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E.H. GOMBRICH, “They Were All Human Beings: So Much Is Plain”: Reflections on Cultural Relativism in the Humanities,
in Critical Iniquiry, Vol. 13, No. 4 (Summer, 1987), p.696.
2
Ibidem.
3
Ibidem.
Neither in the sciences or in the humanities must we aim at total solutions
but that we still have the right to go on asking and searching, because we
can learn from our mistakes
La ricerca e l’aspirazione alla conoscenza non passano di certo da verità assolute, e l’umanista ne è
consapevole. Sarebbe un peccato di hybris giustificare semplicemente gli errori e i fraintendimenti
nell’interpretazione delle letture come se fossero dovuti all’eccessiva distanza culturale dalla nostra
epoca, sconfinando, come teme Gombrich, in uno scetticismo sterile.
Eppure anche lui ribadisce il pensiero di Cicerone, per cui
Cuiusvis hominis est errare: nullius nisi insipientis, in errore perseverare4
Errare nella sua accezione originaria latina significa vagare, andare qua e là senza direzione o meta
certa. L’errore umano quindi non è mai punto d’arrivo, bensì un punto di partenza: sarebbe errato
focalizzarsi su aspettative disattese, troncando al principio qualsiasi ricerca di conoscenza. Così
Gombrich sostiene che
The fallacies which tempted art history to adopt cultural relativism also
occur in other fields of the humanities5
Per sostenere la sua tesi ricorre all’esempio dato da un filologo classico, che suggerì che gli antichi
Greci dovevano essere daltonici poiché avevano poche parole per indicare i colori, e Gombrich
ribatte ironicamente con l’asserzione che anche noi dovremmo allora esserlo per lo stesso motivo;
eppure la caratteristica del linguaggio è la sua selettività, che sacrifica alcune delle innumerevoli
sfumature della realtà al fine di rendere una più chiara ed immediata comprensione. In questo senso
Gombrich prosegue
In any social community every colour, every sound, and naturally also every
word has a feeling tone which determines its exact position within this
system. It goes without saying that these various systems will not be
accesible to the outsider without an effort of empathy and yet there is much
evidence to suggest that they all share a sufficient number of features to
justify us in making the attempt. Quite generally it can be said that every
one of the so-called sense modalities tends to evoke resonances in other
senses and that this type of correspondence facilitates understanding.
Ritorna qui il principio delle reazioni universali comuni all’Uomo in quanto tale, illustrate anche
dall’etologo Irenaüs Eibl-Eibesfeldt nel suo libro “The Biology of Human Behaviour”. Queste
reazioni o disposizioni vengono poi assorbite dal linguaggio ai fini comunicativi, assumendo
differenti connotazioni a seconda della cultura che le produce. Effettivamente, a volte potrebbero
non essere comprensibili se non ci si mette nei panni dell’altro, in contesti sociali e quotidiani,
poiché ogni cultura elabora delle metafore o sinestesie linguistiche comprensibili spesso solo
all’interno del sistema sociale stesso. Estrapolate da esso, per un estraneo risulterebbero
incomprensibili. Ed essendo il sistema sociale un organismo vivo, mutante, che si evolve, così
anche il linguaggio non permane mai uguale a se stesso. Occorrerebbe forse concentrarsi più che sul
termine in sé, proprio sul significato logico che assumono queste sinestesie, capaci di evocare
risonanze in altri sensi, per giungere ad una comprensione soddisfacente di alcuni elementi di tali
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CICERONE, Filippiche, XII.5. “To make mistakes is typical of human beings, only fools persevere in making them.”
5
E.H. GOMBRICH, “They Were All Human Beings: So Much Is Plain”: Reflections on Cultural Relativism in the Humanities,
in Critical Iniquiry, Vol. 13, No. 4 (Summer, 1987), p. 692.
sistemi. Per spiegare questa varietà sinestetica presente in differenti linguaggi, prosegue illustrando
come
In German we say “helle Freude”, the English speak of “a bright hope”, and
Eibl-Eibesfeldt reports that among the Eipos of New Guinea there is an
expression for joy, “the sun shines on my breast”. If the termites had a
language they would have to speak of “dark joy”, of a “gloomy hope”, and
of “night descending on their antennae”, for they shun the light. The
inhabitants of tropical climates naturally prefer coolness to warmth, and so
Indians would rather be coolly than warmly received, but even so the Gita
likens the Divine to the light of a thousand suns.
E così il sole e la luce veicolano sensazioni positive in culture anche notevolmente distanti
(temporalmente e geograficamente) tra loro; il linguaggio cattura l’impressione attraverso
l’affiancamento di tali termini ad altri di campo semantico differente. La comprensione non viene
però inibita, bensì indirizzata.
Successivamente Gombrich, a sostegno di questa tesi, allude al German Dictionary di Jacob and
Willhelm Grimm, prendendo come esempio il termine süss (sweet): nella sua originaria accezione
non era posto in relazione con il senso del gusto, bensì significava soffice al tatto, piacevole, in
riferimento all’evocazione di sensazioni positive, fu traslato poi semanticamente fino a
comprendere anche la sensazione piacevole che recepiscono le papille gustative.
Quindi come formulava Hegel, il cui pensiero Gombrich definì “relativismo culturale”, le culture
posseggono delle circostanze peculiari, che le rendono indiscutibilmente differenti le une dalle altre,
ma ciò non porta ad una incomparabilità a priori; spogliate dal nómos, la consuetudine che diventa
legge dell’uomo, sarà poi evidente la loro physis, la legge naturale comune all’Uomo.
Per concludere allora, Goethe non sbagliava nel riprendere la lezione di Plutarco, sostenendo che
“They were all human beings – so much is plain” : d’altra parte, se per il biografo greco non fosse
stato così, non avrebbe potuto paragonare, con soppesati accostamenti, le grandi vite di uomini
illustri greci e romani nelle sue Vite Parallele.