperto, ci vediamo circondati da
numerosi apparecchi insieme ai quali proseguiamo per un paio di minuti da buoni amici; poi gli
intrusi, dotati di maggior velocità, ci lasciano indietro e possiamo contarli con tutta calma. Sono
7, direi del tipo Bristol Blenheim.
Mi vien fatto di pensare che, per quanto poco valesse il nostro 506 di legno, certo valeva di più
della fabbrichetta di Crotone; ma il loro errore di giudizio per me andò benissimo. Il resto del
volo lo facemmo in solitudine, come al solito.
Esplorazioni e rifornimenti
Si susseguono giorni con missioni quasi giornaliere ma senza storia. Di nuovo con Floré, il
chirurgo, facciamo una R. 24 con ammaraggio, dopo sei ore, ad Argostoli. Il giorno appresso
torniamo a Taranto carichi di qualche latta d'olio per le varie mense.
Con l'olio della Grecia, i tacchini di Alberobello, qualche vitello macellato clandestinamente, il
pesce pescato in abbondanza dagli Avieri-pescatori, le mense erano abbastanza ben rifornite; il
grande privilegio dell'Aereoporto era quello di possedere un furgoncino autorizzato a circolare,
che batteva le campagne circostanti; infatti si può dire che la crisi alimentare era più dovuta alla
carenza di trasporti che alla scarsezza di derrate. Forse non tutto era in regola, ma lo diventava
con qualche pacchetto dato in omaggio alle principali autorità. Ivi compreso il Federale che, pur
infuriato perché costretto ad una vita di « imboscato », doveva mantenersi in forma nella
speranza di futuri impieghi gloriosi. Non è escluso che fosse in buona fede.
Con partenza alle 6,30 faccio la solita ricognizione R. 25. Questa volta il primo Pilota è un
parigrado, il Cap. Pritoni. La missione dura circa sei ore e non presenta nulla di speciale; salvo
che non si voglia considerare cosa un po' fuori dell'ordinario il fatto che, ancora col boccone in
bocca, mi trovo nuovamente su un 506 pronto a riprendere il volo col S. Ten. Vessellizza. Si
imbarca con me anche il mio caro amico Ubaldo Bernini; noi due insieme formiamo la
« quindicina ». La destinazione l'avete già indovinata: è Elmas, salvo proseguimento per
Decimomannu. Ore di volo nove abbondanti.
***
Il giorno successivo, il 28, il Capo Osservatore di Elmas, non ricordo chi fosse, ebbe il buon
gusto di lasciarci a riposo, sia io che Bernini. Non ricordo giorno più triste in tutta la mia vita:
apprendiamo infatti che il nostro Capo Osservatore Massimo GAETA è stato abbattuto dai
Fulmar dell'Ark Royal; con lui perisce il Ten. SAVINO ed il resto dell'equipaggio.
Povero Gaeta, per te è stata fatale la tradizione che imponeva che il prestigio ogni
Capo-Osservatore se lo fabbricasse portandosi sempre in prima linea al momento del pericolo.
Questa norma non appariva nel tuo « buscidò », forse perché spesso contrastava con l'altra che
imponeva di fare subito, al rientro, la relazione di volo. Rispettando la prima non potesti
rispettare la seconda.
Non regnava certamente serenità nella saletta Osservatori dove ci trattenemmo tutto il giorno.
Vero è che Bernini faceva qualche tentativo sulla mia fisarmonica per distrarre l'attenzione dal
triste evento, ma i risultati erano mediocri; tanto più che il suo repertorio si limitava ad un
bellissimo tango « Gelosia »; non triste ma nemmeno allegro.
Quindi quando dico che il 28 fu un giorno di riposo debbo aggiungere che fu un riposo pieno di
ansie. Perché quando una portaerei era in mare (questa volta era l'Ark Royal) i mancati rientri
erano all'ordine del giorno.
Ieri 27 era stata la volta di un equipaggio della 287a Squadriglia: S. Ten. di Vascello
MAJORANA e T. Pil. Del Vento (5). Dettagli su queste scomparse in mare si apprendevano solo
quando c’era qualche superstite e sempre con molti giorni di ritardo.
Ma l'annuncio di una tragedia era scandito spietatamente dall'orologio quando, superato il tempo
di autonomia, non si vedeva rientrare l'apparecchio all'ammaraggio.
Poteva essere considerato una fortuna il fatto che le perdite subite da altre basi nello stesso ciclo
operativo venissero apprese con giorni o settimane di ritardo, perché questo diluiva nel tempo il
loro effetto deprimente. Ma questo effetto-ritardo era solo in parte concesso a noi delle
« quindicine » in quanto, spostandoci da un Aereoporto all'altro, avevamo modo di fare una
raccolta di tutte le cattive notizie: nostre e dell'Armata Aerea.
Finalmente questa giornata di ansioso riposo volse al termine.
Appena cenato pensai bene di andarmene a letto per esser pronto ad eventuali chiamate del
mattino. Mi fu assegnato come posto letto una brandina in un piccolo locale dove ero il solo
occupante. Nonostante le incognite che il giorno dopo avrebbe potuto riservare, mi addormentai
subito.
Verso le quattro di mattina sentii squillare un campanello proprio alla sinistra del mio giaciglio;
era un telefono da campo e mi venne istintivo prendere in mano la cornetta; ero certamente, un
intruso, ma non potei fare a meno di ascoltare; in fin dei conti ero un interessato, e come! Era un
colloquio fra il Colonnello Comandante dei Reparti da Ricognizione Marittima di Elmas e il
Capo Ufficio operazioni del Comando Marina di Cagliari.
Il primo era il Col. Moscone, bella figura di gentiluomo vecchio stile; proveniva dalla cavalleria
e ne portava il marchio inconfondibile; era romano e si sentiva. Il secondo, l'ufficiale di Marina,
non sapevo chi fosse né pensai di informarmi: l'accento volgeva al siciliano. Il colloquio si
svolgeva in questi termini:
Ufficiale di Marina: « Occorre far partire all'alba più apparecchi possibile per rintracciare la
Squadra inglese. »
Ufficiale d'Aviazione: « Che li mandiamo a fare al macello questi poveri 506 dal momento che la
nostra Squadra non si è mossa e adesso, anche se volesse, non potrebbe raggiungere la Squadra
inglese che, non lo scordare, ha una Portaerei. »
Ufficiale di Marina: « Si, ma è di somma importanza per la Marina sapere... »
Dopo aver insistito per un paio di volte ognuno sul suo punto di vista, alfine ecco la botta
segreta:
Ufficiale di Marina: « Forse c'è nell'aria un po' di paura... »
A questo punto avrei voluto inserirmi nel duetto: « Paura, ma che paura; fifa, fifa blu! »
Infine, per troncare la discussione il Colonnello dice: « Domani mattina, alle prime luci, partiamo
io e te con un 506 ».
Il vecchio Ufficiale di Cavalleria non si smentiva. Non so cosa accadde il mattino dopo; so di
certo che io non fui impiegato e non potrei dire che la cosa mi dispiacque; la telefonata
intercettata di primo mattino non mi aveva di certo « dato la carica ».
Tutta la mattinata e parte del pomeriggio li trascorro nella saletta riservata agli Osservatori; per
fortuna annessa alla saletta c'era una toilette; perché devo dirvi che il mio personale tallone di
Achille aveva deciso di risvegliarsi proprio in questi giorni.
Tallone o non tallone, alle prime ore del pomeriggio parto in auto per Decimomannu.
29/9 - Volo di notte
È chiaro che non solo la Marina, ma anche l'Aviazione nutre una fiducia cieca nella acutezza
visiva degli Osservatori, queste prostitute dell'aria.
Mi inviano a cercare la Squadra inglese «di notte ». È vero che questa volta si tratta di cercare
una Squadra e non un singolo sommergibile; ma, detto fra noi, le probabilità di esito positivo
anziché essere una su un miliardo saranno due su un miliardo, cioè sempre insignificanti.
C'era una lontana possibilità sulla quale l'Alto Comando forse faceva assegnamento: che la
Squadra inglese si mettesse a sparacchiare contro il nostro... rumore. Eventualità possibile solo
nell'ipotesi che gli Inglesi fossero dei fessi; cosa di cui non abbiamo, a tutt'oggi, nessuna prova.
In ogni modo, sempre per il principio che gli ordini sbagliati si eseguono (e come!), vengo
impacchettato in una macchina che da Elmas mi porta a Decimomannu. Qui arrivato trovo
un'atmosfera pesante; il più alto in grado col quale mi è dato mettermi in contatto è un Tenente
Pilota.
Immersi nel buio più assoluto alcuni edifici che, evidentemente, facevano parte di una vecchia
masseria, sono adesso adibiti a Comando e mense varie. Il Tenente Pilota gentilmente mi procura
qualcosa da mangiare e nel buio quasi completo mi racconta la tragedia di due giorni avanti.
Usando il gergo degli Aviatori si è trattato di una « sdrumata » che ha letteralmente decapitato e
decimato il 36° Stormo. Questo Stormo era da pochi giorni giunto a Decimomannu credo da
Bologna.
Era schierato su due gruppi, il 108° ed il 109°. Era dotato non di S. 79 ma di S. 84, un successore
che in verità rappresentava un regresso rispetto al vecchio « gobbo maledetto ».
Circa alle ore 12 del 27 Settembre un convoglio proveniente da Gibilterra dirigeva verso Malta.
A quell'ora si trovava circa all'altezza dell'isoletta di La Galite. È inutile dire che tutti questi
giovani fremevano al pensiero del battesimo del fuoco; non è escluso sottovalutassero il pericolo
costituito dalla presenza di una portaerei. Una prima pattuglia del 108° gruppo attacca quasi con
incoscienza e la fortuna la assiste; non così accade per la seconda pattuglia di tre unità.
L'apparecchio di testa viene addirittura colpito a grande distanza e si abbatte sul gregario di dritta:
gli Inglesi hanno anche la fortuna dalla loro!
Ed ecco avanza il 109° Gruppo, col Comandante di Stormo in testa; i due Comandanti di
Squadriglia sono uno sulla destra ed uno sulla sinistra. Tutti e tre vengono abbattuti dalla Caccia
avversaria. (Col. SEIDL, Cap. TOMMASINO, Cap. VERNA).
Non sono sicuro di ricordare con esattezza nomi ed avvenimenti; facile mi sarebbe consultare
qualche documentazione, ma allora questo non sarebbe più un diario basato esclusivamente sulla
mia memoria.
Quello che ricordo con certezza è che il più elevato in grado con cui fui in contatto fu un Tenente.
Mi sovviene anzi un dettaglio; ad un certo momento, poco prima della partenza, mi fece vedere
una fotografia di una corazzata nemica: dovetti deluderlo; non era una corazzata ma un
cacciatorpediniere: ma per fare una fotografia così da vicino in un bolgia di fuoco ce ne voleva
del fegato!
Purtroppo non ho annotato il nome di questo Tenente. Mai pasto fu per me così triste; tanto più
che tra non molto avrei dovuto partire in volo; questa volta a lottare non con la caccia nemica,
per fortuna, ma col buio, nemico altrettanto temibile, a quei tempi.
Uscito dalla mensa vedo un capannello di giovani Ufficiali; in mezzo a loro un Ufficiale di
Marina di grado elevato (mi pare Capitano di Vascello) sta parlando della sua attività di scrittore
di cose militari. Sento che dice che scrive circa mille pagine all'anno e, ciò nonostante, trovai
anche il tempo di fare un po' di sport e di giocare a bridge.
Mi allontano pensieroso e mi chiedo: « Chissà se nelle mille pagine di quest'anno potrei trovare
qualche suggerimento per ritrovare la strada di casa questa notte. » Viene finalmente l'ora della
partenza; mi informo sull’assegnamento che si può fare sull'anemometro e sulle bussole. Non oso
chiedere se sono stati fatti di recente i « giri di bussola » per non mettere in imbarazzo il 10
Pilota; d'altronde vi ho già detto che, in tempo di guerra, non c'era modo né tempo per farli.
Quindi non resta che confidare nello « stellone ». Dopo il decollo qualche minuto di navigazione
sugli stagni di Cagliari; poi rotta verso Capo Spartivento e quindi via verso il mare aperto e buio;
la rotta è, o vorrebbe essere, sud-sudovest, bussole e vento permettendo. Per un senso di onestà ci
teniamo piuttosto bassi, sotto i 1000 metri, sebbene le probabilità di vedere il nemico siano nulle
in tutti i casi ed a qualsiasi quota. Il mio posticino, come al solito, è dentro la gobba, all'aria
aperta; è d'altronde l'unico posto da cui si può sbirciare obliquamente verso il basso.
Me ne sto in piedi alle spalle dei due piloti che siedono affiancati e posso agevolmente tener
d'occhio le loro bussole e, alla luce azzurra che le illumina, seguire sulla carta la navigazione.
Quello che non ricordo è dove si fosse ficcato l'armiere che normalmente occupava il mio posto;
forse era accucciato ai miei piedi come un cane fedele.
Sempre con rotta verso l'Africa trascorre circa un'ora e mezza. Ma ora comincia a farsi strada
nella mia mente una preoccupazione: se non vedo la linea della costa, come si presenta l'interno
dell'Africa? Montuoso, collinoso, pianeggiante?
Perché dovete sapere che la nostra carta regolamentare di navigazione riportava solo i contorni
delle coste; nulla che riguardasse l'interno; né monti, né colline né vallate. Direi quasi che erano
più accurati gli antichi Romani che scrivevano sull'Africa: « Hic sunt leones »; sulla nostra carta
nemmeno quello.
Ricordavo vagamente che dal Marocco fino al confine tunisino si estendeva una catena quasi
ininterrotta di montagne: il grande Atlante ed il piccolo Atlante; ma quali fossero le quote da
temere proprio non sapevo.
Così stando le cose, ed essendo ormai prossimi, almeno secondo le mie stime, alle coste
dell'Africa, mi accingevo a concordare col Pilota un bel dietro front; ma non ce ne fu bisogno
perché un ben accetto ordine di rientro pervenne via radio.
Ora avevamo una buona ora di navigazione tranquilla, prima che si presentasse il problema di
avvistare in tempo la Sardegna e di abbordarla per il verso giusto. È strano come in certi casi un
rinvio anche di una sola ora sembri sdrammatizzare qualsiasi preoccupazione. Passata un'oretta
comincio a scrutare nel buio sperando di vedere in tempo le montagne dell'Iglesiente; non vedo
le montagne ma vedo dei fuochi circa alla nostra quota che mi chiariscono sufficientemente le
idee: benedetti quei carbonari o quei pastori che avevano acceso quei fuochi!
Ora tutto è più facile; piccolo spostamento ad est e poi dritti sugli stagni di Elmas.
A questo punto interviene un qui-proquo più buffo che pericoloso: proprio nello stagno di Elmas
è acceso un bel sentiero luminoso. Il 1° pilota me lo indica ed accosta decisamente a dritta; gli
grido nell'orecchio che non è quello il nostro sentiero: quello è sull'acqua; il nostro è più a
nord-ovest, tre o quattro minuti di volo.
Ed infatti eccoci finalmente a Decimomannu dove ci attende una bella pista di terra battuta.
L'atterraggio non .è perfetto ma sempre meglio di quello che stavamo per fare... sull'acqua.
Così ha termine questa strana avventura notturna che brilla nel mio ricordo per la sua assurda
stupidità. Non posso a meno di rievocare con commozione i festosi segni di gratitudine da parte
dell'equipaggio, sebbene la coscienza mi dicesse che quando uno ha fatto con cura, con
« pignoleria » quanto possibile in relazione ai mezzi allora disponibili, il resto è merito della
fortuna … dello « stellone ».
30/9/1941 - Tentato rientro
Il giorno 30 circa alle 13 viene per noi l'ordine di rientrare a Taranto, evidentemente il ciclo
operativo della nostra « quindicina » è esaurito. Ci imbarchiamo, io e Bernini sul 506 che ci
aveva trasportato ad Elmas. Purtroppo è impossibile scavalcare la Calabria; piovaschi
violentissimi si estendono da 3.000 metri di quota fino al livello del mare. Non resta che rientrare
ad Elmas ed attendere che il tempo migliori.
Analoga situazione si presenta il giorno due ottobre; i piovaschi sono addirittura aumentati di
violenza. Ma non è questo il peggio: il fatto è che assieme ai piovaschi io personalmente debbo
affrontare il più violento attacco di colite che io ricordi, senza poter disporre di nulla di adatto
alla bisogna (perché al femminile? Mah!).
Il volto impallidisce; a nulla serve stringere i denti. Come un animale ferito mi trasferisco a
poppa estrema. Per fortuna Bernini mi sostituisce validamente. A poppa rifletto, sempre a denti
stretti, sul da farsi; ma la fantasia non è di grande aiuto; forse mi manca la concentrazione...
Però, pensandoci bene, una di quelle scatole cilindriche di cartone con all'interno un fuoco Very
è meglio che niente. Detto fatto: la castagnola contenuta nel Very la disattivo e poi... non entro
nei dettagli.
Nel frattempo i piloti a proravia nonché Bernini danno segni di irrequietezza, ma non me ne curo:
ho altro da pensare! Perché, cosa me ne faccio ora di questo barattolo di cartone colmo di
sostanza nauseabonda? A prima vista il problema sembra insolubile; per fortuna posso riflettere
con calma, perché in mezzo a questi piovaschi è ben difficile si aggiri la caccia nemica.
Finalmente ecco la luce! il foro della macchina fotografica! Chiuso da una lamiera a ghigliottina
vi era a poppa un foro circolare sul quale poteva essere applicata una macchina fotografica per
riprese planimetriche. Il diametro sembra studiato su misura; non mi resta che aprire e lanciare il
bussolotto. C'è una piccola complicazione; il foro è ubicato in un punto di alta pressione
aereodinamica e quindi un violento soffio d'aria entra dal foro nell'interno; pazienza, non si può
avere tutto.
Con decisione lancio il bussolotto e richiudo fulmineamente la ghigliottina.
Il più è fatto; nessuno dell'equipaggio è svenuto… insomma tutto bene. Ma il tempo è infame e
prudenza vuole che si faccia ritorno ad Elmas.
Dopo l'ammaraggio e l'ormeggio saliamo sul motoscafo che ci porterà al pontile; l'equipaggio è
inspiegabilmente allegro, anzi esilarato; tutti guardano verso il foro della macchina fotografica e
sghignazzano: ne hanno un ottimo motivo! Dal maledetto foro parte una decorazione color
marrone che raggiunge l'estrema coda.
E eseguita a regola d'arte da un infallibile pennello aereodinamico.
Non credo che alcuno si sia mai curato di cancellare questo fregio di nuovo genere e di colore
anomalo. Tanto, o prima o dopo, ci avrebbe pensato il mare!
Rientro triste
Non ricordo a chi debbo essere grato se, sostituendomi, mi consentì di fruire di una meritata
licenza. Forse la mia riconoscenza va al T.V. Pensa o forse al T.V. Buggi.
Lo scopo di una licenza dovrebbe essere quello di ritemprare le forze e ravvivare il morale. Ma la
realtà è ben diversa. Perché l'affrontare il pericolo è anche una questione di esercizio;
l'interruzione va a tutto detrimento di quella rassegnazione che solo l'esercizio quotidiano aiuta a
raggiungere e tener viva.
Il trascorrere anche soltanto quindici giorni nel tepore della propria casa, nell'ozio più assoluto,
intento solo a giocare con la propria bambina, spiando i segni ormai vistosi dell'arrivo del suo
fratellino, richiama prepotentemente alla vita, ai suoi valori più belli, a quello che si perderà se in
un giorno di sfortuna accadrà di incappare in un aereo nemico più veloce, più armato più
maneggevole del mio cassone con due ali di legno.
Quindi spero non vi scandalizzerete se vi dico che al mio rientro in squadriglia, dopo tanti ma
così brevi giorni trascorsi nella mia città appena sfiorata dalla guerra, vicino alla mia bambina
che conta ormai un anno e mezzo, io sento vacillare in me il coraggio e la fiducia nella mia
fortuna. Troppe volte sono stato favorito in maniera sfacciata dalla Dea bendata: sento che non
può durare.
I bei sonni ristoratori che erano uno dei pregi della vita aereoportuale sono un ricordo del passato,
quando prevaleva l'illusione che la guerra durasse solo poche settimane.
Ora l'illusione è crollata e debbo amaramente constatare che non vi è proprio nulla in comune fra
me ed il famoso Principe di Condè; sia perché non sono Principe (non sono neppure Cavaliere,
almeno della Repubblica Italiana), sia perché l'insonnia è ormai la mia compagnia abituale.
La notte prima della ripresa dei voli dopo la lunga licenza non chiusi occhio; fu una notte
interminabile, ma d'altro canto avrei voluto che mai spuntasse l'alba col suo fragore di motori
messi in moto e riscaldati a regimi gradatamente crescenti.
Per fortuna, una volta ripreso nell'ingranaggio, le cose si sdrammatizzano un poco, appena quel
tanto che permetta di presentare ai giovani Guardiamarina un volto se non allegro almeno
leggermente sorridente.
Quella mattina vi erano in programma due ricognizioni indicate convenzionalmente con le sigle
R.24 ed R.25. La prima toccava al G.M. Gandolfi, la seconda a me. Seguendo uno strano
impulso decidemmo di scambiarcele, non senza aver accompagnato il baratto con una
abbondante dose di scongiuri. Erano gli ultimi pietosi tentativi per togliere drammaticità alle
nostre partenze così spesso prive di ritorno.
Dopo di che giù allo scivolo per i preparativi. Controllo se ho con me, nella borsa da avvocato
(avvocato di una causa persa) tutto l'occorrente.
Prima di tutto la carta nautica: perché vi sembrerà strano ma una volta fui catapultato e, una volta
per aria, mi accorsi di aver lasciato la carta nel mio camerino! Per fortuna ero in Adriatico che è
quasi un mare interno.
E poi il codice «M» di procedura R.T.
E poi il codice S.M. 43, quello con la copertina di piombo che in alta quota sembrava pesare una
tonnellata. E infine la tabellina di sopracifratura, stando bene attento che sia quella valida per la
data odierna, 20 Novembre. E poi un libercolo con le sagome caratteristiche degli apparecchi
nemici (di qualche anno prima), quasi fosse importante sapere come era fatto l'aereo che ti
avrebbe assalito e forse abbattuto.
Infine le sagome delle principali navi inglesi presenti nel Mediterraneo.
La matita è legata al collo, come si fa per il ciucciotto dei bambini, perché altrimenti dopo pochi
minuti l'avrei persa nel pagliolato. E poi l'inseparabile binocolo.
***
***
Il decollo risulta assai lungo data l'assenza di vento ed il forte carico di carburante; segue la solita
mezz'ora di volo lungo la costa della penisola salentina e poi via verso il mare aperto.
Quasi due ore trascorrono così senza storia; il bravo Bartolazzi ne approfitta per fare esercizio di
navigazione « alla bussola ».
Come al solito sono in piedi di fianco al 1° Pilota, perché questa è l'unica posizione che mi
consenta di scrutare verso il basso col mio binocolo.
Ormai il volo ha ripreso la monotonia opprimente di tante centinaia di ore tutte uguali, tutte tese
alla ricerca di quella sottile traccia bianca sul mare che indichi la presenza di una nave.
È strano come la continuità del rumore, la vibrazione che dalle gambe si propaga in tutto il corpo,
la concentrazione dello sguardo negli oculari del binocolo portino ad uno stato di quasi ipnosi;
tutto è teso alla ricerca della strisciolina bianca sul mare, tutto il resto non esiste.
Ecco perché un grido dell'armiere, l'unico che dalla torretta ha una buona visibilità, non provoca
nessuna reazione da parte mia.
Ma poi sono costretto a svegliarmi dall'ipnosi perché l'armiere, venutomi vicino, grida eccitato:
« abbiamo un apparecchio in coda! »
È il momento della verità, atteso per centinaia di ore, nella solitudine fra cielo e mare.
Ora si vedrà se una mitragliatrice sola riuscirà ad imporsi a sei mitragliatrici avversarie; se questo
accadrà sarà merito esclusivo del piccolo siciliano, umile aviere di governo.
Naturalmente gli dico di tornare in torretta e di sparare, sparare... Cosa altro potrei dirgli?
Perché la nostra sopravvivenza è affidata ad un'unica arma, per fortuna temibile, e ad un ragazzo
che fino a poche settimane fa era inserviente di cucina.
Per un breve istante riesco a vedere l'avversario; si tratta di un bimotore che avanza velocissimo
tenendosi esattamente sulla linea della nostra coda; se questa astuzia gli riesce il piccolo siciliano
non potrà neppure sparare, perché colpirebbe i nostri piani ,di coda.
Ma l'astuzia non riesce sia per la non grande perizia dell'avversario sia perché il bravo Franchini
« sente » qual è l'intenzione del nemico e con improvvisi cambiamenti di rotta lo spiazza sulla
destra o sulla sinistra della nostra coda, lasciando campò libero all'armiere. Sta di fatto che il
nostro bravo armiere comincia a sparare per primo; ed è giusto che sia così perché la nostra arma
singola ha un calibro maggiore e quindi una gettata maggiore.
Purtroppo dopo pochi secondi comincia il fuoco dell'avversario: è chiaro che ha le solite sei
mitragliatrici « in caccia » e le usa senza risparmio.
Per dare un'idea della mia impressione visiva del tiro avversario dirò che sembrava di essere
davanti alla mola dell'arrotino; ogni striscia luminosa un proiettile tracciante. Esaurito l'attacco
l'avversario ci supera sulla destra, quasi a contatto d'ala: ho modo di vedere benissimo il pilota
perché il lungo muso del bimotore è vetrato; aveva un caschetto rosso scuro e mi parve che
facesse un segno di saluto col braccio sinistro.
Che il gesto fosse poi a mano aperta in segno amichevole o a pugno chiuso in segno di scherno,
proprio non saprei dire; anche fosse vera la seconda ipotesi, non avevo proprio tempo per
avermene a male (6).
Quello che colpisce, oltre le pallottole, è il brevissimo intervallo che corre fra un attacco nemico
e il successivo: solo pochi secondi. Bisogna dire che questo bimotore goda di una
maneggevolezza sorprendente; al punto che si fece strada nella mia mente il non allegro sospetto
che gli attaccanti fossero due che si alternavano al tiro al bersaglio.
Credo che sia stato dopo il terzo attacco che l'Armiere abbandonò per un momento la sua torretta
e mi disse, mortificato quasi fosse sua colpa: « Comandante, sono ferito ».
Non mi sembrò vi fosse nulla di grave; sulla guancia sinistra aveva come tre colpi di scudiscio,
non molto profondi. Non potei altro che incitarlo a riprendere il suo posto e sparare, sparare
senza interruzione, a costo di esaurire le munizioni.
Nel frattempo il bimotore nemico continuava la sua esercitazione di tiro al bersaglio. Credo che i
suoi attacchi siano stati cinque o sei. Il settimo attacco non arrivò. Almeno in via provvisoria il
combattimento era cessato.
A Dio piacendo eravamo tutti incolumi, almeno come persone. Non così si può dire
dell'apparecchio che era sforacchiato un po' dappertutto con preferenza per le due ali, perché il
bravo Franchini, coi suoi sculettamenti, aveva impedito che ci prendesse d'infilata nello scafo.
Le antenne unifilari della radio erano strappate e frustavano l'aria.
Nonostante ciò dissi a Lippolis di trasmettere un S.O.S., sebbene fossi più che certo che nessuno
lo avrebbe ricevuto.
Ad un certo momento vidi in basso, ormai a pelo d'acqua, un aereoplanino che, data la differenza
di quota, sembrava piccolissimo; fu la visione di un istante, ma fu sufficiente per farmi tirare un
sospiro di sollievo: uno dei due era mille metri sotto di noi e probabilmente aveva altro da
pensare che rifare quota per tornare all'attacco. Il secondo avrebbe potuto insistere, ma non lo
fece perché... non c'era. L'attaccante era uno solo. Per quasi quarant'anni ebbi a chiedermi se
questo aereoplanino che stava per fare un tuffo in mare era stata un'illusione ottica od una realtà.
Era, come narrerò, una realtà.
***
Un primo esame della situazione non portava a conclusioni pessimistiche. Le antenne radio erano
spezzate, ma i motori funzionavano regolarmente; in fin dei conti bastava una ventina di minuti
di volo per raggiungere la costa della Grecia o di qualche isola dello Jonio.
Gli attacchi erano cessati; un apparecchio nemico era sparito in basso ed una picchiata così
rapida faceva sperare che avesse qualcosa di grave e quindi non potesse più rappresentare per noi
un pericolo. Per quanto riguardava il personale: I due piloti erano indenni forse per merito di uno
scudo protettivo da poco istallato a loro protezione alle spalle del secondo pilota.
L'Armiere aveva le sue scudisciate sulla guancia, ma non si trattava di nulla di grave.
Il Marconista era ferito, ma in modo lieve al petto e sotto un occhio.
Il Motorista Traversa appariva indenne.
Un bilancio tutto sommato non tragico.
Però... una cosa strana si manifestava lungo l'ala sinistra; una striscia nera, quasi fosse verniciata,
si stendeva sulla parte superiore dell'ala, in senso assiale. Dentro di me pensavo (e mi auguravo)
che fosse una perdita di olio da un serbatoio perforato; nella peggiore delle ipotesi avremmo
dovuto fermare il motore di sinistra causa grippaggio. Già altra volta ero rientrato con due soli
motori, e non dopo pochi minuti, ma diverse ore di volo.
Ma un dubbio mi tormentava: e se quella striscia nera era fumo da incendio e non perdita d'olio?
Con tremila litri di benzina a bordo la situazione sarebbe stata proprio senza speranza.
***
E dopo pochi secondi ecco, purtroppo la terribile realtà: Con un « ploff » cupo cede tutta la
parete in legno compensato sul fianco sinistro del secondo pilota; nello squarcio si vedono
fiamme crepitanti: un gigantesco forno.
Il bravo Bartolazzi, ancorché indenne, perde la testa alla vista di quelle fiamme; forse memore
degli insegnamenti ricevuti ai terrestri indossa il paracadute e sembra deciso a lanciarsi. A nulla
serve fargli segno con la mano che stiamo per ammarare.
Nel frattempo Franchini agiva sugli estintori tirando quei pirulini rossi che per centinaia di ore
avevo adocchiato sperando che mai venisse il momento di adoperarli.
Forse furono proprio loro, quei pirulini rossi, ad evitare che l'incendio si tramutasse in una
esplosione. Franchini, fermo al suo posto, con una picchiata decisa, tentava l'ammaraggio, unica,
tenue speranza per tutti noi.
Purtroppo Bartolazzi volle a tutti i costi lanciarsi col paracadute; per quanti sforzi abbia fatto
negli anni successivi, non riuscii mai a ricostruire quando e come si lanciò; non certo dal portello
di poppa che all'atto dell’ammaraggio era ancora chiuso; forse da un tettuccio fracassato e volato
via.
A parte questo episodio di perdita di controllo, gli altri membri dell'equipaggio si comportarono
con grande freddezza.
Al primo posto debbo mettere il Pilota Franchini che effettuò un ammaraggio perfetto nonostante
fosse ormai avvolto dal fumo e lambito dalle fiamme. Quando, ad ammaraggio effettuato, mi
spostai verso poppa, vidi che i tre ragazzi, Norma, Traversa e Lippolis, avevano con la massima
compostezza indossato i salvagenti e preparato il battellino di salvataggio nei pressi del portello.
Tanta serenità da parte di tre ragazzi che, come potei constatare poco dopo, non sapevano
neppure nuotare, è per me motivo di grande ammirazione.
Quando la velocità di ammaraggio era quasi smaltita il bravo Lippolis fece saltare il portello
agendo sul dispositivo di sgancio di emergenza.
Lanciammo in acqua il battellino ancora confezionato nel suo involucro; poi saltarono i tre avieri
a breve intervallo l'uno dall'altro.
Quando con la coda dell'occhio vidi Franchini abbandonare il volantino ed alzarsi dal suo sedile,
mi lanciai io stesso. Il colpo di freddo che provai al contatto con l'acqua fu terribile; ebbi chiara
la percezione che solo pochi minuti avremmo potuto resistere in quell'acqua gelida.
Essendoci lanciati in acqua con apparecchio ancora in moto, risultammo scaglionati ad una certa
distanza l'uno dall'altro; io, in particolare, ero assai distanziato dai tre Avieri.
Quando li raggiunsi li trovai riuniti attorno al battellino. Si trattava ora di estrarre il battellino dal
suo involucro: questo rappresentò un primo motivo di sgomento.
La chiusura dell'involucro era realizzata con un sistema simile all'allacciatura delle scarpe: tanti
fori ed una spighetta incrociata che passava da un foro all'altro per una lunghezza di un metro e
mezzo. Credo che solo per liberare il battellino dal suo involucro siano occorsi più di venti
minuti.
Una volta estratto il benedetto battellino, mi resi conto che era veramente microscopico; era si e
no capace di sostenere due o tre persone. Il sistema di gonfiaggio, poi, era assolutamente
primordiale; era costituito da un comune soffietto di quelli che un tempo usavano i nostri avi per
ravvivare il fuoco.
Ma la grossa delusione venne quando si trattò di innestare la parte terminale del soffietto nel
bocchettone femmina posto sul fianco del battellino.
All'interno del bocchettone vi era una molla che spingeva in fuori un dischetto che assicurava la
tenuta all’acqua prima e dopo il gonfiaggio: giustissimo. Ma per innestare il terminale del
soffietto bisognava vincere la maledetta molla.
Bene, dopo due o tre tentativi via via più disperati mi resi conto che lo sforzo che potevo
realizzare con le mie braccia non era nemmeno lontanamente sufficiente a comprimere la
maledetta molla.
Un dubbio, che fu subito certezza, attraversò fulmineamente il mio cervello ed ebbe l'effetto
paralizzante di una pallottola: « Quel tipo di battellino era stato collaudato a terra, quando il fatto
stesso di poggiare sul solido permetteva uno sforzo con le braccia molto superiore a quanto
poteva realizzare un povero diavolo immerso in acqua e privo di punti di reazione ».
Perché questo dubbio divenne così rapidamente certezza? Perché ero sicuro che nessuno, in
passato, aveva voluto rendersi conto di persona se questo fagotto, buttato in un angolo dello
scafo servisse o no a qualche cosa.
Facevo infatti credito ai colleghi dell'Aereonautica di entusiasmo e coraggio da vendere ma non
di quella « pignoleria» per la quale, almeno ai miei tempi, gli Ufficiali di Marina erano
tristemente famosi.
Ma poiché la speranza è dura a morire, volli fare ancora un tentativo una volta liberatomi della
tuta che faceva « pallone » e delle scarpe.
Per far questo fui costretto ad affidare il soffietto ad un Aviere, mi pare Lippolis.
Ero quasi alla fine della svestizione quando sentii un urlo disperato; era Lippolis: « Signor
Tenente, mi è sfuggito di mano il soffietto! » « Non ti preoccupare, risposi: siccome certamente
galleggia lo ritroverò appena libero nei movimenti ».
« No, signor Tenente, il soffietto va a fondo ». Incredulo mi tuffai e lo vidi ormai alla profondità
di cinque-sei metri; affondava lentamente.
Forse arrivai a mezzo metro dal raggiungerlo, ma i miei polmoni scoppiavano e non riuscii ad
afferrarlo.
Una seconda immersione, dopo ripreso fiato, venne da me effettuata, ma senza più alcuna
speranza. Ero d'altronde convinto che quel soffietto non sarebbe servito a nulla.
Vorrei che quanti sono preposti a collaudi di oggetti decisivi per la sopravvivenza in mare
provassero, anche salo per cinque minuti, la disperazione che ci colse quando perdemmo
qualsiasi fiducia di poter fare assegnamento sul battellino.
Il radiotelegrafista chiedeva disperato se ero sicuro che il nostro S.O.S. fosse stato captato; io
rispondevo ogni volta affermativamente: ma era una pietosa bugia. Era chiara davanti ai miei
occhi l'immagine dell'antenna unifilare che frustava l'aria, strappata ad un estremo. Mentre
questa tragedia si svolgeva intorno al battellino, l'apparecchio continuava a girarci intorno,
perché il motore di destra era rimasto in moto al regime minimo. Le munizioni della mitragliera
da 12,7, ormai raggiunte dalle fiamme, esplodevano con un fragore sinistro.
Fu quasi una fortuna che fossimo talmente impegnati col battellino da non valutare il pericolo
che costituiva per noi questo enorme falò che ci girava intorno proiettando frammenti infuocati
di cartucce esplose.
Finalmente, dopo tre giri perfetti intorno a noi, il motore di destra si decise a fermarsi ed il falò
cominciò ad allontanarsi verso sud, sospinto dalle onde e dal vento.
Avrei dovuto tirare un sospiro di sollievo, ma non fu così; perché quello che si perdeva verso sud
era un piccolo mondo nel quale avevo vissuto per centinaia di ore; ore non certo serene, ma
ravvivate dal pensiero che dopo la disperata solitudine del mare, sarebbe riapparsa la terra con
tutte le sue cose belle: gli amici, la casa, la mia bambina.
Ormai eravamo proprio soli, tre o quattro uomini con un Comandante in mutande, piccoli puntini
nell'immensità del mare.
Un mare niente affatto benevolo; le onde, non più alte di mezzo metro, sembravano, stando con
la testa a fior d'acqua, molto più alte; e la pioggia non facilitava la visibilità.
Questo spiega come mai, sebbene vicini, ci accadeva di vederci l'un l'altro solo saltuariamente.
Per quanto riguarda Franchini, l'avevo visto alzarsi dal sedile, ma non sapevo se fosse riuscito a
superare indenne la barriera di fiamme che separava il suo seggiolino dal portello di poppa e se
fosse riuscito a lanciarsi in acqua. In verità non sapevo neppure se fosse capace di nuotare,
perché questa era la prima missione che effettuavo con lui.
Non saprei dire quanto tempo restammo uniti attorno al battellino sgonfio; il mio orologio si era
fermato sulle 9,25, ora in cui mi ero tuffato in mare e da quell’istante ogni minuto aveva assunto
la dimensione di ore.
Per un lasso di tempo che mi è difficile definire, i tre ragazzi, pur non sapendo nuotare,
riuscirono a trattenersi vicino al battellino sgonfio che, sebbene inutile, costituiva un punto di
riferimento.
Ma si capiva che stava spegnendosi in loro la volontà di lottare.
Non riuscivano più, causa il freddo, ad articolare le parole.
Mi sembrava di capire che Lippolis ripetesse quasi meccanicamente la domanda: Avranno
raccolto il nostro S.O.S.?
Ma la mia risposta affermativa, mormorata fra il battere dei denti, non poteva risultare credibile.
Poi le onde e il vento cominciarono a piegare le loro volontà che la mancanza di ogni prospettiva
rendeva disponibili alla resa. E i tre ragazzi vennero inesorabilmente trascinati lontano da me,
verso Ovest. Le onde non erano alte; ma poiché io affioravo appena con la testa, esse facevano sì
che già alla distanza da me di una diecina di metri, io li potessi vedere solo ad intermittenza.
Continuai a seguirli con lo sguardo.
Le loro apparizioni sulla cresta di un'onda divennero sempre più distanziate, , fino a che li persi
completamente di vista.
***
***
Solo
***
Sapevo che verso le 16 un altro aereo di Taranto avrebbe percorso la nostra stessa rotta; è per me
un fatto inspiegabile che allora fossi convinto che su quell'apparecchio ci dovesse essere il S.T.V.
Mario MARTINA.
Il poveretto era stato abbattuto, lo appresi in seguito, da più di un anno a Nord di Marsa Matruh.
Sta di fatto che ad una certa ora del pomeriggio udii chiaramente il rombo dei motori, ma non
vidi il nostro apparecchio; le nuvole e la pioggia non consentivano miracoli.
Dopo qualche minuto il rombo svanì verso Sud troncando un filo di speranza tenue come un filo
di ragnatela.
Il tramonto
Ora non ero più solo; un altro corpo umano era avvinghiato al mio e mi trasmetteva, come io gli
trasmettevo, un po' del calore che altrimenti sarebbe andato perduto nella pioggia e nel vento.
Ma il tormento del freddo era egualmente insopportabile.
Il continuo battere dei denti e l'irrigidimento delle mascelle impediva qualsiasi emissione di
parole. Solo una volta Franchini riuscì a pronunciare una breve frase: « La mia bambina ».
Fu per me come un colpo al cuore, perché anch'io avevo una bambina della stessa età della sua.
Quasi certamente nessuna delle due era destinata a conservare l'immagine del suo papà.
Verso il tramonto un'altra tortura si aggiunse a quella del freddo: il sonno. Un sonno così
violento da costituire una sofferenza fisica capace di mettere in ombra qualsiasi altra sofferenza,
fisica o morale.
Un sonno così violento non poteva che derivare da un inizio di assideramento. Mi ricordavo di
aver letto appunto che l'assideramento provocava questo profondo sonno che rendeva indolore e
sereno il trapasso dalla vita alla morte.
Era ormai questa l'unica speranza che mi era dato di poter nutrire.
E fu per accelerare una fine che consideravo inevitabile che decisi di allontanarmi da Franchini,
spostandomi, sempre sull'ala, di qualche metro da lui. La separazione avrebbe aumentato il
raffreddamento ed accelerato l'arrivo del momento liberatore.
Franchini dovette comprendere il motivo di questa separazione e non disse nulla. Non un gesto,
non un tentativo di trattenermi.
Ma dopo un quarto d'ora ritornai sulla mia decisione: forse perché il mio fisico resisteva ancora o
forse perché non potei a meno di riflettere che il mio distacco avrebbe aggravato anche la
situazione di Franchini che, probabilmente non era deciso quanto me a farla finita. Ritornai
quindi nel mio buco ed all'abbraccio con Franchini. Anche il tempo congiurava contro di noi:
continuava a piovere e tirava un fastidiosissimo vento.
La notte
L'alba
Finalmente dopo dieci ore che ci parvero un'eternità ebbe inizio l'alba, un'alba meravigliosa
senza la benché minima nuvola.
E poi sorse il sole.
Questo miracolo che giornalmente si ripete viene osservato quasi distrattamente dagli uomini
affaccendati. Ma questa volta, che sarà forse l'ultima, lo osserviamo affascinati e sgomenti.
Perché il sole simbolizza la vita, anzi « è » la vita.
E la vita, ce ne accorgiamo ora, è tanto bella.
Così trascorsero un numero imprecisato di ore del mattino.
Data l'enorme limpidezza conseguente alla pioggia della notte, vedevamo, o credevamo di vedere
la linea della costa.
Forse Capo Papas o qualche isola dello Jonio.
Per ore il nostro sguardo rimase fisso su questa linea indistinta, quasi la nostra volontà fosse in
grado di far derivare il rottame verso di essa.
All'improvviso ci sembrò di distinguere verso terra quattro puntini scuri. Trattenemmo il fiato:
erano proprio quattro apparecchi lentissimi che avanzavano a quota non superiore ai cento metri.
Li riconoscemmo per quattro apparecchi tedeschi Ju 52 da trasporto. Purtroppo la loro rotta
passava alquanto discosta da noi. Stavamo per perderci d'animo quando vedemmo staccarsi uno
di essi dal gruppo e venire deciso verso di noi. Ci girò intorno un paio di volte e lanciò in mare
un battellino che cadde ad una distanza enorme. Altro non poteva fare perché era un terrestre. E
poco dopo sparì all'inseguimento dei tre compagni. Ci trovammo quindi di nuovo soli e depressi,
salvo un piccolo lume di speranza tenuto acceso dal fatto che qualcuno ci aveva visto e che la
radio forse avrebbe fatto ancora una volta il miracolo.
Così passarono altre ore in un avvicendarsi di pessimismo ed ottimismo.
Il pessimismo derivava dal fatto che avevamo i nostri dubbi che questi camion dell'aria fossero a
conoscenza delle procedure, frequenze e nominativi necessari per segnalare via radio a Taranto
la nostra posizione. E solo dagli idrovolanti di Taranto poteva venire la nostra salvezza.
Un barlume di ottimismo derivava dalla speranza che i Tedeschi tenessero nella Grecia una
sezione di idrovolanti di soccorso in ausilio al ponte aereo di cui i quattro apparecchi in rotta per
la Sicilia dovevano evidentemente far parte.
Mentre, un po' rinfrancati dal sole, ci scambiavamo queste considerazioni, avevamo modo di
osservare sull’ala .i risultati dei ripetuti mitragliamenti.
Solo una parte del rivestimento in compensato si era salvata dall'incendio; ma le superfici
indenni denunciavano che le mitragliatrici del nostro avversario avevano operato senza risparmio:
giudicai che non vi fosse un decimetro quadro di ala che non avesse un foro di pallottola.
Eppure tanto spreco non aveva menomato la capacità di volo del nostro « Airone ».
Con tutta probabilità una sola, incendiaria, ci era stata fatale.
E le ore si succedevano interminabili; il sole, superato lo Zenit, aveva iniziato la sua parabola
discendente e nulla accadeva di quanto ardentemente speravamo. Né da Nord né da Est appariva
nel cielo il tanto atteso puntolino nero.
Il DO 24
Se mi chiedeste cosa pensavo, durante questo volo di ritorno verso la vita non potreste che
ricevere risposte confuse.
Era un alternarsi di felicità, tristezza e rammarico. Felicità al pensiero che avrei rivisto la mia
bimba. Felicità al pensiero che avrei assistito all'arrivo del secondo nato.
Felicità al pensiero che avrei potuto condurre a termine i miei studi di Ingegneria che tanto mi
appassionavano. Tristezza per l'immatura perdita di quattro giovani vite, tre delle quali avrebbero
potuto salvarsi.
Rancore verso gli sconosciuti la cui leggerezza era alla base di queste perdite.
Il Partenone
Dopo un .paio d'ore di questo dormiveglia affollato di pensieri, sentii il rumore caratteristico del
comando elettrico che comandava i flaps. Stavamo per ammarare. Ed infatti quasi subito
ammarammo nel porto di Pireo. Una imbarcazione ci trasferì a terra dove puntualmente ci
attendeva una ambulanza.
Non ricordo se il Comandante dell'aereo (Ten. Wargan) mi lasciò la tuta da ginnastica, ma penso
di si perché sarebbe stato indegno di lui consentire che un collega transitasse in mutande di
fronte alle vestigia di una antica civiltà.
La strada che univa Atene al Pireo era, a quei tempi, poco più che un sentiero. L'ambulanza
avanzava lentamente e sobbalzando.
Era ormai il tramonto di una limpida giornata allietata da un magnifico sole.
Ad un tratto, attraverso i vetri dell'ambulanza mi si presentò lo spettacolo radioso dell'Acropoli
in tutto il suo roseo splendore.
L'emozione fu intensa, quasi un’estasi.
Non solo ero rinato in quel 21 Novembre a vita nuova, ma voleva il caso che vedessi davanti ai
miei occhi quanto di più grandioso, di più duraturo l'Umanità aveva prodotto. Si, in questo
mondo c'erano piccoli uomini trascurati e incoscienti, ma c'erano anche grandi uomini capaci di
cose la cui bellezza sfidava il tempo e riusciva ad emozionare anche un povero naufrago che di
emozioni ne aveva provate già tante.
Con questa seconda nascita avvenuta al cospetto del Partenone penso sia opportuno che io chiuda
questo capitolo. Quanto mi riservò la guerra in seguito apparirebbe al confronto molto banale.
Un ricovero in un ospedale di Atene per una diecina di giorni.
Il rientro a Taranto con un nostro apparecchio. L'emozione di rivedere la mia bambina ignara, al
pari di mia moglie, di quante traversie mi fossero occorse durante quei dieci giorni di assenza.
E poi altra permanenza in ospedale seguita da una lunga licenza.
E la, nuova destinazione presso il 2° Corpo Aereo Tedesco che bombardava Malta.
Sarei tentato di narrare di questo mio inserimento in una grande unità tedesca. Avrei tanti spunti
meritevoli di un racconto.
Ma la narrazione riprenderebbe fatalmente il tono scherzoso che mi è congeniale ed allora mi
sembrerebbe di mancar di rispetto ai quattro compagni di equipaggio che non furono così
fortunati come io ancora una volta lo fui.
***
E poi... il lento agonizzare delle « ali di legno » e con esse di un'intera Nazione.
Varrebbe anche la pena che narrassi dove mi colse l'8 Settembre. Mi trovavo al Ministero, con un
incarico che costituiva un turno di riposo in attesa di imbarcare in comando o di una torpediniera
o di uno dei pochi sommergibili rimasti.
E così vissi la nostra dichiarazione di resa, la certezza di una dura reazione tedesca, lo
scioglimento dello Stato Maggiore.
Gli Ufficiali addetti al Ministero furono riuniti in un salone e l'Ammiraglio Sansonetti tenne un
breve indirizzo di commiato. In un passaggio del suo discorso Egli spronava ognuno di noi a
regolarsi secondo coscienza qualora circostanze per ora imprevedibili avessero spinto o costretto
ad impugnare ancora le armi; « d'altronde era già accaduto nella storia passata che dei
combattenti, italiani per nascita, si trovassero a militare in campi opposti ».
Fu allora che udii vicino a me un commento derivato, probabilmente, dalla inesauribile saggezza
napoletana:
« Né cogli altri né cogliuni! »
La battuta faceva parte di qualche barzelletta, ma in questa circostanza assumeva una dignità che
non poté a meno di colpirmi.
A modo mio tradussi liberamente: « Un gentiluomo non partecipa ad una guerra civile, dovesse
andarne della sua vita. » Decisi di attenermi a questo principio e posso dire che fu una scelta
assai dura e non scevra di pericoli.
Essendo rimasto al Nord mi guardai bene dal presentarmi alle autorità della Repubblica Sociale,
nonostante per i renitenti fosse prevista la pena di morte. Ma mi guardai bene, sebbene ne fossi
tentato, di percorrere quei venti chilometri che mi avrebbero condotto in zona controllata da
Partigiani, perché questo avrebbe significato una scelta di campo contraria alla saggezza
napoletana.
E poi... debbo confessare che avrei avuto l'impressione di correre in soccorso del vincitore.
Certamente sbagliavo.
Ma ero ancora molto giovane...
Note
1. Il « libro verde elenca tutti gli Ufficiali con a fianco la data di nomina al grado che viene
definita « anzianità ». A pari grado l'anzianità fa grado.
2. Oka era una misura di peso, circa 300 grammi. Di recente in crociera in Grecia, chiesi in un
negozio un'oka di caffè; mi guardarono come fossi matto. Erano da trent'anni passati al sistema
decimale. Come passa il tempo!
3. I due modi fondamentali di navigare sul mare.
5. Medaglie d’Oro.
6. Il gesto di scherno che consiste nel posare la mano destra nella cavità del gomito sinistro e nel
sollevare l'avambraccio con la mano a pugno chiuso, veniva chiamato in Marina il « gesto del
folle sconosciuto ».
Un gettone d'oro a chi mi saprà dare una spiegazione in proposito. Il gesto credo sia
internazionale.
Parte Quarta
Sono trascorsi ventitre anni dal lontano 1941 quando, usciti dall'ospedale di Taranto le strade,
mia e di Franchini, si divisero.
In questi 23 anni nessuna notizia avevamo avuto l'uno dell'altro, perché non avevamo fatto nulla
per procurarcela.
No, non si trattava di indifferenza o peggio di egoismo. Il fatto è che ognuno di noi aveva
proseguito la sua guerra con i suoi pericoli ed umanamente preferiva non saper nulla della sorte
del compagno piuttosto che apprendere che, dopo tante peripezie, un incidente forse banale
avesse troncato il filo della fortuna.
Io, alla fine del conflitto, avevo scelto una nuova strada resa possibile dalla faticosamente
conquistata laurea in Ingegneria.
Un complesso di cose fra le quali non ultima una ben giustificata fobìa per l'acqua mi aveva fatto
comprendere che era tempo per me di dare l'addio al mare. La mia profonda passione per i
motori mi aveva indi- cato una via faticosa ma piena di soddisfazioni: Ingegnere progettista. Via
che seguii fino al momento del ritiro.
Poiché la posizione da me occupata era troppo faticosa per essere ambita da politici o
raccomandati di ferro, mi fu facile fare una rapida carriera. Dopo solo un anno di tirocinio fui
assunto come Direttore Tecnico della Lombardini-Motori presso la quale svolsi tutta la mia
attività professionale.
***
Verso i primi di Febbraio del 1964 ricevetti una lettera da Bari: una strana provenienza.
Era il vecchio compagno Franchini che, evidentemente, aveva superato, indenne come me, le
vicissitudini della guerra.
Fu per me un bel sollievo saperlo vivo ed in salute relativamente buona.
Era rimasto in servizio ed aveva progredito nella carriera. Per la sua valutazione, in vista di una
promozione a Colonnello, mi chiedeva una relazione sul famoso episodio di 23 anni prima, da
allegare al suo fascicolo personale che era andato in parte disperso.
Fui ben felice di fare la relazione che spedii in data 20 Febbraio 1964.
In essa concludevo:
«Quello che vorrei dire con umiltà è che forse non vi è ragione al mondo che l'Aereonautica
ricompensi l'allora Ten. Franchini perché salvò la vita al sottoscritto. Quello che mi importa di
dire è che egli fece quanto era umanamente possibile per salvare tutto intero il suo equipaggio...
Ma il punto che interessa oggi è che il Franchini dimostrò in quell'occasione ed in altre
successive di essere un educatore per nascita come per nascita si è musicisti e poeti. Dovrebbe
essere interesse della collettività utilizzare questa attitudine (che non deperisce con l'età e con la
salute) il più a lungo possibile. »
***
Una volta appurato che eravamo entrambi vivi, avemmo incontri; frequenti e fraterni sia nella
mia città che a Bari.
Trovai, purtroppo, un Franchini amareggiato, deluso. Forse non era riuscito ad assimilare quella
che è la realtà di tutti i dopoguerra: una realtà valida per i vinti come per i vincitori: i
sopravvissuti, per epiche che siano state le loro gesta, vengono inesorabilmente « gettati a
rottame ».
Gettati a rottame da tutti, anche da chi sul piano umano avrebbe motivo di riconoscenza.
Ed a questo proposito sento il dovere di citare l'ultima impresa di Franchini, con una delle ultime
« ali di legno ». Il 14 Agosto 1943 il mio amico era ad Orbetello come istruttore.
Verso sera Marinavia (1) segnalò che in mare, in prossimità dell'Arcipelago toscano quattro
velivoli tedeschi tipo Ju 88 erano stati abbattuti in combattimento da aerei anglo-americani.
Erano le 21 e Franchini decollò al sentiero luminoso, ansioso di « sdebitarsi » con i tedeschi che
a loro volta ci avevano salvato quasi due anni prima.
Paziente ed infruttuoso rastrellamento nella zona indicata; tenace ricerca in zona più al largo,
questa volta con esito positivo.
Ammaraggio fortunoso alla luce delle stelle; furono rintracciati quattro battellini nei quali si
trovavano 16 militari tedeschi.
Le condizioni del mare e il numero rilevante di naufraghi sconsigliavano il ricupero immediato.
Per fortuna anche un motoscafo tedesco aveva preso il mare da Porto S. Stefano per la medesima
ricerca; guidato da raffiche di mitragliatrice e da fuochi Very raggiunse la zona e provvide al
ricupero dei naufraghi. L'odissea per i naufraghi era finita, ma non per Franchini che, date le
onde, vedeva chiari i pericoli di un decollo al buio.
Un tentativo, più a gesti che a parole, di far capire ai Tedeschi che avrebbero dovuto provvedere
a rimorchiare il 506 non fu compreso (almeno così si spera). Fatto sta che il motoscafo se ne
andò coi suoi naufraghi e Franchini se ne rimase col suo 506 sballottato dalle onde.
Non gli rimase altra scelta che tentare l'ultima prodezza dopo aver scaricato a mare la benzina in
eccedenza.
1969
Bisogna dire che il dopo-guerra offrì all'amico vita abbastanza tranquilla, sempre con sede Bari.
Fu verso il Marzo 1969 che mi trasmise una lettera molto interessante del Ministero Difesa
Inglese, in risposta ad un suo quesito.
« Abbiamo identificato l'incidente al quale Lei si riferisce; ma per quanto risulta dai nostri atti,
in esso fu coinvolto un solo apparecchio. Era un Maryland Mk 1 «del 69° Squadrone.
L'Ufficiale pilota era un Australiano ed è possibile che la RAF possa darvi il suo indirizzo (se
egli sopravvive). Il Serg. HcKenzie era pure australiano ed anche qui la RAF può esservi di
aiuto.
Il Serg. Windebank fu più tardi nominato Ufficiale... Il 20 Novembre 1941 questo equipaggio era
di pattuglia fra Corfù e Cefalonia quando si scontrò con un Cant Z 506 circa alle ore 9,16. Il
Maryland fu colpito dal mitragliere nemico ed il pilota fu ferito da scheggie.
Quando il 506 fu visto per l'ultima volta il motore di sinistra era in fiamme e lasciava indietro un
denso fumo.
Il Maryland fece un atterraggio forzato perché i suoi comandi idraulici erano stati "sparati via".
Non siamo certi che avrete fortuna nel cercare di entrare in contatto con l'equipaggio
suddetto... »
Da queste ed ulteriori informazioni risultò chiaro che solo l'allora Sergente Windebank (poi
Ufficiale) era forse reperibile in Inghilterra.
Nell'Aprile del 1971 il tenace Franchini riuscì a rintracciare Windebank ed ebbe con lui un
incontro commovente.
Mi trasmise anche il suo indirizzo e numero di telefono. E passarono gli anni...
1979
Fu solo nel 1979 che delle amiche mi proposero un viaggio turistico a Londra; un viaggio di
quattro giorni, di quelli organizzati dalle agenzie.
Alla vigilia della partenza ricordai che nei pressi di Londra abitava questo sconosciuto ex
nemico.
Sentii l'impulso di andare a conoscerlo.
Lo chiamai più volte da Londra al numero che Franchini mi aveva fornito, ma invano.
Finalmente alla vigilia di ripartire per l'Italia il telefono rispose e ci mettemmo d'accordo per una
mia visita a casa sua.
Abitava a Barton-on-sea sulle coste della Manica, nei pressi della baia di Solent dove, ai tempi
della mia giovinezza, aveva luogo la Coppa Shneider, allora tanto famosa.
Presi il treno come indicatomi alla stazione di Waterloo ed in un paio di ore fui a Barton-on-sea.
Un taxi guidato da un'anziana signora mi condusse alla sua villetta.
Una villetta appartata, semplice, veramente « umana ». Ed appunto perché umana non si può dire
fosse in perfetto ordine. La circondava un giardinetto con piante e fiori: tanti fiori gialli
spuntavano dal tappeto d'erba all'inglese. Nel giardinetto una casina in vetro posta su un
piedistallo avrebbe dovuto alloggiare uno scoiattolo o un uccello, ma non accoglieva nessun
ospite.
Un amico burlone aveva messo nella casina una ciabatta.
Tutta la facciata era ricoperta di rampicanti che incorniciavano pure l'ingresso.
A sinistra entrando una stanza era adibita a serra. A destra un salottino sconcertante nella sua
semplicità. Il volto dell'ospite è sorridente, ma forse con una traccia di diffidenza.
La ragione è presto chiarita: per un malinteso nato certamente dal fatto che l'amico Franchini non
conosceva l'inglese, Windebank era convinto che il combattimento del 20 Novembre avesse
avuto un solo superstite da parte italiana. Il vedersi davanti un secondo superstite lo lasciava
perlomeno perplesso.
Forse aveva il dubbio che mi rivelassi un mercante di tappeti dotato di molta fantasia.
Ma dopo le prime parole la diffidenza lasciò il posto al calore della simpatia.
Offrì a me ed alle mie accompagnatrici della birra « fatta da lui personalmente » ed iniziò a
narrare la sua avventura.
« A quell'epoca facevo parte della RAF come radiotelegrafista e mitragliere. Ero di stanza a
Malta.
Quel mattino con un Maryland intraprendemmo una ricognizione offensiva sul Mediterraneo
centrale. L'equipaggio era costituito da quattro persone con a capo il 1° Pilota R.G. Fox,
australiano.
Al largo dell'isola di Cefalonia avvistammo un idrovolante Cant Z 506.
Era proprio una facile preda! Lento sia come velocità che come manovra era oggetto più di
scherzo che di rispetto.
Poiché al nostro confronto sembrava fermo, lo avevamo battezzato "sitting duck" (anatra
posata). Stando alle regole voi non avevate nessuna speranza di salvarvi. Il nostro Maryland
faceva 500 km/ora; aveva quattro mitragliatrici Browning nelle ali e mitragliatrici Vickers sul
dorso e sul ventre.
Facemmo sei o sette attacchi fino a che vedemmo il Cant Z 506 sparire in una bassa nuvola con
il motore sinistro in fiamme.
Ma non tutto era andato liscio per noi a causa dell’unica vostra mitragliatrice.
Per spiegare la sequenza degli avvenimenti debbo brevemente descrivervi il Maryland: era un
bimotore ed aveva al centro una lunga cabina vetrata.
All’estrema prua stava il "navigator" che godeva di un'ottima visibilità. Dietro a lui trovava
posto l'unico pilota.
Nella sezione di poppavia, separati da una paratia, trovavamo posto io e l'armiere.
Il collegamento con i due compagni di prora era assicurato da un interfonico.
Ad un certo momento l'unico pilota Fox fu colpito e perse i sensi.
Il Maryland cominciò allora una lunga picchiata che sembrò dovesse aver termine con un tuffo
in mare.
Per fortuna il "navigator" riuscì ad arretrare fino al fianco del pilota, a spostare il suo corpo ed
afferrare i comandi: richiamò quando l'aereo era ormai a pochi «metri dall'acqua e, secondo le
sue capacità, diresse verso Malta.
L'interfonico era stato colpito e per qualche tempo noi due di poppa non ci rendemmo conto di
cosa stesse accadendo. Sulla via del ritorno l'interfonico fu riparato ed allora avemmo notizie.
Notizie poco allegre. Malta era ormai in vista ma il carrello non ne voleva sapere di uscire.
Il pilota aveva ripreso conoscenza, ma non poteva altro che tentare un atterraggio di fortuna.
Forse credendo di dare un buon consiglio incoraggiò noi due di poppa à gettarci col
paracadute.
La risposta fu energicamente negativa ed avevamo le nostre buone ragioni: in quel periodo
regnava su Malta la psicosi dei paracadutisti (tedeschi o italiani).
Non era proprio il caso di fare da bersaglio a soldati e contadini. Meglio rischiare l'atterraggio
di fortuna. Atterraggio che ebbe luogo senza gravi danni per le persone ma con la distruzione
totale del bel Maryland. Dopo una degenza in ospedale la guerra impose nuovamente la sua
legge spietata.
In una azione successiva i miei tre compagni perirovo ».
E qui « Winde » prese fuori il suo piccolo involto di ricordi e da esso trasse una foto: i magnifici
quattro per l'ultima volta fotografati insieme.
Salvo il Comandante, gli altri erano dei ragazzi.
Per un lungo attimo guardammo insieme questa piccola fotografia: forse perché più giovane,
forse perché inglese egli riusciva a vincere una emozione che viceversa era evidente sul mio
volto.
***
Ci scambiammo qualche notizia sulle nostre famiglie: io avevo un maschio ed una femmina
ormai sistemati nelle loro professioni.
Lui aveva due figli maschi ancora agli studi di medicina. Gli narrai in breve la mia ulteriore
carriera come Ingegnere. Lui da parte sua mi riferì che aveva fatto parte per 18 anni delle linee
civili BOAC; ora godeva meritatamente di una destinazione di maggior riposo presso
l'aereoporto di Bournemouth.
Prima di mezzogiorno credemmo opportuno, io e le mie amiche, di prendere commiato.
Avendo espresso la nostra intenzione di visitare l'isola di Wight ci accompagnò gentilmente in
macchina fino al traghetto.
La promessa di rivederci presto suonava senza convinzione...
Note
DELL'AMICIZIA E DELL'AMORE
Mi è stato chiesto più volte se questo mio diario ha un filo conduttore; certamente ce l'ha!
Se fossi un poeta direi che queste note vogliono essere un inno all'Amicizia, all'Amore, alla
Solidarietà. Perché se non fossimo stati in due — io ed il Ten. Franchini — abbracciati
strettamente l'un l'altro per più di trenta ore nell'acqua gelida, certamente non saremmo
sopravvissuti.
Così abbracciati, almeno una parte delle poche calorie elaborate dai nostri corpi si trasferiva
all'altro anziché disperdersi nell'acqua, nel vento e nella pioggia. Così abbracciati l'orina dell'uno
scaldava anche l'altro e sembrava acqua bollente.
Così abbracciati il cuore dell'uno stimolava i palpiti dell'altro cuore.
Se fossi un poeta direi:
Le forze del naufrago si moltiplicano per dieci se a fianco a lui un altro naufrago, suo amico, sta
nuotando spalla a spalla verso una quasi impossibile salvezza.
E le sue forze si moltiplicano ancora per dieci se il naufrago sa che in qualche luogo una persona
che lo ama, sia essa mamma, moglie, amante o fidanzata, sta pregando per lui.
E si moltiplicano ancora per dieci se egli ha il grande privilegio di possedere una Fede.
Perché è attraverso questa moltiplicazione di energie di tipo « esponenziale » (come direbbe un
Ingegnere quale io sono) che si verificano dei miracoli.
Perché fu certamente un miracolo che consentì a due poveri naufraghi di essere salvati, dalle
acque gelide del Mediterraneo quel 21 Novembre 1941.
Presentazione dell’Onorevole
Mario MONDUCCI
Deputato al Parlamento
L'opera di Mario LOFFREDO, al di là dell'incontestabile valore intrinseco, ha il merito
fondamentale di portare all'attenzione dell'opinione pubblica problematiche, come quelle della
difesa, da sempre riservate agli « addetti ai lavori » e dibattute in sedi specializzate.
È fuor di dubbio che attorno agli stanziamenti previsti nel bilancio dello Stato, relativi alla
difesa, forze politiche ed una parte della stampa di informazione preferiscano eludere i veri
temi — come le innovazioni tecnologiche, l'aggiornamento professionale, l'interscambio di
esperienze maturate in settori diversi — privilegiando una sterile polemica su costi definiti «
inutili » per un Paese, come il nostro, considerato subalterno militarmente e di facile
vulnerabilità.
Appare, quindi, quanto mai felice l'iniziativa dell'Autore, nel quale si fondono la perizia ed il
coraggio di valoroso Ufficiale di Marina con la concretezza ed il dinamismo di Dirigente
d'Azienda, che propone di allinearci ai nostri alleati (e praticamente alla totalità degli Stati)
ricostituendo l'Aviazione Navale.
Una infelice decisione del regime fascista creò infatti una gestione mista che contribuì ad
aggravare la nostra situazione militare nel secondo conflitto mondiale.
A parte considerazioni di ordine meramente contabile, e cioè la possibilità di economie per il
bilancio della difesa, è indubbio che la scelta della gestione diretta, da parte della Marina, di un
contingente aereonautico composto di marinai, risolverebbe alla radice questioni di competenze
miste Aereonautica-Marina che certamente conducono ad un funzionamento farraginoso ed
inadeguato della componente aerea del nostro apparato difensivo navale.
L'auspicio è che, al di fuori di quanto è avvenuto (e si spera venga ripreso durante la nuova
legislatura) in sede parlamentare, le considerazioni dell'Ing. Loffredo trovino quell'attenzione
che, per l'obiettiva importanza del tema, esse meritano ed inneschino un fecondo dibattito
pubblico atto a rimuovere remore e pregiudizi su questa delicata ed importante materia.
***
Il fatto che la nazione si voglia dotare solo di mezzi spiccatamente difensivi non toglie
importanza alle portaerei; tutt'al più porta ad escludere quei mastodonti che so lo l'America può
permettersi.
L'orientamento moderno è pertanto verso piccole portaerei (dette anche incrociatori tutto-ponte)
che hanno fatto buona prova alle Falkland.
Il varo, avvenuto di recente, dell'incrociatore tutto-ponte « Garibaldi » si inserisce appunto in
questa tendenza.
È previsto che su questo incrociatore trovino posto sia elicotteri per la difesa dall'insidia dei
sommergibili, sia aerei a decollo verticale per la difesa dall'insidia aerea.
Varata la nave rimane il problema di reperire i fondi per dotare questa piccola portaerei degli
apparecchi a decollo verticale « Harrier »; quelli delle Falkland o loro successori più evoluti.
Senza di che l'aver costruito il Garibaldi risulterebbe una spesa inutile: una « Gioia Tauro »
navale.
Con uno sforzo idi ottimismo considero per acquisito che si riesca a dotare il Garibaldi della
dozzina di aerei necessari alla sua efficienza.
Spero sia chiaro a tutti che la non lieve spesa risulterà inevitabile qualsiasi sia per essere la
gestione di questi mezzi aerei imbarcati.
Ed è a questo punto che si impone la domanda: per questi aerei imbarcati e per gli aerei
antisommergibile (che sono aerei specialissimi) è razionale continuare nella gestione mista
Aereonautica-Marina o non sarebbe meglio che fosse la sola Marina a sceglierli ed infine
impiegarli?
Per rispondere a questa domanda gli Autori hanno, molto saggiamente, preso in esame cosa
avviene nelle altre marine.
Tutta la parte terza del loro libro è dedicata a questo esame dal quale emerge, in sintesi, che
l'Italia è oggi l'unica nazione del mondo la cui Marina Militare non ha facoltà ,(in base alla legge
istitutiva della R. Aereonautica del 1923) di una scelta libera dei mezzi aereo-navali che ritiene
più idonei per l'assolvimento dei compiti di propria responsabilità, né tanto meno la facoltà di
gestione diretta dei mezzi medesimi.
Questa constatazione statistica potrebbe essere sufficiente per concludere che occorre allinearsi
alle altre Marine ponendo fine alla gestione mista; ma ritengo opportuno scendere un poco nei
dettagli per cercare di convincere quella non lieve percentuale di Italiani che coltiva ancora
l'illusione di essere più intelligente o almeno più furba degli altri. Mi sforzerò, pertanto, di
dimostrare che gli aspetti negativi (per la Marina) della gestione mista sono rilevanti e così come
furono tragici nella passata guerra lo sarebbero egualmente nella deprecabile ipotesi di un
conflitto futuro.
Altrimenti nelle sfere civili e forse anche in parte delle sfere militari potrebbe sorgere il dubbio
che l'autonomia di spesa e di gestione rivendicata dalla Marina sia solo una manifestazione
deteriore di un eccesso di spirito di corpo.
Mi sembra, pertanto, utile elencare qui di seguito i principali inconvenienti del sistema misto,
1. - Mancanza di « unità d'azione ». Questa dizione si presta alle più varie interpretazioni; nel
caso specifico dei reparti aerei che esistono esclusivamente per le esigenze 'della Marina penso
sarebbe meglio parlare di quella omogeneità di cultura, di ambiente, di addestramento
intellettuale e fisico che si richiede a chi opera esclusivamente sul mare e che si acquisisce solo
vivendo sul mare fino da ragazzi.
3. - Saranno questi alti Ufficiali a decidere come utilizzare le assegnazioni di bilancio previste
per le necessità della Marina.
Oggi come oggi queste assegnazioni vengono necessariamente spese tutte per la costruzione di
mezzi navali in quanto la citata legge vieta alla Marina di acquistare in proprio aereoplani ad ala
fissa.
Viene a mancare, quindi, quell'esame comparativo fra la soluzione aereo-navale e la soluzione
strettamente navale connessa a prevedibili ipotesi di impiego (es. la protezione dei convogli
destinati ai nostri rifornimenti che, lo ricordiamo, ci arrivano via mare per il 90%!).
La cosa è di importanza così rilevante che merita un esemplificazione. Guardando al passato (e
non si tratta del senno di poi) tutti, credo, siano d'accordo che sarebbe stato meglio, nel passato
conflitto, costruire due portaerei al posto di due corazzate.
Guardando al presente: la Marina ha nel suo programma la costruzione ,di aliscafi lanciamissili.
Si tratta senza dubbio di realizzazioni veramente pregevoli; ma a me sembra che se la Marina
avesse avuto libertà di scelta avrebbe anche potuto prendere in esame la soluzione di affidare i
compiti che si ipotizzano per l'aliscafo ad un aereo lanciamissili. Vi sono molti argomenti a
favore di questa seconda soluzione: velocità, rapidità di intervento, possibilità di scelta della luce
più favorevole per condurre l'attacco, possibilità di agire anche con mare ondoso che, viceversa,
è di forte ostacolo per l'aliscafo.
E non è detto che la mancata libertà di scelta abbia influenzato solo le decisioni riguardanti il
naviglio minore; anche la decisione di costruire Incrociatori lanciamissili avrebbe potuto subire
un approfondimento con visuali più ampie.
L'ammiraglio Bàrbera, nel corso della presentazione del libro citato all'inizio, espresse in maniera
inequivoca il suo pensiero in proposito:
« Se vi fosse stata libertà di scelta sarebbe stato meglio ordinare quattro aereoplani in più ed un
incrociatore in meno ».
5. - Sono convinto che la mancanza di una dialettica continua, che solo nell'ambito di una singola
forza armata può aver luogo, porterà anche in avvenire mostruosi errori come avvennero in
passato.
Infatti, se si rimane nell'ambito di una stessa forza armata, il flusso di opinioni dal basso (giovani
Ufficiali) all'alto (Comandanti ed Ammiragli) è quotidiano ed è sommamente istruttivo
specialmente per gli alti gradi che saranno chiamati a decidere sul come impiegare, col massimo
rendimento, le assegnazioni di bilancio.
Continuando col vecchio sistema le decisioni suddette scaturiranno, come in passato, da
«concerti » fra Ammiragli che sanno poco di Aviazione e Generali che non sanno nulla di
Marina.
6. - Con la gestione unica si potranno realizzare piccole ma non trascurabili economie sul
bilancio globale della Difesa.
Questa affermazione farà sussultare quella massa (purtroppo notevole) di pseudo-esperti
superficiali che pensano che la istituzione di una Aviazione Navale sia qualcosa di aggiuntivo
rispetto all'Aereonautica Militare.
Nulla di più errato: si tratta di trasferire alla totale competenza « della » Marina (come spesa e
come gestione) la attuale Aviazione « per » la Marina che come spesa è a carico
dell'Aereonautica e come gestione è mista.
È principalmente sulle spese del personale che vedo la possibilità di economie: quando sul
Garibaldi vi saranno, in avvenire, aerei a decollo verticale, col vecchio sistema misto
troveremmo a bordo Ufficiali dell'Aereonautica che, salvo due-tre ore al mese di volo, pas-
seranno il loro tempo annoiandosi perché non impiegabili nei servizi della nave.
Con la gestione unica gli Ufficiali di Marina piloti parteciperebbero alla vita della nave al pari
degli altri Ufficiali di bordo.
Lo stesso dicasi per gli specialisti dell'Aereonautica presenti a bordo per la manutenzione e
l'approntamento degli aerei; anche essi risulterebbero permanentemente sotto impiegati.
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Anguillara Sabazia (Rm) maggio 2014