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Lezione 28

Titolo del corso – com’è bella la città, com’è grande la città / Giovani in cerca di sé nella MI del XX secolo. Dalla canzone “com’è bella
la città”
Questi due sono versi di una canzone di Giorgio Gabèr (famoso dagli anni ’60 come cantante di canzoni leggere, poi dagli anni ‘70 e
’80 come autore di canzoni più impegnate).
E’ piaciuto abbastanza alla borghesia colta e agli ambienti intellettuali soprattutto del nord ITA, a MI (era di qua).
Perché lo chiamiamo in causa adesso? Perché Gabèr ha lavorato abbastanza a lungo (un decennio) con Umberto Simonetta.
Sentiremo delle canzoni di Gabèr scritte da Simonetta.
“Com’è bella la città, com’è grande la città” – scritta da Gabèr, che ha fatto anche la musica (spesso lui scriveva la musica e altri i
testi).
Sembra una canzone un po’ sciocca, ma descrive bene la MI del boom o del subito post-boom, è del ’69. Descrive il mutamento
avvenuto nella città proprio grande all’enorme crescita economica degli anni ’50-’60. Canta il mito della città d’ITA, come Verga
chiamava MI, il mito della capitale economica della penisola.
La città descritta è proprio quella che vede Carla nelle sue passeggiate in centro, che vede Domenico nelle passeggiate con Magalì.
Tanta gente, colori, vetrine, pubblicità, palazzi in costruzione, automobili.
Ma non è così sciocca perché nel portare così avanti questa sua leggerezza, succede qualcosa che assomiglia a quello che Benjamin
chiamava shock metropolitano.

C’è qualcosa che dice ciò che la canzone non sembra dire?
- tono sarcastico
- ritmo lento (campagna) e poi culmina nella velocità parlando della città = frenesia di quello che è la città, fa capire come il boom stia
trasformando città e persone.
- Il cambio del ritmo dà l’idea della frenesia ma anche dell’ansia/inquietudine (il testo non lo dice ma la resa verbale si).
- “devi venire in città” all’inizio e poi alla fine. La seconda volta è proprio imperativo. Cambia tono ed è quasi minaccioso = la tua
salvezza sta lì altrimenti sei sotto minaccia.
- “la città che produce, piena di vetrine etc” – la lettera del testo esalta questi elementi e crea un clima di lunapark (velocità e felicità)
però c’è qualcosa di inquietante in come Gaber lo dice.
- Verso la fine il ritmo riprende quasi una melodia del circo (da fuuori suscita meraviglia, il clima di qualcosa di stravagante) ma una
volta che siamo all’interno o le persone stesse del circo si rendono conto dell’inquietudine di quel mondo. Circo = lunapark =
superficie luccicante, ma chi ci sta dentro e ci lavora e vive rischia di pagare delle conseguenze (non esplicitate dalla lettera del testo,
ma tono del cantante e musica sempre più frenetica fino alla perdita di controllo suggeriscono che c’è qualcosa di sottilmente
inquietante in questa città così meravogliosa. Per questo dicevamo che sembra una traduzione in canzonetta dello shock
metropolitano di Benjamin = c’è qualcosa di inquietante dentro.
Ecco il senso di metterla a titolo a titolo di un corso universitario.

Sottotitolo = Giovani in cerca di sé nella MI del XX secolo.


Ecco questa canzone, apparentenemente gioiosa, presa superficialmente come la MI che si impone, produce, è sottilmente
inquietante, Tutto il corso di muove in un pensiero stretto = da una parte le meraviglie della favolosa MI (articolo del ’54, la
“favolosa MI”) però c’è qualcosa sempre di inquietante, visto in parte nella letteratura di intrattenimento di M, molto di più nella
letteratura sperimentale di Pagliarani, ancora in Testori e poi in Simonetta. Ognuno di questi testi ha declinato a suo modo il tema
del farcela nel mondo.

UBERTO SIMONETTA – TIRAR MATTINA (1926-1998)


Nasce nell’aprile del ’26, nel bel mezzo dell’ITA fascista, a MI.
Sarà molto attaccato a MI per tutta la vita ma la sua formazione è molto girovaga/cosmopolita = segue il padre (rappresentante)
attraverso l’ITA e poi viene parcheggiato in un collegio a Zurigo dove impara anche lo Svizzero-tedesco. Dunque ha una formazione
molto varia sul piano delle influenze culturali e delle frequentazioni geografiche. Quindi milanese ma anche cosmopolita.

Per gli autori del 2° ‘900 c’è il problema di definizione del canone di valori importanti della letteratura italiana del periodo. Simonetta
è tra quelli più trascurati:
- dall’editoria che lo pubblica poco
- dalla critica che lo prende molto poco in considerazione
In prima istanza il motivo della trascuranza deriva dal fatto che lui ha avuto molto a che fare con l’intrattenimento divertente =
mezzi di comunicazione di massa. IL secondo ‘900 è il momento in cui più o meno tutti gli scrittori devono fare un 2° mestiere per
questioni proprio economiche (Montale faceva il giornalista, Ungaretti il docente universitario, Saba aveva una libreria di libri
antiquati).
Dentro il 2° ‘900 sempre di più si amplia questo fenomeno, a parte Calvino che forse riusciva a mantenersi con i diritti d’autore, tutti
gli altri facevano qualche lavoro.
Cosa c’è di strano nel percorso professionale di Simonetta? Se tutti gli scrittori italiani e non solo del 2° ‘900 hanno dovuto avere un
rapporto molto stretto con l’industria culturale (spt. editoria e giornali), lui si è spinto molto avanti = non solo ha collaborato con
l’editoria libraria e con il giornalismo, ma ha fatto programmi radio, tv (con Benigni e Costanzo), ha scritto le canzoni della fase
leggera di Gabèr. E poi ha scritto sceneggiature di sitcom per un pubblico di massa Agli esordi della carriera in radio e teatro ha
scritto testi tesi a far ridere, esordiendo in quello che si chiamava il teatro di rivista (non di prosa – intellettualmente impegnato –
ma dove c’era una trama narrativa che legava gl sketch, ma si trattava comunque di comicità involgarita da vari balletti fatti da varie
ballerine che uscivano in vestiti discinti. Dunque mero intrattenimento di massa).

Quindi ha sempre alternato un’attività propria di livello alto ma anche ha avuto l’altra attività che l’ha reso antipatico al seriosissimo
mondo critico del 2° novecento.
Ecco, alla fine della vita ha detto :”dato che ho scritto brillante, il mondo dei letterati mi ha degnato di un’occhiata e di un’alzata di
spalle” – mi è restato indifferente.
Qual era il tipo di lavoro di S? E visto che TM ha un’ambientazione milanese nei bar di MI degli anni fine ’50 e inizio ’60, prendiamo
due piccioni con una fava. Da una parte attraverso un paio di canzoni scritte da S per Gabèr ci viene portato sia un esempio concreto
di cos’è l’intrattenimento divertente e sciocchino che l’ha reso inviso all’intellighenzia, d’altra parte gli ambienti che le canzoni
descrivono spiegano qual è l’ambiente che si trova in TM. Quindi servono a introdurre la questione romanzesca.
1. Ballata del Cerutti
L’immagine di S è rimasta molto legata a questa canzone, tant’è che quando a metà anni ’90 3 romanzi suoi sono usciti in un unico
volume raccolti insieme. Il titolo della raccolta “Le ballate del Cerutti”. Fu una canzone molto famosa alla sua uscita, anni ’60 (un po’
gli anni di TM).
Simonetta ha lavorato con e per Gaber dal ’58 al ’69.
Ambientazione milanese notturna, proprio come in TM.
Si vede subito la differenza tra questa canzone e quella di prima (Gabèr non era un autore = il suo testo era esile, giocato sul come la
cosa viene detta, su un eterno ritornello. La forza della canzone stava nel modo in cui lui diceva questa cosa e nel modo in cui il
ritornello diventava ossessivo). Qui la canzone ha invece una verve narrativa che domina sulla parte musicale. Viene proprio narrata
una storia. C’entra molto con TR = Cerutti Gino ha l’aria di essere un personaggio simonettiano, fatto e finito. E poi i bar, gli amici del
bar, il furto della lambretta, il rischio di essere arrestato, essere considerato un duro perché si ruba e poi si viene arrestati e poi
ritorno, dopo la galera, alla solita vita per ricominciare a fare tutto come prima. Quindi la rappresentazione nella canzone assomiglia
molto al plot di TR.
Il ritmo della canzone restituisce il sound di TR: lento, svogliato, ripetitivo. Tipiche dell’esistenza come rappresentata in TR = circolo
vizioso dal quale non si esce (non si può e non si vuole).

2. L’altro testo di Simonetta. Questo è un testo sempre di ambientazione MI, urbano


baristica. Vi vediamo il mondo già visto. “Il Riccardo”.
Il ras = in milanese significava il capo – quelli bravi a fare qualcosa (giocare a carte). il ras era il più autorevole del quartiere (autorità
legata spesso alla criminalità). Siamo sempre tra il leggero e l’intrattenimento – non una buona carta di presentazione per un autore
serio.
Però poi dal ’69, quando si rompe il sodalizio con Simonetta, la produzione di Gabèr diventa molto più seriosa. Non è un caso,
perché le canzoni di Simonetta erano molto narrative e giocose, proprio come questa.
Anche qui l’intento è divertente ma si crea di nuovo la sfasatura tra un ambiente gioioso/gioviale da una parte e dall’altra la
descrizione di un panorama umano giocato sulle solite presenze al bar, sulla ripetizione della vita che non sembra qualcosa che si
dispiega realmente = mondo chiuso in cui tutti sanno tutto di tutti ma dal quale è difficile sganciarsi per fare qualcosa di costruttivo
con la propria esistenza. Poi anche la noia che prende a causa della ripetitività ma che sembra creare anche una certa dipendenza –
ecco la parte intelligente.
Oltre la bravura di Gabèr, c’è anche una voluta contrapposizione tra musica e testo.

Carriera di Simonetta.
“i cinque del quinto piano” una sitcom sua, dei primi anni ’90, e anche “nonno felice” con la sua sceneggaiatura.

Al di là delle canzoni leggere, le produzioni del teatro di rivista con le donne scosciate, produzione radiofonica cabarettista e le
sitcom, l’idea è che la sua produzione narrativa è di un livello molto più alto, e che sia lo “sbarbato” che TR rasentano la definizione
di capolavoro narrativo.
’63 = uscita di TR. E’ un anno di grazia per la cultura italiana. Uscirono tantissime opere: forse per questo TR rimase soffocato in tutte
quelle opere così decisive per le sorti del 2° ‘900 italiano.

Non solo sul piano qualitativo, ma anche su quello quantitativo, la sua produzione non è minima.
La sua attività va dagli ultimissimi anni ’50 fino alla metà degli anni ’70, quando scrisse prevalentemente per il teatro – diventato poi
anche direttore del teatro Girolamo.
Ha scritto 6 romanzi e ha pubblicato anche una raccolta di racconti.
La sua produzione narrativa è come suddivisa in blocchi di 3: ha scritto 3 romanzi in pochi anni, tra il ’61 e il ’67 (Lo sbarbato, Tirar
Mattina e il Giovane normale – i tre che sono finiti nelle ballate del Cerutti). Poi ha scritto altri 3 romanzi nella prima metà degli anni
’70 e poi 3 raccolte di racconti che sono uscite nel ’66, ’88 e l’ultima nel ’93.
Ciò che interessa è che siamo di fronte ad un autore che in 15 anni ha scritto 6 romanzi – non è poco. Quindi è stato stabilmente, fra
il ’61 e il ’76, un autore di romanzi, ed aveva tra i 25 e i 50 anni, il periodo di maggiore vitalità e di inserimento nel mondo (quando ci
si mette in gioco).
Questo ci fa pensare che voleva essere un romanziere/autore.
A lui non ha mai fatto piacere essere spesso bersaglio di giudizi riduttivi. E’ stato detto che coltivava la malinconia da chi si è sentito
sempre sottovalutato.

L’unico romanzo con un qualche successo è TR, uscito nel ’63 ma ha avuto varie ristampe.
Ma neanche questo è bastato. Un’altra sua dichiarazione “quando uscì il mio 1° libro, lo sbarbato, pensai che finalmente ero uno
scrittore, poi è arrivato il 2° e il 3° e la mia vita non è cambiata (quindi il contesto della critica ed editoria non glielo permetteva, non
era riconosciuto da nessun pubblico)”. Anche quando è morto è stato ricordato soprattutto come intelligente autore di testi leggeri,
autore di canzoni di Gabèr e non come lo scrittore divertente e amaro, inquietato e inquietante, così come emerge dai suoi racconti
e romanzi.

TIRAR MATTINA - Mappa più ampia.


1° edizione di TR, uscita presso Einaudi. Dentro l’Einaudi ci sono le lettere che il suo agente
letteriario, Linder (il più importante), si scambiava con i funzionari dell’einaudi che lo
vedevano come un grande libro e ne volevano la pubblicazione e il riconoscimento.

Possiede una trama abbastanza scarna = i fatti del filo principale sono relativamente
pochi. L’intero romanzo si risolve in un’unica notte, anzi, riguarda pochissime ore.
Durante questa notte, il protagonista nonché narratore interno (fa tutto lui), che si
chiama Aldo ma viene chiamato Aldino, gira per la città con la sua auto (alfa vecchia e
nera). Si muove da un bar all’altro aspettando che faccia mattina, da qua il titolo.
E’ una notte piovosa, molto simile a tutte le altre che lui è solito trascorrere. Quindi
abbiamo di fronte un perdigiorno che di giorno dorme e di notte fa una sorte di
processione tra i bar della città, quasi sempre malfamati. Gira da squattrinato cercando
di scroccare consumazioni (beve soprattutto grappini).
Aldino, un lavoro normale, nonostante abbia 33 anni, non l’ha mai voluto trovare.
Perché raccontare questa notte in particolare? E’ speciale, è una processione laica
d’addio: l’ultima che passerà così. Il giorno dopo, alle 7, inizierà il suo primo giorno del
suo primo lavoro normale in un garage (autorimessa/autofficina).
Aldino non si sa come l’ha trovato.
E’ quindici anni che passa notti così.
Da quando a 18 anni è uscito di casa, ha vissuto per 15 anni di espedienti tendenzialmente illegali: gestito piccolissimi giri di
prostituzione (il magnaccia/pappone – avere prima un rapporto sentimentale con una ragazza, poi fare in modo che lei si
prostituisse e desse tutto il guadagno a lui).
Il suo obiettivo = non lavorare, ai margini di qualsiasi sforzo o impegno.
Pare che abbia anche fatto il ricettatore di elettrodomestici = quello da cui vanno i ladri per piazzare la merce rubata, quella che
scotta. Veniva chiamato cok (c’è tanto slang giovanilistico ma anche tipico della MI di allora).

struttura libro.
Il filo narrativo è debole. Però è bello lungo – come il calzerotto marrone della Wolf = ci mette un sacco di tempo a narrare un gesto
semplice. Sono 200 pagine per 5 h.
Il libro è fatto per la gran parte dei pensieri di Aldo, che sono di due tipi sul piano temporale:
1. sono quelli del presente. Lui che guida di notte e inizia a pensare i rovelli del presente. Tempo zero – 1960.
2. altri pensieri che entrano dentro la pagina e riguardano il passato. Tante emorragie narrative che riguardano eventi a partire dal ’45
– ripensa spesso a quando aveva 18 anni (nel ’45).
Quindi è costruito come un monologo interiore, a tratti un flusso di coscienza, dentro il quale non si sa quanto sia facile o difficile
orientarsi. Difficoltà = quando parla di sé usa sempre il presente.
Il passaggio dal pensiero alla narrazione (2 livelli: narrazione e pensiero – che è presente o passato) non è spiegato – non c’è un
nuovo paragrafo. Molto spesso un pensiero del ’45 è introdotto dall’osservazione del fatto che deve frenare. Non c’è soluzione di
continuità.
Sta al lettore districarsi dentro questo labirinto.
Non ci sono titoli o paragrafi = flusso di coscienza senza soluzione di continuità da parte del protagonista. Ci sono alcune battute di
dialogo nel presente e sentiamo altri personaggi.
E’ un esercizio molto difficile sul piano letterario. La narrazione non ha momenti di caduta. E’ inevitabile che ci siano momenti di noia
(un po’ come nell’Ulisse di Joyce).

Lascia dunque la famiglia dalla quale è in rotta – il padre spt, lui lo vorrebbe operaio ma il sogno di Aldino è fare il commesso in
qualche bel negozio del centro. Si arrangia facendo questi lavori così e poi ci sono i vari livelli della vita. Ad esempio ci racconta delle
sue esperienze amorose, sono 2 quelle grandi, che non a caso riguardano una il ’45 e l’altra il presente (’60).
Nel ’45 c’era Giannetta, un amore un po’ strano, ma il suo vero nome è Irene. A 18 anni dunque forse e dico forse si innamora di lei.
Nel ’60 la sua compagna è Lina. Lei non la ama, ma sta con lei perché, come è abituato a fare con le donne, per convenvienza.
Questo perché la madre di Lina ha un negozio di pasticceria e Aldo si appoggia molto a loro – sul piano economico e logistico, sta
spesso da loro-.

Quindi c’è il livello del lavoro (Aldino che pensa ai lavori passati e a questo che verrà) poi quello dell’amore, c’è la famiglia (ruolo
marginale) e poi il piano delle amicizie (Luciano, il gruppo degli sbarbati – i giovani – che esordiano nella malavita, Iliana e
Pieromamma).
Iliana e Pieromamma = ci dicono qualcosa della rappre che Simonetta fa della MI del periodo. Iliana è una donna di mezza età che
vive tra passato e presente, questo perché A ci racconta di quando li ha incontrati nel ’45, ma con loro, in particolare col figlio Piero,
resta in contatto fino al ’60. Sono due personaggi sono marginali.
Iliana è una ninfomane, Pieromamma è invece gay e cerca a sua volta di conquistare quanti più ragazzi può. Cosa ci dice questo? E’
una MI piena di prostitute, piccoli criminali, è una fauna umana variegata = c’è spazio per tutti.
C’è anche la Pinun, una signorona che possiede un’osteria, è omosessuale ed ha una relazione con una ragazza più giovane, Ines.
Vediamo, rispetto al DDR dove la società era maschilista, qui ci sono donne con grosse personalità (Giannetta, Lina), c’è grande
sessualità. Quindi una MI in cui c’è posto per tutti e tutto e nulla sembra crear problema.
Da questo pov TR è apertissimo e avanzatissimo rispetto alla rappre della MI di giorno machista e chiusa su di sé.

MI
E’ l’ambientazione. Ma a differenza di Testori, qui ci si muove in centro. Tra Porta Genova dove Aldino ha una casa, via Porpora,
Cordusio, Piazza Repubblica etc etc.
E’ la MI di notte: della prostituzione, dei piccoli criminali, dei perdigiorno, dei bar, dei night, ristoranti aperti tutta la notta, dei trani
(=erano i bar con unìinsegna con su scritto “vino di Trani”. E’ una città pugliese, produttrice di vini exportati al nord – comunicazione
privilegiata. Questi vini molto forti).
I locali che vediamo: il libro si apre alle 2 di notte nel bar di Giannuzzi, poi la Messico, la Storia (night) ed infine dal Duardin
(ristorante in piazzale d’Ateo che faceva angolo) dove lui al 6 del mattino va a mangiarsi una bistecca bella grassa.
Questo il dove.

Ora il quando.
Tutto è narrato con molta precisione. Sia la topografia è molto ben descritta, tutto molto realistico, ma anche sul piano del tempo:
sappiamo che è uscito alle 9 di sera ma non lo vediamo in azione prima delle 2 di notte. La narrazione inizia alle 2 dal Giannuzzi.
Sappiamo che il libro ci porta fino alle 7.15 – arriva in ritardo di 15 minuti al garage, si trova il suo datore di lavoro che lo vede e si
rende conto che è sporco, mal vesitto, spettinato, puzza di alcool e senza neanche fargli iniziare lo licenzia.
Siamo nel ’60, come lo sappiamo? Perché Aldino dice di avere 33 come Cristo, e anche perché dice di essere del ’27. Ne abbiamo
conferma perché la signorona di prima, la Pinun, muore e viene raccontato il suo funerale (p. 102).
A conferma definitiva dice di aver avuto 18 anni nel ’45 (p. 52).
Mese? Dice di essere con la Lina da 8 mesi, e di averla incontrata l’estate precedente (p. 16). Lui, attento all’aspetto fisico, dice che
nel tempo 0 è bianco (quindi è passato l’inverno e la notte della narrazione è umida e piovosa ma non troppo fredda (p. 180) =
questi dati ci dicono che la notte è tra marzo e aprile del ’60. Forse è più aprile perché si dice che non siamo lontani da Pasqua (che
quell’anno cadeva a metà aprile).

Tutto ciò lo facciamo perché tutto è scandito con grande meticolosità all’interno del libro.
Si può anzi dire che c’è una grande sintonia tra l’incessante movimento mentale che svolge fra sé e sé (ossatura del libro, pensiero in
costante movimento) ed il suo inquieto girovagare (auto e città).

Ancora c’è qualcosa di modernista nella struttura del libro, dove tutto, l’insegnificante secondo Auerbach, è precisamente spiegato
ma in realtà veniamo travolti da un flusso di coscienza. Intreccio e trama molto leggera, succede molto poco, però è un dispiegarsi
inarrestabile della voce del narratore interno.
Siamo molto vicino alle modalità moderniste (Joyce più della Wolf) = il flusso è uno e costantemente davanti a noi; non ci spiega
niente perché sta parlando fra sè e sé.

Ultima cosa = questo narratore interno è molto inattendibile (come il primo capitolo del DDR perché è scemo).
Perché Aldino è così profondamente inattendibile? Lo scopriremo.

Faremo una lettura sociologica di questo personaggio, ma come per il DDR, non c’è bisogno. Più che altro un altro tipo di lettura va
fatta per comprendere meglio e nel profondo il significato del libro.

Lezione 29
Il fluire inarrestabile di pensieri corrisponde al suo girovagare senza sosta tra i bar perché sia il suo coprirsi di parole sia il suo non
fermarsi mai sono due modi che si corrispondono nei quali A sottrae sé stesso a sé stesso e anche alla vita reale- Cioè con l’auto
placa la sua implacabile insoddisfazione - scontento di un locale se ne va in un altro dove va a cercare un migliore appagamento che
non trova-.
Sì è un’abitudine quella di girare tra un bar e l’altro ma non è casuale il suo non sentirsi mai a casa. E’ connotato in termini di
infelicità il suo girovagare.
Per quanto riguarda le parole anche loro girano a vuoto, il loro scopo è convincersi che le cose stanno come si racconta che stanno.
Quindi strumento (come il giro baristico) attraverso il quale abbassa il suo livello di scontentezza.
Lo fa illudendosi che nel prox bar troverà di merglio e anche con le parole costruendosi un’immagine di sé falsa alla quale credere e
migliore della realtà.

Quando = Siamo certi che lui ha 18 anni perché Giannetta, a maggio del ’45 fa riferimento ai corpi appesi a testa in giù di Mussolini,
della Petacci e di altri gerarchi fascisti.
E’ festa, probabilmente il 1° maggio il giorno in cui Aldino con i suoi vecchi amici (il Chim, il Pomona, Luciano e le ragazze) sta
nell’osteria della Pinun sul Naviglio, quando dichiara di avere 18 anni.
Poi dichiara di averne 33 nel ’60 e poi dice che la Pinun è morta nell’estate del ’51, aggiungendo che è successo più di nove anni fa.

Il protagonista come agente sociale – lettura sociologica (quella più diffusa ma ben poco utile).
Aldino ha vissuto la guerra da adolescente, è del ’27 ed esce dalla 2WW a 18 anni (fra. p. 38 e 47) covando moderatissime ambizioni
professionali (p. 47) “secondo i miei” fino a “in un qualche negozio”. Lui dunque vive il decennio decisivo per le sorti della propria
esistenza (il decennio dei vent’anni) nel corso della ricostruzione (’45-55) e ha 30 anni all’inizio del miracolo economico. Da questo
pov è nel posto giusto (MI) nel momento giusto per chi volesse costruirsi un’identità professionale su ogni livello. C’era lavoro
proprio per tutti.
E’ figlio di un operaio e di una casalinga che a volte fa anche le pulizie in case.
Quindi sul piano sociologico incarna l’attore sociale di estrazione proletaria sul punto di acciuffare per anagrafe e condizione di
nascita il benessere piccolo-borghese (Stessa storia di Carla, Domenico e Dante). Tutti e 4 hanno un’estrazione proletaria e sono nel
momento e posto giusto per fare il salto verso il benessere portato dalla nuova ricchezza.
Aldino è quello che però si comporta in maniera diversa = non coglie l’occasione e non fa dunque il salto. Resta avvinghiato alla MI in
via d’estinzione opponendo un rifiuto all’ingresso nel mondo del lavoro e dunque alla modernizzazione della città.

Non mancano le prese di posizione di A contro la modernità. P. 56 – tirata di A contro la allora nuovissima metropolitana, si lamenta
che i lavori per questa (molto invasivi) gli rompevano le scatole. Dopo essersi lamentato, si esprime in maniera generale su quello
che succedeva attorno a lui in termini modernizzanti. Da “gli scavi di” fino a “a cosa è servito”. Presa di posizione netta contro i
cambiamenti, arriva a pensare che forse non c’è alcun senso.
Altre tirate contro i cambiamenti – contro gli immigrati del sud (3 volte), se la prende con questo fenomeno nuovissimo, iniziato nel
’60. Se la prende anche con quelli che lavorano, che ti guardano storto e ti fanno sentire in colpa perché sono loro i giusti.
Sottolineiamo che proprio come nel DDR non c’è nostalgia per il passato = contro alcuni cambiamenti in corso ma in realtà non c’è
alcun tentativo di difendere il vecchio mondo popolare dei suoi bar che sta morendo. Contraddizione = da un lato rifiuta il presente
(proiezione del futuro già lì) e dall’altra nessun amore o nostalgia per il presente. Quando infatti scopre che il Duardin (ultima meta)
dove va alle 6 e mangia, la padrona gli dice che dovranno essere cacciati. Si trova nell’attuale piazzale d’Ateo e dovevano fare spazio
al colosso Motta (panettoni, docli, catena di bar di alto livello), un brand molto rinomato.
Quando la padrona triste glielo dice, loro sono in affitto e il padrone ha deciso di vendere a Motta, A non è dispiaciuto, ed infatti a p.
185 lo si capisce. Ma del resto gli abitanti della MI notturna sono tutt altro che idealizzati, se non sono presentati come nemici, lo
sono come persone che vuole tenere alla larga. E’ un ambiente competitivo, di furbizia, di fregarsi l’uno con l’altro.
In quest’ottica, l’epigrafe del libro che viene da Stendhal – innamorato di MI venuto come ambasciatore, scrittore francese dell’800
– quindi molto ricercata, e la lascia in francese:
“il dialetto milanese è pieno di sentimento, e si capisce bene che non parlo del sentimento d’amore, l’intonazione delle sue parole
esprime sincerità e un dolce modo di ragionare” – breve dichiarazione d’amore fatta al dialetto milanese. Alla luce dunque di ciò che
percepiamo attraverso A a proposito del dialetto milanese, questa epigrafe diventa ironica perché dichiara un grande affetto nei
confronti di MI ma poi abbiamo un protagonista che vive e parla male di MI.

Il libro è dedicato a Renata (la moglie) e Vittorio Spinazzola – molto amici.

Aldino si mal sopporta la metro e i lavoratori, però non possiamo imputare il rifiuto della modernità di A come una presa di
posizione ideologica, perché lui non odia il benessere (si stava meglio quando si stava peggio), lui infatti è irresistibilmente attratto
dalla ricchezza (belle auto, vestiti, locali e ogni sorta di lusso consumistico). Cioè non c’è nel libro una presa di posizione
anticonsumistica come nel pollo, dove c’è una feroce critica.
Non è un caso che l’ultima frase del libro (p. 207) è quella. La corvette è una macchina USA molto costosa e lui la vuole. Quindi no
rifiuto del miracolo in sé e per sp, del nuovo benessere americaneggiante che invade spt MI. Lui vorrebbe eccome venire miracolato,
è immobilizzato nella sua traiettoria esistenziale, bloccato tra giovinezza e maturità.
La domanda: perché A fallisce? Perché la lettura sociologica di A come agente sociale proletario che non riesce a fare il salto al
benessere borghese non spiega niente. Non spiega il rifiuto di A per il presente, il suo odio per la modernità e l’attrazione per la
ricchezza. Non si capisce cosa vuole.
Sappiamo che fallisce.
Non c’è alcun accenno alla resistenza alla nuova MI nascente.
Insofferenza espressa: pag. 11 (vuole una sicurezza economica e lavorativa), p. 12, p. 23, p. 54, p. 60, p. 188 e p. 205. Sono 7
occorrenze in cui dice che non gli piace la vita che fa.
Ma dice anche che non gli piace la modernità: cuore della questione = perché si è gettato in questa strettoria di insoddisfazione
verso il proprio agire? E così ricca di rimprovero verso gli altri?
Aldino non è un essere da leggere sociologicamente, ma psicologico (come Dante). E’ cioè sotto scacco non per colpa di ciò che ha
attorno (che tanto non va mai bene) ma per il modo in cui sta al mondo: il suo modo di pensare e porsi nei confronti di ciò che sta
attorno lo condannano. Ma di solito si dice che lui è resistente verso ciò che stava prendendo MI. Ma lui è comunque infelice, in ogni
caso.
Non rifiuta proprio niente, solo che non fa nulla per conquistarlo.
La sua infelicità, a differenza di quello che prevede la lettura sociologica, non è infelice per la modernizzazione di MI (aggressiva,
cattiva e alienata) ma la causa è dentro di lui.
E’ chiaro che il fermento della MI accentuano, portano a più tensione le difficoltà che stanno dentro ad Aldino. La società del
benessere che offre opportunit per chi sa buttarsi e tentare la sorte, interroga A e lo scuote. Se la MI fa qualcosa, non è causare
l’infelicità, ma sollecitarlo in termini che per lui sono molto dolorosi.

Lui non si mette in gioco, la società attorno gli chiede di mettersi in gioco. Non è come la società di oggi che ha poco da dare e quindi
non stimola la messa in gioco. Quella società invece chiedeva di mettersi in gioco. Lui è guardingo e cerca di non scoprire le proprie
carte. E allora l’ozio alcolico notturno e l’antitodo e rifugio che trova per reagire alle responsabilità che l’età e la città gli richiedono.
Lui sta fermo sulla parabola sociale, lavorativa ed esistenziale; ma c’è tensione per le opportunità offerte.
Il suo motto potrebbe essere “chi non fa, non falla” – per non sbagliare sto fermo. Quindi deve trovare l’antitodo all’insoddisfazione
(bere etc) – perché la società notturna non gli chiede niente. Non è un ambiente in cui sta bene, solidale, ma può giocare
sottotraccia senza esporsi. Il suo unico trionfo sarà nelle ultime pagine.

Ci sono due casi vicino a lui che mostrano come avrebbe potuto svolgere il percorso, due suoi amici: (Sono due suoi amici di
gioventù)
1. Il Chimi = via della legalità. E’ un ragazzo della stessa età di A che decide di fare il ballerino. Ce la fa, inizia nel teatro di rivista (ad es.
Wanda Osiris) e poi approda ad Hollywood. Al suo successo A prova insofferenza che noi leggiamo come invidia. Vede che qualcuno
senza l’atteggiamento di A ce la fa. Il Chimi era destinato a fare il topografo col padre (lo scopriamo a quel pranzo del ’45), eppure
riesce. A p. 100-101 c’è la reazione stizzita di A – quindi chi ha successo è perché gli è andata bene – narrazione auto-difensilista per
giustificarsi = lui sta fermo e basta, se qualcuno si muove e fa è solo fortuna. E perché A non fa? Perché nella sua auto-narrazione
consolatoria si considera molto sfortunato (p. 101).
2. Il Pomona = via dell’illegalità. E’ l’ambito nel quale si è mosso dai 18 anni (lascia la casa e si deve mantenere da solo). Però ad un
punto anche qui c’era la necessitò di fare il salto di qualità, e lui si tira indietro anche qui. Che scuse accampa con sé stesso? Deve
giustificare la sua incapacità di fare = i benefici sono troppo più bassi rispetto ai rischi, la probabilità di riuscita è troppo bassa e le
difficoltà troppo grandi (p. 57-58) – neanche nella malavita non è più il tempo per i dilettanti, e dunque rinuncia (p. 59 la spiegazione
che non se la sente di non diventare professionista). A non si rende conto che sarebbe arrivato il momento anche per lui di essere
qualcuno che le cose le sa fare. Il coraggio di tentare la sorte in ogni ambito non ce l’ha.
A lui è andata male, è stato arrestato. Ma A (p. 101) ha riconosciuto il suo successo e l’occasione da lui colta.
L’autodiagnosi finale nella p. 101 è molto significativa – è un momento di lucidità (sarà Simonetta che strizza l’occhio?) – il suo motto
“rinunciare”. Parte sconfitto e convinto che le cose gli andranno male.

Lui voleva fare il commesso (p. 100) – l’unica cosa che voleva fare non è riuscito perché non è specializzato e perché i reduci di
guerra avevano dei vantaggi. Sono due sciocchezze. Quindi accampa scuse su scuse. Si racconta che gli impedimenti tra lui e la sua
realizzazione sono grandi ed esterni. Ed in effetti a proposito di commesso, quando gli si presenta di farlo nel negozio della sua
ragazza (pasticceria) e la prospettiva gli risulta molto sgradita nemmeno prende in considerazione la proposta. (p. 19). E’ un po’ un
controsenso, la sua posizione scricchiola da ogni lato.
Rifiuta le responsabilità = tutto faticoso e troppo difficile da raggiungere nonché improbabile = attribuisce alla sfortuna l’insuccesso
proprio e alla fortuna il successo altrui.
Fa di tutto per non arrivare puntuale al nuovo lavoro, normalissimo, del quale si lamenta perché umile = vi è in lui una necessitò
inconsapevole di fare in modo di non farcela. Non vuole questi lavori e non vuole rischiare di tentare qualcosa di diverso come il
Chimi. Sta ferno e sogna quello che poteva accadere.
Fa di tutto per non esporsi: dietro il banco del negozio e della malavita.

Arriva a delle considerazioni di autocommiserazione che sfiorano la patologia (p. 101) – “a me m’avrebbero dato l’ergastolo”. E’
l’apriori psicologico che lo domina, la paura.
Una paura che fra sé e sé nobilita chiamandola pessimismo (p. 118) come dono di natura. C’è proprio espressa con un assioma il suo
principio di vita – a pensare che le cose vanno male non si sbaglia mai – sarà anche vero ma così sta buttando via la sua vita.
Non è pessimismo, la vera costante è la paura.

Ma di cosa ha paura? E’ un uomo in bilico tra giovinezza (piedi) e l’età adulta (piantata l’anagrafe). Si pensi a quanto sia emblematico
che un bell’imbusto per 33 anni viene chiamato con un diminutivo, lui stesso si chiama così. Significativo come non assunzione di
responsbailità = diminutivo che lo tiene dentro la giovinezza.
E Pieromamma gli dice (p. 107) “e che tu ci hai la mania di continuare a vivere come se ci avessi 20 anni” – ed è proprio così.
Ma cosa fa un ragazzo quando deve giustificarsi che le cose gli vanno male e non ottiene cosa vuole? Lui, come ogni ragazzetto
insoddisfatto, se la prende con la sua famiglia. Si aggiunge questa cosa alla sfilza di scuse: origini famigliari che non lo hanno favorito
(p. 118). Il suo problema è di essere sfortunato sin dal punto della nascita.
In effetti A crede che solo i benefici elargiti dai padri consentano l’ottenimento della condizione di privilegio che a lui non è data. E’
colpa dei genitori poveri che non lo hanno collocato in una posizione di privilegio – si capisce quando racconta di aver incontrato un
giovane imprenditore nella stazione centrale (sono le 4). Scopre che è il figlio di un proprietario di industria che produce bilance di
precisione. p. 148. Tutto sta nella posizione in cui ti ha messo la tua nascita.
Stessa identica cosa per Giulio – marito della sorella Fulvia -. Fulvia è stata messa incinta da Giulio a meno di 17 anni. Lui l’ha sposata
subito e ha costruito col padre la sua impresa di tappezzerie. Di fronte a questa parabola non facile sicuramente A commenta con il
solito cinismo che tenta di denigrare gli altri per giustificarsi. p. 126 - Dicendo che Giulio ha avuto il padre che l’ha aiutato, mentre lui
ha potuto contare solo su sé stesso. Anche p. 38.
Dunque alla lista delle peculiarità di A: la paura che diventa pessimismo e invidia, l’accusa di essere solo fortunati, ora aggiungiamo il
vittimismo.
Per essere precisi, l’accusa che Adino muove nei confronti degli altri è anche quella di essere malviventi, furbastri. p. 130 – incontra
una jaguar che vorrebbe e non può e quindi la stizza per l’agiatezza altrui assume non il volto “si ma voi siete fortunati” quanti più
del “si ma voi siete dei malviventi”.

Quindi gli altri hanno la meglio o perché barano o perché sono fortunati. Lui è scontento di sé non a causa sua, ma per le ingiustizie
che per lui popolano la realtà e che lo destinano all’insuccesso. Quindi di fronte ad un contesto nel quale ogni mossa crede porterà
all’insuccesso, resta immobile. In fin dei conti lui aspetta un colpo di fortuna (che non arriva se non lo cerchi) oppure di essere
cooptato nell’eden dell’agiatezza. Sogna cioè che qualcuno tra i ricchi lo portasse in quel mondo.
Inevitabilmente = forte grado di frustrazione. E a partire da queste frustrazioni che A si sente autorizzato ad esercitare nei confronti
degli altri ogni forma di meschinità, col volto dell’egoista senza possibilità di redenzione. A p. 15 e 23-24 ne giro di pochi istanti lui
rifiuta malamente due passaggi a due persone diverse – ma la cosa divertente che ci fa anche capire quanto sia inattendibile come
narratore è che subito dopo averli rifiutati se ne esce con un cinico rimpianto, p. 24.
La sua è una spietata ipocrisia. Si giustifica dicendo che il mondo è ingiusto e che quindi deve reagire come può.
Ha un senso di persecuzione perché non solo tutto gli va male, ma è anche assediato e perseguitato dalle altre persone. P. 25 – a
proposito del terroncino e dello sparo. L’odio governa il suo animo, ed in effetti non si fida di nessuno. Si pensi all’incipit – non si fida
e denigra tutto – “tutto considerato devono essere scemi” (è un bell’inizio in medias res) in riferimento a due sconosciuti al
Giannuzzi. L’affermazione è capace di dare i là a tutto quello che succede a lui: disprezza tutti e non si fida. Tutti sono scemi e tutti
mentono. Non crede neanche alla morte del padre di Lina. Pensa male sempre e di tutti, non solo del proprio destino, gli altri sono lì
per fregarlo e mentirgli. E invece è lui che mente e che gioca a carte coperte, è lui che mente a Lina sul fatto che la vuole sposare.
L’amore stesso di Lina nei suoi confronti, emerge di essere grande e sincero. Eppure lui lo legge come una minaccia, non può
concepire che qualcuno provi per lui sentimenti che non sono minacciosi. P. 65.

Invece è Aldino di cui non ci si può fidare, vive l’idea che tutti siano lì per fargli le scarpe, e invece è lui. L’alfone l’ha pagato 250 mila
lire – Tamara era una prostituta con la quale aveva la solita relazione (lei ama lui, lui chiede a lei di fare la prostituta e mantenerlo) e
quando lei gli ha dato 50 mila lire lui l’ha fregata: è andato alla polizia e l’ha denunciata, rispedendola a casa. P. 116.
E non era la prima volta che faceva il delatore contro un amico: la prima volta è quando la polizia lo ha messo alle strette e lui ha
denunciato l’amico Boffa. Fa i nomi di tutti quelli che sapeva avere commerci illeciti. Quindi è A che mente e di cui non ci si può
fidare. Ce l’ha con tutti.
Lui e Pieromamma scendono da una macchina e lui guarda con soddisfazione il fatto che Pieromamma non da la mancia al
parcheggiatore (pagava lui) (p. 104) – di nuovo l’ipocrisia. Quando pensa al suo lavoro di parcheggiatore, pensa alle mance ricevute
con soddisfazione.
Quindi il suo odio per il parcheggiatore senza mancia ed umiliato, ma lui pensa proprio alle mance (p. 10) quando sogna di
guadagnare qualcosa in più.
Ce l’ha anche con i perdigiorno che glieli assomigliano – ritratti impietosi di quelli che incontra ogni notte nei locali (p. 105, 24, 53). A
pag. 53 è importante = da “gli sbandati” a “l’anno scorso” = è esattamente lui, ripetono sempre gli stessi copioni.

A ce l’ha col mondo. Non solo denigra i peridgiorno ma anche quelli che fanno una vita normale. A sostegno della tesi che lui è
infelice a priori, p. 54 “ecco la gente” fino a “la notte”. Lui i chiama i regolari, che con la loro esistenza gli ricordano le loro mancanze.
A si sente psicologicamente (non sociologicamente, perché da questo pov è sul trampolino del proletario col salto di classe)
impegnato emotivamente in una guerra contro tutti.
Gli aspetti ossessivi: la minaccia degli altri anche in situa molto impropabili. Nei suoi giri notturni vede una macchina simile alla sua
sempre parcheggiata allo stesso posto, forse abbandonata. p. 117 – forte curiosità di vederla, la tentazione di metterla in moto e
portarla via, fare un furto a rischio 0 con un’auto migliore della sua. Invece no, lui la immagina una trappola tesa da qualcuno per
chiamare la polizia. Vive in perenne allarme, per lui il reale è un inferno popolato da persone più fortunate o da sinistri psicopatici o
nemici che lo vogliono fregare e non aspettano altro che danneggiarlo.
Questa è la vita che vede, quella che sente intorno a sé. Gli altri mi mentono? Mento, Mi fregano? Frego.
A è insofferente al mondo, odia tutti e nel contempo percepisce l’assedio del mondo che lo odia, per questo è sempre guardigno,
non ha fiducia in nessuno e non stringe alcun rapporto sincero.
E’ convinto di essere solo contro tutti, lo dichiara a p. 145, ai suoi genitori.
Ecco i suoi comportamenti, situa psico-emotiva. Ora dobbiamo interpretarli, capire la dinamica psicologica che domina il libro. Prox
lezione.
Lezione 30
Prova a fare collegamenti tra i vari libri. E a che cosa serve a noi leggere queste cose (forse potremmo rispecchiarci tutti in A).
A rifiuta la modernità. Disprezza le sue nottate e le persone che incontra. Non rifiuta la ricchezza (sembra una contraddizione) ma
non fa niente per raggiungerlo.
Il personaggio è complessissimo.
Tesi = A non è un tipo/profilo umano sociologico bensì psicologico – ciò che ha attorno in maniera contingente enfatizza il suo
malessere, anzitutto tutto nasce da dentro lui.

Fin qui abbiamo fatto una sorta di diagnosi senza la causa.


Si tratta ora di capire perché si comporta così. Non mettiamo sul lettino dell’analista un uomo, capiamo cosa il testo ci dice del
personaggio, è tutto scritto lì.
Ora dunque interpretiamo i comportamenti.

E’ un personaggio tirannico circondato da comparse alle quali affibbia il ruolo di antagonisti.


Resta da comprendere che origine ha il suo comportamento.

A ha un altro tratto fondamentale = senso di grandiosità. Si sente un gran figo fra sé a sé (p. 30 quando parla dei cinque sbarbati).
Denigra gli altri per rendere grande sé stesso.
E’ grandioso a 20 anni, ma anche prima e anche dopo.
Quindi si preferisce la panchina al campo, ma ha un’altissima considerazione di sé: bellezza esteriore, orgoglioso del modo in cui ha
varcato la soglia dei 30 anni ed è sempre bello (p. 36 – persino i denti); muscoloso; grande intenditore di motori (p. 11); regge
meravigliosamente l’alcol (p. 105); il vero ritornello: ha fatto innamorare sia donne che uomini a tanti, si esalta pensando a questo
(p. 66).
Dice al suo amico gay che Piero è stato molto innamorato di lui. p. 106 il colloquio molto rivelatore (autore strizza l’occhio al lettore,
attraverso una voce esterna ci fa capire quanto A sia un illuso).
Continua a chiedere agli altri conferma della propria grandiosità. Ma A non si limita a considerarsi grandioso vivendo di luce riflessa
del suo passato, è ancora grandioso. Arriva ad un delirio di grandezza, a figurarsi che non sono Lina, ma anche madre e nonna siano
innamorate di lui. La spiegazione è un mix di (p. 112) denigrazione degli altri ed esaltazione di sé. L’elemento che glielo fa dire è che
tutte e 3 si offrono di pulire il bagno quando lui lo ha utilizzato.
A proposito di amore e Lina – è rivelatore il modo in cui A concepisce l’amore che lei prova per lui. P. 66. C’è l’altro lato, quello
positivo: ci spiega perché A ama l’amore che gli da Lina. Perché lei è l’unica che lo vede come lui si vede, come una sorta di Dio. La
debolezza di cui parla: bisogno di sentirsi amato come lui ama sé stesso. Così lei lo fa sentire. Questo si chiama disturbo narcisistico:
A non può amare nessuno, come tutti i narcisi, può amare solo sé stesso o al massimo può amare il modo in cui gli altri lo vedono. E’
una condizione psicologica = trova sempre un escamotage mentale per giustificare i suoi fallimenti e considerarsi un uomo
straordinario. Quindi si sente al centro del mondo, tutto ruota attorno a lui (bambino), mai nell’ottica di dare e sempre del ricevere,
è grandioso, non fa altro che raccontarsi sciocchezze che tengono in vita il monumento che si è fatto da sé. Per questo gli
escamotage mentali.

Ma l’operazione narrativa di S si spinge più in là. A non è un narcisista in senso stretto – non consuma il suo trionfo sul palcoscenico
ma è costretto a consumarlo fra sé e sé. Il palcoscenico di A è la sua interiorità = per questo il suo flusso di coscienza è così violento.
Mentre poi ha una tremenda natura di presentare questo sentimento di grandiosità.
Quindi da una parte è grandioso ma dall’altra fa di tutto per non salire sul palcoscenico del mondo e quindi soffre molto = vorrebbe
declinarlo nel reale questo sentimento, e cioè gli altri devono farlo sentire così, ma non accade e dunque si deve giustificare
mentalmente.

Qual è il punto?
S non ha messo in scena un narciso e basta, ha messo un narciso a cui manca fiducia in sé stesso.
A non si è conquistato un grado di maturità e autonomia sufficienti per fargli sopportare lo sguardo altrui. Di qui la paura – che nasce
dalla contraddizione: da una parte grandioso, dall’altra non ha il coraggio di consumare pubblicamente ciò che sente di sé.
Il minimo comun denominatore delle sue paure è quello che la realtà non avvalori il senso di onnipotenza che lui è convinto di
possedere e del quale fantastica fra sé e sé. Questo il suo segreto più angoscioso = sentirsi onnipotente ma non riuscire nella realtà
ad avere il coraggio di mettersi sotto l’occhio altrui e dimostrare la sua onnipotenza.
Il suo segreto dunque è questa angosciosa paura di non essere come crede, e qui si risolve la contraddizione di un narciso che vuole
stare in panchina. Ma certo, se si mostra e perde scopre che tutto il monumento che si è costruito crolla. Ma non mostrare
nemmeno a sé stesso le sue “capacità”.
Tecnicamente S ha messo in scena un narciso debole.
Non è dunque in grado di entrare veramente nella realtà.
Nuovo motto “chi non fa si salva la vita”. Finchè non ci prova può sognare di essere grandissimo.
Per questo resta nel periodo a lui noto della MI dei bar notturni = non lo aggredisce con richieste di eccellenza e competenza. E’
significativo che il libro si chiude su 2 eventi quasi opposti:
- il trionfo al gioco con le monetine con gli sbarbati
- il definitivo fallimento socio-professionale con il licenziamento in tronco.
Fallisce nella realtà e consuma una fittizia immagine grandiosa di sé a giocare a monetine con dei ventenni. Lì si sente di trovare
conferme delle immagini narcisistiche, da lì è sicuro, al di fuori non trova conferme e dunque fa di tutto per rimanere incastrato
dentro. Mal sopporta la notte, i bar, la gente ma è attaccato a quel luogo con larga dipendenza perché lì è l’unico posto in cui si
sente al sicuro, fuori di lì avrebbe dovuto dimostrare qualcosa, lì può stare bello coperto.
Da qui deriva una grande frustrazione: p. 105 dice che merita di meglio, perché il suo senso di grandiosità non si accontenta della
vita che sta vivendo e d’altra parte è bloccata dalla paura di lasciare quel mondo che pur vorrebbe lasciare (auto-carcerazione dalla
vita).
Dunque A è un narciso che non riuscendo a dispiegare sé stesso nella realtà vive una condizione di inevitabile infelicità tutta giocata
sull’incapacità di entrare nella vita vera. Lo scopo di questo blocco del piano della giovinezza è quello di non svelare la discrepanza
che c’è tra grandiosa fantasticheria e realtà vera (che lo condanna ad abbassare le proprie aspettative).
Ego enorme e castello di fiducia in sé esilissimo che non può esporsi alla realtà, volerebbe via.

Capiamo anche così il modo in cui vive due delle esperienze fondamentali: le 2 storie d’amore.
Le due donne ci confermano la condizione psicologica di A alla luce delle reazioni che lui ha con loro: da una parte esalta G e
dall’altra sottostima L. Perché?
Lina mette in difficoltà A – con i suoi 26 anni offre una relazione stabile ed un futuro insieme. Offre cioè un’assunzione di
responsabilità. Ma lui questa presa di responsabilità non la sopporta, il suo habitat naturale è la vaghezza delle opportunità non
ancora realizzate. Un narciso come lui che sogna in grande deve sempre immaginare un altrove, un futuro, nel quale sarà grande.
Non può accettare un’esperienza del presente perché in quanto vissuta ha un perimetro che in quanto tale è sempre troppo piccolo
per un IO infinitamente grande come il suo. Non ha ‘umiltà di stare dentro una situa e dire “questa è la mia vita e la nostra
relazione” – cercherà sempre una via di fuga perché fantastica sempre come un bambino su altro. A lui interessa avere donne che lo
esaltano (conferma di onnipotenza) ma non è la persona che può volere, perché non può volere nessuno, può solo volere ma non
realmente vivere la situazione.
Quindi A di fronte a Lina è in difficoltà: vuole diventare fanciullo, ma lei è la concretezza, lei gli offre di circoscrivere la propria
identità.
Giannetta è perfetta per uno come lui. Non conta che lui aveva 18 anni e lei 33. E’ la ragazza di cui si è sentito più attratto. La sua
descrizione è molto tenera, l’unica donna con cui ha momenti di tenerezza (p. 50). Nel rapporto con lei (specchio del rapporto con
L), p. 157, lui dipende da lei proprio. L’inafferrabile G gli piace tanto proprio perché lei non lo mette mai nel ruolo del compagno
stabile, gli permette di avere la sensazione che ogni volta è la prima e ogni volta è l’ultima.
Non chiude mai il perimetro della relazione, incontri singoli che non costituiscono una collana di incontri = no perimetro chiuso di
relazione. Del resto è lui, in un lampo di consapevolezza, che lo dice, p. 155. Avere 1 compagna stabile significa limitare la propria
grandiosità.

Veniamo al finale
E’ la valle verso la quale tutto il romanzo fin dall’inizio precipita. A differenza di quanto si crede, il finale non è l’estrema protesta del
popolare A che come figlio del popolo si oppone a diventare un grigio milanese; piuttosto il suo punto è l’ennesima sconfitta sofferta
da un IO impaurito che non è disposto a mettersi in gioco. Tutto il romanzo è la preparazione di questo atto mancato =
apparentemente involontaria incapacità di qualcuno di compiere il gesto che vorrebbe compiere. Psicologicamente significa che non
siamo riusciti perché in realtà non vogliamo farlo. Volontà solo apparente.
A fa di tutto per scongiurare l’assunzione che gli avrebbe consentito/imposto l’ingresso nell’età adulta = quindi qualcosa di
circoscritto, identificarsi con un’identità del lavoro.
Significativo della sua grandiosità è la sua reazione, è un grande momento di scrittura – riesce attraverso la parola a restituire il pov
di A facendo arrivare le parole arrabbiate del capo come se fossero filtrate e confuse. Quindi rende la percezione di A da ubriaco che
non ha chiuso occhio. E’ un momento quasi cinematografico.
Ma come reagisce? Il suo ego ricomincia a sognare le solite reazioni psicologiche che lo tutelano dal fallimento, conservano intatto il
sentimento di grandiosità. Perché di fronte a questo capo A non reagisce chiedendo scusa o tentando di contrattare, p. 206 – dice
che non gli importa di fronte alla sua morte sociale. Il suo tentativo è quello di reagire ancora con un senso di grandiosità fronte ad
un rifiuto: la mette sulla forza fisica invece di farsi ascoltare ed invadere dalla responsabilità di ciò che ha fatto.

Se siamo dunque di fronte alla morte sociale allora TR è un bizzarro rito funebre, una via crucis di un ragazzotto che non a caso come
Cristo a 33 anni. Vive la sua morte, questa notte è il suo funerale. Il licenziamento è il momento in cui comprendiamo che non ce la
farà mai.
Non a caso l’ambientazione è vicino a Pasqua.
Fa di sé stesso l’agnello sacrificale. Ma non c’è risurrezione.

Ma la vicenda poteva chiudersi lì. Però S ci ha messo un’appendice (gratuita = molto importante). Una volta licenziato vediamo che
telefona Lina dai telefoni pubblici ma risponde la madre (1° problema) e (2° problema) la comunicazione non va, quindi il trucco del
colpo di mano non funziona. p. 206-207.
In pochi gesti in questa chiusa c’è tutto lo stile esistenziale: la propria grandezza (ancora l’audacia di esibirsi in una furbata giovanile
di non usare il gettone e di nuovo fallisce). La telefonata è interessante, corre da chi fomenta la grandiosità, come un drogato corre
da Lina. Altra sconfitta: risponde la suocera che lo guarda con grande sospetto, incarna la milanesità operosa. Allora non resta che
rifugiarsi in casa, solo lì in questo autoesilio, dormendo (assenza di vita), può trovare consolazione.
A = infila un fallimento dietro l’altro e quando non ha più dove trovare un minimo di consolazione di sé si chiude in quella camera al
di fuori della vita che è il suo nido – interrompe la vita. Ma L – e si capisce dall’ultima frase – non cambierà mai e continuerà ad
avere le sue brame di successo.
Ma allora adesso il lettore sa che lui mente e mente innanzitutto a sé stesso.

LINGUA
Personaggio silenzioso con gli altri che però genera una cascata mentale, ma con che lingua? E’ una simulazione dell’oralità, i
pensieri sono come le parole pronunciate. La sfida è trasformare il pensiero in parola colloquiale. Anche migliore di quella di T. Da
questo romanzo si ricavano molte parole del gergo giovanile milanese del tempo.
1. simulazione oralità = ognuno ha la sua oralità. Mette in scena la lingua vivace di un MI poco scolarizzato (2 volte bocciato poi
mollato, fino alla 5, forse l’avviamento) che frequenta giovani e meno giovani appartenenti al sottoproletariato urbano. Infatti
troviamo amalgamato:
a. ita popolare
b. dialetto milanese
c. elementi del gergo giovanile
d. gergo malavitoso
C’è proprio una chiara corrispondenza tra la formazione sociologica di A ed il suo corrispondente linguistico.
Una certa originalità per sintassi e punteggiatura.

C’è un testo in bibliografia di Scholz che si occupa di studiare la lingua di TR. Mette l’accento sull’oralità popolare di A:

Oralità poco controllata.

Ma manca qualcosa in ciò che dice Scholz – la caratterizzazione stilistica del parlato di A non è impostata in senso unico sulle varietà
oraleggianti. Ci sono anche modalità espressive tipiche sue che non hanno a che vedere col fatto che sia un dialettofono poco
scolarizzato.
Ha anche tratti di originalità, non quelli di ricercatezza del DDR per la verve forale di T. Qui il narratore non può usare l’escamotage
di alzare il livello; ma c’è una caratterizzazione stilistica = tornano elementi che hanno poco a che vedere col dialetto e con la
popolarità oraleggiante.
La prima cosa che si nota:
- tanti alterati (accrescitivi e diminutivi) p. 9 – caricatissimi, testone, spaesatella etc. Queste scelte vanno d’accordo col tono ironico e
giovanilistico di A. E’ il linguaggio di un’eterna ironia. Strumento attraverso il quale S fa parlare un ragazzotto.
- iperboli (esagerazioni) p. 10 – deserto delle due di notte, crepa di salute, fa il farmacista (ne versa poco) – sono usi che danno
l’accento del finto gradasso. Esprimono l’enfasi con cui A vede il mondo e sé stesso.
- elenchi – A ha una capacità lessicale non comune in un sottoproletario non scolarizzato. Usa serie di aggettivi o frasi o sostantivi uno
affianco all’altro quando descrive qualcosa. Sul piano orizzontale/sintagmatico è piena, una cascata che corre sempre. Ed il
sentimento del parlato che non si ferma mai S lo rende non facendolo mai stare zitto. p. 11.
- non è piatta e ripetitiva – A ha delle grandi capacità. P. 12 “finestrella magra” “spavento vuoto”, “soluzioni dolci” = matrimonio (p.
16), (p. 20) “furbo coraggio”, “una bionda spaurita, piatta”, (p. 56 a proposito del meridione) “lurida bastarda ballerina”. Forse si
perdono dentro il flusso delle parole ma c’è proprio un’aggettivazione a volte ricercata e molto peculiare.
La letteratura, anche quando vuole simulare la lingua di A – quindi in teoria orale e sciatta e ripetitiva – può spingersi molto avanti
però si deve fermare perché deve essere anche bella e dare piacere, non può essere un documento dei pensieri dei personaggi.

Infatti A è molto bravo nei ritratti. Belli sono quelli della nonna di Lina (p. 20) e della madre (p. 18), di Pieromamma (p. 70-71) e della
Pinun (p.38-39).

TR è costellato di brani anche comici come la descrizione della Pinun, tuttavia S non è un narratore umorista. Tra i suoi obiettivi c’è il
nucleo oscuro dei romanzi, in cui nel nostro caso i pilastri sono la frustrazione, la rabbia, l’impotenza del protagonista.
Anche S si è espresso in questi termini “le mie opere sono gonfie di disperazione”.

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