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Titolo: Perlasca un eroe italiano

Formato: Film Tv-Fiction


Durata: 200 min. circa
Data trasmissione: 27 e 29 gennaio 2002, in occasione del Giorno della Memoria
Regia: Alberto Negrin
Sinossi: Ungheria, 1944; Giorgio Perlasca (Luca Zingaretti) è un dipendente della SAIB, una ditta di
import-export di bestiame a gestione statale, ricercato dai nazi-fascisti per non aver aderito a Salò. La
vicenda inizia con alcuni tentativi di fuga di Perlasca, tutti infruttosi; quando trova rifugio in un fittizio
sanatorio che offre riparo agli ebrei (l’Ungheria delle Croci Frecciate applica la legislazione raziale
nazista), lega con molti di questi, in particolare con Magda (Amanda Sandrelli) e con la figlia Lili
(Titanilla Varga). Si ricorda poi che, in conseguenza della sua opera al fianco dei golpisti nella Guerra
Civile in Spagna, aveva ottenuto una lettera di riconoscenza firmata dal Generalìsimo Francisco
Franco, il quale lo invitava a rivolgersi alla Spagna dovunque ed ogni qual volta si fosse trovato in
difficoltà. Approda così all’ambasciata spagnola dove trova riparo; nel cercare di risolvere la posizione
di Magda e Lili discute con l'ambasciatore di Madrid e l’avvocato Farkas (Jérome Anger), i quali
rivelano a Perlasca l'esistenza di case spagnole che godono del diritto di extraterritorialità, nelle quali
sono protetti ebrei. Perlasca a questo punto decide di improvvisarsi console spagnolo per riuscire a
metterne in salvo il maggior numero possibile, dapprima tramite la corruzione, poi tramite la potente
arma della diplomazia; la storia procede così, fra colpi di scena e tragedie, sino all'entrata dei sovietici a
Budapest ed all'epilogo finale: la salvezza, grazie a Perlasca, di tutti coloro che erano presenti nel
ghetto di Budapest, per il quale era stata progettata la completa distruzione.
Critica di un semi-capolavoro targato Rai Fiction
Quando ci si trova a discutere con qualcuno della fiction “Perlasca un eroe italiano” è inevitabile il
paragone al capolavoro di S. Spielberg “Shindler’s list”. Ebbene, anche se questi è stato uno dei più
costosi film della storia del cinema, che ha raccolto 7 premi Oscar, il confronto con la nostra più
modesta pellicola regge. Eccome se regge.
"Perlasca un eroe italiano" non ha nulla da invidiare a tale film dal punto di vista di trama e di
sceneggiatura, mentre ha addirittura da insegnare in ottica simbolica, artistica e di significato. Il grande
lavoro del regista Alberto Negrin (Gino Bartoli l'intramontabile, Io e il Duce, Majakowkij e tanti altri)
e della sua troupe è stato infatti meticoloso e se ne colgono gli ottimi frutti nella visione del film,
soprattutto nei suoi ampi sottotesti, estremamente polisenici. Ma andiamo per ordine.
Quotidianità (particolarità e concretezza)
Il film inizia con una lettera alla moglie, ce ne sarà un'altra della quale parlerò in seguito, dalla quale
emerge subito la triste quotidianità di Budapest nel'44: una città prigioniera di altri; infatti, i tedeschi
hanno appoggiato il colpo di stato delle Croci Frecciate ed hanno il controllo militare ed
amministrativo della città, che però è circondata dai sovietici, i quali la bombardano incessantemente
giorno e notte. Una quotidianità fatta di terrore e morte quindi, dipinta dalla mano di Negrin tramite
immagini di repertorio, più volte riprese nel corso della narrazione. Ma parallela ed intersecata a questa
è evidente anche un'altra quotidianità, quella per così dire "normale", che con la guerra convive ed è
quella tipica del tempo di pace. Tanti sono gli esempi riportabili di quest'ultima, ma il più evidente e
simbolicamente significativo è quello in cui seduto sulle scale dell'ambasciata con Giorgio, Adam
(Franco Castellano) rivela: "E' brutto dover morire, ma è ancora più brutto saper di dover morire"; in
questa frase c'è la quotidianità "normale", nella quale la morte è variabile conosciuta ma tendente
all'essere scostata, e la quotidianità della guerra e dell'olocausto, nella quale cosa orrenda è la certezza
della propria morte. Inoltre proseguendo il discorso Adam spiega come dopo la fuga dal sanatorio lui
ed i suoi compagni furono tutti presi e trasportati al quartier generale di Eichmann (Adolph E. fu uno
dei protagonisti nell'organizzazione dello smistamento ed esecuzione degli ebrei durante la shoah), nel
quale l'esecuzione era cosa quasi certa. Egli racconta: "Molti sapendo di dover morire piangevano
disperati, altri pregavano. Ma le madri no, La madri hanno preparato con cura il viaggio, hanno
preparato il bucato, fatto le valigie. All'alba c'era il filo spinato pieno di biancheria e pannolini ad
asciugare, e non si sono dimenticate i giocattoli ed altre piccole cose di cui i bambini hanno bisogno".
L'immagine è un chiaro riferimento alla concretezza del giornaliero, che avviene però all'interno di una
prigione raziale, che tutto dovrebbe essere tranne giornaliero. E' evidente in questo passaggio la ripresa
di Negrin del libro "Se questo è un uomo" di Primo Levi, nel quale l'autore descrivendo la notte
precedente del traferimento dal campoli di smistamento di Fossoli (MO) a Aushwitz scrive: "Nessuno
ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si
congedò dalla vita nel modo che più gli addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero. Ma le madri
vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e
alla'alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono
i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno bisogno".
Silenzio ed applausi.
Ovviamente ho scelto la scena che secondo me è più simbolica della quotidianità, ma ve ne sono molte
altre, ed in generale la rappresentazione tipo del popolo ebraico, metodico nel lavoro, comunitario, con
la figura del Rabbi centrale e rispettoso delle regole è espressione di particolarità e concretezza. [da
considerarsi anche alla voce significati impliciti]Popolo forse troppo rispettoso delle regole. E
l'incarnazione scenografica della dedizione alle regole e dell'ortodossia ebraica è Daniel, che vi fa
sempre riferimento, come riferimento fa sempre al rabbino, generando per altro effetti comico-
grotteschi (si veda la scena del primo salvataggio di Perlasca sul treno, in cui lui non vuole scendere
perchè contro la volontà di Dio e l'italiano passando in fretta e furia esclama: "Andate a fare l'amore da
un altra parte!").
La figura di Daniel stesso però racchiude in sè un significato implicito ancor più profondo della
disumanizzazione portata dall'olocausto. Lui è un ebreo osservante i principi della Torah. E' lo
stereotipo del sionista: scuro di pelle e di capelli, con la chioma riccia e folta, indossa la kippah con
regolarità. Nulla nella sua vita lo potrebbe far uscire da questo binario. Tranne appunto l'olocausto. La
paurosa angoscia della morte lo portano ad uscire dai comandamenti della Torah. In un primo caso
viola il decimo e l'ottavo in successione, perchè desidera qualcosa di altrui, le patate dei nazisti, che poi
ruba. Nel secondo caso viola il più importante per la vita terrena, il sesto, "non uccidere", quando
accoltella il crociato che violenta la sua amata. In definitiva, il peccato di Daniel altro non è che il
tentativo di Negrin di puntare il dito contro l'aberrazione nazista, che fa compiere gesti fuori dalla
propria indole.
Verosimiglianza
Rimandendo in tema di quotidianità, legandolo però alla verosimiglianza del film, c'è da riconoscere
l'applicazione nel rendere dialoghi, costumi e scene il più reali possibili (la vita in sinagoga descritta
dal Rabbi su tutte); aspetto di particolarità di una società in guerra è poi la corruzione, che è inoltre
elemento di precisione e verosimiglianza del racconto; essa è ovunque in guerra: nell'esercito, nella
polizia, fra le diplomazie ma soprattutto fra i civili. In questo senso si noti il presentarsi più volte del
problema dei falsi-salvacondotti.
Sempre in termini di verosimiglianza, i personaggi risultano essere coerenti nelle loro azioni, però
strutturati da un punto di vista caratteriale un po' troppo per stereotipi (Daniel, il capitano Bleiber,
l'anziano ebreo che si fa uccidere a inizio film sono eccessivamente caricaturizzati).
Ai fini della verosimilità del film è comunque utile ragionare su due aspetti, che danno prova di
credibilità all'intera opera per come sono trattati: il ruolo del soldato e del civile in guerra.
Dopo i conflitti è stato storicamente difficile stabilire la differenza fra il soldato ed il criminale di
guerra; è stato uno dei dubbi maggiori l'indomani della seconda guerra mondiale, ed è ancor oggi
oggetto di dibattito. Nel film questa ambiguità viene offerta agli occhi dello spettatore in maniera forte
ed esplicita, nel contrasto fra due figure secondarie: il maggiore Glückmer (Ferenc Borbiczky) ed il
tremendo ufficiale delle Croci Frecciate, "tirapiedi" di Bleiber. Il primo, è un ligio maggiore servo del
suo lavoro; probabilmente uomo di famiglia fa il suo per portare a casa il pane. Non discute gli ordini, è
uomo d'onore e non si fa corrompere da Perlasca ad inizio film. Nelle poche scene in cui appare ha
però una progressiva trasformazione, da collaborazionista a oppositore del regime, in un climax
ascendente, innaugurato da Perlasca con la frase: "A guerra finita, se lei non si dimostrerà di essersi
dissociato da questi criminali, risponderà assieme a loro di quanto sta accadendo nel suo paese". Il
maggiore è un servo del potere, ma è uomo d'onore e con sguardo corrucciato e autocommiserativo,
nonostante la tentazione di obbedire agli ordini, finisce per l'aiutare, o perlomeno lasciar fare, Perlasca;
è un soldato, è un uomo, non è un criminale di guerra. La seconda figura è più esplicitamente negativa:
uccide a sangue freddo, non ha pentimenti e non esita a fare il lavoro sporco per compiacere il suo
superiore (massacro dei bambini al sanatorio). E' anch'esso esempio di inquadramento nell'ordine
militare, data la disponibilità al rispetto delle regole, ma è soprattutto un criminale, in quanto non da
mai segni di pentimento per le azioni sue ed altrui. Il dramma reale del riconoscimento delle colpe di
un ufficiale in un conflitto è così descritto da Negrin, in maniera forse un po' rigida, ma comunque
efficace: ambedue rispondono all'assioma fascista "credere, obbedire, combattere", ma solo il primo
rompe la norma ed ha la forza di tornare uomo.
La figura del civile in guerra è invece intrinseca in Farkas. E' abbastanza anziano per decidere di non
combattere, anche se potrebbe. Sembra perciò una figura passiva, ma in realtà lo è molto meno di quel
che potrebbe essere, infatti, segue Perlasca fino alla fine, sino alla morte beffarda ad impresa
completata. E' forse da copione il personaggio più credibile dell'intera vicenda; è un uomo qualunque,
dotto perchè probabilmente di buona famiglia, senza particolari doti fisiche nè morali. Però nei suoi
limiti cerca di dare il suo massimo contributo alla causa, e da un punto di vista psicologico cresce
durante lo svolgimento dei fatti. A fine film crolla sotto i colpi dell'autoflagellazione di colpe che non
ha, ma questo non ridimensiona la sua opera accanto all'eroe italiano, che lo redime pienamente della
passività (velata da un menefreghismo dettato dalla paura) iniziale.[da considerare che la riflessione
sulla verosimiglianza di queste tre fidure corrisponde anche ad un analisi sottotestuale]
C'è qualche punto che gioca a discredito della verosimiglianza del film, soprattutto sul versante
recitativo e di dialogo, oltrechè, come già detto, nell'eccesiva parodizzazione di alcuni personaggi. Ad
esempio, risultano poco credibili alcuni escamotages di Perlasca, probabilmente non veri nemmeno
nella realtà. Su tutti, quello utilizzato ad inizio film, in occasione del secondo tentativo di corruzione in
un carcere delle Croci Frecciate. Qui Perlasca, con un coltello alla gola in bilico su una balaustra,
raddoppia e triplica l'offerta di denaro in cambio di prigionieri, dicendo che il resto del denaro era in
macchina. L'ufficiale accetta, ma clamorosamente non considera che avrebbe potuto non liberare gli
ebrei ottenendo comunque l'intera posta, facendo prigionieri i passeggeri dell'auto o uccidendoli,
giacchè essa era circondata completamente dai suoi uomini.
Sempre in ottica di scarsa credibilità vi è un importante passaggio. Perlasca rivela più volte d'esser stato
volontario nella guerra d'Etiopia prima, ed in quella civile spagnola poi. Ammesso e non concesso che
in Etiopia andarono molti volontari, sicuramente in Spagna ve ne andò un ridottissimo numero. Il
contingente italiano contava 50000 unità, composto in maggioranza da regolari truppe ed era armato di
tutto punto dal Regno d'Italia. E' difficile considerare oggi chi andò in Spagna a combattere contro la
democrazia un semplice volontario. In più, molti di coloro che vi andarono per spontanea volontà, non
sapevano nemmeno la destinazione precisa, considerando oltretutto che vi sono testimonianze di gente
certa di andare di guardia in Abissinia.
C'è anche in questa occasione, però, un punto che gioca a favore della credibilità dell'opera; infatti,
potrebbe essere realistico che da copione, sia stato fatto dire a Zingaretti che Perlasca fu un volontario,
proprio per sottolineare l'aspetto di vigliaccheria dell'Italia fascista nel triennio '36-'39, nel quale essa
stipulò un trattato internazionale di non intervento nel conflitto (Londra, 9/9/1936), puntualmente
calpestato, con l'invio di battaglioni ufficiali.
Se invece Perlasca fu volontario a tutti gli effetti chi scrive non lo sa, ma anche se lo fosse stato ci tiene
a sottolineare che per questo non si sente di condannarlo, in quanto l'esperienze di essere italiano ed
avere 25 anni nel '36 non l'ha fatta e non si sente di giudicare.
Sequenzialità/Fatal Flow
Cambiando decisamente argomento ci si può occupare degli aspetti che riguardano più strettamente la
fabula della vicenda: la sequenzialità ed i fatal flow. Ho deciso di metterli nello stesso paragrafo perchè
trattano ambedue aspetti narrativi e logici della vicenda.
Fabula ed intreccio nella narrazione dei fatti coincidono quasi perfettamente, almeno a livello visivo;
non ci sono infatti immagini esplicite che richiamano esperienze passate o future. Forti invece sono i
richiami orali a vicende precedenti o posteriori, a cominciare dalla prima lettera di Perlasca alla moglie
in cui l'eroe ipotizza il ricongiungimento (piccolo flashword). Di forte carica emotiva, è invece il
ricordo dell'anziano ebreo nel sanatorio della sua esperienza in un campo di sterminio, del quale dal suo
racconto risulta essere l'unico dei sopravvissuti. La colpa è fatta ricadere sulla volontà di Dio che "ha
fatto scendere il suo fuoco per far cenere di noi, gli altri sono volati nel vento ma io invece no". Con
espressione "gucciniana" si ricorda quindi il fuoco dei camini nei quali venivano arsi gli ebrei,
trasformati in polvere e volati nel vento.
Altra immagine del passato che riaffora dalle parole di Perlasca è quella evocata da una musica tedesca
che gli ricorda Barcellona, quando fra il '36 ed il '39 si era arruolato nelle forze volontarie fasciste per
combattere al fianco di Franco nella guerra civile. Perlasca fu fascista della prima ora e Magda,
sapendo della doppia esperienza abissina e iberica gli chiede "Ma come si fa andare in guerra
volontario?". Perlasca non risponde perchè si ricorda a questo punto della lettera di ringraziamento di
Franco. Questa scena è fondamentale per tutto il film, e particolarmente interessante da un punto di
vista tecnico: ad un flashback rievocato a parole si aggancia la soluzione (momentanea) della crisi
generata dalla perquisizione al sanatorio. I due eventi costituiscono il fatal flow centrale dell'intera
vicenda.
Dopo che Perlasca conduce Magda e la figlia alla casa protetta, la narrazione ritrova linearità, che durà
però molto poco, spezzata da un altra crisi che costituisce un nuovo fatal flow; la crisi in questione è
dovuta all'ingresso abusivo delle Croci Frecciate nei territori di extraterritorialità spagnoli e svedesi per
il prelievo forzato di ebrei e dal fatto che Farkas spieghi a Perlasca che Raoul Wallenberg, facoltoso
diplomatico svedese, corrompa SS e CF per salvarli. Perlasca è scosso per la cattura di Magda e Lili,
tanto che decide anche lui, con i soldi della SAIB di corrompere ufficiali SS per liberare i perseguitati
(soluzione della crisi). Lo farà ben due volte.
Ma la linearità non è caratteristica di questa storia, infatti, l'ambasciatore Sanz Briz abbandona
l'ambasciata per trasferirsi in Svizzera in modo da non riconoscere il governo spagnolo. E' un momento
di nuova crisi, perchè fa sì che cade il diritto di extraterritorialità dell'edificio e permette di fatto alle CF
di entrarvi per catturare gli ebrei. Perlasca si trova di fronte al gendarme delle CF con una pistola
piantata al collo; la soluzione della crisi ed il completamento di questo fatal flow sta nella grande
invenzione di Perlasca di fingersi console di Spagna, al secolo Jorge Perlasca, e di riaffermare tale
diritto. C'è da dire che qui c'è un piccolo errore di pronuncia dell'italiano che si presenta come Jorgue
[cioè Jorghe], anzichè Jorge ['xorxe,stesso suono per le due j], nome che invece risulta dai documenti;
ma nessuno dei gendarmi tedeschi se ne accorge e la vicenda prosegue così linearmente.
Ci sono altri fatal flow che si svolgono sempre con questa dinamica: prelievo ebrei/soluzione
diplomatica di Perlasca.
Diverso da questi è il fatal flow finale, nel quale, dopo che molti degli ebrei per cui egli si è battuto
sono stati fucilati, prende corpo il macabro progetto delle CF/SS di distruggere l'intero ghetto di
Budapest. Perlasca riceve la soffiata dal maggiore Glückmer e corre subito da Vajna, uno dei capi delle
CF, per cercare di fare qualcosa. Questa volta la soluzione della crisi è definitiva ed è rappresentata
dall'arma più forte di tutto il film: la "diplomazia corrotta". Perlasca offre un salvacondotto a Vajna e
famiglia in cambio di un ordine di sospensione del massacro, portandolo all'accettazione del patto
premendo sul fatto che la guerra stava ormai finendo e che una mattanza del genere sarebbe stata
difficilmente difendibile davanti ad un tribunale di guerra. Vajna, da sempre giudice interprete del
"ruolo più eccitante della legge, quello che non protegge"(F. De Andrè), non vuole finire imputato in
posizione sfavorevole, perciò accetta. Questo ultimo fatal flow, assieme all'arrivo dei sovietici, pone
fine alla vicenda, che vede vincere Perlasca.
Significati impliciti e polisenia del testo
Come già detto, il testo di "Perlasca un eroe italiano" presenta numerosi ed interessanti elementi di
sottotesto. Qualcosa è già stato anticipato nei punti precedentemente sviluppati, ora però vediamo più
specificatamente gli aspetti impliciti e polisenici del testo.
[Decido di non inserire nei significati impliciti le figure di Perlasca e Bleiber, che saranno comparate
successivamente con l'aggiunta della soggettivizzazione.]
Riprendendo il tentativo di idealizzazione del popolo ebraico sopradescritto, vale la pensa di citare un
parallelismo fra due figure: quella dell'avvocato Farkas, per sua stessa confessione ebreo, e quella
dell'anziano ebreo Yacob, "suicida" ad inizio film.
Quest'ultimo, come già descritto, vive un senso di frustrazione per l'essere l'unico sopravvissuto di un
campo di sterminio. Pensa che il fatto dell'esistenza di un campo di sterminio sia colpa di Dio, che con
la sua mano ordina all'uomo di uccidere (ancora Primo Levi "Se esiste Aushwitz, non può esistere Dio).
Questo fa praticamente diventare pazzo l'uomo che scarica una pistola sul nulla davanti a tre SS, i quali
non pensano due volte ad ucciderlo. La stessa cosa succede a Farkas, che si interroga sul perchè lui sia
sopravvissuto e gli altri no (senso di colpa alimentato dal fatto che lui non porta mai la stella di David,
respingendo la fratellanza con i suoi simili). E come Yacob, Farkas dopo questo interrogativo muore,
inseguito da ufficiali dell'Armata Rossa. Il parallelismo è evidente, non solo perchè da circolarità al
film (la vicenda di Yacob è all'inizio e quella di Farkas è in fondo), ma anche perchè richiama alla
tradizione ebraica di un certo, per così definirlo, "vittimismo etnico". Infatti, è risaputo che le numerose
sciagure accorse al popolo giudeo, lo hanno forgiato come popolo eletto da Dio, ma odiato dagli altri
popoli. E la vicenda dei due uomini ne è la metafora.
Negrin fa un richiamo successivo a questo aspetto più che giustificabile; cioè quando Magda e Lili
tornano alla loro casa per rivederla e vi trovano un ex-vicino a cui essa è stata assegnata. L'uomo non le
vuole fare entrare, nonostante la conoscenza di lunga data. Questa è la metafora dell'Europa del primo
'900: xenofoba verso gli ebrei, nonostante una antica conoscenza; molte delle porte che prima per essi
erano aperte, oggi non lo sono più, a causa della paura o del razzismo.
Tornando alla figura di Yacob, richiama ancora qualcosa di più profondo; anzitutto, si riaggancia
simbolicamente a Daniel, che disumanizzato e despiritualizzato (seppur momentaneamente) dalla
persecuzione, si taglia i capelli, ruba ed uccide. Yacob invece fa un gesto forse ancor più grave per i
codici ebraici: praticamente bestemmia accusando Dio dell'olocausto, che è più di un semplice dire "sia
fatta la tua volontà". Ma c'è dell'altro; il suo monologo autocolpevolizzante e accusatorio nei confronti
di Jahvè apre la crisi fondamentale in Perlasca, la quale matura con il "suicidio" dell'uomo. E' qui a mio
avvio il momento di rottura fondamentale della linearità dell'italiano, dapprina semplice fuggitivo dal
suo regime, adesso convinto oppositore d'ogni persecuzione. La soluzione di questa forte crisi è poi
compresa in tutto il film, sino alla liberazione del ghetto. Mi piace pensare, che Perlasca ha fatto ciò
che ha fatto, con il pensiero fisso al vecchio ebreo trucidato dalle SS.
Altro significato implicito del film, è la sua forte carica pacifista e non violenta. Perlasca è un fascista,
ha fatto due guerre e in una delle prime scene smonta e rimonta una pistola come se fosse un armaiolo.
E' subito pronto ad utilizzarla in caso di necessità. Per questo, non sembra per niente che il film dia
messaggi antimilitaristi. In realtà li da eccome. Basta pensare che dopo tale scena Perlasca non terrà più
un arma in mano, sequestrerà il coltello a Fejez nella casa di protezione, e come unico strumento
bellico utilizzerà la mediazione e la diplomazia, seppur talvolta corrotte. In più, la metonimia della pace
è Magda, in quanto è l'unica a chiedere a Giorgio se abbia mai ucciso e come sia possibile andare
volontario in una guerra. Lo fa due volte, infondendo in Perlasca un ripudio per le armi, se non a scopo
difensivo.
Gli stessi russi liberatori di Budapest sono posti in ottica fortemente negativa, per due motivi: il primo è
che tutto il film è giocato sulla centralità di Perlasca, che è o era un fascista, pertanto ogni suo
commento su essi e sui loro amici è prepotentemente discreditante. Il secondo, più legato all'idea di
pace, è che sì essi sono i liberatori, ma hanno agito col sangue delle stesse persone che hanno liberato,
devastando la città con mesi di bombardamenti continui.
Ho parlato della centralità di Perlasca; c'è un significato polisenico particolare attorno ad essa: è
evidente come a scapito di questa, ci sia un lieve sentimento di neutralità, se non in qualche caso di
involontario revanscismo, verso fascismo e franchismo. Tutto ciò è molto accidentale e dovuto
prevalentemente al fatto che lo spettatore si immedesima spesso nel protagonista. Perlasca è ricco di
virtù, ma ha un passato non proprio edificante, pertanto alcune battute rischiano di portare chi guarda il
film ad una impersonificazione non positiva. Mi riferisco senz'altro alla "volontarietà" delle sue
esperienze militari, ma anche alla stessa repulsione verso i sovietici, che sì erano criminali, ma pur
sempre determinanti nello sconfiggere Hitler. Inoltre, due particolari avvalorano questa tesi: la figura di
Franco e la parola "anarchia". In tutto il film, il franchismo non è mai citato come un male o come una
dittatura militare antidemocratica, anzi, in virtù della protezione offerta agli ebrei (pur onorevole), la
sua idea di clericofascismo si rafforza e non subisce attacchi: la "cruzada" è giustificata, ed anche
questo da l'idea di come il film mantenga un atteggiamento passivo verso i fascismi. Sulla parola
"anarchia" invece, c'è un piccolo particolare che non deve assolutamente sfuggire; nella seconda lettera
di Perlasca alla moglie, di cui dicevo inizialmente, compaiono le parole "la città è in preda
all'anarchia". Ebbene, penso sia un altro richiamo alla guerra civile in Spagna: l'italiano combattè anche
contro gli anarchici di Durruti, e questa sua accezione negativa del termine, usato in questo caso per la
città di Budapest, non fa altro che rafforzare la posizione anti-repubblicana di Perlasca durante il
conflitto, se non altro perchè "anarchia" fu una parola che in quegli anni in Spagna diede speranza a
molti, seppur secolarmente disdegnata ed emarginata.
Ecco perchè il titolo di questa trattazione è "Critica di un semi-capolavoro targato Rai Fiction"; penso
infatti che la grande opera di ricerca, di studio approfondito della vicenda di Perlasca e di attenzione
per i particolari, sia leggermente vanificata da questo passivismo e da questa cieca neutralità nei
confronti delle realtà di fascismo e franchismo. Penso che si sarebbe potuto comunque criticare il
regime di Franco o staccarsi più nettamente da Mussolini, senza sacrificare minimamente la figura
dell'eroe italiano, che non sarebbe stato altro che seguire lo spirito della pellicola in maniera più
marcata. Così come invece la pellicola è presentata, la figura di Perlassca resta saldamente ancorata al
fascismo franchista.
Sempre nella stessa lettera c'è poi una fortunata ed intuitiva premonizione di Perlasca; scrive alla
moglie: "I russi arriveranno da un giorno all'altro, spero sia una vera liberazione per l'Ungheria e non
una nuova tragedia". Quando i russi arrivarono la storia ci dice che non fu una vera liberazione. A
Yalta, e non per sola volontà sovietica, l'Ungheria cadde nelle mani di Stalin, il quale assicurò libere
elezioni. Libere elezioni non furono, ma i comunisti non vinsero, in quanto il partito più forte era quello
contadino (60%). Seguì il colpo di stato che nel '49 proclamo la Repubblica Popolare d'Ungheria
(satellite di Mosca). Poi ci fu il '56 ed il resto è storia recente. Ciò che conta è vedere come la lettera di
Perlasca rivelava già quel che poi la storia ci ha consegnato: una liberazione da un regime, per un altro
regime da cui liberarsi.
Ultimo aspetto che mi sembra degno di nota, da un punto di vista polisenico, è una sorta di
metaforizzazione della vita con la tragedia del Titanic, che prende corpo nella seconda parte del film.
Tutto parte dalla Contessa, quando Perlasca si reca da lei per chiederle l'uso del treno con cui
trasportare gli ebrei in Svizzera e salvarli, rischiando per altro di finire come i protagonisti di "Train de
vie" (1988, Radu Mihaileanu), in un campo di concentramento. Ella durante la discussione parla
dell'Ungheria, "immersa nello spirito del tempo,[...] ad aspettare la tragedia, insomma il contrario della
storia del Titanic, perchè noi ungheresi ci illudiamo di essere l'iceberg". In realtà sono Budapest e
l'Ungheria che stanno affondando lentamente come il Titanic, già da prima della guerra, dal 1918, cioè
dalla caduta del loro "inaffondabile" impero. Nel frattempo arriva Blieber, con lo sguardo spaurito e
più umano, diverso dal solito, che dice: "Quando la nave affonda i topi scappano", riferendosi agli
aristocratici ungheresi, agli "alti papaveri", che fuggono dalla città evitando il "gran finale". Lui invece
è impaurito, ha la barba più incolta e sa di morire dovendo difendere la città. Anche qui, il paragone
con il Titanic regge, dato il dibattito che si sviluppò fra chi, membro dell'equipaggio decise di salvarsi e
chi restò sulla nave mentre essa colava a picco. La metaforizzazione, però, prosegue poche scene dopo
con quella che è l'immagne più emblematica di ogni rappresentazione cinematografica e letteraria della
tragedia del Titanic: il suonare incessante dell'orchestra nel bel mezzo del disastro. Nel film quest'idea
è concretizzata nella scena in cui c'è l'ultimo rastrellamento della casa protetta da Perlasca: arrivano le
CF, si diffonde il panico, sembra la fine. Si sentono urla, scalpiti e l'eco fragoroso degli stivali a passo
veloce. Si spacca addirittura una credenza, ma i bambini, accompagnati dal violino e dal piano
continuano a cantare, dolcemente. Fino a quando entra un crociato, il solito, e uccide la pianista. La
tragedia è consumata, la musica finisce. Ma solo momentaneamente, quasi come se ci si fosse accorti
dell'iceberg e ci si fosse fermati un attimo, perchè al mettersi in marcia, il violinista è minacciato di
morte se non avesse continuato a suonare. Il corteo così, riprende silenzioso accompagnato dal
malinconico e stanco violino. La nave sta affondando, si avvicina la fine. Il violinista continuerà a
ripetere di non essere ebreo e che non vuole perciò morire. Ma neppure i musicisti del Titanic erano
passeggeri, eppure, come molti di loro, morirono.
Soggettivizzazione e polisenicità: le due figure di Perlasca e Bleiber
L'analisi della figura di Perlasca non può prescindere da una commistione di ciò che lui fa
(intenzionalità), come lo fa (soggettivizzazione) e da cosa rappresentano le sue azioni (polisenicità);
la stessa cosa vale per il suo antagonista naturale, il capitano Bleiber.
Iniziamo dal protagonista; Perlasca, a livello intenzionale, nel film subisce una mutazione sin dalle
prime battute: dapprima vuole salvarsi perchè ricercato dalle SS, in quanto l'indomani dell'otto
settembre non ha aderito alla Repubblica Sociale Italiana, in memoria del giuramento prestato al re
prima della guerra d'Abissinia. L'incontro con gli ebrei al sanatorio, trasforma radicalmente le sue
intenzioni: Lili e Magda, Yacob, il bimbo che cerca il suo papà e tutte le altre microvicende di quella
sala malattie infettive, lo portano alla decisione di salvare gli ebrei, che se dapprima sono solo Lili e
Magda, successivamente saranno tutto il ghetto. Nel compiere tali azioni, c'è ovviamente una forte
carica soggettiva. Perlasca è un militare, ma anche marito di una donna lontana senza figli. Per questo
nel rapportarsi con gli ebrei adotta stili comportamentali differenti. Ad esempio, cerca sempre il gioco e
lo scherzo con i bambini (che probabilmente desidera), tende all'ammiccamento con ogni bella donna,
tratta militarmente il figlio disobbediente (vedere la scena del coltello con Fejez) e da pari i gendarmi
che via via incontra. L'unica cosa che esso non è mai stato è però costretto a fare per l'intero film: il
diplomatico. Ed infatti, la sua mediazione è fatta di ironia, di recitazione grottesca e di bugie al limite
del paradossale. Basta pensare a con che maestria improvvisata tratta davanti a Vajna, che è sì militare,
ma è uomo di stato, a cui è dovuto un lessico diplomatico. Lo incanta con le parole, lo coinvolge con
domande e lo fa ridere con comicità. Un misto di diplomazia e recitazione teatrale che richiama
fortemente "To be or not to be" (1942, Ernst Lubitsh), film in cui una compagnia d'attori polacchi
trasforma il suo teatro in un ufficio della Gestapo per sfuggire alle persecuzioni naziste. Ma il bello di
Perlasca è proprio qui, lui non è un attore di professione, ma gli riesce benissimo, da gran
comunicatore, ed è in questo frangente che va l'elogio maggiore a Zingaretti per la sua interpretazione.
Ho già detto di come Perlasca in sè rappresenti un ideale antimilitarista, nonostante non sembri ad una
prima occhiata, perciò non mi dilungherò su questo aspetto polisenico. Più importante è quel carattere
di cui egli è raffigurazione: l'italianità. Perlasca è infinitamente italiano in tutto ciò che fa, perchè è
artista e ladro in tutto ciò che fa. Mi spiego meglio. Il tono alto di voce nei momenti di confusione ed
allegria, il timbro sentimentale e caldo nei momenti di sconforto, le idee fulminee e controcorrente,
sono tutti aspetti della metaforizzazione che la sua figura è dell'italianità. "Madame tournee io la vorrei
baciare si può?", "Lei è la donna ungherese più bella che abbia mai visto", "Io sono Jorge Perlasca,
console di Spagna!", sono solo alcune delle battute simbolo del film, che solo un italiano riesce a fare
in certi momenti. In più è un commerciante che si trova d'accordo con gli ebrei, ed in quanto a
commercio, ebrei ed italiani hanno storicamente da insegnare. O ancora il suo spirito ironico, adottato
anche nei momenti più drammatici, lo rende tremendamente italiano. Perlasca è italiano e può fare il
console spagnolo, ma difficilmente uno spagnolo potrebbe fare il console italiano. Non solo; c'è da
aggiungere che Perlasca è un italiano del ventennio, perciò cattolico e perciò educato da fascista.
Questo lato non trasuda molto dalla pellicola, ma se lo si ricerca qualcosa si trova; come ad esempio
l'ordine e la capacità di dare l'ordine, l'atteggiamento di superiorità, anche se necessaria, verso chi fa il
prepotente ed ancora l'odio per il bolscevismo.
Ma ho scritto che Perlasca è anche ladro, intendendolo però nel senso buono del termine, che ne indica
furbizia e abilità, anche laddove la legge va oltrepassata ed il diritto internazionale denigrato. Perlasca è
un ladro gentiluomo caratteristica che a modo nostro noi italiani possediamo. Che sia un bene o un
male è un discorso, però è un dato oggettivo.
E' curioso come questa idea di italianità "assoluta" se ne affianchi un'altra nel film, cioè quella riflessa,
quella che gli altri hanno di noi. E Perlasca è metafora anche di questa italianità, stereotipata in
spaghetti, pizza e mandolino. L'esempio lampante si ha nella seconda scena del film quando il
maggiore Glückmer rifiutando il denaro del protagonista dice: "Italiani, pensate che tutti siano furbi
come voi. Il maggiore Glückmer non è furbo come voi, magari neanche intelligente come voi, però una
cosa la sa fare bene: obbedire alla legge". L'immagine è chiara: Perlasca è italiano, è furbo, è
intelligente e soprattutto non rispetta la legge. Probabilmente per uno straniero che ha visto questo film
è questa l'idealizzazione principale di Perlasca sotto l'aspetto caratteriale.
Passiamo adesso ad una breve analisi del cap. Bleiber, prima di affrontare l'incrocio fra le due
personalità.
Le intenzioni di Bleiber sono palesi nel film: lo sterminio della razza ebrea. Ma apparte questa
superficiale visione, si può astrarre la volontà di possessione della Contessa, di detenzione di potere e
soprattutto l'apparire superipre. Bleiber è ossessionato dall'idea di comando e superiorità verso i suoi
subalterni. Il tutto è compiuto in maniera fredda, "senza sentimenti" come dice lo stesso capitano in
riferimento al suo carattere opposto a quello di Perlasca. Da un punto di vista figurativo ed implicito,
Bleiber rappresenta il nazismo in primis, accentratore, discriminante ed egemonico, ma anche il male in
senso lato: è soggetto malvagio ed interessato in tutte le sue apparizioni, e se fa qualcosa per qualcuno,
come la difesa della Contessa, lo fa per obiettivo non manifesto, come ad esempio la possessione della
donna.
Su questi aspetti, è quindi utile ai fini dell'analisi del film, l'osservare la contrapposizione fra Perlasca e
Bleiber. Si sviluppa come pura dialettica di scontro fra protagonista ed antagonista, fra bene e male. La
si può intuire già dal primo incontro fra i due, quando, nel mezzo della sala da ballo (anche qui
contrasto fra quotidianità di chi la guerra soffre, il popolo, e chi la guerra non vede, l'aristocrazia
ungherese) il capitano si rivolge all'italiano dicendogli: "Lei non è ungherese". Risposta di Perlasca:
"Lo confesso, però neanche lei è ungherese". Lo stile della battuta è sobrio, ma molto ironico, di fatti
Bleiber sorride e controbatte: "Sono affascinato dall'ironia, è la salvezza del mondo, assieme alla
bellezza femminile (guarda la Contessa)". Qui il capitano non chiede di più a Perlasca, non indaga su di
lui, perchè ammaliato dalla donna e divertito dalle parole del nostro eroe, che di fatto lo salvano.
Proprio la figura della Contessa, diventa adesso centrale nello scontro tra i due, anzi, ne è la allegoria in
senso dantesco del termine. Infatti, essi diventano rivali in amore. Un amore platonico (e non so fino a
che punto) quello di Perlasca, ben diverso dall'amore diabolico e dominatore del tedesco. L'incontro a
tre che hanno al tavolo da gioco ne è l'esemplificazione migliore; la Contessa sta perdendo e Bleiber
cerca di aiutarla con la sua arma migliore: il potere. Le chiede se avrebbe gradito la chiusura della sala
da gioco. Perlasca, invece, chiede alla donna di giocare con lei. Lei opta per quest'ultimo e vince, e
l'italiano a sua volta segna un punto su Bleiber, essendo stato scelto ed avendo portato fortuna alla
donna. C'è inoltre un richiamo all'altro grande gioco in corso, nel quale è Perlasca a condurre la
Contessa: il gioco della sua falsa identità.
E come Perlasca l'ha vinta sul tavolo verde, l'avrà vinta nell'altra fondamentale partita, quella per la vita
degli ebrei.
Infine, c'è un'altra variabile da prendere in considerazione: il destino. Anch'esso, oltre le vicende, è
avverso al capitano. Nell'incontro nel bunker antibombardamento, questi dice a Perlasca: "Mi
dispiacerebbe doverla impiccare uno di questi giorni". Consideriamo poi, una scena precedente, in cui
Bleiber si accende un fiammifero sulla scarpa di un morto, che lui stesso ha ammazzato. Se andiamo
successivamente alle scene finali, vediamo come, con l'arrivo dei russi, ci sia pieno di gente per le
strade; Perlasca cammina piano e nota un contrasto angosciante: bambini che giocano felici, ma a pochi
metri una salma appesa ad un cappio; si avvicina: è Bleiber. Lo osserva. L'impiccato alla fine è stato
lui. Passa un secondo, sopraggiunge un sovietico e si accende un fiammifero sotto lo stivale del
capitano. Al destino, si sa, non manca il senso dell'ironia.

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