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La Fondazione ARES è nata nel 1995 come conseguenza dell’attività intrapresa, dal
1989, dall’associazione di genitori ASIPA(Associazione Svizzero Italiana per i Problemi
dell’Autismo), ora ASI (Autismo Svizzera Italiana).
La Fondazione ARES è riconosciuta come ente di pubblica utilità, a scopo non lucrativo,
dalle istanze politiche della regione e per questo sussidiata sia dal Cantone sia dalla
Confederazione per le sue attività.
A partire dal 1996 ARES si occupa di studiare ed attuare misure d’intervento, dalla prima
infanzia all’età adulta, per la corretta presa a carico di persone:
con autismo
con altri Disturbi Pervasivi dello Sviluppo
con disturbi del comportamento correlati a difficoltà nell’ambito
della comunicazione e dell’interazione sociale
1. Il Segretariato Sociale
2. Il Centro Diagnosi e Intervento Psico Educativo (D.I.P.E.)
3. Il Centro Documentazione
Cosa Sono i Disturbi Pervasivi
Raccomandazioni per la diagnosi
La diagnosi precoce in autismo
La Sindrome di Asperger: Linee guida per la diagnosi
Introduzione
Premesse
L’autismo è il disturbo pervasivo dello sviluppo (PDD) più largamente riconosciuto. Altre
diagnosi, con forme leggermente simili a quelle riscontrate nell’autismo, sono state
studiate in modo meno intenso, rendendo la loro validità più discutibile. Una di queste
condizioni, chiamata sindrome di Asperger, è stata originariamente descritta da Hans
Asperger (1944, vedi traduzione di Frith, 1991), il quale forniva un resoconto di alcuni
casi, le cui forme cliniche somigliavano alla descrizione di Kanner (1943) dell’autismo
(problemi con interazione sociale e comunicazione e schemi di interessi limitati e
caratteristici). La descrizione di Asperger si differenziava però da quella di Kanner, in
quanto il linguaggio era in ritardo in modo meno frequente, i deficit di tipo motorio erano
più comuni, l’inizio della manifestazione del disturbo si presentava più tardi, e tutti i casi
iniziali descritti riguardavano solo il sesso maschile. Inoltre, Asperger suggeriva che era
possibile osservare alcuni problemi simili anche in altri membri della famiglia, e
particolarmente nei padri.
Per molti anni, questa sindrome è rimasta fondamentalmente sconosciuta nella
letteratura inglese. Uno sguardo retrospettivo e una serie di analisi di casi realizzati da
Lorna Wing (1981), aumentarono poi l’interesse per questa condizione, determinando un
uso sempre maggiore di questo termine nella pratica clinica e un continuo aumento del
numero di rapporti di casi e di studi di ricerca. Le caratteristiche cliniche della sindrome
descritte abitualmente includono: a) scarsezza di empatia; b) interazione sociale
unilaterale, inappropriata e senza malizia, poca abilità di formare delle amicizie e
conseguente isolamento sociale; c) linguaggio monotono e pedante; d) scarsa
comunicazione non verbale; e) profondo interesse in tematiche circoscritte come il
tempo, i fatti di trasmissioni televisive, gli orari ferroviari o le carte geografiche che,
memorizzate in modo meccanico, riflettono poca comprensione conferendo inoltre
un’impressione di eccentricità; f) movimenti goffi, maldestri e posture bizzarre.
In neuropsicologia è stata dedicata una grossa parte della ricerca al concetto di Rourke
(1989) sulla sindrome del disturbo di apprendimento non verbale (NLD). Il contributo
principale di questa linea di ricerca è stato il tentativo di tracciare le implicazioni sullo
sviluppo sociale ed emozionale del bambino con un profilo neuropsicologico singolare di
abilità e deficit, che sembra avere un impatto deleterio sia sulle capacità di
socializzazione, sia sugli stili interattivi e comunicativi della persona. Le caratteristiche
neuropsicologiche degli individui con il profilo della disabilità di apprendimento non
verbale includono deficit nella percezione tattile, nella coordinazione psicomotoria,
nell’organizzazione visuospaziale, nella risoluzione di problemi non verbali e
nell’apprezzamento dell’assurdo e del senso dell’umorismo. Gli individui con disabilità di
apprendimento non verbale manifestano anche ben sviluppate capacità meccaniche
verbali e di memoria verbale, ma delle difficoltà ad adattarsi a situazioni nuove e
complesse, troppo attaccamento a comportamenti stereotipati in tali situazioni, nonché
dei deficit in aritmetica meccanica rispetto alle capacità di lettura di singole parole, poca
pragmatica, parlata monotona, e difficoltà significative nella percezione e nel giudizio
sociale e nelle abilità d’interazione sociale. Vi sono difficoltà notevoli nell’apprezzamento
di sottili e abbastanza ovvi aspetti non verbali della comunicazione, i quali spesso hanno
come conseguenza il disprezzo e il rifiuto da parte di altre persone. Come risultato, gli
individui con disabilità di apprendimento non verbale manifestano una forte tendenza a
ritirarsi socialmente e sono a rischio di sviluppare dei seri disturbi dell’umore.
Molti degli aspetti clinici della disabilità di apprendimento non verbale sono stati descritti
anche nella letteratura neurologica come una forma di disabilità di sviluppo di
apprendimento dell’emisfero destro (Denckla, 1983; Voeller, 1986). I bambini affetti da
questa condizione mostrano dei disturbi profondi nell’interpretazione e nell’espressione
affettiva e in altre abilità interpersonali di base. Infine, un ulteriore termine presente nella
letteratura, il disordine semantico-prammatico (Bishop, 1989), riporta ugualmente degli
aspetti del disturbo di apprendimento non verbale e della sindrome di Asperger.
Al momento, non è chiaro se questi concetti descrivano delle entità differenti o se, ciò
che è più probabile, diano delle prospettive differenti di un gruppo eterogeneo, ma in
sovrapposizione, di disturbi che hanno in comune almeno alcuni aspetti. Una meta
importante della ricerca attuale è di cercare una convergenza tra i vari resoconti specifici
delle differenti discipline, in modo da usare diverse metodologie nello sforzo di validare
il concetto, definito in modo comportamentale, di sindrome di Asperger. Comunque, per
migliorare la comparabilità degli studi, è di grande importanza stabilire delle linee guida
consensuali e rigorose per la diagnosi della sindrome di Asperger, in particolare rispetto
alle similitudine con altre condizioni correlate.
Criteri iniziali
Altre descrizioni comuni dello sviluppo dei primi anni degli individui con sindrome di
Asperger, includono una certa precocità nell’apprendimento del linguaggio (“parlava
prima ancora di camminare”), e l’essere affascinato da lettere e numeri; infatti, a volte il
bambino piccolo può essere in grado persino di decodificare delle parole, ma con poca
o nulla comprensione (“iperlessia”). Il bambino può inoltre stabilire delle modalità
d’attaccamento con i famigliari, ma presentare modalità di approccio inappropriati con
compagni o altre persone. Invece di ritirarsi o stare in disparte come accade nell’autismo,
il bambino può piuttosto cercare di prendere contatto con altri bambini abbracciandoli o
gridando e poi restare perplesso di fronte alle loro risposte. Questi comportamenti
possono essere ogni tanto rilevati in bambini autistici di alto livello, sebbene in modo
molto meno frequente.
Anche se i criteri sociali per la sindrome di Asperger e l'autismo sono identici, la prima
condizione di solito coinvolge meno sintomi e si presenta generalmente in modo diverso
di quanto faccia la seconda. Individui con la sindrome di Asperger sono spesso isolati
socialmente, ma non sono inconsapevoli della presenza degli altri, anche se i loro
approcci possono risultare inappropriati e strani. Essi possono per esempio ingaggiare
un interlocutore, spesso un adulto, in conversazioni unilaterali caratterizzate da un modo
di parlare interminabile, pedante e volte a un argomento preferito, spesso inusuale e
limitato. Inoltre, anche se gli individui con sindrome di Asperger descrivono spesso sé
stessi come dei solitari, dimostrano frequentemente un grande interesse a stringere
amicizie e incontrare della gente. Questi desideri sono invariabilmente ostacolati dai loro
approcci goffi e dall’insensibilità verso i sentimenti delle altre persone, le loro intenzioni,
e le comunicazioni non verbali e implicite (per esempio segni di noia, fretta di congedarsi
e necessità di privacy). Essendo cronicamente frustrati dai loro ripetuti fallimenti di
relazionare con altri e stringere amicizie, alcuni di questi individui sviluppano dei sintomi
di depressione che possono necessitare delle terapie e delle medicine.
Riguardo all'aspetto emozionale della transazione sociale, gli individui con la sindrome
di Asperger possono reagire inappropriatamente nel contesto di un’interazione affettiva,
o anche sbagliare nell'interpretarne il suo valore, mostrando spesso un senso di
insensibilità, di formalità o d’indifferenza nei confronti dell'espressione emozionale
dell'altra persona. Nonostante ciò, possono essere capaci di descrivere correttamente,
in maniera cognitiva e spesso formale, le emozioni delle altre persone, le aspettative e
le convenzioni sociali, mentre sono incapaci di agire nei confronti di questa conoscenza
in maniera intuitiva e spontanea, mancando per questo motivo di "tempismo"
nell'interazione. Questa debole intuizione e questa difficoltà ad adattarsi
spontaneamente, sono accompagnate da un marcato legame a regole formali di
comportamento e a convenzioni sociali rigide. Questo comportamento è ampiamente
responsabile dell'impressione di naiveté sociale e di rigidità comportamentale, che è
assai comune tra questi individui.
Come nella maggioranza degli aspetti comportamentali usati per descrivere la sindrome
di Asperger, alcune di queste caratteristiche sono presenti in individui affetti da autismo
ad alto funzionamento benché, molto probabilmente, in misura minore.
Più tipicamente, le persone autistiche sono ritirate e possono sembrare inconsapevoli o
disinteressate alla presenza di altre persone. Gli individui con la sindrome di Asperger,
d'altro canto, sono spesso propensi a mettersi in relazione con gli altri, ma mancano di
abilità per attrarli con successo.
Goffaggine motoria
Oltre ai criteri specificati e considerati necessari per la diagnosi, c’è un ulteriore sintomo
associato alla diagnosi della sindrome di Asperger che non viene però ritenuto come
indispensabile per la diagnosi: il ritardo nel raggiungimento delle tappe di sviluppo
motorio basilari e la presenza di una "goffaggine motoria". Gli individui con sindrome di
Asperger possono avere dei ritardi nell'acquisizione di abilità motorie, come per esempio
pedalare, prendere al volo una palla, aprire un barattolo, arrampicarsi su una scala a
pioli, ecc. Spesso sono individui visibilmente impacciati caratterizzati da un'andatura
rigida, da posture bizzarre, da deboli capacità manipolatorie e da rilevanti deficit nella
coordinazione oculomotoria. Nonostante queste caratteristiche siano in chiaro contrasto
con lo schema di sviluppo motorio caratteristico dei bambini autistici, per i quali l’ambito
delle capacità motorie costituisce spesso un relativo punto di forza, esse rispecchiano in
parte ciò che si può osservare in individui con autismo più anziani. Nonostante ciò, la
similitudine in età più avanzata potrebbe anche essere il risultato di altri fattori sottostanti,
per esempio il deficit psicomotorio nel caso della sindrome di Asperger e la debole
immagine del proprio corpo e di sé stessi nel caso dell'autismo. Ciò mette in luce
l’importanza di una descrizione di questi sintomi in termini di sviluppo.
Cosa sono i Disturbi Pervasivi
Autismo che fare? Indicazioni per famiglie e professionisti
Interventi per l’autismo e altri DPS
L’intervento educativo sui comportamenti problema nel ritardo mentale grave e
nell’autismo
I primi passi del percorso verso la comunicazione
L’altro punto fondamentale è quanto rimane di queste interazioni: con una metafora
possiamo paragonare l’apprendimento come l’atto di riempire un grosso contenitore che
ha un collo molto stretto. Per fare questo abbiamo a disposizione due possibili modalità:
versare il liquido goccia a goccia in maniera intensiva, programmata e costante, o
versare molto liquido in maniera disordinata, sapendo però che molto del liquido che
stiamo versando andrà perso.
Quello che vorrei ribadire è che al di là della artificialità finale il discorso parte da
un’analisi naturalistica, cioè da una scienza che cerca di spiegare come funzionano
alcuni aspetti del mondo. Questo accade con tutte le scienze di base, dalle quali vengono
derivati alcuni programmi di intervento.
Tutte le scienze richiedono un certo periodo di tempo dopo le prime scoperte per
produrre programmi efficaci: tuttavia già prima delle ricerche scientifiche si possono
vedere alcune applicazioni. È evidente che man mano che aumenta la complessità
dell’obiettivo su cui intervenire aumenta la necessità di perfezionare l’intervento. Allora è
chiaro che se noi disponiamo di un programma che funziona normalmente con dei
soggetti normali, nel momento in cui abbiamo delle persone con specifici bisogni
abbiamo la necessità di mettere a punto dei programmi con caratteristiche
individualizzate.
Tutta la promettente importantissima ricerca sulla genetica dell’autismo parte dall’analisi
del fenotipo comportamentale, cioè dalle strutture cognitivo-comportamentali che
possono essere manifestate
Cosa sono i Disturbi Pervasivi
Autismo che fare? Indicazioni per famiglie e professionisti
Interventi per l’autismo e altri DPS
L’intervento educativo sui comportamenti problema nel ritardo mentale grave e
nell’autismo
I primi passi del percorso verso la comunicazione
Sono trascorsi circa 60 anni da quando Leo Kanner per primo descrisse un gruppo di
bambini accomunati da “tendenza all’isolamento e insistenza per l’identico, per
l’immutabilità dell’ambiente circostante” Molto è stato scritto sulle caratteristiche di questi
bambini e dei loro genitori poiché l’autismo ha rappresentato e continua a rappresentare
una sfida alla cultura e ai bisogni più profondi e più evoluti di noi esseri umani: la socialità
e la necessità di un contatto affettivo che tanta parte gioca nello sviluppo del bambino e
nel suo apprendere dal mondo circostante.
La relazione è indubbiamente l’elemento centrale che appaga e favorisce non solo i
nostri bisogni affettivi ma funge parallelamente da perno a qualsiasi tipo di cultura sociale
la quale possa permettere la sopravvivenza dell’individuo e quindi anche il
soddisfacimento dei suoi bisogni cosiddetti primari, più istintuali.
Eppure siamo ancora lontani dal risolvere il mistero. Negli ultimi 15 anni molte ricerche
hanno gettato nuova luce sui possibili sistemi cerebrali coinvolti ampliando
contestualmente le nostre conoscenze sulle aree identificabili come funzionalmente
ascrivibili ad un “Sistema Sociale”, eppure proprio perché abbiamo a che fare con il
grande mistero della mente umana ancora non sappiamo come trattare questi bambini
così speciali.
Certo tutto sarebbe più semplice se avessimo a che fare con un unico tipo di autismo,
se conoscessimo la causa scatenante, se il gruppo non fosse così eterogeneo, se non
ci fossero tanti sintomi associati, se…
Al momento dobbiamo accontentarci di quanto è emerso dagli studi degli ultimi 20 anni,
esorditi nel mondo scientifico anglosassone, avendo noi popoli “latini” (Francia, Italia,
America latina) scontato una lontananza di cultura ed esperienza per poter considerare
un tratto così esplicitamente “umano ed affettivo-emotivo” (l’interazione sociale) con il
necessario distacco e rigore proprio della cultura di questi paesi.
Questo non vuole significare una nostra arretratezza globale: ormai esistono diversi
esempi di buone prassi sia sul versante metodologico-scientifico che esperienziale e
soprattutto abbiamo a disposizione ciò che gran parte del mondo occidentale ci invidia:
una specifica cultura dell’integrazione che, se ben supportata da una formazione
aggiornata e competente, è ragionevole supporre che potrà insegnare molto anche a chi
ci ha preceduto nelle ricerche scientifiche.
Prima di arrivare a parlare di integrazione e di ciò che si fa allo stato attuale ravvisiamo
la necessità di compiere un breve excursus sulla storia di questa patologia e su quanto
è stato proposto per questi bambini nel passato, poiché se è vero che molto è stato
sbagliato abbiamo il dovere di riflettere sui nostri errori per non compierli ancora e quindi
in sostanza per migliorarci.
Paradigma centrale, a seguito delle prime affermazioni di Kanner sulla carenza di cure
parentali ed in particolare materne, è stato rappresentato dall’allontanamento di questi
bambini dai genitori ritenuti responsabili della patologia del figlio con l’obiettivo dello
“sblocco”, “ricostruzione” di un sé mai nato o alterato in seguito ad un cattivo rapporto
emotivo-affettivo fin dalle prime epoche di vita.
Non va dimenticato il clima culturale degli studi di psicologia dell’epoca (fine anni ’40-
inizio anni ’50) che pone grande enfasi sull’influenza dell’ambiente sia a seguito degli
studi di Spitz sulla deprivazione affettiva dei bambini osservati negli orfanotrofi, sia
tramite lo studio dei bambini usciti dai campi di concentramento, oltre alla grande
diffusione durante e dopo la seconda guerra mondiale delle teorie di Freud e di altri
psicoanalisti sia in Europa che negli stati Uniti.
Al tempo l’autismo veniva comunque ancora confuso con la schizofrenia e con le psicosi
e bisogna aspettare almeno fino agli studi di Lotter che distinse nettamente le due
condizioni, compiendo uno dei primi seri studi epidemiologici nel settore. La stessa rivista
Journal of Autism ad Childhood Schizophrenia cambierà il suo titolo in Journal of Autism
ad Developmental Disorders solo nel 1979.
Nei primi anni sessanta anche un altro psichiatra e genitore di un bambino autistico,
Bernard Rimland, pubblica un libro che innesta un profondo cambiamento culturale: il
Libro “Infantile Autism” (1964) comincia a prendere in esame le possibili origini biologiche
del disturbo e apre così la strada a tutte le ricerche sui fattori organici coinvolti.
Rimland, da una parte, e Schopler del Dipartimento di Psichiatria dell’Università del North
Carolina e della Divisione Teacch, rimangono per molto tempo ancora due antesignani,
isolati dalla realtà culturale degli Stati Uniti dell’epoca rispetto a questa patologia, ma si
trovano entrambi, probabilmente senza saperlo, a combattere la stessa battaglia nel
nome dei diritti di questi genitori per il riconoscimento di un loro diverso ruolo e per un
loro coinvolgimento nel trattamento.
La terapia in uso allora, per es. nel luogo in cui lavorava Schopler, non si discosta molto
da quanto propugnato anche in tempi recenti in ambito psicodinamico; questi bambini
venivano lasciati liberi di agire e di esprimersi senza alcuna regola o intervento educativo
con l’intento di portarli ad uno “sblocco” – “risveglio” delle loro parti più compromesse; il
risultato era una situazione caotica con livelli estremi di ansia sia nei bambini che nei
terapeuti, con conseguente aggravamento del livello di depressione dei genitori. Per
primo Schopler ipotizza allora che questi bambini possano esser messi in grado di
funzionare meglio in una situazione educativa più strutturata, che l’autismo possa essere
causato da una anomalia cerebrale e che i genitori possano essere coinvolti nel
trattamento.
Con l’aiuto dell’Istituto di Igiene Nazionale di Igiene Mentale e su mandato legislativo
dello Stato del North Carolina, nel 1972 la Divisione TEACCH apre i battenti con il primo
programma di Stato per i Soggetti autistici e le loro famiglie in merito alla diagnosi, al
trattamento, alla formazione e ai progetti educativi.
Nello stesso periodo in Europa e più specificatamente in Inghilterra si crea sotto la spinta
dei genitori la prima Associazione, la British National Autistic Society che conia il famoso
slogan, a tutt’oggi ancora valido, “The Treatment is Education”.
Non essendosi infatti ancora scoperti i meccanismi etiopatogenetici alla base del
Disturbo, ciò che ricopre un ruolo fondamentale nella cura e nel trattamento dei bambini
autistici non può che essere un trattamento di tipo psicoeducativo, che accanto ad un
miglioramento delle conoscenze e delle scoperte in ambito biologico potrà apportare
cambiamenti e progressi in una patologia per il momento ancora cronica.
Cronicità non significa infatti immutabilità né persistenza immodificata degli stessi limiti
o di problemi di comportamento.
Forse è proprio l’ambito degli interventi nel campo dell’Autismo che malgrado o a ragione
dell’enorme incertezza sul versante delle cause ha compiuto un ampio percorso ricco di
riflessioni e verifiche.
A fronte degli iniziali e purtroppo talvolta ancora persistenti errori con l’adozione di un
modello psicodinamico, ormai molto si conosce sull’efficacia di vari tipi di strumenti e di
modelli diffusi per lo più oltre oceano.
Così anche da noi si sente sempre più parlare per es. di TEACCH, di ABA, di
Comunicazione aumentativa, di TED. Le sigle allettanti, anche perché straniere (e noi
siamo pur sempre un po’ esterofili!), rappresentano di volta in volta programmi e filosofie
(vedi TEACCH) o più semplicemente strumenti (vedi CAA) ma comunque si rifanno a
rigorosi studi sperimentali su base scientifica (ovvero testati e validati nel tempo) e pur
con le inevitabili differenze, che apprenderemo nel corso delle singole dissertazioni, sono
accomunati da principi e linee guida simili:
Altro slogan che ritorna e citiamo integralmente dalla Schreibam (2000): non c’è un’unica
taglia o un unico vestito che vada bene per tutti. Così, preliminare ad ogni scelta di
strategia o di strumento, sarà una valutazione dettagliata e multidimensionale che sappia
mettere in risalto e delineare tutti i limiti e le varie abilità del bambino nei diversi aspetti
che caratterizzano il suo sviluppo: intersoggettività, cognizione, linguaggio,
comunicazione, autonomia, igiene personale, prassie, adattamento alla vita sociale, ecc.
Solo un rigoroso assessment di base potrà darci informazioni su ciò che più si adatta a
quel bambino e chiaramente alla sua famiglia e, al tempo stesso, fornire informazioni nel
tempo sull’andamento della terapia; altrimenti torniamo alle impressioni, al nostro
“sentire che va meglio” o alla più profonda sfiducia perché sembra non andare avanti. E
se fosse solo questione di progressi limitati in quel periodo? Rischieremmo di buttare a
mare un progetto o una metodica in nome di un’idea non verificata.
L’ambito cognitivo-comportamentale, e più in generale psicoeducativo, richiede
molto rigore, non si vanta di clamorosi successi ma pone la propria fiducia nei tempi
lunghi e in progressi costanti. Inoltre prevede, in maniera estremamente flessibile (anche
se spesso qualcuno afferma il contrario) la modificazione del progetto a fronte di
stazionarietà o di insuccesso.
Ciò che appare importante è comunque l’integrazione di diverse modalità, a seconda
dell’età, del livello di sviluppo e, perché no?, anche a seconda delle specifiche esigenze
dei genitori. Per quel bambino potrà essere importante apprendere a riconoscere e
denominare i colori, per un altro apprendere il controllo sfinterico. Altrettanto chiaro è che
l’operatore che ha in carico quel bambino e la sua famiglia non conosca un solo
approccio, non abbia un credo illimitato e fideistico in quell’intervento, ma disponga di un
bagaglio culturale ampio e soprattutto di lunga esperienza con questi bambini.
Come più volte ci è capitato di ripetere noi operatori impariamo da questi bambini e dai
loro genitori così come dai loro insegnanti o educatori. Noi possiamo rappresentare gli
esperti, ma come ben dice Schopler i genitori sono i massimi esperti del loro bambino e
sanno cosa può essere più efficace per lui … l’hanno sperimentato tante volte.
A questo punto non possiamo che citare un’ultima parola e non per piaggeria ma perché
è inevitabile porsi in quest’ottica di fronte a tanta complessità: Umiltà.
Umiltà nel porsi in ascolto ai genitori. Umiltà nel riconoscere talvolta che non sappiamo
esattamente come intervenire, ma siamo pronti a rifletterci insieme con i genitori e gli
operatori coinvolti.
Umiltà ed entusiasmo per raccogliere la sfida che ci lancia questa complessa ed
articolata patologia sia sul fronte della ricerca scientifica biologica che sul fronte
operativo-abilitativo.
Umiltà che significa profondo rispetto per questi misteriosi bambini poiché come dice
Sinclair (un autistico dotato) “… essere autistici non significa non essere umani ma
essere diversi; … in un certo senso sono mal equipaggiato per sopravvivere in questo
mondo, come un extraterrestre che si sia perso senza un manuale per sapere come
orientarsi…Lavorate con me per costruire ponti tra noi”.
Posso rivolgermi alla vostra Fondazione per avere o escludere una diagnosi di
autismo per mio figlio?
Certo, grazie al servizio orientamento diagnostico il genitore può iniziare un percorso per
capire a cosa sono dovute le difficoltà del proprio figlio o della propria figlia. Inoltre, il
percorso diagnostico è completato da informazioni utili che permettono ai famigliari di
prendere decisioni per il proprio figlio orientandolo da subito nella sua educazione e
crescita, indipendentemente dal fatto che una diagnosi di autismo sarà confermata o
meno.
Siamo genitori di un bambino con autismo, che tipo di aiuto ci potete dare?
La nostra Fondazione valuta individualmente ogni tipo di richiesta e, se questa rientra
nelle nostre competenze, assieme ai famigliari che ne fanno richiesta si definisce un
piano di lavoro. Quando il bambino è già seguito da altri professionisti cerchiamo di
integrare la richiesta rivolta alla nostra Fondazione con il lavoro già iniziato e portato
avanti da altri enti. (cft. la Fondazione ARES)
Nostro figlio è ancora piccolo (2 anni e 2 mesi) ma evidenzia già dei problemi che
potrebbero essere indicatori di autismo. Non vogliamo tuttavia che una diagnosi
definitiva sia emessa così presto. C’è qualcosa che possiamo già fare per nostro
figlio?
Certo, non è necessario avere una diagnosi per impostare delle attività che tengano
conto delle peculiarità di un bambino. Ciò che lei definisce come “seri problemi”
dovrebbero comunque essere da subito oggetto di molta attenzione e osservazione da
parte del pediatra (ed eventualmente di altri specialisti esterni), per poter impostare
attività finalizzate al miglioramento e alla comprensione dei problemi già osservati.
Ricordiamo tuttavia che una diagnosi di autismo dovrebbe essere emessa entro i tre anni
e che, qualora si dovesse confermare questa diagnosi, un buon intervento precoce
permetterebbe al bambino di sviluppare migliori abilità che non se diagnosticato solo in
un secondo tempo, con conseguente ritardo nell’intervento.
La docente di scuola speciale ha accennano che mio figlio ha dei “tratti autistici”;
cosa significa? Posso rivolgermi a voi per eventualmente accertare o escludere
che sia autistico?
Definire che un bambino ha dei “tratti autistici”, se l’informazione non è completata da
osservazioni accurate e da una descrizione precisa dei summenzionati tratti, serve a
poco sia al famigliare sia al professionista. Se necessario il nostro servizio orientamento
diagnostico può approfondire l’osservazione in collaborazione con la famiglia e con i
professionisti che si occupano di suo figlio, per cercare di capire se quei particolari
comportamenti siano da attribuire ad un disturbo di tipo autistico e dunque, in ultima
analisi, spiegare al familiare di cosa si tratta e come impostare un programma educativo
adatto.
Ho letto in Internet molte cose sull’autismo che mi hanno creato molta confusione
poiché spesso ho trovato notizie contrastanti e contradditorie tra loro. Potete
orientarmi nella scelta di documentazione riguardante l’autismo?
Presso il nostro Centro Documentazione può trovare della documentazione aggiornata
e/o richiedere dei consigli bibliografici. Se necessario si può approfondire, presso il
nostro Centro Documentazione, una ricerca mirata secondo il tipo di informazioni che le
necessitano.