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Watt fu un critico letterario inglese – la sua storia, come quella di Benjamin, è legata alla 2° Guerra mondiale.
Nel 1942 viene mandato a combattere sul fronte orientale contro l’esercito giapponese – Asse Giappone-Italia-Germania.
Watt viene subito catturato e portato come prigioniero ai lavori forzati per la costruzione della ferrovia della morte – fra Thailandia e
Birmania – con grandi strapiombi e difficoltà logiche nella costruzione. Ferrovia storicamente famosa da cui sono stati tratti film e un
romanzo.
Pare che più di 12.000 prigionieri siano morti nella costruzione di questo ponte sul fiume Kwai.
Watt ne uscì vivo, tornò in Occidente e, come Auerbach, seguì una carriera di docente di letteratura in grandi università statunitensi
e non tornò più in patria.
E’ un soggetto autorevole e anticonformista che si distingue anche per la sua opposizione alle invasioni americane del Vietnam e
della Cambogia.
Il principale oggetto delle ricerche critico-letterarie di Watt è l’affermarsi del romanzo moderno.
E’ il genere egemone dell’età moderna e contemporanea.
Il suo obiettivo è scoprire quando, come e perché è nato il romanzo moderno.
Il romanzo moderno ha un luogo e un tempo di nascita ben precisi: Inghilterra del ‘700 (prima metà) – l’Inghilterra della 1°
rivoluzione industriale.
Atteggiamento della critica sociologica – avere un fenomeno letterario (nascita del romanzo moderno) e collocarlo in un preciso
luogo e tempo-.
Watt si serve, nel suo studio, di strumenti provenienti da altre discipline umanistiche come la storia dell’editoria, la sociologia, la
filosofia e la storia in senso stretto.
E’ ovvio che di romanzi si può parlare da ben prima del ‘700 – persino nell’antichità greca.
Da qui l’importanza dell’aggettivo “moderno”. Watt infatti non parla della nascita del romanzi in assoluto, bensì della nascita del
romanzo moderno – così come ancora lo intendiamo oggi (vi è un filo conduttore tra il romanzo di oggi e il romanzo che si è creato
nel ‘700)-.
Nel libro “La nascita del romanzo borghese – studi su Defoe, Richardson e Fieldin” (1957) Watt si occupa della questione. Il titolo
originale è “The rise of the Novel” – senza l’aggettivo borghese-.
Il libro è suddiviso in tre puntate monografiche sugli autori sopracitati che secondo Watt sono i tre capostipiti del romanzo moderno.
L’ideologia individualistica è la struttura portante del romanzo moderno e incontra un grande favore nel pubblico.
L’originale metodo di Watt vede mettere da parte gli aspetti tematici, in prima approssimazione, prendendo in considerazione solo
l’interazione tra le strutture formali e il pubblico.
Secondo Watt invece, nell’Inghilterra del ‘700 i tipi umani convenzionali, le macchiette tipicamente letterarie vengono meno.
Vengono sostituite da persone normali che non vivono avventure straordinarie in paesi più o meno esotici ma vivono situazioni
normali in ambienti normali con persone normali.
Il tutto raccontato non con tono ironico, ma serio.
Personaggi normali, situazioni/plot normali, ambienti normali e tono serio. Sono queste le caratteristiche del realismo così come le
ha descritte anche Auerbach.
Tono serio = anche le questioni più sciocche, banali e normali della quotidianità - non vengono rappresentate come si faceva nella
commedia con un tono e lingua comico e scurrile allo scopo di far ridere - vengono prese sul serio.
La realtà banale è restituita con uno stile medio, un tono serio, tutto è normale.
In Italia continuavano ancora ad esserci pastorelle e suonatori di zufolo rappresentati in ambienti bucolici.
Nel ‘700 italiano la maggioranza degli autori scrive opere di ambientazione bucolica, riferendosi alla tradizione antica greca e latina
in cui i protagonisti sono pastori che cantano vicende in un ambiente bucolico – idilliaco – mentre svolgono il loro lavoro di pastori.
Si pensi a Giuseppe Parini, il quale frequentava un’accademia in cui ciascuno dei membri doveva assumere un nome fittizio della
tradizione bucolica pastorale greca o latina, e studiare gli idilli pastorali.
Dunque grande sfasatura tra gli stadi più avanzati della letteratura italiana del primo ‘700 e quella moderna inglese.
Al tempo era inimmaginabile uno strumento come il romanzo proprio perché la struttura economico-sociale e culturale del paese
non ne permetteva ancora la nascita.
Basta anche fermarsi ai titoli dei romanzi per notare che nel titolo è indicato il nome del protagonista e i nomi in questo caso
permettono di comprendere che non si ha più a che fare con Titito – nome tipico della tradizione bucolica – ma con nomi normali
come Pamela o Tom.
Proprio per sottolineare che i protagonisti di questi romanzi sono veri, realistici e riferibili alla realtà contemporanea.
I nomi sono considerati qui come individui particolari nel contesto sociale contemporaneo.
Altro elemento che caratterizza questi romanzi sul piano di attaccamento alla realtà è il fatto che la trama non avanza sulla base dei
colpi di scena che caratterizzano molta letteratura nel ‘700. Colpi di scena, agnizioni – riconoscimento -, coincidenze poco credibili.
Parini e Goldoni sono due rappresentanti della letteratura settecentesca italiani. Le commedie di Goldoni sono piene di agnizioni, di
colpi di scena e di coincidenze poco credibili.
In molte commedie di Goldoni capita, parlando di agnizione, che un personaggio ad un certo punto si scopre essere un’altra persona
rispetto alla quale lui stesso pensava di essere. Tipica è la situazione nella quale un personaggio umile che svolge un lavoro umile, ad
un certo punto della vicenda scopre di essere ad esempio il figlio di un qualche re, dunque si scopre essere un personaggio
altolocato.
Tutti questi colpi di scena spariscono dal romanzo moderno perché non solo personaggi e ambienti sono realisticamente
contemporanei, ma anche la dinamica degli eventi è realisticamente contemporanea. Nella realtà non dominano tanto i colpi di
scena e le coincidenze incredibili ma dominano i normali rapporti di causa-effetto; ovvio è che comunque il caso gioca un grande
ruolo.
Secondo Watt alla base dell’ascesa del romanzo moderno c’è una spinta a costruire narrazioni che traggono i loro ingredienti
principali - non più dal mondo convenzionale della letteratura
dall’esperienza reale.
C’è poi la volontà – importante per Auberbah – a occuparsi di ogni tipo di contenuto quale che sia il suo livello – alto o basso, nobile
o volgare - con uno stile medio, semplice.
Quali sono le motivazioni profonde di questo interesse nuovo per l’uomo contemporaneo? – perché nel ‘700 in Inghilterra (si noti la
critica sociologica che scatta dalla letteratura alla realtà) a un certo momento era diventato così importante occuparsi dell’uomo
contemporaneo che prima era stato quasi sempre ignorato dalla letteratura.
Si comprende allora anche l’importanza profetica del decameron di Boccaccio che si occupa molto di narrare la sua
contemporaneità, anche se tutto è presentato sotto forma di storie narrate.
Watt vuole capire perché improvvisamente si smettono i panni tradizionalmente letterari per diventare dei coraggiosi narratori della
banale contemporaneità.
Perché insomma, l’uomo assume un ruolo primario nell’immaginario degli scrittori.
Watt riflette sul fatto che in UK nel ‘700 succede qualcosa di eccezionale – fuori dall’ordinario -. Per la prima volta l’essere umano
vince la sfida contro la natura: fino ad allora aveva vissuto soggiogato alle forze della natura, solo nel ‘700 in Inghilterra l’uomo inizia
a dominarle.
Si noti l’importanza rivoluzionaria di questi eventi. La creazione della macchina a vapore ha segnato una rivoluzione (1° rivoluzione
industriale) perché è stata la prima volta in cui l’uomo ha prodotto forza (poi diventata forza-lavoro) senza fare ricorso alla propria
forza muscolare, a quella di un animale o alla forza dell’acqua.
Per la prima volta con la macchina a vapore che produce energia, l’uomo produce una forza in maniera del tutto autonoma, inizia a
non dipendere più in maniera diretta dai beni della terra – una dipendenza c’è sempre, la macchina a vapore ha bisogno di rifornirsi
di acqua, in precedenza invece l’acqua doveva scorrere naturalmente affinchè la pala del mulino potesse girare grazie alla forza del
ruscello che scorreva-.
Per la prima volta insomma l’uomo non dipende più dalle dinamiche naturali ma inizia a dominare la natura. Ed è anche il momento
in cui inizia ad essere invasivo nei confronti della natura e poi nel corso dei vari secoli ha finito per essere un virus dentro questa.
L’uomo nel ‘700 prende a guardarsi intorno con un inedito spirito di fiducia, è percorso da un inedito spirito di iniziativa. Considera
con fiducia le proprie capacità di agire nel mondo – non è più la realtà naturale che lo sovrasta ma è lui che progetta di sovrastarla.
Il romanzo moderno pone l’accento sulla particolarità – persone particolari in circostanze particolari -; nel passato invece vi erano
tipi umani generali in situazioni determinate dalle convenzioni letterarie.
“Robinson Crusoe”
E’ il primo personaggio del romanzo borghese ed è un uomo che si trova sperduto da solo su un’isola deserta e che con le sue sole
forze riesce a piegare la forza della natura, a sopravvivere grazie alla propria intelligenza -piega l’ambiente ai propri scopi.
Un nobile non si sarebbe mai voluto trovare in quella situazione, la classe borghese invece ha amato vedere un proprio
rappresentante narrato in maniera romanzesca dentro una situazione nella quale doveva risolversi la vita da solo, con il proprio
spirito d’iniziativa.
E’ un esempio del borghese che si costruisce da sé. E’ poi diventato un mito fino ai giorni nostri – le divinità degli ultimi decenni sono
stati gli imprenditori, i quali costruiscono da sé ricchezza e che danno lavoro agli altri – si tratta di una mitologia del tutto fallace che
nasce nel ‘700, l’apoteosi del saper fare, dell’individuo che ce la fa, l’individualismo della classe borghese – la classe del darsi da fare.
La borghesia dunque amava vedere anche nei romanzi rappresentata la realtà contemporanea nella quale loro stessi venivano
rappresentati nell’atto di attraversare fattivamente quella realtà.
La borghesia stava – Marx – prendendo il potere prima economico e poi politico -e voleva vedersi rappresentata nella sua epica. Una
storia che però non aveva secoli alle spalle e che volevano vedere rappresentata in quell’esatto luogo e tempo.
E’ chiaro che il romanzo è fiction - schermo finzionale al centro.
Ad esempio Robinson Cursoe non è un imprenditore che crea un’industria, la rappresentazione non è così diretta: la letteratura è
chiamata a costruire bellezza anche filtrando un po’ la realtà.
Nel primo capitolo Watt sottolinea soprattutto che questo ha a che fare con l’immaginario del ‘700 inglese sul piano sociale e
antropologico - sono le motivazioni profonde della borghesia che la spingono a volersi vedere rappresentata adesso nell’atto di
farcela-.
Ma Watt si chiede se non vi siano anche delle radici più profonde di questo atteggiamento – perché tutta questa attenzione nei
confronti dell’uomo contemporaneo?
Si, sul piano economico e sociale è la borghesia che si impone a volersi vedere rappresentata nell’atto di imporsi.
Ma vi sono radici più profonde, di tipo filosofico.
Watt si è reso conto che la messa in discussione della tradizione letteraria precedente, la fiducia nell’uomo e nelle sue capacità come
singolo e l’attaccamento al reale (al qui e ora contemporaneo) sono le stesse alla base dei ragionamenti di alcuni filosofi che hanno
lavorato nel ‘600 in Europa.
Il ‘600 è il periodo in cui in Francia vive Renè Descartes (Cartesio) e in Inghilterra John Locke. Questi due, a loro modo, sostengono
che la verità, così come l’essere umano la può raggiungere, è alla portata di ciascun uomo.
La capacità di comprendere il reale avviene attraverso i sensi, le percezioni di ciascuno.
Sembra strano, ma nel ‘600 la conoscenza del reale non ce la si faceva tanto ragionando sui dati che si raccoglievano in base alla
propria esperienza. Vigeva invece, ancora nel ‘700 a proposito di comprensione del mondo, il principio di autorità e non quello dei
sensi (come ancora adesso) e della comprensione individuale.
Il principio dell’autorità = la spiegazione del reale era demandata alle grandi autorità che venivano dal passato. Da un lato la Bibbia e
dall’altro Aristotele, la tradizione religiosa cristiana e il filosofo greco.
Questo principio si incarnava nell’espressione ipse dixit – l’ha detto lui (la bibbia e Aristotele) - ancora nel ‘600 dunque non contava
tanto che cosa si vedeva intorno a sé e come si riusciva a leggere individualmente e anche scientificamente i dati di realtà, ma
contava come la realtà era stata spiegata da queste autorità. Quindi la terra è piatta, al centro dell’universo, è stata creata da dio,
l’uomo pure, tutto l’universo non può che ruotare intorno alla terra che l’uomo abita perché il discorso così è logico. L’aveva
spiegato la bibbia d’altronde.
Nel ‘600 si inizia ad avere una tale fiducia nell’uomo di comprendere il reale che viene messo in discussione il principio di autorità.
Cartesio - cogito ergo sum – penso quindi sono, esisto in quanto essere pensante.
La dignità dell’uomo sta nella sua capacità di pensare, di saper concepire il mondo e decriptare la realtà. E’ una potente
rivendicazione del diritto dell’uomo a essere padrone di sé e delle proprie percezioni. “L’ha detto la bibbia” conta poco ora poiché
cogito ergo sum, non mi si può togliere la condizione di essere pensante altrimenti mi si toglie la condizione di essere umano.
Il principio d’autorità della bibbia si scontra pesantemente contro il cogito ergo sum
Locke – tabula rasa, una tavola rasa a livello zero, sulla quale nulla è inciso.
Egli propone di concepire la mente umana come una lavagna vuota sulla quale si incidono con il tempo i dati, le esperienze vissute
da questi nel corso della vita.
Anche qui a dominare è l’idea che il singolo vive le proprie esperienze e che la sua mente e il suo spirito vengono scritti come se
fossero una lavagna, dalle esperienze che fa.
Anche in questo caso l’accento non batte sulle narrazioni del passato ma sull’esperienza concreta che il singolo individuo ha potuto
fare nel corso della sua vita. Siamo nell’ambito delle esperienze filosofiche note come sensismo – per capire il reale devo vederlo,
toccarlo, si parte dai sensi, tutti quanti che servono a raccogliere dati che elaboro poi mentalmente-. e empirismo – esperienza
concreta di ciascuno.
Gli assiomi ricevuti dal passato ma un passato che punta sull’uomo e sulle sue esperienze.
Cartesio e Locke ritengono dunque che la verità può essere scoperta dall’individuo mediante i sensi.
Ma il moderno realismo filosofico è un atteggiamento critico, anti-tradizionalista e innovatore; il metodo si è basato sullo studio
dell’esperienza del singolo che è, idealmente, libero dagli assunti del passato e dalle credenze tradizionali.
Secondo la filosofia di Locke e Hume inoltre il romanzo definisce le identità individuali anche in rapporto al tempo: è nel tempo che
si costituisce l’identità – uso di esperienze passate come cause dell’azione presente.
Ma anche lo spazio si integra con lo sviluppo temporale e l’individualizzazione dei personaggi – il tutto ha anche conseguenze sugli
aspetti stilistici.
Come sosteneva Spinazzola, è la caduta del principio di imitazione a rendere possibile ogni forma di realismo e, in seconda battuta, il
sistema letterario moderno. Il realismo del romanzo permette dunque una più immediata imitazione dell’esperienza individuale in
un contesto di luogo e tempo.
Quindi a partire da qui, il singolo individuo, adesso diventa molto importante come prima non lo era mai stato. Anche la letteratura
– un po’ dopo - dunque registra questa novità, e può occuparsi non più solo del passato imitandolo (l’ha detto la bibbia, l’ha detto
Aristotele, l’hanno scritto i grandi autori come Virgilio) e ora, coadiuvata dal passato economico, ha una sua sorta di rivoluzione e
mette in campo la realtà contemporanea.
Dunque l’insistenza sulla novità dell’esperienza e del sapere individuale va di pari passo con l’affermazione in letteratura
dell’originalità.
I romanzi del resto raccontano eventi nuovi, Defoe ad esempio: permetteva alla narrazione di fluire spontaneamente da ciò che i
suoi personaggi avrebbero potuto fare. Così facendo egli iniziò una nuova tendenza alla narrativa: totale subordinazione della trama
al modello della memoria autobiografica.
Il ‘600 è il secolo anche della rivoluzione scientifica – con le basi filosofiche di Locke e Cartesio che puntano sull’osservazione per
capire la realtà la rivoluzione scientifica è quasi una conseguenza naturale.
Copernico e Galileo sono dicono di guardarsi bene attorno per capire che facendo calcoli corretti ci si rende conto che al centro c’è il
sole.
E questo è stato un affronto alla Chiesa che aveva bisogno dell’idea di un uomo al centro perché frutto di una creazione che lo
privilegiava rispetto al creato.
Quindi siamo di fronte ad una svolta razionalistica e ragionativa che avrebbe poi dato il là al movimento illuminista -l’illuminismo è
una declinazione sul piano sociale e giuridico dei diritti umani dell’attenzione al singolo nella sua contemporaneità.
Quindi anche la letteratura si inizia ad occupare dell’uomo nella sua effettiva condizione umana, nel suo individualismo e ottimistico
tentativo di costruire attivamente il proprio mondo.
Questo è il momento i cui i libri diventano merce, escono dalla ristretta cerchia degli specialisti e dei pochi colti – intesa come
intrattenimento raffinato – prima alla base della letteratura non vi era alcuna base economica per tutto il ‘600 (in Italia fino all’800).
Nel periodo di Watt i libri diventano merce, si inizia a pensare di fare soldi vendendo libri proprio grazie al pubblico molto più vasto
disponile alla lettura.
Questo nuovo pubblico che vuole intrattenersi non era così colto e specializzato in ambito letterario come nei secoli precedenti (in
cui vi erano pochi colti e ricchi che pagavano gli intellettuali mantenendoli, come mecenati) – non vi erano altre forme di
intrattenimento.
Watt dunque si chiede: se nasce un nuovo genere letterario è perché c’è un nuovo pubblico, se nasce il romanzo è perché ci sono
nuovi lettori – prima nessuno lo avrebbe letto.
Da chi è composto questo nuovo gruppo di lettori nel ‘700?
Sicuramente non più dalla cerchia ristretta, il nuovo pubblico ha infatti la necessità di trovare nella letteratura piaceri estetici e
esperienze fruibili – dunque strumenti di conoscenza del reale-.
Comunque sia, a inizio secolo si stimava un lettore su venti.
Fra i rappresentanti delle classi basse gli unici che iniziano a leggere secondo Watt nel ‘700 sono i maggiordomi e i domestici perché i
nobili presso cui lavoravano li volevano alfabetizzati e facilitano dunque il loro apprendimento. Maggiordomi e domestici dunque
sapevano leggere e non dovevano comprare i libri perché li avevano nella casa in cui lavoravano, la luce non la pagavano loro e lo
spazio ce n’era in abbondanza.
Il numero di maggiordomi e domestici comunque era molto basso – non sufficienti a imporre un nuovo genere letterario.
“Pamela” può essere considerata l’eroina culturale di molte cameriere letterate: quando venne assunta, richiese del tempo libero
per poter leggere-.
Forse sono i ceti medi che vivevano in città? – negozianti, mercanti, impiegati, piccoli imprenditori.
Forse sono loro che grazie alla rivoluzione industriale hanno raggiunto una nuova ricchezza?
Tutta l’economia si mette a correre perché la capacità di produrre cose diventa estremamente più grande. Allora chi commercia, chi
vende e produce intercetta una congiuntura economica molto favorevole raggiungendo una condizione economica che prima non
aveva.
L’aumento del benessere che attraversò questa classe la portò a circolare nell’orbita della cultura media. Si pensa che sia proprio
questa classe a fornire l’aumento più sostanziale al pubblico dei compratori di libri e non la maggioranza impoverita della
popolazione – anche se versioni più a buon mercato di alcuni libri apparvero proprio per gratificare i pochissimi alfabetizzati che non
potevano permettersi il libro.
Il ceto medio, in particolare le donne – uomini lavorano e guadagnano di più– le mogli dei nuovi eroi del capitalismo sono quelle che
si ritrovano ad avere del tempo libero e soldi.
Tempo libero perché oggetti che prima venivano prodotti in casa come candele, saponi, vestiti di cotone e pane vengono prodotti
dalle manifatture in una dimensione quasi industriale. Loro possedevano i soldi per comprare il prodotto già fatto – connessione tra
l’aumento del tempo libero e lo sviluppo della specializzazione economica-.
Le donne della borghesia avendo soldi-tempo e necessità di intrattenersi si danno alla lettura.
Lo spazio del tempo libero individuale si era così riempito – non erano infatti ammesse nei lavori o nello svago dei mariti-.
Tra l’altro anche Boccaccio aveva dedicato il Decameron alle donne.
La lettura divenne un’occupazione primariamente femminile in questi anni – molte donne la vedevano anche come unica risorsa -.
Ecco il nuovo pubblico della letteratura: scolarizzato ma non erudito e non specialista. Queste volevano solo intrattenersi con un
testo che non presentasse troppe difficoltà e che magari rappresentasse l’epopea borghese che stavano vivendo con la loro famiglia.
Volvevano divertirsi e conoscere meglio la realtà circostante.
Dunque il realismo di questi romanzi deriva anche dal fatto che il ceto voleva imparare a conoscere la realtà circostante, una realtà
che almeno in Inghilterra era in profondo movimento.
Torna ancora l’idea di programmi che informino con intelligenza – Piero Angela – ma senza difficoltà e che ci insegnino qualcosa del
mondo.
Questi romanzi svolgono questa funzione dunque: intrattenimento intelligente che permette di sognare alle donne del ceto medio e
che permetta loro di istruirsi anche poco.
Il discorso di Watt ci porta a dire che nasce un nuovo pubblico potenziale e sta dunque alla letteratura e poi all’editoria inventare il
prodotto giusto per intercettare questo nuovo pubblico che diventa vasto e che permetterà dunque la trasformazione del libro in
merce – strumento attraverso il quale guadagnare.
Questi fenomeni avvengono all’unisono – è difficile creare una priorità cronologica tra la nascita del romanzo e la nascita del nuovo
pubblico del ceto medio- le cose sono avvenute un po’ insieme.
Chiaro è che questo romanzo non sarebbe esistito senza il suo pubblico, non è come prima quando le opere venivano regalate in
cambio di mantenimenti o per accrescere la propria fama (Petrarca).
Questo è il momento nel quale si passa dal mecenate all’editore. Il mecenate non vuole guadagnare con la letteratura, vuole solo
vedere che esista – l’editore vuole fare soldi vendendo libri.
Il vuoto nel rapporto autore-lettori lasciato dal mecenate venne riempito dalla figura economica dell’editore.
Vi è sempre dunque la figura di mediatore ma il mecenate diventa un imprenditore che chiamiamo editore che intercetta l’esistenza
di un pubblico e usa gli scrittori per produrre testi che poi pubblica e vende per guadagnare.
L’editore controllava tutti i principali canali d’opinione – giornali, periodici – e avevano dunque un potere molto grande che aveva
trasformato la letteratura in un mero bene di mercato.
Tra l’altro si noti che due dei tre scrittori citati, Defoe e Richardson, non sarebbero mai stati in grado di scrivere opere letterarie nel
secolo precedente. Non erano abbastanza colti, non erano dei dotti. Sono diventati grandi scrittori perché hanno scritto dei testi che
non avevano quella carica di erudizione e attaccamento alla tradizione necessari fino a quel momento -. Hanno invece scritto testi
più facili apparentemente.
Il successo di Defoe e Richardson è anche dovuto al fatto che, appartenendo alla borghesia, sapevano perfettamente che cosa
avrebbero dovuto rappresentare – seguendo i loro stessi standard - per avere successo.
Solo Fielding era un vero uomo colto.
Tra l’altro questi scritttori erano tanto più pagati quanto più il libro era lungo – romanzi sono abbastanza lunghi e venduti in tre tomi
di solito-.
Anche da questo fattore le lunghe descrizioni ambientali che permettevano di aumentare di molto il testo – per i sensi e per il mero
guadagno individuale- oltre che essere più chiari con il pubblico basso.
Poi avevano anche interesse a vendere – questi scrittori venivano pagati di più quanto più vendevano (anche oggi è così) -. Erano
situazioni del tutto inedite.
Dal punto di vista della critica sociologica i romanzi si presentano irriducibili ad un’ideologia ma dall’altro Watt esplicita i contenuti
sociali che si celano dietro le azioni dei personaggi.
Mai un evento, come il romanzo in questo caso, nasce dal nulla. Anche in questo caso, al di là di tutti i precedenti economici, sociali
e storici che Watt ha trovato c’era un precedente concreto dell’intrattenimento romanzesco: nei giornali egli individua la ricetta che
anticipa la venuta del romanzo.
In particolare due giornali: “Il Tatler” e “spectator” nati nei primissimi anni del ‘700 – anticipando di qualche decennio i romanzi visti
– questi proponevano la formula precisa che Watt individua nei romanzi.
Formula = del mix dell’intrattenimento e dell’apprendimento. Da una parte avevano giochi e racconti e dall’altra avevano notizie.
Dunque intrattenimento e formazione veicolati da uno stile semplice e diretto. Questa è anche la formula del romanzo diretto.
Possiamo considerare i giornali i genitori dell’intrattenimento romanzesco.
Entrambi i giornali erano molto ammirati dalle Accademie dei dissidenti.
Tra l’altro questi contenevano romanzi a puntate – il saggio periodico creò un gusto di cui anche il periodico potesse usufruire-.
Romanzi e giornali comunque nel ‘700 inglese vanno a braccetto.
Sempre nel ‘700 viene fondato il “Gentleman’s magazine” che è ancora più vicino alla formula del romanzo: informazioni pratiche
sulla vita politica interna combinata con pezzi edificanti e divertenti-.
Il tipo di libro più diffuso pubblicato nel XVIII secolo fu quello religioso:
1. era un pubblico indipendente dalla letteratura secolare
2.le pubblicazioni religiose non aumentavano in corrispondenza alla crescita della popolazione che leggeva.
Molti scrittori e lettori iniziavano con letture religiose (come Defoe e Richardson) e poi si specializzavano.
Vi è un fattore, in ogni caso, responsabile per il ritardo dell’espansione del pubblico dei lettori, in termini economici: le librerie
circolanti – per le quali gli abbonamenti non costavano molto-. Queste possedevano tutti i tipi di letteratura ma i romanzi erano la
loro attrattiva migliore.
In generale, nota Watt, nel corso del XVIII secolo la lettura sembrava essere quasi esclusivamente a scopo di passatempo
disinteressato, ma del resto le scoperte che si impossessano della mente sono quelle ottenute con minor fatica.
Un altro grande libro degno di nota è “Miti dell’individualismo moderno. Faust, don Chisciotte, don Giovanni, Robinson Crusoe”
(1996).
Questo volume può essere considerato come il suo testamento spirituale “rivolto al più vasto pubblico di lettori, e non allo
specialista”.
Watt individua il mito come “una storia tradizionale con una vastissima diffusione culturale a cui si attribuisce una verità quasi
storica e che incarna o simbolizza alcuni dei valori fondamentali della società”.
Watt qui studia personaggi né biblici né classici che si collocano alle radici della modernità e sono stati tutti oggetto di
numerosissime riscritture e riproposte – a dimostrazione del fatto che hanno colto le tendenze profonde dell’immaginario collettivo
e rappresentano dunque un significato molto più profondo del tipico personaggio letterario-.
Sono anche penetrati nel linguaggio: “patto faustiano”, “fare il don Giovanni” o “lottare contro i mulini a vento”.
Il destino di questi personaggi è però destinato anche alla punizione, dannazione o derisione – per quanto riguarda Faust (ucciso),
don Chisciotte (muore dopo aver espiato le sue colpe) e Don Giovanni (piaceri mondani ed esperienza estetica) – tutti e tre romanzi
dal XVI al XVII secolo-.
Robinson Crusoe invece è dominato dalla ricerca razionale del suo vantaggio materiale; è iperattivo, privo di relazioni affettive
autentiche. L’attivismo borghese che incarna è sganciato da ipoteche religiose e si trova in una propria apoteosi dell’individualismo
produttivo.