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Il saggio scritto da E. H.

Gombrich nel 1987 assume i connotati di un’accurata e a tratti


irriverente riflessione su uno dei temi cardine della critica d’arte nel corso del ‘900: il Relativismo
Culturale nelle discipline umanistiche. Anche in questo saggio emergono le peculiarità di uno
storico dell’arte noto per la sua scorrevole capacità divulgativa, capace di attrarre con la sua dote
anche i non addetti alla materia.
Gombrich nasce nel 1909 in una fiorente Vienna, che accoglieva l’arte ormai matura di Klimt e
vibrava per le nuove istanze portate avanti dalla Secessione Viennese; la stessa città che aveva dato
i natali a Freud e alla sua “nuova scienza”, la psicanalisi.
La novità del pensiero di Gombrich risiedette anche in questo, nell’applicazione di metodi
psicanalitici per giungere alla comprensione dell’opera d’arte.
I am convinced that the visual art salso rest in a similar way on biological
foundations. Like the disposition for rhythmical orders which here manifests
itself in the decorative art of all peoples, so the pleasure in light and
splendour is common to us all.1
L’asserzione qui presente non può essere compresa se non interpretata alla luce dell’interesse
dell’autore verso la psicologia umana nel suo complesso. Ebbene, per quanto il relativismo culturale
possa aver portato agli estremi la concezione dell’incomparabilità dell’uomo – a causa delle
circostanze peculiari dettate dal tempo, dal luogo o dalla storia – Gombrich è altamente convinto che
in realtà, scavando nel profondo e discernendo i comportamenti ereditati dalla cultura, tutti gli
uomini abbiano in comune delle reazioni primitive universali. Sarebbe questo il comun
denominatore che Hegel credeva non si potesse trovare tra civiltà differenti. Infatti gli ordini ritmici
si ritrovano pressoché in tutte le civiltà; per riportare un breve esempio, si potrebbe menzionare il
modulo ritmico su cui si basava la costruzione dei templi nell’antica Grecia, fino ad approdare alla
notazione modale fatta propria dai compositori della scuola di Notre Dame nel XII-XIII secolo, che
a sua volta rimandava alla metrica della poesia classica. In questo caso ritornerebbero dei concetti
molto cari a Gombrich: la tradizione e l’imitazione (ovvero la riproduzione di “schemi ereditati”) e
il loro ruolo centrale nella genesi dell’opera d’arte (di qualunque natura essa sia).
Gombrich parla dell’uomo come di una “phototropic creature”2: derivato dal sostantivo greco fós,
luce, e dal verbo trépo, che allude al volgersi. Ne deriva quindi che l’uomo ama la luce, la cerca e la
idealizza (se non addirittura divinizza, come gli antichi Egizi con il dio Ra o i Greci con Apollo).
Thus radiant splendour, sparkle, and glitter have always been seen as the
prerogative of secular and religious power out to impress and to overawe.3
Non era forse questa stessa volontà a portare i costruttori delle cattedrali gotiche a spingersi sempre
più lontano nel realizzare vetrate che illuminassero in maniera stupefacente e spettacolare gli
interni? E non era questa stessa imponenza luminosa a rivestire il luogo di un’atmosfera sacra e
indiscutibilmente divina? L’immagine della vetrata prende vita in funzione della luce stessa, senza
la quale resterebbe incompresa e incomprensibile.
Sarebbe errato dar per scontato che tutte le civiltà venerassero in qualche modo la luce o una sorta
di sua personificazione; d’altronde approderemmo ad una conclusione semplicistica e ingenua.
Riprendendo il pensiero di Karl Popper, infatti, Gombrich sostiene che

1
E.H. GOMBRICH, “They Were All Human Beings: So Much Is Plain”: Reflections on Cultural Relativism in the Humanities,
in Critical Iniquiry, Vol. 13, No. 4 (Summer, 1987), p.696.
2
Ibidem.
3
Ibidem.
Neither in the sciences or in the humanities must we aim at total solutions
but that we still have the right to go on asking and searching, because we
can learn from our mistakes
La ricerca e l’aspirazione alla conoscenza non passano di certo da verità assolute, e l’umanista ne è
consapevole. Sarebbe un peccato di hybris giustificare semplicemente gli errori e i fraintendimenti
nell’interpretazione delle letture come se fossero dovuti all’eccessiva distanza culturale dalla nostra
epoca, sconfinando, come teme Gombrich, in uno scetticismo sterile.
Eppure anche lui ribadisce il pensiero di Cicerone, per cui
Cuiusvis hominis est errare: nullius nisi insipientis, in errore perseverare4
Errare nella sua accezione originaria latina significa vagare, andare qua e là senza direzione o meta
certa. L’errore umano quindi non è mai punto d’arrivo, bensì un punto di partenza: sarebbe errato
focalizzarsi su aspettative disattese, troncando al principio qualsiasi ricerca di conoscenza. Così
Gombrich sostiene che
The fallacies which tempted art history to adopt cultural relativism also
occur in other fields of the humanities5
Per sostenere la sua tesi ricorre all’esempio dato da un filologo classico, che suggerì che gli antichi
Greci dovevano essere daltonici poiché avevano poche parole per indicare i colori, e Gombrich
ribatte ironicamente con l’asserzione che anche noi dovremmo allora esserlo per lo stesso motivo;
eppure la caratteristica del linguaggio è la sua selettività, che sacrifica alcune delle innumerevoli
sfumature della realtà al fine di rendere una più chiara ed immediata comprensione. In questo senso
Gombrich prosegue
In any social community every colour, every sound, and naturally also every
word has a feeling tone which determines its exact position within this
system. It goes without saying that these various systems will not be
accesible to the outsider without an effort of empathy and yet there is much
evidence to suggest that they all share a sufficient number of features to
justify us in making the attempt. Quite generally it can be said that every
one of the so-called sense modalities tends to evoke resonances in other
senses and that this type of correspondence facilitates understanding.
Ritorna qui il principio delle reazioni universali comuni all’Uomo in quanto tale, illustrate anche
dall’etologo Irenaüs Eibl-Eibesfeldt nel suo libro “The Biology of Human Behaviour”. Queste
reazioni o disposizioni vengono poi assorbite dal linguaggio ai fini comunicativi, assumendo
differenti connotazioni a seconda della cultura che le produce. Effettivamente, a volte potrebbero
non essere comprensibili se non ci si mette nei panni dell’altro, in contesti sociali e quotidiani,
poiché ogni cultura elabora delle metafore o sinestesie linguistiche comprensibili spesso solo
all’interno del sistema sociale stesso. Estrapolate da esso, per un estraneo risulterebbero
incomprensibili. Ed essendo il sistema sociale un organismo vivo, mutante, che si evolve, così
anche il linguaggio non permane mai uguale a se stesso. Occorrerebbe forse concentrarsi più che sul
termine in sé, proprio sul significato logico che assumono queste sinestesie, capaci di evocare
risonanze in altri sensi, per giungere ad una comprensione soddisfacente di alcuni elementi di tali

4
CICERONE, Filippiche, XII.5. “To make mistakes is typical of human beings, only fools persevere in making them.”
5
E.H. GOMBRICH, “They Were All Human Beings: So Much Is Plain”: Reflections on Cultural Relativism in the Humanities,
in Critical Iniquiry, Vol. 13, No. 4 (Summer, 1987), p. 692.
sistemi. Per spiegare questa varietà sinestetica presente in differenti linguaggi, prosegue illustrando
come
In German we say “helle Freude”, the English speak of “a bright hope”, and
Eibl-Eibesfeldt reports that among the Eipos of New Guinea there is an
expression for joy, “the sun shines on my breast”. If the termites had a
language they would have to speak of “dark joy”, of a “gloomy hope”, and
of “night descending on their antennae”, for they shun the light. The
inhabitants of tropical climates naturally prefer coolness to warmth, and so
Indians would rather be coolly than warmly received, but even so the Gita
likens the Divine to the light of a thousand suns.
E così il sole e la luce veicolano sensazioni positive in culture anche notevolmente distanti
(temporalmente e geograficamente) tra loro; il linguaggio cattura l’impressione attraverso
l’affiancamento di tali termini ad altri di campo semantico differente. La comprensione non viene
però inibita, bensì indirizzata.
Successivamente Gombrich, a sostegno di questa tesi, allude al German Dictionary di Jacob and
Willhelm Grimm, prendendo come esempio il termine süss (sweet): nella sua originaria accezione
non era posto in relazione con il senso del gusto, bensì significava soffice al tatto, piacevole, in
riferimento all’evocazione di sensazioni positive, fu traslato poi semanticamente fino a
comprendere anche la sensazione piacevole che recepiscono le papille gustative.
Quindi come formulava Hegel, il cui pensiero Gombrich definì “relativismo culturale”, le culture
posseggono delle circostanze peculiari, che le rendono indiscutibilmente differenti le une dalle altre,
ma ciò non porta ad una incomparabilità a priori; spogliate dal nómos, la consuetudine che diventa
legge dell’uomo, sarà poi evidente la loro physis, la legge naturale comune all’Uomo.
Per concludere allora, Goethe non sbagliava nel riprendere la lezione di Plutarco, sostenendo che
“They were all human beings – so much is plain” : d’altra parte, se per il biografo greco non fosse
stato così, non avrebbe potuto paragonare, con soppesati accostamenti, le grandi vite di uomini
illustri greci e romani nelle sue Vite Parallele.

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