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Archeologia del discorso etnografico

L’antropologia tra capitalismo coloniale e scienza


dell’altro

Miguel Mellino

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Lezione I: L’etnografia prima dell’etnografia

L’etnografia è sicuramente uno dei modi più diffusi ed efficaci di fare ricerca sociale.
Costruita come metodo scientifico nell’ambito dello sviluppo dell’antropologia come
disciplina accademica moderna, l’etnografia è andata consolidandosi sempre di più come
una delle pratiche più importanti nella produzione di conoscenza sulle società. E’ così
che l’etnografia intesa come una modalità particolare di “ricerca di campo” non appare
più come un semplice strumento del discorso antropologico, bensì come una delle
tecniche qualitative più essenziali del fare ricerca in generale. Tuttavia, come si vedrà, la
enunciazione dell’etnografia come “metodo scientifico”, del “lavoro di campo” come
pratica professionale e scientifica, appartiene a un certo periodo della storia, tra il 1880 e
il 1920: a un momento caratterizzato dall’espansione del colonialismo europeo come
sistema economico-politico, dall’accelerazione del processo di globalizzazione indotto
dagli effetti della cosiddetta seconda rivoluzione industriale (sviluppo della nave a
vapore, del telefono, delle ferrovie, dei primi aerei, del telegrafo, delle prime armi di
distruzione di massa, ecc.) e infine dal dominio del positivismo come discorso teorico-
epistemologico. Nel corso degli ultimi decenni, l’etnografia come pratica conoscitiva si è
resa del tutto indipendente, per così dire, da queste idee tradizionali sia di “metodo” che
di “scienza”.
L’etnografia, dunque, come “discorso” e come “pratica” ha una lunga storia. E’ su
questa storia, inevitabilmente legata a processi politici più generali, che intendiamo
concentrarci per comprendere in che modo il lavoro di campo etnografico possa
costituire ancora una pratica fondamentale nella conoscenza e comprensione della
società e dei suoi principali conflitti. La messa a fuoco di questo processo ci appare
inoltre come uno dei modi più interessanti di abbordare la storia stessa dell’antropologia,
poiché ci aiuta a vedere il suo sviluppo accademico-disciplinare come il prodotto di
tensioni, lotte e conflitti che hanno attraversato il resto dell’arena sociale. In sintesi, è
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attraverso una sorta di “genealogia” dell’etnografia che ci proponiamo di superare il
classico approccio “manualistico” alla storia di questa disciplina.
Il punto di partenza della nostra genealogia è l’etimologia stessa della parola. Il
termine etnografia deriva il suo significato dal greco: ethnos (nazione, popolo) e
grapho (scrivere). Etnografia, dunque, sta a suggerire l’atto di “scrivere un ethnos”,
più nello specifico di “descrivere o rappresentare un gruppo etnico”. E’ noto che le
genealogie comuni della parola fanno risalire l’etnografia come discorso e pratica –
come “pratica discorsiva” (Foucault) – a Erodoto (484- 430), il quale descrisse durante
i suoi viaggi la vita di diversi gruppi (persiani, egiziani, sciti, ecc.) considerati barbari
dai greci. Inoltre, diversi manuali di antropologia fanno risalire a Erodoto la nascita
stessa di quello che possiamo chiamare “spirito antropologico”, che
nell’autorappresentazione (autocelebrazione) della disciplina sta a significare “un
interesse disinteressato per i costumi degli altri, per la diversità”. E’ così che il discorso
antropologico dominante proietta su Erodoto qualcosa che ritiene come l’essenza del
proprio sapere: la promozione di un “relativismo culturale” finalizzato a una maggiore
conoscenza dell’uomo, degli altri ma anche di noi. Abbiamo qui il fondamento
“umanistico” e “illuministico” dell’antropologia come sapere e come disciplina.
Non entriamo su Erodoto, che apparteneva a un periodo storico assai diverso dal
nostro. Utilizziamo però questa autorappresentazione della disciplina – e di una parte
del senso comune “umanistico” della cultura moderna europea – per sottolineare un
suo “lato oscuro”: se ci prendiamo sul serio il suo presupposto epistemologico, si può
dire che è stata soltanto la società occidentale ad aver maturato quello che possiamo
chiamare “una coscienza etnografica” (o antropologica). Le società non occidentali
non sembrano aver maturato la necessità di una pratica del genere. Si tratta di qualcosa
che merita di essere indagato.
E’ interessante notare in che modo è l’etimologia stessa della parola – il linguaggio
stesso - a mostrarci che etnografia non è affatto un “significante innocente”. Il

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significante “etnografia”, nel discorso e nella pratica a cui rimanda, ci dice
implicitamente che a essere etnico (un ethnos) è sempre l’altro: etnografia fonde questi
due termini, etnicità e alterità. Chi scrive o descrive, chi produce il resoconto
etnografico, non occupa il luogo di un ethnos, di un altro o dell’alterità, ma un luogo
diversamente connotato; si potrebbe dire che occupa il luogo “opposto” a quello di
cui sta scrivendo (un medesimo, un sé). Chi scrive si pone come “soggetto” del
discorso, è un soggetto di fronte agli altri che vengono “de-scritti” come “oggetti”. E’
così che in Europa, come sappiamo, la storia delle antropologie (coloniali)
metropolitane ha storicamente associato il termine “etnografia” allo studio delle
società “primitive” e/o “selvagge”. Ce lo ricordava negli anni trenta A. R. Radcliffe-
Brown, antropologo funzionalista, secondo il quale fare etnografia “consisteva nel
produrre studi descrittivi sui popoli analfabeti” (Kuper 1973, p. 19).
Ma vi è di più: ciò che rendeva “credibile”, “legittima” e anche “necessaria” la
pratica etnografica era il presupposto tacito secondo cui l’ethnos non è in grado di
scrivere se stesso, non è in grado di rappresentare o auto-rappresentarsi: nella pratica
etnografica l’ethnos è l’oggetto del discorso, deve essere rappresentato da qualcuno
che ne sia in grado: esserne in grado stava a significare avere il dominio della scrittura,
di una certa competenza (che per implicito ed esplicito l’ethnos non possiede),
dell’arte della descrizione o della rappresentazione; ma essere in grado di scrivere stava
a significare anche avere il potere di scrivere, di narrare, ovvero il potere di avere
accesso agli “archivi della conoscenza”. Oggi possiamo dire che l’etnografia, almeno
fino agli anni sessanta, ha tradizionalmente comportato un rapporto di dominio, di
potere, tra chi scrive e chi è scritto e descritto. E’ stata resa possibile, soprattutto
all’interno dell’antropologia, da questo rapporto carnale con il potere. C’è chi ha
parlato è chi è stato parlato (come sostiene l’’autrice postcoloniale Gayatri Spivak in
Can the Subaltern Speak, 1988).

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Qualcosa di simile ha sostenuto Edward Said in Orientalismo (1978), il suo testo più
famoso. Secondo Said, la produzione di discorsi sugli altri, dipende dal silenzio degli
altri, dal fatto che gli altri non sono in grado, per diversi motivi, di “venire alla
rappresentazione” (Stuart Hall), di avere accesso alla rappresentazione, alla scrittura,
alla storia. Pensate qui ancora a Erodoto, poi passeremo all’antropologia. Erodoto
scrive, racconta, cataloga, registra, descrive “le abitudini dei barbari”, di un ethnos che,
possiamo dire, “egli produce come altro”. Erodoto traccia dei “confini” chiari tra “sé”
e gli “altri”. Abbiamo qui uno dei presupposti chiave del nostro discorso: non vi è un
altro, ma siamo sempre alle prese con una costruzione politico-culturale dell’altro.
Quanto ci dicono qui Spivak e Said, ce lo trasmette implicitamente, ancora una
volta, lo stesso termine “etnografia”. Abbiamo detto che etnografia è l’atto di scrivere
un ethnos (un altro) attraverso la sua descrizione. Ora pensate anche a questa parola:
descrivere. Si tratta di un termine che può essere, a sua volta, scomposto: de-scrivere.
E de-scrivere, separato, ci porta direttamente alla natura “soggettiva” o “artificiale” del
termine stesso di descrizione: mentre si scrive etnograficamente un ethnos si de-scrive
l’altro, ovvero esso si “sfuoca”, si “allontana”, si “de-naturalizza”, e quindi diviene
qualcosa di diverso da ciò che si “scrive”. Scrivere l’altro non può mai essere inteso
come una “epistemologia realista”: se l’iscrizione di qualcosa (in questo caso un altro)
è anche la sua de-(i)scrizione, ciò significa che quel qualcosa non è indipendente dalla
scrittura. Questa decomposizione dello “scrivere” in “de-scrivere” – pratica
caratterizzante l’etnografia da sempre – ci dice che la scrittura non è un processo
trasparente, a-problematico: ma è uno dei problemi stessi del fare etnografia. La
decomposizione dello scrivere nel descrivere – che, paradossalmente, sarà l’obiettivo
fondamentale del “metodo etnografico” così come esso verrà sistematizzato dagli
antropologi che vorranno fare dell’antropologia una “scienza sociale” come altre – ci
dice che i resoconti degli etnografi parlano più di chi ha scritto che di chi è stato
scritto-descritto.

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E’ quanto ci dirà una parte dell’antropologia critica, quella interpretativa di
Clifford Geertz in Opere e vita. L’antropologia come autore (1984), o quella post-moderna
in Writing Cultures: Poetics and Politics of Ethnografhy (Clifford, Marcus, 1986). Pensate agli
enunciati dei sottotitoli: l’antropologo come autore (come un romanziere, come uno
scrittore) e poetica e politica dell’etnografia. Entrambi i testi mettono l’accento sul fatto
che i resoconti etnografici non possono essere considerati come il mero
rispecchiamento fattuale di ciò che descrivono. I testi, e le etnografie sono testi, sono
sempre costruiti: a) in modo più o meno consapevole (Geertz), ricorrendo a certe
strategie retorico-letterarie; b) in modo inconsapevole (Clifford), ovvero da concezioni
che sfuggono al suo controllo, e questo in due sensi: 1) mentre le pensiamo come
naturali, in realtà tali concezioni sono culturalmente costruite, ci possiedono,
plasmano dunque il “senso comune” di cui è portatore anche l’etnografo; 2) non è
detto che noi controlliamo il significato (l’interpretazione) di ciò che scriviamo, e
nemmeno che il senso rimarrà sempre lo stesso, poiché verrà decodificato da lettori
sempre diversi, situati in epoche e contesti diversi. Questo scritto di Geertz e la
raccolta di Clifford e Marcus, così come lo sviluppo dagli anni sessanta in poi di
alcune correnti critiche (non solo antropologiche, come il post-strutturalismo)
incentrate sulla centralità del linguaggio nella produzione sia della società che dei
soggetti, hanno in qualche modo permesso che noi facessimo questo tipo di
riflessione.
Uno degli assunti fondamentali alla base di queste correnti, che trae ispirazione
diretta dalle teorie del linguista Ferdinand de Saussure, è che le parole non descrivono
un mondo “oggettivo”, che è fuori dal linguaggio, dalla cultura. Così, ogni parola è
attraversata da un particolare orizzonte di senso (culturale) che ci costringe a pensarla
in un certo modo, e senza che noi ce ne accorgiamo che si tratta di un processo
“costrittivo”. Ogni parola mobilita un certo orizzonte di senso ogni volta che noi la
pronunciamo; e mobilitando un certo orizzonte di senso quella parola ne chiude altri. Si

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può dire dunque che le parole ci fanno “violenza”; una “violenza” che noi non
percepiamo come tale. Per questo, Pierre Bourdieu (un sociologo-antropologo che ha
fatto ricerca etnografica nella regione di Kabylia, Algeria, negli anni della rivoluzione
algerina) ci chiede di pensare la cultura come “violenza simbolica”: nel senso che ogni
sistema culturale ci fa percepire come naturali significati che in realtà sono arbitrari;
arbitrari qui non vuole dire soltanto “soggettivi”, ma determinati e legittimati da
precisi rapporti di forza. Secondo Bourdieu, l’efficacia del linguaggio, il potere delle
espressioni linguistiche, non va cercato nel linguaggio: ma nei rapporti di forza,
ovvero nell’autorità sociale che ne ha istituito e legittimato il senso.
In riferimento al nostro discorso sull’etnografia, a cosa ci serve questo enunciato
di Bourdieu: a sottolineare il fatto che ogni soggettività (anche la nostra) è
“assoggettata”, è plasmata dalla cultura come “violenza simbolica”, dalla cultura intesa
come processo politico di assoggettamento; l’etnografo non è un soggetto nel senso in
cui di solito intendiamo questa parola, è agito da significati che in qualche modo lo
trascendono, che sono impersonali, e che derivano da un sistema di potere.
Come abbiamo anticipato, dall’inizio del ‘900 l’antropologia farà dell’etnografia lo
strumento stesso della sua legittimazione come discorso scientifico, e quindi proporrà
(scriverà) l’etnografia come “metodo scientifico” (oggettivo) di ricerca sugli altri non-
europei: sono questi le origini dell’antropologia come scienza. Sicuramente, ci sono un
autore, un testo e una data spartiacque nell’iscrizione dell’etnografia come metodo
scientifico dell’antropologia: la pubblicazione del testo Gli argonauti del pacifico occidentali
(1922) di Bronislaw Malinowski (funzionalismo). Torneremo diverse volte su questo
testo e su questo momento. Per ora, diciamo soltanto che Malinowski sistematizzerà
l’etnografia come metodo scientifico dell’antropologia a partire da diversi connotati
impliciti nel significato stesso della parola. L’etnografia come metodo scientifico
resterà legata all’idea del viaggio e alla descrizione-rappresentazione oggettiva di un
ethnos (di un altro). Per diverso tempo, la distanza, spaziale e culturale, tra

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l’etnografo-antropologo e il gruppo oggetto del suo resoconto, resterà garanzia di
scientificità. Fare etnografia oggi, in un mondo intercomunicante e globale, e dopo il
processo di decolonizzazione che ha finito per mettere discussione questi presupposti
coloniali dell’antropologia e della ricerca etnografia come metodo d’inchiesta, non
significa più necessariamente fare ricerca su altri “culturalmente” distanti.
Da quanto abbiamo detto, forse non risulta così strano che una pratica intrisa di
colonialità (Quijano) sia diventata il metodo (la disciplina) di una scienza che ha avuto
nell’espansione coloniale uno dei suoi principali elementi di legittimazione. Si
potrebbe pensare l’antropologia come fase suprema dell’etnografia (per richiamare il
titolo del noto testo di Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, 1917); si
potrebbe anche considerare l’etnografia come una pratica costitutiva della stessa idea
di occidente. Ad ogni modo, occorre precisare che l’etnografia non è stata solo
strumento di dominio: come modalità di ricerca può essere utile anche alla produzione
di una conoscenza finalizzata all’emancipazione di gruppi e soggetti oppressi. In
America Latina, per esempio, la ricerca etnografica, così come l’antropologia, sono
andate costituendosi sempre di più, dagli anni sessanta in poi, come pratiche
conoscitive e politiche di difesa delle popolazioni indigene e dei gruppi subalterni
urbani.
Una delle domande a cui cercheremo di dare una risposta è: come elaborare
resoconti etnografici attendibili, e non finalizzati a una semplice riproduzione del
dominio?

Letture aggiuntive

Primi due capitoli del manuale:


I) Archeologia del sapere antropologico; II) Il selvaggio nella coscienza europea

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Lezione II: La nascita dell’antropologia come scienza

Come abbiamo anticipato, l’antropologia si autonarra come la materializzazione


disciplinare di una sorta di “spirito antropologico” costitutivo della condizione umana
stessa. Questo “spirito antropologico”, che fa dell’uomo ciò che è, consiste nella capacità
innata dell’uomo di sottoporre a interrogazione tutto ciò che lo circonda: il mondo, la
natura, il proprio sé, gli altri, il suo rapporto con gli altri. Secondo questo racconto, è lo
sviluppo progressivo di questo “spirito antropologico” nel corso dei secoli ad aver
gettato le basi dell’antropologia come scienza sociale, come “studio dell’uomo”. Così,
l’antropologia, come studio sull’uomo, non sarebbe che il prodotto delle diverse
manifestazioni di questo “spirito antropologico” tipico dell’uomo, o di ciò che fa di esso
ciò che è: la sua coscienza (l’avere una coscienza).
Si tratta chiaramente di un ragionamento antropo-logico, o antropo-centrico: poiché pone
l’uomo al centro del proprio racconto. L’uomo che riflette su se stesso. Adottare questo
presupposto come criterio in grado di definire l’antropologia come scienza, e quindi la
sua storia, rischia di produrre un discorso sul sapere antropologico assai vago, capace di
includere al suo interno qualunque generica riflessione sulla condizione dell’uomo. E così
che alcune narrazioni fanno risalire le prime manifestazioni di un “atteggiamento
antropologico” a Erodoto, Tacito, Lucrezio, Montaigne, ecc.
Altre narrazioni, che cercano di dare maggiore specificità storica al proprio
discorso, pongono in modo esplicito la nascita sapere dell’antropologico – dello “spirito
antropologico” – come una delle conseguenze dello sviluppo dell’umanesimo europeo e
dell’illuminismo. Questa narrazione rappresenta l’antropologia come incarnazione degli
ideali di questi due movimenti. All’interno di questa strategia discorsiva, lo “spirito
antropologico” non sarebbe più costitutivo tanto della condizione umana stessa, quanto
di una condizione storica specifica: quella della modernità (apertasi con la conquista
dell’America). Per questo, le origini del discorso antropologico a volte vengono fatti

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risalire a Lafitau (1681-1746, Moeurs des sauvages amériquains comparées aux moeurs des premiers
temps (1724), alla Societé des observateurs del homme, o ancora più addietro a Montaigne o a
Rousseau (come fa per esempio Lévi-Strauss). Secondo questa autorappresentazione,
l’obiettivo dell’antropologia è quello di contribuire a narrare il grande racconto dell’uomo
a partire da un’apertura laica, disinteressata, razionale e universalista verso l’alterità e la
differenza culturale. In realtà, tale autorappresentazione potrebbe essere intesa anche
come un’autocelebrazione dell’Occidente: poiché avrebbe alla base un soggetto,
razionale, oggettivo, disinteressato e finalizzato unicamente all’emancipazione sociale di
tutti gli esseri umani. Tuttavia, come vedremo, le cose non stanno proprio cosi.
Innanzitutto, chiediamoci, qual’era la concezione di uomo nata con l’umanesimo?
La nascita dell’antropologia come disciplina scientifica è invece legata a un preciso
contesto storico, geografico e politico e anche ad alcuni nomi specifici. Un nome, una
data e un testo spartiacque è sicuramente Edward B. Tylor, il 1870 e il testo “Primitive
Culture”. Tylor fu il primo “Reader in Anthropology” nell’Università di Oxford nel 1884
e nel 1896 si trasformerà nel primo professore di Antropologia in Gran Bretagna. Tylor è
dunque è considerato il padre fondatore dell’antropologia. Anche perché nel suo testo
fissava come obiettivo dell’antropologia lo studio della cultura delle società primitive.
Detto in altre parole, Tylor definiva l’oggetto dell’antropologia come scienza sociale,
come sapere: lo studio della cultura dei primitivi. Dobbiamo precisare che Tylor
intendeva cultura come sinonimo di civiltà. Questo significa che per Tylor vi era un’unica
cultura umana, e la diversità culturale stava a significare i diversi stadi dell’evoluzione
umana. Molto brevemente, Tylor collocava le diversità culturali su una dimensione
“diacronica” o “verticale”, più che “orizzontale” o “sincronica”.
Qui è importante soffermarsi sul fatto che il testo di Tylor viene considerato come
l’inizio del processo di istituzionalizzazione dell’antropologia come sapere in Europa:
con Tylor e il suo testo si può dire che l’antropologia oltrepassa quello che Michel
Foucault chiama nel suo “Archeologia del sapere” (1969) la “soglia di positività” (p.244).

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L’antropologia comincia così a costituirsi nei paesi Europei come “scienza”, come uno
spazio discorsivo specifico in cui vengono prodotti enunciati di un certo tipo. Negli Stati
Uniti, come si vedrà, l’istituzionalizzazione accademica dell’antropologia è legata allo
studio dei suoi “altri” interni, ovvero dei gruppi indigeni alle prese con l’espansione del
processo di colonizzazione e modernizzazione capitalistica di fine ‘800. E’ in questo
contesto che si sviluppa l’antropologia di Henry Morgan (1881-1888), considerato il
fondatore dell’antropologia statunitense.
Ma vi sono altri nomi a cui è legata la nascita dell’antropologia britannica come
disciplina. Prima di tutti, James George Frazer (1854-1941), che fu studente di Tylor e
autore di uno dei testi di antropologia più famosi di tutti i tempi: “Il ramo d’oro” (1911-
1915). Frazer divenne professore di Antropologia sociale nel 1907 a Liverpool. Poi vi
sono altri nomi menzionati spesso in molti manuali di antropologia per completare
l’elenco della prima antropologia evoluzionista. E questi autori vengono inclusi nella
storia dell’antropologia, nonostante non fossero proprio antropologi. Si tratta di Henry
Maine (1822-1888), autore di Ancient Law (1861); Johannes Bachofen (1815-1887,
svizzero), autore di un testo rimasto famoso all’epoca Il matriarcato (1861); John Lubbock
(1834-1913), autore di Prehistoric Times (1965); John McLennan (1827-1881) autore di
Primitive Marriage (1865) e Henry Morgan (1818-1881, Stati Uniti), autore di Ancient Society
(1877).
E’ importante precisare che questi ultimi autori, tranne McLennan, erano giuristi
anziché antropologi in senso stretto. La loro inclusione nella storia dell’antropologia può
essere dovuta a diversi motivi. Innanzitutto, al loro interesse per le società primitive, il
cui studio rappresentava per questi autori, come per tutti gli evoluzionisti, una tappa
necessaria nella comprensione della storia umana. Dal nostro punto di vista, tuttavia, la
loro “internità”, per così dire, alla storia dell’antropologia non è data “dall’oggetto”,
quanto dalla domanda a partire da cui l’antropologia è andata costituendosi come
“campo di sapere” sul primitivo: come e perché siamo arrivati a questo punto nello

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sviluppo intellettuale, tecnico e materiale umano? Ma soprattutto: cosa distingue la
società capitalistica industriale occidentale moderna dalle altre? (vedi qui la Lezione IV).
E’ questa la domanda che metterà capo alla costituzione dell’Economia politica come
discorso, ovvero a uno snodo fondamentale nella costituzione dell’antropologia come
scienza del primitivo. Ciò che vogliamo sostenere è, come vedremo (Lezione IV), che lo
sviluppo dell’Economia politica, in particolare della cosiddetta “teoria dei quattro stadi”
(Meek, 1976, Il Cattivo selvaggio), ha svolto un ruolo di primaria importanza nella
costituzione dell’antropologia come “campo di sapere sul primitivo”.
Ciò che accomunava autori come Maine, Bachofen, McLennan e Morgan non era
tanto un interesse per lo studio dell’evoluzione delle società umane, quanto il tentativo di
comprendere le origini della legge, delle forme di governo e soprattutto della proprietà
privata. C’è il noto testo di Friedrich Engels, “L’origine della famiglia, della proprietà
privata e dello stato” (1884), che racchiude in forma piuttosto efficace il tentativo di
comprensione che era alla base di buona parte delle teorie evoluzioniste. E va detto che
questi autori, in particolare Bachofen e Morgan, ebbero grande influenza anche sulle
famose concezioni di Marx ed Engels sulla “società comunista” o “comunismo
primitivo”. Più nello specifico, si può dire che i loro lavori abbiano contribuito a creare
un certo mito sulle società primitive (Kuper 1988, “The Invention of Primitive Society”).
Torneremo su questo argomento, ma dobbiamo dire sin d’ora che l’idea di una società
primitiva come caratterizzata da certi elementi costitutivi (società più o meno senza
regole, possesso comune delle donne, egalitarie) è stata una sorta di mito speculativo
filosofico e antropologico che andava oltre questi autori e che ha attraversato tutta la fase
della formazione della modernità, in particolare dal 700 in poi: tanto il mito del “buon”
selvaggio come del “cattivo” selvaggio. Si tratta di un mito che verrà scardinato dalla
stessa affermazione scientifico-disciplinare dell’etnografia come “ricerca di campo”,
come pratica incentrata sull’osservazione partecipante e quindi sul contatto ravvicinato e
quotidiano con soggetti e comunità primitive. Dal momento in cui gli antropologi

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andranno effettivamente sul campo, il mito delle società primitive perderà sempre più
consistenza.
In termini critici e più generali, si può dire che il primitivo dell’antropologia, e il
primitivismo occidentale in tutte le sue sfumature, siano stati in buona parte come
l’Oriente dell’Orientalismo per Edward Said: una rappresentazione che non aveva nulla a
che vedere con il “primitivo reale”, bensì con lo stesso sistema di rappresentazioni
occidentali. Questo tipo di primitivo può essere visto come una rappresentazione tutta
interna alla cultura occidentale (Vedi Young su Orientalismo).
Più avanti entreremo nel merito delle teorie degli autori alla base della “prima
antropologia”. Restiamo per ora nel contesto geografico e politico
dell’istituzionalizzazione dell’antropologia come scienza. E diciamo subito che tale
contesto è quello della Gran Bretagna in piena espansione coloniale/imperiale. All’epoca,
la Gran Bretagna era la potenza economica coloniale dominante e incontrastata, dopo
aver sconfitto la Francia nel corso del XIX secolo, anche se verso il volgere
dell’ottocento comincerà a conoscere la rivalità imperialista degli Stati Uniti, della
Germania, della Francia ancora e più tardi Giappone in Asia. Gli anni ’80 dell’Ottocento
sono gli anni del cosiddetto “Scramble for Africa”, della corsa imperialista all’Africa.
Sono gli anni in cui Joseph Conrad scriverà Cuore di tenebra (1899). Attraverso una
metafora si può dire che gli anni dell’istituzionalizzazione dell’antropologia sono gli anni
di “Cuore di tenebra”.
Al di là dell’autonarrazione o dell’autorappresentazione umanistica, celebrativa e
antropo-centrica, dell’antropologia come scienza dobbiamo considerare
l’istituzionalizzazione della disciplina come la fine di un processo, fatto dalla
sedimentazione di diversi elementi, concezioni, enunciati, discorsi. L’antropologia
segnerà progressivamente il passaggio della riflessione sulla diversità umana dai “salotti”
della speculazione filosofica alle “tende” degli etnografi, ovvero a un tentativo di
comprensione degli altri fondato sulla ricerca pratica di campo (sull’etnografia come

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fieldwork). La storia è sempre una questione di scrittura, d’interpretazione e di potere,
non esistono “fatti” grezzi. Vi è sempre uno scarto tra il modo in cui una disciplina
sceglie di narrare la propria storia e i modi attraverso cui essa è venuta realmente a
costituirsi come tale.
Sta di fatto che l’antropologia comincia a divenire una “ scienza sociale” riconosciuta
verso il 1880, e questo, come stiamo vedendo, non avviene per caso (Foucault nel
manuale). La costituzione dell’antropologia come disciplina scientifica è il frutto di un
lungo processo ‘esterno’ alla disciplina stessa e che non può essere considerato come uno
sviluppo lineare o semplicemente progressivo o progressista. Le cose sono più complesse
e ambivalenti.
Da quanto abbiamo detto, si può desumere che l’antropologia come disciplina non
nasce tanto come studio dell’uomo, quanto come “studio dell’uomo o delle società
primitive”, ovvero “dell’uomo o delle società non occidentali”. Se una scienza è definita
dal proprio oggetto e dal suo campo di studio, nel caso dell’antropologia ciò che la
renderà qualcosa di specifico è il suo preteso sapere sui “primitivi”. L’antropologia,
divenuta scienza, cercherà di legittimarsi davanti alle altre scienze sociali come un sapere
“professionale” sui cosiddetti primitivi. Tuttavia, se è vero che l’antropologia è stata
storicamente definita dallo studio delle società non occidentali – poiché lo studio delle
società occidentali spettava alla sociologia – è altrettanto vero che l’antropologia non si
occupava di qualunque tipo di società non occidentale. Per esempio, per dirla in termini
semplici, gli antropologi non studiavano il Marocco o l’India, bensì piccoli gruppi
all’interno di queste società. Si trattava chiaramente di un aspetto intrinsecamente legato
al metodo di ricerca che l’antropologia stava cominciando a darsi – l’etnografia, la ricerca
sul campo – ma che non obbediva soltanto a questo. Come vedremo nelle prossime
lezioni, gli antropologi erano interessati soprattutto ai gruppi rimasti più a margine del
processo di modernizzazione. Meno i gruppi erano stati colpiti dal processo di
modernizzazione capitalistica e più sarebbero diventati oggetto di indagine da parte degli

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antropologi. Si può dire che la prima antropologia, in particolare la cosiddetta
antropologia classica, fosse stata plasmata da una volontà di riscatto culturale: cercare di
documentare il più possibile – di registrare in un immaginario archivio della diversità
umana –quelle culture indigene o arcaiche che prima o poi sarebbero state cancellate dal
processo di modernizzazione. Va ricordato che in Europa questa è un’epoca anche di
grande musealizzazione, per così dire, di oggetti e reperti appartenenti a culture non
occidentali.
Ma non solo: gli antropologi erano interessati a quelle che ritenevano essere, a partire
dalla concezione evoluzionista e positivista tipica del periodo in cui è avvenuta
l’istituzionalizzazione dell’antropologia in Gran Bretagna, le forme più “semplici” o' più'
“primordiali”' (primitive) di' vita sociale. Dunque, quando leggiamo nei manuali che
l’antropologia nasce come studio delle società o dell’uomo primitivo, tale affermazione
comporta alcuni presupposti taciti, sia di tipo epistemologico che di tipo politico, anche
se è difficile separare gli uni dagli altri.

Presupposti epistemologici:

a) Si tratta di società o di gruppi di piccola scala, caratterizzate da un modo di


sussistenza, diciamo “semplice”: caccia, raccolta, pastorizia, agricoltura di piccola scala;

b) Il metodo di ricerca dell’antropologia è uno in particolare: l’etnografia, ricerca sul


campo basata sul contatto ravvicinato e quotidiano, sull’interazione diretta, con i membri
del gruppo in cui si sta portando avanti la ricerca. Malinowski ha definito il fare
etnografia come un processo incentrati sull’osservazione partecipante, anche se non solo
su questa tecnica di ricerca;

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c) antropologo costruiva il suo resoconto a partire dal dialogo con degli “informatori”
appartenenti ai gruppi studiati; si trattava in maggior parte di uomini, gli antropologi,
essendo maschi i primi antropologi tranne qualche eccezione (Margaret Mead, Ruth
Benedict) non avevano accesso al “punto di vista delle donne”. L’antropologia “classica”
si mostra cosi come un sapere maschile costruito sul dialogo di uomini con altri uomini,
in cui le rappresentazioni femminili dell’ordinamento sociale sono rimaste escluse per
lungo tempo. Il caso delle donne è quello di altri gruppi “muti” (Vedi Ardener, Edwin,
1975; “The problem rivisited”, in Perceiving Women, Ardener, Shirley)

Presupposti politici:

a) L’antropologo è un occidentale o un europeo che studia “altre” società. Una premessa


che presuppone che le altre società non parlino o non siano in grado di parlare o
autorappresentarsi, e ciò per diversi motivi;

b) il silenzio dell’altro sta a indicarci che l’unico soggetto dell’incontro è l’antropologo,


ovvero colui che parla, mentre i nativi hanno lo status di “oggetti”;

c) L’incontro etnografico classico, quella dell’antropologia tradizionale, presupponeva


dunque una situazione di gerarchia, culturale, politica ed epistemologica tra
occidentali/antropologi e non-occidentali-oggetti. Tutto sommato, si può sostenere che
la condizione di possibilità dell’antropologia come scienza o come disciplina
presupponeva una “situazione coloniale” (Balandier 1955) tra antropologo e nativo, tra
occidentale e non occidentale. Non è un caso che le prime nazioni a sviluppare
l’antropologia siano state la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti. E tuttavia
l’antropologia ha riflettuto poco sui suoi rapporti con il colonialismo (Leclerc 1972): solo
dagli anni sessanta in poi, con lo sviluppo del processo di decolonizzazione e di presa di

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parola dell’altro colonizzato, con quello che Gerard Leclerc chiama “l’avvento del terzo
mondo”, si avvierà un processo di auto-decolonizzazione dell’antropologia e
dell’etnografia come metodo.

E’ importante ricordare che gli antropologi evoluzionisti non praticavano il metodo


etnografico. Le loro teorie si fondavano sulla lettura di materiali di seconda mano, di tutti
i tipi: studi o resoconti di viaggiatori, missionari, ufficiali coloniali, ma soprattutto
questionari o survey per incarico. Non avevano quindi un contatto diretto con le società di
cui parlavano (Vedi Stocking “Observers Observed. Essays on Ethnographic
Fieldwork”, 1983). Proprio per questo, gli antropologi vittoriani sono stati definiti
“antropologi da tavolino”. Ed è partire da questa particolarità che George Stocking ha
definito l’antropologia vittoriana come antropologia “pre-classica” (Stocking 1983). La
classicità, lo standard, dell’antropologia, è data ovviamente dal metodo etnografico. E il
metodo etnografico verrà messo a punto come pratica di ricerca specificamente
antropologica in un momento successivo: tra la fine dell’Ottocento e il 1925. E saranno
soprattutto gli antropologi funzionalisti a perfezionare il metodo e a fondare le loro
teorie su un contatto diretto con i nativi. Sarà l’antropologia funzionalista britannica,
insieme all’antropologia culturale americana di Boas e allievi, a ricevere la definizione di
“antropologia classica”. Potremmo dire anche di “Antropologia moderna”. E, come
vedremo, lo sviluppo e il perfezionamento del metodo etnografico da parte
dell’antropologia classica è legato a una contingenza politica piuttosto precisa: allo
sviluppo dell’Indirect Rule – governo indiretto – come metodo di governo delle colonie
da parte dell’impero britannico (Cfr con Leclerc 1973). Anche se questo rapporto non va
visto come un rapporto di causa-effetto lineare, come rilevato da Stocking.

I) La ricerca di campo nella fase evoluzionista o “pre-classica”

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Verso il 1884 l’antropologia ottiene uno status permanente all’interno della BAAS (British
association for the advancement of Science). Tra il 1875 3 il 1884 il metodo più usato per la
raccolta di dati di tipo etnografica era il cosiddetto Notes and queries on Anthropology (1875-
1884). Si trattava di un questionario pubblicato da Tylor e altri antropologi destinato a
restare per decenni la guida standard per la raccolta di dati sul campo. Nel 1884 venne
risistemato dallo stesso Tylor. Tale questionario può essere concepito come una sorta di
manuale istruttivo per viaggiatori, missionari e personale coloniale di diverso tipo su
come ottenere i dati per uno studio scientifico dell’antropologia a casa. Era poi
l’antropologo commissionante a stabilire il tema e il tipo di dato da descrivere o
raccogliere.
Con il progressivo sviluppo dell’antropologia nelle università si farà sempre più
sentito il bisogno di raccogliere dati di prima mano. Come riferisce Stocking (1983), lo
stesso Tylor sarà sempre meno soddisfatto della raccolta di dati attraverso questionari.
Già prima di Malinowski, la Notes and Queries chiedeva agli informatori di essere presenti
ai riti religiosi per capire meglio il significato di ciò che si raccoglieva. Tylor infatti sentiva
come un problema il fatto che l’informazione sulle religioni primitive venisse raccolta da
missionari che si proponevano di estirparla. Egli cercò quindi di evitare deformazioni
etnocentriche da parte dei missionari mediante un ri-orientamento del questionario.
Di grande importanza in questo periodo erano anche le cosiddette “Survey
etnografiche”: raccolta sistematica di dati a distanza (mediante l’impiego di
corrispondenti) di tipo fisico, antropologico, etnologico, archeologico e folklorico di una
regione o di una società particolare. La survey può essere intesa come un specie
particolare di censimento. Da segnalare, che la nascita della survey etnografica come
metodo di ricerca su una determinata popolazione è stata messa a punto dal governo
coloniale inglese durante la conquista dell’Irlanda (vedi Foucault in merito). Nel 1884
Tylor lanciò la formazione di una commissione per lo sviluppo di una survey riguardanti
le tribù Nord-Occidentale del Canada (a cui lavorò Boas). Rimasta famosa anche

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l’Ethnographic survey of the UK, lanciata nel 1882. Negli stessi anni venne lanciata una
survey gigantesca per la raccolta di dati in India: nacque cosi l’imperial Gazzetter of
India, in cui vennero raccolti una massa impressionante di dati relativi a varie
popolazioni dell’India. Le survey erano il frutto della collaborazione tra l’antropologia
nascente e l’amministrazione coloniale. E così esse ci mostrano in modo molto chiaro il
quello specifico legame tra sapere (ricerca sulla popolazione) e potere (necessità di
conoscere per meglio governare) emerso nella modernità entro cui va iscritta la nascita di
questa metodologia di ricerca.

II) Dai missionari ai naturalisti: l’etnografia dei naturalisti e la spedizione allo stretto
di Torres

Verso la fine dell’800 si assiste a un importante mutamento nelle modalità della


ricerca etnografica. E’ la cosiddetta “Spedizione allo stretto di Torres” (1888-1889) a
segnare un particolare momento di svolta nello sviluppo dell’etnografia come
metodologia della ricerca di campo. Questa missione verrà svolta da naturalisti
(zoologici, botanici, ecc. conquistati all’antropologia) e non più da missionari e personale
esterno all’ambiente scientifico, e resterà associata ad alcuni nomi particolari: Alfred
Haddon (zoologo), William Rivers (psicologo) e Charles Seligman (medico, medicina
nativa). Si tratta di una generazione “post-darwinista” di ricercatori. Lo spirito della
spedizione era tipicamente darwinista: studio della fauna, della struttura e della
formazione delle barriere di corallo in queste isole dell’Oceania. Haddon, che aveva letto
Il ramo d’oro di Frazer, comincerà a interessarsi dei nativi delle isole di queste zone.
Finirà la spedizione come antropologo, interessato soprattutto alla raccolta di cultura
materiale, di reperti appartenenti a queste culture della Nuova Guinea e diventerà presto
lecturer in antropologia fisica a Cambridge.

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Fu Haddon a coinvolgere nella sua missione W. Rivers e Charles Seligman, che
avranno grande influenza su Malinowski e Radcliffe-Brown. Al loro ritorno dalla
spedizione in Gran Bretagna, Haddon, Rivers e Seligman vennero sempre più
riconosciuti come la “Cambridge School” di etnografia. Haddon in particolare cominciò
a promuovere la necessità di produrre più “ricerche di campo antropologiche”
(anthropological fieldwork). Importante segnalare qui che questa espressione derivava
proprio dal lessico dei naturalisti, ma essa venne progressivamente introdotta nel campo
dell’antropologia sociale nascente. Haddon sottolineava la necessità di addestrare gli
antropologi alla ricerca di campo per evitare la figura raccoglitore di dati occasionale e
frettoloso. Cercava così di incentivare un’etnografia più mirata e intensiva (qualitativa),
distinguendola dalla vecchia “survey” (quantitativa). Secondo Haddon, gli antropologi
dovevano prendersi del tempo per entrare in simpatia con i nativi e cosi accedere al
significato più profondo del materiale raccolto. Egli coniò anche l’espressione “studio
intensivo di aree limitate” per riassumere il suo metodo. Zoologo in origine, Haddon era
abituato allo studio delle cosiddette “province biologiche”: sta qui dunque una delle
radici più importanti di quello che sarà l’etnografia come metodologia antropologica di
ricerca di campo sulle particolarità di un gruppo culturale specifico.
Charles Seligman, invece, dopo lo stretto di Torres svolse ricerche nello Sri Lanka,
nel Sudan anglo-egiziano e di nuovo in Nuova Guinea. Il suo metodo di indagine restò
del tipo della “survey”, ma ebbe un ruolo importante nella formazione di una
generazione emergenti di antropologi. Da ricordare che Seligman insegnò alla London
School of Economics dal 1900 in poi ed ebbe come allievo lo stesso Malinowski. Si può così
concludere che già verso lo scoppio della prima guerra mondiale (prima dunque della
comparsa de Gli argonauti del pacifico occidentale di Malinoswki) il fieldwork era l’anima
dell’antropologia sociale britannica (Vedi Stocking 1983). Anche se sarà solo con la
sistematizzazione scientifica di Malinowski, al suo ritorno dalle Trobriand, che il metodo
etnografico acquisirà il suo statuto scientifico dentro il campo delle scienze sociali. E

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Seligman avrà un ruolo fondamentale nel promuovere Malinowski alla London School of
economics.
Determinante nella formazione di Malinowski fu anche William Rivers e il suo
“metodo concreto”: si tratta di un antropologo che diede una notevole spinta alla
particolarità di una tecnica di ricerca incentrata su ciò che allora veniva chiamato “studio
intensivo delle aree limitate”. Va ricordato che Rivers è stato l’antropologo più
importante fino alla sua morte nel 1922; dopo la spedizione allo stretto di Torres egli
fece ricerca tra i Toda dell’India meridionale. Lo sviluppo del suo “metodo concreto” sta
a indicare una sorta di crisi definitiva del paradigma evoluzionista: Rivers sosteneva la
necessità di studiare l’intera struttura sociale delle società primitive nella vita quotidiana
dei loro membri, anziché concentrare l’attenzione unicamente sulla sfera religiosa (come
facevano prevalentemente gli evoluzionisti). Inoltre, “metodo concreto” sta qui a
significare raccolta di “fatti concreti” e “oggettivi”, fuori dagli schemi astratti degli
evoluzionisti. Il metodo di Rivers poneva l’accento sul fatto che la raccolta etnografica
doveva essere fatta solo da una persona e non più da un gruppo. L’etnografo doveva
lavorare da solo perché il suo oggetto di studio non era divisibile. Lo studio intensivo
implicava che il ricercatore vivesse un anno o più nella comunità che intendeva studiare,
e doveva rendere conto di ogni aspetto della cultura e della vita del gruppo, il quale non
doveva superare i 400-500 membri. Il metodo concreto presupponeva l’interazione
quotidiana e prolungata con i nativi e l’apprendimento della lingua dei nativi. L’etnografo
non doveva già soggiornare più ai margini della comunità (nella missione, in una nave,
nel luogo dei bianchi, ecc.) ma al suo centro. Egli doveva trasferirsi lì per controllare ogni
aspetto della comunità ed entrare nella loro vita quotidiana. Rivers poneva anche come
necessario il training dei ricercatori, che doveva includere l’addestramento ai metodi
esatti di altre scienze. Non è difficile comprendere in che modo Rivers influirà su ciò che
farà Malinowski nelle Trobriand, nonché sui presupposti epistemologici attraverso cui
egli definirà le regole del “metodo etnografico” classico.

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Dobbiamo concludere questa parte ricordando che saranno eventi come la
spedizione allo stretto di Torres (1898), lo sviluppo dell’antropologia culturale di Boas
negli Stati Uniti (che cominciò a fare “ricerca di campo” prima di Malinowki) a cavallo
tra ‘800 e ‘900, la sistemazione di Malinowski del metodo etnografico nel suo scritto Gli
argonauti del pacifico Occidentale (1922) e la missione Dakar-Gibuti (per quanto riguarda
l’antropologia francese) a fare della ricerca di campo etnografica (fieldwork), ovvero del
“soggiorno prolungato e dell’interazione diretta con i membri di una determinata società
o gruppo culturale”, il luogo chiave e specifico della produzione del sapere antropologico
e il mezzo per la sua legittimazione scientifica di fronte alle altre scienze, naturali e
sociali. Da questo momento poi, l’obiettivo dell’antropologia – fondata sul metodo
etnografico – sarà quello di fornire una visione contestualizzata di una forma di vita sociale
così come essa viene vissuta dai nativi. Si può dire che il passaggio graduale dai metodi di
ricerca evoluzionisti all’etnografia come ricerca di campo dell’antropologia classica è esso
stesso espressione di una trasformazione nell’approccio teorico: si passa da un approccio
incentrato su grandi generalizzazioni sul mondo e sull’umanità (tipica degli evoluzionisti)
allo studio intensivo di forme concrete e specifica di vita come essenza della conoscenza
antropologica sulle società (vedi anche il Cap VII del manuale e le slide sulla missione
Dakar-Gibuti per completare).
Questo modo classico di fare etnografia, come è stato più volte anticipato, verrà
sempre più messo in discussione dagli anni sessanta in poi, in particolare con il
movimento globale di decolonizzazione (1947-1975). La presa di parola dell’altro
coloniale genererà un processo di riflessività interna nell’antropologia non solo rispetto
alla sua storia, ma anche rispetto alle stesse modalità di fare etnografia o ricerca sul
campo. Questo processo di riflessività cominciato negli anni sessanta può essere definito
anche come un tentativo di decolonizzare la disciplina e il suo metodo. Da questo
momento in poi, sarà sempre più chiaro che isolare una società dal suo contesto storico e
geografico per cercare di ricostruire un suo presunto sistema o passato puro, come

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trasmesso per lo più dalle monografie dell’antropologia classica, non solo aveva
significato ignorare la forza destabilizzante esercitata dal colonialismo su queste società,
ma anche riprodurre una visione coloniale ed essenzializzante degli altri non-occidentali.
Inoltre, sarà sempre più difficile concepire l’etnografia come un processo strutturato
sulla presunta neutralità (di genere, classe, ma anche culturale, ideologica e politica) del
ricercatore, così come non mettere definitivamente in discussione la sua necessaria
influenza sia sulla sua ricerca, sia sui suoi soggetti. Così, da quegli anni in poi, nasceranno
diverse prospettive di ricerca (marxiste, postmoderne, postcoloniali, radicali, militanti,
studi culturali, ecc.) con l’obiettivo di mettere a punto un metodo etnografico aperto,
dialogico (non più monologico) e democratico come presupposto centrale della
produzione del sapere antropologico. Queste autori e correnti daranno per scontata la
necessaria “soggettività” e “parzialità” della ricerca sociale e antropologica, sia da un
punto di vista epistemologico che politico (nel senso che ogni ricerca comporta un suo
uso politico da parte della società e delle istituzioni), ma lavoreranno affinché
antropologia ed etnografia appaiono capaci di restituire una visione o un sapere sul mondo
sociale quanto più possibile scientifico e quindi non una mera riproduzione del senso
comune sociale sui fenomeni indagati. Si imporrà progressivamente l’idea della ricerca
etnografica come un sito di lotta e di responsabilità politica, come un’attività finalizzata a
uno scopo, rompendo così l’idealismo tradizionale riguardo lo spirito “scientifico”
trasmesso dall’accademia, dalle discipline e dalle istituzioni dominanti. Alcune domande
rispetto alla partecipazione degli antropologi ai progetti di ricerca (specialmente
istituzionali, ma anche finanziati da enti privati) non potranno più essere evitate: a) Chi
promuove la ricerca/progetto? b) Quali interessi promuove e per chi?; c) Chi
beneficierà dei risultati?; d) Chi l’ha disegnata, programmata e costruita?; e) Chi la
svolgerà?; f) Chi la scriverà, in che modo diventerà pubblica?; e molto importante, g) in
che modo i risultati verranno restituiti ai soggetti della ricerca;: h) in che modo essi
partecipano del “sapere condiviso” prodotto dalla ricerca.

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Si può dire dunque che dagli anni sessanta in poi l’antropologia cercherà di
affrancarsi sempre di più dalla sua eredità coloniale e dalla sua filiazione come strumento
del potere per il governo della società. Con il rientro in Occidente della disciplina dopo
gli anni della decolonizzazione, ovvero col fatto che dopo questo periodo storico
l’etnografia non verrà più praticata soltanto fuori dall’Europa, l’antropologia apparirà
sempre più “politicizzata” (specie nei paesi del Terzo mondo, ma non solo) e al servizio
dei diversi gruppi subalterni. E’ così che muteranno i luoghi della ricerca etnografia e
della produzione del sapere antropologico, non più soltanto spazi abitati da gruppi
culturali diversi in zone del terzo mondo, ma anche luoghi legati all’esperienza di
dominio vissuta dai principali soggetti e gruppi oppressi dei nostri tempi: spazi
conflittuali ad alta densità di migranti, centri di accoglienza e zone di sbarchi, ghetti
urbani e soggetti marginali delle metropoli, luoghi di lavoro ad alta intensità di
sfruttamento (sweatshops e maquiladoras, ovvero fabbriche nelle zone dell’ex terzo mondo
caratterizzate da uno sfruttamento intensivo del lavoro, ghetti agricoli in alcune zone
dell’Europa del Sud), scuole in zone “difficili”, luoghi di consumo e/o per il tempo
libero abitati dalle diverse sottoculture giovanili, zone caratterizzate da lotte di gruppi
indigeni contro i diversi dispositivi di comando del capitale globale, ecc. Sono stati anche
questi diversi usi dell’etnografia come tecnica di ricerca che hanno aiutato a renderla
indipendente dal suo passato coloniale.

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Lezione III: La costruzione modernista dell’antropologia

Nella considerazione dello sviluppo dell’antropologia come “formazione discorsiva”


o come “campo di sapere sul primitivo” è importante prendere in considerazione un
altro elemento, che eccede i processi politico-economici o materiali (nascita del
capitalismo, estensione del colonialismo-imperialismo) su cui ci siamo sinora soffermati.
Si tratta di un fenomeno culturale, distinguendo qui solo per motivi di comodo il
materiale dal simbolico, di un elemento centrale della “struttura del sentire” (Williams
1978) occidentale di fine ‘800, che ha sicuramente svolto un ruolo importante
nell’accelerazione del processo che ha portato al riconoscimento o alla legittimazione
dell’antropologia come scienza sociale: il “modernismo”. Si tratta di un discorso
fondativo dell’antropologia come scienza che abbiamo già in qualche modo anticipato.
Negli ultimi anni, dallo sviluppo dell’antropologia post-moderna dagli anni ’80 in poi,
diversi autori hanno messo l’accento sui legami tra la storia dell’antropologia e questo
fenomeno. Per modernismo intendiamo qui un movimento artistico e letterario di critica
culturale della modernità (il termine stesso è venuto fuori in questi ambiti), che però non
può essere confinato soltanto a questi campi, poiché si è trattato di una “struttura del
sentire” al centro del pensiero occidentale a cavallo tra ‘800 e ‘900. Il modernismo è
associato sicuramente a nomi come Picasso, Joyce, T. S. Eliot, Conrad, Le Corbusier, ma
può comprendere anche il pensiero di Marx, Weber, Adorno, Benjamin e, come
vedremo, di diversi antropologi (Vedi, per esempio, L’esperienza della modernità, di Marshall
Berman, 1983 o La condizione post-moderna, di David Harvey 1992; Edward Said, Cultura e
imperialismo, 1993; Anne Grimshaw, The Ethnographer’s Eye. Ways of Seeing in Modern
Anthropology, 2001; Clifford, I frutti puri impazziscono, 1988; vedi il saggio Storie del tribale e
del moderno, di Clifford in I Frutti puri impazziscono). Di più: si può sostenere che lo stesso
concetto di cultura così come viene definito da Tylor è un prodotto del modernismo
(Manganaro 1992).

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Se da una parte, l’antropologia nasce intrecciata agli interessi coloniali e imperiali
dell’Occidente, dall’altra la nascita e lo sviluppo del discorso antropologico come scienza
– in particolare, dalla metà dell’800 in poi –apparivano legati alla critica della società
moderna occidentale, intesa questa come lo sviluppo di un processo progressivo di
civilizzazione. E’ in questo contesto che l’antropologia partecipa di una più generale
“narrazione umanistica” tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; tale
narrazione umanistica vedeva la cultura/le culture annegare o morire in una moderna
terra desolata (per riprendere il titolo di quello che è forse il prodotto letterario
modernista per eccellenza, T.S.Eliot) e in cui solo qualche espressione residuale riusciva a
mantenersi autentica, pura, viva e intatta. Con James Clifford (1988), possiamo dire che
l’antropologia moderna classica, la scuola di Boas, il funzionalismo e lo sviluppo della
prima antropologia francese (Marcel Griaule, Michel Leiris, Claude Lévi-Strauss), venne
a creare il proprio spazio discorsivo come disciplina a partire da una certa “retorica
salvifica”: le culture (primitive) si stanno estinguendo, occorre in qualche modo salvarle
o studiarle prima che sia troppo tardi. La ricerca di Boas tra gli Inuit o eschimesi della
Baia di Baffin (Canada) nel 1893 aveva come uno dei suoi presupposti proprio questo
obiettivo. L’intento di Boas qui era quello di documentare il più possibile le pratiche
culturali di questo gruppo prima che esso venisse definitivamente incorporato
dall’espansione della modernità. Margaret Mead definiva questa prospettiva
dell’antropologia di Boas come lo “scavare dentro una cultura”, alludendo qui alle
analogie tra la pratica boasiana e l’archeologia. Lo stesso tipo di “appello” è alla base di
uno dei testi più famosi della storia dell’antropologia: Tristi Tropici (1955, ma consiste nel
viaggio di Lévi-Strauss in America Latina negli anni ’30). Lévi-Strauss definì
l’antropologia a partire da questo tratto modernista e salvifico: l’antropologo esprime il
rimorso dell’occidente nei confronti delle culture altre, dei primitivi o non-occidentale che
sta progressivamente distruggendo con il proprio sviluppo economico e tecnologico.
Per noi, la cosa importante qui è che questo discorso antropologico non farà che
legittimare e fomentare la logica istituzionale o professionale dell’antropologia come scienza
26

(Robbins 1992). Paradossalmente, dunque, si può legare la logica professionale-
accademica emergente dell’antropologia con questa narrazione umanistica sulla scomparsa
o sul declino della cultura, e quindi l’emergere dell’antropologia come scienza, e
dell’antropologo come scienziato, alla scomparsa progressiva dei loro “oggetti”, al loro
“dominio” da parte dell’espansione della civilizzazione capitalistica occidentale (Cfr con
Robbins 1992, ma anche Foucault). L’antropologia, quindi, aveva un interesse nel
contribuire con questa narrazione ideologica del declino o della scomparsa delle culture
primitive. In un saggio molto suggestivo de I frutti puri impazziscono (1988), “Storia del
tribale e del moderno”, Clifford rileva “una complementarietà tra la scoperta dell’arte
primitiva e lo sviluppo del concetto antropologico di cultura” (1988, p. 235).
Nei termini di Michel Foucault, si può dire che il termine cultura, sia nel suo senso di
fenomeno elitario sia nel suo senso di fenomeno popolare (comune), diviene possibile e
desiderabile attraverso la stessa narrazione del suo imminente “collasso” (Manganaro
1992, p. 2). Ed è precisamente in questo contesto culturale europeo che emerse il
concetto tyloriano di cultura come discorso chiave dell’antropologia e delle scienze
umane. Si tratta di uno dei prodotti più noti del cosiddetto “Kultur/Civilisation debate”
nella Gran Bretagna vittoriana, così come lo è anche Il ramo d’oro (1911) di Frazer.
L’enfasi sulla cultura viene proposto qui, da Tylor, come uno dei modi per frenare o
resistere il processo di civilizzazione (omologazione, burocratizzazione,
mecanizzazzione, pietrificazione, morte) che avanza. Vi è un testo uscito due anni prima
in Gran Bretagna, e che ebbe un’importanza simile a quello di Tylor, che ci dice già dal
titolo il programma incarnato dal concetto antropologico di cultura: Culture and Anarchy
del critico letterario Matthew Arnold (1869), ovvero la cultura contro l’anarchia (l’anomia
di Durkheim). L’affermazione della cultura diviene qui possibile solo attraverso
l’articolazione dell’anarchia o dell’anomia sociale (Graff). Ci sono differenze, ma anche
notevoli continuità tra il concetto di cultura di Tylor e quello di Arnold. Entrambi, per
esempio, consideravano la “cultura come un’espressione prodotta da una collettività nel
suo insieme” (la nazione inglese per Arnold, ogni società umana per Tylor). Per
27

entrambi, poi, la cultura “è interamente prodotta dalla società e non ha quindi alcun
punto di riferimento trascendentale”; e proprio per questo l’idea di cultura si riferisce
“non tanto ad un suo qualche attributo singolo, ma alla sua unità, all’unità complessa di
tutti gli elementi che la compongono” (Christopher Herbert, cit in Manganaro 1992, pp.
3). Si tratta di una concezione di cultura che resterà attiva anche nel successivo
funzionalismo.
Abbiamo qui due dei termini al centro dell’attenzione del movimento modernista in
tutte le sue espressioni (antropologia, arte, critica letteraria): “complessità” e “unità”.
L’idea tyloriana di cultura come “totalità complessa” ci dice principalmente che per
comprendere le culture bisogna mettere in luce ciò che le tiene insieme, il modo in cui
interagiscono tutte le sue parti, in cui divengono un’unita unica, ovvero occorre cogliere
la “forma” nascosta che ne determina il senso complessivo. Si tratta di una concezione
alla base della cultura, di ciò che le culture sono, che resterà a lungo primaria
nell’antropologia (Malinowski, Boas, Benedict, Lévi-Strauss, Geertz, Bourdieu, ecc.).
Ma il rapporto tra antropologia e modernismo non si ferma qui. Buona parte dei
modernisti, nella pittura e nella letteratura, erano “primitivisti” (esotisti): nel senso che
esaltando e valorizzando le caratteristiche delle culture primitive criticavano la società
moderna industriale, razionale e scientifica del loro tempo. Forse il testo che più in
assoluto ci dà uno dei migliori esempi delle “strutture del sentire” che hanno
caratterizzato questo periodo è Il tramonto dell’occidente di Oswald Spengler (1922). Non si
può dire che l’antropologia britannica vittoriana fosse in qualche modo convinta
dell’imminente tramonto dell’occidente (anche se il testo di Frazer mostra in modo
contraddittorio le ansie e le paure che attraversano il periodo vittoriano); anzi, gli
evoluzionisti vittoriani (come lo saranno anche i funzionalisti) erano convinti della
superiorità della civiltà moderna industriale inglese, e tuttavia non si può dire nemmeno
che l’antropologia evoluzionista fosse estranea alla critica modernista così in voga
nell’Europa a cavallo tra ‘800 e ‘900. In effetti, uno dei presupposti taciti
dell’antropologia funzionalista britannica era l’inevitabilità del mutamento culturale:
28

dell’occidentalizzazione del mondo. Malinowski e compagni concepivano la
modernizzazione delle società primitive come una sorta di inevitabile teleologia storica,
come una sorta di forza trascendentale, pur schierandosi contro l’evoluzionismo
precedente. Ciò che si prefiggevano i funzionalisti era semplicemente di governare il
cambiamento in modo da evitare soprattutto la resistenza violenta dei colonizzati, cosi
come anche la loro sofferenza o disgregazione psico-ontologica (Leclerc 1971; Falk-
Moore 1994).
Al di là di questo, si può sostenere che alcuni filoni dell’antropologia cercavano in
ogni caso di rivalutare o esaltare, anche se in modo contraddittorio e quasi sempre
paternalistico, e potremmo dire anche coloniale, la differenza o l’alterità delle culture
altre. Si trattava di una rivalutazione che spesso sconfinava nell’esotismo (Affergan 1992,
Esotismo e alterità). Si può sostenere che l’antropologia non tanto evoluzionista, bensì
quella successiva funzionalista, così come la nascente etnologia francese praticata da
Griaule, Leiris e più tardi da Lévi-Strauss, o l’antropologia culturale americana di Boas,
Mead e Benedict (Marcus, Fischer 1994; Clifford 1988) si ponessero come una sorta di
critica culturale dell’occidente stesso. Lo spazio discorsivo dell’antropologia è stato da
sempre quindi ambivalente, si è trattato di uno spazio e di una disciplina di “confine”. Si
può sostenere dunque che l’archivio dell’antropologia si è costituito a partire da una
duplice tensione (Cfr con Leclerc 1971):

a) disciplina figlia del colonialismo, dell’imperialismo, o comunque di una certa ideologia


coloniale-imperiale occidentale; e anche quello che James Clifford chiama la “retorica
salvifica” rientra all’interno della visione di un soggetto imperialista;

b) registro della voce dell’altro, apertura verso l’altro, la differenza culturale. Si è


configurato come un archivio importante per combattere prima il colonialismo e
l’imperialismo e oggi il razzismo.

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Restando sugli evoluzionisti, come spiegare questa tensione tra apertura e chiusura
verso le “società altre”, verso i primitivi: come conciliare le concezioni allora correnti
sulle “società primitive”, una certa loro valorizzazione come “culture umane”, con le
affermazioni sprezzanti e le pratiche distruttrici che sono la regola nei loro confronti?
Come conciliare filantropismo e imperialismo? (Leclerc 1972, p. 22). Non ci
dimentichiamo che gli evoluzionisti vittoriani si autodefinivano, e in un certo senso lo
erano, come dei “progressisti” o “riformisti”. Tylor vedeva l’antropologia come la
“scienza del riformatore”. Innanzitutto, erano riformisti o progressisti nei confronti del
loro antagonista principale: il degenerazionismo. Da questo punto di vista, la loro polemica
antidegenerazionista rientra nella prospettiva riformatrice degli evoluzionisti. Considerare
i selvaggi (i primitivi) come umani era un passo avanti rispetto alle condanne dei
degenerazionisti, che consideravano la civiltà come un “dono divino” rilasciato da Dio
all’uomo e lo stato selvaggio come una “punizione divina” nei loro confronti (Cfr con
Fabietti 1983). E tuttavia, a mostrare in modo evidente le contraddizioni
dell’antropologia vittoriana era soprattutto il concetto di “sopravvivenza” di Tylor. “Le
sopravvivenze erano non solo ciò che testimoniava delle basse origini delle grandi civiltà,
provando in questo modo la realtà del progresso, ma soprattutto residui di una
‘condizione intellettuale di profonda e inveterata ignoranza” (come scrisse Tylor); le
sopravvivenze rappresentavano, nella visione ottimistica del ceto intellettuale borghese e
aristocratico liberal dell’Inghilterra vittoriana, un fenomeno da spiegare e un ostacolo da
superare verso la costruzione di una società umana razionale”. In sintesi, i primitivi
potevano avere il valore di rappresentare una fase primordiale dell’umanità, utile a capire
chi siamo, ma erano concepiti anche come un “ostacolo al progresso”. Inoltre, per gli
evoluzionisti anche se i costumi delle società primitivi potevano apparire razionali dal
punto di vista dello sviluppo e del progresso umano, ciò non stava a significare che i
primitivi fossero di per sé soggetti razionali. La razionalità dei sistemi religiosi o dei
costumi delle società primitive, per gli antropologi vittoriani, è ignota agli indigeni stessi.
Solo la teoria antropologica della cultura primitiva è razionale e non la cultura primitiva
30

di per sé. Come mostra Leclerc, l’antropologia pre-classica vittoriana è finita per gettare
le basi di una differenza/divisione tra la cultura indigena e la civiltà scientifica. E per
Tylor, l’etnografia doveva servire a salvaguardare la civiltà scientifica più che i “primitivi”
o le “sopravvivenze culturali”. Era questo il ruolo che egli riservava all’antropologia e
all’etnografia nelle società moderne. Ciò equivale a dire che una volta comprese
dall’analisi, le culture primitive (le sopravvivenze) dovevano sparire e lasciare il posto alla
civiltà (Leclerc 1972). In altre parole, il primitivo faceva parte del genere umano, ma era
considerato anche un intralcio al “progresso” (Cit Spencer in Lindqvist).
Ma la tensione costitutiva che attraversa l’antropologia è rappresentata anche da altri
fenomeni. Basti pensare, per esempio, all’opera dei primi antropologi non occidentali,
come Jomo Kenyatta o Cheik Anta Diop. Si tratta di scritti che esprimono questa
contraddizione dell’antropologia. Kenyatta: antropologo, studente di Malinowski e anche
militante anticoloniale, padre fondatore del Kenia indipendente. O pensate anche
all’antropologia sociale in America Latina negli anni ’70: essere antropologo in questi
anni, e ancora oggi, significava stare dalla parte degli oppressi e schierarsi apertamente
contro il dominio imperiale del sistema economico e culturale occidentale. Nell’America
latina di questi anni – soprattutto in Messico, Brasile, Perù e Argentina – l’antropologia
veniva auto-rappresentata come una scienza militante, al servizio degli indigeni e dei suoi
eredi. In America Latina, l’antropologia veniva concepita come uno mezzo fondamentale
sia per una comprensione non più inferiorizzante ed eurocentrica delle culture indigene
autoctone, ma anche per una loro necessaria rivalorizzazione all’interno di un
programma politico orientato all’emancipazione dei gruppi indigeni. In questa parte del
mondo, vi è stata dunque una certa decolonizzazione dell’antropologia. Ma una
decolonizzazione dell’antropologia non può non passare attraverso la decolonizzazione
del suo metodo di conoscenza, ovvero dell’etnografia. E’ possibile costruire
un’antropologia post-coloniale? E ciò a cui stiamo cercando di rispondere.

31

Lezione IV: Sapere e potere, l’antropologia e l’episteme di fine ‘800

Nelle prime lezioni abbiamo cercato di contestualizzare il processo di


istituzionalizzazione dell’antropologia, ovvero il suo cominciare a divenire una “scienza”
riconosciuta e legittima. La nostra concettualizzazione può essere meglio intesa come
“decostruzione” (decolonizzazione) della disciplina: ciò che in effetti stiamo cercando di
fare è mettere in luce quello che Michel Foucault ha chiamato la “condizione di
possibilità” o di emergenza del “discorso antropologico”.
Ma cosa intendiamo come condizione di possibilità dell’emergere dell’antropologia
come scienza? Come prima cosa, localizzare una serie di eventi (discorsivi e non-discorsivi),
discorsi e processi che hanno favorito l’emergere dell’antropologia come “campo
specifico di indagine scientifica”, come disciplina con un oggetto (le società primitive),
un concetto (cultura, studio delle culture “primitive”) e un metodo (etnografia).
Ricordiamone alcuni:

a) lo sviluppo della visione umanistica e illuminista nel pensiero europeo. Diciamo


ciò che intendiamo con questa affermazione in modo un po’ più elaborato: 1)
innanzitutto l’umanesimo, il venire al centro del mondo di un’idea particolare
di Uomo, dell’uomo in quanto “cogito” o “coscienza” capace di porsi al di
sopra di ogni determinazione culturale (Si pensi alla prospettiva tipica della pittura
nel rinascimento, ragione, scienza, Cartesio come punto culminante di questa
formazione). Enrique Dussel, autore argentino della corrente decoloniale, ha
posto in correlazione il rapporto tra colonialismo e umanesimo da un altro
punto di vista: egli suggerisce di pensare il dubbio di Cartesio come un
prodotto diretto anche del dubbio Cortes: sono umani gli indigeni o no?
b) poi la visione illuminista, o il fatto che il mondo sociale, come quello fisico,
deve essere indagato cercando di conoscere le leggi attraverso cui esso è

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organizzato (Newton). In sintesi, per il progressivo consolidarsi della visione
umanistico-illuministica rispetto al mondo sociale, dobbiamo intendere il
presupposto secondo cui l’uso della ragione, lo sviluppo della scienza o di un
metodo scientifico finalizzato alla scoperta delle leggi che organizzano il
sociale è essenziale al “buon governo” della società, a un “governo razionale”
e quindi essente di pregiudizi e stereotipi, in favore del “bene comune”.
Tuttavia, lo sviluppo di questa visione umanistico-illuministica è stata
accompagnata dal lento formarsi di una “filosofia della storia”, di ciò che
vogliamo chiamare una “grande narrazione occidentale”, (teleologica ed
evoluzionistica) incentrata attorno alla nozione di progresso – e che arriverà a
compimento a metà Settecento. Ciò che ci interessa qui mettere in luce su
questo secondo aspetto, è che il lento formarsi di una “grande narrazione
occidentale” presupponeva un ragionamento sulla “specificità” della civiltà
moderna europea rispetto ad altre forme di società, in particolare dopo la
conquista dell’America e con la progressiva espansione coloniale dell’Europa
dal Cinquecento in poi.

In definitiva, il filo conduttore che stiamo seguendo, che si concentra su ciò che
abbiamo chiamato il “lato oscuro dell’antropologia”, colloca nell’intersecazione di questi
elementi e processi, sintetizzabili nell’emergere e nello sviluppo di umanesimo, capitalismo,
colonialismo e illuminismo, le “condizioni di possibilità” (o l’apertura progressiva) di quello
che può essere definito come uno “spazio discorsivo” riguardante il selvaggio e il
primitivo. Più nello specifico, per il discorso che riguarda l’istituzionalizzazione
dell’antropologia come scienza dell’uomo (primitivo) in Gran Bretagna, occorre
menzionare:

a) l’espansione coloniale e imperiale della Gran Bretagna, in particolare, come vedremo,


dalla seconda metà dell’Ottocento in poi;
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b) il consolidarsi di una visione evoluzionista e positivista nelle scienze naturali, dalla
seconda metà dell’Ottocento in poi, in particolare dopo la comparsa di testi come
L’origine delle specie (1859) e L’origine dell’uomo (1871) di Darwin o Principles of Geology (1830)
di Charles Lyell, un testo che ebbe grande influenza sullo stesso Tylor. Geologia e
Archeologia storica sono alla base del metodo comparatista e delle concezioni degli
evoluzionisti, nel senso che le scoperte in queste due aree consentivano di mettere in
rapporto i primi abitanti dell’Europa ai selvaggi (Cfr con Fabietti, 1983);

C) Infine, il diffondersi a cavallo dei due secoli di una “struttura del sentire” modernista
nel pensiero europeo; di un interesse per la “cultura”, per le culture altre, di fronte
all’occidentalizzazione del mondo, all’omologazione culturale; in questa visione, la
cultura è vista anche come spontaneità, vitalità e autenticità, come rimedio al progresso e
allo sviluppo della civiltà moderna (intesa come meccanizzazione, burocratizzazione,
artificialità, soffocamento degli istinti vitali).

La nostra concettualizzazione tende a mettere in luce qualcosa di specifico: la


dimensione politica della costituzione dell’antropologia come “scienza”, della sua stessa
“condizione di possibilità”, ovvero il suo legame con il potere o, per riprendere
un’espressione di Michel Foucault, con “l’ordine del discorso occidentale moderno”
(Foucault 1971). Per comprendere meglio quanto abbiamo detto sul processo di
istituzionalizzazione dell’antropologia può essere utile riportare un’affermazione di
Michel Foucault, presente anche nel manuale (p.21):

“le discipline non creano i loro campi di significato, esse legittimano soltanto
una particolare organizzazione di significati. Filtrano e ordinano discorsi – e in
questo senso disciplinano i discorsi che spesso le anticipano”.

Cosa ci sta dicendo Foucault qui? Come prima cosa, che la costituzione delle scienze
sociali dipende dall’esperienza sociale esterna ai loro campi e non viceversa. In linguaggio
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foucaultiano, è la produzione sociale di discorsi a organizzare la discorsività – il campo –
delle scienze sociali. E Foucault per discorsi intende discorsi prodotti e disseminati dal
potere, necessari al potere per l’istituzione di un certo di soggettività sociale. Nella
visione di Foucault, le scienze sociali fanno parte di un determinato “campo del sapere”
prodotto dal potere, e quindi hanno come obiettivo essenziale il “controllo sociale”.
Aggiungiamo qualche altra citazione, tratta da L’archeologia del sapere (1969), per
mettere meglio in chiaro quanto stiamo dicendo e chiarire il significato di concetti
foucaultiani come appunto “campo del sapere” o “formazione discorsiva”:

“L’archeologia fa apparire dei rapporti tra le formazioni discorsive e i campi


non discorsivi (istituzioni, avvenimenti politici, pratiche e processi
economici). Davanti a un complesso di fatti enunciativi l’archeologia non si
chiede cosa abbia potuto motivarlo; cerca invece di determinare di che modo
le regole di formazione da cui dipende (e che caratterizzano la positività a cui
appartiene) possono essere legate a sistemi non discorsivi: cerca di definire
delle forme specifiche di articolazione” (p. 214).

“Se l’archeologia accosta il discorso medico (antropologico) a un certo


numero di pratiche, lo fa per scoprire non rapporti immediati fra le due sfere,
ma molto più diretti di quelli di una causalità assunta dalla coscienza dei
soggetti parlanti. Essa vuole mostrare non come la pratica politica abbia
determinato il senso e la forma del discorso medico, ma come e a che titolo
questa faccia parte delle sue condizioni di emergenza e di funzionamento”
(p. 216).

Nel nostro caso specifico, si tratta quindi di mostrare in che modo il discorso
antropologico medico come pratica che si rivolge a un certo campo di oggetti (il quale si
trova nelle mani di un certo numero di individui statutariamente designati, e che deve
esercitare determinate funzioni nella società) si articoli su pratiche che gli sono estranee e
che non sono di natura discorsiva (p. 217).
Per esempio, se seguiamo Foucault, come noi abbiamo fatto, si può dire che
l’antropologia come scienza è uno dei prodotti dell’apertura nei settori chiave della

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produzione della conoscenza in Europa di un “campo di sapere” sul primitivo o non
occidentale. E l’apertura di questo campo dipendeva anche da eventi non-discorsivi, come i
rapporti coloniali di forza, (che si sono tradotti in un insieme di istituzioni, compagnie
commerciali o monopoli economici, più tardi istituti di ricerca, politiche di governo
coloniale, musei adibiti all’esposizione di oggetti e artefatti delle culture altre, ecc.).
Tutto sommato, quello che abbiamo chiamato “campo del sapere” sui primitivi che
si è aperto a partire dalla conquista dell’America può essere considerato uno sviluppo
intrinseco di quella “formazione discorsiva” che Foucault chiama “epoca classica”, e che
dal rinascimento al XIX secolo ha sviluppato l’epistemologizzazione di tante positività
(p. 256). Questo equivale a dire che le scienze sociali hanno una storia, ovvero che sono
il prodotta della storia e dei suoi conflitti legati al governo delle società: le scienze sociali
si sono istituzionalizzate a un certo punto della storia e sono state istituite come discorsi
sulla società e sulle società e gruppi culturali particolari . Le discipline vengono pensate da
Foucault come un’estensione necessaria della nascita della società disciplinare (Sorvegliare e
punire, 1975): come parte di un processo di disciplinamento generale del soggetto
moderno. In sintesi, per Foucault la produzione di saperi – discipline, scienze - non può
essere vista indipendentemente da problematiche che sorgono all’interno del potere,
ovvero, possiamo dire sulla traccia di Adorno e Horkheimer, dalla logica
“dell’amministrazione della società”.
Qui stiamo parlando dell’antropologia, ma possiamo pensare anche ad altri esempi:

a) l’economia politica: si costituisce come disciplina autonoma e sistematica, come


scienza del capitale (Marx), quando il sistema economico capitalistico acquista una
sua autonomia, ovvero alla fine del XVII sec, economisti mercantilisti e poi Smith,
Ricardo e J. S. Mill (tra il 1750 e il 1850);

b) la sociologia: nasce come conseguenza delle tensioni e conflitti emersi con lo sviluppo
della società industriale in Europa. Il paradigma della coesione sociale in Comte e
Durkheim diventerebbe inspiegabile senza questo contesto sociale. Comte e Durkheim

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hanno elaborato le loro teorie sociologiche sulla società come risposta politica a questo
momento;

Vi è dunque un periodo di sedimentazione di quello che sarà il discorso


antropologico, e che si estende dall’apertura del campo di sapere sull’indigeno e sul
primitivo con la conquista dell’America fino all’istituzionalizzazione dell’antropologia
come scienza. Se la tesi di Foucault è che le scienze appaiono come elemento di una
“formazione discorsiva” più ampio e su uno sfondo di “sapere” (p. 240), la nostra tesi è
che l’antropologia appare come elemento dell’epoca classica e sullo sfondo di un sapere
sul selvaggio o primitivo a cui questa ha dato luogo. Può essere interessante qui notare
che Foucault non ha incluso l’esperienza coloniale nella formazione dell’episteme
moderno e che lui chiama “epoca classica”. Ma cerchiamo di dare a questo processo un
carattere meno generico, ovvero di capire in che modo il “campo di sapere sul selvaggio
o sul primitivo” ha portato verso la fine dell’800 alla positività dell’antropologia come
scienza. Cerchiamo quindi di rispondere a una domanda piuttosto semplice: come e
perché è emerso all’interno della cultura occidentale moderna europea un “campo di
sapere” riguardante il selvaggio e il primitivo?

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a) Il barbaro come antecedente del selvaggio/primitivo. Naturalmente, vi è’ sempre stato,
all’interno di quello che consideriamo la cultura occidentale, una riflessione sull’altro. Già
i greci avevano coniato la parola “barbaro”, che è un antecedente, se vogliamo, di quella
di selvaggio e primitivo. E alcune delle caratteristiche attraverso cui definivano i popoli
barbari – i persiani, gli orientali – verranno a confluire nell’idea di selvaggio e di
primitivo, intesi come qualcosa di opposto alla condizione di vita civile. Barbari, in
effetti, erano coloro che non erano in grado di darsi un sistema politico (polis, città) o
democratico e che quindi vivevano in una sorta di “condizione naturale” dove governava
il più forte e basta. Non erano “animali politici”, per dirla con Aristotele. Chiaramente,
essere barbari, a partire da questo punto di vista, significava anche non avere
“consapevolezza di se”. Solo l’essere umano, dotato di coscienza, è capace di porsi al di
sopra dei condizionamenti sociali, e porsi al di sopra significa in qualche modo avere la
capacità di “autogovernarsi”. Per i greci, i persiani non erano capaci di “autogovernarsi”,
erano soggetti inferiori (non esisteva però alcuna teoria pseudo-biologica sull’inferiorità
degli orientali, non avevano alcuna idea di “razza” che si fondasse sulla biologia o la
genetica). Erano in qualche modo il passato della Grecia. Non vivevano quindi nello
stesso tempo storico dei greci.
Si pensi, per esempio, quanto vi resterà di questa concezione nel colonialismo
moderno: uno dei presupposti del diritto del governo coloniale degli europei sulle
colonie era il fatto che queste erano incapaci di governarsi, dovevano essere governati o
si doveva insegnare loro come esercitare “l’arte del governo”. Persino la dichiarazione
della Società o Lega delle nazioni, alla fine della prima guerra mondiale, consegnava
ufficialmente alla Gran Bretagna e alla Francia buona parte dei territori persi dal vecchio
impero turco come “mandati” o come “colonie”, sotenendo che questi territori
“venivano posti sotto tutela di queste nazioni europee finche essi fossero in grado di
autogovernarsi”. Le nazioni europee dovevano condurli all’autogoverno.
Ma si pensi anche a un’altra concezione che comporta l’idea di “barbaro” come
condizione quasi naturale (quasi animalesca): chi non ha la politica, non ha
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consapevolezza di se né del mondo, vive quindi fuori dalla storia. Il barbaro - il non
occidentale - non vive in una condizione storica, bensì naturale. Si tratta di un’idea
dell’altro che resterà a lungo all’interno della cultura occidentale: l’idea di società o popoli
senza storia. E che forse troverà il suo massimo compimento nella filosofia della storia di
Hegel (1770-1831), espressa nella Fenomenologia dello spirito (1807) e nelle Lezioni sulla
filosofia della storia: Africa e America Latina, per Hegel, sono fuori dalla storia, non hanno
dato nulla all’Europa o allo spirito, restano società imprigionate alle loro sensibilità e
emozioni: ovvero popolate da soggetti senza coscienza. Secondo Hegel, la storia dello
spirito si è mossa dall’Oriente all’Occidente. Il sud del mondo ne è fuori. In questo
contesto, per esempio, che dall’700 buona parte della ricerca dei linguisti europei sarà
orientata alla ricerca della lingua ariana, ovvero di una lingua madre di tutte le lingue. Ma
più nel nostro specifico, va ricordato anche l’antropologia sociale britannica –
funzionalista - si farà promotrice dell’idea che le società primitive o semplici vivono in
una condizione senza storia, anche se, come è noto, i funzionalisti finiranno poi per
mettere in luce quella che consideravano la dimensione diacronica o storica delle società
che studiavano (Vedi Falk-Moore).
In ogni caso, l’idea che i nativi non hanno “coscienza di sé” plasmerà anche il
rapporto tra antropologo e nativo (e la stesso significato di “nativo”), e definirà in modo
sostanziale la “colonialità” di quello che possiamo chiamare “l’incontro etnografico”,
almeno fino agli anni ‘60. Solo l’antropologo è in grado di dedurre le vere condizioni di
vita, ovvero le regole sociali, che governano i sistemi indigeni. L’antropologo francese
Leclerc ha mosso questa critica a Tylor. Ma in realtà si tratta di qualcosa che va molto
oltre e che arriva perfino ai più contemporanei, come per esempio Lévi-Strauss. Anche
per Lévi-Strauss, l’antropologo “professionale”, e addestrato al metodo scientifico
dell’etnologia, è l’unico in grado di conoscere “le regole di funzionamento della cultura”.
Sarà il processo di decolonizzazione nato a partire dal 1947 a mettere in discussione tale
presupposto: è proprio quando l’altro ha cominciato a parlare che è venuta fuori la
colonialità dell’antropologia e dell’etnografia. Per finire il nostro discorso sui barbari, va
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detto che se per i greci i barbari erano gli orientali, per i romani saranno tutti coloro che
non appartenevano all’impero romano, e dal medioevo in poi i barbari saranno i non-
cristiani.

b) La conquista dell’America e l’irruzione del selvaggio. Tuttavia, con la conquista


dell’America comincia a comparire una figura nuova:, che sostituirà quella del barbaro,
ovvero il selvaggio. Come vedremo più avanti, è con la conquista dell’America che
emerge la figura sia del “buon selvaggio” (Rousseau) che del “cattivo selvaggio”
(degenerazionisti, Buffon, ma anche Thomas Hobbes (1588-1679), e gli illuministi
francesi e scozzesi, come Turgot e Ferguson). Dal 1492 in poi, tutti però concorderanno
sempre di più con quanto il filosofo John Locke (1632-1704) aveva affermato nel suo
Due trattati sul governo (1690): “Al principio tutto il mondo era come l’America. L’America
è ancora un esempio delle prime età dell’Asia e dell’Europa”. Dalla conquista
dell’America comincia a prendere corpo progressivamente quella grande “filosofia della
storia”, o grande narrazione europea, che sarà alla base dell’antropologia evoluzionista e
che troverà, come abbiamo detto, nel sistema hegeliano la sua massima
sistematizzazione.
Un momento importante nella configurazione di questa filosofia della storia, sarà la
cosiddetta “Teoria dei quattro stadi”, secondo cui, tutte le società si evolvono a partire
da 4 stadi, che fungono come le leggi della storia: selvaggio (o primitivo), barbaro,
agricolo e commerciale. Questa teoria verrà a compimento lungo il ‘700, e verrà in
qualche modo promossa dagli illuministi francesi (come Turgot) e da quelli scozzesi
(come Adam Smith e Adam Ferguson). La successione barbaro–selvaggio-Primitivo nella
definizione dell’altro non-europeo, o degli stadi più inferiori della storia, non deve essere
vista come qualcosa di lineare e coerente. Non è che da un certo momento in poi il
primitivo sostituisce il selvaggio come ideal-tipo dello stadio inferiore. Selvaggio e
primitivo resteranno quasi sinonimi fino all’epoca di Darwin: con Adam Kuper possiamo
dire che sarà solo con le teorie di Darwin che, soprattutto nell’antropologia, si parlerà
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sempre di più del “primitivo” come categoria scientifica e non più di selvaggio, che verrà
considerato, dagli antropologi, come una categoria frutto di una semplice speculazione
filosofica; come una categoria non “scientifica”. Ricordiamoci che l’antropologia nasce
come “scienza del primitivo”. Tuttavia, i tre stadi di Tylor sono savagery- barbarism –
civilization.

Breve ex-cursus: la teoria dei quuatro stadi e l’illuminismo in Francia e scozia

Le idee degli evoluzionisti sullo sviluppo della storia umana in virtù del passaggio
dei diversi stadi attraverso cui dovevano passare tutte le società non sono sorte dal nulla.
Traggono linfa dalla cosiddetta teoria dei “quattro stadi” che venne messa a punto tra il
1750 e il 1770 in Francia e Scozia. Dobbiamo a Jacques Turgot e ad Adam Smith il
compimento di tale teoria. I “quattro stadi” previsti da questa teoria sono: a)
selvaggio/primitivo – b) barbaro- c) agricoltura - d) civile. Va detto che sono i modi di
sussistenza a caratterizzare i diversi stadi secondo questi autori: a) caccia e raccolta; b)
pastorizia; c) scoperta dell’agricoltura; d) commercio-industria. Si può dire che essi, pur
non essendo marxisti, avevano una concezione materialista dello sviluppo storico.
Secondo Ronald Meek (autore a cui dobbiamo il reperimento della teoria dei
quattro stadi come struttura profonda del pensiero filosofico moderno occidentale), la
teoria dei quattro stadi viene da molto lontano. Il primo autore su cui egli si focalizza è
Lucrezio, e sul suo De Rerum Natura. Secondo Lucrezio, nell’età primitive gli uomini si
impadronivano semplicemente da ciò che dava la loro terra e inseguivano la
caccia alle bestie, “armati di fionde e clave”. Poi, prosegue Lucrezio, quando gli uomini
appresero a costruirsi delle capanne e a ricoprirsi di pelli, a usare il fuoco e quando la
donna congiuntasi con l’uomo prescelto da lei volle essere fedele compagna di letto, i
vicini cominciarono a sentire il bisogno di stringere tra loro amichevoli rapporti, di non
recarsi offesa e nacque cosi il linguaggio. I più coraggiosi fondarono delle città, divisero i
campi e il bestiame secondo la bellezza di ciascuno e il loro valore. Poi fu scoperto l’oro
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e ciò condusse a lotte per il potere, cosi si decise di fissare delle leggi per regolare i
conflitti e alle quali gli uomini stanchi di vivere sotto la violenza decisero di
sottomettersi.
Oggi possiamo dire che Lucrezio ragionava in senso antropologico per spiegarsi lo
sviluppo dell’umanità, ma al di là dell’ingenuità che può mostrare oggi questa sua teoria, è
qui importante per noi capire da quanto lontana veniva l’idea sulla presunta (poiché falsa
come vedremo) promiscuità originaria come stadio dell’uomo primordiale. Ma passiamo
ora ai due principali esponenti di questa teoria nell’epoca dell’illuminismo in Francia e in
Scozia.

a) Jacques Turgot, I progressi dello spirito umano (1751).

Secondo Turgot, il genere umano ha attraversato diversi gradi o stadi nel suo
cammino dalla barbarie alla civiltà. Nel mondo contemporaneo, egli prosegue,
sopravvivono ancora i ricordi e le tracce dei passi compiuti dallo spirito umano (abbiamo
qui un’anticipazione dell’idea di sopravvivenza di Tylor). Così, le infinite variazioni nella
disuguaglianza fra le nazioni riflettono la storia di tutti i tempi. Turgot sostiene anche che
dopo la confusione delle lingue i popoli furono immersi in una “barbarie identica a quella
in cui vivono oggi gli indiani d’America”. Ma è nel suo “Due discorsi sulla storia
universale (1752), che egli ci consegna la sua teoria pronta. Punto di partenza qui è il
diluvio: stato dei cacciatori era il primo stadio di sviluppo, impossibili nutrirsi altrimenti
nella foresta. In questo stadio, gli uomini non hanno una dimora fissa e sono
seminomadi: si spostano dove la caccia li porta. Il modo di sussistenza di questo stadio è
identico a quello degli “odierni selvaggi d’America. Poi accosterà attività come “pastore”,
“agricoltore” e “commerciante” a diversi tipi di società, esplicitamente concepiti come
susseguitesi nel tempo. Perviene quindi a un’idea compiuta secondo cui le società
progrediscono attraverso il passaggio di una serie di stadi successivi. E’ importante qui
ricordare che Turgot aggiunge poi che l’assenza di disuguaglianze è il vero segno
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dell’inferiorità dei selvaggi rispetto alla società civile francese. Turgot dunque vede come
positiva la disuguaglianza che caratterizza la società moderna francese, dato che è proprio
la disuguaglianza ad apparire qui come precondizione necessaria del diffondersi della
divisione del lavoro, dello scambio e del commercio e quindi della civiltà.
Paradossalmente, la società primitiva è vista qui come inferiore perché caratterizzata da
una tendenziale uguaglianza nella distribuzione del potere e da una quasi inesistente
gerarchia sociale.

b) Adam Smith e la sua teoria dei quattro stadi.

Verso il 1761 ci consegna la teoria dei quattro stadi compiuta. Già nel 1755 in una
lettera aveva criticato la teoria del progresso della società di Rousseau. Ciò che interessa a
Smith è soprattutto capire l’origine della proprietà privata, delle diverse forme di governo
moderne e della mentalità commerciale o capitalista. Il fondatore dell’economia politica
identifica qui quattro stadi ben distinti: età dei cacciatori – età dei pastori – età
dell’agricoltura – età del commercio. Da rilevare qui che Smith ha una teoria materialista
dello sviluppo sociale, poiché il passaggio da uno stadio all’altro dipende dall’attività di
sussistenza o dalle forme economiche. Per Smith, come per Turgot, la società primitiva è
tale (inferiore) perché non conosce né la proprietà privata né una mentalità di tipo
capitalista orientata al mercato e all’accumulazione di capitale.
Nonostante i loro giudizi negativi sulle società non-moderne o primitive, tanto
Turgot quanto Smith credevano comunque che le società primitive avessero alcune
qualità migliori rispetto alle società europee. Avevano quindi una teoria del “buon
selvaggio”. In ogni caso, occorre sottolineare che l’unica vera eccezione su questo punto
fu Rousseau, che riteneva la società europea a lui contemporanea inferiore a quelle
selvagge o primitive. Egli considerava nobili gli indiani D’America e affermava che il
progresso finiva con queste società (da qui Lévi-Strauss lo scegliesse come il padre
fondatore del discorso antropologico). Per tutti gli altri filosofi moderni (come Smith e
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Turgot), l’Europa del tempo era superiore alle società primitive o non europee grazie
all’esistenza di alcune istituzioni e di fenomeni come l’ineguaglianza, il diritto di
proprietà, l’accumulazione di capitale.
Per di più, per buona parte della filosofia moderna occidentale le caratteristiche che
muovevano la società moderna – gerarchia, proprietà, accumulazione di capitale,
atteggiamento capitalistico - venivano concepite come una legge sociale metafisica valida.
La mano invisibile stava a simbolizzare una legge della storia, un ordine sociale
metafisico quasi naturale o divino. Ed era il libero sviluppo di questa mano a determinare
il progresso sociale, materiale e il bene comune. E’ chiaro che le società governate da
altre logiche – come quelle non occidentali o primitive, dove mancano queste cose –
verranno sempre più concepite come solo un intralcio allo sviluppo del benessere
umano. Il “buon selvaggio” era allo stesso tempo un cattivo selvaggio: se le società
primitive potevano avere qualche qualità migliore di quelle europee, per buona parte del
pensiero europeo moderno erano allo stesso tempo società oramai inutili e che non
facevano che ostacolare il progresso.
Trapela all’interno di questa teoria dunque tutto l’eurocentrismo coloniale di cui era
intriso buona parte del pensiero europeo moderno. E’ chiaro poi che lo sviluppo della
teoria quattro stadi sarebbe stato impensabile senza la conquista dell’America. Si pensi,
come ultimo esempio, al “cattivo selvaggio” di Thomas Hobbes nel Leviatano (1651). Per
Hobbes, come è noto, la condizione naturale dell’umanità è quella della guerra di tutti
contro tutti e l’esempio di tale condizione sono, per il filosofo inglese, ancora gli “indiani
d’America”. Secondo Hobbes, “La vita dell’uomo primitivo è misera, solitaria,
sgradevole, brutale e breve”. La concezione di Hobbes è importante per la teoria dei
quattro stadi: per l’autore del Leviatano la società può progredire in un senso o nell’altro, e
questo concetto di progresso sarà incompatibile con qualsiasi idealizzazione primitivista
del primo stadio. L’affermazione di Hobbes renderà difficile per lungo periodo qualsiasi
idealizzazione dello stadio primitivo.

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La formazione dell’antropologia come “campo di sapere sul primitivo”.

Ciò che qui è importante ricordare, come si diceva, è che l’antropologia rappresenta
uno sviluppo dell’apertura di un “campo del sapere” riguardante il selvaggio, le società
primitive o non occidentale nella cultura europea, in particolare dalla conquista
dell’America, ovvero dalla nascita della modernità (capitalistica). A questo punto irrompe
la seconda domanda cui cerchiamo di rispondere con la nostra genealogia
dell’antropologia: cosa ha fatto si che si aprisse questo “campo del sapere” come campo
più specifico rispetto a prima. La riflessione sull’altro, come abbiamo detto c’è sempre
stata, ma l’avvento della modernità capitalistica, proprio perché aveva come spinta
propulsiva il capitalismo – che non esisteva prima e che si configurerà come un sistema
politico-economico radicalmente diverso da quelli precedenti – farà si che la domanda
sul primitivo (che in realtà era anche una domanda sul sé) divenga qualcosa di piuttosto
fondamentale. Ma perché? Vediamo i motivi:

1) l’imponente espansione coloniale dell’Europa che il capitalismo ha comportato,


diversa dalle altre. Possiamo assumere il colonialismo – il rapporto di forza tra
colonizzatori e colonizzati, la violenza insita in questo rapporto di gerarchia totale e
che darà luogo a diverse istituzioni politiche (governi coloniali, compagnie coloniali,
diverse forme di proprietà coloniali, la piantagione, il latifondo, ecc.) - come
l’elemento non-discorsivo di questo “campo di sapere” sul primitivo. Queste pratiche
politiche ed economiche “coloniali” fanno parte delle condizioni d’emergenza di
questo “campo del sapere” sul selvaggio, indigeno o primitivo; di questo spazio
discorsivo in cui qualcuno “parla” e un altro “è parlato”. E man mano che il progetto
della colonizzazione si farà più intensivo vi sarà sempre maggior bisogno di
conoscere per dominare, per governare: è in questo momento che comparirà la figura
dell’antropologo e l’antropologia come disciplina o discorso scientifico e
professionale;
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2) Ma il campo di sapere sul selvaggio deve la sua formazione, oltreché al colonialismo
o alle pratiche coloniali, anche alla natura stessa del capitalismo, agli sviluppi a cui ha
dato luogo. Lo sviluppo del capitalismo coloniale fu alle origini di un divario
tecnologico ed economico sempre maggiore tra le nazioni europee e il resto del
mondo. E le élite europee furono progressivamente sempre più consapevoli di
questo divario, in particolare a partire dagli effetti della prima rivoluzione industriale.
L’intellighentzia europea ebbe sempre di più la consapevolezza, da questo momento
in poi, di vivere in una sorta di transizione profonda, da una condizione premoderna
a una moderna determinata dalla dinamicità dei rapporti socioeconomici che organizzavano
all’epoca i paesi europei più avanzati. E cosi vi fu sempre maggior consapevolezza, come
abbiamo visto con la teoria dei quattro stadi di Turgot e Adam Smith, di come il
sistema capitalistico bassasse la sua dinamicità rispetto agli altri sistemi sulla
combinazione di tre elementi – diritto alla proprietà privata e al profitto, accumulazione di
capitale e produzione finalizzata al mercato e non ai beni d’uso.

La combinazione di questi tre elementi rese il capitalismo un sistema unico nella


storia, possiamo dire che esso rappresentò una sorta di inversione della condizione umana
nella storia. La riflessione sulle origini di questi tre elementi – accumulazione di capitale,
proprietà privata e mercato – sommati a quello sulle forme di governo - portò a una
sempre maggior considerazione di altri sistemi politici ed economici. In breve: la
preoccupazione progressiva nel comprendere le origini dell’atteggiamento capitalistico, della
proprietà privata e delle forme moderne di governo, rappresentò una linfa vitale nella
costituzione di questo “campo di sapere” sul selvaggio e il primitivo. Sono due in
particolare gli interrogativi, originati dall’eccezionale sviluppo del sistema capitalistico,
che hanno contribuito in modo essenziale alla formazione di questo campo del sapere, in
cui emergerà l’antropologia come scienza: cosa ci distingue dalle altre società? Come siamo
arrivati a questo punto? (Vedi Arrighi, Pomeranz, Gunder Frank, ecc.).
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Chiaramente, a questo occorre aggiungere il fatto che queste riflessioni si svolgevano
all’interno di una feroce concorrenza imperialista tra le nazioni europee: e la riflessione
dei diversi autori (Locke, Hobbes, Durkheim, Weber, ecc.) su questi elementi aveva
come scopo ultimo la volontà di contribuire allo sviluppo “della ricchezza della propria
nazione”. In termini semplici, cercando di capire le differenze tra le società capitalistiche
moderne e quelle non organizzate da questo modo di produzione, oppure cercando di
comprendere le leggi dello sviluppo sociale, si cercava di rispondere a questa domanda:
cosa dobbiamo fare, come ci dobbiamo regolare, che forma di governo dobbiamo adottare, per prevalere
sulle altre nazioni?
Da quanto stiamo dicendo, emerge con chiarezza la centralità – materiale e simbolica
o culturale - dell’esperienza coloniale nella formazione del mondo moderno e
contemporaneo. Non si può pensare la modernità capitalistica senza l’esperienza
coloniale. Si può dire, in termini foucaultiani, che il colonialismo rappresenta una delle
grandi “formazioni discorsive” della modernità. Per dirla con Said in Cultura e
imperialismo: la cultura moderna occidentale e l’esperienza dell’imperialismo/colonialismo
sono due elementi indissociabili. Nel senso che la cultura moderna europea alimentò
l’esperienza coloniale e imperiale, e viceversa l’esperienza materiale di dominio coloniale
fu un elemento centrale nella produzione culturale moderna europea. Inoltre, tutto
questo ci fa capire che la modernità capitalistica non fu un prodotto europeo o il
prodotto di uno sviluppo “intraeuropeo”, bensì la conseguenza di un processo di
dimensione “globale” (Vedi Quijano). In breve: il colonialismo è l’esperienza chiave nella
costituzione della modernità: sia delle sue strutture materiali (economiche, politiche,
sociali) sia dei suoi discorsi e categorie di rappresentazione.

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Lezione V: L’imperialismo e l’istituzionalizzazione dell’antropologia

Tuttavia, ciò che ha preparato in modo più immediato il momento


dell’istituzionalizzazione dell’antropologia verso la fine dell’800 è stato quello che
possiamo l’avvio “una politica di colonizzazione sistematica” o una “penetrazione più
profonda” delle colonie e dalla corsa alle colonie da parte dei paesi europei (nuovo
imperialismo) nella seconda metà dell’800. E’ la tesi di Gérard Leclerc in “Antropologia
e colonialismo” che noi seguiremo, cercando di renderla meno generica.
Come mostrato da Lenin in L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1916),
l’imperialismo di questo periodo era mosso dalla necessità dei diversi capitali
monopolistici di assicurarsi, da una parte un rifornimento costante di materia prime e,
dall’altra, di nuovi mercati in cui collocare i loro eventuali manufatti. Si tratta di un
momento che vede un aumento della concorrenza imperialistica e che aveva come spinta
propulsiva la seconda rivoluzione industriale: l’egemonia della Gran Bretagna nel mondo
viene sfidata soprattutto dalla Germania, e meno indirettamente dagli Stati Uniti, ma
anche da Francia, Russia, Giappone e anche l’Italia è in corsa in questo periodo per
l’occupazione di nuove terre colonie. E’ interessante ricordare che è in questo periodo
che nasce l’idea e l’espressione di “Spazio vitale” – lebensraum – come elemento chiave
della politica estera delle nazioni dominanti. Come vedremo poi, si tratta di una
nozione intrinsecamente “coloniale” e che sarebbe difficile da concepire senza la
colonialità che soggiaceva alla cultura moderna europea.
Ora cerchiamo di capire cosa intendiamo con l’espressione “avvio di una politica di
colonizzazione sistematica”, un obiettivo che sancì poi l’idea della “missione
civilizzatrice” di fine Ottocento. L’espansionismo coloniale occidentale può essere
diviso, grosso modo, in tre fasi. Qui seguiamo la periodizzazione di Harry Magdoff in
Imperialism: from the colonial age to the present (1978). Vi sono stati quindi diversi modi di
espansionismo:

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a) Imperialismo coloniale: dalla scoperta dell’America fino al 1760, ovvero quello della
fase mercantile fino agli albori della prima rivoluzione industriale.

Come abbiamo in qualche modo anticipato, il colonialismo e l’imperialismo


moderno sono molto diversi da quelli precedenti (per esempio quello greco o romano). Il
colonialismo moderno è diverso da quelli antico per il semplice motivo che esso aveva
come spinta propulsiva il capitalismo. Mentre i vecchi imperialismi si limitavano al
dominio militare, al saccheggio e alla rapina violenta, così come all’estrazione di un
tributo dalle popolazioni dominate, lasciando il resto del sistema economico-politico dei
territori conquistati immutato, il colonialismo moderno, finì per stravolgere la struttura
delle società conquistate, poiché aveva come motore l’accumulazione di capitale. Esso
non si limitò all’estrazione di tributi o a un qualche tipo di coercizione esterna, ma
impiantò con la violenza su questi territori un sistema politico, culturale e
socioeconomico radicalmente diverso a quello che vigeva in queste società primo
dell’arrivo degli europei e/o dello sviluppo del capitalismo. L’introduzione delle società
coloniali nel sistema globale capitalistico nascente mutò radicalmente la struttura di
queste società, provocando nelle diverse società native non-europee uno sconquasso o
rovesciamento dell’ordine delle cose (a volte più violento, a volte più lento e progressivo)
senza precedenti. Nella tradizione delle società andine dell’America Latina (nel territorio
Inca, noto in lingua quechua come Tahuantinsuyo) è stato coniato un concetto che serve a
descrivere questo momento, così come la necessità di un suo ribaltamento, dal punto di
vista “indigeno”: Pachakuti. Attraverso questo concetto, le società andine hanno
elaborato la loro necessità soggettiva di rovesciare l’ordine imposto cosmologico
dall’imperialismo coloniale europeo e di ritornare, anche se in modi non letterali (poiché
oramai impossibile) alle proprie origini e culture. Si tratta di un concetto utile a capire
cosa ha significato la conquista europea e l’introduzione del capitalismo coloniale nelle
popolazioni non-europee.
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In questa prima fase dell’espansionismo coloniale occidentale, che vede prima il
dominio della Spagna e del Portogallo e poi quello di Francia e Gran Bretagna, le
potenze europee si dedicano soprattutto ad estrarre oro ed argento (in America Latina),
ma anche al traffico di spezie, di zucchero e di schiavi. E’ in questo periodo che nasce la
schiavitù della piantagione. Il traffico di schiavi fu un elemento fondamentale nello
sviluppo del capitalismo: in parte per i profitti che generava nelle nazioni schiaviste la
tratta degli schiavi in sé (principalmente Gran Bretagna e Francia) attraverso il
commercio triangolare; in parte in virtù dello sviluppo delle piantagioni (che attraverso il
lavoro coatto consentivano la produzione di materie prime strategiche a basso costo).
Come è noto, il settecento sarà il secolo di massimo sviluppo della schiavitù, che
produrrà “profitti d’oro”. La tratta di schiavi verrà abolita solo nel 1807 in Gran
Bretagna (grazie alle lotte e alla resistenza degli schiavi, a fenomeni come il marronage) e
negli anni successivi in Francia e Olanda, ma solo di forma. Vi sono state numerose
rivolte di schiavi sin dalla nascita della schiavitù stessa, ma fino a qualche decennio
queste rivolte sono rimaste silenziate dalle storiografie o sistemi filosofici e politici
dominanti. Prima di tutto la rivolta antischiavistica in Haiti (1791-1804): che finì con
l’indipendenza del paese. Si tratta di un evento riportato alla memoria dall’intellettuale del
Trinidad, C.L.R James nel suo testo “I giacobini neri” (1938).
Diversi studi storici hanno mostrato che la tratta di schiavi ebbe un forte aumento
anche dopo l’abolizione. E comunque andrebbe anche ricordato che successivamente
venne elaborato il sistema dei coolie o di “Servitù a contratto” (traffico di semi-schiavi
dall’India e dalla Cina) per sopperire alla mancanza di manodopera schiavistica. La
schiavitù è stato un elemento centrale e costitutivo della modernità e non un residuo
premoderno. Fenomeni come l’arrivo massiccio di coloni, di schiavi e semi-schiavi
europei (ad esempio dell’Irlanda, negli Stati Uniti ma non solo), lo sviluppo delle
piantagioni, lo sfruttamento in miniera e la costituzione di proprietà terriere e latifondi,
di cui erano proprietari i coloni europei o compagnie coloniali europee, come
conseguenza dello sterminio e dell’espropriazione delle terre agli indigeni, alterarono
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certamente la struttura delle società coloniali. E tuttavia durante questo periodo, vaste
zone del mondo restavano ancora inesplorate, scarsamente penetrate o debolmente
incorporate al sistema-mondo (per dirla attraverso la definizione di Immanuel
Wallerstein). Gli insediamenti coloniali erano quasi esclusivamente limitati alle zone
costiere: un po’ a causa dei limiti nello sviluppo tecnologico, un po’ a causa della
resistenza che incontravano da parte delle diverse popolazioni indigene.

b) Imperialismo del free-trade o del libero commercio (1760-1870).

Il panorama comincia a cambiare dall’inizio dell’Ottocento. Questa fase, soprattutto


dopo la sconfitta di Napoleone, vede il dominio globale incontrastato della Gran
Bretagna e del potere della sua marina civile e militare. Il commercio dell’Europa con le
società coloniali subisce un mutamento: invece che dedicarsi al traffico e all’acquisto di
prodotti coloniali, come in passato, le nazioni europee più avanzate diventano
“venditrici” alla ricerca di mercati in cui piazzare il volume crescente dei propri manufatti
prodotti dalle macchine industriali. Inoltre, si produce un mutamento nella domanda di
beni prodotti nelle colonie: al posto di spezie e zucchero subentra una richiesta crescente
di prodotti come il cotone, lana, oli vegetali, iuta, e altri elementi necessari all’industria
tessile. Ma cresce anche la domanda di cibo e altri elementi (come il legno) per soddisfare
i centri urbani industriali in crescita. Va ricordato che dalla fine del settecento la Gran
Bretagna non è più autosufficiente nella produzione di grano e ha bisogno di importare.
E’ in questa fase che cominciano a verificarsi mutamenti sempre più radicali nella
struttura economica, politica e ambientale delle colonie: sempre più integrate al mercato
mondiale. Si va quindi profilando in modo più profondo la divisione internazionale del
lavoro moderna: un sistema economico mondiale incentrato sulla produzione di
manufatti nelle metropoli, sulla loro necessità di rifornimento di materie prime e cibo,
nonché di uno sbocco di mercato per i prodotti metropolitani, e più tardi per gli
investimenti di capitali, nelle colonie.
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Inoltre, grazie allo sviluppo tecnologico generato dalla prima rivoluzione industriale, per
quanto riguarda il motore delle navi e le armi, gli europei, in particolare gli inglesi, sono
in grado di penetrare più profondamente i territori coloniali. E’ verso la seconda metà
dell’Ottocento che comincia una penetrazione sistematica del continente africano e che
subirà un’accelerazione notevole verso la fine dell’ottocento, grazie allo sviluppo della
seconda rivoluzione industriale (acciaio, chimica industriale, elettricità e petrolio come
nuove fonti di energia, motore a scoppio, ecc.). Si tratta di un periodo storico mostrato
dai manuale di Storia come un periodo di pace in Europa (la cosiddetta belle-époque, tra
il 1870 e il 1914), ma drammatico se visto dalla parte del mondo coloniali. Si tratta di un
periodo caratterizzato da guerre e massacri continui nelle zone coloniali, specie in Africa
(Vedi Sterminate quelle Bestie, Sven Lindqvist, Cap: Il dio delle armi, pp. 51-87).
Come si evince dal testo di dello storico svedese Sven Lindqvist (anche da pp. 123-
175), è un periodo in cui si vedono più che altro guerre contro le popolazioni coloniali
che non guerre tra le potenze coloniali (GB in India, Birmania, Sudafrica, Nuova
Zelanda (maori wars), Cina (guerre dell’oppio); Francia in Algeria e Indocina; Olanda in
Indonesia; Russia in Asia centrale; USA contro gli indigeni del Nordamerica) e
aggressioni navali in Giappone (1854-55). E questo a causa della superiorità indiscussa
della Gran Bretagna. E’ molto importante sottolineare che la sistematica e intensiva
penetrazione coloniale di questo periodo e di quello successivo finirà con
l’autosufficienza delle comunità coloniali locali e le renderà del tutto dipendenti
dall’economia e dai traffici coloniale (Vedi anche Olocausti tardo-vittoriani, di Mike Davis).
Ai fini del nostro discorso sull’istituzionalizzazione dell’antropologia va ricordato
che è in questa fase che inizia un tentativo più sistematico di colonizzazione da parte
delle nazioni coloniali e quindi di sostituzione nei territori coloniali di un tipo di società
con un’altra. Gli insediamenti coloniali si moltiplicano in tutti i continenti e questa volta
anche all’interno dei continenti, in zone dove prima era più difficile arrivarci. Si pensi
che dal 1800 al 1878 il dominio europeo passò dal 35% al 67% della totale superificie
della terra. E’ anche l’epoca di una grande migrazioni di massa dall’Europa verso i
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territori coloniali (principalmente gli Usa, ma non solo). Si calcola che 55milioni di
europei lasciarano l’Europa tra il 1820 e il 1900. In questo panorama, non è difficile
comprendere che una domanda comincerà sempre di più a impossessarsi delle nazioni
europee, a diventare sempre più pregnante: cosa fare dei nativi? Soprattutto perché i
nativi resistono, non vogliono cedere al dominio degli europei, e non accettano
nemmeno la cultura degli europei. Può essere importante ricordare che è in questo
periodo che nascono la Società etnologica di Parigi (1839), il Royal Anthropological institute
(1837) e L’ethnological society of London (1843). Anche la campagna di Napoleone in Egitto
(1798) può essere vista come il simbolo di questo nuovo tentativo di “colonizzazione
scientifica”. Edward Said descrive la conquista napoleonica nel suo Orientalismo (1978)
come il punto di passaggio dall’orientalismo come cultura all’orientalismo come “pratica
coloniale di accumulazione di territori e popolazioni”.

C) Fase del cosiddetto “nuovo imperialismo” (1870-1914)

Come si evince dal periodo, è la fase più contemporanea all’istituzionalizzazione


dell’antropologia. E’ un momento storico di vera e propria corsa alle colonie: nel 1880
comincia il cosiddetto “Scramble for Africa” che culminerà con la penetrazione e
spartizione totale del continente. All’inizio del 900 il dominio europeo si estenderà per
più dell’80% della terra del pianeta.
Gli imperi e l’imperialismo sono ormai una realtà e vengono considerati dalla cultura
dominante europea come qualcosa di necessario e inevitabile. Come si può desumere anche
da Cuore di tenebra di Joseph Conrad (1899), in questo periodo l’imperialismo ha
monopolizzato l’intero sistema di rappresentazione (Vedi l’analisi di Conrad di Said in
Cultura e imperialismo). Di più, come ci ricorda Said in Cultura e imperialismo a proposito di
Kim, il colonialismo o la colonizzazione vengono visti ora come qualcosa di “naturale” e
di “inevitabile”. In Europa, infatti, metropoli e colonie sono sentite come un unicum
indivisibile. Sia da un punto di vista economico che da un punto di vista culturale, le
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colonie vengono sentite dagli europei come qualcosa di necessario per le nazioni
europee. E’ in questo contesto che avverrà la cosiddetta “nazionalizzazione delle masse”
nelle società europee (vedi Mosse 1985) e lo sviluppo delle teorie pseudo-scientifiche
della “razza” e della “supremazia razziale” dei bianchi ed europei (soprattutto del Nord-
Europa) sul resto del mondo: nazionalismo e razzismo in Europa serviranno anche alle
classi dominanti europee per suturare i conflitti interni con le proprie classi operaie o
lavoratrici, ovvero per annetterle al loro progetto di dominio imperiale (citazione di
Rhodes tratta da Lenin).

Le grandi esibizioni imperiali e gli zoo umani

Dal 1854 al 1911, per esempio, si sono svolte più di 30 grandi esibizioni coloniali
(imperial exhibitions) nei territori inglesi, da Londra a Calcutta a Melbourne. Ma esibizioni
imperiali si sono organizzate in questo periodo anche in altre capitali europee, come
Parigi, Marsiglia, Bruxelles. Si pensi, per esempio, che il Grand Palais e il Petit Palais di
Parigi sono stati costruiti nell’ambito di queste esibizioni, dove le nazioni europee
esponevano la propria ambizione o grandeur coloniali. In Italia si può fare menzionare
come esempio di questo sviluppo la “mostra d’oltremare” costruita a Napoli dal fascismo
nel 1937. Possiamo dire che questi spazi mettevano in mostra, sotto forma di spettacolo,
la politica europea nota come “missione civilizzatrice”. All’organizzazione delle esibizioni
partecipavano numerosi professionisti ed esperti delle colonie: architetti, amministratori
coloniali, medici, scienziati, artisti, burocrati di diverso tipo. In questo periodo nascono
anche diversi musei dedicati alla messa in mostra delle “colonie”. Nel 1878 nasce il Musee
de l’ethnographie a Parigi, futuro Musee de L’homme (1937), ma anche altri in GB e altrove. E’
anche in questo periodo che diviene sempre più popolare l’esibizione di popolazioni
umane coloniali dal vivo, ovvero l’usanza degli “zoo umani”. Lo zoo umano è un
ulteriore sviluppo, si può dire, di un altro spazio coloniale reinstallato nei centri delle
grandi metropoli europee: i giardini zoologici. Il giardino zoologico di Parigi, fondato
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verso il 1850, che già fi per sé rappresentava il prodotto di una cultura coloniale, dove si
esibiva il trionfo dell’esotico, l’addomesticamento della vita selvaggia, dal 1870 comincia
a ospitare anche essere umani che venivano messi in mostra. Nel 1880, per esempio,
una delle esibizioni più famose in Europa, a Londra, Parigi e Berlino è quella che espone
animali selvaggi insieme a gruppi di persone originarie del Sudan: la cosiddetta “Nubian
Exhibition”. Erano anche le grandi esposizioni universali a ospitare l’esibizione di essere
umani “esotici”. Ma il caso rimasto emblematico di questi “zoo umani” fu quello della
cosiddetta venere ottentotta, di nome Saartjie Baartman (1789- 1815); si trattava di una
donna del Sudafrica che venne presa come schiava e portata a Londra verso il 1810 per
esibire il suo “esotico corpo” davanti al pubblico europeo (vedi il film Venere nera, di A.
Kechiche (2010).
Quello che più interessa a noi qui è che il “campo di sapere” sul primitivo, che si
era aperto all’alba della modernità, arriva in questa fase al suo massimo sviluppo. Si
sviluppa quello che possiamo chiamare una vera e propria “scienza della colonia e dei
soggetti coloniali”. E’ in questo periodo, per esempio, che prende corpo l’idea di
“missione civilizzatrice” – l’idea del fardello dell’uomo bianco abbozzata dal noto
romanzo di Rudyard Kipling Kim (1901) – e che si colloca al centro della struttura
discorsiva del “nuovo imperialismo”. In sintesi: si fa strada l’idea di un salto qualitativo
nel processo di colonizzazione: l’avvento di una colonizzazione scientifica o di un
progetto coloniale fondato in qualche modo sulla scienza, ovvero su una migliore
conoscenza sia delle società coloniali che della storia dell’evoluzione umana (di cui
Darwin aveva già gettato un importante gradino). E tutto si dà in un quadro culturale in
cui il trionfo inesorabile della civiltà occidentale, o del capitalismo in espansione, sul
resto del mondo e delle culture viene considerato come qualcosa di necessario e di
inevitabile. Un trionfo che viene interpretato come qualcosa di naturale, come qualcosa
di iscritto nelle leggi della natura dell’evoluzione umana (anche Darwin era di questo
pensiero e non solo i cosiddetti darwinisti sociali, come si tende a dire). Nel suo testo La
discendenza dell’uomo (1870), anche Darwin sostiene che i deboli sono destinati a morire, a
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scomparire, e che solo i più forti o più adatti sopravvivono alle leggi del processo sociale:
e il più forte, è ovvio, è l’uomo occidentale (la civiltà industriale anglosassone). Si tratta di
un pensiero sociale (che non apparteneva solo a Darwin) che accompagnerà e stimolerà,
tra il 1870 e il 1945, lo sviluppo del razzismo scientifico, delle grandi teorie razziali e
anche dell’eugenetica. E’ questo il momento storico che vedrà l’ascesa del nazifascismo.
Per cominciare a chiudere questa “archeologia del discorso antropologico”,
dobbiamo precisare che la grande narrazione occidentale moderna su cui si è affermata
questa “struttura del sentire” coloniale e imperiale europea alla fine dell’800, e che pone
l’occidente (l’Europa) come principio, soggetto e fine ultimo della storia, non è qualcosa
che emerge in questo periodo, ma molto prima e che si sviluppa in modo progressivo e
non lineare. Essa però comincia a prendere la sua forma più compiuta tra la fine del
settecento (con la teoria dei 4 stadi messa a punto dagli illuministi) e la fine
dell’Ottocento, con l’affermarsi del paradigma evoluzionista. Comunque, è in questo
quadro di trionfo inesorabile della civiltà, che vede la civiltà occidentale o europea come
destino dell’umanità (nel bene, per il pensiero più egemonico, e nel male, per quello più
critico) che emerge la narrazione evoluzionista dell’antropologia vittoriana nascente con
la sua grande prima tipologia delle società primitive. Quando diciamo con “la sua grande
prima tipologia delle società primitive”, non intendiamo dire che gli antropologi
vittoriani sono stati i primi a occuparsi dei primitivi o i primi a considerare i primitivi
come lo stadio più elementare dell’evoluzione umana. Sono i primi a tentare una
conoscenza più a fondo – di tipo scientifica, almeno nelle intenzioni - delle società
primitive e soprattutto a considerare l’uomo primitivo come un “uomo sociale” anziché
(quasi) naturale. Il primitivo degli antropologi evoluzionisti, a differenza del selvaggio dei
philosophes, non è più un “uomo vuoto” o “mancante”: è un “uomo pieno” o un
“pieno uomo”. Anche se per questi antropologi le idee sulle società primitive restano
piuttosto “mitiche” o assai “stereotipate”. In ogni caso, l’antropologia evoluzionista o
vittoriana aderisce comunque alla visione della civiltà come destino ultimo e unico
dell’uomo. E’ per questo che gli evoluzionisti hanno preferito Spencer, che vedeva
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l’evoluzione sociale come un processo teleologico irreversibile, a Darwin e alla sua
concezione dell’evoluzione come qualcosa di estremamente contingente e non affatto
teleologico. Oggi sappiamo, invece, che la concezione di Darwin è quella accettata dalla
comunità scientifica.
Per Darwin, la natura non aveva alcun disegno nascosto. Non la pensavano così
Spencer, gli spenceriani e gli antropologi positivisti e vittoriani come Tylor, Morgan e
Maine. E’ in questo modo che l’antropologia evoluzionista esprime un paradosso tipico
dell’epoca e non solo, ben colto, per esempio, da Leclerc (p.22): se si condivide l’idea
dell’unità del genere umano, se si condivide il presupposto che l’uomo primitivo era un
uomo sociale a tutti gli effetti (come l’uomo civile), com’è possibile conciliare queste
affermazioni con giudizi e affermazioni sprezzanti sulle società primitivi o sui neri, o
anche con le pratiche distruttrici o direttamente genocide nei loro confronti?
Come abbiamo visto, e come ci ricorda ancora Leclerc, Tylor era un riformatore e
progressista. Per Tylor, l’etnografia doveva essere una disciplina critica nel senso che
doveva avere come scopo la salvaguardia della civiltà scientifica: occorreva studiare i
costumi primitivi e le sopravvivenze per contribuire al loro superamento, sia in colonia
che in metropoli (dove venivano rintracciate per lo più nelle culture delle classi
subalterne o popolari). Alla fine, per Tylor, dovevano trionfare la ragione, la scienza e
tutte le istituzioni della società moderna. Le società primitive dovevano lasciare il passo
alla civiltà. Forse questo atteggiamento di Tylor che, come vedremo non era affatto
un’eccezione, spiega in parte questo paradosso. Si può dire che nel profondo è il
concetto (pseudo-scientifico) di razza a scavare in questo paradosso, a prendere corpo
nello spazio di questo paradosso, benché si tratta di un concetto, vale la pena ricordare,
che verrà resistito dagli antropologi, almeno nella sua versione biologicista. Il concetto di
razza andrà configurandosi sempre di più come la risposta a un’altra delle domande
divenute sempre più insistenti in questo periodo: se è vero che i non occidentali –
comprese anche le forme di vita più primitive o selvagge – appartengono al genere
umano, è altrettanto certo che tutte queste forme sono capaci di svilupparsi fino allo
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stato civile? Darwin esprime questo paradosso in modo chiaro, e si esprime in termini
ambivalenti: nel già citato La discendenza dell’uomo egli sosterrà che gli aborigeni americani,
i neri e gli europei sono cosi diversi a livello di intelletto come le tre razze a cui fanno
riferimento, nonostante il fatto che fossero comunque tutti simili. Sarà la sconfitta
definitiva da parte della scienza del concetto biologico di razza, attorno agli anni
cinquanta, a porre il punto finale a questo paradosso, incentrato su una gerarchia interna
alla stessa unità biologica dell’uomo. Punto finale almeno dal punto di vista scientifico.
Dal punto di vista sociale e culturale, la storia è, purtroppo, diversa.

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