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“IL POSTO” lezione 15 e 16 e 17 – rivedendo il film segna le scene più significanti

Lingua originale italiano

Paese di produzione Italia

Anno 1961

Durata 93 min

Dati tecnici b/n

Genere drammatico

Regia Ermanno Olmi

Soggetto Ermanno Olmi

Sceneggiatura Ermanno Olmi

Produttore Alberto Soffientini

Casa di produzione Titanus

Distribuzione in italiano Titanus

Il posto è un film del 1961 scritto e diretto da Ermanno Olmi.


Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, ottenne il Premio della critica e diede notorietà internazionale al suo autore, alla sua
seconda regia cinematografica.
Selezionato tra i 100 film italiani da salvare[1], nel 2001 il Bellaria Film Festival (al tempo denominato Anteprimaannozero) ne ha
celebrato i quarant'anni.

Trama

«Per la gente che vive nelle cittadine e nei paesi della Lombardia, intorno alla grande città, Milano significa
soprattutto il posto di lavoro.»

Nel pieno del boom economico dei primi anni sessanta, un ragazzo di Meda, Domenico, partecipa ad una selezione di lavoro presso
una grande azienda di Milano. Vive questo impegno con particolare apprensione a causa della famiglia, che si aspetta da lui che
riesca ad ottenere il posto fisso con cui sistemarsi per tutta la vita.
Nel corso delle prove a cui viene sottoposto con gli altri candidati, conosce Antonietta, che si fa chiamare Magalì; il ragazzo trascorre
del tempo insieme a lei e tra i due nasce una timida intesa, fatta di sguardi silenziosi e sorrisi. Vengono assunti entrambi, ma poi
assegnati a sedi diverse: lei al reparto dattilografia, in sede centrale, lui al reparto tecnico, in una sede distaccata, e lì, in attesa che si
liberi un posto da impiegato, deve accontentarsi di lavorare come fattorino. Ostacolato dai turni differenti, Domenico spera di
riuscire a rivederla almeno al veglione di Capodanno organizzato dal dopolavoro aziendale, ma lei non si presenta.
La morte di Portioli, un impiegato, infine libera il posto per lui, che può sistemarsi alla sua scrivania, in fondo ad uno stanzone in
mezzo ad altri colleghi, indifferenti o addirittura ostili verso il nuovo arrivato, che riflette sulla vita che lo attende. Il lavoro non gli
permetterà di lasciare il letto sotto la finestra della casa di ringhiera, mangerà la pastasciutta scotta della mensa, e avrà nelle
orecchie il rumore del ciclostile.

Produzione[modifica | modifica wikitesto]
Gli attori protagonisti erano non professionisti, e nel ruolo di uno dei due esaminatori del "test psicotecnico" appare il critico
cinematografico Tullio Kezich. Loredana Detto, che interpreta il ruolo di Antonietta Masetti, divenne la moglie di Olmi.
I palazzi dell'anonima azienda nel quale viene assunto il protagonista sono quelli della Edison, per la quale Olmi ha lavorato per
buona parte degli anni cinquanta realizzando decine di documentari industriali.[2] Nel film viene anche mostrata piazza San Babila,
sventrata dai lavori per la costruzione della metropolitana milanese. La scena in cui Domenico prende il treno è stata girata
alla stazione di Meda delle FNM.
Commento[modifica | modifica wikitesto]
Olmi descrive con onestà e senso della realtà il mondo del lavoro, in un film che racconta «la presa di contatto di Domenico, ancora
integro nella sua fresca disponibilità e intelligenza, col desolato, intristito, squallido mondo impiegatizio». [3] Non fa dell'esplicita
denuncia sociale, lascia che sia lo spettatore a riflettere su quale sia il prezzo, concreto e ideale, che il giovane dal volto malinconico
e smarrito dovrà pagare per aver conquistato, senza nemmeno troppa fatica, quel posto fisso.
Non si tratta solo di una storia individuale, ma della transizione epocale di un'intera società: «I miei primi film sono storie sulla
povertà ma in cui c'è sempre un po' della storia del nostro paese. Il passaggio dalle società contadine a quelle operaie, o da queste
alla nuova borghesia. Nel Posto lo si vede bene nella casa di Domenico, una cascina in cui non si lavora più la terra ed è diventata
solo un dormitorio per gente che va a lavorare in fabbrica e in città. Tra poco in quelle stalle senza più animali avrebbero messo le
Lambrette e le Seicento».[2]
Per il Dizionario Mereghetti, «un film antispettacolare che, con ironica levità, offre un quadro acuto della condizione piccolo-
borghese nella Milano degli anni Sessanta, con attenzione e simpatia per il giovane protagonista.» (giudizio di tre stellette su
quattro).[4]

2.

Domenico Cantoni è un ragazzo di Meda figlio di operaio che si reca a Milano per il test di assunzione in una grande
azienda. Nel corso delle prove conosce Antonietta Masetti , una coetanea di cui si innamora. Entrambi verranno assunti,
lei come datti lografa e lui, inizialmente, come fattorino. Avranno cioè 'il posto' di lavoro.
Con questo film Ermanno Olmi entra uffi cialmente nella storia del cinema italiano ricevendo il Premio della Critica alla
Mostra di Venezia oltre ad altri riconoscimenti. Il suo primo lungometraggio ha in sé tutto il pudore di un osservatore
partecipe di un mutamento epocale. Rievocando il suo ingresso alla Edisonvolta Olmi non si accontenta di riproporre il
proprio esordio nel mondo del lavoro ma coglie dalla memoria personale ciò che gli è utile per riflettere sul presente.
Molto più e meglio di un saggio sociologico  Il posto sa offrire il ritratto di un'Italia che sta cambiando profondamente. La
cascina di campagna non è più il luogo in cui vivere ma semmai quello in cui tornare a sera prefigurando quel
pendolarismo che Olmi descriverà più di vent'anni dopo come un abbrutimento esistenziale in  Milano '83 . La grande città
è il luogo in cui fervono i lavori per la linea 1 della Metropolitana e in cui si può cercare e trovare quel 'posto' che offra
una parvenza di riscatto sociale. Ma il regista sa che il prezzo da pagare è alto e ce lo dice, come un Gogol malinconico,
tratteggiando le figure degli impiegati sia in azienda che nel privato e offrendo al nostro sguardo quello, smarrito, del
suo protagonista. Domenico cerca un senso negli esami psicotecnici (uno dei due esaminatori è Tullio Kezich) e lo trova
altrove. Perché è l'incontro con Antonietta (che si fa chiamare Magalì) che gli fa sembrare Milano meno fredda e
distante. Ci penserà l'azienda ad allontanarli sistemandoli in due diversi settori collocati in edifici separati. La festa di
Capodanno (che era stata già proposta da Monicelli  in Risate di gioia  come uno dei 'luoghi' in cui concentrare tutti i
malesseri di una società) sarà l'occasione per mostrare un variegato microcosmo in cui Domenico si trova costretto a
fingere un'allegria che non prova. Allegria che invece colse Olmi che in Loredana Detto (interprete di Antonietta) trovò la
donna che diventò sua moglie. 

Un provinciale viene a Milano sperando di ottenere un posto di lavoro in un grande complesso industriale. Ci riesce, ma
non è che un usciere. Conosce una ragazza e l'invita alla festa del Cral aziendale. Lei non si presenta. In compenso muore
un impiegato e il giovane lo sostituisce.

Un ragazzo di Meda (MI), figlio di operai, s'accinge a trovare un posto di avventizio in una grande azienda milanese.
Un'ora e mezzo per una storia così esile? Eppure non si hanno né divagazioni né indugi. Tutto si tiene. Dopo i capitoli
leggeri e lirici della 1ª parte (l'idillio del protagonista con una coetanea: è L. Detto che diventerà moglie di Olmi e madre
dei suoi figli) si affronta il tema centrale: la presa di contatto di Domenico (un S. Panseri paragonato a Keaton giovane),
ancora integro nella sua freschezza di adolescente, col desolato e triste mondo impiegatizio. Che prezzo dovrà pagare
per il posto, per il lavoro? 2° in ordine cronologico, è il 1° vero film lungo di Olmi a livello produtti vo, e gli diede
notorietà internazionale. Premio OCIC a Venezia e David di Donatello (regia).

A inizio film si legge:


- Il posto – XXII mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia 1961. Premio della
critica, premio O.C.I.C., premio città di Imola, Coppa 1961.
- Per la gente che vive nelle cittadine e nei Paesi della Lombardia, intorno alla grande città, Milano significa soprattutto il posto di
lavoro.

Lezione 16 – 2 novembre – IL POSTO (1961) di Ermanno Olmi


Un film come questo sono tutte opere che trattano di faccende con le quali siamo inevitabilmente a contatto; sono anche esperienze
di tipo artistico-culturale che probabilmente non faremo, quindi anche la proposta di Olmi significa sapere che ci viene proposto
qualcosa che è proprio lontano da noi, dalle nostre corde e gusto. Però c’è da educarsi alla capacità di avere un rapporto di
comprensione, interpretazione con esperienze espressive che apparentemente ci sono lontane.

Film lento, quasi senza trama, senza suspense, in bianco e nero – tutti elementi distanzianti -. Proporre qualcosa che ci fa sentire lo
shock della distanza, nella speranza di essere in grado di colmare la distanza con le coordinate che sono dette qua e il nostro lavoro.

Partiamo con una domanda: Non è venuto in mente a qualcuno, vedendo il film, un autore della parte monografica?
Vi è un autore che si è occupato di questioni che in un certo senso, anche in maniera estremamente diversa, emergono anche nel
film di Olmi.
Chi può essere?
- Marotta = perché racconta del lavoro vissuto a MI, dell’amore vissuto con
Antonietta/Magalì.
Ci sono si sovrapposizioni tematiche e ambientali, anche se con rispetto a Marotta possiamo misurare soprattutto le distanze.
A proposito del lavoro, l’atteggiamento di Olmi è opposto rispetto a quello di Marotta.

- Benjamin
La scena in cui i due corrono per strada e ci sono le macchine che li dividono. Antonietta non sa come agire di fronte alla velocità
delle macchine. Quindi shock urbano.
Shock dell’amore = (definito come un amore fugace. All’inizio si vedono sempre, poi mai. E’, come nei testi di Boudleire, solo una
passante, non un elemento che rimane nella quotidianità di Domenico). Così come nel testo di Boudleire recuperato da Benjamin, e
che noi attraverso gli occhi di Benjamin abbiamo letto, la folla metropolitana consegnava questo amore all’IO lirico, allo stesso modo
la grande azienda metropolitana urbana e modernissima milanese consegna a Domenico la visione, l’incontro e l’amore nascente di
Antonietta. Ma così come la folla porta via all’io lirico boudleariano quella donna (folla per definizione anonima e inconoscibile), allo
stesso modo il lavoro nella grande azienda rende per Domenico irrecuperabile o quasi Antonietta, che ormai sta in un’altra sede, con
un altro ufficio, altri amici, altro turno in mensa e per di più, dopo averlo sollecitato, in quella festa dell’ultimo dell’anno lo bidona.
Ma quel bidone deriva dal distacco che si era creato, lei è anche un po’ risentita quando casualmente lo incontra fuori dal suo ufficio
da dattilografa e gli fa notare “ma dove sei finito?” e lei sembra non voler capire le difficoltà che lui doveva affrontare per ritrovarla
dentro un’azienda così grande nella quale entrambi sono appena stati assunti e che quindi non conoscono. Quindi c’è l’idea della
metropoli che da e della metropoli che sottrae. La metropoli che offre sogni e che li può trasformare in un incubo (qui incubo di
assenza).

Lo shock metropolitano anche = i protagonisti quando escono dall’ufficio sono assaliti e shokkati dalla città. Da cosa? Da due
elementi fondamentalmente:
1. i rumori assordanti del traffico, della metropolitana in costruzione (San Babila – linea rossa
alla fine degli anni ’50); la MI che cambia e che distrugge tutto per rinascere più moderna di prima. Olmi intercetta bene con la
strumentazione filmica questo elemento: la scena in cui si trovano sopraelevati rispetto i lavori, affianco ci sono due anziani che
parlano in dialetto – il vecchio dice “io vivo qui sopra e vedo cosa fanno, continuamente dei rumori, distruggono” e così Olmi
dichiara uno dei volti tipici della MI del 2° dopoguerra – quello di rinascere continuamente dalle proprie ceneri.
E’ significativo che a dirlo è un anziano e per di più in dialetto = in questo modo la contrapposizione tra modernità italiana-europea
incarnata nella metropolitana (mezzo di locomozione della modernità per eccellenza, più moderno è solo l’aereo). Sono i due poli
opposti: tradizione-antico e moderno rivoluzionato che cambia il volto della città.
Poi c’è la questione del traffico automobilistico: la sequenza in cui Magalì, milanese, non riesce ad attraversare la strada. Quanto più
sul piano narrativo un elemento è gratuito/superfluo (non c’era bisogno di avere una sequenza del genere), tanto più significa che il
regista/autore ci tiene (lo butta dentro perché non conta tanto lì l’avanzamento della trama ma il significato). E questo è proprio lo
shock metropolitano di Benjamin.
In quella confusione disumana non riesce nemmeno a fare pochi metri. Pasolini = uomo come abitante per 14.000 anni della
campagna e poi all’improvviso, nel giro qui di 1 max 2 generazioni si passa da una cittadina ad una città nella quale anche solo
compiere un gesto naturale come attraversare la strada diventa un’impresa. Il poemetto in prosa di Boudleaire “perdita d’aureola” –
il protagonista è un poeta – alter-ego di B - con l’aureola (corona d’alloro d’eccellenza poetica, come quella di Petrarca) che
attraversando una strada parigina nella metà dell’800 (traffico delle carrozze) deve fare un balzo improvviso per non venire
schiacciato e perde la sua aureola.
E’ un discorso sul senso della poesia nella città moderna, qui invece il discorso è quello dello shock metropolitano – condizione così
disumana che non si riesce nemmeno a percorrere pochi metri-.

Gli anziani poi sono quelli che hanno un’interazione con Domenico più semplice: la signora che gli da la mano (anche se un po’
strana), quelli alla festa di Capodanno che lo invitano al loro tavolo (anche se forse volevano bersi la sua bottiglia di champagne),
l’anziano che quando stanno andando in gruppo a fare l’esame lo ferma per chiedergli cosa stessero facendo.
Sono interazioni umane molto semplici e diretta.
Mentre quando invece il rapporto è tra Domenico e gente più anziana, è più anonimo – come quando si beve il caffè: arrivare al
bancone, buttarsi in mezzo alla gente e uscirne con ancora il caffè in tazzina con la gente che sgomita è una situazione proprio
opposta.
E dunque gli anziani in questo film svolgono la funzione di antica socialità non ancora disumanizzata.

Ci presenta le due ITA Olmi:


1. quella che stava morendo
Quella degli anziani, di Meda (cittadina oggi città, nell’Interland milanese) che nel ’61 era ancora campagna. La casa di Domenico è
una casa di ringhiera prospicente ad una cascina, tipica abitazione di un gruppo di contadini che vive vicino al luogo di lavoro per
andare a lavorare nei campi attorno.
Più che periferica è proprio campagnola.
2. quella che stava nascendo
Delle vetrine, dei trasporti veloci, del lavoro impiegatizio contrapposto a quello contadino. La grande azienda che ti fa l’esame
psicotecnico: si insiste molto su questo psicotecnico. Si ricordi il vecchio che alla risposta “un esame per il lavoro” – per lui è
inconcepibile che ti facciano un esame per il lavoro, il mondo del vecchio non è ancora quello della selezione del personale, delle
risorse umane; per lui il lavoro è fatica, non serve un esame. E invece la prova psicotecnica è l’emblema della modernità.
Un altro emblema delle due ITA è Domenico che esce di casa la mattina insieme a suo fratello, sta andando alla stazione dei treni,
deve andare a MI. C’è un carro trainato da animali che lo supera e poi il carro a sua volta viene superato da un furgone (quindi
automezzo) che supera il carro e il fratello più piccolo riesce a salirci per muoversi più velocemente.
Quindi nuova ITA a motore che supera la vecchia ITA che andava a forza animale o umana.

Il punto è: che cosa c’è sotto la superficie luccicante? La sensazione è che secondo Olmi sotto la superficie superspecializzata e
moderna dell’esame psicotecnico della grande azienda, degli acquisti, vetrine e vestiti c’è qualcosa di non meraviglioso. Per
esempio, il lavoro impiegatizio nell’azienda è presentato come il massimo che può capitare (posto sicuro, azienda grande, uffici
moderni, ingegneri, segretarie devote, lavoro scandito con precisione). E’ un clima molto moderno nel quale vige la massima
professionalità e serietà.
Quindi proprio il mito della MI moderna capitale economica d’ITA, la città più moderna ed economicamente forte d’ITA nel bel
mezzo del boom economico.
L’immagine tipica è proprio quella dell’ingresso principale dell’ufficio, nel quale passa un paio di volte Domenico, un po’ impaurito.

Incombe un grosso “però” perché sì esiste un’immagine potentemente moderna e laboriosa di questo mondo milanese
professionale però poi entrando dentro attraverso la narrazione del film e vediamo da vicino che cosa c’è negli uffici, chi sono le
persone che ci lavorano, che comportamenti hanno e gli atteggiamenti tra loro – ci rendiamo conto che tutta questa luccicante
modernità infine replica dinamiche che sono sempre quelle: gerarchizzazione forte dentro questi uffici. Ad esempio, il 1° giorno in
cui Domenico si presenta alla sede della direzione tecnica c’è l’ingegnere che gli dice che non hanno bisogno dell’impiegato ma farà
il fattorino per un po’, arriva una umilissima donna che presenta il certificato per il ritardo e l’ingegnere la umilia, ignora le necessità
familiari della donna, dicendo che i suoi figli sono grandi e che si devono arrangiare, e che quindi lei non ha più il diritto di arrivare
tardi. Quindi ecco una forte spersonalizzazione e disinteresse. Prima dicevamo di Marotta – si pensi a come lui rappresenta il lavoro:
noi qiu abbiamo una dipendente che si presenta dal capo in uno stato di necessità e nel modernissimo ufficio viene umiliata; in
Marotta che ambienta i racconti qualche anno prima, quando va dal suo capo e il capo Cantini glieli anticipa, per un lavoro che non si
sa neanche se il protagonista farà mai. Quindi si vede come tutto è cambiato.

Magalì, impaurita dalla reazione che poteva avere la sua signorina (coordinatrice, zitella) rientra, rinuncia all’incontro nel corridoio
con Domenico e di fatto non lo vedrà più.

Quindi sotto questa patina luccicante c’è della problematicità.

Lavoro come gabbia – vedi pensionato che non riesce ad andarsene e torna ogni giorno.

Si pensi al posto di lavoro di Domenico. Marotta ha la coazione al lieto fine. Qui c’è un lieto fine? La realizzazione del sogno di
Domenico? Sembrerebbe così. Non può studiare (desiderio iniziale) però fa centro: da Meda entra dentro il lavoro di una grande
azienda milanese, proprio quello che la sua famiglia voleva per lui e ciò che anche lui ad un certo punto ha iniziato a desiderare.
Potrebbe essere considerato come un finale agrodolce ed aperto. Nessuno ci dice niente di esplicito, ma si spinge molto avanti
nell’avere delle risposte. Anche senza avere l’aspettativa di conoscere il resto della traiettoria esistenziale di Domenico, possiamo
dire qualcosa sul posto di lavoro tanto desiderato, perché lo vediamo. Possiamo dire cosa vediamo e cosa anche leggiamo nei suoi
occhi che costituiscono l’ultima scena del film.

Fattorino = Ma in fondo anche la sua non è alienazione? L’alienazione operaia è il perdersi nel fare ciò che si fa quotidianamente.
L’operaio si disumanizza nel rapporto con la macchina.
Quel fattorino è sì un po’ una macchietta italiana, ma in fondo il suo rapporto con il lavoro è sulla difensiva: l’obiettivo è non
lavorare, tutto è un fastidio e per Domenico quello è un apprendistato a perdere sé stesso lavorando = non c’è infatti nessuna forma
di investimento, di passione, di partecipazione all’interno del lavoro. Da questo pov fattorino e impiegati non sono così diversi,
perché il filo rosso che li unisce è la disumanizzazione dei rapporti: il fattorino lì dentro odia tutti e allo stesso modo gli impiegati si
odiano tutti tra loro. Che poi il fattorino sia di una classe sociale più bassa, e quindi mantenga una simpatia, veracità, verve popolana
più schietta questo è vero, sembra meno imbruttito e cupo; però non è che sul piano professionale sia più sano degli impiegati,
sembra malato a sua volta.

Il gesto di Domenico di abbassare la lampada alla fine è come se fosse una condanna del regista alla problematicità che l’alienazione
impiegatizia genera. C’è un po’ di Fantozzi nella scena finale, di questi operai persi nel lavoro, per cui qualsiasi elemento può essere
motivo di molestia, nevrosi e ossessione. Ingenuo e sano Domenico campagnolo si limita con un gesto a risolvere un problema che
forse ha rovinato per 20 anni la vita di un altro impiegato.
Il film finisce così perché Domenico muore lì, avrà forse quel lavoro per sempre.
La partita tra Domenico e l’azienda la vincerebbe l’azienda, passando lì del tempo l’azienda e il suo ambiente lo trascinerebbero. Ha
già la tendenza a farsi trascinare dall’onda, per il cappotto con gli affarini che piace a Magalinè per esempio. Anche se attualmente
Domenico ha ancora una sanità popolare/campagnola forse che lo salva.

Lo sguardo finale di Domenico è quello che dice “sono fottuto”. E forse nemmeno lui sempre rendersene conto, le sue emozioni
precedono la sua capacitò di comprendersi, dagli occhi gli esce quest’emozione.

cinghia rubata dal fratello = risentito perché ha dovuto rinunciare agli studi per lavorare e lasciare questa strada al fratello.
scena della cartolina = nessuno mi vedrà mai più quando sarò in pensione – non vuole tornare perché quel posto lo odia.

Fattorino = modo in cui un rappresentante del popolo di mezza età può porre a quel tipo di lavoro in un’azienda. Cioò quel fattorino,
con il suo disamore per l’azienda in fondo si è costruito una corazza difensiva. Forse lui non è un maestro di alienazione, è anche uno
che si è costruito un muro di cinghia per tenere fuori l’azienda. Quindi lui è proprio il contrario dell’uomo che continua ad andare a
lavorare anche quando è in pensione, perché il fattorino con la sua sanità popolana forse non ha accettato la narrazione dell’azienda
grande famiglia alla quale devi essere devoto. Quindi si può dire che anche il fattorino avrà la sua alienazione, il suo perdersi a causa
del lavoro, però ha anche degli strumenti di difesa: il suo cinismo e disinteresse per il lavoro sono qualcosa di molto poco moderno.
Noi abbiamo la religione del lavoro. Alla narrazione dell’azienda lui non ha creduto (al contrario degli impiegati), e il bacio della
moglie che arriva solo quando arriva lo stipendio.
Gli impiegati si lamentano con il ragioniere perché si aspettano che le cose fatte dall’azienda siano fatte bene, il fattorino non se lo
aspetta affatto.
E’ come se il fattorino desse dei segnali di avvertimento a Domenico. E’ una figura che ha una sua interezza.

Domenico vecchio? Domenico è l’ITA che passa dal vecchio al nuovo. Quindi serviva qualcuno che fosse molto dentro il nuovo
(giovane che cerca un posto nel mondo) ma che allo stesso tempo fosse portatore della modalità di vita tradizionale vigente fino a
pochi anni prima. Quindi incarna le due identità dell’epoca.
Altri valori antichi = ingenuità, tenerezza (sono propri di Domenico).
E’ l’ITA in trasformazione.

Siamo di fronte un protagonista che senza rendersene conto sta faticosamente lottando per integrarsi in una realtà metropolitana.

Scena in cui la madre compra un cappotto al figlio “perché va a lavorare” – tipico atteggiamento della classe popolare che si
permette una spesa soltanto se le condizioni pratiche lo permettono e richiedono. Dobbiamo vestire questo figlio in modo che sia
presentabile in città. Il nuovo cappotto serve a travestire da impiegato questo popolano, il proletario da piccolo borghese (come
direbbe Bourdieu). Quindi la realtà richiede questa spesa e la madre lo accetta.

Il ritmico frastuono della fotocopiatrice della scena finale = entra quasi nella testa degli impiegati, definisce una disumanizzazione.

Pensiamo al finale.
Il finale è il tentativo raffinato ed implicito con il quale Olmi ripete quello che dice per tutto il film. Alza il velo sotto il luccichio della
città per far vedere cosa c’è sotto.
Cosa c’è sotto la modernità professionalizzante degli uffici delle grandi aziende che chissà cosa producono? Non conta di cosa si
occupano, contra l’apparenza, la struttura. La prova psicotecnica – erano due sciocchezze – era semplicemente l’etichetta che è
cambiata, è una copertura ostentatamente moderna per coprire dinamiche che nella loro negatività sono rimaste tali e quali. Per
esempio, il posto in cui alla fine va a lavorare, raggiungendo l’obiettivo della sua vita, più che una grande azienda del ’61 nella
capitale economica, sembra una scuola ottocentesca.
Quindi da fuori l’azienda ha quella scala tutta moderna e trasparente (moderna architettura d’interni), però poi di fatto dove si
lavora sono dei tristissimi corridoi, degli uffici ottocenteschi.
E poi ancora sotto la modernità luccicante ci sono dinamiche relazionali molto disumane. Si pensi a come M presenta il mondo del
lavoro e come è presentato lì. Vediamo degli impiegati persi dentro dei lavori che sembrano non avere significato, stanno lì
continuamente a scrivere su fogli, ma a noi non è dato neanche capire cosa l’azienda produce e quindi loro cosa fanno. Quindi
sembrano dei manichini persi dietro attività delle quali nemmeno loro in fondo sembrano essere consapevoli.
Anche in questa condizione super-moderna l’obiettivo sembra quello di farsi le scarpe l’uno con l’altro.

Cosa vince in questi uffici? L’egoismo individuale.


Prima gli anziani venivano trattati con un certo rispetto, avevano già vissuto la vita e quindi ne sapevano di più. Ma essendo poi che
la vita è cambiata molto velocemente, i loro consigli non servono più. Padri e nonni perdono autorevolezza e quindi capacità di
consigliare nel momento in cui la vita corre e cambia così tanto che il figlio non sa più cosa farsene delle indicazioni degli anziani.
Quindi non si tratta di rispetto dell’anziano, ma di egoismo individuale, anzi ancora non è rispetto degli anziani perché lui (l’anziano)
è all’ultimo banco e viene comunque superato dagli altri.
Olmi ci fa vedere che le dinamiche di egoismo, autoreferenzialità, di uno contro uno, in quel contesto vengono addirittura
enfatizzate. Quindi sotto la modernità quello che si vede sono resti di vecchiume (contesto ottocentesco) e degli egoismi umani che
quella super-azienda, con la sua gerarchizzazione tremenda (ingegnere, ragioniere, segretaria, impiegato, fattorino etc) gli egoismi
individuali sono esacerbati ed aumentati. Non c’è più il paternalismo di un tempo (vedi Marotta) in un’azienda in cui tutto è deciso
dall’alto e ognuno deve stare al suo posto i rapporti si sono spersonalizzati. Non conta più la persona, ma il ruolo. E contro un ruolo
si può anche lottare, l’essere umano non c’è, sono delle funzioni, quindi io voglio la scrivania davanti perché c’è più luce e non mi
importa che ci sia un altro essere umano in gioco.

E poi c’è il morto, un altro gesto narrativo gratuito e quindi tanto più significante. Perché muore? Si suicida? Non sembra essere
malato né assassinato.
Quel morto ha una strana caratteristica: scrive la notte, il ragioniere mentre porta via le sue cose legge “capitolo 19” (sarà un
romanzo?). Sembra portatore di una sensibilità ulteriore. Domenico prende il suo posto.
Cosa dice questa piccola parabola discendente del personaggio? Noi abbiamo questo personaggio con una verve creativa, quindi
dotato di profonda umanità (creatività = umanità, Sartre = creare qualcosa che non c’era è l’atto più umano che ci sia).
Lui non smette di creare al di fuori del lavoro di cui ha bisogno per mantenersi. Però muore, forse si suicida. Viene considerato
strano persino dalla padrona di casa perché tiene la luce accesa, dai colleghi. Cioè? Lì dentro, in quella dinamica dell’azienda, non c’è
spazio per l’essere umano che dichiara una propria umanità, inevitabilmente è cancellato o si auto-cancella per disperazione.
E allora l’ingresso di Domenico al suo posto – posto di un morto che si è suicidato per essere portatore di umanità, non si poteva
piegare a quella disumanizzazione. Di tutto ciò lui non sa niente, perché sin dall’inizio è il più ingenuo dei personaggi e proprio per
questo verrà travolto da questa modernità nel cui cuore (MI) si è trovato e nel tempo in cui vive (boom) – è come se fosse seduto
sopra il vulcano.
Mantiene una qualche umanità alla fine, in quanto antico conserva un’umanità, le sue antiche emozioni sentono che verranno
spazzate via e quel suo sguardo è il più azzeccato per dire di una consapevolezza che non c’è e però anche una perplessità sottile che
le sue emozioni che gli dicono che sta per cambiare tutto, il vulcano sta per esplodere.

Manca la spiegazione del perché è stato scelto questo film per introdurre la Ragazza Carla, e manca anche la discussione di un altro
film più breve (cortometraggio).

Lezione 17 (prima parte) – 4 novembre – IL POLLO RUSPANTE


Sta dentro 4 cortometraggi – RO.GO.PA.G sono le iniziali dei registi (Rosselini, Godàr, Pasolini, il nostro di Ugo Gregoretti.
Gregoretti ha lavorato molto per l’intrattenimento televisivo.

E’ un capolavoro di restituzione del periodo del boom economico.


I due film stanno bene in sequenza, perché il pollo (del ’63) e vede bene delle dinamiche poi viste realmente molti anni dopo, è il
destino del posto. La vita di Domenico da adulto si candida ad essere la vita del padre del pollo ruspante. Raggiunti i 40-45 anni, la
vita di Domenico potrebbe essere quella.
Il pollo è quasi profetico, anche se è solo di due anni dopo.
E’ significativo vederli in sequenza, immaginando che D potrebbe essere il protagonista del pollo.

Il posto – il pollo ruspante – la Ragazza Carla.


Ecco, il pollo potrebbe essere una piccola deviazione anche se possiamo intendere il capo-famiglia come un possibile futuro-
Domenico.
E’ del ’63 – è un annus mirabilis, anno meraviglioso nell’ambito della cultura italiana. Sul piano letterario (un po’ di più) e
cinematografico escono opere eccezionali. CI sono dei periodi storici in cui gli anni corrono come i mesi e succedono tante cose
importanti e poi invece ci sono dei periodi (un po’ come il nostro) in cui si apre un rallentamento potente del tempo ed in cui le
opere importanti sembrano essere poche.
’63 – esce “otto e mezzo” di Fellini. Escono anche libri di fantastici autori.
Esce anche RO.GO.PA.G – film collettivo di 4 cortometraggi.
Quello di Rossellini e Godàr – due registi – non ci interessano. Quello di Pasolini, la ricotta, è un capolavoro.
Il nostro più piccolo capolavoro ma più significativo per molti aspetti è il pollo ruspante di Ugo Gregoretti (morto pochi anni fa).

E’ un cortometraggio profetico.
E’ un Domenico che ha raggiunto la stabilità economica, ha messo su famiglia, si è fatto riempire come sembra iniziare lo stesso
Domenico (caffè, moto, trench etc). Questo è una sorta di upgrade = tv, automobili, seconde case.
E’ venuto meno l’ingenuità di Domenico, ancora sano evidentemente e ci fa un po’ tenerezza.
Il padre famiglia è invece già completamente dentro la dinamica del consumismo.
Il consumo che degenera = consumismo, la dipendenza dall’acquisto e l’identificazione della propria soddisfazione personale con
l’acquisto di beni voluttuali.
Il boom economico = cresce più la necessità di beni voluttuali, l’ITA diventa un Paese consumista.

Nel ’63 il pollo registra con enorme attenzione questa dinamica. Di cosa si riempie il cuore dell’uomo diventato consumatore? Di
insoddisfazione, l’inseguimento costante della soddisfazione attraverso l’acquisto di beni materiali è un susseguirsi di soddisfazione
raggiunta nell’acquisto e di insoddisfazione perché scatta un nuovo desiderio e così via.
Ex. compra la tv e poi subito, nella stessa tv, il topo gigio, gli spiega che la sua tv è già vecchia. E’ di nuovo infelice e vuole la nuova
tv.
Ex. Ha l’auto, il 1100, vuole il 1800, il modello superiore.
Ex. Ha un appartamento, sta bene, ma vuole la seconda casa. E poi scatta l’insoddisfazione perché qualcuno ha la seconda casa più
grande.
E’ un andamento di desideri che nascono e di sentimenti anche questi sull’ottovolante.
Felicità istantanea = infelicità molto costante.

Cosa aggiunge ancora il pollo?


Una feroce critica perché registra il fatto che dietro a questa dinamica del consumo c’è una precisa strategia di marketing. Nasce
questa disciplina che determina le nostre vite ancora oggi. Come si fa a trasformare dei contadini in consumatori, degli esseri del
bisogno in esseri del desiderio o più precisamente come si fa a girare a vantaggio del consumo lo statuto dell’essere del desiderio
che ha sempre caratterizzato l’essere umano che allora forse mai è stato essere del bisogno che si accontenta sempre di quello che
ha come un animale.
Ecco il marketing = strategia del dominio dei desideri dell’uomo, sollecitazione ed enfatizzazione di questi.

Il consumismo si vede nella scena dell’autogrill = i bambini che prendono i giochi e il padre che glieli prende giusto per farli stare
buoni. Poi cade anche lui con la moglie nella trappola.

Dibattito.
E’ più distante il posto o il pollo ruspante? Proprio come oggetto artistico? Il posto, più anonimo rispetto a questo cortometraggio.
Hai riconosciuto dinamiche della gente di oggi nel pollo ruspante o questo è un’esagerazione di tipo satirico? Scena dell’autogrill,
volontà di avere sempre il modello nuovo e non accontentarsi mai.
C’è una strumentazione di difesa che la nostra generazione possiede o siamo in balia di queste dinamiche di marketing?
- La stragrande maggioranza è in balia di dinamica.
- Ne siamo consapevoli però questo non ci impedisce di esserne in diverso modo vittime. Ex., quando si fermano in autogrill e la
cameriera dice loro di passare dall’altra porta, si intuisce che l’altro ingresso permetto loro di passare attraverso merce altamente
acquistabile, e noi oggi lo capiamo il perché. La mentalità è rimasta, il tentativo di rendere la persona un consumatore è ancora
molto presenta. Ma la stessa cosa per la costruzione dell’Ikea o l’imbarco di un aeroporto (alla parte opposta rispetto a dove si
entra, perché in
mezzo ci sono i negozi).
Anche chi ha un grande grado di consapevolezza di essere sotto la dinamica del consumismo, lo è.
E’ una dinamica che abita il nostro inconscio e che noi non riusciamo a dominare.
- Entrando banalmente in un supermercato noi siamo completamente in balia di psicologi e la nostra difesa è impossibile. Il nemico
passa.
- pezzi di identità individuale si costruiscono proprio attraverso il consumo – l’esempio della apple, lei non ci vende dei prodotti, ma
un modo di presentarci al mondo e di stare al mondo.
Rimanere da soli per costruire la propria identità è molto difficile.
Anche instagram e tiktok sono fatti apposta per aiutare a costruire quell’identità, poco impegno mentale e zero psicologico, tutta
una questione di immagine e superficialità da fornire in brevi sketch. E’ un insegnarsi a vivere attraverso brevi video, peccato che
quelle clip attraverso i quali ci costruiamo un’identità tendono ad essere un po’ fasulli (fake felicità etc).
- la cosa più preoccupante di una generazione come la nostra è che c’è intorno una dinamica che congiura verso la semplificazione,
una disabitudine alla complessità. film vs video brevi e storie di instagram. E questo è l’elemento più pericoloso, perché farsi carico
della complessità = farsi carico di più di sé stesso.

Padre che pasticcia con i Loaker = E’ tipicamente italiano, in una situazione pubblica, gesticolare con le mani. Nel costruire o disfare
qualcosa sul tavolo mentre si parla. Lui con le parole sta disegnando le batterie dei polli, cioè come sono messi, la loro sequenza
carceraria. Quindi la costruzione somiglia alla dinamica di costrizione che sta disegnando.

Il cortometraggio dunque suona famigliare anche a noi, nonostante le generazioni molto diverse? Risuona più con noi che con le
generazioni venute subito dopo il ’63, si pensi alla scena del tipo che passa col ciclista investito e loro parlano dei sedili macchiati.
Sono tutti film che si sono avverati veramente solo oggi.
Una volta bastava un gingle, oggi invece basta molto meno.
Il marketing oggi è molto più subdolo, noi cerchiamo la cosa semplice, ma al tempo stesso particolare, super-specifica e ricercata.
La sensazione è che oggi il marketing punti molto sulla narrazione – oceano orizzontale molto basso ma senza profondità. Narra un
modo di stare al mondo, e se non ci identifichiamo con quello siamo tagliati fuori.

E’ possibile emanciparsi dal consumo? Beh no, anche perché oggi togliersi dalla società sarebbe impossibile, non ci si salva né da soli
né con la fuga.

Quando l’ambizione diventa consumismo? Quando non guardiamo più quello che ci serve ma quello che vogliamo.

Forse il protagonista è vittima del consumismo anche se in realtà in alcune scene (tavola dell’autogrill – carne del pollo ruspante)
sembra che lui abbia consapevolezza.
Come finisce il cortometraggio? C’è un incidente che avviene dopo che loro hanno visto il terreno della loro 2° casa, avendo deciso
di non volerlo prendere, poi la moglie si commuove e si rendono conto che non vogliono essere vittime del consumismo e del
prevalere su qualcun altro. Lei riconosce che erano più felici prima quando non potevano permettersi queste cose (soddisfazione
che non arriva mai). Lui accetta, è d’accordo e sembrano essere contenti di averlo scoperto = è possibile uscire dal consumismo
recuperano una dinamica di soddisfazione che non è dipendente dai beni materiali.
Perché l’incidente, allora? Essendosi resi conto di questa possibilità il mondo si è liberato di loro, non servono più. Comprendono la
dinamica felicità = acquisto e si tirano fuori dalla storia e la Storia li espelle dalla vita, perché se rifiutano la dinamica allora non
servono nel momento in cui cercano di ritrovare una visione della verità che è vietata.
Oppure potremmo pensare che lui ha causato l’incidente perché stava pensando alla macchina che voleva, e quindi si è distratto.
Insieme, la coppia, intuisce una diversa verità. Vedono per un attimo sé stessi da fuori. E’ come se spegnessero la mente, cosa che
nella filosofia zen è un elemento negativo, quello della razionalità che si assedia con pensieri ossessivi e vedono la propria mente
agire, dicendo “guarda quanto abbiamo sbagliato fino ad ora seguendo quella parte sbagliata di noi”. E’ come se in lui vedessimo
quella parte compromessa dalla dinamica consumista che lo assedia e lui non riesce a reggere quell’assedio della mente, che è
percepibile perché lui non si identifica più con quella parte di sé. Erano degli esseri del tutto consumisti, riescono ad un certo punto
ad uscire da loro stessi e vedere la falsità comunista recuperando la verità. Poi noi vediamo la falsità comunista che torna ad
assediare lui e lì succede l’incidente, però in quel momento lui è ancora un’entità separata rispetto a ciò che lo sta assediando,
quindi è ancora in una dimensione di verità.
Poi vediamo l’assedio della mente, del pensiero ossessivo, e a quel punto la morte.
Oppure potremmo pensare che lui si ha consapevolezza di essere vittima di consumismo, ma non sa più come uscirne.

Forse è più da cercare un equilibrio che passare al rifiuto. Perché così come c’è una patologia nell’essere del tutto dentro la dinamica
che ci viene imposta, c’è qualcosa di non del tutto sano anche nell’arroccarsi nella posizione opposta, ad es. andare a vivere col
niente, tornare indietro nel tempo all’800 con l’assoluto minimalismo e rifiuto totale del consumismo che forse nasconde un rifiuto
totale del mondo più che una saggia e matura presa di posizione politica.
Basta evitare di inserirsi nel carcere di soddisfazione solo se si postano foto ostentando i propri averi, esperienze o persone. Le
ragazze soprattutto sono vittime di postare il loro corpo. Basta anche solo uscire dalla dinamica di identificare la propria
soddisfazione con questa dinamica qui.

Si noti che il teorico del marketing che viene a parlare ha un momentaneo difetto alle corde vocali, non ha la voce, e quindi usa un
oggetto che sostituisce la gola (trasforma le vibrazioni delle corde vocali in voce). Sottilmente Gregoretti trasforma in un robot
(disumano!) il teorico del marketing, non è un caso che parli attraverso una macchina, perché quello è il teorico della disumanità,
quindi sagacemente è stato proposto come un robot.

Si noti anche che la classa dirigente italiana, la grande borghesia (il moderatore della conferenza alla fine legge i nomi delle persone
che stanno stringendo la mano al robot-guru del marketing), gli stringono la mano perché sanno che quello strumento è lo
strumento del loro dominio. La classe dominante sa che quello è l’emissore dell’ideologia attraverso la quale riusciranno a rafforzare
il proprio dominio e mantneere lo status quo che li vede in cima alla società. Quindi sono molto devoti, sanno che si gioca il
mantenimento del loro potere.
Anche qui Gregoretti è molto fine, nel mostrare questa dinamica.

Una cosa minore è il terrone. Come viene chiamato nel film.


E’ il custode del suolo sulle quali verrà costruito questo insieme di edifici, noto come “la Svizzera dei lombardi” (perché è un luogo di
privilegio), luogo nel quale i lombardi vogliono cercare il loro privilegio di nicchia, standoci dentro, ricchi con ricchi.
E’ la stessa dinamica che ha spinto alla costruzione di Milano2 (anni ’80) – Berlusconi la costruisce con questa idea.
Il terrone è un po’ come l’elemento che mantiene un rapporto sano con la realtà = nel mondo capitalistico, una collina vista lago
diventa un mezzo di speculazione economica: devasto la natura, ci metto cemento, la terra che costava poco inizia a valere molto e
la vendo ai ricchi, ci faccio anche un sacco di soldi.
Il terrone essendo inverno vede della terra e ci pianta dei cavoli = gesto di umanità ricavare qualcosa dalla terra rispettandola e non
devastandola.
Quindi sottilmente il regista trasforma un personaggio strampalato e considerato ridicolo, in un personaggio che ha un rapporto più
sano con la vita e con il mondo circostante, proprio perché chiede alla terra solo ciò che questa può dargli, non altro.

Anche il confronto tra i due bambini: figlia del protagonista e il bambino del terrone.
Il bambino del terrone, fronte alla bambina carina, si spaventa e scappa. E ha ragione, perché questa bambina si esprime solo
riutilizzando le frasi che sente nelle pubblicità. Con il bambino cita un detersivo e in auto non la smetta di costruire frasi utilizzando
spezzoni di pubblicità. Canticchia frasi delle pubblicità. Quindi questa dolce bambina è persa nella vita vera. E il figlio del terrone,
ancora in contatto con la vita vera, lo intuisce (come un animale) e scappa fronte questo pseudo-robot che ha di fronte.

Si vede anche come il regista relaziona a proposito dei rapporti interpersonali. Noi qui vediamo solo rapporti che avvengono sotto la
forma di:
- litigi automobilistici trattando gli altri come disgraziati
- contrattazioni di compravendita
Sono le uniche due cose che fanno i protagonisti

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