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PRIMA PARTE
Premessa
I - Italiani pi che fascisti
II - Il diritto di farsi ammazzare
III - La battaglia di Roma
IV - La guerra non cercata
V - L'ultima battaglia
VI - Epilogo
SECONDA PARTE
Il Barbarigo in presa diretta
VII - I soldati inventati
VIII - Nessuno ci ha piegati
IX - Il valore e l'obbedienza
X - Vi vedevo tutti belli
Biografia di Mario Tedeschi
Mario Tedeschi nacque a Roma il 9 settembre 1924. Come giornalista
inizi la sua attivit su Roma Fascista, organo del GUF della capitale,
insieme ad altre prestigiose firme del giornalismo post-1945 come
Eugenio Scalfari.
Combatt nel Battaglione Barbarigo sul fronte di Nettuno, dove si
guadagn una croce di guerra. Dopo il 1947 fu prima collaboratore del
Meridiano d'Italia, poi redattore del Corriere Mercantile, quindi capo
dell'ufficio romano de La Notte, infine redattore de Il Tempo di Roma.
Collaboratore sin dal 1950 de Il Borghese di Leo Longanesi, ne
assunse la direzione alla morte di quest'ultimo nel 1957 facendone
ben presto la testata di punta della Destra italiana in campo politico e
culturale, oltre che uno dei pi diffusi periodici nazionali. Nei suoi
articoli e nei suoi libri fu il primo a denunciare la corruzione di mani
pulite, e a documentare i sovvenzionamenti al PCI e la connivenza
fra coop rosse e PCI senza essere mai smentito.
Cre ne1 1960 I Libri del Borghese che nell'arco di una ventina d'anni
pubblicarono circa duecento titoli.
Nel 1970 affianc a Il Borghese il mensile La Destra, cui collaborarono
prestigiosi nomi della cultura di destra di tutto il mondo. Nel 1972 e
nel 1976 fu eletto senatore della Repubblica nelle liste del MSI. La
morte, avvenuta 1'8 novembre 1993, lo colse in piena attivit, dopo
trentasei anni di ininterrotta direzione de Il Borghese: fatto unico
nella storia del giornalismo italiano.
Pubblic molte opere di carattere politico e storico: Fascisti dopo
Mussolini (L'Arnia, 1950), Roma democristiana (Longanesi, 1953),
Petrolio sporco (Longanesi, 1962), I pericoli del Concilio (Ed. del
Borghese, 1962), Almanacco dei vecchi fusti (Ed. del Borghese,
1963), Dizionario del malcostume (Ed. del Borghese, 1965), La guerra
dei generali (Ed. del Borghese, 1968), La guerra dei cento anni (Ed.
del Borghese, 1970), Il ventennio della pacchia (Ed. del Borghese,
1971) con Gianna Preda, Destra Nazionale - Sintesi di una politica
nuova (Ed. del Borghese, 1972), La strage contro lo Stato (Ed. del
Borghese, 1973), Fu l'esercito (Ed. del Borghese, 1976) con Carlo De
Biase, Ambrosiano: il controprocesso (Serarcangeli, 1988). Nel suo
ultimo libro, Si' bella e perduta (Serarcangeli, 1993), narra la sua
esperienza vissuta sul fronte di Nettuno a fianco dei tedeschi contro
gli angloamericani e al Nord con la RSI, sempre nella Decima Mas.
PREMESSA
Il primo morto della mia vita lo vidi una mattina fredda e umida del
marzo 1944. Si chiamava Alberto Spagna ed era pi giovane di me,
che allora avevo compiuto da poco i 19 anni. La pallottola del cecchino
americano lo colp al centro della testa, forando l'elmetto e uscendo
dall'altra parte. Lui cadde riverso nella buca scavata sull'argine del
Canale Mussolini, oggi Canale Italia, dove durante la notte avevamo
dato il cambio agli esausti soldati tedeschi, ultimi resti di quella che
era stata la 175a Divisione, agli ordini del generale Friedrich von
Schellerer.
Quelle postazioni rappresentavano la punta avanzata dello
schieramento germanico nella pianura pontina, verso Anzio-Nettuno,
dove la testa di ponte alleata era ridotta in quel momento a due soli
chilometri di profondit per otto di ampiezza, o poco pi. Cos, le
nostre buche stavano per un certo tratto sul lato destro del Canale,
poi tornavano sul sinistro, e questo forniva agli Americani un'ottima
posizione per sparare con i cecchini contro chiunque si azzardasse,
durante il giorno, a mettere il naso fuori dal rifugio. I Tedeschi,
andandosene, ce lo avevano detto. Ma Alberto Spagna, che s'era
arruolato volontario ed era venuto al fronte forte soltanto della sua
grande passione, non seppe resistere: starsene rintanato gli
sembrava una vilt; non vedere il nemico, un fatto ancora pi
assurdo. E cos, appena si fece chiaro, si alz in piedi per guardare. E
mor. Nel fondo della buca, anche quando ebbero portato via il suo
corpo, rimase a lungo una pozza nerastra di sangue, che il fondo
argilloso della terra di bonifica non riusciva ad assorbire. Ricordo che
rimasi a lungo a guardarla, come affascinato; poi cominciarono ad
arrivare le mortaiate e, per rintanarmi, scaricai con la scarpa un po' di
terra su quel sangue.
Da allora passato mezzo secolo: ma quella mattina di marzo del
1944, quel nome, quel sangue, quella passione che aveva portato
Spagna e me e tutti noi del battaglione Barbarigo a cercare di
vedere il nemico e di contrastarlo nella battaglia combattuta alle
porte di Roma, non l'ho dimenticati. Ancora adesso, ogni tanto uso il
nome di Alberto Spagna come firma redazionale nel Borghese; per
ricordare a me stesso che, pur in condizioni tanto mutate, soltanto
l'antico spirito pu consentirmi di andare avanti.
Questa l'unica concessione che io faccia, in pubblico, ad un passato
che gelosamente conservo in me come l'avventura pi bella ed
entusiasmante della mia vita. Appartengo ad una generazione in cui si
insegnava agli uomini a controllare e nascondere i sentimenti, come
se il piangere, il dire ti amo, il concedersi all'ira ed agli affetti,
fossero sintomi di debolezza, inammissibili in un carattere virile. Roba
da donne, mi insegnarono da piccolo.
Tantomeno amo parlare della guerra: dovrei dire che mi piaciuta e
faticare a spiegare il perch a gente per la quale non provo alcun
interesse. E non amo il reducismo. Per molti anni mi sono portato
dietro, come una sentenza, una battuta feroce di Leo Longanesi: I
reduci, quando hanno perso, non debbono parlare. Poi mi sono reso
conto che non cos e che anche gli sconfitti hanno qualcosa da dire;
anzi, per come sono andate le cose in Italia fra il 1945 e l'oggi,
soprattutto gli sconfitti. Noi che avevamo scelto la parte sbagliata,
insomma. Tuttavia non amo le periodiche rievocazioni delle patrie
battaglie e, quanto alle adunanze, le aborro. I raduni reducistici mi
ricordano inevitabilmente gli incontri dei pescatori e dei cacciatori,
dove si raccontano sempre le solite storie, con la sola differenza che
la preda, ad ogni racconto, diventa pi grossa; cos come il fatto
d'armi diventa pi cruento e glorioso.
Perch, dunque, questo libro? Perch alcuni vecchi amici sono venuti
a dirmi: passato mezzo secolo, noi ce ne stiamo andando uno dopo
l'altro: e chi racconter mai, ai nostri figli e nipoti, quale fu lo spirito
che ci anim? quali furono le ansie, le gioie e gli ideali di tutti noi?.
Parlando con loro, ascoltandoli, ho scoperto che il ricordo del nostro
antico stare insieme era pi vivo e pi forte, anche in me, di quanto
avessi mai pensato. Il sentimento di quella comunanza che si crea in
guerra e che si chiama cameratismo , del resto, capace di
stroncare tutte le teorie antimilitariste. Chiunque abbia letto e riletto il
Remarque di All'Ovest niente di nuovo, si sar reso conto che
l'autore, partito per condannare la guerra, ha finito in realt per
esaltare i soldati e il loro spirito di sacrificio, il loro senso del dovere.
Cos, mentre i vecchi amici parlavano per spronarmi a rievocare quei
giorni lontani, io ritrovavo il senso dell'antico motto del Barbarigo:
un siamo quelli che siamo che allora, dopo l'8 settembre 1943,
voleva essere una risposta guascona a chi non riusciva a capire la
nostra scelta, ma ancora oggi conserva il suo valore di sfida.
Questo non e non vuole essere un libro di guerra nel senso
tradizionale; pertanto ignora i dati da fureria, non elenca tutti i nomi
degli antichi commilitoni, tutti gli scontri, tutti gli episodi. Ne chiedo
scusa a chi non citato e sono certo che ognuno capir. Questo un
libro sui sentimenti e il modo di essere di chi, come noi del
Barbarigo, ebbe dal destino la fortuna di potersi giocare la vita, di
sua scelta, al servizio della Nazione, quando la Nazione sembrava non
esistesse pi; e pot farlo senza nulla sperare, senza doversi
abbassare a chiedere alcunch.
Tutti quelli che mezzo secolo fa non c'erano e che negli anni
successivi si sono sentiti raccontare la Storia, o le storie, nelle versioni
redatte ad uso e consumo della parte che vinse, troveranno nel libro,
mi auguro, la nostra verit. La verit di noi tutti, dai 1.180 che
eravamo quando partimmo per Nettuno ai poco pi di 600 che
eravamo dopo quei tre mesi d'inferno, a quelli che dopo aver
combattuto per difendere Gorizia e l'ultima ritirata dal Senio si
ritrovarono a Padova, costretti alla resa sul piano della forza, non
dello spirito. Mi auguro di essere riuscito, senza retorica, a trascrivere
nelle pagine quel senso di dignit e di coraggio, quel modo di essere e
di pensare per cui ancora oggi, noi del Battaglione, siamo quelli che
siamo. E ripetiamo col Poeta: Soldati dei passato, dove sono le
guerre, dove sono le guerre d'un tempo?.
Capitolo I
ITALIANI PI CHE FASCISTI
Il 20 febbraio 1944 il Corriere della Sera annunciava che ad Anzio la
controffensiva tedesca stava schiacciando le truppe della forza di
sbarco guidata dal generale Clark. Il Vaticano protestava col Governo
inglese per il bombardamento della Villa di Castel Gandolfo. Un
decreto di Mussolini stabiliva che disertori e renitenti di leva, se non si
fossero presentati entro tre giorni, sarebbero stati passibili di
fucilazione; ma la cronaca milanese informava che il primo a
presentarsi, costituendosi al Commissariato di via Poma, era stato il
pregiudicato per furto e rapine Fiorini Angelo, fu Furio, di anni 58, da
Senigallia. Derubato dai suoi complici delle carte annonarie, il Fiorini
era alla fame; gli avevano dato una minestra e poi l'avevano spedito a
San Vittore. L'Eiar trasmetteva, all'ora di cena, musica operettistica.
Nel campionato di calcio, il Milan si preparava ad incontrare il Varese
all'Arena. Al Mediolanum la Compagnia di Nino Lembo annunciava
le ultime due repliche di Cioccolatini che passione.
Insomma: una normale giornata di guerra, in un Paese che la guerra
non l'aveva mai amata e non l'amava. Ma nella prima pagina (il
Corriere d'allora usciva in un foglio solo), con un titoletto a una
colonna c'era anche un'altra notizia: In difesa di Roma - Il
battaglione "Barbarigo" avviato al fronte. La nota, datata 19,
informava: Un rito austero stato celebrato stamani in una localit
dell'Italia settentrionale, suscitando un'ondata di patriottismo tra la
popolazione accorsa a dare il suo entusiastico affettuoso saluto al
battaglione "Barbarigo" della X Flottiglia Mas, partito per combattere
al fianco delle truppe germaniche....
Mi trovavo, quella mattina, a Ponte di Brenta, come addetto al
Gabinetto del Ministero delle Corporazioni della Repubblica Sociale.
Dopo l'8 settembre 1943, quando aveva dato vita alla RSI e costituito
un Governo, Mussolini aveva affidato il Ministero delle Corporazioni
all'ingegner Silvio Gai, ottimo tecnico e stimatissimo Presidente
dell'Ente Metano (quello stesso Ente che, assegnato nel dopoguerra
ad Enrico Mattei perch lo liquidasse, divenne invece il nucleo
dell'ENI, grazie anche alla prima applicazione d'una politica di
corruzione su larga scala). Il figlio di Gai, Giulio, era stato Segretario
del GUF di Roma. Il padre lo chiam a dargli una mano nel
trasferimento del Ministero al nord, per l'esattezza a Padova; e Giulio
Gai, dinanzi allo squagliamento generale dei funzionari, fece appello
ad alcuni vecchi amici gufini perch lo aiutassero. Io fui del
numero.
All'epoca, ero e mi consideravo fascista. A mio modo, naturalmente,
come tutti; perch il fascismo era un totalitarismo molto, molto
imperfetto, che lasciava ai suoi seguaci ampi spazi di libero arbitrio.
Per due anni avevo lavorato a Roma Fascista, poi alla Segreteria
nazionale dei Guf con Enzo Pezzato, responsabile dell'Ufficio Cultura.
Ma non era stato il fascismo a portarmi, prima ancora dell'8
settembre, dalla parte di quelli che non volevano, come allora si
diceva, la fine della guerra. Mio padre e mio zio erano morti entrambi
nel 1941, a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro: il primo in Abissinia
il secondo sul fronte greco. Conservavo come reliquie il fonogramma
del Vicer che annunciava a mia madre la fine di mio padre e la
motivazione della medaglia d'argento alla memoria di mio zio. Avevo
tentato di arruolarmi, ma mia madre era riuscita ad impedirlo,
facendo leva sulla mia giovane et e sulla sua condizione di vedova di
guerra con un solo figlio maschio; io, per l'appunto. Ma l'idea che gli
eserciti contro i quali mio padre e mio zio avevano combattuto ed
erano morti entrassero vittoriosi a Roma, mi riusciva intollerabile.
L'idea della sconfitta, che ormai stava arrivando e che nei discorsi
d'ogni giorno, anche tra i familiari, appariva ormai certa, mi
ripugnava.
difficile, lo so, far capire tutto questo a chi cresciuto sentendosi
ripetere che la sconfitta del 1943-'45 rappresent per l'Italia la
salvezza. difficile far capire che mezzo secolo fa si poteva porre in
vetta alle proprie aspirazioni, essendo men che ventenni, la
prospettiva di morire combattendo per non veder mai sorgere l'alba di
quello che sarebbe stato, per noi, l'ultimo giorno. Eppure, senza
retorica, io allora ero cos e come me erano in tanti, come poi si vide
dal grande numero di volontari accorsi ad arruolarsi.
Perci, leggere sul Corriere quella notizia e decidere fu la stessa cosa.
Ottenni, non ricordo pi con quale scusa, una motocicletta e, insieme
ad un amico, partii il giorno stesso alla volta di Milano. L'ausweis
ministeriale rese possibile il viaggio. A Milano, finito il carburante, non
rest che affidarci ai mezzi di fortuna per arrivare a La Spezia, a San
Bartolomeo; dove l'ufficiale arruolatore comprese dal mio concitato
ragionamento che io avevo il diritto di partecipare alla battaglia per
Roma e la Decima aveva il dovere di darmi questa possibilit.
Strani ragionamenti, sul filo d'una logica un po' folle, che per il
comandante Borghese ed i suoi uomini capivano benissimo, avendone
fatto la loro ragione di vita. Cos, il giorno stesso fui caricato su un
camion che doveva portare a Roma non ricordo chi o che cosa e
giunsi in tempo per partire con il Battaglione alla volta del fronte,
m'ar allievo ufficiale assegnato alla prima Compagnia. Ebbi in
dotazione un mitra Beretta a canna lunga, che al confronto delle
moderne mitragliette pesava un accidente e ingombrava assai, un
samurai (l'imbragatura che permetteva di portare sul petto i
caricatori del mitra) con i caricatori di ricambio e un pugnale a lama
larga, di foggia falso africana, offerto agli uomini del Barbarigo in
segno di pacificazione da quelli della PAI (Polizia dell'Africa Italiana)
che presidiavano la citt e con i quali c'erano state alcune scazzottate.
Scoprii presto che il pugnale serviva, al massimo, per spalmare sul
fetido pane nero tedesco l'insipida margarina.
***
Salvo i casi familiari, la mia scelta di arruolarmi nella Decima per
andare a combattere nelle file del Barbarigo non fu, nelle
motivazioni, diversa da quella degli altri volontari, senso che in tutti
noi il sentimento nazionale aveva la prevalenza sul resto, fascismo
compreso. E probabile del resto che, se Valerio Borghese avesse fatto
appello a motivi strettamente politici, non sarebbe mai riuscito a
raccogliere un piccolo esercito di cos elevate qualit militari, da
reggere il confronto con i Corpi franchi tedeschi formatisi dopo la
prima guerra mondiale per difendere i confini orientali del loro Paese
dall'attacco leninista di Polacchi e Sovietici. Ed interessante notare
come l'obiettivo strategico dato alla Fanteria di Marina della Decima
dal suo Comandante sia stato, alla fine della guerra civile, anche per
noi il confine orientale, anche nel nostro caso minacciato dall'avanzata
comunista.
Ma di ci parleremo pi avanti. Adesso voglio spiegare come e perch
quei primissimi volontari del Barbarigo che and a Nettuno fossero,
tanto i veterani quanto i giovanissimi, qualcosa di eccezionale.
Umberto Bardelli, l'ufficiale sommergibilista che aveva formato il
Battaglione e lo comandava, ne era fiero, e con ragione. Per tutti, pur
facendo parte delle Forze armate della Repubblica Sociale di
Mussolini, valeva la regola che poi Maria Piccoli crocerossina e sorella
del guardiamarina Alberto Piccoli, della IV Compagnia, morto
combattendo sul San Gabriele, riassunse in quattro parole: italiani
pi che fascisti. Non a caso, rileggendo oggi il messaggio di saluto
che Borghese invi al Battaglione subito dopo la sua entrata in linea a
Nettuno, non si trova, in quelle righe, un solo riferimento alla lotta
politica: Oggi posso dirvi che il vostro entusiasmo, la vostra
abnegazione e soprattutto il vostro amor patrio hanno permesso di
travolgere i contrasti enormi affioranti dal caos che ci opprimeva. Oggi
disponiamo di un organismo saldo e sano. La Decima sa quello che
vuole. L'ora del combattimento finalmente giunta. Gi sui campi di
battaglia ove si difende Roma, e con Roma il diritto all'indipendenza,
reparti della Decima lottano contro il vero nemico d'Italia, mentre
mezzi d'assalto solcano nuovamente i flutti per annientare
quell'avversario che ci ha tolto l'onore. Camerati dei mezzi d'assalto,
camerati dei battaglione Barbarigo, che siete gi sulla linea
dell'ardimento, e voi tutti che vi accingete a raggiungerli oppure che
vi addestrate per essere pronti ad ogni rischio unitamente al vostro
Comandante che sempre con voi e tra voi, gridate forte perch
giunga anche ai fratelli delle terre invase: viva l'Italia.
***
Questo linguaggio, di tipo strettamente militare e di ispirazione
esclusivamente nazionale, produsse risultati insperati. Il flusso dei
volontari che arrivavano a La Spezia assunse presto dimensioni
impreviste, provocando fra l'altro le reazioni negative della Marina
Repubblicana (quella che noi chiamavamo la Marina nera, perch
portava ancora la vecchia uniforme) e della Guardia Nazionale
Repubblicana, la formazione che aveva preso il posto dell'antica
Milizia. Il capitano di vascello Ferrini (nominato Sottosegretario alla
Marina dopo che il primo a ricoprire tale incarico, l'ammiraglio
Legnani, il 20 ottobre del 1943 era morto in un incidente d'auto) e
Renato Ricci, comandante della GNR, consideravano con sospetto
Valerio Borghese per la sua proclamata indipendenza politica; Ferrini,
poi, si sentiva diminuito nel suo ruolo di Sottosegretario senza navi
dinanzi al Comandante della Decima che aveva ancora una sua
Flottiglia e andava inquadrando reparti di Fanteria di Marina, mentre
Ricci aveva bisogno di uomini. Cos, alla fine di dicembre del 1943,
approfittando del fatto che il comandante Borghese era andato a
Venezia per organizzare la base dei mezzi navali in Adriatico, Ferrini
invi a La Spezia due suoi ufficiali, il capitano di vascello Bedeschi e il
capitano di fregata Tortora, con l'ordine di assumere il comando della
Fanteria di Marina. A San Bartolomeo, Borghese partendo aveva
affidato il comando ai capitani di corvetta Aldo Lenzi e Umberto
Bardelli, entrambi sommergibilisti e, soprattutto, decisi fautori di
quelle idee di rinnovamento di cui la Decima si faceva portatrice. I
reparti, ancora in formazione, erano il Maestrale, destinato poi a
diventare Barbarigo, il Lupo e gli NP (Nuotatori Paracadutisti:
lo Stato Maggiore della Marina fin dal 1942 aveva deciso di costituire
questo reparto) di Nino Buttazzoni, capitano del Genio Navale e, quel
che pi conta, gi comandante operativo dei reparti che, sotto le
insegne del San Marco, avevano operato prima dell'8 settembre in
collaborazione con la Decima per eseguire incursioni e colpi di mano
in territorio nemico, particolarmente nel Nord Africa.
Furono questi tre uomini che, senza metter tempo in mezzo, la
mattina del 9 gennaio 1944 arrestarono Bedeschi e Tortora, facendo
sapere a Ferrini e Ricci che i reparti di Fanteria Marina della Decima,
con la Decima sarebbero rimasti. Renato Ricci, che voleva
appropriarsene per rinforzare la GNR e usarli contro i partigiani,
doveva rassegnarsi a farne a meno. Oltre a tutto non si poteva
ignorare la volont degli uomini, i quali erano corsi ad arruolarsi per
andare al fronte e non altro.
L'operazione che port all'arresto di Bedeschi e Tortora fu eseguita
con precisione da manuale. Paolo Posio, che gi allora faceva parte
del Battaglione e che si portava dietro il particolare spirito degli Alpini,
reparti abituati a sacrificarsi ma anche a rispettare i loro ufficiali e non
molto quelli provenienti dall'esterno, ancora adesso racconta la
scena con divertito entusiasmo. La messa al campo, la mattina del 9
gennaio; i reparti schierati; l'ufficiale che rispettoso si avvicina a
Bedeschi e gli mormora all'orecchio: Comandante, al telefono,
urgente; Bedeschi che va e, appena entrato in ufficio, si trova con
un mitra puntato addosso e si sente dire che in arresto; l'ufficiale
che torna e dice a Tortora: Il Comandante dice di raggiungerlo;
Tortora che va e fa la stessa fine di Bedeschi. Una scena da film.
Chi non rise furono Ferrini e Ricci: il primo pens bene di chiedere a
Mussolini la testa di Valerio Borghese, il secondo si rivolse ai Tedeschi
per domare i riottosi. Fu un errore: quando i Tedeschi mandarono
dinanzi a San Bartolomeo due autoblindo, la Decima replic mettendo
in batteria alcuni pezzi antiaerei; e i Tedeschi se ne andarono.
Ma la storia non era finita. Valerio Borghese, essendo andato a
Gargnano per esporre le sue ragioni a Mussolini, la sera del 13
gennaio fu arrestato dagli uomini di Renato Ricci e rinchiuso a Brescia,
nel castello. Come tutta risposta, a La Spezia immediatamente
cominciarono ad organizzarsi per attuare un piano ben preciso:
andare a Brescia, liberare il Comandante, e quindi marciare su
Gargnano per liberare Mussolini dai superstiti del vecchio regime
che lo circondavano. Salv la situazione, che ormai era vicina alla
rottura, Enzo Grossi. Il comandante del mitico sommergibile
Barbarigo si trovava alla base di Bordeaux insieme ai suoi
commilitoni e venne informato di quanto stava accadendo da Mario
Arillo, anche lui medaglia d'oro. Senza perder tempo, Grossi corse da
Mussolini e in due giorni di colloqui gli fece capire che, se non avesse
restituito Borghese ai suoi uomini e la Fanteria Marina della Decima
alla Flottiglia, avrebbe anche potuto scordarsi la parte pi importante
e autentica dei volontari della Repubblica Sociale. Mussolini cap:
Ferrini fu silurato, come di regola in casi del genere; si rinunci
all'idea di ogni punizione. Scrisse nel suo diario il segretario di
Mussolini, Dolfin: Nessun deferimento a Tribunali militari; il
Battaglione nel quale si verificarono i noti episodi, per accordo tra
Graziani e Kesselring verr inviato al fronte di Nettuno. E fu cos che,
per punizione, noi avemmo quello che volevamo.
***
Come bene illustrano queste storie (che poi si ripeterono, come pi
avanti dir) nel Barbarigo, dunque, c'era politicamente di tutto.
Siamo quelli che siamo non era soltanto un motto. Esplicitamente
fascisti erano Giulio Cencetti, che poi comand il Battaglione, Alberto
Gattoni, Domenico Trettene, dal folle coraggio, Alessandro Pocek, il
montenegrino. Sicuramente non fascisti erano il comandante
Giuseppe Vallauri, anche lui per alcuni mesi al comando del
Battaglione, e il sottotenente di vascello Urbano Rattazzi. Gli altri, da
Alberto Viarchesi a Giorgio Farotti, da Paolo Posio a Giovanni Feliziani,
da Alberto Giorgi a Renato Carnevale, inventore del Gruppo
d'artiglieria, da Carlo Sfrappini a Trento Salvi, da Gustavo Rufini a
Mario Betti, che prima di diventare ufficiale del X Arditi insegnava
flauto al Conservatorio: tutti costoro, e gli altri che non sono citati (e
me ne scuso) erano soprattutto soldati. Nel senso vero e completo del
termine. Insieme a loro, uno stuolo di sottufficiali, molto spesso dotati
di grande esperienza sul campo, autentico nerbo del Battaglione: da
Francesco Puggioni al secondo capo Garibaldo, il guastatore; dal capo
di terza Giulio De Angelis, fascistissimo, che nella vita privata faceva il
cascatore-cavallerizzo a Cinecitt, al sergente S'avelli; da Bertozzi a
Sala, da Fumagalli a Ferrini, anche qui chiedendo scusa per
l'impossibilit di citarli a tutti gli altri.
Per un caso singolare, molti degli ufficiali, specialmente nel gruppo
che arriv dopo il dissanguamento di Nettuno, provenivano dagli
Alpini. Non ho mai capito il perch. Posso solamente pensare che
questi uomini avessero ritrovato, soprattutto in Umberto Bardelli, che
li reclut prima d'essere ucciso ad Ozegna, quel tipo di rapporto
diretto e chiaro con il superiore, al quale erano abituati nei loro
reparti. Mi ha raccontato Giorgio Farotti che Bardelli si present al loro
gruppo, ch'era raccolto ad Alessandria, e disse soltanto: Posso
offrirvi l'occasione di farvi uccidere per l'Italia. E li conquist.
Cos venne modellato il Barbarigo, i cui m'ar, in grande
maggioranza, non avevano alcuna esperienza militare. Quando
fummo mandati in linea, l'armamento individuale venne completato
con due bombe a mano Balilla, poco pi che petardi da
esercitazione, per ciascuno. Il povero Spagna, mentre i Tedeschi ci
guidavano nel buio della notte alle postazioni sul Canale Mussolini, mi
disse sottovoce, forse perch gli sembravo pi esperto (e non lo ero):
Tienile tu; io non le ho mai tirate....
Bene: con questi uomini, con questa gente come si dice in Marina,
Umberto Bardelli mise in piedi, pur di non darla vinta ai Tedeschi e
tornarsene indietro, addirittura un Gruppo da combattimento
(Kampfgruppe) dotato d'una Compagnia cannoni; e il 23 maggio un
comunicato ufficiale annunci: Il Feldmaresciallo Kesselring,
comandante supremo delle Forze armate germaniche in Italia, ha
indirizzato nei giorni scorsi un telegramma al Comandante della X
Flottiglia Mas, nel quale si compiace vivamente per il magnifico
comportamento del battaglione "Barbarigo", definendone i volontari i
migliori soldati sul fronte di Nettuno per disciplina e ardimento.
Non erano soltanto parole destinate alla propaganda. Il 24 maggio
1944, quando le forze alleate ruppero a Cassino e i reparti in linea a
Nettuno dovettero ripiegare per non restare chiusi in una sacca, i
Tedeschi si lasciarono dietro, a coprirgli le spalle, noi del Barbarigo;
che infatti arrivammo a Roma soltanto il 2 giugno, dopo essere partiti
da Sezze ed aver marciato a piedi, combattendo quando necessario,
nella direzione di Cori-Valmontone. E quando poi, la mattina del 3, il
Comando germanico decise di abbandonare la citt, fu ancora al
Barbarigo che il generale Maeltzer si rivolse per chiedere una
Compagnia di volontari da schierare all'ottavo chilometro
dell'Anagnina e dell'Appia per coprire le spalle alle sue truppe in
ritirata. Uguale sacrificio fu richiesto ai paracadutisti della Folgore
del maggiore Sala, che infatti vennero schierati sulla nostra destra ed
ebbero la sfortuna d'essere investiti dai reparti corazzati alleati, che li
massacrarono, mentre essi resistevano disperatamente. Per quanto
riguarda il Barbarigo, ricordo che ci accapigliammo, nel cortile del
Distaccamento Marina di Roma, per far parte di quella Compagnia
volontaria di formazione che venne chiamata l'Ultima e fu affidata
al capitano Betti, al tenente Cencetti, ai sottotenenti Cicerone, Cinti e
Posio. Quando il Cencio, che conosceva la mia storia, mi chiam e
mi disse: tu vieni come me, mi parve di aver vinto un premio
insperato.
E non furono, quelle, le ultime occasioni. Il Battaglione, ricostituito e
rinsanguato dopo Nettuno, ebbe infatti un ruolo determinante nella
battaglia ingaggiata dalla Decima fra il dicembre 1944 ed il gennaio
1945 per sbarrare ai titini la via di Gorizia. Si rivelarono preziosi,
allora, gli ufficiali che erano arrivati dagli Alpini: a cominciare da
Alberto Piccoli, morto sul San Gabriele, per continuare con Giorgio
Farotti e Francesco Grosso. Il Barbarigo si distingueva dagli altri
reparti della Divisione Decima perch i suoi uomini, proprio alla vigilia
della battaglia per Gorizia, avevano rifiutato di sostituire le mostrine
rosse col Leone di San Marco, con le quali il reparto aveva combattuto
a Nettuno, con le mostrine blu, adottate da tutta la Fanteria di Marina.
Siamo noi del Barbarigo / dalla Fiamma tutta rossa / rossa come un
fior di sangue: / Bardelli che ci guida...: cos lo stornello cantato
per l'occasione.
Infine, nell'aprile del 1945, tocc ancora al Barbarigo, affiancato dal
Battaglione gemello del Lupo, coprire le spalle alle ultime
formazioni germaniche in ritirata, dal Senio verso il nord. Loro
puntavano in direzione dell'Alto Adige, per raggiungere il Brennero e
cercare di arrivare a casa prima che fosse troppo tardi; il Barbarigo
e il Lupo puntavano invece su Thiene, secondo gli ordini impartiti
da Valerio Borghese, che sperava di poter concentrare la Decima a
Trieste, per aiutare le popolazioni della Venezia Giulia. Un progetto
caldeggiato a lungo e reso impossibile dagli Inglesi, come pi avanti
racconter.
Ma in quelle giornate d'aprile il Barbarigo fece ancora una volta
onore alla sua fama. Rimase inquadrato e disciplinato sino alla fine,
come il Lupo, del resto. E arriv fino a Padova, dove proseguire
divent materialmente impossibile: di fronte c'erano i reparti
Angloamericani, alle spalle l'Ariete e la Friuli dell'Esercito del
Sud. E poi, s'era giunti al 28 di aprile, tutto era ormai finito; crollata
la RSI, ucciso Mussolini, in ritirata i Tedeschi. Agli ufficiali restava
soltanto la responsabilit di evitare una strage degli uomini ai loro
ordini. Ci nonostante, nella notte fra il 28 e il 29 di aprile, quando i
m'ar seppero che il Comando di quello che allora si chiamava il
primo Gruppo da combattimento stava trattando la resa con gli
Angloamericani, alle porte di Padova ci fu un tentativo di
ammutinamento. Di arrendersi, gli uomini non ne volevano sapere;
dell'onore delle armi, che gli Angloamericani concessero al reparto,
non sapevano che farsene. Volevano continuare a combattere.
Dovemmo penare tutta la notte per convincerli, racconta uno degli
ufficiali che dopo ore di discussioni e di liti, durante le quali volarono
persino accuse di tradimento, riusc a ridurre gli uomini alla ragione.
Chiunque abbia un minimo di esperienza di cose militari, in grado di
rendersi conto, da queste poche pagine, che quello compiuto nel
nome e sotto l'insegna del Barbarigo fu un fatto davvero
eccezionale. Volontari raccolti all'inizio del 1944, per la maggior parte
inesperti, furono portati al fronte in tre mesi e gettati in una delle
battaglie pi sanguinose della seconda guerra mondiale. Ne uscirono
con onore e continuarono a battersi, i vecchi superstiti insieme ai
complementi giunti nel frattempo, in difesa di Gorizia prima e del
Veneto poi. Infine, soltanto quando tutto era perduto, ed anche allora
con grandissima riluttanza, gli uomini si piegarono all'idea della resa.
In poco pi di un anno, il Battaglione aveva vissuto tutte le esperienze
del combattimento, sempre superandole con coraggio, senza mai
defezioni, restando unito e animato dalla voglia di battersi. Tutti
coloro i quali oggi parlano di volontariato per trovare scappatoie al
servizio di leva o pretesti per ottenere pubbliche sovvenzioni,
dovrebbero riflettere su questi fatti, che dimostrano quali risultati si
possano ottenere quando entrano in giuoco, non la paga speciale, ma
l'amor di Patria e il desiderio di difendere la libert e l'indipendenza
della Nazione.
Capitolo II
IL DIRITTO DI FARSI AMMAZZARE
La tellermine (testualmente: mina a piatto) tedesca, entr in scena
pochi giorni dopo che la prima Compagnia aveva preso posto nelle
buche sull'argine del Canale Mussolini. Aveva, se ben ricordo, le
dimensioni di un piatto da portata, pesava dai due ai tre chili, recava
la spoletta al centro della parte superiore, mentre ai lati due maniglie
servivano per manovrarla. Dinanzi alle nostre posizioni, oltre l'argine,
distante circa duecento metri c'era una casupola semidiroccata, di
quelle costruite dall'Opera Combattenti nelle zone bonificate. Al
Comando tedesco erano convinti che quella casupola servisse come
base per dare il cambio durante la notte ai cecchini americani.
Costoro restavano in postazione durante l'intera giornata e non
soltanto infilavano i nostri camminamenti centrando col fucile a
cannocchiale chiunque osasse metter fuori la testa, ma segnalavano
ogni movimento, attirando su di noi una fitta e prolungata pioggia di
bombe di mortaio. Di qui l'idea geniale: minare la casupola, per far
saltare in aria il nemico all'ora dell'avvicendamento.
L'operazione, in s banale, assunse subito il sapore della sfida. Noi,
come ho gi detto, eravamo in linea da pochi giorni: i Tedeschi non si
fidavano, gli Americani ci stimavano ancor meno e credevano che
fossimo disposti a disertare. Gi nelle prime quarantotto ore erano
piovuti sulle buche volantini indirizzati agli Ufficiali e marinai del
Btg. San Marco, che si aprivano con un grosso BENVENUTI, tutto
a caratteri maiuscoli, e dicevano: Ora siete molto vicini a noi. Mai
avete avuto una migliore occasione: passate nelle nostre linee, ve ne
daremo la possibilit. Sarete accolti da amici: sarete ben trattati,
sarete considerati amici, non nemici. Vivrete da uomini liberi, non da
schiavi. Se ci combatterete, dividerete il destino che incombe sui
nazisti: a voi la scelta. Perch morire, quando potete vivere?
Conservate questo foglietto: vi servir da lasciapassare.
Chi aveva compilato quel foglietto non aveva capito nulla di noi. A sua
sola scusante si pu invocare il fatto che non ci conosceva. Come, del
resto, non ci conoscevano i Tedeschi, i quali, dopo l'8 settembre 1943,
avevano tutto il diritto di temere che questi italiani del Barbarigo
avessero fatto tante storie per andare al fronte al solo scopo di
passare dall'altra parte, mettendoli ancora nei guai.
Cos, l'incarico di uscire dalle linee e andare a piazzare la famosa
tellermine fu dato ad un sottufficiale della Whermacht, un feldwehbel,
accompagnato da un soldato che portava l'ordigno. Il sottufficiale
venne da noi e chiese una scorta di tre uomini che coprissero le spalle
a lui ed al suo aiutante: si trattava di uscire dalla linea, ruzzolare gi
per l'argine e strisciare nel fango (quel marzo del 1944 fu
particolarmente piovoso, tanto che i pochi panzer superstiti si
impantanarono e furono costretti a sospendere gli attacchi che
avrebbero potuto ricacciare in mare la testa di ponte costituita con
grandissimi sacrifici dai soldati della 5a Armata) fino all'obiettivo.
I tre m'ar furono presto trovati e il gruppetto inizi la sua lentissima
marcia: fuori dalle buche, gi dall'argine, via nel fango; il
feldwehbel in testa, poi il tedesco con la mina, poi i tre del
Barbarigo. Sembrava che tutto procedesse nel migliore dei modi
quando, proprio mentre gli uomini erano a poca distanza
dall'obiettivo, su quel tratto di fronte brill tremulo un bengala,
illuminando a giorno, e subito dopo cominciarono ad arrivare le
mortaiate. Che durarono un bel po', fortunatamente senza far danni.
A bombardamento finito, il sottufficiale tedesco con un ultimo balzo
raggiunse la casupola diroccata, seguito dal suo uomo e dai nostri tre;
a quel punto avvenne la scena madre. La mina, presto, disse il
sottufficiale al suo soldato; ma questi non l'aveva pi. Terrorizzato
dalle bombe nemiche, l'aveva mollata in mezzo al prato. I tre del
Barbarigo, compreso quello che stava succedendo, fecero capire al
furibondo sottufficiale che non tutto era perduto; sarebbero andati
loro a ricercare la mina. E cos fecero, e la trovarono, percorrendo a
ritroso la via gi battuta, e la riportarono indietro, per metterla al
posto designato. Dove, sia detto fra parentesi, si rivel perfettamente
inutile; ma questo un altro discorso.
Da quel giorno, mai pi i Tedeschi pretesero di guidare le nostre
pattuglie. E a fare il resto provvide il coraggio folle dell'ufficiale che ci
comandava in quel tratto, il tenente Giovanni Feliziani.
Ufficiale di macchina della Marina mercantile, Feliziani aveva fatto la
guerra fino all'8 settembre sulle torpediniere. Era dunque abituato a
dormire in mezzo al frastuono assordante dei motori, e questo,
sommato al fatto che nulla riusciva a fargli paura, gli consentiva di
russare beatamente nella buca anche durante i bombardamenti
nemici. La sua fama si propag presto fra i Tedeschi e gli ach,
prima! e i wunderbahr! si sprecarono. Quando, poi, una scheggia
di mortaio lo colp alla testa inchiodandogli l'elmetto al capo e
Feliziani, impavido, usc dalle buche e marci a piedi fino al posto di
pronto soccorso, tenendo fermo l'elmetto con la mano perch la
scheggia non producesse altri danni, il personaggio divenne
leggendario. E rimase fedele sino all'ultimo alla sua leggenda, come
racconta chi lo vide nel gennaio del 1945, a Tarnova, camminare sotto
il fuoco titino raccogliendo in un sacco piante di cavolo, preziose per il
reparto rimasto senza viveri.
***
Perch la storia della tellermine? Per far capire a chi legge che, dopo
l'8 settembre 1943, noi dovemmo conquistare, e con grande fatica, il
diritto di andare a rischiare la pelle, e magari farci accoppare, per il
nostro Paese.
Intendiamoci: di gente disposta ad aggregarsi ai loro reparti, giurando
fedelt al Reich e rinunciando alla propria identit nazionale, i
Tedeschi erano pronti ad accoglierne. Ma non per questo il
comandante Borghese, 1'8 settembre 1943, s'era rifiutato di
ammainare il tricolore a La Spezia, alla base della Decima, ed aveva
rispedito ai loro comandi le truppe germaniche che s'erano presentate
alle porte del Muggiano. Valerio Borghese voleva offrire ai volontari
che avrebbero risposto al suo appello la possibilit di combattere
come soldati italiani, sotto bandiera italiana, agli ordini di ufficiali
italiani. Poco gli importava che l'Italia come entit politica e
amministrativa non esistesse pi (la Repubblica Sociale Italiana venne
dopo, quando Borghese aveva gi fatto la sua scelta e cominciato la
sua azione): egli sapeva, e sentiva, che, fin quando vi fosse stato un
reparto inquadrato, tutto italiano, l sarebbe stata la Nazione; e
questo offriva ai volontari che accorrevano alla sua chiamata. Noi del
Barbarigo avemmo soltanto la fortuna d'essere i primi, in un moto
di volontariato che assunse proporzioni oggi nemmeno immaginabili.
La posizione di Valerio Borghese ricordava con impressionante
analogia quella degli ufficiali germanici che dopo la prima guerra
mondiale, quando la Germania vinta subiva loffensiva interna dei
comunisti e quella esterna dei bolscevichi all'Est e dei vincitori
all'Ovest, diedero vita ai Corpi franchi, nucleo originario poi della
Reichswehr. Una storia ben raccontata da von Salomon nel suo I
proscritti, che Einaudi pubblic con felice intuizione proprio nel 1944
e costitu per moltissimi di noi una specie di breviario spirituale.
Perch anche in questo, pur restando alla fine soccombenti, fummo
fortunati: ci fu concesso vivere l'ultima esperienza romantica della
guerra.
Proprio a causa di questi precedenti storici, la pozione di Valerio
Borghese e dei suoi ufficiali, a cominciare da Umberto Bardelli, trov
molti ufficiali superiori tedeschi disposti a comprenderla ed accettarla.
L'incomprensione negli Alti comandi e nei circoli politici era, invece,
totale. In sintesi, la situazione si pu riassumere cos: i tedeschi
senza storia, quelli che non vedevano oltre il Terzo Reich ed i sui
interessi di potenza in declino, volevano italiani come carne da
cannone; i tedeschi che ricordavano la storia, invece,
comprendevano la nostra tragedia nazionale e ci accettavano come
soldati italiani sapendo che, oltre tutto, in questo modo avrebbero
ottenuto, sul campo di battaglia, molto di pi. Come i fatti poi
dimostrarono.
Cos, avvenne qualcosa di incredibile: la Decima, alleata dei
Tedeschi, dovette armarsi di nascosto. Un ardito colpo di mano,
racconta Alessandro Pocek, sotto mentite vesti partigiane (partigiani
non ancora esistenti) permise di catturare a Gardone Val Trompia,
muovendo dalla base di Ghidoni, ben due vagoni di mitra in partenza,
destinati alle Forze armate germaniche in Romania. Con quei mitra fu
completato l'armamento degli N.P. (Nuotatori Paracadutisti) in
partenza per Jesolo, fu armato il Barbarigo e fu costruita la prima
scorta d'armeria per i futuri altri reparti.
Ma l'episodio determinante per la vita stessa della Decima
repubblicana si verific nei pressi di Sermoneta, nella sede del
comando tedesco al quale era stato destinato come rinforzo il
Barbarigo. Fu l che, subito dopo l'arrivo del Battaglione da Roma
ed il suo provvisorio acquartieramento nella antica rocca affacciata
sulla piana pontina, avvenne lincontro fra Umberto Bardelli e il
generale Friedrich von Schellerer. Il Comandante era accompagnato
da Giuseppe Vallauri, comandante in seconda, e da Urbano Rattazzi,
aiutante maggiore in funzione di interprete. Non credo di esagerare
dicendo che fu una grande fortuna per la Decima e per noi tutti che a
rappresentare il Barbarigo fossero quei tre uomini: Bardelli, con
l'eccezionale capacit di comunicativa che gli era propria e tutto il suo
ardimento di sommergibilista; Vallauri, che rappresentava anche
fisicamente il prototipo dell'ufficiale; Rattazzi, con il suo nome e la
disinvoltura che gli veniva dall'educazione familiare. Fossero stati tipi
diversi, nemmeno gli sforzi di Valerio Borghese, che era lontano,
sarebbero valsi a far accettare il Barbarigo in una condizione alla
pari con le truppe tedesche combattenti. E questo possono capirlo
bene anche quanti dall'altra parte della barricata cercarono, dopo l'8
settembre del '43, di riconquistare un minimo di rispetto, da parte
degli altri, per la Nazione e le armi italiane. Se quell'incontro nella
casetta colonica dove aveva sede il comando del Kampfgruppe di von
Schellerer fosse andato male, il Battaglione sarebbe stato smembrato
e noi tutti saremmo finiti nel triste ruolo degli ausiliari. Con quali
ripercussioni sul futuro della Decima, facile immaginare.
Ma le cose andarono per il verso giusto. Quando il generale tedesco
cominci a dire che gli uomini del Barbarigo sarebbero stati
inquadrati nei reparti della Wehrmacht e delle Waffen SS ai suoi ordini
(sparute formazioni, che portavano ancora i nomi delle Divisioni
d'origine ma avevano ormai la forza d'una Compagnia), Umberto
Bardelli insorse; e fu tanta la sua foga, cos persuasivo il suo impeto,
che il tedesco si pieg. Cap che consentirci di restare uniti sarebbe
risultato pi utile per lui. Cos, le quattro Compagnie nostre vennero
distribuite sul campo e si decise pure che la prima fosse avviata
subito al Canale Mussolini, dove pi urgente era il bisogno di rinforzi.
Ma la partita non era ancora finita. Prima di concludere il rapporto ed
assegnare tutti gli obiettivi, il generale tedesco disse, come per inciso:
Quanto ai Suoi cannoni.... Noi non abbiamo cannoni, replic
Bardelli. Ma Lei mi ha detto che il Suo un Kampfgruppe; non si
preoccupi, glieli daremo noi. E Bardelli, da bravo sommergibilista
pronto a tutte le avventure e, soprattutto, ignaro d'ogni problema
relativo all'artiglieria: Sta bene. Dopodich, i nostri tre tornarono a
Sermoneta e Umberto Bardelli, convocato il rapporto ufficiali,
annunci, come se fosse stata la cosa pi facile del mondo, che il
Barbarigo avrebbe dovuto mettere in piedi al pi presto una
Compagnia cannoni.
Fu il momento di gloria del capitano Renato Carnevale e di un
sottufficiale che prima dell'8 settembre aveva prestato servizio in
Marina come artigliere. Si andarono a ricercare nei reparti gli esperti
di artiglieria (pochi) e i volontari. Nacque il Gruppo cannoni che fu
intitolato al San Giorgio, nel ricordo del famoso incrociatore che era
stato semiaffondato nella rada di Tobruk e trasformato in fortezza
contro gli attacchi aerei e navali. Bardelli premeva, incitava, esortava,
come soltanto lui sapeva fare. I pezzi arrivarono, gli artiglieri
improvvisati impararono presto ad usarli e si ebbero pure un elogio
dal Comando germanico.
A fine marzo il nostro Kampfgruppe era tutto impegnato nelle varie
collocazioni, diserzioni non ce n'era state, la battaglia contro la
diffidenza tedesca era vinta. A suon di morti. I m'ar avevano gi
cominciato a cantare i primi stornelli: E sono morti / gi Spagna e
Frezza, / hanno peccato / di leggerezza: / saran mandati / sotto
processo: / perch son morti / senza permesso.
Lo scontro con i Tedeschi si ripropose alla fine del '44 e nel 1945,
quando il Barbarigo, insieme a quella che ormai era diventata la
Divisione Decima, venne inviato a difendere il confine orientale. Ma
di questo parler pi avanti. L'importante ricordare, a chi troppo
spesso parla dei nostri reparti come di formazioni al servizio dei
Tedeschi, quanto ci cost ottenere il rispetto di quegli alleati,
giustamente diventati sospettosi e sprezzanti dopo essersi visti
abbandonati, considerati di colpo nemici dopo tre anni di guerra
combattuta insieme. Se noi del Barbarigo, e con noi i paracadutisti
della Folgore, che fummo i primi volontari a tornare in linea dopo
l'armistizio di Cassibile, non avessimo superato la prova,
probabilmente l'Esercito della RSI, come formazione autonoma, non
sarebbe mai nato.
Capitolo III
LA BATTAGLIA DI ROMA
Il Barbarigo and al fronte nella notte fra l'uno e il due marzo del
1944, quando i millecentoottanta che formavano il Battaglione
vennero trasportati dai Tedeschi fino a Sermoneta. L, dopo che
Bardelli fu riuscito ad evitare lo smembramento del reparto, furono
distribuiti gli incarichi: la 1a Compagnia subito nelle buche del
Canale Mussolini (oggi Canale Italia) a dare il cambio agli sfiniti
soldati germanici nella punta avanzata dello schieramento; altre due
Compagnie schierate dal Lago di Fogliano fino al fosso di Gorgolicino;
un'altra ancora a Sezze per impratichirsi delle armi tedesche (erano
entri in scena da poco, per esempio, i razzi anticarro, che i Tedeschi
chiamavano panzerfaust e che bisognava imparare ad usare restando
sdraiati a terra e lasciando che il carro si avvicinasse il pi possibile,
senza cedere alla tentazione di filarsela a gambe levate).
Nella notte fra il 4 ed il 5 la 1a Compagnia entr in linea: prima un
tratto sulle camionette germaniche, che correvano silenziose nella
notte lungo le strade dell'Agro pontino sbrecciate dalle granate ma
ancora guarnite dai filari di eucaliptus; poi, da Borgo Isonzo in avanti,
a piedi e in silenzio. Quel ricambio nelle buche avvenne senza che il
nemico se ne accorgesse, e fu davvero una gran bella prova per
soldati inesperti, come noi eravamo; ci rendemmo conto, poi, che le
buche del nemico erano a poca distanza, tanto che tutto si poteva
sentire.
La battaglia di Nettuno and avanti fino al 24 maggio ed ebbe fine,
non perch le truppe angloamericane ammassate nella testa di ponte
di Anzio fossero riuscite a sfondare, ma perch le altre forze alleate,
grazie soprattutto ai Polacchi, ai Marocchini ed alla loro bravura,
erano riuscite ad aprirsi un varco a Cassino. Rischiavamo cos di
essere aggirati alle spalle e per questo fu dato l'ordine di
ripiegamento. Ma la battaglia, in realt, dur fino al 2 giugno per noi
del Barbarigo, che i Comandi tedeschi lasciarono a piedi con
l'ordine di coprire la ritirata ai loro soldati, e si protrasse fino all'alba
del 4 giugno per quanti, fra noi, riuscirono a farsi accettare nella
Compagnia volontaria di centodieci uomini spedita nel pomeriggio del
3 a garantire un'estrema difesa all'ottavo chilometro fra le vie Appia,
Tuscolana e Anagnina. Le inesperte reclute s'erano conquistate, in tre
mesi, il diritto ad essere prescelte per fare da sicherungsgruppe,
secondo la formula in uso nell'Esercito tedesco per indicare chi veniva
abbandonato dall'Armata in ritirata con l'ordine di battersi sul posto
fino alla fine per salvare tutti gli altri. Alla nostra destra si sarebbero
dispiegati i paracadutisti della Folgore che furono poi quasi tutti
massacrati insieme al loro comandante, essendo stati investiti dai
carri armati americani.
Il fatto merita riflessione. La battaglia di Anzio (indicata in codice dagli
Angloamericani come operazione Shingle) incominci con lo
schieramento di ben 234 navi di diverse nazionalit e vide sbarcare,
prima 36mila uomini e 3mila automezzi, poi altri 34mila uomini e
15mila automezzi. Il generale tedesco Mackensen, comandante della
14a Armata, fu colto di sorpresa, ma organizz presto una prima
resistenza; poi intervenne il maresciallo Kesselring, al comando del
Gruppo di Armate C. Le perdite da ambo le parti furono altissime.
Basti pensare che il 4 Corpo d'Armata americano, in soli quattro
giorni, fra il 16 e il 20 febbraio, vide morire 5mila uomini; i Tedeschi,
in una delle ultime controffensive, persero oltre 3mila 500 uomini. Alla
fine, la sacca era ridotta ad appena due chilometri di profondit e le
forze alleate non furono ricacciate in mare soltanto per due motivi:
perch il maltempo, che dur a lungo e trasform la piana in uno
sterminato mare di fango, blocc i pochi carri armati e i semoventi di
cui ancora disponevano i Tedeschi; e perch la Marina da guerra
angloamericana, con i suoi bombardamenti, frantum, polverizz le
posizioni germaniche. Fu, insomma, un autentico macello.
E in questo macello il Comando tedesco, arrivati all'ultima battaglia,
affid ai volontari italiani, cio a noi del Barbarigo, ed ai nostri
commilitoni paracadutisti, il compito disperato di ritardare, anche
soltanto per poche ore, l'avanzata nemica. Non fu una scelta dettata
dall'egoismo di chi non voleva sacrificare i propri connazionali e
preferiva ricorrere ad altri come carne da cannone. In casi del
genere, le scelte si fanno avendo la certezza che i soldati comandati al
compito disperato non si daranno alla fuga e combatteranno fino
all'ultimo, come voluto. Quelle disposizioni dell'ultimo giorno furono,
dunque, assai pi importanti d'una decorazione collettiva, d'una
citazione sul campo.
***
Adesso dovrei raccontare della lunga battaglia, che il Barbarigo
conobbe tutta, senza risparmio, dal Canale Mussolini a Fogliano, da
Terracina a Borgo Isonzo, da Borgo Piave a Gorgolicino, da Cisterna a
Campo di Carne, da Doganelle a Sezze; e poi tutti i nostri caposaldi,
da casa Falangola alla ridotta Fracassini, a Erna e Dora.
Nomi e localit che nessuno di noi ha dimenticato e di cui in anni
vicini siamo andati vanamente alla ricerca nell'Agro Pontino, dove la
ricostruzione ha cancellato tutto e per i nostri morti non c nemmeno
un cimitero. Soltanto alcuni alberi, eucaliptus lungo le strade, palme
ad Anzio sopravvivono, mostrando antiche ferite; guardandoli, e
ricordando cosa fu la battaglia, si rimane ancora stupiti per la loro
forza, eguale soltanto a quella della memoria dei combattenti.
Il lettore non si attenda da me un racconto epico. Innanzi tutto,
perch non ne sarei capace. In secondo luogo, perch una relazione in
tono epico sulla vicenda del Barbarigo fu gi scritta da Giulio
Cencetti, che del Battaglione fu anche il comandante nel periodo
finale. E infine perch lo stile e il modo di pensare di tutti noi (siamo
quelli che siamo) erano diversi e lontani dalla retorica; ed io sto
cercando di far capire come eravamo.
Il Barbarigo sub a Nettuno, in soli tre mesi, perdite altissime: oltre
200 morti, pi di cento dispersi, quasi 200 feriti su un totale di
millecentoottanta uomini. Ci dimostra che non fummo risparmiati, n
ci risparmiammo. Ma questo era proprio quello che volevamo.
Eravamo tutti volontari e di un buon livello culturale: la grande
maggioranza studenti. Avemmo la fortuna di ritrovarci ufficiali di
ottimo livello, scelti con occhio sicuro da Borghese e da Bardelli. Da
loro, noi novellini imparammo subito una cosa: e cio che il compito
del soldato non , n quello di fare l'eroe, n quello di obbedire alle
esaltazioni momentanee, ma, pi semplicemente, consiste nel fare
quello che va fatto, in ogni momento e in ogni situazione, senza
stare a tirarla in lungo e sapendo che tra le cose che vanno fatte
pu rientrare anche il sacrificio della vita.
Questo era lo spirito dei primissimi volontari, quelli del fronte di
Nettuno, ma anche di quanti giunsero pi tardi, dopo la caduta di
Roma, provenienti da altri reparti, per ricostituire il Battaglione, le cui
perdite erano aumentate durante il ripiegamento verso il Nord. E cos,
il vero prodigio del nostro Barbarigo fu quello di amalgamare e
trasformare in autentici soldati tanti ragazzi che, come il povero
Spagna, erano entrati in linea senza nemmeno aver tirato, fino al
giorno prima, una bomba a mano. Non c' bisogno di essere esperti di
cose militari per capire l'eccezionalit di questo fatto: basta aver
visto, in qualcuno degli innumerevoli film di guerra trasmessi dalla
televisione, l'importanza che viene attribuita all'addestramento. Noi, il
tirocinio lo facemmo combattendo, come avevamo desiderato. E
fummo riconoscenti a Valerio Borghese per averci consentito di
realizzare quel desiderio. La storia tutta qui.
I primi a morire furono, quasi per un segnale simbolico, due fra i pi
giovani: Alberto Spagna, di cui ho gi detto, e il guardiamarina Paolo
Sebastiani, che era stato anche l'alfiere del Battaglione. Il 1 aprile
del '44 il numero uno del giornale di reparto, un modesto foglietto
stampato a Littoria (oggi Latina), pubblicava l'elenco dei primi caduti
e il saluto del comandante Bardelli: Guardiamarina Sebastiani Paolo,
1a Compagnia; 2 Capo Nobili Emilio, 1a Compagnia; Sergente
Cortese Enzo, 3a Compagnia; S.C. Farn Alfonso, 2a Batteria; M'ar
Bernardi Italo, 1a Compagnia; M'ar Breda Dante, 1a Compagnia;
M'ar Caprai Fernando, 1a Compagnia; M'ar Egi Walter 3a
Compagnia; M'ar Frezza Emanuele, 1a Batteria; M'ar Mancino Aldo,
2a Batteria; M'ar Spagna Alberto, 1a Compagnia.
Ho voluto citare questi nomi, nel modo stesso in cui furono elencati,
per far capire che tutto il Battaglione fu subito impegnato, compreso il
famoso Gruppo cannoni, che Bardelli era stato costretto ad
inventare l per l, vincendo la scommessa grazie alla bravura del
capitano (tenente di vascello) Mario Carnevale. A nome dei morti,
Bardelli scrisse: Siamo tutti qui per i vivi, perch il nostro giovane e
puro sangue non sia dimenticato e dia frutto, perch i compagni che
combattono sanno che senza di noi ogni parola e ogni promessa non
sono che vuota retorica. Parole delle quali, anche in tempi segnati
dalla retorica dell'antiretorica, non lecito sorridere, perch non
furono scritte a vuoto: molti di quelli che le lessero allora furono
uccisi, lo stesso Comandante che le scrisse mori combattendo, dopo
aver gridato a chi l'aveva preso in imboscata: Barbarigo non
s'arrende!. Sembra letteratura, cattiva letteratura, a chi legge con gli
occhi di mezzo secolo dopo. Per noi tutti fu vita.
In questo stesso spirito si svolsero i molti episodi di cui furono
protagonisti i soldati del Barbarigo. Quando eravamo arrivati a
Sermoneta, all'inizio dell'avventura, la piana che degradava dalla
rocca verso il mare bruciava dei mille fuochi della battaglia e, sullo
sfondo, i traccianti delle artiglierie di marina disegnavano nel cielo
fantastici reticoli luminosi. Poi, quando anche noi ci trovammo
immersi in quel macello, la battaglia si frantum, come sempre
avviene per tutti i soldati. Avemmo di fronte, di volta in volta,
Canadesi, Neozelandesi, Americani; atletici e sportivi i primi, nei pochi
casi in cui si riusc a farne prigioniero qualcuno dovettero piegarsi a
cedere le scarpe. Noi avevamo ai piedi gli stivaletti da franchigia
della Marina, tutto quello che Borghese e i suoi collaboratori erano
riusciti a trovare, e sembravano di cartone, fatti per impregnarsi
d'acqua; loro avevano anfibi comodissimi, impermeabili e caldi. Chi
invece, fra i nostri, fosse caduto prigioniero, ma s, anche degli
Americani, sapeva che gli conveniva offrire subito l'orologio e
quant'altro di valore avesse indosso, per evitare d'essere ucciso e
rapinato. C'erano anche Americani convinti del fatto che un
prigioniero nemico, nel corso d'una battaglia, res nullius, con
tanti saluti alla convenzione di Ginevra.
Debbo aggiungere, a onore dei miei vecchi commilitoni, che essi
ancora oggi preferiscono parlare del Battaglione, pi che di loro stessi.
E tuttora vivo, insomma, lo spirito che si manifest tanti anni fa
quando l'allora guardiamarina Enzo Leoncini, che aveva il comando
della 3a Compagnia, dopo un'azione che aveva suscitato ammirazione
anche presso i Tedeschi, venne chiamato al Comando di Battaglione e
si sent dire che sarebbe stato proposto per una medaglia d'argento.
Allora la date anche ai m'ar dei quattordici avamposti, che hanno
fatto tutto, rispose Leoncini: c'ero anch'io, li comandavo io; ma se
non era per loro staremmo ancora correndo verso Roma con gli Alleati
al culo. Quelli del Comando non volevano capire, ma Leoncini non
moll: Una sola medaglia per me non fa per noi. O la date a tutti
quelli che dico io o non la date a nessuno. Si addivenne finalmente a
un compromesso: Io, disse Leoncini, che era romano, a Roma ho
una ragazza, e cos buona parte dei miei uomini. Andiamo in
permesso a Roma cinque o sei per volta, per 24 ore, poi torniamo e
non se ne parla pi. E cos fu fatto.
Ma lo straordinario collettivo (per usare una definizione d'oggi) che
fu il Barbarigo, forn anche tanti spunti individuali, che meritano
rievocazione. Parlo di quando il capo di 3a classe Giulio De Angelis,
detto lo Sceriffo, per esser certo che i suoi giovani marinai durante
la notte fossero ben svegli, ruzzolava fuori dalle buche e poi si
avvicinava strisciando alle linee, a rischio di farsi accoppare; e quando
trovava qualcuno addormentato gli calava addosso e cominciava a
pestarlo di santa ragione con la bomba a mano tedesca usata a mo' di
randello dicendo: se era il negro (in genere gli Americani usavano
soldati di colore per le azioni di sorpresa) a quest'ora eri morto.
Parlo di Mario Riondino, all'epoca guardiamarina, che in un'azione di
pattuglia guidata da un feldwehbel tedesco (analoga a quella di cui ho
gi scritto) alla fine si ritrov a salvare lui, sulle spalle, il sottufficiale
ferito, dopo che i soldati della Wehrmacht se l'erano data a gambe, e
ricevette per questo anche lui un colpo mentre rientrava nelle linee; il
tutto sottolineato da una croce di ferro di seconda classe che von
Schellerer in persona gli appunt sul petto. Parlo di Renato Carnevale,
artigliere d'Africa Orientale e d'Albania, che in poche ore, avendo
ricevuto dai Tedeschi nove cannoni da 105/28 (privi peraltro di reti
mimetiche e di altri strumenti, che lo stesso Carnevale dovette andare
a Roma a procurarsi con mezzi di fortuna, viaggiando su una Balilla
sconquassata, denominata cassa da morto), mise in piedi il Gruppo
San Giorgio e nel giro di tre settimane riusc a meritarsi una
citazione del Comando di Kesselring. Parlo di Alberto Marchesi e
dell'indomito coraggio che lo spinse, nei giorni del ripiegamento su
Roma, ad avventurarsi in mezzo ai reparti in ritirata per rintracciare
quelli nostri, che erano rimasti senza ordini, abbandonati dai Tedeschi
sulle loro posizioni, dalle quali nessuno intendeva andarsene di sua
iniziativa, sempre per via di quel maledetto 8 settembre e del ricordo
ignominioso delle fughe collettive (ma noi vedemmo anche i Tedeschi
fuggire, e in pi d'un caso restammo a coprir loro le spalle). Parlo di
Paolo Posio e degli uomini della 2a e 3a Compagnia impegnati a
Cisterna contro gli Sherman americani che avanzavano aprendo la
strada alle fanterie, e che per ore tennero le posizioni, anche dopo
che il Comando tedesco aveva ordinato di rientrare. Parlo, infine, di
Alessandro Tognoloni che, sempre a Cisterna, bench ferito non
accett di ritirarsi e si gett contro i carri nemici avanzanti armato
soltanto della pistola e d'una bomba a mano. Scomparve nel
polverone della battaglia, fu dato per morto e si ebbe, per quel fatto,
una medaglia d'oro alla memoria, che avrebbe meritato comunque.
Nemmeno lo stile ampolloso di cui i ministeriali erano specialisti in
casi del genere (e tali rimasero su entrambi i lati del fronte durante la
guerra civile, tali sono ancor oggi; come se la guerra e gli atti di
valore non si potessero raccontare con le parole d'ogni giorno), riusc
a velare il coraggio di Tognoloni: Ufficiale comandante di un plotone
fucilieri inviato di rinforzo a reparto duramente provato, riusciva con i
propri uomini a contenere per molte ore la straripante pressione
avversaria. Invitato dai superiori a ritirare il plotone ormai duramente
provato, insisteva ancora una volta nel condurlo al contrattacco.
Ferito, a chi tentava di portargli aiuto, ordinava di non pensare a lui.
Trascinatosi nelle linee italiane e vista la situazione ormai
insostenibile, dopo aver con grande freddezza dato ai pochi superstiti
disposizioni per il ripiegamento ed essersi assicurato che il
ripiegamento si effettuava con il salvataggio di tutte le armi, si
scagliava contro il nemico irrompente con la pistola in pugno e
lanciando bombe a mano, fin quando veniva travolto dalle forze
corazzate avanzanti. Meraviglioso esempio di cosciente eroico
sacrifcio per l'Onore e per la grandezza della Patria. Fronte di
Cisterna, 24 maggio 1944.
Riporto per esteso questa motivazione, non soltanto perch il fatto
autentico e la decorazione ben meritata, ma perch Sandro Tognoloni
in realt non mor; fu raccolto ferito dagli Americani e portato
prigioniero negli Stati Uniti. Di dove torn, e il 30 luglio del 1951 si
vide giungere, dal Comando del Distretto militare di Roma, protocollo
22/C/7525, indirizzata al sottotenente di complemento di fanteria
Tognoloni Alessandro una lettera che recava in oggetto la dicitura
partecipazione punizione ed era cos formulata: Informo VS. che il
Ministero della Difesa Esercito con dispaccio 44321/112793 in data
22/12/49 le ha inflitto 12 mesi di sospensione disciplinare dal grado
con la seguente motivazione: "giurava alla r.s.i. (tutto accuratamente
minuscolo nel testo, nota mia) e prestava circa 7 mesi di servizio in
una formazione della X Mas. Il 21/5/44 gravemente ferito a Cisterna,
veniva catturato dagli americani. Per il suo comportamento veniva
decorato della medaglia d'oro al V.M.". Condonata in virt del D.L.P.
24/6/46 n.10. Mirabile esempio di militar-burocratese, dove non si
capisce bene se il Governo di questa Repubblica abbia condonato
l'indisciplina di Tognoloni o la sua medaglia d'oro.
Ma anche a questo, alla guerra burocratica che avrebbe voluto
cancellarci per sempre ed arriv, per tal fine, addirittura a cancellare il
nostro servizio militare nella Repubblica Sociale, come se non fosse
mai esistito, come se non avessimo mai combattuto, siamo riusciti a
sopravvivere.
***
Tre mesi, dur la battaglia di Nettuno per il Barbarigo. Quella per
Roma dur soltanto una notte. L'ultima notte. Quella dal sabato 3 alla
tarda mattinata della domenica 4 giugno 1944 quando, in pochi
superstiti, ce ne andammo, ultimo reparto organizzato ad uscire dalla
citt, per la via Flaminia, sotto gli attacchi dei caccia americani.
Roma era stata per mesi alle nostre spalle, muta ed ostile. Ma, al
fronte, questo era permesso anche ignorarlo. La gente, quando alla
sera si chiudeva nelle case e spegneva le luci, tendeva l'orecchio ai
tonfi lontani, dove eravamo noi, e cercava di capire. Capire quanto
avremmo resistito ancora, perch soltanto questo importava. Per
quanto tempo la citt avrebbe dovuto continuare a sopportare una
difesa che non voleva.
Pi i trionfi erano vicini, forti e continui, pi la gente era lieta. Lieta
della sua vilt, fra le pareti calde e le finestre ben chiuse, unita nel
desiderio di cibo, che la spingeva a contare con gioia i nostri morti;
non tanto per odio, quanto perch essi erano l'indice pi sicuro della
progressiva paralisi nostra. Roma non ci odiava n ci amava: voleva
soltanto che ce ne andassimo, per poter finalmente ritrovare le
abboffate. Del resto, era pur sempre la citt che pochi mesi prima,
il 25 luglio del 1943, aveva salutato la caduta del fascismo
inalberando cartelli con la scritta Viva Badoglio che ci d l'olio.
Ideologie, onore militare, amor patrio, come dicono a Roma, n'un so'
cose che se magneno.
Cos era andata, ripeto, e nessuno di noi, lontano, se n'era reso conto
veramente. Ma quando, alla sera del 3 giugno, ripartimmo da Roma
per raggiungere l'ottavo chilometro dell'Appia e distenderci come
sicherungsgruppe, il dubbio non era pi possibile per nessuno. E per
questo dico che allora, e solamente allora, noi combattemmo la vera
battaglia per Roma.
Il Battaglione era tornato due giorni prima, dopo aver combattuto per
tutto il ripiegamento insieme a pochi reparti di copertura della 735a
Divisione tedesca. Battaglia dura, combattuta passo per passo da
gente sorretta unicamente dal desiderio di spuntarla. Il ripiegamento
era cominciato, come ho gi detto, il 24 maggio e, da allora, ci
eravamo fermati soltanto il 2 giugno, entro le mura del Distaccamento
Marina.
La citt accolse distratta e indifferente la nostra banda cenciosa e
sporca, come sempre quando i soldati vengono dalla battaglia. Se
tutti quei partigiani antifascisti di cui negli anni successivi si tanto
favoleggiato fossero esistiti veramente, avrebbero potuto attaccarci e,
forse, anche sopraffarci. Ma non si vide nessuno. La citt era calma, i
tram circolavano; Roma pensava ad altro. Pensava a quelli che ormai
stavano arrivando, ragionava obbedendo alle spinte dei ventri vuoti e
della paura continua. Noi, che ci stavamo a fare ancora? Non eravamo
che fantasmi.
Cos, quando alla sera del sabato 3, insieme all'ordine di evacuare
Roma entro le 24, il comandante Bardelli ebbe quello di formare una
Compagnia volontaria (e fu chiamata poi l'Ultima) da m'andar gi
all'ottavo chilometro, verso Cinecitt, per creparci tutti se necessario,
centodieci uomini si offrirono in un minuto. Questo sa di retorica,
forse, e pu suonare falso; ma cos. Eravamo centodieci, comandati
da Mario Betti, che da anni faceva il soldato e proveniva dal Decimo
Arditi e che poi, a guerra finita, scoprii essere un professore di flauto.
E Betti aveva con s, come ho gi detto, Giulio Cencetti, Paolo Posio,
Mario Cinti e Claudio Cicerone come ufficiali subalterni. Centodieci,
con i piedi piagati dalle lunghe marce del ripiegamento, le divise
sporche e la testa in subbuglio per il dolore e la rabbia; mandati
contro gli Sherman con i soli mitra e le bombe a mano, su due
camion che non ci avrebbero aspettato perch, tanto, secondo le
previsioni del Comando tedesco, non sarebbero serviti. A Via Veneto,
quando passammo, la gente era ai caff, ed era tanta, perch molti
erano scesi a Roma per farsi liberare (altri ne trovammo poi a
Firenze, dello stesso tipo). Dall'alto delle macchine urlammo loro le
ingiurie pi oscene che mai soldati abbiano gridato, sbattendole su
quei visi pallidi, che non volevano guardarci. Tutti urlammo e
imprecammo, contro loro e le loro madri, e odiammo Roma con tutte
le nostre forze, perch non voleva essere difesa.
Finalmente trovammo il posto, e ci spiegammo in ordine mentre i due
camion tedeschi ripartivano verso Roma alla svelta. Fu bravo Cencetti
a bloccarne uno e ad imporre all'autista di mollare almeno la motrice,
agganciando il rimorchio a quello del primo automezzo. Non c'era pi
nessuno e per la strada venivano gi, a rotta di collo, i superstiti degli
ultimi gruppi di guastatori che erano rimasti indietro a far saltare
ponti e strade. Ora toccava a noi, e fra breve anche quel piccolo
transito alla spicciolata sarebbe finito. Tra le canne degli orti venivano
avanti i marocchini, armati di lunghi coltelli: loro erano pronti a
sbudellare chiunque gli si parasse di fronte, noi dovevamo rallentarne
l'avanzata. E cos cominci. Ignoravamo che alla nostra destra i
paracadutisti, investiti direttamente dai corazzati nemici, erano stati
tutti sopraffatti, insieme al comandante Rizzati, morto in testa ai suoi,
da quel bravo soldato che era.
Albeggiava quando una macchina con a bordo tre ufficiali tedeschi
arriv correndo, da destra; si vedeva che venivano dalla battaglia. E
voi che fate qui?.Sicherungsgruppe, fu la risposta. No, andate
via, andate via; ormai tutto kaput. Andate via, tra poco qui arrivano
gli Americani....
Cos ricominciammo il ripiegamento, puntando ancora una volta verso
Roma, al Distaccamento Marina. Facemmo un giro largo, dalla parte
del V'erano, perch sapevamo che il nemico sarebbe entrato dal lato
opposto, come in effetti avvenne.
Arrivammo a Maridist e trovammo la caserma gi invasa da civili che
stavano rubando tutto il possibile. Nella furia del saccheggio uno di
loro era stato addirittura spinto gi dalle scale ed era morto; chiss se
saranno riusciti a farlo passare per caduto in guerra e far avere ai suoi
una pensione. Sparammo qualche colpo in aria e i saccheggiatori
scapparono, ma senza allontanarsi troppo; rimasero nei pressi, come
corvi, in attesa di poter ricominciare. Sapevano che dovevamo
andarcene, e presto. E qui venne il bello.
Infatti, grazie al sacrificio dei paracadutisti, i calcoli del Comando
germanico erano risultati sbagliati e noi eravamo riusciti in buon
numero a sopravvivere. Una sola motrice non ci bastava per
andarcene. Cos una pattuglia fu spedita verso la Flaminia e torn
avendo sequestrato un autocarro con rimorchio appena arrivato in
citt e destinato alla borsa nera. A bordo, scarpe di cartone e alcuni
sacchi di quelle piccole, caccolose pseudo-caramelle che circolavano
allora. Staccammo il rimorchio, scaricammo le scarpe, tenemmo
qualche sacco di caramelle (non avevamo nulla da mangiare) e
puntammo verso nord.
A Piazzale Flaminio, la gente s'era assiepata per vedere i Tedeschi che
se ne andavano; ed era uno spettacolo davvero, perch il soldato
tedesco, quando ha la sensazione che il comando abbia mollato,
pensa soltanto a salvare la pelle. I primi reparti germanici organizzati
li avremmo rivisti sotto Viterbo, quando incrociammo una colonna di
carri della Hermann Gring che scendeva controcorrente.
Noi arrivammo, con le nostre due motrici, verso le tredici, quando
dall'altra parte della citt, a San Paolo, la folla era gi in strada ad
applaudire i soldati anglo-americani. Eravamo, come ripeto, l'ultimo
reparto inquadrato, cio con ufficiali al comando e uomini che
obbedivano agli ordini e non pensavano solamente a scappare. La
gente ci vide, ci riconobbe. Fu un attimo di gelo. Poi un m'ar, e non
sono mai riuscito a sapere chi fosse; ebbe un colpo di genio: affond
una mano in un sacco di caramelle e cominci a lanciarle alla folla.
Altri lo imitarono. Fu un successo travolgente: la gente si accapigliava
per raccogliere le caramelle e batteva le mani.
Fu cos che uscimmo fra i battimani da quella Roma che non ci amava
e per la quale ci eravamo battuti, senza che lei ce lo avesse mai
chiesto.
Capitolo IV
LA GUERRA NON CERCATA
Dopo l'8 settembre, in un primo tempo affluirono alla Decima degli
sbandati che, vedendo il tricolore sempre alto sul pennone e
accorgendosi che i Tedeschi non interferivano nelle nostre faccende,
cercavano presso di noi asilo e assistenza. Ma nel volgere di pochi
giorni cominciarono a presentarsi dei volontari che, venuti a sapere
della posizione da noi assunta, sia verso i Tedeschi, sia verso gli
Angloamericani, chiedevano soltanto di poter continuare a combattere
indossando la divisa italiana e all'ombra del tricolore. Il fenomeno
and rapidamente ingigantendosi. Alla fine di settembre eravamo gi
alcune centinaia e si pose il problema di inquadrare militarmente tutti
questi uomini. Dire in che momento preciso la Decima cominci a
trasformarsi in un organismo militare dalle molteplici attivit di mare
e di terra, difficile. Tutto avvenne naturalmente, sotto la spinta di
un entusiasmo che trascinava chiunque. Cominciammo con un
plotone, poi con tre plotoni mettemmo assieme una compagnia, poi
un battaglione e cos via....
Cos il racconto di Valerio Borghese; e da queste parole si pu capire
come tutti noi ci fossimo arruolati pensando soltanto di andare al
fronte. La guerra ANti-partigiana non rientrava nei nostri ideali e non
ci piacque mai. Restammo sempre convinti che rappresentasse una
forma d'impiego degradante per una formazione militare, quale
eravamo e volevamo essere. Tuttavia la guerra civile coinvolse anche
il Barbarigo, che una prima volta vi fu letteralmente trascinato dalla
provocazione avversaria, mentre nella seconda fase oper convinto,
avendo di fronte partigiani che erano italiani, si, ma agivano in
collegamento con le bande comuniste di Tito.
Del resto, l'antefatto parla chiaro e quelli di noi che facevano parte del
Battaglione quando ancora si chiamava Maestrale lo ricordano
bene. Dopo il colpo di mano di La Spezia del 9 gennaio 1944, concluso
come ho gi raccontato con la decisione di inviare al fronte, a
Nettuno, il reparto che era stato protagonista dell'arresto degli ufficiali
inviati dal Governo repubblicano per tentar di sottrarre a Valerio
Borghese la Fanteria di Marina della Decima, che allora si andava
organizzando, cio la 1a e 2a Compagnia del Maestrale fu trasferito
a Cuneo per completare l'addestramento. Una sera, durante la libera
uscita, vennero catturati dai ribelli il tenente di vascello Betti,
comandante la 1a Compagnia, il sottotenente di vascello Cencetti,
comandante della 2a, il guardiamarina Federico Falangola e un mar.
A catturarli era stata la banda di Mauri, capo partigiano di cui si
parl, in anni recenti, anche per alcune azioni non proprio guerresche.
Qui entr in giuoco Umberto Bardelli, che assolutamente non voleva
sentir parlare di guerra fra italiani. Il Comandante blocc ogni
reazione armata e si trov una collaboratrice preziosa in Fede Arnaud;
la stessa Arnaud che in data l marzo 1944, cio nel giorno in cui noi
del Barbarigo giungevamo a Sermoneta per essere impegnati sul
fronte di Nettuno, diede vita al Servizio Ausiliario Femminile (Saf)
della Decima. Fede proveniva anche lei dal Guf di Roma ed era donna
di coraggio; di lei Giulio Cencetti diceva che non soltanto sapeva
sparare, ma tirava pure a prenderci. Cosa notevole: molto spesso chi
spara lo fa ad occhi chiusi, pi per paura che per colpire davvero il
nemico. Cos Fede, d'accordo con Bardelli, si fece catturare dai
partigiani di Mauri e, quando fu nelle loro mani, rifer il
messaggio del Comandante: il Battaglione era fatto per andare al
fronte ed era in partenza, la guerra fra italiani non rientrava nei nostri
scopi. Mauri ascolt e lasci libera quella strana inviata. Bardelli, da
parte sua, riport il Maestrale a La Spezia, cambi il nome della
formazione in Barbarigo e tutti muovemmo verso Roma; ad Anzio e
Nettuno gi si combatteva dal 22 gennaio e ci bruciava il timore di
arrivare troppo tardi.
La guerra civile, allora, non era ancora diventata feroce, come poi
sarebbe stata; inoltre, quella di Mauri non era una banda
comunista. E cos, visto che Bardelli aveva mantenuto la sua parola,
quando ormai eravamo a Sermoneta ci raggiunsero anche i quattro
che erano stati fatti prigionieri a Cuneo e che i partigiani avevano
liberato perch potessero andare al fronte contro gli Angloamericani,
come era nei loro desideri. Un fatto, credo, assolutamente unico nella
storia della guerra civile.
Le cose andarono ben diversamente l'8 luglio del 1944, sulla piazza di
Ozegna, nei pressi del lago di Viverone. Il Barbarigo, rientrato dal
fronte, era stato mandato in Piemonte per essere riorganizzato. Nella
stessa zona erano stati inviati altri reparti, dal Sagittario al
Fulmine al Tarigo agli NP, tutti destinati a unificarsi nella
Divisione Decima. Chi avesse scelto quelle localit, che gi allora
pullulavano di partigiani, non so; appartiene ai misteri degli Alti
Comandi, che restano incomprensibili in tutti i regimi.
La mattina dell'8 luglio il comandante Bardelli giunse a Viverone:
aveva assunto ormai il comando del 10 Reggimento della Divisione,
ma voleva salutare i vecchi di Nettuno e assicurarsi che i nuovi
fossero all'altezza della situazione. L'entusiasmo fu grande. Il
Battaglione si stava ricostituendo su base ridotta, circa 600 uomini,
perch il Comando voleva formare unit pi piccole e maneggevoli.
(Queste operazioni continuarono fino alla fine della Repubblica
Sociale, con la formazione di Gruppi da Combattimento, Reggimenti,
eccetera, decise e coordinate senza che noi della truppa ci rendessimo
ben conto di quel che accadeva. Anche perch non ce ne importava
nulla. Solamente nel dicembre del 1944, quando tentarono di
cambiarci le mostrine rosse, quelle con le quali eravamo entrati in
linea a Nettuno, con mostrine azzurre, unificate per tutta la Divisione,
noi del Barbarigo ci ribellammo; e avemmo partita vinta).
Bardelli era da noi quando dal Sagittario giunse notizia che un
sottotenente, Gaetano Oneto, aveva disertato, con l'aiuto di due
mar. La diserzione era uno di quei reati, insieme al furto, al
saccheggio e alla codardia dinanzi al nemico, per i quali la Decima,
secondo le disposizioni fondamentali dettate da Valerio Borghese,
prevedeva la pena di morte; e Bardelli, da parte sua, considerava il
fatto inammissibile. Cos, il Comandante decise di andare a riprendersi
il fuggitivo, che era segnalato alla stazione di Ozegna, gi in abiti
borghesi, e chiese che gli fosse fornita una scorta Saltammo su un
camion in poco pi di una trentina, un plotone, armati alla men
peggio: venivamo dalla battaglia di Roma e dalla successiva ritirata, i
partigiani non sapevamo cosa fossero o, quantomeno, non credevamo
che fossero un pericolo concreto. Io, ad esempio, presi il mitra, ma
con un solo caricatore, sembrandomi pi che sufficiente. E poi,
sapevamo tutti che la Decima, a cominciare da Bardelli, non voleva
far guerra ad altri italiani. Partimmo e lungo la strada raccattammo
due o tre del Sagittario, tanto per riconoscere il disertore. Cos,
quando la vecchia millecento di Bardelli, che precedeva, e il nostro
camion, svoltarono per immettersi sulla piazza di Ozegna, eravamo in
tutto 41 uomini, Comandante compreso.
All'altra estremit, la piazza era sbarrata da gruppi di uomini armati:
facevano segno di fermarsi. Bardelli diede l'alt, ci disse di non sparare
e si avvi, a piedi, verso colui che evidentemente era il capo della
banda. Sapemmo poi trattarsi di certo Pietro Urati, ex sottufficiale
dell'Esercito, noto come Piero Piero; la sua banda era,
politicamente, socialcomunista.
Umberto Bardelli non era soltanto un entusiasta. Era un uomo che,
avendo fatto la guerra, e avendola fatta sul serio, non accettava l'8
settembre e il cambiamento di fronte, ma ancor meno concepiva
l'idea di una guerra civile. Cos, senza rendersi conto dell'individuo
con cui aveva a che fare, Bardelli disse a Piero Piero che il
Barbarigo era nella zona soltanto per riorganizzarsi e tornare al
fronte, contro gli Angloamericani. Che i partigiani stessero tranquilli e
ci lasciassero passare, perch dovevamo andare a riprendere un
disertore, cio un individuo che nemmeno a loro poteva piacere; lui,
Bardelli, non aveva alcuna intenzione di far fuoco su altri italiani.
Povero Bardelli! C'era, in quel suo discorso, tutta l'utopia del nostro
primo volontariato. Lui, noi, parlavamo d'Italia; gli altri gi
obbedivano al partito (e non solo: tanto vero che poi, a guerra
finita, il leggendario Piero fu denunciato per illeciti dai suoi stessi
compagni). Quel dialogo doveva servire soltanto a dar tempo al resto
della banda a circondare la piazza e prenderci in trappola. E quando il
segnale venne, Piero Piero balz indietro puntando l'arma contro il
Comandante, ordinandogli di arrendersi. Evidentemente il partigiano
aveva confuso il patriottismo con la remissivit. Ma Bardelli, invece di
arrendersi, rispose lanciando un grido che poi divent la nostra divisa
fino alla fine: Barbarigo non s'arrende! Fuoco!. Mentre cos gridava,
il mitra nemico lo falciava. Noi tutti, che eravamo sul camion in mezzo
alla piazza, non avemmo scampo. Il combattimento dur una decina
di minuti, forse un quarto d'ora. Di 41 che eravamo, undici rimasero
uccisi quasi subito, altrettanti furono feriti; chi era pi agile (ed io
allora lo ero) riusc a cavarsela con un gran balzo che lo port a
ridosso della chiesa ; il pi svelto di tutti imbocc addirittura la porta
della canonica e sfugg alla cattura sal sul campanile e poi, a cose
finite, dette l'allarme ai nostri.
Cessato il fuoco, dopo la rapina a danno dei vivi e dei morti, ebbe
inizio il giuoco della finta fucilazione. In tre o quattro fummo messi
contro un muro per essere passati per le armi; un'anima buona ci
salv gridando: Arrivano i Tedeschi!.... Allora, in fretta e furia,
fummo caricati su una vecchia corriera e trasportati a Pont Canavese,
dove ci fecero attraversare il paese aizzando le gente a coprirci di
sputi e di sassate ; quindi ancora in corriera, e poi a piedi, fino a
Ceresole Reale, sotto il Gran Paradiso. L restammo alcuni giorni,
durante i quali non ci fu risparmiato il passatempo della finta
fucilazione, definita arruolamento nel battaglione San Pietro,
alternata agli inviti a disertare. Inviti che noi del Barbarigo
respingemmo, in blocco. Poi, una mattina vedemmo arrivare due preti
e restammo convinti che quel giorno saremmo veramente andati a
conoscere il battaglione San Pietro. Invece, dopo un po', un
partigiano meno malvagio degli altri (il buono c' sempre, in tutte
le situazioni) si affacci alla porta della baita per dire: Coraggio!
Sono venuti a trattare lo scambio!. Ignoravamo infatti che, grazie al
nostro commilitone che s'era rifugiato nel campanile, il Barbarigo,
giunto poco dopo, aveva preso in ostaggio una quarantina di persone
ad Ozegna, minacciando di passarle per le armi se noi superstiti non
fossimo stati liberati, sani e salvi. Come infatti avvenne. E cos,
tornati al Battaglione, apprendemmo il resto: sapemmo che a Bardelli,
crivellato di ferite, erano stati strappati i denti d'oro; sapemmo che
Fiaschi, un m'ar giovanissimo, che era stato ferito e invocava la
madre, era stato freddato con un colpo di fucile a bruciapelo nella
testa; sapemmo che i nostri poveri morti erano stati ritrovati lordati di
letame e con la paglia in bocca. Tutto documentato da fotografie che
nessuno mai potr smentire.
Morirono, quel giorno, insieme a Bardelli, Angelo Piccolo, Salvatore
Becocci, Francesco Credentino, Roberto Biaghetti, Franco De
Bernardinis, Pietro Fiaschi, Giovanni Grosso, Armando Mai, Pietro
Rapetti, Ottavio Gianolli.
Mi sono soffermato su questo episodio, perch esso fu determinante.
L'uccisione di Bardelli e dei suoi uomini, il modo barbaro in cui questo
eccidio era avvenuto, non consentivano di continuare ad ignorare che
la guerra civile era una realt nella quale, volenti o nolenti, tutti
eravamo coinvolti. Cos, pochi giorni dopo Ozegna il comandante
Borghese riun in una scuola di Ivrea tutti gli ufficiali della Divisione
Decima e disse loro che a qual punto la guerra ANTI-partigiana
diventava inevitabile; chi non voleva prendervi parte era libero di
andarsene. Su trecento ufficiali presenti, ha raccontato poi
Borghese, quindici mi chiesero di essere esonerati. Tra di essi alcuni
erano dei migliori, ma li lasciai ugualmente liberi. Dal Barbarigo se
ne andarono Vallauri, Honorati e Rattazzi; e fu un addio sofferto.
Ma il clima si faceva ormai rovente. Tornato libero, il 18 luglio
pubblicai sul quotidiano Repubblica Fascista, diretto dall'amico Enzo
Pezzato (ucciso poi nell'aprile del 1945 insieme a Sebastiano Caprino
e Maria Scimonelli, da chi s'illudeva che i tre avessero con loro la
cassa del giornale, ignorando che avevano diviso tutto il denaro tra
giornalisti e dipendenti al momento del crollo) una lettera aperta al
capobanda che ci aveva teso l'imboscata. Il comandante Borghese
lesse quel documento alla radio; la Decima ne stamp volantini che
vennero diffusi nel Canavesano e nelle Valli di Lanzo. Raccontavo
come la banda fosse composta in grande maggioranza di renitenti alla
leva, che si limitavano a star sui monti vivendo alle spalle dei
contadini, lasciando il compito di combattere ad un esiguo gruppo di
fuoco; sottolineavo le rapine di quella gente che imponeva le sue
razzie alle popolazioni, ormai ridotte allo stremo; ponevo in evidenza
l'inconsistenza delle posizioni politiche e ideologiche dei partigiani. Il
fatto non piacque a Piero Piero, che replic con un manifesto nel
quale, fra l'altro, poneva una taglia sulla mia persona. Chiesi ad
Alberto Marchesi, che nel frattempo aveva assunto il comando del
Battaglione, di autorizzarmi a sfidare il capobanda a una sorta di
duello, col mitra; Marchesi per, con la sua romanesca bonomia, mi
invit a non rompere i coglioni.
L'avventura piemontese fin in ottobre, quando venne a darci il
cambio, nel Canavesano, la 162a Divisione cosacca della Wehrmacht.
I cosacchi, li ricordo, impazzivano letteralmente per le nostre pistole
Beretta, che cercavano di scambiare con le loro ingombranti P38, e
per i grandi orologi da tasca d'una volta. Gli orologiai dei paesi, che ne
erano ancora ben forniti, fecero affari d'oro. Poi, il 20 e il 21 ottobre, i
cosacchi si mossero per scacciare i partigiani dalla Valle e, a titolo
simbolico, una squadra di dieci uomini del Barbarigo fu aggregata a
quei reparti. Cos arrivai fin dove, nel luglio, Piero Piero ed i suoi ci
avevano tenuti prigionieri. La mattina del 25 ottobre il Battaglione
partiva, diretto a Vittorio Veneto.
Per tutto il periodo in cui fummo in Piemonte, e a dispetto dell'eccidio
di Ozegna, gli uomini non fecero altro che chiedere con insistenza
d'essere rimandati al fronte. Analoga richiesta veniva, pressante, da
quelli del Lupo. Alberto Marchesi aveva addirittura chiesto di essere
sostituito al comando del nostro Battaglione per essere aggregato al
primo reparto in partenza per combattere gli Angloamencani.
***
Anche nel Veneto orientale si trattava di combattere contro italiani;
ma la situazione era ben diversa. Infatti, le forze partigiane erano
divise, come presto apprendemmo, fra i comunisti della Garibaldi e
i democristiani della Osoppo; e mentre i primi agivano in stretto
collegamento col IX Corpus titino e con l'Osvobodilna Fronta (OF), il
fronte di liberazione sloveno, che avrebbe voluto far arretrare al
Tagliamento la nostra frontiera orientale, i secondi puntavano invece
a difendere il territorio italiano e le sue popolazioni. In pratica, si
avvertivano fino nella zona di Vittorio Veneto e del Cansiglio le
conseguenze nefaste della politica tedesca, che dopo l'8 settembre
1943 aveva mirato a cancellare la presenza italiana nella Venezia
Giulia, in Istria e nella Dalmazia, favorendo le spinte ANTI-italiane
degli Sloveni e dei Croati. Chi non ha vissuto quelle giornate lass, al
confine orientale, come noi le vivemmo, non pu rendersi conto degli
errori, al limite del tradimento, compiuti anche di recente dai Governi
italiani dopo il crollo della Iugoslavia: il riconoscimento regalato alle
Repubbliche di Croazia e di Slovenia, le cui popolazioni ci hanno
sempre odiato; il disinteresse per la sorte di quanti, nonostante tutto,
continuano a rivendicare le loro origini italiane.
Mezzo secolo fa, l'importanza di questo conflitto era avvertita da tutti
noi e dalla Decima intera. Valerio Borghese sapeva che il Governo
della Repubblica Sociale poteva fare poco contro la situazione creata
dai Tedeschi con la nascita della zona d'operazioni del Litorale
Adriatico, che includeva Gorizia e Trieste e ricalcava il tracciato della
vecchia amministrazione austriaca. Cos, il compito della difesa dei
confini orientali se lo assunse la Decima, e Mussolini fu d'accordo.
L'arrivo a Vittorio Veneto fu la premessa per le successive operazioni;
altri reparti della Divisione andarono a Conegliano, Valdobbiadene e
Sacile.
Tutte le operazioni contro i partigiani, a cominciare dal grande
rastrellamento sul Cansiglio, furono ispirate a questa politica. E la
popolazione fu dalla nostra. In confronto al Piemonte, la vita nel
Veneto Orientale era decisamente migliore, anche se i partigiani,
numerosi, moltiplicavano gli agguati. Giulio Cencetti, che nel
frattempo era divenuto il comandante del Barbarigo, sembrava
particolarmente adatto a quel lavoro, a mezza strada fra la politica e
la guerra. La caserma Gotti, dove eravamo sistemati, appariva
quasi troppo grande per il nostro Battaglione; ricordo i cortili enormi e
i monti sullo sfondo. E rammento pure il giorno in cui in cui rientr al
reparto Raffaella Duelli, che era stata una delle primissime ausiliarie e
la nostra ausiliaria a Roma. Ferita durante il ripiegamento, Raffaella
era stata anche promossa. Bench giovanissima (si era arruolata
appena diciottenne) trattava tutti, ufficiali compresi, come fosse stata
la nostra balia; e la cosa ci piaceva.
A guerra finita si cercato, per evidenti motivi politici, di
sottovalutare l'importanza delle intese fra i nostri reparti e quelli della
Osoppo. Ma in proposito Alberto Gattoni, che fu l'ultimo aiutante
maggiore del Barbarigo, mi raccont cosa avvenne nel febbraio del
1945, quando Giulio Cencetti chiese di essere ricevuto dal Vescovo di
Vittorio Veneto per comunicargli che il Battaglione, esaurito il compito
che fra il dicembre e il gennaio l'aveva portato a Gorizia (e di cui pi
avanti dir), era in partenza, diretto al fronte del Senio. Il Vescovo si
mostr addolorato e preoccupato. Dovete restare a Vittorio Veneto
per far fronte agli slavi comunisti che sono gi al Cansiglio, disse ai
nostri due ufficiali: costoro giungeranno in citt pieni di odio per gli
Italiani, non appena i Tedeschi si saranno ritirati. Ho fatto tanto per
Voi: gli Alleati sanno che il "Barbarigo" fatto di uomini che amano
veramente l'Italia. Cencetti e Gattoni rimasero sorpresi; non
capivano. Poi, riflettendo, si resero conto che in pi d'una occasione
l'Aviazione nemica, tanto a Vittorio Veneto quanto a Serravalle, aveva
risparmiato gli obiettivi che potevano identificarsi col nostro
Battaglione, a cominciare dalla caserma Gotti, cos grande e bene
riconoscibile. Gattoni mi raccont di aver parlato di questo fatto,
molto tempo dopo, col comandante Rodolfo Scarelli, Vicecomandante
della Divisione Decima, e di averne avuto questa risposta: Io
stesso a suo tempo avevo parlato con quel Vescovo. L'Ufficio "I" della
Divisione conosceva bene la sua attivit con i partigiani della
"Osoppo", i contatti con i Comandi alleati attraverso una radio
clandestina che operava nei boschi del Cansiglio.
***
La storia del Vescovo di Vittorio Veneto non fu un episodio isolato. Da
tempo Valerio Borghese, in previsione dell'ormai certa sconfitta
tedesca, si preoccupava del futuro della Venezia Giulia ed aveva
deciso di impiegare tutta la forza della Decima per tentar di salvare
quelle terre dagli slavi comunisti di Tito. Anche al Sud, al regio
Ministero della Marina, affidato all'ammiraglio De Courten, c'era chi
nutriva le stesse preoccupazioni. Cosa che noi della truppa,
ovviamente, non potevamo sapere.
E cos, ad un certo punto, fra l'agosto e il settembre del 1944 scoppi
la storia del complotto: nei reparti corse voce che un emissario del
Sud fosse stato sbarcato a Jesolo da un sommergibile, catturato dai
nostri, accompagnato dal Comandante e, dopo un lungo colloquio,
rispedito oltre le linee. Le voci si infittirono, si parl di altri casi del
genere. Sommate al fatto che non venivamo ancora rimandati a
combattere contro gli Alleati e continuavamo invece ad essere
impiegati nei rastrellamenti, quelle voci divennero sospetti. Giunsero
anche al Barbarigo, dove alcuni di noi, fra cui il sottoscritto, le
raccolsero. Senza por tempo in mezzo, riassunsi tutto in un lungo
appunto, che indirizzai ancora una volta al mio amico direttore di
Repubblica Fascista; e Pezzato, che andava spesso a rapporto da
Mussolini, alla prima occasione si port dietro quel messaggio. Con
due risultati. Il primo fu che le storie da me raccontate finirono,
insieme a molte invenzioni calunniose, in un documento della GNR
con cui, nell'ottobre 1944, si tent nuovamente di mettere in difficolt
Valerio Borghese. La seconda fu che a met gennaio del 1945 io venni
spedito da Gorizia, dove mi trovavo col Battaglione, a Milano, con il
pretesto di guidare la scorta ad un camion di complementi in partenza
da quella citt, ma, una volta giunto a destinazione, fui arrestato dal
Comando della Decima. Rimasi in prigione, accusato di
insubordinazione, sobillazione, scavalcamento della via gerarchica e
diffusione di voci tendenziose (quanto bastava, in tempo di guerra,
per finire al muro) fino al 25 aprile del 1945, quando venni rimesso in
libert, salvo essere riarrestato dagli altri il 12 maggio. Comunque
andassero le cose, sempre al gabbio finivo. Il mio fascicolo, con
tutta la storia, venne consegnato dai doppiogiochisti, che al Comando
Decima di Milano negli ultimi tempi non erano pochi, al Comando
Piazza del CLN. Poi un frate dell'Angelicum, con l'aiuto d'una
bustarella fornitagli da mia madre, fece scomparire il tutto ed io
finii in campo di concentramento, a Coltano. Il che dimostra, fra
l'altro, come il tangentismo sia un malanno originario della
democrazia italiana.
Torniamo alla nostra storia. Le notizie che erano giunte me e ad altri
m'ar e ufficiali (e qualcuno dei miei vecchi commilitoni sicuramente
le ricorder) erano sostanzialmente esatte, ma tornavano tutte ad
onore di Valerio Borghese e della Decima. Il fatto divenne noto dopo il
1945, durante il processo contro il nostro Comandante, quando si
arriv alla deposizione del capitano di vascello Agostino Calosi, che
era stato fin dal febbraio 1944 a capo dell'Ufficio Informazioni della
Marina nel Regno del Sud. E Calosi disse tra l'altro: Al fine di stabilire
dei contatti tra la Marina del Sud e quella del Nord, io inviai al
Borghese (il Comandante, nella gabbia degli imputati, era diventato
il Borghese, nota mia) lo Zanardi, il Putzola, il Giorgis e il Marceglia
(tutti ufficiali che il Comandante aveva conosciuto prima dell'8
settembre '43), i quali avevano l'incarico di invitare il Borghese ad
attuare le seguenti direttive: 1) far desistere il Borghese dalla lotta
antipartigiana; 2) impedire che i Tedeschi, alla loro disfatta,
compissero atti di sabotaggio; 3) occuparsi della questione della
Venezia Giulia per evitare che questa regione fosse occupata dagli
slavi. Mi risulta che i miei incaricati furono fraternamente accolti dal
Borghese. Mi risulta che il Borghese ottemper solo a due delle nostre
direttive e precisamente quelle riguardanti le azioni di sabotaggio e di
protezione della Venezia Giulia. I nostri emissari prospettarono al
Borghese l'opportunit di rivolgersi contro i Tedeschi al momento
opportuno, ma questo egli non lo fece e noi, umanamente, non
potevamo pretendere da lui un simile passo. Come Capo dell'Ufficio
Informazioni della Marina del Sud, aggiunse Calosi, feci passare le
linee a molte persone con incarichi militari; al Borghese, per, inviai
degli emissari di mia iniziativa e senza il consenso degli
Angloamericani, i quali per questo fatto minacciarono di rinchiudermi
in un campo di concentramento. Gli Angloamericani solevano far
passare le linee solo ad elementi di estrema sinistra o comunisti,
talch io mi vidi costretto a far figurare i miei uomini come militanti o
simpatizzanti dei partiti di sinistra al fine di poterli inviare al Nord. Da
tale situazione di fatto n deriva la logica conseguenza che la lotta
partigiana stata provocata ed accesa da elementi interessati al fine
di inviperire vieppi la guerra fratricida fra Italiani ed Italiani.
Fu per questo che, arrivati all'aprile del 1945, i presidi della Decima
organizzati da Valerio Borghese in Venezia Giulia tennero tutti le
posizioni, fino al massacro finale. A Fiume, come ricord Valerio
Borghese nel 1953, non uno degli oltre 200 uomini della Compagnia
Gabriele D'Annunzio, della Decima, sopravvisse. Morirono, come
tanti altri, aspettando l'arrivo del San Marco del Sud che, secondo i
piani concordati, avrebbe dovuto sbarcare, far prigionieri i nostri ed
assumere il controllo del territorio. Ma dal Sud non arriv nessuno,
perch l'ammiraglio De Courten fu bloccato dagli Americani, i quali
non ammettevano che si potesse ignorare la spartizione del mondo
che Roosevelt, a Yalta, aveva concordato coi Sovietici. E Tito, allora,
era il cocco di Stalin, che gli aveva garantito il possesso di tutto quello
che fosse riuscito a conquistare al momento del cessate il fuoco;
mentre De Courten non era Borghese, che riusciva ad imporsi ai
Tedeschi.
Molti anni pi tardi incontrai il Comandante in casa del capitano Del
Giudice e, con un certo imbarazzo, gli spiegai come e perch, nel
1944, avessi dubitato di lui. La risposta fu bonaria: Certo, non potevi
pretendere che spiegassi ad un sergente quelle mie decisioni, che la
maggior parte dei miei ufficiali ignorava. Ma per quelle terre valeva la
pena di rischiare, ed ognuno di noi l'ha fatto, ciascuno a suo modo.
Borghese era uomo abituato da tempo ad operare in segretezza. Le
grandi missioni contro i porti nemici, a cominciare da quella
d'Alessandria, le aveva portate a termine perch, come risultava dai
diari di bordo, sospettando di infiltrazioni nemiche a Supermarina,
quando col suo sommergibile Scir arrivava all'altezza di Capo
Palinuro, dichiarava di aver perso il contatto e andava avanti per
conto suo. Allorch sbarc dallo Scir per assumere il comando
della Flottiglia, chi l'aveva sostituito non fu altrettanto prudente e lo
Scir, alla prima missione, venne affondato.
Mi resi conto quel giorno che, bench fossero passati oltre vent'anni
dai fatti, le idee del Comandante non erano cambiate. Cos come non
era svanito il fascino che gli aveva consentito di raccogliere intorno
alla sua bandiera migliaia di volontari. Senza rendermene conto mi
ritrovai a dire: Sissignore, grazie.
La nostra partecipazione alla guerra civile, una guerra che non
avevamo cercata, and cos.
Capitolo V
L'ULTIMA BATTAGLIA
Due citt hanno segnato la storia del nostro Barbarigo: Roma e
Gorizia. La prima non ci am e noi ci battemmo per lei contro la sua
volont; tir un respiro di sollievo quando fummo costretti ad
andarcene. La seconda ci am, quando riportammo nelle sue strade il
tricolore, e ci vide partire con dolore, sapendo che il nostro
trasferimento sul fronte del Senio era il preludio all'invasione titina. E
se l'Italia e il mondo hanno dovuto aspettare mezzo secolo, la caduta
del comunismo e la guerra fra Serbi, Croati e Sloveni, per scoprire la
barbara ferocia di quelle popolazioni, questo era ben conosciuto gi
nel 1944-'45 a Gorizia, Trieste, Fiume, in Istria e nella Dalmazia. La
pratica di cavar gli occhi agli avversari uccisi e metterli in un elmetto,
a mo' di cestello, per consentire al proprio comandante di reparto di
contare i nemici fatti fuori, noi la vedemmo applicare nel 1945, dopo
uno scontro fra Domobranci, alleati dei Tedeschi, ed elementi della
Divisione titina Gorica, cio Gorizia. La sola differenza consiste nel
fatto che quando noi, negli anni passati, parlavamo di queste cose,
che oggi appartengono alla cronaca strappacore dell'importanza
occidentale, ci accusavano di fascismo e di calunnia
antidemocratica.
Una coincidenza sollecitava l'immaginazione nostra. Nella Piana
Pontina, gli agglomerati dell'Opera Combattenti lungo i quali eravamo
stati schierati portavano i nomi delle grandi battaglie della prima
guerra mondiale: Borgo Piave, Borgo Isonzo, Borgo Carso e cos via.
Poi, nel dicembre-gennaio 1944-'45, il Battaglione si trov a
combattere addirittura sul San Gabriele e sulla Bainsizza. Quasi un
ritorno ideale, in pochi mesi, alla guerra che avevano combattuto i
nostri padri. Giorgio Soavi, che allora era soltanto un marinaio del
Barbarigo, lontanissimo dallo scrittore alla moda conosciuto dal
pubblico d'oggi, sul giornale del Battaglione, in data l gennaio 1945
scrisse: Noi siamo i padri dei nostri padri ventenni dell'alba
italiana.... Non mi arrischio a giurare che tutti capissero il significato
di queste parole del m'ar Soavi, ma la citazione mi sembra la pi
adatta a far capire cosa sentivamo allora, nel combattere in difesa di
Gorizia.
E insieme ricordo un'altra cosa: il grande freddo di quell'inverno. Fu
anche distribuita pomata anticongelante. Non tutti avevano il
passamontagna, chi non l'aveva usava la pancera per coprirsi il volto.
E marciare, marciare, e combattere, con un vento gelido che tagliava
la pelle e penetrava nei panni. Quanto marciammo, nella Repubblica
Sociale! Da quando, in partenza per Nettuno, ci misero in testa il
basco col fregio della Marina, mai nessuno fece tanta strada a piedi,
come noi. Fanti di Marina, vero: ma in venti mesi, da Nettuno a
Roma, dal Canavese al Cansiglio, da Tarnova della Selva al San
Gabriele, da Imola al Senio, dal Senio a Padova, il Barbarigo and
quasi sempre a piedi, e con le armi in spalla, comprese spesso le armi
pesanti.
Quanto alla battaglia vera e propria in difesa di Gorizia, essa si svolse
fra Chiapovano, Tarnova della Selva e il San Gabriele e vide la
Divisione Decima opposta, insieme ai Tedeschi ed alle formazioni
slave loro alleate, contro il IX Corpus titino, forte di due Divisioni,
quattro Brigate e un nucleo imprecisato di bande. Il Comando
germanico, informato dei concentramenti di forze titine, aveva
concepito una operazione Adler che avrebbe dovuto portare alla
distruzione del nemico e che, in verit, non raggiunse l'obiettivo. N
poteva raggiungerlo, perch oltre tutto dalla nostra parte eravamo
divisi: i Tedeschi volevano cancellare la sovranit italiana sulle terre
del Litorale Adriatico; noi volevamo riaffermarla; gli alleati locali dei
Tedeschi erano, per quanto riguardava l'Italia, su posizioni identiche a
quelle titine. Con queste premesse, il piano della Adler Aktion,
mirato a spingere il IX Corpus verso Aidussina per poi accerchiarlo e
distruggerlo, non poteva che fallire. E fu gran fortuna che in campo vi
fossero oltre 15mila italiani, con la nostra Divisione come forza
centrale, perch fu proprio grazie a questi soldati che i titini ebbero,
comunque, una sonora batosta e dovettero rinunciare all'offensiva
contro Gorizia.
Del resto, sin dal momento in cui il Barbarigo giunse nella citt,
alloggiando in parte a Salcano, ognuno di noi dovette rendersi conto
che nell'aria si respirava l'odio contro l'Italia. Vietato il tricolore,
ipocritamente messo sullo stesso piano della bandiera slovena (ancora
un particolare che raccomando alla memoria corta dei governanti
d'oggi); l'amministrazione affidata a vecchi funzionari austriaci che,
dopo il 1918, avevano scelto la grande patria tedesca, contro
l'Italia; vietato alla popolazione manifestare i suoi sentimenti. Quando
la Decima arriv, il silenzio imposto dai Tedeschi si infranse:
cominciammo con l'esporre la bandiera dalle sedi dei comandi e la
gente cap che non sarebbe stata pi sola. Era una guerra tutta nostra
contro i nostri alleati, all'interno del pi grande conflitto che ci
opponeva, insieme ai Tedeschi, agli Angloamericani ed ai loro
associati comunisti. Una situazione al limite dell'anarchia, che fece
registrare anche episodi di involontaria comicit. Come quando,
avendo deciso che l'esposizione del tricolore italiano al Comando della
Divisione Decima non era tollerabile, i Tedeschi mandarono due
ufficiali a ordinare di ritirare la bandiera e i due, vistisi rispondere
negativamente, tornarono con una Compagnia che circond l'edificio,
con le armi pronte al fuoco. Forti dell'esperienza dell'8 settembre,
pensavano potesse bastare. Ma quando, dopo altri inutili colloqui con
l'ufficiale in comando, che credo fosse il capo di Stato Maggiore,
Scarelli, furono invitati ad affacciarsi alla finestra, si resero conto che,
mentre loro discutevano, uomini del Barbarigo e del Fulmine
avevano a loro volta circondato i soldati germanici. Cos, la situazione
era questa: al centro, l'edificio con il tricolore; tutt'intorno, gli uomini
della Wehrmacht, schierati in campo per farlo ammainare; intorno
ancora, i nostri, pronti a far fuoco su quegli strani alleati se
avessero insistito nella loro pretesa. Il risultato fu che i Tedeschi se ne
andarono e la bandiera rimase, con grande soddisfazione dei goriziani.
Un altro episodio, addirittura al limite della farsa, si verific quando un
posto di blocco di Domobranci rifiut di salutare la nostra bandiera. I
Domobranci erano ultranazionalisti sloveni; secondo loro, il confine
italo-sloveno avrebbe dovuto essere fissato al Tagliamento. Giulio
Cencetti ordin che le sentinelle del posto di blocco fossero catturate
e, una volta eseguito l'ordine, fece tagliare ai Domobranci calzoni e
mutande, mettendo i deretani a nudo, perch conoscessero come la
pensavamo sul tagliamento; poi quei guerriglieri furono rispediti al
loro comando.
Episodi minori, se volete; ma ogni volta si rischiava lo scontro a
fuoco. Se questo non avvenne, si dovette al fatto che eravamo
riusciti, tutti noi della Decima, a farci rispettare, dai Tedeschi e dagli
altri. E questo dipendeva dal fatto che, nel complesso delle forze
mobilitate per la operazione Adler, i nostri reparti erano i soli ad
apparire miracolosamente indenni dalla demoralizzazione che andava
conquistando tutti gli altri. Forse perch noi ci eravamo arruolati
sapendo gi di andare a combattere per una causa perduta. Sta di
fatto che nelle nostre file non si pensava a quello che sarebbe
successo, fatalmente, di l a poco. Del resto, questa condizione
psicologica straordinaria emerse poco pi tardi con stupore degli
stessi Alleati vincitori, al momento della resa finale, come pi avanti
dir. E nacque la canzone senza titolo che faceva infuriare i
governatori dell'Adriatisches Knstenland e le bande slovene al loro
servizio: Da Gorizia, Trieste, Ragusa, / noi vogliamo una sola
bandiera / non sar n tedesca o slovena, / ma il tricolore d'Italia
sar.
***
Lo scontro con i titini si concret, per il nostro Barbarigo, in tre
punti-chiave di tutta l'operazione: a Chiapovano, a Tarnova, sul San
Gabriele e sulla Bainsizza. Giorgio Farotti, oggi generale della riserva,
ufficiale proveniente dagli Alpini, diede prova in quella occasione di
tutta la sua sapienza militare.
Chiapovano, a nord-est di Gorizia, fu raggiunto nel pomeriggio del 23
dicembre e nella stessa notte venne investito dal massiccio
contrattacco del IX Corpus, che voleva riconquistare quella posizione
strategica. La resistenza dur fino alla sera del 24, poi i nostri
ripiegarono, ma nel quadro d'una manovra che era stata studiata
preventivamente da Farotti e che avrebbe portato il nemico, come in
effetti lo port, sotto il fuoco dei nostri mortai. A guerra finita gli
Iugoslavi nelle loro pubblicazioni parlarono della battaglia di
Chiapovano come di uno dei momenti cruciali dell'intera operazione
Adler. Farotti guid i suoi uomini verso l'abitato di Gargaro. Il
reparto si mosse lentamente per non far scoprire la sua manovra al
nemico di cui, con la luna piena, intravedevamo le armi e sentivamo
le voci, racconta il sergente Pieri: Ad un certo punto sorse per il
problema della squadra del sergente Bernardini, che era rimasta
assediata ed isolata in una casa a nord del paese, cio esattamente
dalla parte opposta rispetto al punto dove si era momentaneamente
rischierato il Battaglione. Naturalmente, dovevamo recuperare quegli
uomini. Partiamo, il tenente Giorgi ed io, con il cuore in gola ed anche
tanta fame nello stomaco: era dal mattino del giorno precedente che
non mangiavamo! Tra mille peripezie attraversiamo il paese e,
fortunatamente, raggiungiamo la casa dove i m'ar, ignari di essere
rimasti soli, continuano a sparare senza un attimo di cedimento.
Veramente bravi perch fra l'altro, cos facendo, avevano rallentato
l'avanzata della "Brigata" slava, facilitando lo sganciamento del
reparto. Entriamo nella casa e diamo l'ordine di ritirata. Mentre essi
tranquillamente preparano zaini ed altri "impedimenti" con la serafica
calma e professionalit dei veterani (malgrado la giovanissima et),
Giorgi ed io troviamo nella cucina un nel po' di polpette che i ragazzi,
chiss come, erano riusciti a preparare. Ci si sentiva un po' di patate,
carote bianche, qualche altro sapore non immediatamente
riconoscibile ed un pizzico di affumicato da formaggio teutonico. Ma la
fame superava la paura, e quelle erano "cose mangiabili "... .
Resisi conto dell'impossibilit di sfondare a Chiapovano, i titini si
spostarono verso Tarnova della Selva e Casali Nemci, dove erano i
m'ar del Fulmine. La battaglia fu qui particolarmente sanguinosa e
so di non esagerare affermando che le cose sarebbero volte al peggio
se il Barbarigo, che in quel momento era comandato dal
sottotenente di vascello Tajana, non fosse riuscito a conquistare la
vetta del San Gabriele strappandola al nemico, che si proponeva
attraverso quella strada di prendere alle spalle i nostri reparti. Fu
come rivivere quello che per anni i marinai avevano letto sui libri di
scuola, nelle pagine dedicate alla prima guerra mondiale: i cannoni
del San Giorgio aprirono il fuoco pur essendo piazzati in batteria
allo scoperto, poi, all'alba, i nostri andarono all'attacco. Morirono fra
gli altri il guardiamarina Alberto Piccoli e il sottocapo Chiesa, ma la
vetta fu conquistata. E fu proprio da quella vetta, mantenuta
nonostante tutto, compresa una bora gelata che tagliava la faccia, che
il 20 gennaio gli uomini del Barbarigo poterono indirizzare il fuoco
dei mortai della Divisione, che falciarono i reparti nemici in
ripiegamento.
Tanti altri episodi ancora si potrebbero raccontare, perch anche in
quella occasione la prova offerta dai nostri volontari fu superiore alle
aspettative. Mi baster ricordare, per tutti, quanto avvenne fra il 19 e
il 20 dicembre del 1944, quando una pattuglia di marinai della 4a e
della 2a Compagnia, composta dal sottotenente Giorgi, dal
sottufficiale Giussani e dai m'ar Chiesa, Fusco e Ablondi, inviata in
avvistamento alla ricerca del Comando di Battaglione, percorse in 24
ore 52 chilometri sulla Bainsizza, attraversando per due volte lo
schieramento nemico: un'impresa straordinaria anche dal punto di
vista sportivo. Non a caso del resto, quando la Divisione Decima,
finita la battaglia, a febbraio del 1945 venne costretta dai Tedeschi a
lasciare Gorizia, proprio il nostro Barbarigo rimase ancora sul posto
per un breve periodo, respingendo gli ultimi soprassalti offensivi del
IX Corpus sui monti San Marco e Spino.
Poi, venne anche per noi l'ora di andarcene. La situazione s'era fatta
insostenibile. A Gorizia, a Salcano, gli scontri coi Tedeschi e i loro
alleati guerriglieri erano all'ordine del giorno. Negli ospedali,
bisognava dividere i nostri feriti da quelli alleati. La popolazione era
chiaramente dalla nostra e questo metteva in difficolt i piani di chi
aveva inventato il Litorale Adriatico. Cos, alla fine di gennaio del
1945, il capintesta degli austriacanti, il gauleiter Friedrich Rainer,
chiese ufficialmente al generale Wolff, plenipotenziario militare
germanico, il ritiro della Decima dalla Venezia Giulia e il suo
trasferimento al di l del Tagliamento. E questa volta nemmeno
Valerio Borghese riusc ad opporsi, anche se non rinunci alla difesa
della Venezia Giulia. Infatti, proprio per aggirare gli ostacoli posti dai
Tedeschi, la Divisione venne divisa in due Gruppi da combattimento,
dei quali il primo fu destinato al fronte del Senio mentre il secondo
veniva concentrato nella zona di Bassano-Thiene, per un nuovo
intervento sul confine orientale. Il piano, elaborato nel febbraio del
1945, prevedeva che al momento del crollo tutti i reparti dovessero
convergere su Thiene, per sostituirsi ai Tedeschi e cancellare
1'Adriatisches Kstenland. Il Barbarigo fu assegnato al l Gruppo
da combattimento e destinato al fronte del Senio, dove da dicembre lo
attendevano il Lupo e i paracadutisti tedeschi della Divisione
Komet, vecchi commilitoni di Nettuno.
***
A Vittorio Veneto il Barbarigo, di ritorno da Gorizia, trov
un'atmosfera molto cambiata. Sia perch la fine era nell'aria, sia
perch gli emissari del IX Corpus premevano, il numero dei partigiani
comunisti era cresciuto. Aveva un bel dire, monsignor Vescovo, che il
Battaglione doveva restare l per proteggere la gente dalla ferocia
degli slavi in arrivo: quasi in contrappunto alle sue parole, gli agguati,
anche mortali, si moltiplicavano. D'altra parte, gli uomini aspettavano
una cosa sola: la partenza per il fronte.
S'era creato fra i m'ar un clima di esaltazione. La sconfitta definitiva,
che tutti davano per imminente, anzich deprimere i nostri volontari,
li elettrizzava. Si palesava lo spirito che ho gi descritto all'inizio e
che, del resto, apparteneva al romanticismo guerriero della prima
met del secolo. Tutti noi avevamo letto le cronache della guerra di
Spagna e le storie delle formazioni che andavano all'attacco gridando:
viva la Muerte!. E in quei giorni, poi, le corrispondenze di guerra
che giungevano dall'altra parte del mondo parlavano dei kamikaze
giapponesi. Ma non era questo soltanto. Dal giorno dell'8 settembre
1943, noi avevamo visto cadere, come scriveva nel 1940 Gioacchino
Volpe rievocando l'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale,
molti ideali spuri, ideali che erano soltanto travestimenti o maschere
ideologiche di alcuni interessi, illusioni o sogni dovuti solamente alla
nostra inesperienza e quasi innocenza di fronte alla realt del
mondo, e la scelta compiuta arruolandoci ci aveva consentito di
salvare molti puri e semplici ideali, quelli che gonfiano veramente
l'anima e sono capaci di addolcire ogni pi dura sofferenza. Era
questo che temevamo di perdere, pi che la vita.
Certo, la sconfitta che era gi nell'aria doleva. Ma il dolore non era
tanto per noi quanto, e ancora una volta non retorica, per la nostra
gente, per gli Italiani tutti. un fatto che deve essere sottolineato per
spiegare quanto fosse giusto il nostro definirci in una categoria morale
a parte, siamo quelli che siamo. Nel corso della guerra civile prima,
e poi negli anni del dopoguerra, nella vita politica e nell'attivit
giornalistica, m' capitato spesso di incontrare persone che non
riuscivano ad amare i loro (e miei) connazionali. Si partiva dalle
critiche, quasi sempre esatte e condivise, per arrivare ad un giudizio
negativo sull'intero popolo italiano; quasi all'odio. Sembrava
impossibile comprendere e accettare quel che aveva detto Mazzini, e
cio che le critiche nascevano dal fatto che noi amavamo troppo la
nostra Patria e l'avremmo voluta migliore di quello che . Negli anni
seguenti, pi volte mi capit di sentirmi chiedere cosa avrei fatto se i
comunisti fossero andati al potere, ed io regolarmente stupii gli
interlocutori dicendo che non avrei mai lasciato l'Italia. Magari in
galera, magari partigiano, ma non in esilio a combattere contro il mio
Paese. Ne discussi a lungo anche con Giuseppe Prezzolini, il quale poi
mi scrisse una lettera, che conservo come un diploma, nella quale mi
diceva fra l'altro: Carissimo Tedeschi, pi passa il tempo e pi ti
ammiro per la facolt che io non ho: di amare il tuo paese. Io invece
non so dove rivolgermi per trovare una radice....
Ora, questo era esattamente il modo di sentire mio e dei miei
commilitoni mezzo secolo fa: quando, cio, nell'Italia che s'avviava a
diventare tutta antifascista e antinazionale, noi eravamo, non gli
ultimi fascisti, ma i primi difensori di quelle idee di pulizia morale, di
dignit patriottica, di giustizia e di condanna del sistema dei partiti,
che oggi sembrano destinate a diventare la base della seconda
Repubblica (la terza, per noi). E fu in questo spirito che a marzo del
1945 il Barbarigo accolse con entusiasmo, a Vittorio Veneto,
l'ordine di partenza alla volta del Senio, per quella che tutti sapevano
sarebbe stata l'ultima battaglia.
***
Il Battaglione part da Vittorio Veneto con due sole novit: la nomina
di Farotti a capo dell'Ufficio operazioni e la ricostituzione, con i
complementi, della 2a Compagnia, affidata a Paolo Posio. Due fatti
destinati a rivelarsi preziosi nei giorni a venire. Per il resto, nulla di
nuovo, a cominciare dalle lunghe marce; il Barbarigo avrebbe
dovuto andare a L'Ugo e poi invece fu spostato su Imola, ma gli
autocarri piantarono gli uomini a una quarantina di chilometri dalla
citt e scomparvero con tutto il loro carico di zaini.
Le buche sul Senio, verso Castel Bolognese, erano comode e ben
fatte, di netta impronta teutonica. I nostri m'ar ci si adattarono
subito e qui trascorsero la Pasqua. Dopo il Natale fra Chiapovano e il
San Gabriele, contro gli slavi, un'altra festivit in prima linea, contro
l'8a Armata britannica. Ma proprio nel giorno di Pasqua i paracadutisti
inglesi iniziarono l'attacco partendo dalle Valli di Comacchio,
dov'erano schierati i cosacchi della Wehrmacht. Costoro in larga parte
si arresero, illudendosi di veder mantenute le promesse di protezione
ed aiuto di cui il Comando britannico era stato prodigo, lanciando
volantini sulle posizioni o diffondendo appelli radiofonici alla
diserzione: a guerra finita, invece, furono tutti consegnati a Stalin,
che li mand al macello, insieme alle famiglie, catturate al seguito dei
reparti.
Cos, ricominci la tortura della Fanteria Marina della Decima: il
Barbarigo venne spostato, a piedi, a Imola, poi a Conselice e infine
ad Argenta, in vista di un progetto che i m'ar conoscevano bene:
restare a coprire le spalle alla Wehrmacht in ritirata. Una ritirata che
presto divent sbandamento e fuga, mentre i nostri restarono, fino
alla fine, ordinati, e non smisero mai di battersi. Quando cominci la
ritirata finale, racconta il m'ar Mario Fusco, ripresero a spararci
anche alle spalle e noi, assolvendo il compito di retroguardia a italiani
e tedeschi in ripiegamento, ci facemmo a piedi tutto il giro della valle
di Comacchio, raggiungemmo il Po, guerreggiammo, superammo il Po
a mezzo barche che il nostro Giussani con qualche altro erano andati
a prendere sull'altra riva a nuoto, e tirando con le mani una fune fissa
sulle due rive perch naturalmente non c'erano remi, forse per uno
scherzo dei partigiani. Riguerreggiammo e raggiungemmo sempre a
piedi l'Adige, che superammo a salti, letteralmente, perch il ponte
pericolante non aveva pi il fondo stradale e si doveva balzare fra
un'asse e l'altra, inchiodante o legate con cime allo scheletro dell'ex
ponte, che fra l'altro era altissimo. Il tutto mentre aerei nuovi di zecca
ci facevano festa grande appena ci vedevano ed i partigiani,
aumentati notevolmente di numero negli ultimi tempi, ci sparavano da
tutte le parti. E meno male che non sapevano sparare un granch.
Uno dei guai era per che non avevamo nulla da mangiare e si
sbocconcellava un po' dello zucchero "rosso" (non ancora del tutto
raffinato) raccolto fra le macerie delle fabbriche bombardate e in
rovina. Sicch ci s'aveva tutti la diarrea, con le conseguenze
facilmente immaginabili... .
***
Passato l'Adige, gli uomini del 10 Gruppo da combattimento della
Divisione Decima si resero conto di essere rimasti soli: dietro di
loro c'era soltanto il nemico, che incalzava; davanti, le truppe
tedesche affrettavano il passo per raggiungere il Tirolo, l'Austria, la
Patria; nel mezzo, le formazioni cosacche abbandonavano le armi e
cercavano di salvar la pelle degli uomini e delle famiglie al seguito. Il
comandante del Gruppo, Antonio De Giacomo, ritenne giunto il
momento di aprire gli ordini in busta chiusa che Valerio Borghese gli
aveva fatto consegnare per il momento finale. Fu battuta l'assemblea
ufficiali e De Giacomo comunic ai suoi collaboratori il nuovo
programma: troncare qualsiasi rapporto con i Comandi tedeschi e
dirigere verso Thiene, per unirsi al 20 Gruppo e marciare insieme su
Trieste. Evidentemente Borghese non rinunciava alla speranza di
poter fare qualcosa per difendere il confine orientale. Il punto debole
del piano consisteva nel fatto che dal luogo dove si trovavano i m'ar,
nei pressi di Albignasgo, Thiene distava almeno 50 chilometri: un
duro cammino, da percorrere sotto i mitragliamenti aerei alleati, in
mezzo alle insidie delle formazioni partigiane e con 1' incombente
minaccia dei reparti britannici in avanzata. Come se non bastasse, per
arrivare a Thiene bisognava superare Padova. E proprio a Padova
naufragarono tutte le speranze del nostro Barbarigo e degli altri
reparti.
L'ultima marcia ha dell'incredibile. Essa comincia la mattina del 27
aprile: il Barbarigo in testa, forte di circa 700 uomini, in coda il
Lupo; nel mezzo alcune centinaia di soldati tedeschi, o cosacchi,
ormai allo sbando; e poi carrette e carrettelle con tutte le armi
pesanti, pi quelle raccolte dopo che i soldati della Wehrmacht le
avevano abbandonate. Mai il Barbarigo fu tanto armato, come in
quelle ultime ore. Tutt'intorno, la Repubblica Sociale era crollata, o
stava crollando. Gli Angloamericani dilagavano, da Verona al Garda; i
responsabili militari germanici, Wolff in testa, stavano concludendo le
trattative per la resa; Mussolini aveva lasciato Milano e lo stesso
Valerio Borghese, resosi conto dell'impossibilit di attuare il suo piano,
aveva sciolto il Comando Decima di Milano, e passato i poteri al CLN,
fino dal pomeriggio del 26. La radio annunciava questi fatti e la gente,
nei pochi casi in cui i reparti si fermavano per riprendere fiato, ne
informava i nostri; ma i reparti rimasero compatti e ordinati. Nessuno
se la svign; molti morirono, soprattutto a seguito dei mitragliamenti
aerei. Cos del resto era morto, poco prima di Cavarzere, il tenente
medico del Barbarigo, Aldo Maggiani, uscito allo scoperto per tentar
di salvare un russo ferito e abbattuto nonostante avesse steso in terra
la bandiera con la croce rossa bene in vista.
Giorgio Farotti, interpretando nel modo pi estensivo il suo compito di
capo dell'Ufficio operazioni, guidava i reparti e teneva contatto con i
comandi, anche se quelli tedeschi, ormai, non comandavano pi nulla.
Aprivano la strada alcuni m'ar del plotone arditi del Barbarigo e gli
uomini della 2a Compagnia, disposti su due file, agli ordini di Paolo
Posio. E furono costoro che, all'alba del 28 aprile, raggiunsero i
sobborghi di Padova. Ma ormai era tardi. Padova, come tutte le altre
citt del Nord, era passata nelle mani del CLN, che aveva assunto tutti
i poteri; la Kommandantur tedesca si era arresa, consegnando ai
partigiani le armi in suo possesso; l'avvocato Pizzirani, ex
commissario prefettizio della RSI, con un manifesto controfirmato dai
rappresentanti dei partiti del CLN, aveva invitato tutti ad arrendersi
fin dal 25 aprile, ammonendo che, scaduti i termini dell'ultimatum, i
contravventori sarebbero stati passati per le armi.
L'ultimo scontro ebbe per teatro il ponte del Bassanello, passaggio
obbligato per entrare in citt. Gli uomini di Posio si avvicinarono al
Bassanello; dall'altra parte, in lontananza, un partigiano brandeggiava
una mitragliatrice. Il CLN patavino intavol trattative; il comandante
De Giacomo fece presente che egli aveva l'ordine di raggiungere
Thiene e che, pertanto, chiedeva di poter passare, ben deciso in caso
contrario ad aprirsi la strada con le armi. Le trattative andarono per le
lunghe, mentre i m'ar chiedevano con insistenza di andare
all'attacco. Alla fine, De Giacomo diede ordine di avanzare; a Posio si
un l'aiutante maggiore del Battaglione, Gattoni, che nello scontro
rimase ferito ad una gamba, insieme al m'ar Rubagotti. All'eco delle
mitragliate il CLN risped un'altra macchina con bandiera bianca, per
annunciare che nessuno pi si opponeva al passaggio della Fanteria
Marina della Decima. Ma era tutto un inganno: le ore perdute erano
servite per consentire ai reparti inglesi di arrivare e circondare i
nostri. Quando De Giacomo se ne avvide, era diventato impossibile
anche deviare per Abano-Vicenza e continuare la marcia verso Thiene
su strade secondarie: i nostri reparti erano tutti circondati e
costituivano l'ultima isola militare rimasta nel territorio di uno
Stato, la Repubblica Sociale Italiana, che aveva ormai cessato di
esistere. Cos disse, nella notte fra il 28 e il 29, un maggiore del 120
Lancieri reali Prince of Wales al comandante De Giacomo ed era la
pura verit. La resa diventava inevitabile, la sola alternativa era il
massacro. Ma proprio allora cominci, per i nostri ufficiali, la fase pi
difficile.
Infatti, bench la cosa oggi possa apparire assurda, folle, la truppa,
ed anche molti sottufficiali e ufficiali, non voleva arrendersi. De
Giacomo ed il suo stato maggiore furono accusati di tradimento. La
notizia che gli Inglesi concedevano l'onore delle armi non bast a
calmare chi non voleva (ed erano i pi) sentir parlare di arrendersi.
Per lunghissimi minuti parve concretizzarsi un ammutinamento. Alle
urla, alle invettive, si mescolavano le cantate sarcastiche, tipo: Noi,
sulle madri / dei nostri comandanti / sappiamo cose / che non si
posson dir....
Poi l'intervento degli ufficiali pi amati dalla truppa (e ancora una
volta si rivel prezioso l'apporto di quanti provenivano dagli Alpini ed
erano abituati a intrattenere coi loro soldati un particolare rapporto
fatto di amicizia prima che disciplina, cameratismo pi che gerarchia)
ristabil la quiete. Nel buio della notte, tra i fuochi dei bivacchi,
qualcuno, non si seppe mai chi, inton il coro del Nabucco: un
finale verdiano, per dire addio alla Patria s bella e perduta .
La mattina del 29, quando De Giacomo rivolse l'ultimo saluto ai
reparti schierati in armi, l'ufficiale inglese rimase contagiato da
quell'atmosfera allucinata e volle prendere la parola per dire che
anche lui aveva conosciuto un momento egualmente doloroso, quando
era stato fatto prigioniero a Tobruk, in Africa Settentrionale.
Ma non era ancora finita. Il giorno dopo, i reparti attraversarono
Padova per dirigersi al punto fissato, dove un picchetto di fanteria
rendeva gli onori; le armi furono consegnate e gli uomini vennero
concentrati nella caserma di Pr della Valle. Di qui furono avviati
prima al 209 POW Camp di Afragola, poi trasportati in Algeria, al 211
POW Camp di Cap Matifou; altri, fatti prigionieri in precedenza,
finirono invece al 337 POW Camp di Coltano di Pisa.
La gente, in strada, si affollava per vedere questi nostri soldati, ormai
prigionieri. E allora, da un camion che trasportava i feriti, qualcuno
ebbe l'idea: mise la mano in tasca e lanci verso i curiosi festanti le
poche carte da mille della paga, che era stata distribuita prima della
resa. Il pubblico si accapigli e dimentic, in un attimo, le invettive e
le grida antifasciste. Come era avvenuto il 4 giugno del '44 a Roma,
per qualche pugno di caramelle. Il cosiddetto furore popolare
antifascista si vendeva a poco prezzo, in un senso come nell'altro.
Capitolo VI
EPILOGO
La storia finisce qui. Consegnate le armi, per gli uomini del
Barbarigo si apri il periodo della prigionia. Io, che dalla met di
gennaio ero agli arresti a Milano, accusato di insubordinazione e
sobillazione per aver contestato, come ho raccontato pi avanti, i
contatti del Comandante con la Marina del Sud, tornai libero il 25
aprile, quando Borghese sciolse la Decima e ordin
l'ammainabandiera. A met gennaio del '45, quando ero entrato nella
sede della Decima a Milano, in quella che oggi si chiama Piazza della
Repubblica, per essere arrestato dai miei, nella strada, davanti ai
cavalli di frisia che proteggevano l'edificio, un uomo con un triciclo
vendeva le caldarroste; quando ne uscii, lo stesso uomo con lo stesso
triciclo vendeva le strane bibite che allora si potevano trovare. La
guerra civile finiva, lui era sempre l.
Pochi giorni dopo, il 12 maggio, riconosciuto da un sottufficiale che
aveva fatto il doppiogiuoco, mi aveva visto incarcerato alla Decima e
sapeva il perch, venni riarrestato dagli altri. Anche io stavo sempre
allo stesso punto; in galera. Dal carcere militare di via Crivelli fui poi
avviato al campo di concentramento, prima a Modena poi a Coltano, e
l ritrovai alcuni commilitoni che erano stati fatti prigionieri durante gli
ultimi combattimenti, dal Senio in su, nella ritirata. Il grosso del
Battaglione, invece, fu trasferito da Padova al campo di
concentramento di Taranto e di qui in Tunisia.
Ma della prigionia inutile parlare; una condizione avvilente, uguale
per tutti quelli che sono costretti a subirla. Noi avemmo la fortuna di
uscirne, nella quasi totalit, conservando intatto lo spirito che ci aveva
portato ad arruolarci; e fu pi di quanto potessimo sperare.
Ora che la storia finita, mi rendo conto di non aver parlato, in
queste pagine, del mondo che viveva intorno a noi, dell'Italia di quei
seicento giorni di Sal che avrebbe segnato per sempre le nostre
esistenze. Ci avvenuto, non per una scelta deliberata, ma
inavvertitamente. Il fatto che, in tutti quei mesi, noi vivemmo come
prigionieri di un sogno; ora che il tempo passato, me ne rendo conto
lucidamente. Non eravamo n eroi n fanatici; eravamo giovani, in
taluni casi giovanissimi, pronti a cogliere il lato bello e divertente della
vita. Avemmo anche noi qualche pecora nera, anche se, sforzandomi,
non riesco a rammentare pi di cinque o sei casi: evidentemente il
volontariato, come lo si concepiva allora, e cio senza paghe speciali
n incentivi al difuori del patriottismo, costituiva di per se una
garanzia di selezione. Quando possibile, ci piaceva far festa, ci
piaceva amare ed essere riamati. Ed anche se la Repubblica Sociale
cantava le donne non ci vogliono pi bene, perch portiamo la
camicia nera, in realt le donne erano quasi sempre affettuose e
disponibili. Le ragazze perbene, con le bocche impiastricciate col
povero rossetto di allora, che sapeva di confettini, e le altre, le
professioniste, che il rossetto se lo toglievano prima di baciare, ma
erano sempre pronte ad offrire calda ospitalit, senza curarsi delle
punizioni partigiane. Che poi vennero, dopo l'aprile del 1945, e
furono in molti casi odiose, in altri addirittura sanguinose.
Ma tutto questo, a mezzo secolo di distanza, svanito dalla memoria,
dove rimane vivo soltanto il ricordo del Battaglione. Che fu per tutti
noi un'entit corale (non saprei come dire altrimenti) nella quale gli
affetti, le speranze e le illusioni confluivano in una logica sostanziata
dall'ordine e dalla forza militare. Qualcuno dir, forse, che noi
eravamo il prodotto ultimo di un ventennio di educazione fascista; e
in parte anche vero. Ma c'era in noi tutti molto di pi. C'erano idee e
sentimenti, magari inconsci, magari inespressi, e tuttavia chiarissimi
oggi nel riguardare le ingiallite fotografie con gli occhi della memoria,
che andavano molto pi lontano del fascismo. Perch erano nelle
radici di tutti noi. Perch, e non polemica ma soltanto constatazione,
l'Italia in cui eravamo nati non aveva reciso le sue radici storiche e
non s'era ancora rifugiata nella vigliacca ignoranza di se stessa.
Vorrei spiegarmi con un esempio, per non sconfinare nella politica o
nella retorica. Torno al punto di partenza, al mio primo giorno al
fronte di Nettuno, alla morte di Alberto Spagna. Le nostre buche
erano scavate negli argini del canale. Ci voleva dire fango dalla parte
dove stavamo rintanati, erba subito oltre la cresta. Quel giorno
maledetto pass. Quando venne l'oscurit, che ci metteva al riparo
dal cecchino, sbucammo oltre l'argine. Il secondo capo S'avelli, un
anziano che aveva esperienza di guerra, ci aveva insegnato il
trucco per beccare il nemico, che durante la notte si ritirava a
cercar di dormire nei ruderi di una casa colonica: da una buca si
sparava in quella direzione e, quando il nemico rispondeva, da
un'altra si faceva fuoco mirando alle fiammate che tradivano la
presenza del bersaglio. In attesa che il giuoco riuscisse, rimasi
sdraiato sull'erba bagnata e, per un attimo, mi sentii pienamente
identificato con quella terra, quei fili d'erba. Tutto intorno era buio;
nella notte echeggiavano a tratti gli spari, nostri e del nemico;
lontano, sul mare, i traccianti della contraerea delle navi americane e
il rumoreggiare dei loro cannoni. Si pu avere la sensazione di
identificarsi addirittura materialmente con la propria Patria? Non lo so,
e forse quel momento fu il prodotto dell'esaltazione di un giovane non
ancora ventenne che per la prima volta aveva di fronte il nemico. Ma
quella sensazione io la ebbi, e l'impressione fu cos viva, che ancora
adesso non l'ho dimenticata.
Ecco: io ringrazio la sorte per aver avuto la fortuna di conoscere tutto
questo e ringrazio il Battaglione, che mi permise di arrivarci.
Il ritorno alla realt non avrebbe potuto essere pi traumatico. Forse
fu meglio cos, perch fummo costretti a capire subito cos'era l'Italia
che ci aspettava. Ricordo il ritorno a Roma, l'arrivo del treno che mi
riportava in citt dopo il campo di concentramento. La stazione
Termini era ancora per met demolita; il piazzale e le strade adiacenti
erano lerci, affollati di venditori di preservativi e di sigarette
americane. Su improvvisati banchetti, i venditori di pastasciutta
preparavano la loro mercanzia, in tutto simili ai loro progenitori
napoletani consacrati nelle immagini del Bourcard; con la sola
differenza che, nelle vignette ottocentesche, i venditori di pastasciutta
erano pi puliti. Intorno, una umanit miserabile, dove le prostitute
spiccavano in maniera indecente, mentre la piccola gente si affannava
a inerpicarsi su sgangherati camioncini adattati a trasporto pubblico.
Era l'anticamera del suk; quello che oggi ormai stabilmente
impiantato negli stessi luoghi, alla stessa stazione ferroviaria e nelle
medesime strade. Per ricominciare a vivere bisognava farsi coraggio e
ritrovare la forza per andare avanti. Ci riuscimmo, quasi tutti.
Di quei giorni lontani noi siamo, come ha detto qualcuno, i
sopravvissuti involontari. L'orrida vecchiezza di dannunziana
memoria ha deformato i corpi; sono cresciute le pance, sono comparsi
i bastoni, gli occhiali, le dentiere. Ma a un chilometro circa da
Nettuno, sulla via Pontina, l'erba dei prati uguale a quella di allora e
copre il nostro Campo della memoria. Un campo minuscolo tra i
grandi cimiteri di guerra, inglesi, polacchi, tedeschi; appena 3.500
metriquadri. Non ci sono tombe perch manca l'autorizzazione; fu
difficile, nel 1944, ottenere dai Tedeschi il permesso di andare a
rischiare la vita al fronte, ancora pi difficile oggi ottenere dagli
Italiani il permesso di essere seppelliti insieme ai propri commilitoni.
Nel Campo c' soltanto una grande croce di sant'Andrea in marmo
bianco, in tutto simile alla X che campeggiava nell'insegna della
Decima. Davanti alla croce, sulla piazzola, i nomi dei reparti italiani
che combatterono nella battaglia di Anzio, a cominciare dal nostro
Barbarigo. Ce lo siamo costruito da noi, il Campo della memoria,
e senza aiuti pubblici o di partito: cosa assai rara in tempi in cui anche
la morte diventata un business. Non vero, forse, che ancora
adesso siamo quelli che siamo?
Capitolo VII
I SOLDATI INVENTATI
Come nacque il Battaglione. Intervista con il tenente Paolo Posio e il
mar Franco Bur.
T - Tu, Posio, arrivasti al Barbarigo subito, all'inizio. E prima dell'8
settembre dov'eri?
P - Al IX Alpini.
T - E tu, Bur?
B - Io arrivai a La Spezia ai primi di dicembre. Poich sono nato il 9
dicembre del '25, non avevo ancora 18 anni. Nemmeno avevo
precedenti militari. Posso per dire che anch'io rimasi colpito
dall'impressionante afflusso di volontari. Allora abitavo a Torino e
quando mi avevano mandato a La Spezia mi avevano raccomandato
di non scendere alla centrale, ma prima, a Migliarino. Cos feci e
ricordo che quando uscii da quella stazione c'era una scarpata verde
tagliata da un sentiero che andava gi, fino alla strada diretta alla
caserma di San Bartolomeo. Quella distesa color smeraldo era una
fiumana di ragazzi: c'era chi saltava, chi rideva, chi si ruzzolava
nell'erba. Eran tutti i volontari. Non tutti quelli scesi dal treno
dovevano arruolarsi. Molti tornavano dai permessi, altri dalle licenze,
chi andava come me a presentarsi: ed era una festa di esclamazioni,
suoni, voci, colori. Un tripudio che dava conforto e sollievo. Erano tutti
giovani e volevano bene all'Italia. Amavano la Patria. Poi ebbi un po'
di scoramento. Infatti, dopo la visita medica e dopo essere stato
preso in forza al battaglione Maestrale mi diedero subito una
licenza. Perch?, chiesi addolorato. Perch mancavano le divise. Erano
arrivati pi volontari di quanto fosse stato previsto. Infatti non mi
diedero una licenza sola, ma due, e cos il Natale lo feci a casa. Al
reparto tornai dopo le feste e cos il gennaio e febbraio lo passai a La
Spezia.
T - Proprio quando girava la storia delle armi che partivano da
Gardone e venivano rubate per noi....
B - Si... e quella di Marchesi che da Roma aveva fatto arrivare a La
Spezia un carico d'armi prelevate dalla caserma dei granatieri.
T - Posio, come venne costruito il Battaglione?
P - Fu messo su un po' alla garibaldina e in modo quasi dilettantesco,
perch molti ufficiali comandanti di reparto non avevano esperienza,
usavano linguaggi diversi e pensavano le cose diversamente. Erano
ufficiali di Armi diverse, che risolvevano in modo diverso da un
ufficiale di fanteria i problemi della truppa. Noi degli Alpini, o dei
Bersaglieri, eravamo abituati a comandare gli uomini, mentre molti
ufficiali della Marina erano specialisti che non avevano esperienza con
i soldati e non ci sapevano fare con la gente... In ogni modo, il
Battaglione si form e si fuse. Per di addestramento se ne fece poco,
molto poco. I primi fucili, poi, furono distribuiti soltanto a fine
dicembre, quando ricevemmo l'ordine di compiere alcuni
rastrellamenti; missioni che si trasformarono in grandi passeggiate e
bevute. Di partigiani allora non ce n'erano. Io, che ero stato in zona
d'operazioni in Montenegro, Venezia Giulia e Slovenia, dove la
guerriglia c'era sul serio, dissi subito che di questa da noi non c'era
nemmeno l'ombra. In ogni modo, ripeto, grazie soprattutto a tanti
bravi sottufficiali, il reparto cominci a formarsi e fondersi.
T - Andavate a fare i tiri?
P - S ma, ripeto, l'addestramento fu scarso. Nemmeno si fece
preparazione al combattimento. C'erano soltanto un grande
entusiasmo e disciplina. Moltissimi erano studenti. Era un fatto
importante, soprattutto per me che ero abituato ad aver come soldati
pastori e contadini. Con loro era tutto diverso!
T - Erano tutti volontari, e con una certa preparazione culturale!
P - Erano di facile comando. In loro non c'era ribellione. Non c'era mai
da punire qualcuno; solamente qualche consegna e qualche biglietto
di punizione, ma niente di pi.
T - Tutto ci dimostra quello che poi dicono tanti libri e che ho sentito
e visto emergere da tanti racconti, confidenze, confessioni, incontri e
colloqui con tanti protagonisti di quei giorni, molti dei quali erano
fascisti, ma moltissimi non lo erano affatto...
P - Forse hai ragione... Credo che nella Decima convivessero, come
tanti dicono, fascisti e non.
T - Credo che anzitutto tutti si sentissero italiani. Forse l dentro c'era
un solo non fascista e questo era Vallauri, che prima di tutto era un
ufficiale.
P - Guai se non ci fosse stato lui!
T - Il fatto che ci fossero fascisti e non, poteva essere importante per
me, che ero fascista, ma non lo era per la maggioranza. Il fatto
politico era secondario.
P - In ballo c'era l'onore. Tutto avvenne per l'onore.
T - Io sono del '24 e avevo lavorato a Roma fascista fino a tutto il '42,
ero fascista, ma dimenticai completamente d'esserlo. Lo stesso
Cencetti, fascistissimo, su questioni del fascismo non rompeva mai le
scatole...
P - Quando richiamavo i sottufficiali a me bastava dire: non
dimenticare che sei della Decima. Non mi sono mai sognato di parlar
di fascismo con nessuno... Nemmeno con Garibaldo, che sproloquiava
sempre in materia.
T - E l'azione di Tarnova?
F - Si svolse cos. Quando arriv la notizia che l'8 gennaio Tarnova
sarebbe stata attaccata, il comando della Decima concentr
Barbarigo, Sagittario e due Gruppi d'artiglieria, cio tutto quello
che aveva disponibile, meno Fulmine e Valanga, nel paese. Da
tempo noi, pattugliando la zona, saggiavamo le reazioni degli Slavi
valutandone le forze.
T - Potresti ora dire a quali conclusioni sei arrivato dopo tutto quanto
hai vissuto e visto in quel periodo?
F - Sono molte. La prima che la Decima non concep mai operazioni,
ma le esegu. Realizz sempre piani tedeschi. Quando si dice che
avevamo obiettivi e piani improntati ad una ipervalutazione delle
nostre capacit si dice una sciocchezza. Inoltre, abbiamo sempre
raggiunto gli obiettivi assegnatici. Sul fronte italiani fummo i soli a
tenere. Gli Angloamericani sfondaron dovunque, ma non dove
c'eravamo noi. Il Barbarigo era ancora operativo il 29 aprile...
Insomma, voglio dire che i nostri erano veri soldati, consapevoli di
quello che facevano, convinti di doverlo fare ed incuranti della loro
vita. Non erano incoscienti o avventurieri, come tanti hanno detto, ma
amavano l'Italia e avevano un gran senso della dignit e dell'onore.
Riconoscimenti ci vennero da pi parti. Voglio soltanto ricordare, alla
fine, quel generale tedesco che, ritto sull'argine di un fosso, salut
militarmente, m'ar, m'ar per m'ar, i nostri che uscivano dal fango,
sia il picchetto armato britannico che ci rese l'onore delle armi dopo la
resa. Che fu inevitabile.
Noi non fummo catturati e nessuno ci pieg mai: ci arrendemmo
quando la Repubblica era gi finita ed erano gi avvenuti Dongo e
Piazzale Loreto. Ci battemmo per l'onore del nostro Paese e per
difenderne i confini. E tutti, anche se pochi l'ammettono, tutti, ripeto,
lo sanno.
Capitolo IX
IL VALORE E L'OBBEDIENZA
Intervista con Sandro Tognoli, sottotenente, medaglia d'oro alla
memoria
Te - Quindi tu hai visto nascere quel Maestrale, dal quale poi ebbe
vita il Barbarigo. Com'era?
To - C'era molto entusiasmo e c'erano anche buoni ufficiali. Il reparto
si formava gradualmente, mano a mano che arrivavano i volontari.
Alcuni, quando arrivai avevano gi le prime divise, che poi rimasero
sempre quelle; altri avevano ancora l'uniforme dei loro reparti di
origine, Alpini, Marinai. A La Spezia c'erano allora molti ufficiali di
Marina, quella che poi noi avremmo chiamato la Marina nera, per
via dell'uniforme. Ricordo una notte di bombardamento al Muggiano.
Io stavo nella sala con questi ufficiali che, in maniera imperturbabile,
rimasero seduti ai tavoli ad ascoltare Saint Louis blues, una
canzone che, non so perch, amavano particolarmente. Mi colp la
loro serenit, il coraggio. Noi identificavamo il bombardamento con
l'idea del rifugio, loro non ci pensavano nemmeno. Arillo era ancora
molto giovane...
Te - E il Maestrale com'era?
To - Il Maestrale, quando incominci ad unificare le divise ed avere
una specie di armamento, era gi un reparto abbastanza ordinato,
con una sua struttura in diverse compagnie. Non fu impiegato, se non
in una azione, che io ricordi. Avvenne a Ponzano Superiore, dove si
era costituita una banda di malviventi che andava depredando tutti i
depositi militari abbandonati l'8 settembre e, per completare l'opera,
effettuava rapine e grassazioni. Con la mia Compagnia fui destinato a
Ponzano Superiore, dove avevamo il compito di proteggere la
popolazione dalle possibili violenze. Perch erano vere e proprie
violenze. Siamo stati l a presidiare per un po' di tempo questo paese
e al momento di andarcene io salutai la popolazione con una piccola
arringa in piazza. Quando dalla prigionia tornai in Italia incontrai un
ufficiale il quale aveva amici a Ponzano Superiore e mi disse che la
gente ricordava questo giovane ufficiale che si era dato da fare per
aiutarla, comportandosi con spirito umanitario. D'altra parte, io non
conoscevo altri sistemi per proteggere una popolazione, se non dar da
mangiare alla gente e difenderla contro eventuali aggressioni e
violenze. Non avemmo perdite. Demmo invece a quella gente, almeno
per un po' di giorni, una certa sicurezza, e loro ce lo riconobbero.
D'altra parte i primi volontari del Maestrale erano giovani che si
erano arruolati proprio come atto d'amore verso l'Italia e la sua
popolazione. L'onore, la dedizione al nostro Paese: queste erano le
cose che ci avevano trascinato l. Diciamo che eravamo dei poeti. La
maggior parte dei volontari erano studenti, mescolati ad alcuni che
venivano da un servizio militare molto prolungato ed avevano il senso
dell'onore anche pi di noi, che affrontavamo il problema per la prima
volta. Devo dire che ricordo con particolare soddisfazione quel periodo
e quel reparto.
Te - Credo che tu sia l'unico fra noi che abbia fatto questa esperienza.
To - Effettivamente, avrei potuto rifiutare, perch ero anche mutilato;
per ho preferito rispondere alla chiamata, perch non era una
mutilazione che mi impedisse di seguitare ad obbedire. Ormai ero
rientrato nel mondo, nel mondo dei vincitori, ma senza ripensamenti
n pentimenti; ero un vinto tra i vincitori e ho fatto quello che potevo
fare; l'ho fatto abbastanza bene.
Te - E dopo la sosta?
To - La sosta non dur molto: dopo tre giorni ci spostarono ancora e
arrivammo cos verso il 20 di maggio. Una mattina proprio di maggio,
il 23, il comandante della mia Compagnia mi chiam. Cencetti nel
frattempo era passato al comando del Battaglione, cos la Compagnia
era affidata a Paolo Posio, un magnifico tenente proveniente dagli
Alpini.
Te - Era uno degli ufficiali pi amati...
To -... si, e poi aveva una grande capacit organizzativa. Posio mi
disse: ti tocca, devi andare a fare argine ad una certa situazione,
verso Cisterna. Verr un camion e ti caricher con il tuo reparto, che
allora era ridotto ad una quarantina di persone, due o tre squadre
appena. Dovete andare al chilometro 51 della via Appia, aggiunse
Posio, e impedire che gli Americani, che stanno avanzando, riescano a
tagliarla. Vennero i camion, ci portarono sul posto e scapparono via.
Ti dico, il tempo di scendere, di girarsi, e i camion gi non si vedevano
pi; erano ripartiti velocissimi.
Te - E poi?
To - E poi, tutto a un tratto si aperto il grano e abbiamo visto
avanzare alcuni enormi carri armati. Erano gli Sherman che
venivano avanti.
Te - Insomma, se non vuoi entrare nei particolari lo far io, sulla base
di quanto mi hanno raccontato Posio e gli altri. Quella quarantina di
m'ar che erano con te li hai tenuti in posizione e poi, bench ferito, li
hai fatti ripiegare al momento opportuno; quindi sei rimasto da solo, o
quasi.
To - Si, sono rimasto io con qualche altro ferito, e ho cercato di darmi
da fare fino all'ultimo con le armi di cui disponevo.
T - Soldato sul serio, non come fanno adesso alle prove, con quei
giochetti pubblicitari.
D - Soldato sul serio, si.
T - Insomma, eri quella che a Roma chiamano una fijetta de' casa.
D - Come no, ero la pi grande di cinque figli.
T - E l'arruolamento?
D - Dopo mio padre, fui autorizzata ad iscrivermi anche io, ma nel
frattempo avevo cominciato a svolgere lavoro assistenziale.
Collaboravo con due ufficiali che facevano da tramite con gli internati,
i primi internati in Germania, ed avevano un ufficio a Santa Croce in
Gerusalemme. Parlavo il tedesco abbastanza bene, perch la mia
nonna materna era austriaca. Insomma, cercavo di rendermi utile. Ma
se dovessi dirti come sono arrivata a Fede Arnaud, francamente non
me lo ricordo.
T - E poi?
D - Il pomeriggio del 3 giugno si sentiva chiaramente il cannone che si
avvicinava a Roma. Bardelli venne in caserma e mi disse: Vai a casa
ad avvisare che parti; prendi poche cose e viene su con noi, perch
nessuno di noi rimane pi qui. Ricordo perfettamente che, mentre
stavo uscendo, lui era seduto con altri sui gradini nel cortile del
Distaccamento e mi chiam a voce altissima: Raffaella!. Qualcuno
gli aveva dato il nome, evidentemente. Mi voltai e lui mi disse:
Togliti la giacca e il basco. Io francamente l per l non capii; a
Roma non ci aveva mai dato fastidio nessuno, anche a notte fonda,
quando dovevo tornare a casa a piedi perch abitavo all'Alberone,
sulla circonvallazione Appia, che allora era periferia. Per
probabilmente il comandante Bardelli aveva pensato che se fossi
andata in giro a piedi quella sera, in divisa, avrebbe potuto essere
pericoloso. Mi fece telefonare ai miei, loro mi aspettarono. Mio padre
mi accompagn poi al Distaccamento e ancora adesso, ricordandolo
come era, rigido, severo nei confronti delle figlie femmine, in
particolare della pi grande, che ero io, ancora adesso non riesco a
capire dove abbia trovato il coraggio e la forza di accompagnarmi...
T - E fin qui, la guerra. Ma, fra tutti noi, tu sei la sola che, anche dopo
la guerra, ha continuato a considerarsi in servizio, insieme a Silvana
Millefiorini. Tutti noi, diciamo cos, abbiamo finito, mentre voi due...
D -... abbiamo continuato.
T - Me lo immagino!
D - Eravamo insieme a due o tre della Nembo, che raccoglievano i
loro. Lo ricordavo proprio l'altro giorno, quando siamo andati ad una
cerimonia al Campo della Memoria con Luciano Orefice. E allora
dicevamo: questo tuo, questo mio. Avevamo trovato che le
spazzoline per pulire le scarpe di tela servivano bene a pulire le ossa.
Perch noi abbiamo anche pulito le ossa. La cosa non ci dava fastidio,
lo facevamo con amore. Ma voglio tornare alla storia di Cornuda,
perch ti aiuta a capire. Lui era alto quasi un metro e novanta e a noi,
al cimitero del V'erano, avevano insegnato che, misurando i femori, si
poteva ricavare, in proporzione, la misura dell'intero corpo. Noi,
avevamo trovato uno scheletro con un femore che corrispondeva.
Insieme c'erano anche diversi pezzi di stoffa, di camisaccio; qualcuno
era stato sepolto dentro ai sacchi, qualche altro in cassette di legno.
Attaccata a quel femore avevamo trovato una mutanda con l'elastico,
per fatta a mano; allora molte madri facevano la biancheria ai figli. E
cos questo povero signor Cornuda, che poi era appena rientrato dalla
prigionia in America e che, dopo avermi rintracciato, non si era pi
mosso da Roma, mand questo pezzo di mutanda alla moglie che
disse: Si, l'ho cucita io. E allora, sai, vedere quest'uomo che
diceva: Beh, almeno ho ritrovato mio figlio..., stata davvero una
grande cosa. Ricordo che il signor Cornuda scrisse una lettera che, mi
sembra, Diego Calcagno pubblic sul Tempo, elogiando il nostro
lavoro e dicendo: Mi hanno ridato mio figlio. Io intanto mi ero
sposata, aspettavo Marco, ma continuavo ugualmente ad andare in
giro, grazie sempre all'aiuto del maggiore Seifert, che ci avvisava
quando trovava salme di italiani.
T - Un lavoro improbo.
D - Si, per doveva essere fatto. E ricordo una cosa. Un giorno, con
Silvana Millefiorini, si decise di andare a prendere le salme di una
trentina dei nostri, che stavano a Valvisciolo; erano quelli morti in
ospedale. Il cimitero era custodito dai Benedettini e il priore ci aveva
detto che l'acqua faceva scivolare le salme verso il basso e le portava
via; quindi, se scavavi direttamente non trovavi niente, dovevi
scavare un po' pi lontano rispetto alle croci. Allora siamo andate,
abbiamo affittato un camion a Roma, e avevamo anche comprato le
cassettine ossario. Siamo andate la mattina con Silvana ed era venuto
anche uno stagnino di l, che ci aiut a chiudere le cassette. Poi
abbiamo caricato tutte le cassette sul camion e il Sindaco di Latina, lo
ricordo bene perch ho conservato le carte di tutto questo lavoro, ci
prest una bandiera tricolore. Cos, su questo camion, e puoi
immaginare che razza di camioncino sconquassato fosse, caricammo
le trenta cassettine con la bandiera tricolore, e poi siamo salite noi. Io
aspettavo Marco, mi pare che fossi al sesto mese. Ad un certo punto
ci ferm la Polizia, probabilmente la Stradale. Quando spiegammo
cosa avevamo con noi e mostrammo una autorizzazione del
Commissariato onoranze ai Caduti, come lo avevamo ottenuto non me
lo ricordo, sai cosa fecero? Ci scortarono fino a Roma. Ci hanno
scortato, di loro iniziativa. Non c'era proprio necessit e non lo fecero
per motivi di sicurezza, perch quei nostri poveri morti, di sicuro non
scappavano.
Primo Siena
bersagliere RSI, mai pentito
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30-08-04, 21:05 #4
Capitan Harlock
Ospite
Predefinito
Resistere per Roma
PARACADUTISTI, MARO E LEGIONARI ALLA DIFESA DI ROMA
L.F.