8 settembre 1943: Badoglio, con un comunicato radio, annuncia l’armistizio dell’Italia con gli alleati,
ma la guerra continua per gli avversari dell’Italia; l'Italia diventa uno dei principali campi di battaglia
per la presenza nazista sul territorio - Badoglio nel messaggio radio aveva annunciato che gli italiani
si sarebbero dovuti difendere dall'avanzata nemica, ma non si sa piu chi sia esattamente il nemico:
i soldati sono confusi, per lo più si cerca di lasciare la divisa. La guerra al sud, con lo sbarco alleato
(estate 1943), finisce prima mentre al nord rimane l’occupazione nazista, respinti dall'avanzata
statunitense e inglese che parte dalla Sicilia; a Napoli arrivano nel settembre del 1943 mentre Roma
viene conquistata dagli alleati nel giugno del 1944; questo rallentamento avviene perché gli alleati
erano concentrati sul fronte nord, con il famoso sbarco in Normandia (giugno 1944).
Nel frattempo nel nord italia, Mussolini era stato liberato ed era stato messo a capo della Repubblica
Sociale Italiana, guidata nominalmente da mussolini ma di fatto a guida nazista; in questi drammatici
anni, il nord Italia viene bombardato, soprattutto nelle grandi città; i bombardamenti costano la vita
a 2000 persone e il 43% del nucleo di Milano viene distrutto o gravemente danneggiato. Tra il 43 e
il 45 si diffonde anche il fenomeno della resistenza, lotta armata da parte dei partigiani, militarmente
molto impreparati, che ha avuto un ruolo molto importante per restituire una dignità e libertà all’Italia,
che per vent'anni era stata fascista. Questo ha dato anche un'altra immagini all’Italia che sarà poi
favorevole per i trattati di pace del maggio del 45 alla fine della seconda guerra mondiale per
l’Europa; per il mondo termina nell’agosto del 46 quando l’America sgancia le due bombe atomiche
sul giappone, sganciate solo per mostrare all’URSS quanto fossero forti militarmente;
25 aprile 1945: fine della guerra in Italia, inizio della contemporaneità. L’italia esce dalla guerra in
terribili condizioni sul piano sociale, economico, politico e umano. Il 70% dei treni era fuori uso, un
viaggio Napoli-Milano durava 2 giorni; il consumo pro capite era dimezzato rispetto all’Italia pre-
guerra mentre il costo della vita aumenta dalle 30 alle 50 volte; la produzione industriale era ⅓
rispetto all'inizio del periodo pre-bellico, quello agricolo la metà; altissima la disoccupazione e lo
stesso per la povertà e malnutrizione. Il periodo post bellico viene chiamato ricostruzione: c’era un
paese da ricostruire sul piano economico, umano, urbanistico ma anche politico, dopo la caduta del
governo fascista che nessuno aveva mai messo in discussione; viene messa in discussione anche
la cornice istituzionale che aveva permesso l’ascesa del fascismo, la monarchia; è Vittorio Emanuele
III che al momento della marcia su Roma, affida a Mussolini l’incarico di formare un governo il 30
ottobre del 1922. Immediatamente, con la liberazione, torna la libertà di espressione e di
associazione, quindi la possibilità di rinascita dei partiti.
2 giugno 1946: l’Italia, con il referendum, diventa una Repubblica Democratica e Parlamentare, con
il 54% del voto degli italiani; l’Italia è, però, spaccata in due perché nel sud italia con il 65% si era
imposta la monarchia. E’ anche la prima volta che si vota con suffragio universale, il voto non è più
basato sul censo, ma anche per la prima volta votano le donne; si vota anche per l’assemblea
costituente, formata da 566 persone dei vari partiti, che avrebbero dovuto riscrivere la costituzione
della nuova Italia.
1 gennaio 1948: promulgazione della nuova costituzione, ancora vigente, estremamente avanza
sul piano dei diritti civili così tanto che alcuni principi chiaramente esposti non sono stati realmente
applicati, né fin da subito né mai, per esempio l’articolo 3. Un’altra contraddizione sono gli apparati
statali che erano stati completamente colonizzati dal fascismo; all’inizio si parla di una epurazione
dei lavoratori statali iscritti al partito fascista (tutti) ma questo non è mai avvenuto quindi gli ex fascisti
hanno mantenuto il loro posto.
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Durante il fascismo, i partiti vennero resi illegali nonostante il loro continuo funzionamento di
nascosto; dopo la guerra ritornano in auge e ricordiamo il Partito Comunista Italiano guidato da
Palmiro Togliatti, segretario dal 1927 al 1964, fino alla sua morte; un altro partito era quello Socialista,
di importanza minore dal punto di vista di voti, il suo segretario Pietro Nenni rimane dal 1930 al 1963;
il partito che da subito prende più voti, è la Democrazia Cristiana, partito di centro di ispirazione
clericale, il cui segretario dal 1944 al 1954 Alcide De Gasperi; un altro partito era quello
Repubblicano, decisamente meno significativo sul piano elettorale, principale segretario Ugo La
Malfa; ricordiamo anche Giovanni Spadolini, primo presidente del consiglio non di Democrazia
Cristiana.
L'unità nata dalla costituzione si rompe molto presto sul piano politico non solo per la singola identità
dei partiti, ma anche per la situazione a livello mondiale, con la separazione in due blocchi diversi
che dominano il mondo del dopoguerra, il blocco occidentale e statunitense e quello sovietico e
comunista. In italia il principale partito filo-americano era la DC e quello Repubblicano, mentre quello
filo-sovietico era quello comunista e quello socialista, in minor parte. Tutto il mondo era stato diviso
in due ma questa divisione avviene già prima della fine della guerra e viene decisa a Jalta, in Crimea,
sulla costa nord Mar Nero, nel febbraio del 1945 dove i tre capi di stato, Roosevelt, Churchill e Stalin
gestiscono il dopoguerra. L’italia viene inserita nella sfera di influenza americana e ciò ha
determinato la nostra visione del mondo che si basa su valori statunitensi come è ancora oggi. L’Italia
gode così del piano Marshall, un massiccio piano di aiuti, progettato da George Marshall, dai
macchinari industriali, con anche le conoscenze per rimettere in piedi il paese, a beni di prima
necessità. Con l’economia arrivano anche tutti i valori sovrastrutturali come la musica, i telefilm etc
che hanno influenzato la visione del mondo; questi aiuti erano in cambio della sottomissione politica
all’America, quindi l’implicita impossibilità per il PCI di andare al potere; se questo fosse avvenuto,
gli americani avrebbero abbattuto il governo ma questo non è mai stato necessario perché non è
mai salito al potere a causa dell'ideologia diffusa dagli americani.
18 aprile 1948: vince Democrazia Cristiana con quasi il 50% dei voti, contro il 30% del fronte
popolare (PCI + Socialisti) che solo due anni prima avevano il 50% dell'elettorato; questo
cambiamento avviene grazie al piano Marshall e alla propaganda americana. La DC rimane al potere
fino agli anni ‘90 non perdendo mai un’elezione; lo tiene quasi sempre da sola se non, a volte, con
altri partiti centristi come i repubblicani. A partire dal 1960 c’è il tentativo di fare coalizioni di governe
diverse.
Anni ‘60. Nel 1958 finisce il dopoguerra, la ricostruzione e inizia una nuova fase, la fase del
cosiddetto boom economico che va dal 58 al 63 (nella slide film “il sorpasso” di Dino Risi con
Gassman e Trintignant). Fino al 58 l’Italia aveva continuato ad essere un paese contadino e
relativamente povero ma poi la situazione cambia perché, nel giro di pochi anni, subisce il trauma
della modernità (shock di Benjamin); tutti i paesi stavano cambiando molto sul piano economico ma
l'Italia cresce molto di piu e piu rapidamente, ma solo perché partiva da una posizione di forte
povertà.
Si tratta proprio di un miracolo economico, perché non si capisce come fosse possibile che l’Italia
stesse bruciando così tante tappe; ma non tutti sono così contenti del boom economico e Palmiro
Togliatti guarda avanti e, in un discorso in parlamento nel ‘58, preannuncia un’imminente crisi
economica. Continuano ad arrivare gli aiuti economici e le macchine statunitensi ma con anche
l'ideologia anglosassone, radici di questo boom. L'ideologia anglosassone faceva girare la vita
intorno alla ricchezza e ad un’etica del lavoro arrivista che si vede contrapposta alla vita
mediterranea lassista (Marx Weber spiega la connessione tra capitalismo e protestantesimo).
L’Italia aveva a disposizione molta manodopera a basso costo, moltissime persone disposte a
lasciare i campi per una nuova vita nelle fabbriche e in città e questo permette l’aumento della
produzione (si diffonde anche il taylorismo); molti industriali quindi producono e guadagnano molto,
ma non distribuiscono questa ricchezza. Solo quando questa ricchezza viene distribuita, con
l’aumento dei salari e delle assunzioni, aumenta il consumo e quindi la ricchezza nel paese. Nel
settore primario nel 1954, lavoravano ancora 8 milioni di italiani, nel 1964 erano solo 5 milioni ma
con un aumento della produzione agricola per l’arrivo delle macchine e degli agenti chimici. La
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produzione industriale, a cavallo del boom, cresce dell’84% e si producono pezzi automobilistici,
elettrodomestici e si sviluppa l’industria siderurgica. Uscita dal boom economico, l’Italia si mette al 7
posto come produzione industriale a livello mondiale.
La televisione nasce nel 1954 e nel 1958 1 famiglia su 10 la possedeva, nel 1960 il doppio, cinque
anni dopo 1 su 2; lo stesso vale per frigoriferi e lavatrici; per le motociclette in un decennio si passa
da 1 a 4 milioni e per le auto meno di 2 milioni nel 60, nel 65 a 6 milioni. L’Italia diventa un paese
consumista perché vengono consumati beni non indispensabili che hanno una crescita maggiore di
quelli di prima necessità; non è più un paese del bisogno, ma del desiderio.
Altre conseguenze, oltre al cambio di produzione, sono sul piano sociale; le migrazioni, da sempre
un sintomo di sproporzione, indicano che tutto ciò avviene soprattutto nel nord d’Italia, mentre nel
sud non si impianta quella piccola borghesia con attitudini imprenditoriali con spirito fattivo del nord
Europa che si stabilisce invece nel nord. Questo fa comodo ai politici che possono promettere agli
italiani provenienti dal sud Italia posti statali in cambio di voti ma fa comodo anche al nord perché
poteva trovare manodopera a basso costo. Molte persone cominciano così a migrare nelle grandi
città industriali del nord (migrazione interna) abbandonando la vita contadina del sud per andare
nelle città del nord; si sogna la vita nuova che si vedeva in televisione.
Le prime migrazioni negli anni 50 sono provenienti dal Veneto da dove molti contadini si
trasferiscono a Milano, Torino, Genova, poi dal sud italia. Si tratta di un esodo: 2 milioni di persone
(soprattutto uomini) tra i 20 e i 40 anni lasciano le loro terre e ne arrivano 1.300 mila solo nel triangolo
industriale e Bologna. Tra il 51 e 61, Milano cresce i suoi abitanti di 600.000 nuove presenze (oggi
1 milione), Torino di 400.000; i paesi della fascia periferica nord erano dei villaggi mentre ora
diventano delle città da varie decine di migliaia di abitanti proprio in questi anni perché spesso molti
migranti non potevano permettersi di abitare a Milano e si trasferiscono quindi in questi paesi, che
quasi nascono ex novo.
Cambia così il volto del paese anche a causa dell’urbanizzazione, per la forte necessità di trovare
nuove soluzioni abitative; tra il 50 e il 64, aumentano del 700% le abitazioni costruite da zero. Si
vede anche la costruzione delle strade, il primo tratto Milano-Piacenza dell’A1, Milano-Napoli,
Autostrada del Sole, viene costruito nel 68; non si sviluppa quello ferroviario a causa della pressione
dell’industria automobilistica sulla politica. Inizia a diffondersi il sogno di una vita ricca e spensierata
che sempre alla portata di tutti; cambiano anche i protagonisti che diventano i giovani, coloro che
possono fare proprio e stare ad agio e in comodità nel nuovo e moderno mondo; cambia anche la
mentalità, più aperta alle influenze da fuori: cambia la musica, il modo di vestirsi, le pettinature, i
costumi relazionali e questi cambiano rapidamente e di continuo. I giovani sono anche straordinari
consumatori quindi clienti primi dei nuovi prodotti.
Il centro-sinistra. Il sistema politico italiano non era pronto per gestire il grande cambiamento del
boom economico e al governo c’era la DC che subiva molto l’influenza dei cattolici più conservatori
e del Vaticano molto poco progressista. C’è quindi una politica che non recepisce le novità
economiche strutturali e si auto-esautora dal gestirle, impedendo l’innovamento del paese che parte
dalle dinamiche economiche che si impongono da fuori - l’Italia è ormai inserita in un contesto
mondiale; quindi, l’elemento sovrastrutturale della politica non riesce ad adeguarsi ai cambiamenti
dell’economia facendo così esplodere le contraddizioni. Lo Stato, per esempio, si rifiuta di arginare
i singoli interessi privati impedendo così la ricchezza diffusa: in Italia cominciano a girare tanti soldi
che lo Stato recupera con molte tasse, a questo punto avrebbero potuto mettere in cambio dei
progetti per portare l’Italia alla modernizzazione ma non solo non si oppone all’urbanizzazione
selvaggia guidata solo dall’interesse speculativo che cambia il volto al paese, ma anche non porta
avanti una lotta all'evasione fiscale o al lavoro nero; inizia a diffondersi la sensazione che lo Stato
con i suoi controlli non ci siano e questo diventa un grosso problema, ancora attuale, dell'Italia.
C’è però un tentativo politico di portare il sistema italiano al livello della metamorfosi che era in atto.
Nei primi anni ‘60 la DC tenta un esperimento progressista e riformista, una coalizione che metteva
insieme i partiti di centro e la sinistra moderata. Nasce un centro sinistra con i socialisti di Nenni che
appoggiano dall’esterno, nel senso che danno i voti in parlamento ma non hanno ministri nel
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governo; si fa poi un salto e nel ‘62 nascono dei governi con anche ministri del partito socialista con
obiettivo ultimo la modernizzazione del paese e di attenuare gli squilibri territoriali del paese. Nel ‘62
viene introdotta la terza media obbligatoria - va a sostituire le scuole di avviamento professionale
agricolo - e viene riformata come è oggi: tre anni, non specializzata quindi volta ad una educazione
generale; si ammorbidisce inoltre la censura sul cinema prima molto stringente (per il Vaticano ma
anche per la politica stessa); viene abolita anche la legge che impediva alle donne di raggiungere
posizioni di rilievo nell’ambito lavorativo. Si cerca quindi di rendere la struttura dello Stato e della
società adatta alla modernizzazione che stava avvenendo nel popolo.
L'esperimento dura poco: nel ‘64 Nenni impedisce l’attuazione delle riforme più significative, già
firmate, che il centro-sinistra voleva attuare. All'inizio questo comportamento fu inspiegabile ma poi
si scopre che Nenni temeva che il governo di centro-sinistra venisse sostituito da uno di destra,
conservatore con un colpo di stato; gli era stato fatto sapere che forze armate e servizi segreti
statunitensi avevano preparato il piano “SOLO” che, nel ‘64, era pronto a scattare. Il piano era stato
gestito in italia dal generale dei carabinieri De Lorenzo con l'obiettivo di far cadere il governo e di
uccidere Nenni stesso; per evitare ciò, Nenni considera meno rischioso, per se stesso e per il paese,
rallentare la foga progressista. La stagione progressista dell’Italia termina così sotto la minaccia di
un colpo di stato militare.
Questo succede perché le forze che realmente governano il paese, la grande borghesia italiana ma
anche la politica statunitense, non guardavano di buon occhio la modernizzazione politico-sociale-
culturale dello Stato perché questo avrebbe aperto le menti della popolazione e temevano un
sovvertimento sociale molto forte, avendo anche un forte partito Comunista; volevano tenere il
popolo in una situazione di ignoranza politico-culturale per evitare di scardinare lo status quo e quindi
perdere la loro posizione privilegiata.
Da questa interruzione delle riforme, deriva che il popolo registra una sempre maggiore distanza tra
la propria vita quotidiana immersa nella modernità e lo Stato italiano e la sua amministrazione; deriva
inoltre che il PCI vede crescere i propri voti: in dodici anni crescono dal 24% al 35%, soprattutto
grazie ai giovani e ai lavoratori.
Questi slogan sono il prodotto di una società di “Studenti per la Democrazia” californiani che
elaborano le parole chiavi dei vari slogan dei movimenti studenteschi che nascono proprio in
California dal ‘67.
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E’ una geografia mentale che non conosce più confini mentali, ma temi di rilevanza globale; tutto
questo avviene perché per i giovani degli anni 60, per la prima volta, si era allungata molto la fase
dall'uscita dell’infanzia e all’ingresso nella fase adulta, la fase dell’adolescenza, della formazione
scolastica; prima, si diventava adulti già a 14 anni quando si cominciava a lavorare e si metteva su
famiglia a 17/18 anni: la fase tra la fanciullezza e la necessità di stare al mondo lavorando, non
esisteva; si passa da una fase di inconsapevolezza delle dinamiche del mondo, a una fase in cui
queste ti imponevano di stare al mondo in un determinato modo.
Nel dopoguerra, nel mondo occidentale, si inizia a studiare più a lungo, si lavora e si mette famiglia
dopo, si resta giovani più a lungo, si ha tempo di formarsi e quindi si ha tempo di studiare il mondo
senza esserci dentro: si resta più a lungo sulla soglia del mondo a guardarlo con occhi di chi ha
tempo di imparare qualche coordinata intellettuale per comprendere le dinamiche vigenti nel mondo,
con occhi capaci di vedere dentro il mondo senza essere ancora compromesso dentro questo, senza
essere schiacciato dalle necessità che nascono una volta che si è all’interno del mondo. Gli studenti
del 68 sono i primi, in Italia, che vincono questa terra generazione di nessuno e possono criticare i
comportamenti dei padri.
Tutto questo succede per la globalizzazione culturale del sistema occidentale: iniziano ad arrivare
in italia esperienze artistiche, politico-culturali del tutto inedite che spalancano orizzonti prima
inimmaginabili: si diffondono le canzoni protestatarie di Bob Dylan; inizia il mito di Ernesto Guevara,
‘“il Che”, guerrigliero marxista che favorisce la rivoluzione cubana e cerca di innestare la rivoluzione
socialista, tra gli anni ‘50 e ‘60, anche in altri paesi dell’America del sud, finché non viene ucciso;
iniziano a circolare le proteste contro la guerra del Vietnam (55-75); esperienze culturali
internazionali come l’ideologia di Marcuse, scuola di Francoforte, che nel 67 pubblica “l’uomo a una
dimensione”, libro fondamentale per coloro che protestavano; un altro titolo importantissimo “lettera
a una professoressa”, l’autore dietro “Scuola di Barbiana” era Don Lorenzo Milani, un prete mandato
sugli appennini, perché scomodo, dove fondò una scuola; un libro molto polemico indirizzato ad una
professoressa qualsiasi che simboleggia i professori italiani, che mostra come tutti i ragazzi bocciati
e maltrattati, quando si rifugiano nella scuola di Barbiana, non gerarchica ma orizzontale, è in grado
di mostrare che non esistono ragazzi sbagliati, che non sono in grado di formarsi, solo che la scuola
non è in grado di farlo perché rifiuta i figli delle classi non dominanti.
A partire dal ‘68 cominciano i movimenti: si comincia dall'Università di Pisa, poi Cattolica di Milano,
poi Torino, Trento e poi in tutta la penisola, anche se maggiormente al centro-nord, confermando la
spaccatura del paese non sanata durante i vent'anni di ricostruzione: è al nord che più arrivano le
influenze politico culturali d'oltralpe. L'obiettivo primario era quindi eliminare dalle Università i baroni,
professori che non assecondano la formazione degli studenti nonostante i forti privilegi di cui
godevano.
La classe dominante reagisce con due risposte, una a breve termine - per bloccare le proteste - e
una a lungo termine - per bloccare sul nascere queste proteste e riportare stabilità a livello sociale.
Quella a breve termine viene messa in campo già il 12 dicembre del 1969 con una bomba a Piazza
Fontana, collocata nella Banca dell'Agricoltura di Milano che causa 16 morti e 90 feriti; fin da subito,
senza prove, si incolpa il movimento anarchico (questo nasce dall’idea che qualsiasi governo è
oppressivo per la società e aspira dunque ad una gestione della convivenza umana senza il bisogno
di qualcuno che la governi, pensa dall'auto-regolazione dell’individuo); subito viene arrestato un
ballerino Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli, un ferroviere, che muore “suicida” buttandosi dal quarto
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piano della questura di Milano mentre veniva interrogato - ora si sa che venne spinto.
Negli anni successivi c’è stato un lungo percorso processuale che ha mostrato un’altra verità: gli
esecutori materiali della bomba sono stati non gli anarchici, ma gruppi neofascisti in combutta dai
servizi segreti italiani deviati. Si parla di una strage di Stato - perpetrata dallo Stato stesso - secondo
una strategia della tensione che ha lo scopo di iniettare nella popolazione grandi dosi di paura
affinché la cittadinanza si raccolga fiduciosamente intorno alle forze che la possono difendere, quindi
le forze dell’ordine e lo Stato medesimo; lo Stato, così, agli occhi della popolazione, si rafforza e le
proteste cessano perché ci sono altri pensieri (stessa cosa che aveva favorito l’ascesa di Hitler:
incendia il parlamento, dà la colpa ai comunisti e il Presidente della Repubblica affida a Hitler il
cancellierato per riportare la calma). Per un altro decennio, scoppiano bombe: maggio 74 in piazza
Loggia a Brescia; nello stesso anno, ad Agosto, sul treno italicus all'altezza di Bologna; sempre alla
stazione di Bologna, nell'agosto dell’80; altrettanto ambigua fu la morte (omicidio?) di Feltrinelli che
muore cadendo da un palo della luce; muore non per la caduta ma per la bomba che aveva in mano
che, si dice, stava mettendo sul pilone a Segrate perché avrebbe privato l'elettricità a Milano; anche
su questo si discute che questa morte non fosse accidentale ma un vero omicidio.
La strategia della tensione porta all’effetto desiderato con la calma della situazione sociale come
risultato; dapprima il partito di opposizione (PCI) intercetta molti voti perchè i cittadini, scontenti del
fallimento delle proteste, votano il partito di opposizione. In realtà, però, a lungo termine si vede
anche uno spostamento verso destra in politica: si votano i partiti più moderati, più vicino allo Stato;
questo va ovviamente a vantaggio della DC che non aveva mai perso il governo ma fino al 76 era
minacciata dal PCI. Un minimo di modernizzazione comunque arriva: nel 70 legalizzato il divorzio e,
quando nel 74 viene indetto un referendum per ripristinare l'illegalità del divorzio, questo viene
rifiutato; nel 78 viene regolato l’aborto e vengono aboliti i manicomi grazie alla legge Basaglia del
78.
La risposta a lungo termine della classe dominante influenza ancora noi oggi: quello che davvero ha
messo a tacere le richieste di un’egualitaria gestione dello Stato che provenivano dalle classi sociali
più basse, è stato il consumo; lo slogan decisivo degli anni ‘80 è “vogliamo tutto”: i lavoratori che
lavorano, ovvero coloro che di fatto producono ricchezza, vogliono indietro quello che producono nel
senso di ridistribuzione della ricchezza, giustizia e diritti; questo diventa un vi offriamo tutti, non
realmente diritti, ma vi offriamo quei beni che la forma mentis consumista ritiene indispensabili
(depliant Walmart). C’è un allontanamento dalla politica perché si diffonde un nuovo benessere,
facendo così che calasse l’interesse per la giustizia sociale; la classe dominante ottiene ciò
trasformando i cittadini in consumatori che vengono oscurati da beni materiali: sono più gestibili dei
clienti, piuttosto che dei cittadini. Negli anni 80 si diffonde, in un contesto meno politicizzato, il
fenomeno dei paninari, ragazzi che si vestivano con capi firmati e rimanevano fuori dai locali più
famosi (il Burghi), ostentando il loro disinteresse per il sociale e per la politica; nonostante le prese
in giro, questo modo di vivere si impone. Il singolo non è più parte della società, ma ottiene una
felicità del tutto individuale grazie ai beni di consumo; questo fa ovviamente comodo alla classe
dominante.
Processo Mani Pulite. Gli anni 80, in questo senso, sono quelli più vicini a noi (i “nostri fratelli
maggiori”); su questa dinamica si inquadra uno spostamento politico internazionale di grande
rilevanza: se il consumo si impone è anche perché viene meno il grande nemico del capitalismo, il
comunismo. Nel 1989 crolla il muro di Berlino e nel 91 l’URSS; questo porta, dagli anni 90, alla
scomparsa del PCI che subisce molti scissioni, nasce il PDS - Partito Democratico della Sinistra -,
oggi PD. Cadono anche gli altri partiti come la DC e il Partito Socialista ma per una dinamica interna
differente: nel 1992 scoppia il caso di Tangentopoli, variante del nome ufficiale dell'inchiesta che
nasce a Milano, Mani Pulite. I potentati economici avevano in italia, un rapporto molto stretto con i
partiti politici: le grandi imprese pagavano gli uomini politici affinché facessero le politiche di cui la
classe dominante aveva bisogno. Per esempio Mattei, fondatore dell'ENI diceva: “io i partiti li prendo
come taxi, li chiamo, ci salgo sopra, poi pago la corsa e scendo quando sono arrivato”. Prende il
nome di Tangentopoli perché, il potentato economico di turno, pagava tangenti al politico affinché
questo producesse delle leggi che gli potessero giovare; ma la corruzione, in generale, era diffusa
anche a livelli più bassi: qualsiasi imprenditore sa che, se vuole vincere una gara d’appalto, doveva
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relazionarsi con i politici, sovvenzionare per vincere l’appalto;
i soldi in più gravano ovviamente sui cittadini. Nell’indagine di
Mani Pulite i tre principali magistrati che hanno coordinato
l’inchiesta erano Di Pietro, Colombo, Andreotti, Davigo (in
foto). Il 17 febbraio 92 c’è il primo arresto seguito da altri 4525
e 2540 avvisi di garanzia; di quegli arresti, 1500 dovevano
riguardare i politici (pochi andarono in galera) ma è un vero e
proprio terremoto per
la politica e per DC e
per il Partito Socialista
soprattutto. Andreotti,
presidente del
consiglio, si dimette,
processato anche per
mafia ma ne è sempre
uscito pulito. Rimase
coinvolto anche il
presidente della
Repubblica, Cossiga.
Questo muta
completamente la politica italiana e abbatte i partiti politici del
tempo. A sinistra, il segretario di DC, Arnaldo Forlani, in corsa
per la Presidenza (in foto mentre è interrogato da Di Pietro in
tribunale). A destra, Bettino Craxi, segretario PSI, si dimette e
scappa in esilio in Tunisia, dove muore.
L’accezione di morale è differente e più complessa; Milano era vista come il luogo in cui si lavorava
e ci si arricchiva, ma anche un luogo in cui vinceva una spiccata eticità che riguardava sia gli affari
sia l'amministrazione; è quindi la città del lavoro ben fatto nel rispetto delle norme. L’accezione di
capitale economica è valida ancora oggi - la forza economica della città è ben nota - ma l’appellativo
di capitale morale Milano lo perde dopo Tangentopoli e il suo principale indagato, Craxi; il caso
scoppia proprio nella città di Milano, ma è complice anche la provenienza del “milanesissimo” ma
temutissimo Craxi, emblema del caso Mani Pulite e responsabile della fine della gestione della cosa
pubblica da parte di Milano. Nemmeno il successore di Craxi, Berlusconi, ha riportato in auge la
moralità di Milano. La Milano dei testi analizzati, però, dal 1920 agli anni ‘60, era ancora la capitale
sia economica sia morale.
Sin dall'Unità, molte regioni si sono attardate nello sviluppare delle industrie, facendo permanere
così delle dinamiche tradizionali che diventano anacronistiche presto; la Lombardia e Milano hanno,
invece, presto voltato le spalle alle loro origini meridionali e latine per fare proprie l’economia, i servizi
e i valori dell’Europa continentale (e protestante, vd. Weber). Il rapporto tra Milano e il resto d'Italia
è problematico e questo si nota anche dalla nascita di compagini politiche come Lega Nord, partito
fondato nei primi anni 80 in paesi tra Como e Varese da Umberto Bossi che prendeva prima il nome
di Lega Lombarda e che concentra il suo programma politico nella zona nord della penisola; la
ricchezza e la modernità della Lombardia e di Milano sono stati utilizzati presto come strumento per
rivendicare le peculiarità e i privilegi economici della zona; ricordiamo Bossi e la sua affermazione
“Roma ladrona” e lo stesso disse, in altre parole, anche Berlusconi che scende in politica nel 1994
con un partito nato da pochissimo tempo, ma ottiene moltissimi voti con la retorica della sua
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grandezza economica e della sua imprenditorialità da poter sfruttare poi anche in politica; si allea
poi con Lega Nord creando un asse del Nord che preme sulla grande capacità e superiorità
economica lombarda.
Questo era già successo, di fatto, anche in passato, con Mussolini - ricordiamo che il fascismo nasce
proprio a Milano, con Craxi, Bossi e Berlusconi: questi Milanesi portavano a Roma il loro sapere e
la loro operosità, ma non hanno milanesizzato Roma e nemmeno l’Italia, ma si sono romanizzati loro
stessi. Milano non è mai stata in grado di esportare nella penisola in termini politici la sua forza
economica: politicamente non è mai stata al potere se non dopo essersi “romanizzata”.
Questa separatezza di Milano dal resto d’Italia è radicata anche sul piano culturale; dalla battaglia
di Casteggio (222 a.C) la zona Nord dell’Italia è latina, fa parte dell’Impero Romano, una volta
scacciati i Celti, e fino al VI secolo d.C (quando arrivano i Longobardi) la prima struttura realmente
organizzata è quella latina, mediterranea, romana, ma la cultura latina a Milano non è considerata;
anche in questo caso la lingua non mente: Lombardia proviene da Longobardia, un nome che deriva
dalla popolazione nordica che nel VI secolo ha conquistato il nord-centro Italia, ma lasciano il loro
nome solo al nord.
Monocentrica. Dal centro Milano si estende per cerchi concentrici senza che un altro quartiere si
guadagni un proprio prestigio: Milano rimane monocentrica a differenza di altre metropoli europee
(New York, Londra, Atene, Berlino etc) dove la costituzione non è basata su un occhio centrale e poi
quello che c’è intorno, come Milano, ma sono più costruite a scacchiera, a puzzle. Milano non ha la
complessità urbana e sociale delle altre città, è quindi una piccola città dove è semplice distinguere
centro/periferia e questa strutturazione urbanistica rispecchia una struttura gerarchica: tanto più ti
allontani dal centro, più il tuo benessere decresce. Milano è quindi sì una città accogliente, ma tutti
devono stare al loro posto: la borghesia ricca e colta sta vicino al centro, la piccola borghesia poco
distante, vicino ai navigli, il resto nella periferia.
Ricca. Milano nel 900 mantiene forte la sua ricchezza sulla capacità di rinnovarsi e cambiare pelle;
a differenza di altre città italiane, Milano, sul piano economico, non è mai stata monotematica, non
ha mai avuto un unico volto (es. Ilva per Taranto, Fiat per Torino etc), non ha mai avuto un singolo
settore che ha caratterizzato le sorti della città, ha sempre differenziato i suoi investimenti. Questo
ha ovviamente favorito la ricchezza economica per la sua pluralità di pratiche come l’industria
pesante (dalla metà dell’800), con metalli, gomma; l’edilizia (momento della ricostruzione, ma anche
tutto secondo ‘900); dagli anni ‘80 è stata capitale finanziaria con la sua modernità leggera; sin dal
‘900 è stata capitale editoriale della penisola, editori di libri, giornali, settimanali e questo porta anche
il settore della pubblicità e del marketing; anche l'industria culturale con letterati e poli giornalistici
accrescono Milano; dagli anni ‘80 diventa prima anche nei servizi: es. Sesto San Giovanni da
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capitale industriale dell’industria (veniva chiamata Stalingrado d’Italia) ma si è reinventata nel settore
dei servizi - Università; Milano anche capitale della moda e del design, acquisendo importanza
internazionale. E’ proprio la varietà di specializzazioni economiche che garantiscono a Milano il titolo
di capitale economica.
Brutta. L'identità turistica peculiare di altre città (Roma, Firenze etc) fanno sì che forze politiche si
impegnino nella preservazione del posto; Milano, nella sua corsa alla ricostruzione economica, non
si è interessata a mantenere il bello architettonico. Milano non hai mai dato tregua al suo
rinnovamento urbano ed quindi difficile riconoscere una sua identità e momenti, con monumenti,
storici che la caratterizzano (Duomo fa da eccezione). Milano è moderna, sempre in mutamento, ma
anonima e grigia. E’ il 900 che ha dispiegato al massimo grado la sua vocazione modernizzatrice
perché fino alla fine dell’800 era molto più italiana: il centro storico era simile a quello delle altre città,
con vecchi palazzi sei/settecenteschi o medievali abitati prima da classi popolari, poi dai più ricchi,
con viuzze strette dove si sente il peso
degli anni e della storia. In foto evidente la
genericità moderna della città con strade
lunghe per facilitare i trasporti. La
distruzione della storicità urbanistica di
Milano inizia proprio nel 900. La prima
tappa è nel centro storico che non è più
storico: A sinistra, si notano i resti intorno
al Duomo, dei palazzi di origine
medievale, ristrutturati nei secoli, di
origine popolare ma, con il fascismo, si è
deciso che Milano doveva acquisire un volto monumentale, maestoso e perdere la sua popolarità; a
destra è piazza Diaz che nasce, come la conosciamo oggi, con il fascismo.
Anche Piazza Vetra, con le colonne di San Lorenzo e il quartiere Bottonuto, un quartiere malfamato,
viene modificata nel tempo perdendo il suo carattere popolare per assumere la fisionomia che
conosciamo oggi. In foto a fine Ottocento.
L’altra operazione del fascismo che ha cambiato il
volto di Milano, è la copertura dei navigli, avvenuta
negli anni ‘20/30; Milano era una città d’acqua, non
come Venezia, ma come Amsterdam e Anversa; i
navigli attraversano tutta la città di Milano. I navigli
erano stati coperti per questione di umidità, di odori,
per animali mal graditi come topi, quindi per questioni
di igiene, ma anche per facilitare gli spostamenti, per
renderli più veloci con l’avvento del motore a scoppio.
Il fascismo di fatto però non ha cambiato molto il volto
della città, non ha mutato l'identità del paese, è stato
un mutamento più apparente. In foto prima e durante
la copertura:
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Milano viene distrutta dai bombardamenti aerei inglesi e francesi tra il 1943/45 e il 25% dei vani
abitativi della città diventano inagibili; tanti luoghi simbolo di Milano vengono danneggiati come la
Ca’ Granda (sede della Statale), Palazzo Marino, Santa Maria delle Grazie, Galleria, Castello
Sforzesco, Teatro alla Scala, la Pinacoteca di Brera. Alla distruzione della città, con il tipico pìgnolo
fattivo lombardo, fra il 1945/50 è seguita la ricostruzione, positiva, ma è avvenuta anche sulla base
degli interessi privati degli speculatori che ignorano il bene collettivo. Questa avviene, infatti, al di
fuori di un piano regolatore generale (il primo, ufficialmente regolato è del 53, a cose fatte) che non
si è voluto fare a livello politico, influenzato dagli interessi privati. Questo è surclassato da un piano
emergenziale di ricostruzione caratterizzato dalla sua permissività e dalla rapidità dei tempi di
costruzione degli interventi abitativi che si stabiliscono dove, in un piano regolatore ben fatto, non si
sarebbero fatti. Gli interessi privati di corto respiro, adducendo sulla necessità di una ricostruzione
post bellica, schiacciano le vere necessità collettive di lungo termine.
Uno dei massimi architetti del 1900, Gio Ponti si riferiva all'urbanistica milanese post bellica come
“una dittatura di Ulisse”, nel senso di una dittatura di Nessuno per far riferimento al mancato
coordinamento di largo respiro che aveva come criterio il bene della collettività, denunciando quindi
la politica. Il vuoto di potere politico determina quindi il panorama anonimo e poco attraente di Milano.
Nella zona centrale i tanti palazzi storici potevano essere recuperati ma i proprietari, di nascosto,
mandavano gli operai a prendere a picconate i muri portanti per dimostrare che era necessaria una
ricostruzione del palazzo, una ricostruzione con una metratura molto più grande che permetteva loro
un maggiore guadagno. Gli interessi privati quindi cambiano il volto della città e determinano la
perdita dei grandi monumenti storici; Gio Ponti diceva che le testimonianze architettoniche del
passato sembrano dei relitti di un grande naufragio, immersi nella modernità di Milano che rimane,
architettonicamente, sempre nel presente, senza acquisire una sua identità storica.
Per il boom economico (1958-63), preparato dall’accumulazione di capitale che avviene tra il 48 e il
55, si parla di una produzione industriale che aumenta del 95% (senza aumento dell'occupazione,
quindi i soldi rimangono agli imprenditori che si vedono aumentare i loro utili dell’86% con i salari
degli operai che aumentano del 6%); è negli anni del benessere diffuso che Milano diventa se stessa.
L’altro elemento che cambia il volto della città sono le migrazioni: nascono le estesissime periferie;
nel 1962 gli immigrati a Milano sono moltissimi: il 23% della popolazione milanese proveniva da altre
province lombarde, il 14% dal Veneto, l’11% dal sud. Queste persone avevano quindi bisogno di
soluzioni abitative; chi non può abitare a MIlano si trasferisce nell'interland: gli abitanti di Bresso
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aumentano del 155%, di Pero 147%, di Cinisello Balsamo 145%; si sono costruite periferie
disordinate e senza piano regolatore, fornendo pochi servizi e collegamenti; sono inoltre più a misura
di automobile che di persona; periferia senza luoghi di incontro, senza possibilità di passeggiare
senza meta e senza verde. Come le periferie, anche Milano che è la città europea con meno verde.
L’espansione fisica della città è stata quindi prodigiosa e sconcertante e questo è un vero e proprio
shock: prima i cambiamenti avvenivano in modo lento e in spazi delimitati e non andavano a
cambiare davvero il ritmo e l'aspetto della città; questo cambia con la ricostruzione del dopoguerra.
Oggi, gli specialisti dell'urbanità non parlano più di città ma di metropoli, megalopoli, di regioni
urbane, città diffuse, ovvero di situazione che vanno oltre l’accezione di città perché vanno oltre i
confini di un singole comune con una dilatazione orizzontale in tessuti urbanizzati che non conosce
soluzione di continuità, si estende, quindi, senza interruzione. Questi superano i confini comunali
delle città: Milano è un’area dai confini incerti che unisce in una metropoli diffusa delle cittadine
satellite nella fascia circostante e su diversi livelli; a Nord fino a Monza, a Sud fino a Pieve Emanuele,
a Ovest fino a Novara. Le metropoli sono così estese che nel nord Italia finiamo per vederne una
unica che parte da Torino e arriva a Venezia e ha anche un’estensione verso il sud arrivando fino
all’Emilia.
Questo ha avuto effetti sulla accezione di Milano, sulla sua identità e sulla possibilità di scrivere su
questa; Milano è sempre attraversata da moltissime persone, con un flusso di persone che supera
il doppio dei suoi residenti quotidianamente; i confini mutano perché i confini comunali vengono
frequentati da coloro che, in realtà, vivono nella fascia limitrofa. La città diventa così, con queste
peculiari caratteristiche, più che un luogo che pensa alla vivibilità, si concentra più su come facilitare
la sosta: Milano è un posto in cui si attengono esperienze e possibilità più che un posto per vivere.
Tutto ciò mette in crisi la possibilità di scrivere della città come invece si poteva fare a metà 900; non
è forse un caso che nel 2004, Aldo Nove, non-milanese, quando è stato chiamato a scrivere un libro
su Milano, non ha trovato di meglio che intitolare il libro “Milano non è Milano”, andando appunto a
indicare come non sia possibile poi parlare della città in senso stretto senza non parlare della
superficie che la circonda e che fa parte della città diffusa.
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La madre, a cui M. era affezionatissimo, muore nel 1937; M., poco più che adolescente, quando è
alle scuole superiori, frequenta un istituto tecnico, deve interrompere gli studi per trovare un impiego
e aiutare l’economia domestica. Trova impiego come letturista del gas:
“La mia era una famiglia poverissima, dovetti lasciare la scuola per l’officina. Non ci separammo,
ovviamente, i libri ed io. Un quindicenne che già lavora, ha tuttavia, per sé, le notti; ed io le usai
meglio che seppi”.
M. fa una dichiarazione autobiografica, ma c’è anche, dietro alla passione letteraria così precoce e
il sacrificio del lavoro, una piccola mitologia di sé, costruendo il personaggio di un giovane poverello
che è trasportato da un’invincibile passione per la lettura.
Cade nel bel mezzo della sua adolescenza (dai 12 ai 16 anni) la Prima Guerra Mondiale ma è
significativo osservare che M. non sembra essere turbato dai tragici eventi storici che ha dovuto
osservare (la sua è stata una generazione sfortunata perché ha affrontato tutte le brutture del secolo
ma non gode pienamente del boom economico). C’è quindi nelle sue parole, povertà, passione per
la lettura che nasce in giovane età e apparente indifferenza per quello che lo circonda:
“Finì la guerra e cominciarono le agitazioni sociali e il fascismo. Io non avevo che occhiate
distratte per tutto questo; mi era nata la vocazione letteraria, studiavo a denti stretti, scrivevo
versi e racconti che nessuno si sognava di pubblicare, o semmai di retribuire”.
Dal 1918 comincia il biennio rosso, dove la classe popolare comincia a manifestare le proprie
insofferenze e probabilmente il fascismo è proprio una reazione della classe dominante per
contenere queste insurrezioni. Nella citazione evidenziamo anche la mitologia (autobiografia che
assume i tratti stereotipati della leggenda dei giovani artisti che tra le mille difficoltà riescono ad
imporre se stessi) della fatica di pubblicare le proprie opere.
Anche per la seconda guerra mondiale, M. è indifferente, è sempre stato quindi lontano dalla politica,
non è quindi un autore impegnato ma è più un autore intrattenitore (terzo livello della divisione di
Spinazzola).
Sul piano culturale/letterario, M. potrebbe essere definito da Bourdieu un autodidatta, essendo che
il padre avvocato lo lascia presto e quindi non è recipiente della cultura paterna; M. non è un
autodidatta legittimo, ma si presenta come un autodidatta piccolo borghese, colui che deve fare tutto
da sé e che si muove in autonomia nel mondo delle arti con il rischio, anche, di sbagliare tutto. E’ un
autodidatta, però, anche produttore di opere, non solo recipiente, quindi, l’errore di sbagliare il gusto
legittimo potrebbe essere ancora più clamoroso. M. ha sempre sofferto la sua condizione di
autodidatta, riconoscendo di essere diverso da coloro che avevano un grande curriculum letterario:
“Ciò ha suscitato e sviluppato in me, anno dopo anno, il “complesso” dell’autodidatta. Ne avete
un’idea? Non lo auguro a nessuno”.
M., nel mondo letterario italiano che allora, nel secondo novecento, è molto tradizionalista, è un
outsider, e il non sentirsi mai accolto e riconosciuto dal mondo dei letterati italiani, sia dagli scrittori
sia dai critici che non lo hanno mai capito, diventa una vera e propria ossessione.
In un gelido 7 febbraio del 1925, M. approda a Milano con 300 lire - che bastavano a pagare un
mese di affitto per una camera - per cercare di impegnarsi come lavoratore in quella che era una
nascente industria culturale declinata in ambito letterario; qui, come letterato, si occupava delle
pubblicazioni, correggeva le bozze.
“Digiunai tre giorni filati a Milano, quando vi giunsi da Napoli. Ero ben deciso, andasse come
andasse, a non arrendermi vivo. Perciò mangiai, da un giovedì a un sabato di quel febbraio,
soltanto nebbia. Ma non odiai Milano. Io l’avevo scelta, non era stata Milano a scegliermi. Né
detestai Napoli che mi aveva lasciato andare”.
Continua il tono tra il tragico e l’ironia e notiamo come tutto sia vivo nelle sue parole: c’è la figura
tipica della personificazione che, in questo caso, rende vive le città di Napoli e Milano. M. riesce però
a far pubblicare alcuni dei suoi racconti dal Corriere dei Piccoli - giornale che conteneva fumetti e
raccontini - e, dopo questa sua prima collaborazione, non fa più la fame. M. trova lavoro presso
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l’editore Rizzoli come redattore e correttore di bozze e afferma che la sua attività era piuttosto
frenetica:
“Lavoravo otto ore al giorno da Rizzoli e metà della notte per accrescere, mediante le
collaborazioni, i miei lievi introiti. Avevo sognato la grande arte, ma la zuppa è la zuppa: non
scrissi, per anni, che articoletti di varietà e storie d’amore per il grosso pubblico femminile. Me
ne vergogno e non me ne vergogno. La mia salvezza fu l’elzeviro”.
M. per guadagnarsi da vivere ha fatto lo specialista di testi ma ha cercato sempre, di notte quando
tornava a casa, di scrivere opere ma deve accontentarsi di paraletteratura, di raccontini sentimentali
e umoristici; M. arriva a Milano con una certa attesa di carriera letteraria, ma si deve adattare alle
esigenze economiche e fattive. I suoi raccontini ottengono qualche successo al pubblico dei giornali,
nonostante scritti di fretta e con stanchezza, ma scrive sotto falso nome o in anonimato, per non
infangare il suo nome e una possibile futura carriera letteraria; questa attività, però, non lo ha giovato
nella carriera perché gli toglie il tempo ed le energie che doveva sfruttare per occuparsi di opere di
maggiore impegno artistico-letterario. Non solo, quindi, deve dedicarsi a questa letteratura per il
guadagno, ma non viene nemmeno apprezzato dalla critica perché gran parte dei critici non
vedevano di buon occhio che una penna a pagamento si dedicasse alla letteratura alta. Questa fama
negativa colpisce M. ancora oggi.
Inoltre, il genere espressivo da lui prediletto, il breve racconto, non ha mai avuto grande fortuna nei
quartieri alti della letteratura. Infatti, Dino Buzzati nel 1957 afferma, a proposito di M.:
“Marotta ha avuto un bello scrivere, un bel pubblicare, un bel farsi leggere: la critica ufficiale
manco faceva una piega, come se lui non fosse mai esistito”.
In A Milano non fa freddo, non troviamo questi racconti sentimentali, ma ci sono gli elzeviri; elzeviro
è un articolo che esce in un giornale e la sua origine pare essere molto antica, alle origini della
stampa, e dovrebbe venire dalla parola olandese Elzevier, il cognome di due tipografi che usavano
un carattere molto piccolo; per antonomasia, il cognome va a significare un oggetto, in questo caso
dei racconti scritti con un carattere molto piccolo. Elzeviro, però, è un articolo che, di solito, usciva
in terza pagina, ai tempi era quella culturale, un articolo molto diffuso nel secolo scritto da un
personaggio di qualche fama che si occupava di temi letterari o eruditi e poteva essere anche un
articolo autobiografico. Questi pezzi di autofiction vengono poi raccolti in un unico volume, a Milano
non fa freddo.
Questi, “lo hanno salvato” perche gli permettevano di presentarsi al pubblico non solo come autore
di racconto di paraletteratura ma anche come autore di pezzi con un taglio meno frivolo, leggero.
Inoltre gli elzeviri venivano pagati e quindi gli permetteva di avere dei soldi; questo lo salva, quindi,
perché riceve un compenso immediato, alza la sua fama di letterato e riesce inoltre a pubblicare, in
seguito, un volume più lungo a cui lui auspicava.
“Purtroppo la storia di tutti i miei libri è sempre la stessa: e tutti i miei racconti, prima di essere
raccolti in volume, sono costretto a pubblicarli come elzeviri di quotidiani. Questo è una cose che
vorrei mettere bene in chiaro, per le influenze che ha sul nostro costume letterario. Lo scrittore,
cioè, per poter vivere, è costretto a lavorare per i giornali. Chi può stare due anni attorno ad un
libro, chi può stare, cioè, due anni senza guadagnare? Lo scrittore, oggi, nella maggior parte dei
casi, può mettere insieme un libro solo dopo averlo pubblicato, qua e là, in elzeviri: è triste, ma
è sintomatico dell’epoca”.
A livello letterario, non c’è più mecenatismo ma è vero che lo scrittore del 900 deve guadagnarsi da
vivere con la fatica, applicando le proprie qualità da letterato, come anche fecero Calvino e Pavese.
M. ha ragione ha impostare il problema, ma nessuno lo obbligava a scrivere paraletteratura.
Dopo 13 anni a Milano, M., nel 1938, si trasferisce a Roma perché voleva lavorare nel cinema -
giravano più soldi - e nel 1937 il partito fascista fonda Cinecittà. Arriva però in un momento sbagliato
perché soffiavano già i venti di guerra e questa, poi, interromperà la possibilità di fare film e la
possibilità di lavorare. M., quindi, ci cava molto poco e, dopo la guerra, torna a Milano circa nel 1946.
M. deve ricominciare da capo la sua carriera ma questa volta, evidentemente per la sua maturità e
per la sua esperienza, comunque accompagnata da forza e determinazione, le cose vanno meglio
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perché nel 1947 pubblica il suo libro più famoso, l’Oro di Napoli, uscito per Bompiani. Anche questo
è una serie di racconti apparsi sul Corriere della Sera nel quale lui rievoca la sua infanzia nella città;
è quindi un libro napoletano di un napoletano nostalgico che non vive nella città da tanto. L’oro di
Napoli è quello che oggi si definisce resilienza (parola non usata da M.), la capacità di resistere alle
difficoltà superandole senza cadere in uno stato di eccessiva sofferenza o nevrosi.
Il successo del libro è fomentato anche dal film che ne viene ricavato nel 1954; un film molto di
successo grazie anche al cast, Vittorio de Sica (anche regista) e Sofia Loren, due tra i più famosi
attori del tempo. Per una volta, il film, forse anche per il successo che fin da subito lo circonda, piace
ai critici e si può considerare il suo esordio letterario.
Nel 1949 pubblica A Milano non fa freddo, significativo all’interno della carriera perché prova che
non è solo uno scrittore napoletano. M., dopo soli due anni, pubblica questa serie di racconti che
hanno per protagonisti la città di Milano. E’ anche l’ultimo anno che M. passa nel capoluogo lombardo
perché nel 1950, dopo diciotto anni al nord (lui esagera nella seguente citazione), decide di tornare
a Napoli:
“Sì, ho vissuto a Milano per venticinque anni, più brevi e tuttavia più distesi e abbaglianti di
qualsiasi Marylin Monroe. Sto a Napoli, adesso, ma con la giacca impigliata nei battenti di Milano.
Ho la tristezza, nuvolosa, dei meticci. Non so mai, quando riapro gli occhi la mattina, se vedrò
nella finestra una guglia del Duomo o una gobba del Vesuvio”.
Per meticcio, si intende colui che stato è generato da genitori che appartengono a gruppi etnici
diversi; M. lo usa nel senso che appartiene a etnie diverse per aver vissuto in parti di Italia diverse.
Dalla citazione vediamo la ricerca di un'immagine concreta per fermare un concetto, stile che
troviamo anche nell’opera; le immagini tendono ad ingigantire e ad enfatizzare i concetti.
A Napoli, M. continua a pubblicare tantissimo - il ritmo era circa un libro all’anno - per lo più nella
forma di raccolte di racconti, ma scrisse anche commedie e critiche cinematografiche. Pubblica altri
due libri di onda milanese, Mal di Galleria (58) e Le Milanesi (62); il primo titolo ha un’accezione
negativa, differentemente dall’opera da noi analizzata che, con una litote, nega una cosa vera, la
freddezza di Milano sia climatica sia per l’accoglienza. Il secondo titolo riguarda le donne milanesi,
con racconti in prima persona che parlano della vita di queste donne (si inventa tutto, non è
un'inchiesta giornalistica).
Il titolo e prefazione. Il titolo può straniere perché sembra imporre negatività, una litote, una cosa
non vera, soprattutto se detta da un autore mediterraneo; Milano è in realtà fredda sia
climaticamente sia anche l'accoglienza, è una città arcigna che ha una forte gerarchia economica-
sociale. Il primo elemento del titolo è quello dell’ottimismo, elemento fondamentale dell’opera che,
seppure in modo ironico, è ampiamente diffuso dove viene utilizzato anche il suo oro di Napoli, la
sua resilienza, sapendo affermare che, alla fine, seppure tutte le difficoltà, riesce ad affermare che
effettivamente a Milano non fa freddo. Subito all'inizio viene giustificato il titolo, nella prefazione (pg.
25), giocata sul rapporto caldo/freddo, e viene anche sottolineato, con il termine letterina d'amore,
come il rapporto con Milano non sia un rapporto da pari a pari, un rapporto di confronto dialettico,
ma un rapporto d’affetto. La freddezza di Milano viene subito messa in evidenza con il clima di quel
giorno di severissimo inverno che entra subito in contatto con l’elemento estremo dell’affetto
rappresentato dalle strade che gli sono care. Fin da subito utilizza la figura delle personificazione
che rende umani due odori che si azzuffano, un edificio che muore e la nebbia che gli raccomanda
mestizia.
Oltre a questi elementi caratterizzanti del libro, la contrapposizione tra caldo e freddo e la
personificazione, troviamo anche una precisione topografica che non conosce errori che è, in
qualche modo, messa in contrapposizione all’elemento fiabesco della personificazione. La negatività
della città di Milano torna con l’affermazione che “non c’è cielo” uno stereotipo che rimanda alla
costante presenza di nebbia che non permette di vedere l’azzurro di giorno o le stelle della notte. La
narrazione è un miracolo: pur facendo molto freddo, in città è possibile trovare dei posti che ti
permettano di fare esperienze e quindi tramutare l’algida e arcigna Milano, in un posto caldo e
accogliente.
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In questa prefazione notiamo come il miracolo delle campane di San Fedele che tramutano la
difficoltà nel vivere in un città come Milano, in un luogo caldo, miracolosamente vivibile, va a colpire,
in prima istanza, il commercio: Milano, capitale economica d'Italia, ha agito senza che nemmeno
Marotta se ne accorgesse e certamente non è un caso questo miracolo va a mutare il volto di tutta
una serie di elementi della città, rendendosi accogliente, quasi offrendosi all'abitante che deve
viversi. E’ sicuramente un processo mentale del protagonista, è un esempio di Oro di Napoli che gli
permette di vedere una grande vivibilità seppur in mezzo alle difficoltà; una situazione, quindi, molto
diversa rispetto a quella presentata dai vari autori proposti da Benjamin che avevano fin da subito
notato la grande alienazione presente in città.
Lo scrittore non descrive solo la città in questa prefazione, ma butta dentro un raccontino, finora
(pag.25-26) ci ha narrato una sua passeggiata solitaria in una serata d'inverno che miracolosamente
si sublima in una condizione di caldo, ma ora (pag. 27), ci racconta un altro momento, un momento
di grande difficoltà. E’ inverno e nevica - il freddo è evidentemente simbolo di difficoltà per Marotta -
e lo scrittore aspetta, nella neve la sua ragazza, Olga che lo ha appena lasciato e l’ultimo contatto
tra i due è un ricciolo di neve il cui destino è quello di sciogliersi, di scomparire, come il loro rapporto.
Tornano però le campane e siamo a febbraio, piove e la pioggia, crudele come la città, ferisce i
passanti; anche in questa conclusione troviamo tutte le caratteristiche dello stile di Marotta: c’è
l’enfasi sulla tragedia e, se è presente, la sofferenza è estrema (“non so se effettivamente diluvia o
sono io che piango”); innumerevoli personificazioni che vendono la città rannicchiarsi e prende in
grembo gli abitanti in difficoltà. Notiamo poi come, nonostante le disgrazie che accadono allo
scrittore - la ragazza lo lascia e perde il lavoro - la chiusa si concentra su come Milano sia una città
calda, su una sensazione di tranquillità e serenità. La crudele e fredda metropoli milanese è in grado
di restituire anche calde consolazioni.
Il libro non ha un sottotitolo, ma uno glielo si può dare: se ci si sposta, sempre rimanendo sulla soglia
del libro e si arriva all'indice, si vede che, anche solo scorrendo i titoli, questo sottotitolo potrebbe
essere “Amore e lavoro a Milano”. Emerge la capacità di stare a Milano affrontando un percorso di
formazione irto di ostacoli con quelli che dal libro emergono come i due pilastri dell’esistenza: l’amare
e il fare, qui declinati nella capacità di stare dentro una relazione e dentro una professione.
Indice. Nel libro troviamo 22 racconti, compresa la prefazione, e sono quasi tutti ambientati a Milano
tra 1925 e 1949. I racconti non ambientati a Milano, o quelli dove la città di Milano non gioca un ruolo
determinate e viene solo citata, sono 4 su 22: “Bilancio” che non ha Milano come sfondo, è solo un
bilancio esistenziale che non dice nulla sulla città; “Lettere da Milano”, ambientato a Roma dove un
medico in pensione che scrive ai figli; “Vecchio dottore”, ambientato in una piccola città lombarda
non specificata; “I saluti”, ultimo racconto, cronaca della morte di chi scrive, sembra Milano ma non
è specificato. Negli altri la topografia è chiara e possiamo affermare con sicurezza di essere nella
città di Milano, ma anche se questi non sono ambientati nella città, rispecchiano comunque i due
temi principali, quello dell’amore e del lavoro e quindi non stonano nel complesso, rendendo l’indice
coeso.
Narratore: i vari racconti hanno spesso, come si vede nella prefazione, un protagonista che e anche
un narratore e che assomiglia un po' all'autore stesso. La narratologia, disciplina della critica
letteraria che studia i testi sul piano della loro struttura narrativa, direbbe che in questo libro è
dominante la voce di un narratore interno o intradiegetico, ovvero dentro la narrazione, un narratore
che parla essendo anche un personaggio che agisce all’interno della storia. Il narratore è comunque
un’invenzione, fa parte del testo, non possiamo trovare una corrispondenza tra narratore e autore,
seppure la somiglianza tra Marotta e il narratore.
Questi 22 testi, oltre che sulla base del cronotopo, possono essere divisi dal punto di vista del
narratore; individuiamo due grandi distinzioni: un narratore interno e uno esterno. Vediamo un
narratore esterno in tre racconti: in “Carlo e Teresa”, “Gianna”, e in “Amore e Morte a Milano”. Tutti
e questi tre racconti, anche se in gradi diversi, hanno un narratore extra diegetico con caratteristiche
simili: i narratori sono onniscienti, sanno tutte le cose dei vari personaggi, e intrusivi, entrando
esplicitamente a dire la loro opinione nella storia, esprimendo pareri o dialogando con il lettore.
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In questi casi non si pone il problema della somiglianza tra l’autore Marotta e il narratore perché i
protagonisti hanno un profilo ben diverso da quello dell’autore e da quello del narratore. Sono inoltre
dei personaggi che non fanno parte della piccola borghesia arrivista come negli altri racconti, non
sono scrittori ma sono dei personaggi popolari che non avrebbero potuto raccontare loro la storia
data la mancanza degli strumenti culturali per narrarla: esattamente come ne I Promessi Sposi, il
narratore interviene per rendere credibile la storia.
Questi tre testi, assolutamente non-autobiografici, sono molto importanti perché se Marotta avesse
voluto proporre il libro come una raccolta di racconti e non come una raccolta di pezzi autobiografici,
avrebbe dovuto inserire racconti non suoi e, avendo fatto così, sposta il racconto sulla narrativa,
allontanandosi dall’ambito memoriale. Messi in tre punti strategicamente lontani, inizio-centro-fine,
irradiano la loro presenza alla massima distanza sia su quelli che seguono sia su quelli che
precedono.
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viene nominato un partito, elezioni etc. e questo deriva dal disinteressamento di Marotta stesso
verso la storia ma illumina un’altra specificità della scrittura di Marotta, dove tutto molto preciso e
realistico ma è astratto dalle concomitanze dell’attualità pubblica. Questo avviene per 2 motivi:
• Lo stile affabile con cui il testo è scritto avrebbe mal tollerato degli appesantimenti che
avrebbero potuto derivare proprio dal dilatare l'interesse su questioni collettive. Marotta pedina
i suoi personaggi che vivono le loro storie minime e allargare lo sguardo su questioni che
potevano avere un respiro più ampio sul piano politico e sociale forse nella mente di Marotta
poco si conciliava con la volontà di scrivere questi testi che vogliono essere leggeri e leggibili;
• quello che importa a Marotta, sono i ripetuti zoom sulle minime infinite incarnazioni
dell’esistenza umana nell’umiltà del quotidiano. Lui rappresenta in maniera estremamente
realistica i gesti normalissimi della quotidianità di chiunque, non ci sono eroi e non ci sono
tentazioni epiche.
Marotta parte dal basso e invece di saltare alla storia collettiva, lui salta più su, aspira al grandissimo,
ovvero restituire le immagini delle fondamenta immutabili e astoriche della condizione umana:
l'obiettivo del realismo di Marotta sembra essere quello di individuare le fondamenta che
accomunano le persone della classe popolare di cui narra le vicende. Non si interessa quindi della
cornice storica e sociale delle vicende, ma lui ama narrare il piccolo, l’insignificante del quotidiano
che è, alla fine, la Vita. Gli aneddoti marginali hanno dei risvolti che ci mettono a contatto con
l’esistenza così com’è, al di fuori della storia collettiva. Marotta, quindi, narra tante storie ma poca
storia per affrontare la vita con la V maiuscola.
Analisi. Due livelli di analisi, uno sul livello più esterno, su cosa il racconto vuole dire; il livello più
profondo riguarda il come queste cose sono dette e capire come il come e il cosa i siano collegati
e quale sia il loro significato.
Metodologia narrativa di Marotta. Nella carriera di Marotta c’è un punto di svolta, prima della
seconda guerra mondiale, ed è il punto in cui si chiude la stagione di M. autore di raccontini
paraletterari destinati all’uscita sulle riviste di grande diffusione; la seconda fase è quella degli
elzeviri che poi si concludono nei suoi romanzi più famosi, le tre raccolte milanesi, dove abbandona
i raccontini comico-sentimentali per racconti più autobiografici e per una narrazione non così
strettamente di genere. Resta costante però il respiro non vasto delle sue narrazioni: anche in Carlo
e Teresa, il racconto più lungo nell’opera, è fatto di paragrafi staccati come se il respiro narrativo di
M. fosse limitato ad un certo numero di pagine; il racconto nel complesso è quindi una somma di
frammenti narrativi che hanno, non sempre, come protagonisti entrambi i personaggi. Non c’è una
tensione narrativa che gli permetta di rintracciare eventi e personaggi in un'opera più lunga; la misura
naturale di M. è corta, è quella del racconto.
Carlo Bo afferma che “il gioco narrativo di M. riguarda un mondo particolare che sta al disopra della
realtà pur essendo fatto di realtà e costruito di elementi quotidiani della vita”; la scrittura di M. è
fondata su una polarizzazione che salta il momento centrale, trionfa l’insignificante, troviamo storie
di realtà minima e pochissima grande storia. “Al di sopra della realtà” perché M., saltando la Storia,
sembra aspirare a qualcosa di superiore, sembra cercare una porta di ingresso per trovare le
fondamenta dell’esistenza umana; i grandi eventi storici sono lontani, avvertiamo la loro presenza e
gli effetti di questi, ma rimangono lontani; M. sembra quasi dialogare con l’Uomo fuori dal tempo
rifacendosi ai suoi capisaldi emotivi: M. arriva qua mettendo sempre in scena la stessa storia, la
storia di chi cerca per se stesso un posto nel mondo messo insieme con la scommessa di
condividere questo posto con qualcuno da amare.
La chiusura dei Navigli, un evento storico importante per la città viene in qualche modo
rappresentata nel testo, nel racconto Il Vecchio Naviglio, ma è un fatto isolato e M. ne ricava un
quadretto sentimentale agrodolce, non per una riflessione sulla città o sul fascismo; l’evento è lì
perché è un fatto personale non una riflessione sulla collettività.
Rapporto con attualità storica. Nel racconto Carlo e Teresa, a pagina 40, vediamo il punto di vista
di Carlo, narratore non alter ego di M.; nonostante ciò, una reazione che il personaggio ha per un
fatto di attualità è rilevante per capire il disinteresse di M. stesso anche per i fatti di attualità. Carlo,
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nella sua sofferenza, non si interessa della condizione collettiva, come M. che si interessa poco dei
destini generali, ma mostra tanto interesse per la vita quotidiana dei singoli. Carlo, di fronte alle
notizie del mondo, toglie lo sguardo, divertito dai suoi pensieri che mettono l’accento sulle sue
difficoltà.
Milano di Marotta, tra fascismo e dopoguerra. Ripartendo da Benjamin, diremmo che la Milano
di M. non ha ancora conosciuto lo shock metropolitano che aveva già colpito le grandi città europee
nell’Ottocento; la Milano di M. è si formicolante di gente e attività economiche, ma è una Milano che
non conosce la vasta, anonima, antagonistica folla urbana che vediamo nelle descrizioni di Poe,
Engels, Baudelaire e di Benjamin. La Milano di M. non è ancora assediata dal traffico, invasa dalla
folla, non è più un grande paese ma una città che non è però ancora deflagrata in metropoli. Quegli
elementi di alienazione che, dalla seconda metà dell’ottocento, erano protagonisti nelle città
europee, non riguardano ancora questa Milano che è una società in fermento con un fitto intreccio
di relazioni e opportunità, eppure mantiene ancora una dimensione umana, non ancora alienata.
Dai testi emerge che questa umanità di Milano prevale perché è raccontata la Milano monumentale,
del centro, quella meno problematica; lo vediamo nei racconti Piazza del Duomo a pagina 97 e a
pagina 59 nel paragrafo altro lavoro, dove da una parte il Duomo è l'immagine in cui si racchiude
l’immagine comune di Milano (“Milano comincia e finisce in Piazza Duomo”), e dall’altra vediamo
come tutti gli abitanti ruotano intorno a Piazza Duomo, vista come il nucleo di attrazione di tutta la
citta.
La zona prediletta da M. è quella nella cerchia dei Navigli, della circonvallazione interna, fra il corso
di Porta Romana, Venezia, il Castello e l’Arena. Già la prefazione è ambientata nei pressi della
chiesa di San Fedele, in centro; anche a pagina 37, l’abito, storia del piccolo borghese simile a
Marotta che cerca di confezionare un abito a Genova con della stoffa di scarto, quando riesce a farsi
confezionare l'abito va a fare una passeggiata di orgoglio in Via Montenapoleone; questo c’è anche
in millenovecentoventisette, racconto molto autobiografico in cui M. racconta del personaggio che,
insieme a un amico, arriva a Milano nel 1927 (in realtà M. arriva nel 1925, raccontando quindi una
storia con la data fondamentale diversa che ci ricorda di guardare comunque con sospetto i dettagli
forniti dall’autore); in questo racconto, il personaggio e l’amico affittano una casa in Corso Roma,
ora quello di Porta Romana, e sono squattrinatissimi e decidono così di uscire di casa, pagina 79,
intorno a carnevale (febbraio come M.) e si dirigono verso Piazza del Duomo. In Maggio da noi,
vediamo un viaggio a Milano ma sempre nel perimetro, siamo a Cardona, piazza Cordusio per poi
andare in via Magenta, via Durini e sul corso di Porta Venezia, un posto prediletto e su cui c’è proprio
il racconto a pagina 127. Il racconto l’acqua è ambientato all’Arena, sempre in centro.
C'è una macro eccezione, in Carlo e Teresa, ambientato forse tra il 46 e il 48, dove i due protagonisti,
molto poveri, Carlo è disoccupato e Teresa non lavora, vivono nella zona Nord della città (precisione
della topografia tipica del suo realismo). Quando M. accetta la sfida di rappresentare la periferia,
Milano non mostra il lato anonimo, violento, pericoloso tipico delle grandi città, ma questa periferia
è simile più ad un villaggio di campagna, confermando che la Milano di M. è più una cittadina che
una metropoli. M. rappresenta Milano come effettivamente era ma ne enfatizza molto questo suo
aspetto, la rappresenta più accogliente, più calda, più paesana di quanto in realtà fosse. Solo tra le
righe troviamo i suoi aspetti freddi e arcigni. A pagina 62, Carlo si sveglia e fa la barba e il quadretto
che ne emerge sembra un quadretto di campagna più che di una periferia, con un odore di erbe e
forno che entrano dalla finestra.
La descrizione di M. di Milano potrebbe stare sotto l’aggettivo già citato di piccola, nel senso di una
cittadina; l’altro aggettivo era brutta ma quella di M. è invece bella: è una descrizione si realistica ma
che tende sempre all’idealizzazione, al buonismo fiabesco. La bellezza di Milano non emerge solo
dall’immagine di Carlo che si fa la barba, ma la troviamo anche nei luoghi splendidi che cita come in
Porta Venezia, pagina 127, dove Milano, personificata, sorride; la descrizione ha un fondamento
realistico che però mette l’accento solo sugli elementi di bellezza, voltando lo sguardo dagli aspetti
brutti; questo sorriso in mezzo alle difficoltà deriva dallo stesso autore e probabilmente dal suo oro
di Napoli. E’ comunque un atteggiamento positivo.
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Nel testo Maggio da noi assistiamo ad un’apoteosi di profumi e colori della primavera, sottolineando
come Milano sia l'unico luogo in cui si può assistere al passaggio da inverno a primavera, godendosi
davvero dei primi caldi dopo lunghi mesi d'inverno, cosa che non può essere goduta nei posti in cui
arriva subito il caldo. Vecchio Naviglio è il racconto emblema dello sguardo affettuoso e intenerito
sulla città di Milano, una citta che puo stare in pace, una città pre-boom economico che è ancora
una capitale morale nel senso che ha un volto umanizzato. Vediamo anche nella descrizione
dell’acqua del Naviglio che viene trasfigurata in un’acqua bellissima, docile e muta, affettuosa,
domestica con una grande capacità e operazione letteraria volta ad umanizzare il volto della città.
Questi elementi idealizzanti però ci fanno chiedere in che relazione stanno le descrizioni di M.
rispetto all’effettiva realtà del mondo, quindi quale sia la relazione tra precisione topografica e gli
elementi dello sguardo che tendono all’idealizzazione.
La Milano di M. è anche il paradiso dell'acquisto - capitale economica. In Porta venezia, pagina 130
emerge l'entità economicista della città che è paradiso dell'acquisto di cui è emblema Corso Buenos
Aires. Ma questo mito è evidente anche in altri posti; in il terrone, pagina 185, notiamo come Milano
sia una città piena di merce e di luoghi in cui si produce. E’ la città in cui i piaceri si possono comprare.
Abbiamo già visto che le campane di San Fedele compiono il loro lavoro morale, riscaldando il cuore
del protagonista che ha perso il lavoro, la fidanzata e ha fame, ma notiamo anche come le campane
diventano anche dei lampioni puntate sulle merce in vetrina, mettendo subito in correlazione la
moralità e l’economia. Sempre nella prefazione, a pagina 26, notiamo come il freddo scompare al
rintocco delle campane ma lo sguardo si sposta subito sulle merci da cui comincia l’elenco delle
cose, facendo sposare la dimensione semi paesana e l’elemento economico.
Questo lo vediamo anche in millenovecentoventisette, dove i due personaggi, stufi della loro povertà,
vedendo la festa intorno a loro, si sentono esclusi: la citta in festa provoca loro un sentimento di
esclusione come vediamo a pagina 79 dove vengono schiaffeggiati dalla città perché squattrinati.
Nella via Cappellari, vicino al Duomo, viene risolto il momento di estrema difficoltà con un miracolo
(così come nella prefazione dove le campane scaldano il cuore) perché trovano per terra 50 lire,
ferme nonostante il grande numero di persone. A quel punto, quando raccolgono le 50 lire, il volto
della città cambia completamente, come vediamo a pagina 79; rimane così intatta la narrazione che
passa dalla difficoltà alla positività grazie al miracolo che si conclude con un lieto fine perché il
personaggio si trova a proprio agio nel contesto in cui si trova; finché però i due personaggi erano
poveri, la città si presenta ventosa, gelida, estranea. Si ricava un ulteriore morale che vede Milano
come un posto in cui tutti possono trovare accoglienza e i loro desideri esauditi, ma è una città che
ha delle regole ferree perché, senza soldi in tasca, i due personaggi non avrebbero potuto sentirsi a
loro agio.
Milano la città del lavoro. Per Milano il lavoro è la sua quintessenza e questo lo troviamo nel
racconto il più felice pg. 149; il narratore si propone di trovare l’uomo più felice in città e il criterio
che garantisce di trovarlo è quello della realizzazione professionale: si vede così un collegamento
diretto tra felicità e realizzazione professionale; il racconto è quindi una galleria di professionisti di
ogni sorta, ciascuno preso in un momento di lavoro. Tutti i personaggi sono tenuti insiemi della
fedelissima e milanesissima fedeltà alla professione; dalla veloce rassegna dei professionisti deriva
un ritratto della città, dando per scontato che la città di Milano derivi non tanto dalla somma dei
cittadini, ma quanto da quella dei lavoratori, con un'implicita equivalenza tra Milano e lavoro.
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Sarebbe stato impossibile fare ciò in un’altra città come Roma o Napoli.
Anche l’amore in questo libro è in qualche modo, più o meno ironico, subordinato al lavoro. A pag
134 a Amore e Morte a MIlano, soltanto il lavoro potrebbe far rinunciare a Maria Teresa di suicidarsi
insieme al fidanzato: i due si incontrano durante la pausa pranzo, ma Maria Teresa deve andare via
perché deve tornare in ufficio. Tutto in questo libro subisce una virata enfatica - evidente nella
vicenda di Maria Teresa che sembra rispettare più il lavoro che la sua vita; questo comunque offre
una descrizione della religiosità del lavoro a Milano, anche se esagerando. La stessa Maria Teresa
va a vivere la sua prima storia d’amore, ovviamente con un uomo incontrato in ufficio, ed è domenica
sera quando i due decidono di appartarsi nella città; succede però che questi finiscono per
passeggiare in una zona industriale, a San Siro, e la situazione in cui si trovano, il contesto di
fabbriche sempre in azione, rende impossibile l’amore, finendo per sovrastarlo, pg. 135. Il lavoro e
la sua presenza, anche la domenica, è dominante e vincente sempre a Milano.
Ancora l'enfasi è data dalla concentrazione sui rumori incessanti delle fabbriche paragonate a quelli
di una donna che sta partorendo. Sempre in questo racconto troviamo un’immagine molto
significativa che mette in scena una giovane coppia felice con il pargoletto; M., eppure, li fotografa
con le parole non in un momento di svago, ma quando, all’alba, escono per recarsi al lavoro in
fabbrica. Anche quando un amore è consolidato e felice, viene ritratto a Milano sullo sfondo del
lavoro, a pg. 136. Il “arrivederci Milano” finale è un’identificazione tra quello che è successo e Milano,
che si identifica nel ritratto dei due personaggi; questa immagine è la quintessenza della concezione
di Milano per M.: i personaggi sono umili, soffrono di miseria e alienazione, provano una felicità
amorosa e sentimentale ma la loro vita è dedita al lavoro, tutto abbracciato dalla tenerezza della
guardo che M. mette su tutte le rappresentazioni di Milano.
Non solo l’amore è subordinato al lavoro, ma anche, un po’ ironicamente la morte lo è; a pag. 137
si dice che nessun uomo a MIlano pensa alla morte, ha troppo lavoro da fare; M. si concentra sul
momento del corteo funebre che segue il funerale e accompagna il morto, insieme ai familiari, al
cimitero, rendendo esplicito il passaggio tra la vita e la morte - ad oggi il corteo si fa solo nei paesini,
in città sarebbe impensabile. L’ironia Marottiana spicca nel momento del corteo quando il morto si
alza dalla tomba per intimare coloro che seguivano a tornare al lavoro e a non perdere tempo.
Nell’ultimo racconto, i saluti a pg. 198, vediamo il quasi-morente a letto con il prete che è pronto a
dare l’estrema unzione; emerge che al quasi-morto l’unica cosa che interessa è rinarrare la propria
vita secondo l'elemento che la ha caratterizzata, il lavoro, e se vuole dire addio a qualcuno, vuole
dare addio prima al lavoro, mostrando nessun interesse verso la morte, le preghiere o il prete.
Essendo l’ultima pagina, questa si mostra come una dichiarazione di intenti complessiva, con la
stessa importanza della prima. All’uomo, per tutta la vita, il lavoro era sembrato uno strumento per
raggiungere una felicità più alta, intesa come il poter imporsi nel sistema dell’ambito professionale,
ma ora, in punto di morte, capisce che il lavoro non era un mezzo, ma un fine: l'unica cosa che egli
poteva ottenere dal lavoro era fare il lavoro, inteso come succo della vita, fine ultimo dell’esistenza.
Nei racconti ci troviamo nel bel mezzo del perimetro dell’elogio stereotipato, enfatizzato
dell'intraprendenza milanese, “tutti a MIlano sono un'impresa”, e quindi dentro il mito di Milano come
capitale del lavoro. E’ un territorio però a rischio banalizzazione e semplificazione, osserviamo come
il ritratto che ne emerge è teso a fermarsi alla superficie delle cose accettando lo stereotipo della
Milano capitale del lavoro. M. si salva, nonostante il rischio banalità, per il suo tono sospeso fra
serietà e divertimento, tra serio e faceto, tra ironia e commozione (emblema il morto che si alza dalla
bara).
Il mondo editoriale. In città vige sì la religione del lavoro, ma emerge che quella di M. è una Milano
a misura d’uomo, dove ancora i rapporti personali vincono sui rapporti del lavoro, una città non
ancora disumanizzata. Nella Milano di M. si può però ampliare le proprie possibilità professionali,
nonostante sia ancora umana. Nei tanti racconti in cui il protagonista è l’alter ego dell’autore emerge
un ritratto del mondo editoriale in cui, nonostante esistesse già un professionismo giornalistico e
letterario, ci sono schietti rapporti personali, un mondo ancora tradizionale, non del tutto
professionale. In millenovecentoventisette, la controfigura editoriale, l’alter ego di M., esprime la
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propria gratitudine per il lavoratori che, nel momento in cui approda a Milano, gli hanno offerto aiuto
e comprensione, pg. 84. Emerge inoltre che se un semplice redattore si presenta con la faccia un
po’ stravolta, il capo non si preoccupa della sua possibile scarsa concentrazione sul posto dei lavoro,
ma, vedendolo in difficoltà, il capo si preoccupa, gli chiede cosa succede; il lavoratore, per la grande
umanità del capo, si commuove e, dopo aver scoperto che è in difficoltà economiche, gli offre dei
soldi in anticipo per un racconto.
La grande solidarietà di un capo nei confronti dei suoi sottoposti emerge anche a pagina 173, ne il
correttore. Emerge un’immagine affettuosa del mondo del lavoro nonostante le grandi difficoltà.
Anche in Carlo e Teresa troviamo questo: a pg. 63 Carlo viene presentato come un ex operaio che
prova grande nostalgia per l'alienante lavoro in fabbrica; questa è talmente dolce che, pg. 65, si
legge che la domenica Carlo va e accarezza il muro dell’officina.
L’Oro di Napoli. Carlo e Teresa e l'alter ego marottiano occupano la maggior parte del libro e il loro
atteggiamento umile e accondiscendente verso le difficoltà lo mettono in campo non solo per le
difficoltà del lavoro ma per tutti gli aspetti della vita quotidiana, soprattutto per le ristrettezze
economiche. Ad accomunarli è il fatto che possiedono tutti l’oro di Napoli: per tutti, le difficoltà non
diventano mai scoramento, non vincono mai, non generano nemmeno acciacchi psicofisici o nevrosi.
Il benessere era più basso, ma la sanità psicofisica era molto alta - al contrario di oggi; le difficoltà
sono viste come della fatalità, non si sentono perseguitati dalla sfortuna, non sono ossessionati, ma
sono parte della vita. Questo permette a Carlo di godere dei bellissimi momenti e starci bene (come
quando si fa la barba) nonostante non abbia da mangiare. In Carlo e Teresa vediamo come, in un
momento di grande tensione, il personaggio trova l'atteggiamento giusto per superarlo; ad un certo
punto, infatti, Carlo si ammala di polmonite, sta malissimo e sembra sul punto di morire; Teresa si
dispera ma trova una valvola di sfogo, affidandosi alla benevolenza dei Santi. Si affida a Sant’Antonio
e fa un fioretto in cambio della salvezza del marito: sacrifica le due cose a cui tiene di più, Carlo e il
cinema, privandosene per tre mesi; rappresenta un personaggio in estrema difficoltà che però non
si dispera grazie alla sua semplicità popolare, crede in qualcosa, si affida a lui e tutto alla fine va
bene.
Nel racconto Piazza del duomo, vediamo come il personaggio, immigrato del sud, invita i suoi
conterranei ad affidarsi alle guglie della cattedrale: invita loro a scegliere una statua a cui devono
affidare la loro sorte; è una religiosità popolare e credulona, ma nei personaggi esiste un’ancestrale
e primitiva religiosità che permette loro di avere la pazienza di affidare la loro vita a qualcosa di
ultraterreno. Non hanno alcuna ossessione, ma possiedono l’Oro di Napoli, definito da M. stesso
come “una remota, ereditaria, intelligente, superiore intelligenza” che appartiene al popolo. Questo
atteggiamento non disperato e nevrotizzato, è ben incarnato anche dal tono ironico che il narratore
utilizza per raccontare le storie: uno sguardo intenerito, ironico, idilliaco.
Anche il tono complessivo incarna la resilienza e lo notiamo in Carlo e Teresa a pagina 43; Carlo ha
appena trovato lavoro come “uomo-sandwich” per sponsorizzazione del dentifricio pap; prima
parlando della guerra poi del tradimento di un marito, il tono ironico non si sofferma sulla tragicità
del momento, ma sottolinea il tono di voce del marito che accusa di tradimento la moglie e di come
sia difficile credergli perché il tono è quello pubblicitario usato per sponsorizzare il prodotto.
M. cerca di amplificare ciò che c’è di umoristico nella quotidianità tragica per rappresentarla con
ironia. M. predilige le minime felicità, “le mille fertilissime ragioni di contentezza” (pg 112): per lui la
felicità si raggiunge apprezzando le minime felicità e gettando uno sguardo non-disperato sui fatti
disperati. In fondo, i personaggi di M. vogliono sempre bene alla vita, anche se la vita con loro è
crudele. M. esibisce al lettore il nucleo minimale di un'istintiva e genuina gaiezza, lo stare sempre
nella vita senza essere segnati dalle difficoltà. Su questo notiamo una differenza tra M. vero e l'alter
ego che ha l’oro di Napoli, che è capace di prendere con tenerezza la vita mentre l’uomo M. fu
sempre afflitto da tantissimi mali, più o meno immaginari, provava tantissima disperazione e
malinconia e manie di persecuzione; l’uomo M. sembrerebbe non avere l’Oro di Napoli e infatti ne
parla come qualcuno che lo desidera.
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L’eccezione non eccezione. Nel libro c’è un'eccezione, Gianna; questo contiene tutto il contrario
di quello visto finora: c’è un'esplicita diffidenza e condanna dell’incipiente industria culturale,
condannando la fasulla funzione consolatrice svolta, presso le classi popolari, dalla cultura di massa.
La presa di distanza avviene nei confronti dell’editoria di consumo: la diciannovenne Gianna è un
operaia addetta all’imballaggio e alla spedizione di riviste popolari nelle quali saranno presenti gossip
su personaggi famosi e racconti sentimentali nei quali giovani ragazze conquistano e sposano
avvenenti uomini determinando il cambiamento della loro vita che passa dalla miseria al lusso e alla
soddisfazione amorosa.
Sono le medesime vicende che M. pubblicava e scriveva sui rotocalchi e riviste. Gianna, è un
affezionatissima lettrice delle storie perché a queste si affida per dare respiro alla sua
insoddisfazione e ai suoi desideri di evasione, sognando di essere come le ragazze delle storie. Un
giorno Gianna, che non può permettersi di comprare queste riviste, viene scoperta a rubare una
copia, nascosta nella camicetta; il padrone, per dare l’esempio, la licenzia e si rompe così
l’incantesimo della finzione dei racconti e, in quel momento, è come se Gianna vedesse la sua vita
per la prima volta la sua vita come realmente è, misera e insoddisfacente. Decide allora di non
tornare nemmeno a casa e suicidarsi buttandosi dal terrazzo della fabbrica. Gianna non ha l’oro di
Napoli, è un racconto cupo che mostra come Gianna, alla prima disgrazia, cede. Pag. 181 vediamo
la descrizione della protagonista che fruisce dei racconti delle ragazze che arrivano a raggiungere
tutto ciò che vogliono perché donne.
Il lieto fine e il fiabismo sempre presente in M. è comunque nel racconto perché quel suicidio propone
ancora una volta il soffio vitalistico, è spogliato di qualsiasi crudezza e viene sublimato non in un
tonfo per terra, ma in un volo incompiuto: Gianna, secondo il narratore, non arriva a terra e questo
toglie crudezza all'immagine; offre inoltre un infinito potere alla stessa Gianna sull'impietoso padrone
perché dice che ella toccherà il suolo solo alla morte del padrone che, fino a quando rimarrà vivo,
avrà l’immagine di Gianna che suicida sempre in testa. Si riesce a trovare, nonostante l'evidenza
dei fatti, una soluzione non del tutto cupa o negativa affermando che il corpo non sia, appunto,
ancora arrivato a terra. pg. 183
La sconfitta di Gianna rappresentata dal licenziamento e dal suicidio diventa, nelle mani del positivo
M., un volo che, non solo non termina in un tonfo, ma si trasforma in un senso di colpa per il capo
dell'azienda che ha probabilmente visto il volo. Anche se la storia è cupa, il finale è sempre
prodigioso e bello, sotto forma di miracolo, come se questo fosse imprescindibile anche in una storia
non a lieto fine; il senso di giustizia prevale sempre e la classe popolare ne esce sempre vincitrice.
Gianna è il personaggio che più assomiglia a Marotta: lavora nell’editoria, ha una vita misera, è
appassionata di racconti sentimentali; il segnale più fragrante di sovrapposizione di infelicità tra
Gianna e Marotta è che Marotta, non sapendo il cognome della protagonista, le dà il suo cognome.
L’immagine della classe dominante che emerge nell’opera, costellata principalmente da immagini e
situazioni della classe popolare, è in Gianna con il commentatore T. ma anche in Carlo e Teresa; in
questo si nota quando Carlo, ora fattorino in Piazza Duomo, deve portare un bigliettino da parte di
una signora ad un avvocato; in questo la signora intima di pagare una determinata somma di denaro
in cambio del suo silenzio sulla loro relazione extraconiugale. Dal bigliettino emerge il ritratto della
borghesia che basa i rapporti sull’inimicizia, sull'infedeltà e sul ricatto mentre la classe popolare
intrattiene rapporti amorosi sinceri, ideali e veri. Questo era evidente anche nel passo sull’inflazione
quando la madre di Teresa fa pesare molto la povertà della figlia e del marito e non dà loro soldi nel
momento del bisogno.
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Elemento fiabesco. C’è un potente filtro fantastico e emotivo che copre tutto il libro; tutto è
umanizzato nell’opera - questo avviene nei racconti fantastici - e la dinamica umanizzante con la
sua scivolata nel fantastico è presente in quasi ogni pagina con la figura retorica della
personificazione (es. pag. 124 con il vento che ammonisce le piante di basilico; pg. 78 la fame,
anfibia, gioca con gli spruzzi presenti nello stomaco dell'alter ego marottiano e dell’amico Michele
che hanno bevuto tanta acqua); c’è quindi uno spirito animistico, tutto è vivo, soffre, reagisce a quello
che c’è intorno. La personificazione porta un'aura magica al reale - fedelmente rappresentato - e
questa aura assume una funzione in parte ironica, ma anche consolatoria: c'è sempre un popolano
in difficoltà ma è come se M. non volesse spaventare il lettore con le tragedie e allora il velo ironico
consola il lettore al quale dà quasi il permesso di ridere (collocazione nella lettura di intrattenimento
che pone un limite alla tragicità dello spavento del lettore).
Tra altri elementi che ci collocano in un ambito fantastico, c’è il miracolo che fa superare la negatività
del reale; questo è sempre dietro l’angolo, è un elemento e intervento risolutivo, tipicamente
fiabesco, che riprende l’aiuto esterno fantastico che permette la risoluzione dell'intreccio o
l’intervento di un altro personaggio in soccorso del protagonista. In M. lo troviamo in Gianna, nelle
campane di San Fedele, nelle 50 lire e nel voto a Sant’Antonio. La struttura stessa dei racconti è
quella delle fiabe: i personaggi devono superare delle terribili prove, arrivano sul punto di non farcela
sfiorando la sconfitta, ma alla fine ce la fanno; tutto è esagerato e vengono enfatizzate anche le
prove: la miseria e la povertà non vengono rappresentate come delle generiche difficoltà, ma le
estremizza (giorni di digiuno).
Ci sono anche una serie di aneddoti iperbolici chiamati a portare enfasi sulla situazione drammatica
(esempio pg. 30 che ricalca la rivolta del pane dei Promessi Sposi enfatizzando la situazione; a pag.
86 quando l'alter ego marottiano va a vivere a casa di una famiglia che affitta un letto e questo si
trova in cucina dove, la notte, degli scarafaggi cercano del cibo e questi sono in una quantità tale da
coprire il pavimento che diventa lucido e mosso e soltanto con l’aiuto della scopa, trova di nuovo il
pavimento). Le difficoltà sono enfatizzate così che il miracolo può essere ancora più d’effetto,
enfatizzandone anche la positività; questo succede proprio nei racconti fiabeschi dove i personaggi
rischiano la vita ogni volta e la loro emotività è ben evidente e enfatizzata.
La visione del mondo nell’opera di M. vede la vita come un ottovolante che procede inevitabilmente
fra alti e bassi, positività e negatività che sono sempre estremi: non esiste la normalità, esiste solo
l’idillio e la tragicità, senza nulla in mezzo; in questo è estremamente non realista perché la vita
solitamente rimane principalmente nella vita mediana (pg. 97 e l'emotività delle madri al momento
della partenza dei figli per il nord).
Lo stile. In letteratura, stile e contenuto di solito vanno in sintonia e in M. quindi ci aspettiamo degli
aspetti enfatizzanti; questi non li troviamo per la sintassi, pervasa da semplicità, è piana, lineare,
costruita su frasi brevi, sulla somma di frasi brevi con poca ipotassi (subordinazione) e, se usa
ipotassi, lo fa su livelli molto scarsi. Questo non è però in contraddizione con il contenuto perché
sono testi pensati per un grande pubblico che sarebbe altresì allontanato dalla ipotassi, da una
sintassi complessa; l’enfasi si trova sul piano lessicale: non usa un lessico ostico, difficile che
potrebbe respingere il suo pubblico di elezione, non è erudito, specialistico o colto; l’enfasi del lessico
si trova sulla sua espansione orizzontale: M. mette sempre più parole di quante ne sarebbero
necessarie, utilizza molto la figura del catalogo, dell’elenco, una scrittura descrittiva che mette a
fuoco il reale aggiungendo elementi che lo descrivono; non usa parole specifiche per determinare
una parte del reale, ma sono tante parole di livello medio per descrivere meglio. C’è esuberanza
perché, ovunque, si trovano delle serie lessicale come per esempio a pag. 134 dove descrive
sommando elenchi nella descrizione dell’amore a Milano; così come la sintassi è formata dalla
somma delle frasi, con anche il lessico è una somma orizzontale di elementi che permettono
all’enfasi e alla semplicità di stare sullo stesso piano.
Questo non riguarda solo i sostantivi, ma anche l’aggettivo, elemento descrittivo per eccellenza;
l’attributo è per lui una risorsa essenziale, sono quindi molto presenti le iterazioni aggettivali (pg. 38
lunghe, strane…; pg. 174 roseo e nitido…). L'approccio conoscitivo avviene attraverso una somma
di elementi che si sviluppano sul piano orizzontale che si oppone a quello che potrebbe essere un
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sondaggio analitico nel profondo; M. predilige il contatto diretto con la superficialità dell’esistenza
invece delle astrazioni generalizzanti: né va in profondità nell'analisi, né va in alto/in profondo nelle
astrazioni. Le immagini, le frase, nomi sgorgano in sequenza in maniera esuberante sorvolando a
bassa quota il territorio che vuole rappresentare senza impennate intellettualistiche. M. sembra
affascinato dalla varietà della vita, delle cose che stanno nella realtà e quando ha deciso di
rappresentarla la descrive così com’è, attraverso questa proliferazione descrittiva con aggettivi. M.
è anche per questo che utilizza la forma del racconto che, messi uno accanto all’altro, come gli
aggettivi e i nomi, restituiscono un’immagine complessiva di Milano; è un panorama di insieme
restituito da vari elementi.
Un altro elemento, su un altro piano, a cui si può applicare questa forma di conoscenza per somma
di elementi è la figura di pensiero della similitudine che, prendendo un elemento, lo accosta ad un
altro orizzontalmente. Il congegno prediletto per dipingere la realtà è quello del come (pg. 139 ozio-
osso-lima). In questo testo, che si muove quindi tra realismo e coazione fantastica, Milano emerge
come una città ancora pre-metropoli; quello di M. è quindi forse l'ultimo esempio letterario di Milano
come capitale economica e morale presa sul serio.
D. e A. vivono lo shock metropolitano di Benjamin: nella pausa tra le parti dell’esame, i due vengono
assaliti dalle vetrine dei negozi della città e dalla tentazione del consumismo durante il boom
economico che gli impedisce di rimanere indifferenti di fronte alla giacca, alle caramelle, alla moto,
al caffè. Sono assaliti anche dai rumori assordanti della città ed in particolare dalla costruzione della
metropolitana a San Babila che non permette loro di conversare. Sono anche assaliti dal traffico
automobilistico; in questo senso viene messo ben in mostra il momento di difficoltà di Magali che
non riesce ad attraversare la strada; questo è importante per la narrazione della città e viene quindi
molto enfatizzato.
Olmi rappresenta bene anche il passaggio da un’Italia all’altra e la convivenza dell'Italia che fu e
dell’Italia che sarà; questa dualità è presente anche nella biografia del protagonista: D. vive nella
campagna, a Meda, e va a fare l’impiegato in una grande azienda nella città. All’inizio del film D. e il
fratello camminano per strada e vengono superati sia da un carro trainato da animali (vecchia Italia)
sia da un camioncino a motore (Italia moderna); non è casuale che il fratello più piccolo insegua e
si aggrappi, dopo essere sceso dal carretto, al camion a motore perché sarà colui che più starà
dentro nella modernità, mentre D. rimane nei ritmi che gli vengono dati. Anche i due vecchi che
guardano i lavori della metropolitana devono urlare per potersi far sentire e questo segnala inoltre il
passaggio dal vecchio al nuovo.
Un altro momento esemplare per il passaggio tra il vecchio al nuovo è durante la mattinata, quando
il gruppo di candidati si muove dall’azienda al palazzone dove faranno gli esami; nella corsa un
anziano ferma D. per chiedergli che cosa stessero facendo e quando questo risponde che stanno
andando a fare l'esame psicotecnico per l'assunzione al nuovo lavoro, il signore anziano non
comprende questa nuova modalità; il vecchio non capisce il nuovo.
Superficialmente, si potrebbe dire che il posto di lavoro in questa grande azienda possa essere il
lavoro della vita, perché permette di fare un salto dalla campagna alla città; l’azienda con gli interni
di vetro e cemento sembra il plus-ultra della modernità, il simbolo del lavoro nel boom economico.
Dell’esame psicotecnico viene mostrato che non è nulla di che, niente di quanto ci si immaginava:
dietro ad un nome e ad una tendenza di derivazione anglosassone, si cela un esame declinato
all’italiana, sviluppato con un tema e un problema elementare e dalla dimostrazione di avere delle
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minime capacità fisiche e qualità igieniche.
L’immagine più impietosa è quella dell’ambiente lavorativo: il mondo del lavoro vende il sogno
dell’impiegato, ma immediatamente abbassa gerarchicamente il protagonista a facchino; D. supera
le prove per diventare impiegato, ma non realizza subito il sogno e questo mostra la sfasatura che
c’è tra la realtà esterna e esteriore che si ha del lavoro e come questo sia davvero; nell’azienda c’è
molto risentimento, non si fa molto. C’è poi un’immagine forte nel momento in cui D. viene presentato
all'ingegnere nel giorno dell’assunzione e in questo momento entra in ufficio una madre
evidentemente in difficoltà; questa viene pesantemente insultata dal capo del lavoro per il suo
ritardo, nonostante la giustifica; questa impresa all’apparenza super moderna tratta un’umile
lavoratrice in malo modo, senza guardare alla difficoltà familiare.
D., dopo essere stato facchino per un po’, trova la sua scrivania di impiegato perché colui che lo
precedeva si è suicidato; il lavoratore precedente era un personaggio che decide di non rinunciare
alla propria creatività, nonostante chi gli affittasse la camera era scontento del fatto che tenesse la
luce accesa di notte e per questo gli dava problemi; questo personaggio resiste alla trasformazione
della propria umanità in un manichino impiegatizio, non rinuncia alla sua identità e alla sua
personalità in favore di una spersonalizzazione che si subiva nella realtà lavorativa; ne sono
emblema i lavoratori che muovono scartoffie in un grande stanzone alle loro anonime scrivanie, non
conoscendo minimamente il senso del loro agire. Questo personaggio che quindi resiste
all’anonimato, finisce per rimanere espulso dalla realtà e si suicida. Non è a caso che D. conquisti il
posto sulle spalle di un morto: il personaggio che viene più personalmente connotato, nonostante
brevemente descritto, si ammazza. Non è casuale nemmeno il disprezzo con il quale mettono via le
sue cose dalla scrivania e dal suo armadietto, guardando con sospetto il romanzo.
Si scivola così verso il mito di Milano come capitale morale che viene però, in diversi passaggi,
messo in discussione; durante la passeggiata di Magali e D., quando i due sognano i sogni del
miracolo economico, cedono alla tentazione consumistica del caffè, entrando nel bar come se
questa fosse un'esperienza da fare per essere dei veri Milanesi. Quando entrano nel bar, trovano
gente indifferente e scontrosa: D. fatica a farsi largo tra i clienti, a lasciare il balcone, gli cade il
cucchiaino per terra e, una volta arrivato il momento di gustare il caffè, questo nemmeno gli piace.
Viene messa in evidenza, quindi, la costrizione al consumo: i due vivono il bere il caffè come un rito
sociale e l’esperienza è, però, tutt’altro che positiva. Sotto la patina attrattiva, si nasconde lo shock
della modernità che rivela una realtà meno bella e umana di quanto ci si potesse aspettare; si
evidenzia, inoltre, la difficoltà a vivere e a socializzare con l’altro. E’ evidenziato anche nel momento
in cui D. vuole prendere le caramelle per lui e A.; queste però rimangono bloccate e la proprietaria,
dopo che D. cerca di recuperare il prodotto scuotendo la macchinetta, gli urla contro, evidenziando
i rapporti poco umani a Milano dove tutto sembra basato sullo scambio economico.
Olmi mette, quindi, in discussione il mito della Milano capitale economica e morale d'Italia. Nel
complesso la modernità metropolitana stritola la genuinità di un personaggio che non sembra pronto
ad affrontarla. D. è sempre incerto, sulla difensiva, è buono, timido e viene sballottato nella
modernissima Milano. Il film si chiude con un focus sull’espressione di D. una volta che questi
realizza il suo sogno (o della famiglia?), una volta, quindi, che conquista la scrivania da impiegato;
sul suo volto non si vede, come ci si aspetterebbe, il sorriso, ma c’è uno sguardo perplesso,
impaurito: alla fine del percorso di formazione è evidente la trasformazione del personaggio, ma non
si conclude in lieto fine; molto modernamente, l’eroe, invece di esultare per il salto sociale e per il
superamento delle prove, appare perplesso.
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La famiglia protagonista è composta dai genitori e due bambini, il padre ha una stabilità economica
e ha la testa piena di desideri di beni voluttuari (automobile, tv, seconda casa); la mente dei
protagonisti è impregnata di questi desideri e il cuore è pieno di sentimenti negativi, di invidia e di
insoddisfazione perché cedono alla foga consumistica del desiderio perenno per altri beni. Il
cortometraggio, più esplicito sul piano ideologico de il posto, il cuore e la testa con i loro pensieri
hanno una precisa causa: sono, infatti, il frutto di una strategia di marketing; il film si apre infatti con
un focus su un esperto di marketing che ha il compito di trasformare i prodotti dei produttori in
desideri per i clienti attraverso la pubblicità e di illustrare ad altri come fare.
Il titolo viene spiegato nella scena del ristorante: il pollo ruspante è il consumatore dell’Italia che sta
diventando consumista. L’esperto del marketing si è formato e ha lavorato negli USA, portando da
lì il verbo della modernità in Italia, dal dopoguerra “colonia” americana. La disumanizzazione del
personaggio è mostrata subito attraverso l’escamotage della malattia alle corde vocali che gli
impedisce di parlare se non attraverso un microfono: non è più una persona, ma una macchina nelle
mani del pubblico che ha davanti. Di fronte a lui ha i rappresentati della classe dominante, i grandi
borghesi imprenditori a cui il conferenziere si rivolge con istruzioni per dominare al meglio il mercato,
quindi le persone; emerge una massima disumanizzazione. Alla fine, la classe dominante va a
rendere omaggio a questo nuovo strumento di controllo sociale.
Il protagonista viene mostrato come comparatore sin dalla prima scena quando è ripreso mentre
firma delle cambiali per comprare a rate un nuovo televisore, dopo essersi assicurato che fosse
ultimo modello; “si fida” ingenuamente del compratore, scivolando nei rapporti umani, ma quando
torna a casa il carosello racconta, attraverso Topo Gigio, l'uscita di un nuovo modello di televisione;
il protagonista è frustato per l'invecchiamento del prodotto appena comprato (nel film passano pochi
giorni, probabilmente passano anni nella realtà).
Notiamo poi il traffico automobilistico; in questo vediamo come tutti i personaggi siano trasmissione
di negatività; i rapporti umani sono ridotti meramente allo scambio economico e all'automobilismo
che genera ansia e odio. Il modo in cui parla la bambina è esplicativo perché parla attraverso frasi
della pubblicità e delle canzoni; quando parla con il bambino ancora sano, mostra le sue mani
bianche rese tali grazie “all’Omo”, un prodotto sbiancante. Il padre e il bambino della campagna
mantengono un rapporto sano con la terra che viene ancora coltivata - non è ancora ostaggio
dell’edilizia - e rappresentano il vecchio. La bambina è quindi un perfetto prodotto della realtà
consumistica italiana del boom economico.
L'illogicità della razionalizzazione capitalistica viene mostrata quando devono entrare negli autogrill:
devono fare tutto il giro del ristorante per trovare un posto ad un tavolo; questo è illogico e inumano,
ma perfetto per il consumismo capitalista. Alla fine, la famiglia casca in questo tranello e la moglie
compra dei prodotti senza nemmeno sapere che cosa siano; non conosce la funzione del cestino,
ma le fa stare bene comprare qualcosa. Omologante è anche il ristorante dell’autogrill dove non si
ordina più quello che si vuole ma si sceglie della combinazione volte a favorire il consumo e favorire
l’organizzazione di chi distribuisce le quantità, permettendo al meccanismo di funzionare bene. Il
padre alla fine si trova a dover comprare più di quanto vorrebbe.
Automobile, tv e seconda casa sono i desideri voluttuosi tipici della nuova società. Quando arrivano
alla Svizzera Lombarda, il bambino urla “Napoli” che, per sineddoche, va ad indicare i meridionali; il
bambino poi scappa di fronte alle persone estranee con cui scambia qualche parola. Il finale inizia
quando la frustrazione del padre per il mancato acquisto del terreno diventa troppo grande; inizia
quando dice “chissenefrega” portandosi via, con imbarazzo, la moglie; non si interessa più del
modello di felicità che vorrebbe le famiglie con una determinata macchina, una seconda casa in una
determinata posizione. Infatti, in auto si consuma per la prima volta un idillio sentimentale e amoroso
tra i due: lei dice “si stava meglio prima” perché, nonostante le difficoltà economiche, erano più
umani, lontani dalla dinamica di desiderio e frustrazione. Lei riscopre la commozione: piange di gioia
perché si libera dell’insoddisfazione consumistica che le attanagliava il petto.
Non troviamo però un lieto fine: inquadratura finale vede la mamma e i figli sdraiati su un fianco,
sembrano morti; nella testa del padre girano le frasi del consumismo di cui lui si accorge la banalità;
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i personaggi vengono espulsi, però, dalla storia: vengono uccisi perchè, in extremis, abbiamo prima
una morte simulata di moglie e figli e poi il padre muore facendo un frontale con un tir, dopo aver
tentato un sorpasso. Consumano l'assurdità della vita in cui vivono e, di conseguenza, ne vengono
esclusi.
Pagliarani, come Olmi, viene dalla provincia, in questo caso da quella romagnola, da Viserba dove
nasce nel 1927. A 18 anni si trasferisce a Milano dove si laurea in Scienze Politiche e lavora per
qualche anno come professore alle scuole medie; fa poi il giornalista e poi, dal 1960, si trasferisce
a Roma, dove muore nel 2012, dove si occupa principalmente di editoria. La ragazza Carla è
un'opera scritta a Milano. P. lascia un piccolo centro come Viserba, partecipando quindi al fenomeno
della migrazione interna e in particolare a quello dell'imbarcamento, per trasferirsi nelle due città
italiane più grandi. Sia con Marotta sia con P. abbiamo il profilo dell'intellettuale piccolo borghese
che ha alle spalle una preparazione culturale sfruttata per farsi strada nel mondo delle grandi
concentrazioni di sistemi come scuola, giornalismo e editoria che stanno nelle grandi città.
P. in questo contesto è significativo perché ha avuto a che fare nella propria carriera professionale,
parallela a quella di scrittore di versi, con tutti quegli ambiti che nel secondo 900 hanno subito i
maggiori cambiamenti; l’aumento della scolarizzazione e l'aumento del consumo che modifica il
giornalismo e l’editoria. P. ha avuto un rapporto più semplice di quello di Marotta con la critica
letteraria: è stato ben accolto, soprattutto grazie a quest'opera, e ha fatto parte dell’ultimo grande
movimento letterario e culturale che c'è stato in Italia, la neo-avanguardia, occupando posti di grande
importanza nella critica, nell’editoria e nella produzione artistica. E’ stato un movimento molto
sperimentale che si muoveva dalla volontà di fare tabula rasa della produzione passata ma P. ha
sempre avuto una posizione piuttosto moderata nel contesto, nonostante fosse a tutti gli effetti un
membro del gruppo.
L’opera è uno dei risultati più notevoli della produzione poetica italiana degli anni 50/60 grazie
all’eccezionale equilibrio tra novità e innovazione. Sono 700 vv. circa ed è diviso in 3 parti, numerati
con numeri romani, ciascuna suddivisa in ulteriori sottoparti indicati in numeri arabi; la prima ha 9
sezioni, le altre due 7. L'uscita stampa è per la prima volta nel 1960 sulla rivista “il Menabò”, una
delle riviste più importanti dei primi anni ‘60, i cui direttori erano Calvini e Vittorini. Due anni dopo
esce in volume presso Mondadori. La ragazza Carla viene scritta, come dichiara P. stesso, tra
l'autunno del 1954 e il Ferragosto del 1957 come indicato nella Cronistoria Minima scritta nel 57
dall’autore: «Incominciai La ragazza Carla fra settembre e ottobre del ’54. […] Ricordo che iniziai a
scrivere, a mano, durante un compito in classe di italiano che avevo assegnato alla scolaresca, di
terza media, mi pare (...) il poemetto lo terminai il giorno di Ferragosto del 1957»..
Il genere letterario. E’ un’opera in versi molto musicali con rime e altri artifici tipici della poesia;
tuttavia, non è un testo che appartiene al filone principale della poesia moderna, perché quest’opera
non appartiene al sottogenere poetico della lirica - quella di Leopardi, Ungaretti, Montale etc., quella
in cui un io lirico esprime le proprie esperienze individuali e riflessioni in testi piuttosto brevi;
quest’opera non è una lirica per la lunghezza, è molto più lunga, e non si ha un io che racconta di
sé esprimendo se stesso, ma, come dice anche il titolo, l’opera racconta una storia non dell’io
autobiografico, ma di una persona terza. E’ una narrazione in terza persona e non c’è soltanto, per
di più, la storia di Carla: il narratore esterno guarda anche, sempre dal punto di vista di Carla, anche
ad altri personaggi; è una narrazione con un sistema di personaggi abbastanza vasto.
P., molto precocemente, ha messo la sua poesia in relazione con il genere egemone della modernità,
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il romanzo; P. cerca di mettere qualcosa di romanzesco nella sua poesia perché la gran parte della
letteratura era ormai occupata dal romanzo - Bachtin parla di romanzizzazione dei generi letterari.
Nella cronistoria minima P. afferma «mi preoccupava il peso, che mi pareva eccessivo, delle mie
vicende personali sulla mia poesia e m’era diventata pesante nello scrivere la “tirannia dell’io”».
«Quindi […] avevo deciso di comporre un poemetto narrativo, con la sua brava terza persona, che
si occupasse di vicende contemporanee che non mi riguardassero troppo direttamente».
Narratologia. C’è un narratore esterno onnisciente: la voce narrante non fa parte della storia, come
nei Promessi Sposi, ed è onnisciente perché entra benissimo nella testa di Carla e, anzi, ne sa più
di lei. È un narratore che è in grado di fare focalizzazioni sui personaggi, punta l’attenzione sul
personaggio scoprendo il suo punto di vista sulla situazione. C’è un vero e proprio sistema di
personaggi e qui, in particolare, oltre a Carla c’è la madre, la vedova Dondi, la sorella, Nerina, che
vive con loro insieme al marito Angelo; ci sono due spasimanti di Carla, uno conosciuto in una scuola
serale, l’altro al lavoro, Aldo e Piero. Il capo dell’ufficio, Pratek e sua moglie.
Un altro elemento narrativo è quello dell'analessi, del flashback: c’è un punto zero, un presente ma
a volte si guarda anche al passato, nei momenti in cui si guarda ai ricordi di Carla. P. è tra i primi in
Italia a uniformare in questo modo poesia e romanzo e a farlo in maniera così sistematica
opponendosi all’identificazione di tutta la poesia in quella lirica che era in auge nell’Ottocento; questo
però non era sempre presente nella letteratura, basti pensare all’Orlando Furioso, all’Adone e alla
Commedia, poemi lirici. La Ragazza Carla non è però un poema, generalmente di migliaia di versi,
ma un poemetto: è una poesia che narra una storia ma in una dimensione minore.
Vicenda narrata. Carla Dondi ha 17 anni, orfana di padre, vive con la madre, la sorella e il cognato.
La madre, dalla morte del padre, si è messa a lavorare, confezionando, in casa, pantofole;
appartiene quindi alla classe popolare. In famiglia, non ci sono soldi a sufficienza affinché Carla
faccia un percorso di studi (riferimento a il posto di Olmi) così C., dopo la scuola dell’obbligo, non
prosegue gli studi, nonostante la sua volontà e desiderio, ma frequenta una scuola serale
professionale di steno-dattilografia per diventare segretaria, obiettivo ultimo della famiglia (ancora
Olmi). Terminate le scuole serali, C. è alle prese con il suo primo impiego che diventa una soglia che
la mette a contatto con la realtà del mondo esterno, una soglia anche della maturità, una soglia
dolorosa per Carla a causa della sua incertezza e timidezza e incapacità di rispondere correttamente
agli stimoli.
Milano. M. più che protagonista è antagonista di Carla perché ha un volto arcigno, duro, non è facile
viverla o ritagliarsi un posto; Carla, come Domenico, è incerta, indifesa e confusa, e ha difficoltà. C.
vive nel poemetto una sorta di rito di passaggio dall'adolescenza alla realtà adulta, nei termini
proposti dalla società. Come in Marotta, i riti di passaggio ai quali la protagonista viene sottoposta
riguardano il lavoro, trovarsi un'identità professionale, e l’amore, i due settori in cui C. cerca di
diventare una donna, non più bambina.
Romanzo di formazione e pièce teatrale. C. attraversa molti riti di passaggio e, così come
Domenico, in maniera più evidente, si integra; la parabola di C. è una parabola di integrazione,
impara sulla propria pelle le regole del mondo adulto. Viene però il dubbio che questa integrazione
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diventi una disintegrazione umana, prezzo ultimo per la sua integrazione nelle dinamiche del mondo
adulto e del mondo lavorativo.
Abbiamo quindi un narratore esterno, onnisciente e intrusivo, un narratore che entra nella narrazione
per esprimere il proprio pensiero, ricordando il narratore dei Promessi Sposi. Assomiglia ad una
tragedia anche per l’assenza di lieto fine.
Contenuto. Gli ingredienti fondamentali su cui si basa questo testo sono tre:
1. Narrazione della vicenda; dei brani che, soprattutto all'inizio, impostano e raccontano la
vicenda;
2. Descrizione dell'ambiente; Milano diventa protagonista quando la narrazione della vicenda
non è più principale ma vediamo la descrizione di alcune zone della città;
3. Commenti del “narratore”; momenti in cui si percepisce meglio intrusività del narratore che
non si trova solo nelle parti in corsivo.
Fondamentale ricordare che sia una poesia, ci sono dei versi con ritmo e P. stesso nella cronistoria
afferma «man mano che lo scrivevo me lo recitavo ad alta voce, misurando il verso “secondo
l’orecchio”, e più ancora ne leggevo via via dei brani ad alcuni amici, sempre ad alta voce, anche
per strada o meglio nei parchi, più spesso in trattoria, anche in vere e proprie osterie». P. sottolinea
la musicalità dei versi ma anche che non ha voluto costruire necessariamente una versificazione
tradizionale: non dice di essersi messo a contare i versi per ottenere, ad esempio, endecasillabi, ma
si mette ad ascoltare piuttosto la musicalità dei versi. P. sa benissimo che, nel contesto
novecentesco, non è più possibile scrivere versi con i versi tradizionali, era necessario aggirare la
tradizione senza essere pedissequamente dentro di questa.
Atto I, scena 1
Ci si trova di fronte ad un’epigrafe, un breve testo che si trova prima del testo per aggiungere
qualcosa a questo; l’epigrafe che descrive quella che forse è la destinataria dell’opera, si conclude
con una domanda retorica: «ha un senso dedicare a quella ragazza questa “Ragazza Carla”?»; la
risposta a questa domanda è “si” perché Carla assomiglia molto alla ragazza descritta e citata
nell’epigrafe. La ragazza il sabato prende il sonnifero per dormire di domenica e quindi risvegliarsi
direttamente il lunedì e questo è interessante per comprendere il finale e per la lettura complessiva.
Abbiamo infatti una ragazza in cura dallo psichiatra che sembra aver paura e l'incapacità di affrontare
l’unico giorno libero dal lavoro che ha, l’ultimo momento di libertà. È una ragazza talmente
disintegrata, alienata che non riesce più a gestire la propria umanità; piuttosto trascorre la giornata
dormendo nell'attesa che di lunedì il lavoro si possa impossessare di lei nuovamente, dimostrando
la sua alienazione e disumanizzazione totale.
I versi iniziali, cruciali per la storia, condensano tutte le caratteristiche dell’opera, tutti e tre gli
ingredienti. Nei vv. 1-3 P. segna l’inizio della narrazione, enunciando i protagonisti e la ubicazione,
in una traversa di Via Ripamonti, Sud di Milano, all’altezza della ferrovia, dove si trova la casa in cui
vivono i protagonisti. Nei versi successivi, vv. 4-7, la vicenda non continua, è un momento descrittivo
(secondo pilastro), con una descrizione dell’ambiente circostante; notiamo già la diversa descrizione
narrativa rispetto a quella di Marotta che non apriva la descrizione su quello che succedeva nelle
vie ben descritte, narrando solo la vita del protagonista. P. descrive una Milano periferica, del
commercio e in movimento (camion, tram, filovie, gente che cammina, merci). In quattro versi P.
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restituisce il panorama di una città in fermento economico: non si passeggia in questa città, ma si
trasportano cose (capitale economica).
Nei versi successivi, vv. 8-20, non riprende nè la descrizione nè la narrazione, ma c’è una voce
commenta: parla qualcuno con una capacità intellettuale e di esprimersi molto più alta rispetto ai
personaggi che sta descrivendo, coloro che vivono in periferia o i lavoratori. La lingua cambia
completamente ed è necessaria la parafrasi; è anticipata in questi versi la difficoltà di Carla, giocando
sulla cosa dell’abitudine, del popolo che non ne capisce l’importanza, sulla capacità di entrare nel
ritmo della città. Bisogna introiettare il ritmo della città, farlo entrare sotto la propria pelle, ma la
difficoltà subentra nel momento in cui non si riesce a stare nel ritmo della vita adulta, così come è
imposto dalla città che corre; il percorso è interrotto, il ritmo non è sempre metabolizzato dal
personaggio, allora la burrasca copre il ponte e qualcuno rischia di cadere; è questa una metafora
che esprime il senso profondo del poemetto: l'incapacità di Carla di cogliere sempre il ritmo della
vita (correlazione con la fine de il pollo ruspante, una volta che si è fuori dal ritmo della città e della
realtà, si è espulsi dalla vita una volta che si è in distonia con ciò che il contesto richiede).
Elemento fondamentale di questo poemetto è il montaggio che agisce a vari livelli; sul piano
strutturale vediamo i diversi ingredienti già citati, la parte narrativa, quella descrittiva degli ambienti
e i commenti dell’autore. Le parti narrative sono concentrate nella prima metà, mentre quelle
descrittive e lirico-corali - a volte anche in corsivo - appartengono alla seconda metà.
Scena 3. In questa abbiamo uno spaccato della scena familiare di notte; Carla dorme e il narratore
spiega la posizione dei dormienti nella casa popolare. P. spiega il punto di partenza di Carla
assumendone il punto di vista di cui sentiamo quindi i pensieri. All'inizio, è la prima volta che siamo
nella testa di Carla, ci viene messo davanti il punto di partenza emotivo di Carla che qui, da quando
Angelo vive con loro, deve subire una redistribuzione della disposizione notturna. I novelli sposi si
sono presi il letto matrimoniale dove dormiva la mamma che ora dorme su un divano, mentre
sull’altro Carla. Carla non riesce a dormire e così realizza di essere nel mondo degli adulti, dove le
notti sono lunghe e le giornate brevi, immersi nei doveri.
Carla ascolta, nel silenzio della notte, i rumori che arrivano dalla camera di Angelo e dalla sorella;
nelle pagine prima Carla aveva già subito una violenza, da un uomo, che aveva causato una sua
fuga. Carla percepisce la situazione non come qualcosa di sentimentale e tenero: le immagini che
ne derivano sono quelle di grida, come animali, riso soffocato, con accento sul “soffocato”, e ne
emerge, quindi, un’immagine del rapporto mentale con gli uomini tutto declinato in termini di violenza
subita. Ne è quindi impaurita.
Emerge, inoltre, che è in preda alle sue emozioni che diventano corpo, provocandole brividi e
sudore; è una ragazzina in preda alle sue emozioni che diventano sensazioni fisiche generate da
quello che sta ascoltando (amore = violenza).
Scena 4. Abbiamo un altro spaccato della vita famigliare, ora diurno, e abbiamo a che fare con il
lavoro della madre, scoprendo cudin qualche dato oggettivo utile alla narrazione. In questa scena si
scopre che la madre di Carla, per guadagnare qualcosa, costruisce pantofole in maniera artigianale
e improvvisata; abbiamo uno squarcio sulla miseria della vita della famiglia. Carla aiuta la madre e
propone qualche decorazione per le ciabatte che però non servono alla causa della vendita: le clienti
della madre non vogliono decorazioni, vogliono qualcosa di concreto.
Nella penultima strofa interviene l’autore che dà voce ai pensieri Carla, lo capiamo dal linguaggio
(“sceme”, “ci” tautologico, “un po’ di bene”) che commenta le scelte delle clienti e di come si siano
dimenticate della loro attenzione all’estetica nella loro vita pre matrimoniale e di come, quindi, poi,
dopo il matrimonio, non siano più interessate al loro aspetto esteriore; guardano ora però con rabbia
le decorazioni e l’attenzione di altre ragazze alla loro apparenza perché ricorda loro un tempo
passato in cui erano anche, forse, più felici e spensierate. Ne emerge un interessante ritratto
psicologico dell’evoluzione dei pensieri delle donne nelle loro fasi della vita che si ricollega, però, al
discorso precedente che legava l’amore alla violenza: in questo caso l’amore matrimoniale viene
visto come un vicolo cieco abbastanza cupo; questa è la visione del mondo dell’amore da parte di
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Scena 5. Qui facciamo una conoscenza più approfondita di Nerina e di Angelo; c’è qui un’analessi,
un flashback ingrediente molto importante nelle narrazioni che permette di recuperare i fatti del
passato. Con questo elemento narrativo viene raccontato l’incontro tra Nerina e Angelo e il quadro
che ne emerge non è quello di un fatale innamoramento (“lo ha trovato”); si sono conosciuti su un
tram che prendevano sempre alla stessa ora e non è stato un grande amore ma si sono entrambi
accontentati perché non c’erano altri spasimanti. Viene poi presentato un ritratto di Angelo, un
accidioso, una persona bloccata nella sua zona di comfort, senza grandi progetti; entra poi la Storia
nella narrazione (lontani da Marotta): “Angelo si è portato dietro i reumatismo dalla Germania”; data
la datazione e ambientazione della narrazione, si pensa che Angelo fu deportato in un campo di
concentramento. In officina lavora bene, ma non è affabile e abbiamo un altro scorcio sulla Storia: il
capo officina si chiede che cosa possa pensare mentre è al lavoro, magari è comunista? sta remando
contro gli interessi del padrone? E’ una lieve accusa.
Tutto è caratterizzato da poco entusiasmo; la madre ha dietro una grande storia di miseria e fatiche
e negli ultimi versi, con due metafore e una similitudine, vediamo tutta la fatica che ha subito: strappa
con violenza i giorni di vita lavorando con fatica per poter allevare le due figlie ma quello che recupera
non è di grande valore; emerge emarginata dalla compagine sociale, come un ladro. Tutte queste
esperienze e beni di poco valore che ha recuperato lasciano il segno sulle spalle e sul volto, scavato
dalle sofferenze, dalle fatiche e dagli anni.
Quindi, sia Nerina che si è accontentata nello scegliere un marito, sia la madre che sembra non aver
concluso nulla della vita, sia Angelo, abulico, sono tutte figure minori rappresentate sui toni
dell’anonimato e della malinconia e sono, inevitabilmente, i modelli di vita di Carla che avrà,
probabilmente, una vita non tante diversa da quella dei suoi famigliari.
Scena 6. Finita la presentazione dei personaggi, vediamo un quadro di vita più indiretta: l'umiltà e
la miseria dell’esistenza di queste persone non la vediamo nella descrizione dei personaggi, ma in
azioni, nelle scena familiari. Con un’analessi viene presentato il punto di vista di Carla; il forte giudizio
della protagonista emerge sia dalle parole utilizzate, sia da come queste vengono disposte, dal
significante: il ritmo delle parole le trasforma in una sentenza scolpita nella roccia che ha grande
potenza. Questa potenza viene però persa perché allungata nel verso successivo, dimostrando
come appartenga non ad una singola frase ad effetto, ma ad un periodo sintattico molto più lungo;
ne emerge quindi una leggera tensione che deriva dal fatto che che questa sentenza possa essere
prima intesa come un singolo verso, ma viene poi collegata al verso successivo, abbassandone la
forza epigrafica, causando così sorpresa nel lettore. Dapprima sembra un’antipatia generale nei
confronti del cognato ma successivamente viene spiegata la banale? causa dell’antipatia.
A Carla il cognato sta antipatico perché, forse la prima volta che Angelo rimane a cena, ha dovuto
sacrificare la propria porzione di dolce per darlo a Angelo; Carla si è sentita esclusa e questo evento
è molto significativo perché l’arrivo di Angelo ha redistribuito i ruoli in casa, dando meno affetto e
diritti a Carla. I versi successivi, con una generalizzazione, spiegano il risentimento di Carla che ha,
come aveva anche Domenico, il rimorso per non aver potuto studiare; c’è un riferimento poi alla
festa di compleanno dei quindici anni di Carla e di come questo incontro sembra essere una festa
mal riuscita. E quindi un implicito rimprovero alla mamma che evidentemente non ha soddisfatto le
aspettative e i desideri di Carla nell’organizzare la festa per i suoi quindici anni. Carla ha la
sensazione di essere cresciuta in tono minore, con quello che rimaneva dell’affetto già usato per la
sorella e quindi anche neanche diritti e comodità che si aspettava.
Il montaggio agisce sul livello strutturale con i tre elementi che si alternano (narrazione, commento,
descrizione) ma agisce qui anche su un altro livello, con valore minore rispetto al piano strutturale,
sul piano narrativo: anche la narrazione non avviene secondo un filo unico che lega gli eventi, ma
avviene sulla base di giustapposizione di eventi diversi; non si ha una continuità di eventi, si ha un
montaggio di momenti, scelti a caso, per costruire una narrazione unica. Il montaggio agisce anche
a livello metrico; lo vediamo sul montaggio di strofe di lunghezza diversa ma anche dei singoli versi:
troviamo spesso endecasillabi, versi tradizionali nella letteratura italiana, associati ad altre misure di
versi.
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Scena 7. Vediamo qui uno squarcio dell’apprendimento di Carla alla scuola di stenodattilografia. P.,
restituisce questo momento attraverso il quarto livello su cui il montaggio agisce: il linguaggio;
unisce, senza soluzione di continuità, delle parti di un manuale di steno dattilografia insieme alla
narrazione. In questo modo P. non deve nemmeno definire che cosa Carla apprende a scuola e non
deve nemmeno spiegare a che cosa serva, perché, a questo, ci pensa il manuale che utilizza Carla
alla scuola serale.
Scena 8. Alla scuola di stenodattilografia Carla incontra il suo primo spasimante, Piero che ha nella
descrizione, come tutti gli altri personaggi, molti aspetti negativi; quando tutti gli elementi di un
personaggio si dispongono sempre sulla base delle medesime caratteristiche, qui la miseria e
l’insoddisfazione, di solito rispecchia il punto di vista di chi lo descrive, di chi guarda - qui Carla.
Carla restituisce delle immagini molto simili di chi la circonda, nessuno la soddisfa.
Carla studia, non ne ha molta voglia ma è stata educata ad accettare anche le cose che non
piacciono: non le piace studiare, ma deve farlo. Angelo va a prenderla alla fine delle lezioni e
scopriamo qui che non è solo il taciturno ragazzo previamente descritto, ma è anche uno molto duro
perché, con violenza e attraverso la descrizione del lavoro nei campi delle donne tedesche, intima
a Carla di accelerare la sua entrata nel mondo del lavoro per contribuire, dunque, all’economia
famigliare. Angelo la rimprovera e quindi Carla, non volendo più avere Angelo che la recupera la
sera, accetta l’invito di Piero.
Di questo nuovo personaggio abbiamo un ritratto, da cui emerge però un ritratto sociale; innanzitutto
frequenta una scuola apparentemente femminile, ma la fa perché cerca una via di uscita dal suo
destino, quello di lavorare nell’officina ciclistica del padre; Piero porta inoltre gli occhiali, ai tempi
segno di debolezza, e, come Domenico, parte di una famiglia popolare, cerca, con il lavoro, di
migliorare la propria condizione sociale, di fare un salto sociale che illustra la trasformazione del
popolo italiano del tempo in piccolo borghese da proletario. Anche Piero, però, è manchevole: nei
pensieri di Carla, frequenta quella scuola “da femmina” perché non ha potuto proseguire la carriera
calcistica essendo manchevole nel corpo; emerge inoltre, qui e in un altro passaggio, che è una
persona molto irosa.
Scena 9. In questa troviamo una cronaca delle tre uscite di Piero e Carla; la prima fu di impaccio:
non è degna di essere raccontata perché nessuno parlo per l’imbarazzo. Alla seconda risero per un
uomo che parlava da solo con una possibile bomba (molte bombe rimasero inesplose nel territorio
milanese), preoccupandosi di questa quando avrebbe dovuto, in realtà, stare attento a non essere
investito dal tram in Via Meda. La folla accorse per il rumore dei freni del tram, per le urla, e il
vecchietto rimane molto impaurito dall’avvenimento che gli è quasi costato la vita.
Segue poi una parte molto sperimentale in cui P. sta fornendo una restituzione del dialogo dopo
l’avvenimento e dopo la vicenda del vecchio; P. lo fa mettendo insieme piccole frasi del contesto e
di varie parti della conversazione. Piero rievoca poi un cliente che ricordava il vecchietto e che era
andato in negozio con una bicicletta molto scassata. Quando si devono lasciare, sono entrambi
spaventati e imbarazzati da un possibile contatto fisico che potrebbe portare al “peccato originale”.
Si lasciano quindi, al portone di Carla, senza toccarsi.
Alla terza uscita, con “spirito battagliero”, combattendo contro l’educazione che impone loro di
toccarsi, si addentrano in un parco, lontano da possibili occhi; questo peggiora la situazione perché
entrambi, consapevoli di quello che sarebbe potuto succedere, stanno in silenzio e imbarazzati.
Sono in parco Ravizza e c’è qui una sottile ironia perché Ravizza fu l’inventore della macchina da
scrivere. I dialoghi sono banali e Piero conclude con un'osservazione sul calcio.
Atto II
Scena 1. Carla, terminata la scuola, trova subito lavoro; è un passo molto significativo perché già il
primo giorno sbatte contro l'operosità milanese: le viene subito ricordato che bisogna essere solleciti,
attenti, performativi ma sorridenti, non affaticati e che è necessario accettare mansioni umili.
Troviamo le parole di un lavoratore più anziano che ha pienamente metabolizzato l'operosità
milanese: bisogna essere orgogliosi del lavoro a cui si deve essere totalmente dediti e fare proprio
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l'ideologia del lavoro e dell’industria. Bisogna essere soddisfatti e orgogliosi di essere sfruttati dal
datore di lavoro. In questa realtà tecnocratica e moderna troviamo anche l’utilizzo di parole inglesi.
Carla, presentata come la figlia del defunto Ambrogio, prima di svolgere effettivamente il suo lavoro
di segretaria, come successe anche con Domenico, deve accompagnare il suo lavoro ad altre
mansioni che consistono nello spolverare l’ufficio. La tremolante e insoddisfatta Carla si vede dettare
già il primo giorno in ufficio il lavorismo dell'operossissima Milano; questo è accoppiato alla
mancanza degli affetti famigliari: appena torna a casa, evidentemente costernata, perde l'appetito e
la madre, vedendola non mangiare, le ricorda che, essendo ora un altro membro familiare che porta
a casa denaro, ha più diritto a mangiare. Carla viene quindi trattata come un oggetto pratico più che
come una parte della famiglia.
La Milano capitale economica presenta subito a Carla il conto: da una parte al lavoro viene subito
rimproverata e traguardi, dall’altra scopriamo che in una tipica famiglia milanesi i legami affettivi sono
basati sull’etica del servire al bilancio complessivo della famiglia; sembra contare più il lavoro
dell'effettiva relazione familiare, sembrano più contare i soldi dei legami familiari. Questo,
ovviamente, assedia Carla e avrà anche degli effetti sui suoi sviluppi successivi.
Scena 3. Troviamo un altro elemento della capitale economica milanese che mostra il suo risvolto
non morale, evidenziato dalla focalizzazione sull'inquietante capo dell’ufficio, Pratek; a questo non
piace pagare i dipendenti, non apprezza gli impiegati ma ama le giovani dipendenti, soprattutto le
segretarie, e non ha un limpido rapporto con la società – è stato in galera. Non è lui che in famiglia
ha i soldi, ma la moglie; è solito stabilire con le dipendenti un rapporto che va oltre quello lavorativo,
sfruttando la sua posizione in ufficio attraverso un ricatto. Come per Domenico, è importante
sottolineare come Carla abbia ottenuto un posto di lavoro perché un dipendente precedente ha
lasciato l’ufficio; in questo caso la dipendente che Carla va a sostituire, Lidia, è stata licenziata da
Pratek una volta che la moglie scopre della sua relazione adultera. Praktek, dalle sue parole, sembra
essere in grado di gestire la moglie e capire quindi cosa fare per mantenere la situazione sotto
controllo - licenziare Lidia.
Pratek non sembra per essere l’unico ad apprezzare le impiegate, ma c’è anche un certo Signor.
Pozzi, un dottore, presumibilmente quindi con una posizione importante all’interno dell’azienda, che
si poteva ammirare con un atteggiamento in qualche modo lascivo. Lidia era riuscita a passare bene
il suo tempo all’interno dell’ufficio gestendo bene le dinamiche lavorative; Carla si trova quindi a
sostituire il posto di Lidia ma prevediamo già le difficoltà che la protagonista avrà nel gestire la
situazione.
Atto III
Scena 1. Qui Carla finisce per essere oggetto delle avances di Pratek ma Carla ha la reazione
opposta a quella di Lidia: si trova in una situazione di violenza subita e fugge; la reazione
interessante è quella della madre di famiglia milanese. Nella parte descrittiva agisce ancora il
montaggio; abbiamo una scena di forte coinvolgimento emotivo dove Carla fugge negando, ma P. si
mette a fare una panoramica sulla situazione che c’è intorno a Carla, aumentando la suspence ma
nascondendo anche degli scorci socio-storici. Vediamo l'anonimato cittadino milanese che ignora la
sua corsa se non per un immigrato appena arrivato in città che, ancora non disumanizzato, cerca di
farsi sorprendere dalle facce; Carla, pallida e scapigliata, corre tra la città ma il narratore dice a Carla
che, se vuole essere notata, deve fare anche rumore, urlare come fa il venditore di giornali con il
volto paonazzo, rosso per le urla ma anche per la miseria del suo lavoro.
Carla, tornata a casa, racconta ciò che è successo alla vedova Dondi che reagisce in modo
sorprendente: dice a Carla che lei no, non abbandonerà il lavoro per un principio di molestia - al
massimo può cercarne uno nuovo, ma, fino ad allora, rimarrà lì - e non sia mai che la sua integrità,
morale o fisica, possa venire prima del lavoro; ancora una volta lo stipendio viene prima dei rapporti
emotivi.
Scena 2. Qui troviamo le conseguenze delle parole della vedova Dondi: Carla e Aldo si stanno
recando, portando dei fiori, alla casa Pratek, per chiedere scusa per il comportamento di Carla. I
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versi iniziali sono una spallata che P. dà alle sorti del mito del mondo professionale milanese dove
tutto sembra moderno e desiderabile nel quale, però, P. non ci casca, al contrario di Marotta. I primi
versi sono le parole che Carla dovrebbe dire in extremis prima di andare a scusarsi alla famiglia,
una possibile telefonata in cui Carla si umilia per cercare lavoro in un circo, prima nell’ambito
amministrativo, poi, non accettata nonostante l’elenco delle sue qualità, passa direttamente
nell’ambito dell’esibizione. Si svolge qui un’equivalenza tra lei e un cavallo per evidenziare come,
nella Milano che stava pure diventando modernissima, c’è un'impiegata che, vedendosi costretta a
lasciare la sua precedente occupazione, deve cercare posto in un circo, sottolineando così le
pessime dinamiche del mondo del lavoro milanese.
Il lavoro evidentemente non lo trova e la scena si sposta poi su di lei a casa della famiglia Pratek.
La signora Pratek è una ricca signora borghese che sa stare al mondo e fra i denti il narratore le fa
dire che Aldo dovrebbe fare da guardia a Carla, augurandosi così che il giovane compagno possa
evitare la violenza del marito, conoscendone le abitudini.
Scena 3. Carla deve così tornare al lavoro e siamo qui in uno dei punti più bassi della parabola del
personaggio: è ancora fragile e in balia di quello che succede, trovandosi obbligata a seguire gli
ordini della famiglia, elemento di violenza e coercizione, come lo sono l’amore e il lavoro. C. torna
al lavoro con gli occhi bassi e usa i rapporti di coppia per compensare l'infelicità della sua vita; la
madre che non dorme la notte è una forma di controllo per C. che si sente osservata anche la notte.
C. e Aldo di domenica girano la città (cfr. film il posto) guardando vetrine, andando a bere qualcosa,
guardando esposizioni di quadri di pittori emergenti, sentono comizi o andando al cinema.
Al ritorno si vede C. nella sua solita posizione: va bene passeggiare di domenica pomeriggio, ma
quando Aldo Lavagnino le chiede di trasformare il momento in un bacio, C. si sente stanca; qui
stanchezza è sinonimo di tristezza, lieve depressione di chi non è a suo agio, di chi sa che dovrebbe
essere felice ma non lo è. C., ancora una volta, è in fuga, corre e trova delle scuse - è ora di cena;
C. fugge dalle esperienze che la vita le offre.
Lavoro e amore stanno stringendo la loro morsa intorno a C. sempre più: da una parte il lavoro va
malissimo e dall’altra il rapporto con Aldo è vissuto con il desiderio di fuggire dal controllo familiare
o per gestire questi momenti vuoti che non sa come riempire (cfr. epigrafe).
Scena 5. Continua il racconto delle uscite di Aldo e C.; Aldo vorrebbe uscire la sera ma C., trovando
delle scuse, evita l’incontro. Si stringe ulteriormente il cerchio che la chiude: Aldo preoccupa C.
chiedendole di uscire la sera, Angelo e Nerina hanno avuto un figlio e ciò causa ulteriore sofferenza
nella situazione famigliare. Carla, trovandosi stretta nella morsa, non ha più da dove fuggire: a lavoro
ci deve andare per forza, non c’è più spazio in famiglia, con Aldo dovrà o trovare la forza per uscire
o troncare i rapporti. Questo è spiegato da P. con un linguaggio burocratico, amministrativo
affermando che prima o poi C. deve partecipare alla vita o verrà tagliata fuori, “sopravvive/ difatti,
solo chi impara a vivere”: la massima che potrebbe fare da sottotitolo all’intera opera, sottolinea che
in questa giungla della modernità bisogna imparare a starci dentro senza farsi sorprendere dalla
burrasca mentre si è sul ponte (immagine iniziale) e, finché non si imparano le idee del gioco, non
si può iniziare a vivere, secondo queste regole imposte dall’esistenza nel luogo e nel tempo in cui
vive.
Scena 6. Aldo, dopo la richiesta dell'uscita serale, non accetta un no e fa così un passo indietro;
una domenica la passano da soli, non si parlano: Aldo fa un giro da solo, mentre Carla passa la
domenica in solitudine a casa sua (epigrafe). Nel frattempo, i giorni lavorativi passano come al solito
e la pesantezza della vita è evidenziata con la ripetizione della parola strumento sempre chiarificata
dalle parole che seguono, una ripetizione in variazione che segna il passaggio dei giorni; C. è un
ingranaggio spersonalizzato del processo della ricostruzione del dopoguerra, uno strumento di
arricchimento per Pratek. Passa un’altra domenica in cui sono lontani e c’è un commento da parte
di P. che sottolinea come sia difficile passare la domenica da soli a Milano: ci vuole abitudine (parola
usata nella prima scena) e temperanza.
In questa seconda domenica in solitudine, C. prende il coraggio di uscire ma le succedono due cose
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importanti che segnano la sua svolta, nel momento di sua maggiore fragilità. C. vede un quadro che
raffigura una donna nuda vestita solo di un paio di collant e poi, contestualmente alla visione del
quadro, vede Aldo con un’altra ragazza giovane e la madre di questa mentre sono seduti ad un
tavolino. Questo è un doppio shock per C. che le permette di entrare nelle regole del gioco; C. vede
il quadro della donna in abiti succinti e in atteggiamento provocatorio e lei sbanda: sembra voler
andare in fuga, ancora, non volendo affrontare l’elemento della realtà che la urta. C. vede il quadro
e prende la prima sbandata: sembra vedere un pezzo del proprio inconscio, quel lato di sé della
ragazza che sta diventando donna e che dovrebbe essere chiamata all’arte della seduzione; sembra
essere l’immagine involontaria che lei ha di quella donna che lei è chiamata ad incarnare, dà per
scontato che lei sia quella donna, la donna che seduce e viene sedotta.
C. di fronte a questa immagine prova però un forte senso di colpa (“la Coscienza che si guarda
quelle mani orribili”) perché proietta sulla donna la coscienza: la donna diventa cosi, da una parte
l'immagine della donna che lei sente di dover essere, ma dall’altra rappresenta anche il senso di
colpa che quella donna provoca in C. Questo conflitto interiore tra seduzione e senso di colpa è
rappresentato dalle parole con la prima lettera in maiuscolo (“Coscienza”, “Mani”, “Calzet”,“Inguine”)
che diventano simboli; l’immagine della donna sul quadro è anche come lei si sente quando gli
uomini la guardano - poco prima un uomo aveva poso lo sguardo su di lei, non a caso.
Vede poi però Aldo che tiene banco al tavolo mentre l’altra è affascinata da lui. C. subisce qui lo
shock dell’ingresso nel mondo maturo, ma non fugge e impara a nuotare perché violentemente
buttata in acqua, di fronte al quadro e di fronte al suo spasimante con un’altra. Non fugge e si dà un
contegno: non è più pallida, non è scapigliata, si dà un’immagine esteriore di tranquillità e pace -
dentro è agitata - e getta lo sguardo sulla ragazza che l'ha sostituita. C. è o pallida o rossa per i
sentimenti che prova: in lei si muove un velocissimo pensiero che si impone senza che lei possa
fermarlo. C., dopo aver guardato la ragazza, riconosce di essere più bella: per la prima volta si
impone sulla realtà, non scappa e ammette di essere più forte.
Scena 7. Vediamo qui le conseguenze di questa svolta su tutti e tre gli ambiti della sua vita (lavoro,
amore, ufficio). C. apprende le regole del gioco, interiorizza le abitudini di una vita in città e si integra.
A lavoro sa finalmente sorridere cortesemente, come le era stato detto all’inizio e come non riusciva
a fare, sa dire buongiorno con la stessa energia degli altri; in famiglia sa finalmente scherzare con
quella sorella che passa da essere da un modello negativo con tratti di malinconia a una compagna
di vita; cambia anche in amore, grazie alle regole impartite da Nerina, cambia anche il suo
abbigliamento. C. attraverso l’apprendistato della sorella e nel mettere delle calze di nylon, diventa
l'immagine del quadro che tanto l'aveva scioccata.
Qui si chiude la parabola narrativa con C. che passa da essere passiva e impaurita, dal non andare
d'accordo con i famigliari, dal temere il capo ufficio e gli spasimanti ad accettare lo stesso mondo
che la impauriva (amore, lavoro, ufficio) e ad imparare e interiorizzare le regole del gioco; questo
avviene improvvisamente e per intuizione. Da fuori, l'emancipazione di Carla dalla giovinezza all'età
adulta, potrebbe sembrare un'alienazione; la sua integrazione potrebbe sembrare disintegrazione.
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Atto I
Scena 1. All’inizio si vede la descrizione dell’ambiente periferico milanese che viene restituito
realisticamente; nei primi versi non vediamo solo un quadro neutro ma questo incipit rappresenta
una Milano in movimento: i verbi sono tutti di moto (“passano”, “passa”, “cammina”), vengono
elencate le tramvie e le persone che vengono descritte si stanno muovendo. Non è una città dello
stare, ma una citta in movimento e il movimento è quello del commercio - non descrive dei passerotti
che volano, ma dei camion che si muovono su strade trafficate.
Atto II
Scena 2. Siamo in centro, nel luogo di lavoro di C., e questa zona descritta è del tutto coerente con
quella di prima: la periferia delle merci gente indaffarate rispecchia quella del centro, piena di stimoli,
nelle luci neon e lampeggianti della pubblicità delle polveri idriz (delle polveri per trasformare l'acqua
naturale in gasata) sulla facciata della Rinascente; la descrizione degli ambienti e dei luoghi è molto
precisa. Sul palazzo dove lavora C. c’è il nome inglese dell'industria di Pratek stampata in maiuscolo
sulle targhe di ottone, emblema della lavorosità milanese; c’è poi un commento dell'autore che nota
che, come la civiltà è nata nel clima caldo per poi trasferirsi al nord nonostante il clima freddo, così
anche i lavoratori. Nella narrazione siamo al 3 febbraio 1948.
C. prima dello shock che la fa cambiare, ha un unico momento in cui si sente in sintonia con il mondo
circostante; qui lo vediamo: sta spolverando i mobili, è un bel momento, guarda fuori dai vetri della
finestra e vede la gente che cammina diritta e interessata, la gente adulta che crede nella vita che
fa - dopo aver imparato le regole del gioco - e che si sente, nell'inganno, orgogliosa e necessaria;
qui le persone dicono “buongiorno”, lo stesso che poi lei dice alla fine, quel “buongiorno” di chi sa di
essere entrata nel mondo, una popolana che entra nel mondo del lavoro della città.
“E questo cielo contemporaneo…”: questo è il cielo della Milano che si modernizza sulla base dei
principi della dottrina del piano Marshall, un cielo che tira su la schiena per allargare la parabola; ma
questo cielo grigio non può tirare su tanto la schiena perché a Milano raramente è bello, il cielo grigio
è fatto di nuvole basse, non è alto; è così sulla piazza Duomo, ma anche sulla fascia industriale a
Nord e sulle tre città capitali dell’industrializzazione periferica. Il cielo sembra uniformare il suo colore
con il marmo sporco del Duomo, con i grattacieli di ferro, con i tetti dei capannoni delle industrie,
prolungando all’infinito, nonostante sia piccolo e basso, il suo grigio con quello che c’è a terra. C'è
poi una svolta però perché questo cielo, descritto cupamente, è onesto perché non promette eden,
non promette salvezza; in questa Milano che non conosce salvezza, il cielo non promette ciò che
non può mantenere, è un cielo morale, onesto. Non promette scampo dalla terra perché per noi non
c’è scampo su questa dall'infelicità per noi. Il cielo milanese rispecchia la condizione dell’uomo in
città.
Atto III
Scena 4. La descrizione del piano ambientale prende di petto le questioni politico-sociali del
febbraio/marzo del 1948, di cui abbiamo qui un esempio. Siamo nell’ufficio di Carla, guardando verso
Vittorio Emanuele e c’è una descrizione dei lavoratori dell’ufficio A dove il capo è Mizar - è un ufficio
internazionale quindi il cognome non ci sorprende. La politica in questi anni era ancora di grande
interesse sociale, tutti si sentivano partecipi al voto e alla discussione politica, fra il 1946/48 votava
il 98% degli aventi diritto: il mondo consumista ancora non aveva ancora tolto il suo sguardo dalla
politica per porlo su altre questioni come la bellezza, il fisico, la fama.
In piazza c’è una manifestazione del Partito Comunista che si sta preparando alle elezioni del 18
aprile 1948 che vedono sfidarsi DC e PC; queste sono vinte dal fronte di destra grazie alla
propaganda statunitense. Mizar è il capo, comanda nell'ufficio A e “fa toro e torero” nel senso che
Mizar di fronte alla manifestazione è un po’ fuori di sé, ma cerca di controllarsi e controllare gli
impiegati. Nell'intersezione vediamo una prostituta che applaude alla manifestazione mentre Aldo e
C. stanno lì a guardare; Mizar è preoccupato ma, dopo essersi calmato, intima a tornare al lavoro;
si calma perché è arrivata la polizia a scortare la manifestazione e così capiamo che Mizar, piccolo
borghese, non è di sinistra.
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Scena 5. Vediamo le folle di gente che si ferma a parlare di politica creando dei piccoli comizi in
Piazza Duomo, salotto di Milano. Aldo, Angelo e una collega affermano che “la gente che lavora
deve stare al suo posto / che si sa bene per chi bisogna votare”, con grande perbenismo, e intuiamo
così che voteranno DC (il primo che è un pronome relativo, mentre il secondo è un che polivalente,
tipico del parlato).
Scena 6. Qui C., nella seconda domenica in solitaria, esce di casa e fa prima una passeggiata in
periferia, per poi spostarsi verso il centro di cui notiamo una descrizione assai differente. La periferia
è descritta in una modalità sottilmente inquietante: vediamo proiettata nella descrizione
dell'ambiente circostante l'interiorità di C.; l’elemento che ci permette di capire ciò è il senso di
minaccia - palazzi che si muovono, le rotaie dei tram che diventano delle bisce che si attorcigliano
ai piedi e sfilano le calze (elemento importante viste nel quadro e poi quando le prova con Nerina),
c’è poi la notazione poetica finale dove, di fronte alle minacce, C. resta come pietrificata, si blocca e
viene paragonata ad una grande nave che, nell'immensità del mare, sembra immobile.
La descrizione diventa poi più realistica e C. si muove verso San Luigi, c’è uno zoom su dei bambini
che torturano un animale, il fumo delle ferrovie; questa zona è ancora una fetta di campagna entro
la città, una campagna abbandonata, non più verde e quindi non più utile, piena di detriti, destinata
a diventare città ma non ancora tale. Passa per via Toscana, piazzale Lodi e un ragazzo la
importuna, mentre un altro canta un pezzo, sbagliato, di una canzone popolare; questo è un uomo
sciupato come sciupata è la periferia, distrutta come la campagna, ma che non ha ancora un volto
cittadino presentabile.
C. continua la passeggiata ed è sollecitata nel suo ruolo di ragazza con prima le due aggressioni
verbali poi con l’imbarazzo provato per due ragazzi che si baciano; non si siede sulla panchina dove
ci sono i ragazzi e, con una topografia perfetta, prende viale Umbria dove ci sono numerosi bar; C.
ha la tentazione di avvicinarsi ed entrare, ma non si sente di entrare nel bar essendo una ragazza
da sola. Il suo tic del correre via e fuggire la prende anche in una passeggiata domenicale e la sua
camminata diventa molto veloce e comincia a parlare da sola, paragonandosi ad un cliente del
Baggina. La Baggina era l’albergo Pio Trivulzio, prende il soprannome dalla via, divenne famoso
perché il suo proprietario, Mario Chiesa, PSI, fu il primo arresto nel caso Tangentopoli; ai tempi era
una casa di cura per anziani poveri ma ci finivano anche i malati di mente: C. si sorprende quindi a
parlare da sola come fanno i matti. Quest'immagine di una persona in città che parla da sola
l'abbiamo già vista in Benjamin che, citando Engels, mette in scena la frenesia dei cittadini di una
metropoli moderna.
C. lascia la periferia e arriva in centro, descritto come un ambiente luminoso e rilassante; C. riprende
il giro che è solita fare quando lavora. Qui il camminare di C. riacquista sicurezza ed è tipico per i
milanesi passeggiare per la città di domenica. Qui non c’è più l'aria scura dei fumi delle ferrovie ma
luci e colori.
Atto I
Scena I. Dal vv. 8 vediamo endecasillabi tradizionali che danno grande ritmo alla lettura. Rivediamo
la descrizione della città e dei suoi movimenti e, con un allargamento del pensiero, il narratore
anticipa il senso profondo del poemetto, perché se l’abitudine che tiene in vita è quella che si
conquista accettando il modo di vivere standardizzato ed è determinante per la sopravvivenza, il
rischio di perderla allora è burrasca e qualcuno può cascare sotto. Per il narratore è questione di
vita o di morte lo stare o no nelle abitudini. Si tratta di capire se si riesce a stare nel mondo urbano
e connotato che gli uomini hanno creato, la città.
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Vi è poi una riflessione del narratore sull’ambiente appena descritto: “chi c’è nato vicino a questi
posti non gli passa neppure per la mente com’è utile averci un’abitudine; le abitudini si fanno con la
pelle…” : chi vive vicino alla periferia è un rappresentante del popolo, non consapevole della propria
vita, non capisce quanto sia utile avere un’abitudine. Le abitudini sono la passività della vita
quotidiana e l’assorbimento della vita urbana nella carne: i popolani non comprendono l’utilità del
ritmo della vita quotidiana, fuori dal quale vi è la burrasca che può tutto spazzare via, facendo uno
scarto nella vita delle persone (un po’ come il finale del pollo ruspante). La burrasca copre il ponte
e qualcuno casca di sotto – è una metafora – è proprio il problema di Carla, quando il respiro della
città non è il suo. C’è un qualcosa che fa contatto (come un circuito elettrico) e prende la tangente
(esce dalla traiettoria).
C’è un riferimento a Jean Gabin, attore francese molto famoso tra gli anni 30/40, celebre perché
protagonista di film di stampo realistico; C. non supporta quindi i film di stampo realistico ma questa
è una tautologia per spiegare che C. non sopporta di vedere la realtà rappresentata, non sopporta,
quindi, la realtà. Ci sono poi molti elementi allitteranti che rendono le difficoltà della vita (suoni della
s) e il narratore, rivolgendosi a C., le dice che forse non sopporta la realtà perché la sua è un’anima
molto impreparata al rapporto con questa - primo elemento di violenza contro Carla che preannuncia
tutti quelli successivi. Non è solo il pudore che fa correre C. tra i palazzi della città e nemmeno “il
contagio spinoso della mano” che anticipa la mano di Pratek: C. sarebbe anche pronta ad entrare
nelle abitudini, ma non ha il cuore pronto. In questa scena c’è tutto il poemetto: la paura di C., il suo
fuggire, la violenza, la sua “paura” degli uomini e la sua sensazione di avere attorno a sé costanti
minacce.
Schema 4. C’è qui una riflessione sullo statuto della donna: nei versi precedenti c’era la lamentela
che le ragazze, dopo essersi sposate, si lasciano andare, non curando più la loro apparenza; C.
rimane quindi delusa perché lei vorrebbe abbellire le pantofole. C’è poi il commento del narratore
che, in questo contesto sociale, non nega che si possa arrivare fino alla fine della vita con il desiderio
di avere un fiocco intorno al collo, ma questo non avviene perché nell'operoso mondo milanese una
donna che si cura della sua apparenza desta sospetto perché fa sembrare che la donna non sia più
attenta al suo sacrificio, al lavoro della casalinga. Quando la donna torna, nella maturità, al vestito
sgargiante viene da pensare che sia tutta stanca, parassita, dipendente da qualcun altro e estranea
ai suoi doveri. Questo è il pensiero della classe popolare che vede il superfluo come segno di
stanchezza nella donna.
Scena 9. “certa gente si sveglia…”; qui c’è un raro ritratto della milanesità ricca (“che abita nel cielo”,
in centro, in alto) nella domenica pomeriggio. Nel primo pezzo vediamo C. e Piero che passeggiano
e l’ultima battuta è quella di Piero che parla di calcio; si passa poi alla descrizione degli abitanti ricchi
di Milano che si svegliano nel pomeriggio della domenica dopo un sabato di baldoria. P. finisce il suo
commento per riprendere il dialogo - sembra aver quasi interrotto i due - di C. che propone a Piero
di parlare o di pallavolo, sport femminile, o di un altro sport, addirittura per bambini.
P. ritorna parlando alla città a cui chiede di insegnare, nel modo più difficile, ai personaggi come
avviene la vita in città - sembra qui passare dalla parte della città, chiedendole di infierire. C’è poi un
riferimento a Tacito e alla sua opera “Germania” dove, in un passo, racconta che per rafforzare i
giovanissimi, i germani li buttavano nel fiume per trovare i più forti. P. sta qui, quindi, chiedendo alla
città di mettere alla prova i ragazzi come i Germani e i bambini. C. deve quindi imparare a proprie
spese a vivere in città e notiamo come il narratore si mette in una posizione neutra nei confronti di
Carla.
Atto II
Scena 5. C'è qui una trattazione più psicologica che sociologica; P. propone un discorso sul
diventare grandi nei primi giorni di lavoro di C. e si chiede quali eventi nella nostra giovinezza segnino
delle svolte, quali ci segnano davvero. Il narratore che, nel precedente commento aveva chiesto alla
vita di infierire sulla condizione di C., qui non è sicuro che C. possa sopravvivere a queste prove e
si interroga sui frangenti dell’esistenza che ci tangono. Dice poi che a 20/24 anni cominciano i bilanci
della vita che spingono il singolo a ripercorrere la vita fino al momento della nascita per cercare i
momenti di rottura, di soluzione di continuità che li hanno segnati; quei momenti che, finché non
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vengono analizzati, non sembravano essere dei traumi che ci hanno reso come siamo oggi.
C’è poi un ritratto di C, con tre aggettivi perfetti “sensibile, scontrosa e impreparata” che si perde e
che continua, però, ad andare avanti nonostante abbia pochi principi, paradigmi, poche norme che
non ha capito che devono essere rispettati, li subisce passivamente. Questo si lega alla scena 7.
Scena 7. Qui, l’incerta C. che accetta ciò che le capita senza comprendere di avere un margine di
scelta, vede il ritratto di chi non è come lei; sembra questa proprio la voce di C. se sapesse ragionare
così. C. vede la vita adulta e non sa come interpretare i valori che le vengono dati e invidia le persone
sicure intorno a lei.
“Sagome dietro la tenda” rende la minaccia subita dall'interiorità di C.; “Marlene con il bocchino
sottile” : Marlene Dietrich era una famosa attrice degli anni 30/60 e compagna di Jean Gabin, già
citato; Marlene rendeva l’immagine della femme fatale, appariva nei film con le lunghe sigarette,
elemento di eleganza. Ci sono poi immagini che, messe tutte insieme, rendono l’immagine di una
minacciosa eleganza e C. è come se fosse proiettata in una stanza sofisticata e buia con tessuto di
seta, una donna bellissima e elegantissima, molti profumi, ci sono dei serpenti, perfetta immagine di
eleganza e minacciosità. Subentra un elemento musicale, il violino, ma questo, suonato
misteriosamente nell’ombra, sembra composto di fibre di nervi; l’immagine del suono tende
all'immagine della tensione, sentimento di C.
Le sagome rappresentano la minacciosità che C. vede negli altri e la molteplicità delle persone è
rappresentata dai vari colori, “blu, azzurro, viola, pervinca”. Questa donna è elegantissima con anche
gioielli “sul cuore nudo”, è forse innamorata; “l’amore calvo”, può essere un’immagine di Pratek che
si avvicina alla “vergine santa”, Carla. Inserendo tre volte la parola sagome, chiudendo e aprendo la
strofa con la stessa immagine, emerge la loro minacciosità data anche dal suono dei versi. Marlene
assomiglia, anche se qui ancora in maniera inquietante, alla donna del quadro e quindi poi alla Carla
del futuro; la crescita di C. in donna vede come elemento principale la femme fatale che incarna alla
fine del racconto.
Scena 5. Se nella prima scena il narratore esplora l'interiorità di C., qui l’oggetto principale è il lavoro,
ma anche la condizione degli uomini da un punto di vista antropologico e sociologico. Questi versi
in corsivo si leggono bene dopo aver letto i primi due versi “sopravvive difatti, solo chi impara a
vivere”.
“Necessità verbo dei muti”, dal latino verbum, parola: lo stato di bisogno è la parola dei muti che,
con un apparente ossimoro, qui sono gli umili, richiamati sul piano fonico e sul piano sociologico,
sono quelli che non hanno voce. Si affastellano poi delle immagini, come al solito, contraddittorie:
idillio accanto ad una calcolatrice che ci ricorda quando C. aveva dei momenti contenti durante i
primi attimi della sua giornata lavorativa; l’immagine è contraddittoria: che idillio ci può essere di
fianco ad una calcolatrice? Ancora una contraddizione con la “corsa proficua degli storpi”, ma è una
corsa per il guadagno, quindi gli storpi sono i lavoratori, gli umili, i muti. “Amore del badilante sullo
sterro”, ancora una contraddizione con amore che, a livello di senso, va con idillio e corsa, perché il
badilante, colui che badila, lavora sullo sterro, un pezzo di terra arido, con un’immagine quindi di
difficoltà. “Gravità sui capezzoli dei nati”, contrapposto qui il peso ai neonati, nell'immagine collettiva
leggeri; un’altra contraddizione è “l’erba del prigioniero”, che non conosce la libertà.
Nella frase successiva il soggetto è la natura che si fa portatrice di polline che si muove su quel
vento che si agita una volta pronunciato il nome; qui la contraddizione sta tra la dolcezza con cui
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viene soffiato il nome di una persona, magari amata, e il fatto che questo vento porta del polline, da
una parte strumento con il quale le piante si riproducono, ma dall'altra è anche allergia: c’è una dolce
emissione di suono che potrebbe però essere fastidiosa perché così la natura vuole. Qui P. sta
descrivendo la vita degli umili dal suo punto di vista: la regola da imparare per imparare a vivere è
quella madre della vita, la compenetrazione di bene e male; qui tutto è giocato con un elemento
positivo compenetrato con un elemento negativo. E’ la descrizione della vita degli umili, immagine
iniziale, ma degli uomini tutti; finché C. starà sempre in panchina aspettando che la vita le sorrida,
non riuscirà nulla; solo quando riceverà un pugno e una carezza, C. potrà imparare le regole per
vivere la vita.
Scena 7. In questi ultimi commenti abbiamo in estrema sintesi il tema del poemetto e sono legati
alla compenetrazione dei contrari nell’esistenza. Ci sono rime e richiami fonici sia alla fine del verso,
sia nel mezzo e questo perché nei commenti lirici il livello di poesia sia alza di molto. Il narratore nel
primo commento sta spiegando la sua concezione dell’esistenza applicandolo a Carla; “quanto di
morte noi circonda e quanto tocca mutarne in vita per esistere”, quanta aggressività, alienazione ci
circonda, quante difficoltà e delusioni sono la morte per noi; è necessaria quindi una trasformazione
del male in bene e questo deve compierlo il singolo: ritagliarsi un idillio di fianco a una calcolatrice
(cfr. scena 5), sforzarsi di mutare il male in bene per sopravvivere, distillare la sofferenza in vitalità.
Questo processo è di “un diamante su un vetro”, qualcosa di duro, di resistente (il diamante) su
qualcosa di fragile (il vetro); questa capacità di trasformare la morte in vita è a carico dei singoli, è
un'operazione dolorosissima (diamante sul vetro) ma è l'unica regola per sopravvivere. Questa
operazione è lo svolgimento quotidiano della storia di un Uomo che resiste, vivo, soltanto scarnendo
al suo tempo qualche cosa di positivo. Questa trasformazione è l’unico modo possibile perché un
uomo possa vivere. Persino anche quando non ce la si fa (“ristagna il ritmo”), quando i conti non
tornano (cfr. scena 1 quando qualcosa blocca il circuito elettrico) e quando il tempo investe lo stesso
corpo umano facendolo mutare, bisogna sempre cercare di trasformare le difficoltà in qualcosa di
positivo per noi.
Questo getta una luce nuova sul senso del poemetto: se prima sembrava senza lieto fine dove
l'integrazione di C. nel mondo era distruzione di se stessa - guardando solo la narrazione -, con i
commenti non appare come una tragedia totale: C. ha fatto, in fondo, il percorso che doveva fare,
non scappando più dalle difficoltà, accettando la sua condizione di donna e di lavoratrice. E’ una C.
che ha scarnificato se stessa al proprio tempo, accettando di vivere nelle sofferenze, trasformandole
in piccoli spazi di idillio in cui ci si può abitare con il sorriso e con qualche soddisfazione.
Nei versi finali appaiono positivamente gli altri, fin qui sempre fonte di angoscia e sofferenza, con la
loro vicinanza affettiva senza la quale non si può vivere, trovando un elemento diverso. Non basta
però comprendere che sopravvive solo chi impara a vivere, non basta fare proprie queste leggi per
dare “empito al volto”, per dare forza al volto e alla propria immagine che permette di farsi strada nel
mondo; non è così che avviene la risoluzione del conflitto tra esistenza e il tempo in cui si vive, ma
bisogna avere vicino qualcuno che ci ama, anche se l’amore causa la familiarità con le lacrime, se
porta dolore, se precipita in errore, se brucia senza freni, o se rende malsano ciò che si sta
mangiando (“la vivanda”); l’amore ci deve essere anche se sradica con dolore, “dal fitto di noi”, dal
nostro interno il rispetto e le cure che abbiamo per noi stessi, portandoci a ridimensionare molto il
rispetto che ognuno di noi ha per se stesso.
Interessante come il poemetto si concluda con un’immagine positiva, con un’esaltazione dell’amore,
che vede però gli ultimi quattro versi elencare le cose negative dell’amore, le difficoltà di questo. Non
si può dire, dunque, che abbia una conclusione pienamente positiva.
La lingua de La ragazza Carla. Il montaggio è determinante anche sul piano del linguaggio;
troviamo, infatti, in questo una straordinaria ricchezza, un plurilinguismo. Troviamo la lingua lirica,
piena di accezioni metaforiche dei commenti in corsivo dell'autore; troviamo una lingua standard,
l’italiano grammaticalizzato, la lingua usata dal narratore nei commenti in tondo, quelli non lirici; c’è
poi la lingua che emerge quando il narratore esterno tende a dare la parola ai personaggi, ai popolari
ed è usata quando, con un discorso indiretto libero, il narratore adotta la lingua dei personaggi, del
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loro parlato quotidiano. In questa lingua colloquiale, dell'oralità del popolo, troviamo fenomeni come
la dislocazione a sinistra, un fenomeno per cui un elemento della frase viene citato all’inizio per poi
richiamarlo con un pronome nella frase (es. “la Carla l'hanno cresciuta male” < “hanno cresciuto
male Carla”, ma qui si voleva mettere in risalto Carla, mettendola all'inizio della frase e richiamandola
con un pronome poi; “a Carla per il voto le mancano degli anni” < “per il voto a Carla mancano degli
anni”, con il pronome che richiama il complemento di termine).
Un altro elemento della lingua popolare è il fenomeno del che polivalente, non usato come pronome
ma come congiunzione: “li condusse a passare per il parco e fu peggio che un silenzio gli cadde
addosso” (terza uscita di Carla e Aldo) dove qui è un poiché. Un altro elemento è quello del ci
attualizzante: “è questo dunque che ci abbiamo nel sangue?”, enfatizza un elemento che rimarrebbe
non in risalto, il noi, svolgendo una strana funzione pronominale. Ci sono diversi registri linguistici,
quindi, all'interno di questo poemetto. Il montaggio è fatto però anche di altri elementi perché non
troviamo solo vari registri dell’italiano, ma troviamo anche altre lingue, come l’inglese e il francese.
Un altro elemento è la presenza di vari gerghi, in un senso orizzontale: è sempre italiano, quindi non
si tratta di lingue diverse, ma di un registro con vari tecnicismi (es. manuale di stenografia, gergo
commerciale nel momento della focalizzazione sull’ambiente lavorativo, gergo politico con la
manifestazione dei “rossi”, dei comunisti). Questa scelta di P. è molto peculiare e prevede
un’intenzione ben precisa: non voleva usare solo una lingua lirica, la lingua del corsivo, non voleva
far coincidere la lingua della poesia con il linguaggio lirico; la poesia deve essere nella vita e per
questo usa i vari linguaggi della realtà, del tempo, è poesia, qualcosa di bello sul piano del
linguaggio, ma costruita con il materiale linguistico che il tempo le offre. La poesia di P. accetta la
sfida di usare il materiale che la vita le offre per stare nel suo tempo, si scarnifica; viene usato un
linguaggio non poetico per fare poesia, una sfida per accettare ciò che c’è per fare il meglio che si
può. Risulta così una poesia che trova nel montaggio di elementi diversi la sua vera identità, momenti
belli e brutti, spesso in contraddizione, elementi che apparentemente non dovrebbero stare assieme,
elementi opposti. P. porta i suoi versi all’altezza dei suoi tempi, quello che C. dovrebbe fare; P.
oltraggia così l’idea vigente della poesia.
Anche il finale si assomiglia; ne il posto abbiamo un finale perplesso, in una stanza poco illuminata
dove tutti gli impiegati sono rivali, il volto di Domenico che è incerto nonostante la conquista del
lavoro. Da questo punto di vista, sulla narrazione, anche il finale di Carla è perplesso: vive delle
difficoltà, ne esce fuori, accetta la sua posizione, ma non si capisce quale sarà la sua sorte. La
parabola esistenziale in entrambi casi è interrotta nel momento in cui c'è l’ingresso nell'età adulta,
vediamo la loro parabola ma li lasciamo, senza sapere come andrà, nella vita adulta. E’ un finale più
positivo per Carla perché, nonostante all'inizio non volesse, accetta infine la vita; Domenico, all’inizio
più propenso, rimane comunque perplesso dalla vita.
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