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Premessa

Nel dibattito pubblico, il tema scottante del sessismo e della discriminazione di genere è spesso afrontato
da un punto di vista femminile. Ci si interroga per questo su quali siano le conseguenze del patriarcato sulla
vita delle donne, su quali siano le risorse a cui le donne non hann0 adeguato access0 in una società sessista
e su quali siano gli svantaggi del sessismo – sempre per le donne – in termini personali, relazionali e sociali.
Questa prospettiva – essendo la storia delle donne in occidente anche una storia di discriminazione civile,
politica e sociale è più che legittima ma risulta, soprattutto oggi alla luce delle grandi trasformazioni sociali
avvenute, parziale.

L’idea di scrivere questo libro nasce dal desiderio di colmare questa visione parziale delle cose, con
lobiettivo di mostrare come vivere in una società sessista possa essere

Svantaggioso e dannoso anche per gli uomini, sebbene in modo diverso rispetto a quanto avviene per le
donne. Oltre che fornire per la prima volta nel panorama italiano una ricognizione della letteratura di
ricerca psicosociale sul tema, l’obiettivo del testo è quello di sensibilizzare gli uomini (e le donne) sui
vantaggi personali e sociali di una società non sessista.

I dati del Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum relativi alle disuguaglianze di genere
in politica, istruzione e lavoro parlano chiaro. II divario fra uomini e donne, in tutto il mondo, è ancora
molt0 profondo e sembra riusciremo a colmarlo solo fra un secolo. Ci servono ancora cento anni per poter
vedere una societâ piu equa. Ciò nonostante, dall’esperienza di formazione su questi temi che ho maturato
nelle aule universitarie e dal confronto con colleghe e colleghi che lavorano in questo campo emerge come
spesso gli uomini, soprattutto quelli piu giovani, sentan0 come lontano il tema della discriminazione di
genere, non avendo affatto l’impressione di avere più opportunità o godere di più privilegi rispetto alle
donne. Anche gli uomini adulti spesso non si sottraggono all’insofferenza verso questi temi. Un ruolo
centrale nel generare questo fastidio maschile può essere individuato nella difficoltà a riconoscere la
propria condizione di privilegio: quando ci troviamo in una posizione di vantaggio sOCiale ci place pensare
che tale vantaggio non esista o, al limite, che derivi da nostri meriti individuali.

Questa componente ideologica, a cui sarà dato spazio nel testo, spiega molto di quello che accade nella
resistenza degli uomini rispetto ai temi della discriminazione di genere, ma non tutto. La premessa da cui
parte questo libro, infatti, è che parte di questa insofferenza e resistenza sia data dalla percezione più che
fondata degli uomini di portare sulle spalle un peso importante (e invisibile) assOciato alla mascolinità: un
peso associato a quello che possiamo definire come «il lato oscuro della mascolinità». Gli uomini sentono
che spesso la societá chiede loro un compito paradossale: da un lato sbarazzarsi con urgenza dei propri
privilegie in generale delle credenze sessiste riguardanti le donne, ma dall’altro continuare ad aderire a un
modello di mascolinità tradizionale duro e puro nella definizione di sé per poter essere apprezzati
socialmente. Questo modello, in estrema sintesi, ruota attorno a un’idea di avversione per il femminile,
invulnerabilità emotiva, eteronormatività e dominanza sia a livello personale sia a livello sociale. Ció genera
un cortocircuito per cui la scelta di abbandonare modelli comportamentali legati a una mascolinità
tradizionale, anche se ispirata da principi di equità, può assumere per gli uomini i contorni di una perdita
personale. Si chiede agli uomini di rinunciare ai privilegi di cui godono a livello sociale, ma ci si aspetta in
ogni caso da loro che si comportino ancora secondo quei mandati della mascolinità che tanto possono
essere faticosi da rispettare nella propria vita personale e sociale.

Proprio a partire dalla critica a questi obblighi culturali rispetto al dare prova di essere dei veri uomini in
privato e in pubblico, negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso sono nati i cosiddetti
«movimenti di liberazione per gli uomini». Il clima culturale del temp0 era di grande fermento sociale e
diversi movimenti (primi fra tutti il movimento femministā, il movimento per 1 diritti civili e il movimento
contro la guerra in
Vietnam) stavano rapidamente cambiando volto al paese. Da fenomeno dapprima politico, il movimento di
liberazione degli uomini inizia ben presto a dare vita a una letteratura sempre più corposa in ambito
accademico che – condividendo l’approccio critico femminista – ha esaminato in modo sistematico come i
modelli tradizionali di mascolinità siano dannosi per il benessere degli uomini.

In ambito psicologico, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso la ricerca sugli uomini e sulla mascolinità
inizia a diventare sempre più solida e nel 1995 l’American

Psychological Association approva la creazione della Divisione 51 per lo studio psicologico degli uomini e
della mascolinità. Come recita il suo statuto, la Divisione 51 riconosce nella sua origine il legame
fondamentale con gli studi di genere femministi e promuove come sua missione scientifica lo studio critico
dei modi in cui il genere condiziona, limita e plasma le vite degli uomini. La Divisione ha inoltre anche un
obiettivo empirico importante: incoraggiare e sostenere la realizzazione di programmi di intervento per
rafforzare negli uomini la capacità di esprimere il proprio pieno potenziale di esseri umani, riuscendo ad
andare oltre le definizioni limitanti e restrittive imposte dai ruoli di genere tradizionali. Il 2000 è un altro
anno molto significativo nella storia di questi studi.

Si compie, infatti, un passo importante da un punto di vista simbolico per riconoscere la rilevanza e
maturità scientifica dei men’s studies: la Divisione 51 dà vita alla rivista «Psychology of Men and
Masculinity», dedicata interamente allo studio psicologico della mascolinità.

A partire da queste premesse teoriche ed empiriche, questo libro focalizza l'attenzione sul concetto di
mascolinità, sulla sua complessità e su quanto possa essere insidiosa per la salute degli uomini lidea di
mascolinità tradizionale che enfatizza il dominio, la competitività, feteronormatività e l'avversione nei
confronti di tutto ciò che viene percepito come femminile, dall'ambito personale a quello politico.

Capitolo primo

Essere «veri uomini» 1. Di alcol, acqua e camerieri romani

Nel settembre scorso, ho incontrato due amici che non vedevo da tempo. Abbiamo deciso di trovarci per
cena, il caldo piacevole di Roma ci consentiva di mangiare seduti a un tavolo all'aperto, scambiare
chiacchiere rilassate e nostalgiche sulle nostre vacanze appena trascorse e condividere i soliti buoni
propositi di iniziare qualche attività, anche vagamente associata allo sport, in autunno, ogni anno
puntualmente disattesi. Quando è arrivato il cameriere per prendere le ordinazioni, dop0 avergli elencato i
piatti scelti, è stato il momento di ordinare da bere. «Per me una birra», ho detto. «Voi due?» ha chiesto il
cameriere frettolosamente e senza staccare gli occhi dal taccuino che teneva in una mano. «Acqua
naturale», rispondono i miei due amici. Alla richiesta dell'acqua, il cameriere alza gli occhi lentamente e
guardandoli prima uno e poi l'altro con tono sarcastico e severo allo stesso tempo, gli dice: «E che è qua?
Due uomini bevono acqua e lunica donna beve alcol? E daje sul», All'ordinazione dell'acqua e della birra si è
aggiunta prontamente una bottiglia di Chianti.

Quello appena descritto potrebbe sembrare un episodio qualsiasi, di quelli che accadono in una qualsiasi
trattoria romana, e per certi versi lo è. Ma è anche qualcosa di più, perché ci racconta del comportament0
corrett0 che un uomo deve assumere pubblicamente in presenza di una donna, del ruolo disciplinatore di
altri uomini che riportano prontamente all'ordine il maschio deviante quando si discosta dai canoni attesi di
mascolinità, e dell'altrettanto pronta (benché divertita) adesione dei destinatari di quel richiamo. Il tutto
facendo riferimento a un codice culturale tanto condiviso quanto sfuggente che risponde alla domanda a
cui proverò a dare una risposta in questo capitolo e nel corso di tutto il volume: che cos'è la mascolinit?
Come possiamo definire che cos'è un uomo e quali aspetti lo caratterizzano o dovrebbero caratterizzarlo?

Iniziamo a pensare, per un momento, a quali sono le caratteristiche che descrivono l'essere un uomo oggi.
E molto probabile che a venirci in mente sarann0 aspetti molto diversi da quelli che definivano la
mascolinitàe l'essere un uomo durante il secolo scorso, ad esempio nel ventennio fascista o, ancora più in
là nel temp0, durante il Settecento.

Torniamo con la mente proprio al Settecento e all'uomo simbolo dell'assolutismo monarchico, il sovrano
francese Luigi XIV, detto anche Luigi il Grande o Re Sole: tanto fu radicale il suo modo di interpretare il
potere assoluto da essere associato perfin0 alla stella che dà luce e vita alla Terra. Il pittore Hyacinthe
Rigaud nel 1701 ritrae il sovrano all'apice del suo potere, in un dipinto che compare spesso nei libri di
storia. Vi vediamo il

Re Sole abbigliato con aderentissimi collant bianchi, mantello con pizzo a balze, scarpe col tacco e con tanto
di gran bel fiocco rosso. Il tutto è ormato da una folta e voluminosa chioma artificiale di capelli ricci e fluenti
e da una posa in cui il sovrano tiene il braccio sinistro poggiato morbidamente su un fianco, la gamba
sinistra ruotata rispetto a quella destra, nell'impressione complessiva che sia stato colto in un momento
statico durante un balletto di danza classica. Guardato con gli occhi di oggi, appare incredibile che il Re Sole,
simbolo supremoe per eccellenza della mascolinità, sia stato rappresentato in questo modo. Eppure al
tempo non era affatto bizzarro tutto ciò, anzi. Proprio con quel dipinto, il

Re Sole comunicava ai suoi sudditi, attraverso i codici simbolici allora condivisi, la sua indiscussa levatura di
superuomo.

Abbandonando la prospettiva storica e assumendone una cross-culturale, è altrettanto plausibile che le


dimensioni che definiscono la mascolinità nel nostro paese oggi siano diverse da quelle che la definiscono
in Svezia, Ghana, Arabia Saudita, Brasile, India, o

Cina. E infine, se pensiamo al modo in cui si esprime la mascolinità durante l'adolescenza, troveremo senza
dubbio delle differenze rispetto alletà adulta e, in generale, nello scorrere delle diverse fasi del ciclo di vita
di un singolo individuo. Con questo primo esercizio di riscaldamento, iniziamo ad avvicinarci alla
complessità del fenomeno che stiamo per esaminare.

Ritorniamo dunque a porci la domanda iniziale proponendo una prima definizione. La mascolinità è
l'insieme di ruoli sociali, comportamenti e significati associati all'essere maschio in una data societàe in un
dato tempo [Kimmel 2005]. Da questa definizione si evince chiaramente un aspetto del fenomeno in
esame, tanto sostanziale quanto insolito rispetto al modo in cui vi pensiamo abitualmente: la mascolinità
esiste solo in riferimento a un contesto socioculturale preciso, essa cambia attraverso il tempo e la storia,
attraverso lo spazioe la cultura, e nei più o meno tortuosi percorsi di vita delle singole persone che la
esprimono. La mascolinità si produce e riproduce all'interno delle nostre interazioni quotidiane e nelle
situazioni sociali e pertanto è molto difficile parlare di un'essenza universale, di una costante dell'essere
maschi, una natura che tutti gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi condividono. In linea con Addis e
Hoffman [2019], la mascolinità può descriversi attraverso molte dimensioni. Può essere intesa come un
ruolo sociale,

Ossia un modo di pensare, di agire, di sentire (e, parallelamente, di non pensare, di non agire, di non
sentire) che urna società sulla base delle norme sociali e culturali di quel determinato momento storico si
aspetta da un uomo e considera giusto e appropriato per lui. Può tuttavia essere anche trattata come uno
stereotipo, come una visione ipersemplificata e tendenzialmente rigida di che cosa sono gli uomini. Infine,
può essere descritta come un'ideologia, un insieme di credenze e valori che riguardano il modo in cui gli
uomini devono essere, che sono costruiti e rafforzati sulla base di pratiche culturali.

Per la complessità delle dimensioni in gioco, lo studio della mascolinità attraversa molte discipline, dalla
storia all'antropologia, dalla sociologia fino alla psicologia, disciplina quest'ultima su cui si baserà in buona
parte questo testo. 2. Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere?
Per parlare di mascolinità, èfondamentale (non per le ragioni ovvie ed evidenti che ci vengono in mente:
proverò a spiegare questo punto meglio più avanti nel par. 4) parlare di quella che viene solitamente intesa
come la sua controparte, la femminilità. La domanda relativa a che cos'è un uomo e ciò che lo caratterizza
di fatto ne contiene un'altra più specifica: che cos'è che rende un uomo tale e dunque diverso da una
donna?

Prima ho detto che la mascolinità è un insieme caratteristico di atteggiamenti e comportamenti che un


individuo esprime nel corso della sua esistenza nelle relazioni personalie sociali, all'interno di una
altrettanto specifica cultura collocata, a sua volta, in un determinato periodo storico. Insomma in estrema
sintesi, ho accennato alla mascolinità in modo esplicito e alla mascolinità e femminilità in modo implicito.
Per quanto riguarda il livello esplicito, il messaggio è che sostanzialmente è un'impresa impossibile definire
la mascolinità una volta per tutte; per il livello implicito, il messaggio è che dobbiamo rinunciare, o almeno
provare a rinunciare, a qualcosa di molto attraente per noi: una spiegazione del comportamento umano
basato sul primato del sesso biologico. I paragrafi che seguono hanno l'obiettivo ambizioso di persuadervi
su questo fronte a partire da quello che fino a oggi la letteratura scientifica, proveniente dalla psicologia
sociale e dalle neuroscienze, ha dimostrato. 2.1. Marziani e Venusiane: lirresistibile (e rassicurante) fascino
della categorizzazione di genere

Il 1992 èè un anno interessante per l'editoria: l'americano John Gray pubblica il famosissimo volume Gli
uomini vengono da Marte, le donne da Venere. Nel testo si snocciolano premurosi consigli agli uomini e alle
donne su come interagire e comunicare al meglio fra loro. Secondo l'autore, per arrivare a comprendersi
una volta per tutte, gli uomini e le donne devono fare i conti con le loro diversità, diversità talmente
profonde da renderli assimilabili agli abitanti di pianeti diversi, Marte e Venere, insomma veri e propri alieni
gli uni per gli altri. Fino a quando non prenderemo in carico questa differenza, noi tutti e tutte, marziani e
venusiane al cospetto del sistema solare, saremo condannati a un'inesorabile incomunicabilità, ci allerta
Gray. Gli uomini vengono da Marte, le donne da

Venere ha ottenuto un successo impressionante: ha venduto più di 30 milioni di copie edè stato tradotto in
più di 40 lingue, diventando un punto di riferimento per moltissime persone. Tuttavia, nella storia di questo
felice, soprattutto per le tasche di Gray, successo editoriale c'è qualcosa che non torna. Proviamo a capirlo,
fornendo qualche informazionne biografica sul suo autore.

Gray non ha mai completato alcun tipo di formazione universitaria in generale e psicologica nelo specifico:
ha costruito in sintesi il suo volume sula scorta di nozioni completamente sconnesse da qualsiasi evidenza
scientifica. Come è stato possibile, dunque, che il suo libro abbia conquistato milioni di persone,
colonizzando il nostro linguaggio, insediandosi stabilmente nel nostro immaginario? La risposta a questa
domanda possiamo trovarla nel fatto che Gray ci ha raccontato una storia accattivante e allo stesso tempo
rassicurante, una storia che ruota attorno a un concetto che adoriamo sentirci raccontare e a cui
desideriamo proprio restare aggrappati: gli uomini, abitanti del pianeta Marte, nome non a caso ispirato al
dio romano della guerra, e le donne, abitanti del pianeta Venere, nome ispirato alla dea romana dell'amore,
sono irriducibilmente diversi. Perché questo tipo di racconto è cosi efficace? Direi per almeno due motivi,
fortemente collegati fra loro.

Il mondo fisico e sociale è estremamente complesso e le categorie ci aiutano a semplificare la realtà. Diamo
un ordine al gran caos che ci circonda raggruppando in una stessa categoria alcuni stimoli sulla base di
caratteristiche comuni. Questo è molto vantaggioso in termini di risorse impiegate per conoscere la realtà:
se interagissimo con la realtà fisica trattando ogni oggetto come un caso unico, solo virtualmente saremmo
più accurati nella nostra conoscenza del mondo. Di fatto saremmo solo paralizzati dall'enormità di stimoli
unici da elaborare. Tuttavia, la categorizzazione non è un'operazione neutra. Al contrario, è un dispositivo
cognitivo che aggiunge un significato ulteriore agli elementi che abbiamo inserito in una categoria,
significato che non avevano prima di essere categorizzati. Per effetto del processo di categorizzazione, può
accadere infatti che elementi inseriti in una stessa categoria ci appaiano più simili di quanto non lo siano in
realtà ed elementi inseriti in categorie diverse ci appaiano più dissimili fra loro di quanto non lo siano di
fatto. Questa distorsione cognitiva ci aiuta a semplificare il complesso mondo sociale in cui viviamo e a
vederlo più ordinato e prevedibile di quanto non sia in realtà.

Analogo ragionamento può essere condotto per la percezione della realtà sociale.

Spesso ci accade che anziché rapportarci alle persone nella loro unicità individuale, tendiam0 a trattarle
come componenti (più o meno interscambiabili) di una categoria.

Operiamo insomma delle inferenze sociali, ovvero attribuiam0 velocemente dele caratteristiche
psicologiche e di personalità a individui che non conosciamo e non abbiamo mai visto, Solo in virtù del fatto
che appartengono a una categoria sociale nota.

Per il processo di categorizzazione consideriamo come più omogenee fra loro di quanto non lo siano in
realtà le persone all'interno di una categoria (un fenomeno noto come assimilazione intragruppo) e
tendiamo a esagerare le differenze fra le persone che sono inserite in gruppi diversi (un fenomeno noto
come differenziazione intergruppi). Ultimo ma non meno importante, poniamno attenzione, selezioniam0 e
ricordiamo soltanto, o almeno soprattutto, le informazioni che sono coerenti con il nostro schema mentale
e con le nostre categorie, trascurando prima e dimenticando poi molto abilmente le informazioni
incoerenti, etichettandole come «eccezioni che confermano la regola» [Tajfel 1978].

Una delle più potenti categorie che guidano la percezione sociale è proprio il genere: ci basiamo sulle
caratteristiche fenotipiche distintive degli uomini e delle donne per fare inferenze sul loro modo di essere e
sulla loro personalità [Kang e Bodenhausen 2015]. La categorizzazione di genere è tanto potente da iniziare
addirittura prima ancora della nascita. La sociologa Barbara Rothman [1988] ha chiesto a un gruppo di
madri di descrivere i movimenti del feto negli ultimi tre mesi di gravidanza riscontrando un dato
interessante. Fra le donne che non erano a conoscenza del sesso del bambino, non c'era un particolare
pattern di descrizione associato al sesso del bambino. Quando le donne invece erano a conoscenza del
sesso del feto, se sapevano che era maschio (e non se sapevano che era femmina) tendevano a descrivere i
suoi movimenti con aggettivi quali «vigoros0» e «forte.

La percezione sessuata degli individui inizia, dunque, prima ancora che essi nascano per poi continuare a
guidare, una volta venuti al mondo, il modo in cui vedono sé stessi e gli altri durante tutta l'esistenza. Come
si perpetua tutto cio? Attraverso il sostegno e il rinforzo di un'enorme varietà di canali, da quelli relazionali
a quelli socioculturali. Il processo attraverso cui in un dato contesto socioculturale le informazioni culturali
sul genere sono trasmesse da una generazione all'altra prende il nome di socializzazione di genere [Best e
Luvender 2015]. E come se ponessimo di continuo (anche se non in modo deliberato) una freccia luminosa
sul genere delle altre persone e dicessimo ai bambini e alle bambine: «Fate attenzione! Qui c'è
un'informazione importante!». Per questo spesso molti genitori si sorprendono del comportamento dei
bambini in linea con il ruolo di genere: non sentono di aver contribuito in alcun modo alla loro educazione
in quella direzione e ne deducono che questa sia l'espressione della vera essenza e natura che emerge
prepotente e inevitabile (più avanti, esaminerò meglio il concetto di essenza associato alle categorie
sociali). In realtà, il riferimento al genere è continuo, insistente e ricorre assai spesso nella descrizione che
facciamo di noi stessi/e e delle altre persone.

Ilgenere, come dice qualcuno, è nell'aria che respiriamo. Ciò che accade davvero, dunque, è che nel
migliore dei casi le persone adulte sottostimano la frequenza con cui ricorron0 alla categoria del genere
nella propria vita quotidiana, nelle interazioni con gli altri, nel linguaggio che scelgono per descrivere la
realtà sociale. I bambini e le bambine, invece, comportandosi come dei detective alla continua ricerca di
indizi per comprendere come funzionano le cose attorno a loro, lo sanno bene. La comprensione della
realtà fisica esoprattutto sociale è tutt'altro che semplice: ci sono tantissime differenze che continuamente
scorrono sotto i loro occhi. Come fare allora per districarsi in questo mare di informazioni? l modo migliore
è osservare le persone esperte, dunque i genitori, fratelli e le sorelle, i pari, gli insegnanti e gli altri adulti
significativi, più in generale per acquisire indicazioni su che cosa è giusto dire O non dire, che cosa è
opportuno fare O non fare in conformità al proprio genere. I bambini e le bambine osservano gli altri
significativi, cercano di capire cosa questi ritengono importante e provano a fare proprio quel dato il prima
possibile [Spears Brown 2014].

Prima dicevo che nel migliore dei casi sottostimiamo la frequenza con cui ricorriamo alla categoria del
genere nella nostra vita quotidiana e nele interazioni con gli altri.

Esistono molti altri esempi di richiamo esplicito a rispettare e conformarsi a quelle caratteristiche che non
solo definiscono come i bambini e le bambine sono, ma anche come i bambini e le bambine (e più avanti
negli anni uomini e donne) devono essere.

Quelle caratteristiche prendono il nome di stereotipi di genere che di solito non sono solo descrittivi, ma
anche prescrittivi. Pensiamo ad esempio allo stereotipo culturale per cui le persone spagnole sono
simpatiche. Incontrando uno spagnolo antipatico, proveremo sorpresa, ma non rabbia (per na distinzione
più precisa fra stereotipi descrittivi e prescrittivi vedi tab. 1.1). Cosa succede quando assistiamo invece a
delle violazioni degli stereotipi di genere? Degli amici mi hanno raccontato qualche mese fa che loro figlio

Paolo di sei anni, osservandoli fare spesso le pulizie di casa insieme e molto incuriosito da questa attività,
giocava a sua volta a fare le pulizie, sottraendo di continuo e divertito il mocio ai genitori. Un giorno questi
amici hanno trovato al mercato un mocio giocattolo di colore rosa e hanno deciso di regalarlo al piccolo
Paolo, il quale ha apprezzato moltissimo il dono. Non altrettanto apprezzato è stato invece da parte dei
familiari e di amici e amiche che visto il mocio - non solo oggetto per pulire consegnato a un maschio, ma di
un oltraggioso colore rosa - hanno iniziato a ironizzare dicendo alla mamma: «Dillo che volevi una
bambina!» e al bambino: «Paoletta, la mamma ti fa fare le pulizie? La cuginetta ha dimenticato il suo
giocattolo? Questa roba non può essere tua!». Altro episodio interessante che mi è stato raccontato da
un'altra amica è il seguente. Pomeriggio a casa, lei aspetta una sua amica per farsi fare la manicure. Arrivati
al momento dello smalto, suo figlio Andrea di quattro anni non resiste e le chiede se può metterlo anche
lui. Lei acconsente divertita e così via di smalto trasparente. Il giorno dopo, all'uscita dell'asilo la maestra la
ferma dicendole preoccupata: «Scusi signora le consiglio di non far mettere lo smalto a suo figlio, perché gli
altri bambini lo prendono in giro...». La mia amica ha risposto alla docente in modo splendidamente
spiazzante: «Forse perché volevano provarlo anche loro?», ma non mi ha nascosto quanto a volte sia
faticoso educare il proprio figlio in un clima culturale che definisce in modo cosi rigido il comportamento
corretto per i bambini.

TAB. 1.1. Stereotipi descrittivi eprescrittivi

Stereotipi descrittivi

Stereotipi prescrittivi

Credenze su come i componenti di una categoria sociale sono di

Credenze su come i componenti di una categoria devono essere

Cosa sono?

solito idealmente

Quale funzione

Hanno la funzione cognitiva di semplificare la realtà e minimizzare lo sforzo cognitivo nell'interazione con le
altre
Hanno la funzione sociale di giustificare la realtà e

Consentono di legittimare un sistema sociale hanno? persone

Come svolgono la loro funzione?

Inserendo alcune persone in una Considerando le persone che stessa categoria, si generano aspettative su
come persone che fanno parte di categorie diverse e adatte a ricoprire quei ruoli e persone che fanno parte
della stessa categoria possono interagire fra loro occupano tradizionalmente dei ruoli e delle posizioni
sociali non altri in virtù delle competenze tipiche della categoria di appartenenza

Che cosa succede se Le violazioni degli stereotipi

Si trasgrediscono? descrittivi generano sorpresa ma Prescrittivi generano sorpresa,

Le violazioni degli stereotipi non rabbia e punizioni rabbia e punizioni

Esiste un secondo motivo per cui non solo il libro di Gray ha ottenuto un successo planetario, ma fioriscono
volumi dedicati a spiegarci le differenze fra uomini e donne con titoli tanto suggestivi quanto improbabili
come: Perché gli uomini non stirano: le affascinanti e inalterabili differenze fra uomini e donne di Anne
Moir e Bill Moir [2003], o ancora per i più artistici: Perché agli uomini piacciono le linee rettee alle donne i
pois di

Moss |2014]. Mettiamo da parte il brillante tentativo di Bill Moir di liberarsi una volta per tutte
dall'incombenza di stirare con l'illusione di un'inattaccabile verità pseudoscientifica.

La ragione profonda del successo di questi libri risiede nel fatto che essi capitalizzano la tendenza diffusa e
radicata negli esseri umani a fare due cose, prima distinguere il mondo in categorie, come abbiamo già
visto, e dopo pensare alle categorie sociali come dotate di un'essenza profonda che le descrive. Nelle
scienze sociali, questa tendenza ha un nome preciso ossia essenzialismo.

Il concetto di essenzialismo si origina in ambito filosofico per descrivere l'idea per cui tutti i casi rientranti in
una data categoria e nello specifico nelle cosiddette categorie naturali condividono un insieme di
caratteristiche distintive ed essenziali che determinano la loro identità [Haslam, Rothschild e Ernst 2000]. In
ambito psicologico l primo a farvi riferimento è uno dei padri della psicologia sociale, Gordon Allport
[1954].

Nell'importante volume La natura del pregiudizio, Allport individua un aspetto distintivo dello stile rigido di
pensiero alla base del pregiudizio proprio nella credenza che una categoria sociale sia dotata di un'essenza
naturale.

Nel 1989, Douglas Medin e Andrew Ortony introducono in modo specifico il concetto di essenzialismo
psicologico. In che cosa consiste? Per prima cosa, terndiamo a pensare che le persone facenti parte di una
stessa categoria presentino delle qualità, delle caratteristiche che non sono soltanto comuni a tuttii
componenti di quella categoria (come avviene nel processo di categorizzazione descritto prima), ma che
corrispondono addirittura alla loro essenza e natura profonda. Il secondo elemento distintivo
dell'essenzialismo psicologico consiste nel percepire l'essenza di una categoria sociale come immutabile da
un punto di vista storico e culturale, trovando il suo fondamento nei fattori biologici, genetici, insomma
nella natura.

In generale, dunque, quando essenzializziamo la realtà sociale tendiamo ad avere una visione semplificata
non solo dei gruppi esterni, di quelli insomma a cui non apparteniamo, ma anche dei gruppi di cui siamo
parte. Finiamo cosi per autoimprigionarci in una gabbia, una vera e propria trappola identitaria: dobbiamo
attingere infatti - per descrivere e conoscere noi stessi e noi stesse (cosi come gli altri esseri umani) - a un
repertorio di imitate e immutabili qualità. Qualcuno dice che le costrizioni, gli obblighi, sono anch'essi
libertà, sebbene di second'ordine: ci liberano dalla responsabilità di scegliere da noi e dunque ci sollevano
dal timore di fare la scelta sbagliata. E allora, definire sé stessi e gli altri secondo il percorso obbligato delle
categorie «naturali» diventa un caldo rifugio che ci dona due illusioni. La prima è che è possibile sbarazzarci
del pesante fardello di definirci in autonomia, la seconda è che possiamo prevedere e controllare in
maniera abbastanza agevole l'ambiente sociale nel quale siamo immersi.

Ci sono altri due aspetti interessanti che definiscono l'essenzialismo psicologico. II primo ė legato alla
suggestione di una verità della natura umana. Poiché gli esseri umani sono dotati di un'essenza che
definisce la loro «vera» natura, la verità degli esseri umani sta proprio in quell'essenza. Non solo: se
lessenza profonda degli esseri umani è immutabile, ogni tentativo di una sua modifica sarà vano (e
addirittura contro natura).

Questa combinazione di verità e di immutabilità rende la retorica essenzialista un dispositivo formidabile


per legittimare le disuguaglianze fra i gruppi a livello sociale.

Ritorniamo dunque al genere. Nel momento in cui l'essenzialismo psicologico investe il genere sessuale si
parla di essenzialismo di genere. Abbiamo già visto come una delle più potenti dimensioni attraverso cui
categorizziamo il mondo sociale è proprio l'aspetto fenotipico del genere sessuale. Come per altre categorie
sOciali, quali ad esempio l'etnia, l'eta, f'orientamento sessuale ecc., anche per il genere tendiamo a cadere
in quello che possiamo definire come l'errore prospettico essenzialista, un errore tanto diffuso quanto
antico. Le persone che aderiscono a una visione essenzialista del genere tendono a percepire accentuato e,
ancora, una stessa caratteristica psicologica tende a essere percepita come piu stabile quando è associata
al genere rispetto a quando invece non lo è. Le ricerche, in modo molto più differenze comportamentali fra
gli uomini e le donne inoltre, ci dicono che le donne che descrivono le differenze fra uomini e donne come
biologicamente determinate sono inclini ad assumere comportamenti più1 stereotipicamente femminili e
gli uomini che hanno la stessa convinzione dedicano meno tempo alla cura dei figli [Skewes, Fine e Haslam
2018].

Basarsi sull'idea che le categorie sociali degli uomini e delle donne presentino una loro essenza profonda
consente di fare delle inferenze in termini di generalizzazione - tutti gli uomini (o tutte le donne) sono così -
e di stabilità/immutabilità -gli uomini (o le donne) sono sempre stati così e sempre lo saranno, non possono
cambiare, né probabilmente sarebbe sensato che lo facessero. Nella storia del pensiero occidentale, se
possiamo individuare una costante, con marginali e sporadiche parentesi di deviazione da essa, quella è
proprio l'idea che i diversi gruppi sociali (soprattutto quando occupano differenti posizioni gerarchiche)
siano fra loro diversi ontologicamente. Gli uomini e le donne non fanno eccezione.

Le ricerche psicosociali indicano chiaramente come l'essenzialismo di genere e limportanza assegnata alla
biologia nello spiegare il comportamento degli uomini e delle donne si associano nelle persone a più alti
livelli di sessismo, alla credenza che il sessismo non sia più un problema nel mondo contemporaneo, a un
atteggiamento più favorevole nei confronti dei ruoli tradizionali di genere e all'accettazione delle
disuguaglianze di genere a livello sociale [ibidem). 2.2. Marziani, Venusiane... o semplicemente Terrestri?

Nel 1975 la studiosa americana Gayle Rubin ha introdotto nella letteratura scientifica il costrutto di genere,
costrutto che ha assunto un ruolo fondamentale nello sviluppo degli studi femministi. Affiancando il
concetto di genere a quello più noto di sesso, Rubin compie negli anni Settanta del secolo scorso una vera e
propria rivoluzione. Per la prima volta, e con la potenza di un'etichetta a disposizione per nominare un
fenomeno e dunque sancirne l'esistenza, mette al centro della riflessione il ruolo decisivo dei processi
culturali nello stabilire i significati delle dimensioni biologiche dell'essere maschio e dell'essere femmina.

Pensare alle persone distinguendo da un lato il sesso, la componente squisitamente biologica, e dall'altro il
genere, la componente squisitamente sociale, ha consentito di dare finalmente attenzione all'influenza dei
processi culturali nel plasmare il significato del maschile e del femminile. Tuttavia questa visione, in cui si
traccia una netta linea di demarcazione fra la natura (il sesso) da un lato e la cultura (il genere) dall'altro, è
stata giustamente criticata poiché promuove l'idea che esista nella definizione dell'identità delle persone
un'essenza prediscorsiva e preculturale che corrisponde per l'appunto alla biologia. Oggi nelle scienze
sociali si parla di un complesso sesso/genere, inteso in toto come l'esito di una categorizzazione sociale,
come un sistema di significato definito da dispositivi sociali e perpetuato attraverso i comportamenti dei
singoli [Butler 2006;

Connell 1995].

I discorsi attorno alle differenze fra uomini e donne, lo abbiamo visto prima, ci attraggono e ci affascinan0,
li facciamo nostri senza porci troppe domande in quanto semplificano e rassicurano; lo stesso non accade
quando ci sentiamo dire che quei discorsi si basano e si nutrono di pseudoscienza. Esiste una mole
significativa di studi che ci chiede da almeno un decennio di abbandonare questa visione, eppure
continuiamo a non mollare la presa.

Nel settembre del 2005 la psicologa statunitense Janet Hyde pubblica un lavoro scientifico che produrrà
una grande eco in ambito psicologico. Hyde seleziona ben 46 metanalisi, ossia studi statistici che
aggreganoirisultati di ricerche condotte da persone diverse in contesti diversi sullo stesso tema.
Fondamentale nella metanalisi è il concetto di ampiezza dell'effetto, che quantifica la grandezza delleffetto
in esame, nello specifico dell'ampiezza delle differenze di genere. Per comprendere la complessità e
ricchezza del lavoro di Hyde, è importante ripercorrerne i passi. La studiosa ha selezionato le metanalisi che
hanno esaminato le differenze fra uomini e donne in diversi ambiti.

L'attività dei gruppi di ricerca che avevano condotto ognuno dei 46 lavori si era sviluppata nel modo
seguente. Dopo aver selezionato ed estratto dai database scientifici di riferimento gli studi di interesse, il
gruppo di ricerca ha calcolato (o estratto quando riportato) per ogni studio selezionato la dimensione
dell'effetto. Una volta che tutti gli studi sono stati combinati, è stata poi effettuata una media ponderata
dell'ampiezza dell'effetto di tutti questi studi sulla base della grandezza del campione per ottenere una
valutazione della direzione e dell'ampiezza delle differenze di genere e infine sono state effettuate delle
analisi di omogeneità per determinare se l'ampiezza dell'effetto fosse effettivamente omogenea fra gli
studi. In totale il numero di studi considerati da Hyde è impressionante: si tratta di 7.044 lavori che hanno
esaminato le differenze di genere in diversi ambiti fra cui quello cognitivo (ad esempio abilità matematiche,
abilità spaziali, di ragionamento astratto ecc.), quello sociale o di personalità (ad esempio aggressività, stile
di leadership, atteggiamenti e comportamenti sessuali), quelo relativo alla comunicazione verbale e non
verbale, al benessere psicologico (ad esempio autostima).

Dai risultati è emerso che, sulle 124 dimensioni dell'effetto estratte dalle metanalisi, il 76 per cento era
piccolo o vicino allo zero (indicando dunque nessuna o un'irrilevante differenza fra uomini e donne). Le
aree in cui è emersa invece una differenza significativa riguardavano il comportamento motorio (e in
particolare la velocità di lancio e la distanza di lancio) e la frequenza della masturbazione e gli atteggiamenti
nei confronti del sesso occasionale, dati questi ultimi probabilmente influenzati dalla desiderabilità sociale,
considerato l'ambito «scabroso». Il lavoro di Hyde è il primo sostegno scientifico importante all'ipotesi della
similarità fra i generi, sebbene non vada trascurato il precedente tentativo fatto nel 1974 da Eleanor
Maccoby e Carol Jacklin nel volume The

Psychology of Sex Differences che già portava evidenze scientifiche in questa direzione.

hanno raccolto un numero enorme di meta-nalisi, 106 (0gnuna dunque sintesi di diversi studi a sua volta), e
hanno esaminato ben 386 effetti relativi alle differenze di genere a partire dalle metanalisi selezionate. I
risultati sono coerenti con quelli ottenuti da Hyde: le differenze fra uomini e donne in numerosi ambiti
psicologici - e tenendo sotto controllo letà e la cultura di provenienza dei partecipanti - sono relativamente
piccole, con la maggioranza degli effetti di intensità piccola (46 per cento) o molta piccola (39 per cento).
Questi due studi di sintesi della letteratura illustrano chiaramente come l'idea secolare delle differenze fra
uomini e donne, pur continuando a imperversare nella nostra visione del mondo, non abbia un fondamento
scientifico. Bene, tutto risolto allora? 2.3. Di seduzioni biologiche: cervelli sessuati ed essenze biochimiche
della mascolinità

Immagino teste che si scuotono crucciate e obiezioni stizzite che si sollevano riguardo a due grandi
protagonisti a cui non ho dato colpevolmente spazio fino a ora e che invece pensiam0 troneggino nella
spiegazione del comportamento umano e nell'inesorabilità delle differenze fra uomini e donne: il nostro
cervello e i nostri ormoni.

Provo allora a recuperare, partendo proprio dal cervello. Un primo dato interessante riguarda il modo in cui
noi guardiamo a esso e come questa visione è cambiata nel corso del temp0. Nel Diciannovesimo secolo, ad
esempi0, un criterio di grande rilevanza per valutare il funzionamento del cervello era la sua grandezza: su
di essa si appoggiavano comodamente fior fiore di scienziati per giustificare le disuguaglianze sociali fra
uominie donne. I noto neurologo e anatomista francese Paul Brca, che ha dato il nome a un'area cerebrale
coinvolta nell'elaborazione del linguaggio, ha affermato

Si potrebbe pensare che le dimensioni più piccole del cervello dele donne siano dovute al fatto che
mediamente il loro corpo è più piccolo. Ma non dimentichiamoci che le donne sono, in media, leggermente
meno intelligenti degli uomini. Quindi possiam0 concludere che il cervelo piu piccolo si spiega sulla base
della loro inferiorità sia in termini di misure che di intelligenza citato in Vidal 2012].

L'idea dell'importanza del cervello a chili, che conta in base al suo peso sulla bilancia, risente di una visione
dello stesso che celebrava la struttura come fattore fondamentale per comprenderne il funzionamento.
Una transizione straordinaria nello studio del funzionamento cerebrale è stata avviata a partire
dall'osservazione della sua plasticità

OVvero della sua capacità di trasformazione dinamica.

Come ci ricorda la neuroscienziata Vidal [ibidem] che ha dedicato molto del suo lavoro scientifico a
smantellare i pregiudizi neurosessisti, il cervello umano è composto da 100 miliardi di neuronie da 1
milione di miliardi di sinapsi che li connettono (mediamente ogni neurone si connette ad altri 10 mila
neuroni). Solo 6 mila sono invece i geni coinvolti nel sistema nervoso. Quest che cosa significa? Significa che
non abbiamo un numero di geni abbastanza grande da controllare i miliardi di sinapsi di cui disponiamo.

Alla nascita il cervello ė ben lontan0 dall'essere ció che diventerå in futuro. Infatti, solo una piccola parte, il
10 per cento per l'esattezza, dei 100 miliardi di neuroni è già interconnesso. La stragrande maggioranza
delle sinapsi, ben il 90 per cent0, si svilupperà col tempo per effetto degli stimoli ambientali - familiari,
educatüvi, culturali ecc.

Il concetto di plasticità, osserva Vidal, consente una vera e propria rivoluzione: mette in discussione il
determinism0 neurogenetico che stabilisce che viene prima la struttura e poi la funzione cerebrale, sfida le
vecchie dicotomie fra natura e cultura e indica, con brillante nitidezza, che i fenomeni dell'esistenza umana
sono simultaneamente biologicie sOciali. Le tecniche di neuroimaging - ossia linsieme delle tecniche che
consentono di esaminare la struttura, la funzione o la biochimica del sistema nervoso- lo mostrano molto
bene. Un esperimento condotto con dei violinisti [Elbert et al. 1995] ha mostrato che la regione del cervello
di queste persone che controlla la mano sinistra è più ampia rispetto alla regione del cervello che controlla
la mano destra, perché le dita della mano sinistra sono più attive nei movimenti sul violino a differenza
delle dita della mano destra che hanno il compito, durante la performance musicale, solo di muovere la
bacchetta.

Sempre restando nell'ambito musicale, anche il cervelo dei pianisti professionisti è molto interessante,
mostrando uno spessore maggiore della materia grigia della neocorteccia nelle regioni che controllano i
movimenti delle dita [Gaser e Schlaug 2003]. Questo spessore varia in relazione al tempo trascorso a
suonare il pianoforte durante l'infanzia e durante l'età adulta. Dalle melodie armoniose musicali al caos
infernale del traffico di una metropoli: nei tassisti londinesi, che come tutti i tassisti trascorrono gran parte
del proprio tempo in auto, le aree cerebrali che governano l'orientamento e la memoria sono tanto
sviluppate quanti son0 gli anni di lavoro [Maguire, Gadian e Frith 2000]. Queste ricerche indicano dunque
come si verificano nel tempo dei cambiamenti strutturali nel cervello per effetto della ripetuta esposizione
funzionale. La plasticita perô non si riferisce soltanto al fatto che questi cambiamenti possono essere
introdotti, ma anche al fatto che essi son0 reversibili. Insomma, le reti neurali apprendono pattern ripetitivi
di informazioni e le incarnano strutturalmente e funzionalmente nel cervello [Vidal 2012].

I dati sulla plasticità cerebrale illustrano con chiarezza che la visione deterministica e riduzionista, in cui noi
siamo il nostro cervello e il nostro cervello è dato da molecole il cui funzionamento è programmato dai geni
fin dall'inizio, è semplicemente scorretta.

Mettiamo da parte però, per quanto risulta davvero difficile farlo, il tema della plasticità cerebrale, e
andiamo a quello del «sesso del cervello». Si parla spesso di sesso del cervello riferendosi con
quest'espressione a tre cose: le differenze fra uomini e donne relative all'anatomia cerebrale, le differenze
relative alla fisiologia e infine le differenze comportamentali collegate alle funzioni cerebrali Fausto-Sterling
2012]

Abbiamo visto prima che il cervello maschile è più grande di quello femminile.

Sappiamo anche che il cervello delle donne ha una più alta percentuale di materia grigia l'insieme dei corpi
dei neuroni) e una più bassa percentuale di materia bianca (gli assoni dei neuroni riuniti in fasce) degli
uomini, che il cervello degli uomini ha ventricoli (le cavità all'interno dell'encefalo) più grandi di quello delle
donne, che le donne hanno un'amigdala più piccola e un ippocampo piu grande rispetto agli uomini. Se il
nostro cervello è divers0 a seconda del sesso, come possiamo anche solo pensare che le nostre psicologie e
1 nostri comportamenti non lo Siano? Come possiamo insomma trascurare queste differenze fra uomini e
donne per comprenderne il comportamento? Per rispondere a questa domanda, direi di partire con
un'ulteriore domanda: siamo proprio sicuri e sicure che il nostro cervello abbia un sesso?

Nel 2015, il gruppo di ricerca coordinato da Daphna Joel dell'Università di Tel Aviv ha pubblicato sulla
prestigiosa rivista americana «PNAS-Proceedings of the National

Academy of Sciences» i risultati di un lavoro proveniente da quattro diversi laboratori in cui, con il supporto
della risonanza magnetica, è stata esaminata la materia grigia di più di 1.400 cervelli. Nello studio è stata
esaminata la materia grigia di 116 regioni di ogni cervello e dopo, in un sottoinsieme di encefali, sono state
identificate le regioni, fra le 116 in esame, in cui erano presenti le differenze piu grandi fra i cerveli dei
maschi e i cervelli delle femmine, «colorandole» rispettivamente di celeste e di rosa. Sono stati poi
esaminati gli altri cervelli del campione e dall'esame di questi Joel eil suo gruppo hanno trovato che le
persone reclutate, in una percentuale che andava dal 23 al 53 per cento (a seconda del sottoinsieme di
cervelli esaminato), avevano dei cervelli con parti sia rosa sia celeste e che, in generale, nella maggioranza
dei casi in ogni cervello era presente una combinazione assai variabile di rosa e celeste. E stato inoltre
riscontrato che le persone con un cervello compattamente celeste o rosa, e dungue coerentemente
«maschile» o femminile», erano meno dell'8 per cento (dallo 0 all'8 per cento a seconda del
sottocampione), indicando dunque l'esistenza di una grande variabilità (mosaicismo cerebrale) all'interno
dei gruppi di cervelli divisi per genere.

Joel, insieme a un'altra neuroscienziata, Margaret McCarthy, nel 2017 ha proposto un quadro
interpretativo per problematizzare le differenze di genere nell'ambito delle neuroscienze sollecitando la
comunità scientifica a porsi almeno quattro domande ogni volta che si riscontra qualcuna di queste
differenze. La prima è relativa alla possibilità di definirle come persistenti lungo il ciclo di vita, la seconda è
relativa alla possibilità di collocarle in categorie che si escludono mutuamente (da un lato una caratteristica
che riguarda solo gli uomini, dall'altra una caratteristica che riguarda solo le donne), la terza è relativa
all'indipendenza di queste differenze dal contesto culturale e, infine, la quarta, collegata alla terza, è
relativa alla possibilità che abbiamo di individuare una relazione di causalità chiara e netta fra un
comportamento e il corrispettivo sesso biologico senza considerare l'effetto indiretto delle aspettative
sociali e culturali.

Nel suo brillante volume The Gendered Brain. The New Neuroscience that Shatters the

Myth of the Female Brain, la neuroscienziata Gina Rippon [2019] osserva che per secoli la filosofia e le
scienze umane non sono riuscite a trovare una risposta convincente alla domanda se gli uomini e le donne
siano diversi, probabilmente per un motivo più banale di quello che pensiamo: avevano semplicemente
sbagliato la domanda da porsi! Questo tipo di domanda nasce infatti da una visione binaria di genere in cui
si ritiene che il dato

Scontato, non discutibile, da cui partire sempre è che le persone siano distinguibili in due gruppi, i maschi di
qua e le femmine di là, sulla base delle loro caratteristiche genetiche, gonadiche e genitali.

Un passaggio chiave per superare questo automatismo è stato mettere in discussione il binarismo di
genere, smettendo di pensare a un cervello maschile e un cervello femminile, abbandonando l
neurosessismo e cominciando a guardare ai nostri cervelli come a un mosaico di eventi passati e future
possibilità. Del resto già nel 1993 la biologa

Anne Fausto-Sterling aveva proposto l'idea dei cinque sessi per suggerire che avessimo bisogno di almen0
cinque categorie per coprire anche i casi delle persone intersex: agli estremi del continuum la studiosa
proponeva di collocare il maschile e il femminile come tendiamo a pensarli di solito, al centro del
continuum gli ermafroditi puri (persone ad esempio con una compresenza di ghiandole genitali dei due
sessi) e nei punti intermedi del continuum gi pseudoermafroditi maschii e femminili, persone
rispettivamente con corredo cromosomico XY e XX, con testicoli e ovaie ma con genitali atipici. Anche più di
recente, nel 2015, un articolo di Caline Ainsworth sull'influente rivista «Nature» ha puntato l'attenzione sul
fatto che il sesso possa essere più complicato di quanto sembri, riportando ad esempio storie tutt'altro che
rare di individui con cariotipo misto (alcune linee cellulari XY, altre XX). I tempi sono maturi perché la
distinzione in due categorie dei cervelli, da un lato quello maschile e dall'altro quello femminile, sia
abbandonata una volta per tutte. Sperando di avervi convinte e convinti sulla mancanza di scientificità delle
differenze cerebrali come base delle differenze psicologiche, resta un altro punto non trascurabile da
esaminare: il potere degli ormoni nell'influenzare il nostro comportamento. Detto in modo diverso e al
limite dello splatter: siamo quello che secerniamo? In Testosterone Rex, volume dal titolo molto suggestivo
del 2017 che ha vinto il premio della Royal Society inglese come miglior libro dell'anno, la filosofa della
scienza

Cordelia Fine riflette sulla visione tradizionale delle differenze fra uomini e donne basata sugli ormoni e che
definisce tanto potente quanto desueta, proprio come il tyrannosaurus

Lintent0, mutuando in realta un'espressiorne coniata in precedenza dall'endocrinologo Richard Francis, è di


ironizzare sulla visione di quest'ormone come l'artefice del nostro destin0, come il responsabile di tutti i
nostri comportamenti - soprattutto quelli maschili, e per sottrazione quelli femminili - e in ultima analisi
come lessenza biochimica della mascolinità. II testosterone, del resto, è stato biasimato davvero rex.

per qualsiasi cosa, dalla violenza ai crimini, ai furti, per arrivare perfino a spiegare la crisi finanziaria del
2008 sulla base della sistematica sottovalutazione dei rischi delle proprie scelte che avrebbero prodotto la
bolla finanziaria che ben conosciamo.
II tema del potere presunto o reale del testosterone ha riscosso molto interesse negli ltimi anni, tanto da
dare vita a libri interamente dedicati a esso. Oltre a quello già citato di Cordelia Fine, ė uscito da poco il
volume delle studiose Rebecca Jordan-Young e Katrina

Karkazis, Testosterone. An Unauthorized Biography, che smantella a uno a uno i miti relativi a
quest'ormone che da più di un secolo imperversano nella nostra visione delle

Cose

Un'idea diffusa è che il testosterone agisca dallo stadio prenatale a quelo della pubertà per modulare le
differenze nel comportamento di uomini e donne agendo soprattutt0 allo

Scopo di rendere gli uomini più aggressivi e più proattivi da un punto di vista sessuale per fini riproduttivi
[Herbert 2017]. Più precisamente il testosterone sarebbe una sorta di elisir ormonale di mascolinità: l'alto
livello di testosterone sarebbe causa diretta dei comportamenti «tipici» dei maschi cosiddetti alfa, come
aggressività, propensione al rischio e alto desiderio sessuale, e il basso livello di testosterone si assocerebbe
invece alla femminilità e in generale alla propesione per la cura della prole. In realtà le ricerche a
disposizione non supportano affatto l'idea che la maggiore quantità di testosterone negli uomini rispetto
alle donne possa spiegarne il comportamento. Ció nonostante, l'associazione fra testosterone e mascolinità
è cosi diffusa a livello culturale e scientifico che i manuali dedicati agi ormoni continuano a presentare il
testosterone come un ormone maschile. Del resto, in moltü si domandano perche dovremmo mettere in
discussione quest'associazione se i maschi di diverse specie animali, non solo quella umana, presentano più
alti ivelli di testosterone. Provo a spiegarlo.

Affermare che il testosterone è un ormone maschile pone un primo, non trascurabile, problema. Dato per
assodato che lo sia, come spieghiamo la sua presenza anche nelle donne? Potremm0 liquidare questa
domanda, affermando che la minore quantita di testosterone circolante nel corpo delle donne rispetto agli
uomini sia una riprova della sua minore importanza per le donne stesse. Questa sarebbe (ed è, visto che
spesso l'ascoltiamo) una sciocchezza da un punto di vita scientifico: confonderemmo, infatti, in questo
modo, la quantità di un fattore all'interno del corpo umano con la sua importanza.

Proviamo a traslare questo errore in un altro dominio fisico, ad esempio quello della massa muscolare. La
massa muscolare degli uomini è mediamente superiore a quella delle donne in termini quantitativi, ma
quest0 non vuol dire che per le donne la massa muscolare non sia altrettanto fondamentale. Ritornando
alle donne, sappiamo che il testosterone è l'ormone steroideo più biologicamente abbondante anche nel
corpo femminile e sappiamo inoltre che è cruciale per il loro sviluppo, per la loro fertilità e per lo stato di
salute in generale. Negli uomini e nelle donne, insomma, 1 recettori del testosterone si trovano in quasi
tutti i tessuti, esso contribuisce alla massa corporea, alla salute delle ossa, al funzionamento cognitivo ecc.
Tuttavia, lo studio dell'associazione fra testosterone e comportamento femminile è stato fino a oggi molto
trascurato, focalizzandosi per lo più sugli effetti del testosterone negli uomini tralasciandone gli effetti (se
così possiamo definirli) nelle donne.

Un altro aspetto da considerare riguarda non solo il testosterone ma in generale il modo in cui guardiamo
agli ormoni per spiegare il comportamento umano. Pensiam0, ad esempio, alla relazione fra testosterone
da un lato e desiderio sessuale e aggressivita dall'altro. Le ricerche indicano che, negli uomini in condizione
buona di salute, i livelli di testosterone non sono associati al desiderio sessuale e che livelli diversi di
testosterone non possono spiegare perché alcuni individui sono più aggressivi di altri [Sapolski 2017].

Cio nonostante l'idea diffusa è che il testosterone sia la causa del comportamento sessuale degli uomini e
della loro aggressività. Nell'endocrinologia comportamentale gli ormoni non sono intesi come la causa del
comportamento, ma come un elemento che ne influenza foccorrenza in un'interaz1one complessa con le
richieste che provengono dal contesto
SOCiale. Per questo, dire che il testosterone é la causa diretta della mascolinitā (ammesso e non affatto
concesso che la mascolinità sia definibile come una costante che non cambia nel tempo e nelle culture) o di
qualsiasi altro comportamento umano è un errore. Sarebbe più giusto affermare che il testosterone
influenza la probabilità che dei comportamenti considerati tipicamente maschili si verifichino in un essere
umano (uomo o donna che sia) e che i comportamenti considerati tipicamente maschili a loro volta
tendono ad aumentare il testosterone. Van Anders, Goldey e Kuo [2011| hann0 Sviluppato un modello
teorico interessante per spiegare il ruolo complesso degli ormoni nei legami sociali definito come
Steroid/Peptide Theory of Social Bonds (S/P Theory), proponendo

Taccudimento e la competitività come due dimensioni per spiegare le evidenze empiriche a disposizione
circa il testosterone. La competitività si riferisce all'accaparramento o alla difesa di risorse - e nelle risorse
possiamo inserire una molteplicità di fattori, dallo status alle risorse materiali, alle opportunità sessuali, alla
prole ecc. L'accudimento si riferisce al

SOstegno, al calore, all'affetto e puó esprimersi nella relazione con il/la parther, con gli amici, con la
famiglia e anche (ma non solo) con la prole. Van Anders osserva come i livelli alti di testosterone sono
associati alla competitività, piuttosto che alla mascolinità genericamente intesa come aggressivita, alla
propensione al rischio e a un interesse elevato per la sessualità. Bassi livelli di testosterone sono associati
all'accudimento piuttosto che alla femminilità e alla genitorialità. La definizione di cio che è competitivo o
accudente può essere specie-specifico, nel senso che cio che è considerato competitivo in una specie non è
detto che lo sia in un'altra, e può essere anche contesto-specifico, nel senso che, nella stessa specie, lo
stesso comportamento puó essere considerato come orientato alla cura in un contesto culturale ma non in
un altro. In sintesi, il testosterone non è un omuncolo inserito nel cervello degli uomini con la funzione di
guidare il loro comportamento. Piuttosto che come un re che dà ordini, come ci ricorda Cordelia Finne
2017a e b], il testosterone va inteso come una delle numerose voci in un gruppo chiamato a decidere del
nostro comportamento.

Dal cervello agli ormoni abbiamo visto quanto potente sia la suggestione di spiegazioni biologiche del
comportamento umano. Le spiegazioni biologiche sono percepite di solito come più credibili dalle persone:
basti pensare che la semplice presenza della figura di un cervello in un articolo scientifico contribuisce ad
aumentare la credibilità dell'articolo stesso nei lettori [Weisberg, Taylor e Hopkins 2015]. C'è qualcosa di
più che spiega il loro fascino: le azioni umane attribuite alla biologia sono spesso percepite come al di là del
nostro controllo, a differenza di quelle attribuite alle cause psicologiche. Quando affermiamo che un
comportamento è «biologico» stiamo dicendo tante cose. Diciamo, ad esempio, che quel comportamento è
causato solo da processi biologici, che il comportamento in questione sarà fortemente resistente a ogni
tentativo di modificarlo, che quei comportamenti esistono e devono esistere perché sono biologici,
naturali, e dunque corretti e morali: distanziarsi da quei comportamenti è pertanto patologico, sbagliato,
immorale [Addis e Hoffman 2019|. Il punto è superare una volta per tutte il binarismo natura/cultura,
poiché la natura e la cultura, l'abbiamo visto prima parlando di plasticità cerebrale, sono due dimensioni
tanto interconnesse da essere inscindibili.

Nel Ventunesimo secolo, nelle scienze psicologiche e nelle neuroscienze senza dubbio qualcosa è iniziato a
cambiare. Come abbiamo visto in questo paragrafo, si è iniziato a mettere in discussione proprio la
domanda relativa alle differenze fra uomini e donne: per usare le parole di Gina Rippon, «to question the
question». Le domande di ricerca sono spesso frutto dei nostri valori, della nostra visione del mondo e della
nostra ideologia. Pensiamo al concetto di razza. Un tempo, questo concetto era considerato valido
scientificamente. Negli USA e in Sudafrica, sulla base della razza, molti scienziati guidati da un'ideologia
razzista hanno esaminato le differenze fra i neri e i bianchi in termini biologici e cerebrali - i neri hanno il
cervello più piccolo dei bianchi - e assegnato cosi una patente scientifica alla vergogna della segregazione
razziale. Ma non è necessario andare oltreoceano o al di là dell'equatore per vergognarci. Un'altra pagina
ignobile nella storia della scienza é stata scritta proprio nel nostro paese quando, nel 1938, viene
pubblicato il Manifesto della razza, detto anche Manifesto degli scienziati razzisti, in cui fira le altre
sciocchezze si dice che gli ebrei non appartengono alla cosiddetta razza italiana e che caratteri fisici e
psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L'unione è
ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio
ibridismo, dato che queste razze appartengono a un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri,
mentre son0 uguali per moltissimi altri. I carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato
dall'incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli
ariani.

Fa un certo effetto vedere le firme di quel manifesto: vi si trova un docente di patologia generale
dell'Università di Roma, un docente di antropologia dell'Università di Firenze, un docente di
neuropsichiatria dell'Università di Bologna, presidente della Società italiana di psichiatria, un docente di
endocrinologia dell'Università di Roma e via discorrendo.

Pensiamo dunque a questo tema della razza. Oggi sarebbe considerato oltraggioso se venissero condotte
delle ricerche sulle differenze comportamentali e psicologiche fra bianchi e neri, fra ebrei e non ebrei.
Abbiamo insomma messo in discussione la domanda e abbiamo compreso che essa era il frutto avvelenato
di una società razzista e non una curiosità scientifica come qualsiasi altra. La strada da fare per acquisire la
stessa consapevolezza rispetto al genere e rendersi conto che ll'ostinata ricerca di differenze fra uomini e
donne in termini psicologici e comportamentali è il frutto altrettanto velenoso di un'ideologia sessista è
ancora lunga ma il percorso scientifico è per fortuna iniziato ed è ormai inarrestabile. 3. Mascolinità
invisibile: dell'arte di restare nascosti pur essendo in piena luce

Fino a questo momento sono state presentate le evidenze scientifiche relative alla sostanziale similarità fra
maschi e femmine, fra uomini e donne. Resta però un punto non trascurabile: se le ricerche psicologiche ci
dicono che siamo sostanzialmente simili, perché allora gli uomini ci appaiono spesso cosi diversi dalle
donne? Si è già parlato del potente processo di categorizzazione su cui la nostra mente si basa
nell'interazione con la realtà e degli errori percettivi a esso collegati. Sebbene sia una condizione
necessaria, la categorizzazione sociale non è tuttavia sufficiente per comprendere appieno la mascolinità e
il perché si esprime, nel nostro contesto storico-culturale, attraverso i modi specifici che conosciamo.

Perché la comprensione della mascolinità possa completarsi è necessario compiere un ulteriore passaggio
in cui connettiamo il processo psicologico della categorizzazione con un processo sociale. E ora, insomma,
di fare riferimento al patriarcato. Questo termine risulta oggi desueto, come se fosse in grado di riportare
chi lo pronuncia e chi l0 ascolta dritto dritto in una sala fumosa degli anni Settanta del secolo scorso dove
ragazze con gonnellone a fiori e foulard colorati da un lato e ragazzi con i capelli lunghi e pantaloni a zampa
dall'altro discorrono dei massimi sistemi ascoltando Bob Dylan e fumando marijuana. E invece, è molto più
attuale di quanto siamo indotti a pensare, sebbene presenti iîn termini teorici le sue criticita soprattutto
quando viene adottato a torto come un fenomeno universale, trasversale a tutte le diverse epoche storiche
e a tutte le diverse culture.

Pur riconoscendone i limiti, è difficile trovare un corrispettivo altrettanto efficace e, per questo, ho scelto di
far riferimento al costrutto di patriarcato in questa sede.

Letteralmente traducibile con «la legge del padre», il termine patriarcato designa un sistema socioculturale
che a livello formale o solo simbolico ha caratterizzato spesso nel passato molti paesi del mondo e che
ancora adesso li caratterizza. Nel patriarcato, il potere e il controllo delle risorse - dall'ambito sociale a
quello politico ed economico- sono nelle mani degli uomini [Johnson 1997]. Gli uomini e le donne sono
collocati in posizioni sociali diametralmente opposte (di dominazione gli uni e subordinazione le altre) al
fine di legittimare, promuovere e rafforzare il privilegio e la supremazia maschile. I dati del Global Gender
Gap Report 2020 relativi alle disuguaglianze di genere in politica, istruzione e lavoro parlano chiaro.
Nessuna e nessuno di noi avrà modo di vedere una società libera dalle disuguaglianze di genere prima di
cento anni. Ci aspetta ancora un lunghissimo secolo di disuguaglianze, tanto per fare subito i conti con il
fatto che le conseguenze del patriarcato non riguardano solo il passato e il presente ma, purtroppo, anche il
futuro.

Il patriarcato ha plasmato il modo in cui intendiamo la mascolinità: non si può parlare di uomini e
mascolinità senza far riferimento alla categoria del potere, perché è proprio nel potere che la mascolinità si
delinea e prende forma. Ma di quale potere parliamo nello specifico? Possiamo individuarne due
manifestazioni tipiche, la prima relativa al potere degli uomini sulle donne e la seconda relativa al potere di
alcuni uomini su altri uomini [Kimmel 1993]. E ciò che Bourdieu [1998] definisce somatizzazione dei
rapporti sociali di dominio, un lavoro collettivo e incessante di biologizzazione di categorie sociali in cui la
differenza anatomica tra i caratteri sessuali primari e secondari diventa la giustificazione «naturale» di una
differenza socialmente costruita che influenza le scelte e il potere a cui le persone hanno più o meno
accesso. Nel volume Masculinities, Connell [1995] introduce un'espressione specifica, mascolinità
egemone, proprio per definire tutte quelle pratiche di genere che garantiscono o hanno la funzione di
garantire la legittimità del patriarcato.

Sebbene l'intreccio fra genere e potere sia centrale nell'organizzazione dei nostri sistemi sociali, esso li
permea in un modo tanto pervasivo da diventare subdolo, tanto ovvio da finire per essere irriconoscibile. A
essere interessati da quella che possiamo definire come inconsapevolezza di genere sono gli uomini, molto
più delle donne. Quando si parla della relazione fra potere e genere e di tutto quello che ne consegue, il
fastidio, l'insofferenza, gli occhi rivolti al cielo sono reazioni molto comuni fra gli uomini, anche i piu
progressisti.

Come spiegare questa irritazione di genere? Per rispondere al quesito in modo molto sintetico possiamo
fare cenno a una singolare cecità sociale. Accade spesso che la condizione di privilegio diventi invisibile agli
occhi di chi ne gode. Non fanno eccezione in questa «illusione ottica» i privilegi associati all'essere maschi.
Micheal Kimmel [2005], fra i più autorevoli studiosi di mascolinità, ha descritto molto bene l'esperienza del
toccare con mano l'invisibilità del privilegio. Il sociologo ha più volte raccontato nei suoi scritti un confronto
a cui ha assistito mentre seguiva un seminario universitario negli anni Settanta.

Due donne, una bianca e una nera, discutevan0 animatamente sulla possibilità di definire o meno tutte le
donne come «sorelle». Mentre la donna bianca era assolutamente di questo avviso, motivando la sua
posizione sulla base del fatto che tutte le donne sono in fondo accomunate dalla stessa oppressione
maschile, la donna nera dissentiva convinta.

Cio che Kimmel trovò più interessante fu la domanda posta da quest'ultima alla donna bianca su cosa
vedesse alo specchio, guardandovisi riflessa ogni mattina. La donna bianca rispose che ciò che vedeva era
una donna e la donna nera le spiegò a quel punto che era proprio vedere una donna e solo una donna il
motivo per cui non potevano essere accomunate dalla stessa esperienza. Lei invece era condannata a
vedere il colore nero della sua pelle ogni santo giorno, essendo proprio quello uno dei motivi della sua
discriminazione. La dimensione etnica era invisibile agli occhi della essendo quello il modo in cui il suo
privilegio si esprimeva socialmente. Posta a Kimmel la stessa domanda su cosa vedesse lui, guardandosi allo
specchio ogni mattina, il sociologo rispose con ironica prontezza che vedeva un uomo che in - quanto
bianco e di classe media - non aveva classe, non aveva razza, non aveva genere. Era in sintesi un essere
umano generalizzabile a livello universale.

La risposta scherzosa e arguta di Kimmel pone luce su un fenomeno tanto noto quanto trascurato, quello
dell'uomo come standard e idealtipo dell'umanità. In una vignetta dello splendido fumetto di Calvin e
Hobbes di Bill Watterson, Calvin chiede davanti all'armadietto della scuola: «Ti fa schifo essere una
bambina?». Lei gli risponde senza esitazioni che essere una bambina è, comunque, sempre meglio
dell'alternativa. A quel punto, Calvin le chiede molto incuriosito: «Ah si? E com'è essere un insetto
allora?!».
Con lefficacia dei fumetti di tratteggiare precisi tic umani, l'adorabile Calvin ci dona, in una sola immagine,
un'eloquente lezione: il maschio, in quanto prototipo dell'umanità, non puð essere alternativo a una
femmina.

Continuando su questo fronte, pensiamo al linguaggio professioni (prestigiose) per definire sia gli uomini
sia le donne: luso del maschile generico è una pratica talmente potente che ci appare come neutra, frutto
semplicemente della consuetudine. II privilegio maschile di essere standard linguistico è talmente invisibile
da essere ben accettato anche da molte donne che ritengono sminuente la declinazione al femminile di una
professione: «Sindaca è cacofonico e non è italiano!» affermano, subito dopo aver detto di «aver trovato
un posto dove mangiare finger food e aver taggato un amico su Facebook per poterci andare dopo essersi
liberate da una skype call di un noioso meeting di lavoro durante il quale hanno googlato le parole street
food per trovare un posto ben recensito» pronunciando abilmente il misterioso e inedito dittongo gl di
googlare, per la lingua italiana. In sintesi, facendone una questione ina bianca, una sua amica all'uso del
maschile nelle meramente sonora e di rispetto dell'italiano che in realtà prevede le declinazioni, ma questa
è davvero un'altra storia queste persone, riluttanti a declinare al femminile le professioni, estromettono dal
discorso il vero e indiscusso protagonista, il potere.

Linvisibilità della mascolinità ha anche un'altra faccia paradossale. Pensiamo, ad esempio, alla singolare
relazione fra gli uomini e le scienze psicologiche. Fin dai suoi esordi, la psicologia ha studiato a tutti gli
effetti solo gli uomini: per lo piu maschi erano infatti i partecipanti delle ricerche sulla base delle quali si
costruivano teorie, e per lo più maschi erano pure gli studiosi che elaboravano quelle teorie. Nonostante
questa sOVrarappresentazione, negli studi psicologici gli uomini sono stati difficilmente studiati in quanto
uomini. Essendo, come Kimmel ha ben descritto, rappresentativi degli esseri umani in generale, prototipo e
idealtipo dell'umanità, è stata in fondo sottratta anche a loro la possibilità di comprendere gli effetti del
genere sulla propria identità. Ironia della sorte, svelando la tendenza uomocentrica in psicologia, la ricerca
femminista ha consentito di dare luce non solo ai significati socioculturali associati all'essere donne, ma
anche a quelli associati all'essere uomini [Jansz 2000].

Quali sono i dispositivi psicosociali attraverso cui il privilegio diventa invisibile agli occhi di chi ne gode,
attraverso cui non si vede lelefante nella stanza? Possiamo individuarne principalmente tre ossia il bias a
favore del Sé, lerrore fondamentale di attribuzione e lideologia meritocratica [Addis e Hoffman 2019]. Il
primo meccanismo consiste nella tendenza Sistematica che abbiamo, Come esseri umani, a spiegare il
successo che otteniamo sulla base dei nostri sforzi, dei nostri meriti, del nostro talento, ignorando le
circostanze esterne che hanno contribuito a quel successo. L'errore fondamentale di attribuzione, che
possiamo definire come la controparte sociale del bias a favore del Sé, consiste nel sottostimare
l'importanza dei fattori sociali sovrastimando il ruolo dei fattori disposizionali e di personalitå quando
spieghiamo il comportamento altrui. Linsuccess0, il fallimento o in generale le difficoltà degli altri sono
spiegate prendendo sottogamba il ruolo del contesto sociale. In ultimo, l'ideologia meritocratica in base alla
quale chi lavora sodo sarà ricompensato con il successo e dunque se hai successo questo vuol dire che hai
lavorato duro. Sono molti gli esempi che potremmo fare in termini storici e non: nella storia della
conoscenza umana ci sono più uomini artisti, poeti, letterati, Scienziati perché gli uomini sono più razionali
e votati alla conoscenza. O ancora restando sempre all'ambito della conoscenza, nelle conferenze si
invitano solo o almeno soprattutto relatori uomini semplicemente perché sono 1 piu bravi. Possiamo
continuare con la politica: gli uomini in politica sono più delle donne e quelli che raggiungono posizioni
apicali lo sono ancor di piu, perché le qualità per fare politica sono soprattutto gli uomini ad avercele, e cosi
via.

Che il privilegio sia un vantaggio per chi lo possiede è a tutti gli effetti tautologico: essendo invisibile, le
persone privilegiate tendono a convincersi che sono i meriti personali ad aver consentito loro di acquisire
maggiori e più significative risorse materiali, simboliche ecc. e non invece una condizione avvantaggiata di
partenza.
L'invisibilità del privilegio maschile ha però un'altra faccia della medaglia: ha reso gli uomini tanto
generalizzabili e tanto standard da condannarli a seguire nella propria esistenza, per adeguarsi
continuamente a quello standard, un percorso tutt'altro che libero e autonom0. 4. Mascolinità precaria: di
affannose e perpetue prove di sé

Ritorniamo alla domanda che ci accompagna con insistenza dall'inizio di questo capitolo: che cosa significa
essere un uom0? Spesso nel linguaggio comune questa domanda si formula in modo leggermente diverso,
un modo assai suggestivo, in cui si accompagna con un aggettivo... Che cosa significa essere un vero uomo?
Se esiste un vero uomo vuol dire anche che dobbiamo stare attenti a non confonderlo con la sua versione
falsa, quella non originale e contraffatta. E frequentissimo leggere sui giornali - online e offline - articoli
preoccupati e allarmati sul declino della mascolinità, sulla mascolinità in crisi, sulla mascolinità sempre più
fragile e gracile. In sintesi, una sorta di panico morale sul maschio che non è più maschio, o sul maschio che
non lo è abbastanza. Il linguaggio che le persone usano per descrivere la mascolinitâ spesso tradisce questa
preoccupazione continua, quest'ansia a tratti opprimente. Al di là dei giornali, espressioni come «non
essere abbastanza uomin», «non essere abbastanza duri», «essere troppo teneri» ritornano di frequente
nelle valutazioni che sia le donne sia gli uomini fanno in merito alla mascolinità.

In psicologia sociale, Vandello e colleghi [2008; 2013] hanno proposto l'affascinante concetto di mascolinità
precaria mutuandolo dagli studi antropologici di David Gilmore [1990]. L'antropologo osserva come
l'ingresso nella maturità sociale avvenga diversamente per le donne e per gli uomini. Mentre per le prime,
in molte culture, il passaggio alla femminilità adulta si sancisce con un marker biologico, ossia l'arrivo della
prima mestruazione, per i secondi manca un corrispettivo fisico altrettanto chiaro e indipendente dalla
volontà del singolo. In assenza di un passaggio biologico sOcialmente riconosciuto, i riti di iniziazione
avrebbero avuto proprio questa funzione di consentire, nei maschi, il passaggio simbolico e sociale
dall'infanzia all'età adulta.

Oggi soprattutto nei paesi occidentali questo tipo di rituali si sono in parte estinti, ma di certo non
possiamo affermare che nella nostra società evoluta e fluida la prova pubblica della mascolinità abbia perso
il suo valore, tutt'altro. Ritualizzare in un momento preciso il riconoscimento della mascolinità consentiva,
in qualche modo, agli uomini di concentrare gli sforzi perché in una sola prova ne potessero dare
dimostrazione, liberandosi poi da questo fardello una volta per tutte. La mancanza ufficiale, rituale di
queste prove contribuisce invece a rendere ambigu0, incerto e problematico lo status collegato all'essere
maschio. In assenza di una prova ufficiale a dimostrazione della propria mascolinitā, le prove a cui
sottoporsi diventano continue e potenzialmente infinite. La mascolinità è infatti sancita principalmente per
via sociale e per questo richiede continue dimostrazioni pubbliche di sé, come in un'infinita prova attoriale
con tanto di pubblico pronto a dare un giudizio. Non solo la mascolinità è qualcosa che si raggiunge con
difficoltà: essa è sempre in bilico, si smarrisce con facilità, è temporanea, non è data una volta per tutte e
per questo richiede continue dimostrazioni e prove di sé.

Iniziamo a scorgere la portata emotiva di questo tipo di visione del maschile e di quali conseguenze
psicologiche possa avere nella vita degli uomini. La mascolinità si costruisce proprio attorno a questa
preoccupazione di essere dimostrata in modo attivo e pubblico.

Ma che cosa definisce la vera mascolinità così da poterne dare prova? Ho ripetuto, fino quasi allo
sfinimento di chi legge, che la mascolinità è un concetto sfuggente, inafferrabile. Un tentativo di definizione
possiamo tuttavia provare a proporlo, in riferimento alla contemporaneità e a partire proprio dalla teoria di
Vandello e colleghi.

Una componente fondamentale della mascolinità cosi come oggi è intesa va rintracciata nel mandato
dell'antifemminilità. In cosa consiste questo mandato? Lo status di vero uomo si raggiunge (sempre
temporaneamente, lo ricordo) allontanando dal proprio modo di sentire, dal proprio modo di pensare e dal
proprio modo di comportarsi, insomma dal proprio Sé, la femminilità. Nel 2019, nella scuola San Pancrazio
di Albano Laziale [MaiMa 2019] è stato proposto un corso su Come crescere un uomo. Contro
l'efeminatezza. Nel sito si legge:

Dobbiamo chiederci che cosa resta della virilità in questo momento [...]. La virilità è in uno stato di
spaventoso declino. Sono rimasti pochissimi uomini veri, l'effeminatezza è a tutti gli effetti la norma.
Trovare un uomo che non sia effeminato è davvero molto raro di questi tempi e il fenomeno interessa
ormai lidea di virilità in generale. Ogni volta che qualcuno appare sui media mostrando un tratto qualsiasi di
comportamento virile, la persona e la sua reputazione vengono ferocemente attaccati per distruggerli,
perché non si vuole che nessuna immagine di vera virilità salga alla ribalta [..].

L'effeminatezza è stata a fasi alterne un problema nel corso della storia, ma oggi è fuori controllo, al punto
che a volte è necessario vincere il desiderio di prendere a schiaffi certi uomini per dar loro una lezione di
virilità. [...] Il tipo di virtü che un uomo deve possedere è la fortezza. Un vero uomo prova soddisfazione nel
compiere azioni difficili e se ne compiace. Questo non significa che tutto ciò che fa debba essere arduo e
faticoso, finirebbe per esaurirsi. Ma alla fine di una giornata di duro lavoro apprezza la sensazione di
stanchezza fisica che ne ricava. Per natura gli uomini dovrebbero eccellere più in fortezza, le donne in
temperanza, specialmente in castità e modestia.

Come si è appena visto, una concezione tradizionale relativa all'essere maschio stabilisce che la presenza di
mascolinità debba necessariamente associarsi all'assenza di femminiità. Come osserva Kimmel [1994], ciò
che chiamiamo mascolinità è per gli uomini un impegno enorme in attività che impediscano agli altri di
vedere attraverso di loro, un guscio di protezione per evitare di essere smascherati come degli impostori di
genere e uno sforzo frenetico per tenere a bada questa paura. In sintesi, un enorme impegno difensivo per
evitare di essere devirilizzati. L'identità maschile si organizza attorno al nemico infido della femminilità,
pronto in ogni momento a minacciare lo status di vero uomo. Come in una sorta di guerra simbolica, gli
uomini devono stare sempre all'erta e in trincea per difendersi. Come affrontare questa guerra?
L'addestramento militare, per restare nella metafora, inizia fin da bambini: la svalutazione della femminilità
passa attraverso rimproveri familiari come «Non comportarti come una femminuccial», «Non piangere!»,
«Fai l'uomo!». I bambini apprendono cosi molto precocemente l'attitudine alla vigilanza psicologica che
consente loro di monitorare in modo incessante la posibile presenza di segnali femminili nel proprio
comportamento.

Sebbene sia i bambini sia le bambine siano incoraggiati e incoraggiate ad assumere comportamenti tipici
del proprio genere, sono soprattutto i maschi a essere puniti dai padri quando trasgrediscono questa
regola, una punizione simbolica che passa ad esempio attraverso la ridicolizzazione e piu in generale si
esprime come la messa in discussione della mascolinità [Skočajić et al. 2020].

Che cosa accade quando la propria mascolinità viene minacciata? Che cosa vuol dire nel concreto una
minaccia alla propria mascolinità? Vuol dire dubitare, vuol dire esprimere delle perplessità sul fatto di
essere un «vero maschio». Quando la propria mascolinità viene minacciata, viene messa in discussione, si
genera negli uomini una reazione di difesa. Devono correre alla svelta ai ripari per ristabilire l'integrità, la
forza, l'autenticità della propria immagine mascolina. Come? Attraverso quello che Willer e colleghi [2013]
chiaman0 ipercompensazione maschile,

Compensazione repertorio di comportamenti di che vanno dall'aggressività inappropriata all'assunzione di


un comportamenti rischiosi altrettanto inappropriati. Per osservare come gli uomini reagiscono di fronte a
una minaccia alla propria mascolinità, sono stati condotti molti studi dai disegni di ricerca sperimentali assai
creativi. Bosson e colleghi [2009], ad esempio, hanno minacciato lo status di genere degli uomini
inducendoli a esibirsi pubblicamente in un compito considerato molto femminile. In cosa consisteva questo
compito? Agli uomini si presentava lo studio come un test di coordinazione fisica. Nella condizione
sperimentale, i partecipanti erano seduti di fronte a un manichino femminile con una parrucca e il loro
compito consisteva nell'intrecciare i capelli del manichino per poi legarli con dei nastri rosa. Nastro rosa più
treccia ai capelli: un vero e proprio atto terroristico nei confronti della virilità tradizionalmente intesa! Agli
uomini nella condizione di controllo è stato chiesto di svolgere lo stesso identico compito da un punto di
vista fisico, in questo caso però l'attività era innocua rispetto alla mascolinità poiché consisteva
nell'intrecciare una corda. Dopo il compito di intrecciatura, è stato chiesto agli uomini di scegliere fra due
attività: un puzzle o colpire un sacco da boxe. Oltre il doppio degli uomini ha preferito colpire un sacco da
boxe dopo aver svolto l'attività di intrecciatura dei capelli rispetto a quella della corda, indicando come le
minacce di genere motivano gli uomini a ripristinare il proprio status virile attraverso aperte dimostrazioni
di comportamento aggressivo.

Weaver, Vandello e Bosson in uno studio del 2013 hanno chiesto a metà dei loro partecipanti uomini di
provare una crema dalla tipica profumazione femminile alla frutta applicandola sulle proprie mani (cosa
che, hanno riferito i partecipanti, li ha fatti sentire meno virili) e all'altra metà invece di provare un trapano
elettrico, afferrandolo concretamente e immaginando di usarlo. Successivamente, tutti gli uomini hanno
giocato a un gioco d'azzardo in cui potevano vincere dei soldi reali. Gli uomini inseriti nella condizione
«crema alla frutta per le mani» significativamente più alte in termini di posta di quelli che avevano testato il
trapano elettrico. hanno effettuato SCommesse

Interessante, infine, come gli uomini con delle caratteristiche del viso meno mascoline (le cosiddette
babyfaces) e che quindi sono cronicamente esposti per via del loro volto a una minaccia di femminilità al
proprio status maschile tendano ad avere personalità più ostili e assertive |Zebrowitz, Collins e Dutta
1998], a ricevere con più frequenza riconoscimenti militari per il proprio coraggio ed eroismo [Collins e
Zebrowitz 1995] e a

Commettere con più frequenza dei crimini |Zebrowitz et al. 1998] rispetto a quelli con una faccia più
coerente con i canoni tradizionali della mascolinità.

Lo status precario della mascolinità, lo stare sempre in bilico fra una condizione maschile di forza e dominio
e una condizione devirilizzata di debolezza e assenza di controllo è illustrata bene anche nei messaggi che ci
propongono i media. Nel 1938, durante il periodo della grande depressione in cui leconomia americana è in
ginocchio e la disoccupazione maschile tocca vette spaventose, Jerry Siegel e Joe Shuster pubblicano il
primo numero di un fumetto che segnerà l'immaginario occidentale. Nelle primissime immagini vediamo
rappresentato un uomo dotato di una forza talmente straordinaria da essere in grado di sollevare
un'automobile senza difficoltà, di correre più veloce di un treno in corsa e di volare da un palazzo a un altro.
L'uomo indossa un costume blu molto aderente e un mantello rosso (a pensarci, quasi potremmo dire una
versione aggiornata dell'abbigliamento del Re Sole, senza però scarpe col tacco e parrucca). Quesť'uomo
può volare attraverso lo spazio alla velocità della luce, ha una visione potentissima a raggi XKe un
superudito. Non proseguo con la descrizione di quello che è diventato nel nostro immaginario il supereroe
per eccellenza, un'icona universale della potenza maschile dal nome che è già tutto un programma,
Superman [Daniels 1998). Una volta morti i genitori adottivi che l'avevano trovato da bambino per strada,
arrivato da un pianeta alieno,

Superman decide di convogliare la sua forza titanica nella salvezza dell'intera umanità dal crimine e dalla
delinquenza.

Perché mi sembra interessante esaminare Superman nell'ottica della mascolinità precaria? Un prim0
motivo suggestivo è il seguente. Mentre per altri fumetti successivi (è lunga la lista dei supereroi come
modello di mascolinitā) e il personaggio umano a trasformarsi in un supereroe, qui invece è Superman che
si camuffa, assumendo le sembianze di un uomo comune fra persone comuni. Quentin Tarantin0 nel film
Kill Bill

Volume 2 ce lo spiega nella scena finale e memorabile in cui Bil Gunn - David Carradine - e Beatrix Kiddo -
Uma Thurman - sono l'uno di fronte all'altro e Bill le spiega:
Superman non diventa superman, Superman é nato Superman. Quando

Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter ego è Clark Kent.

Quella tuta con la grande S rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono.. son
quelli i suoi vestiti, quelo che indossa come Kent, gli occhiali, gli abiti da lavoro, quello è il suo costume!

Tarantino ha ragione: è Clark Kent a essere l'alter ego di Superman non viceversa, è

Superman a mascherarsi da Clark Kent. Riflettiamo allora sul fatto che il personaggio eroico e potente
proposto dal fumetto è lo standard di partenza, è quella la vera natura maschile, la natura di un supereroe,
mentre il comune uomo umano é solo una maschera dalla mascolinità difettosa. Altrettanto interessanti
sono le caratteristiche con cui Clark, bianco, di classe media ed eterosessuale, si presenta ed esprime la sua
mascolinità: ha un carattere remissivo, timoroso, introvers0, 1l tutto accompagnato da modi gentili e
impacciati. Interagisce nel suo ufficio con Lois Lane, una donna arguta e ambiziosa che sogna uomini
muscolosi e forti e che è a sua volta innamorata di Superman. Le due facce della mascolinità, Superman e
Clark, il superuomo potente, ammirato e ipervisibile e l'uomo debole, deriso e marginale, si scindono pur
restando nella stessa persona, proprio a dimostrazione dell'instabilità dell0 status di maschi0 alfa e del
rischio di precipitare nello status di maschio beta. Lo spettatore americano a cui si rivolge Superman è un
uomo stremato dall'incertezza lavorativa causata dalla crisi economica, è un uomo che ha perso il suo ruolo
di breadwinner nel suo nucleo familiare o che si barcamena per difenderlo, è in sintesi un uomo la cui
mascolinità (intesa in senso tradizionale) è in stato di elevata minaccia. Propri0 a quell'uomo Jerry Siegel e
Joe Shuster offrono il sogno consolatorio di poter recuperare e compensare la propria debolezza
economica e sociale attraverso la fantasia grandiosa di una virilità fatta di dominio, superpotenza e
coraggio nell'intraprendere azioni straordinarie e rischiose.

Un'altra originale prospettiva da cui osservare la mascolinità e da cui possiamo trarre evidenze interessanti
rispetto all'urgenza di comportamenti compensatori in caso di

R. Oldstone-Moore. Nel 2015, l'autore ha minaccia é quella tracciata da Christophe pubblicato un libro
molto intrigante dedicato interamente a un tema inconsueto e solo in apparenza frivolo. E la gestione della
barba, la protagonista del volume, una pratica molto comune, negli uomini, di cura del corpo che ha
assunto diversi significati culturali nell'avvicendarsi dei secoli. In occidente, per molto tempo un maschio
con un viso rasato ha identificato l'uomo nella sua massima espressione: da Alessandro Magno fino al
medioevo il viso rasato ha a lungo comunicato superiorità e levatura morale. Anche se la pratica di farsi
crescere la barba è sempre stata presente, con fortune alterne nel corso dei secoli, è durante la metà del
Diciannovesimo secolo che essa assume un significato ben preciso in riferimento alla mascolinità. Che la
barba fosse diventata una cosa seria lo mostra l'appassionato Manifesto contro la rasatura del 1853 di
Henry Morley e William H.

Wills. Nel documento, gli autori oltre a spiegare come alle donne la natura abbia assegnato attributi diversi
rispetto agli uomini - grazia e debolezza alle prime e dignità e forza ai secondi propongono la seguente
giustificazione della barba: gli uomini, necessitavano per lavorare della barba per difendere il proprio volto
proprio da una natura spesso ostile e difficile da domare. Ma quali evoluzioni sociali stanno accadendo in
quegli anni che possono aiutarci a capire il senso di questo singolare manifesto? Siamo nella fase di
transizione fra la prima e la seconda rivoluzione industriale e, a differenza di quanto nostalgicamente
sostenuto da Morleye Wills nel loro orgoglioso manifesto per uomini barbuti, il lavoro sta assumendo una
forma sempre piu lontana dal contatto con la natura, com'era nei secoli precedenti. Sempre in questo
periodo, la roccaforte del privilegio maschile inizia a perdere solidità: si avvertono i primi irritanti scricchiolii
sotto la spinta dei moti di un femminismo ai suoi albori che richiedeva sempre più a gran voce, per le
donne, uno spazio nella vita pubblica. La barba sul volto diventa cosi il simbolo tangibile di una gerarchia di
genere minacciata che, come osserva Oldstone-Moore, correva il rischio di diventare sempre meno
concreta e tangibile. 5. La conformità alle norme maschili e lo stress associato al ruolo di genere

Le norme di genere riferite agli uomini definiscono ciò che è maschile, definiscono come gli uomini devono
essere, pensare, sentire e agire in un dato momento storicoe culturale. Perché le persone si conformano
alle norme di genere e nello specifico perché lo fanno gli uomini? L'adesione alle norme di genere consente
di sviluppare un'identità stabile e positiva come uomo «normale», conduce a sviluppare sentimenti di
appartenenza, aumenta l'autostima e riduce il senso di vergogna e minaccia derivante dal sentirsi diverso
dagli altri. In piu, quando un uomo assume comportamenti considerati normativi, ma rischiosi per il proprio
genere, è vero che spesso mette a rischio la propria salute fisica e psicologica i prossimi capitoli sono
dedicati a esaminare proprio quest'aspetto), ma ottiene in cambio altro, ciò che viene definito in termini
tecnici capitale maschile, un capitale simbolico che, attraverso dimostrazioni di virilità, assicura agli uomini
di essere riconosciuti come componenti importanti del gruppo di status superiore

De Visser, Smith e McDonnell 2009].

Intravediamo sempre più chiaramente il peso invisibile che i ragazzi e gli uomini devono portare sulle
proprie spalle nella vita quotidiana. Non si tratta solo di esaminare l'adesione comportamentale, esaminare
cioè che cosa fanno concretamente gli uomini per conformarsi e aderire alle aspettative sul ruolo maschile.
Altrettanto importante è l'adesione affettiva: sentirsi orgogliosi o felici di conformarsi alle norme di genere
o viceversa provare vergogna quando questo non avviene. Andiamo però a capire quali sono più nello
specifico queste norme (vedi fig. 1.1). Abbiamo introdotto il mandato dell'antifemminilità che un po' le
attraversa tutte, ma le norme che definiscono la mascolinità sono numerose. Accanto al mandato
dell'antifemminilità, e intrecciato a doppio filo con esso, si trova il mandato dell'eterosessualità e
dell'interesse compulsivo per il sesso. Fra le altre norme centrali nel definire la mascolinità, la dominanza
intesa come il mostrare nel privato e nel pubblico un atteggiamento dominante, indipendente e aggressivo,
lo stoicismo che possiamo intendere come la capacità (più presunta che reale) di mantenere un totale
controllo sulle proprie emozioni e di apparire invulnerabili, la propensione ad assumersi dei rischi e a non
mostrare alcun tipo di timore negli ambiti più disparati e infine lavere successo ed essere sempre vincenti.
Quando un uomo fallisce nell'aderire a una di queste norme, proverà in termini compensatori ad aderire
alle altre disponibili [Pleck 1981].

Misoginia

Eterosessismo

Mandato

Mandato dell'eterosessualità dell'antifemminilità

Dominanza

Successo

Propensione al rischio

Autonomia

Stoicismo

Dimostrazione pubblica di questi aspetti attraverso continue prove di virilità

FIG. 1.1. Mascolinità tradizionale. 14 di 16

Riprenderò in modo sistematico tutti questi punti nei capitoli successivi mostrando quanto sia rischioso per
gli uomini aderire a ognuna di queste norme. Intanto è utile sapere che per mostrare quanto possa essere
faticoso (e pericoloso) per gli uomini aderire alle norme di mascolinità è stato introdotto in ambito
psicologico un costrutto ad hoc, lo stress correlato al ruolo di genere [ibidem].

Il volume di Joseph Pleck The Myth of Masculinity segna senza dubbio uno spartiacque nello studio
scientifico e psico maschile. L'autore critica l'approccio che nei cinquant'anni precedenti aveva dominato
negli studi psicologici per comprendere l'identità maschile. Contesta, nello specifico, l'idea che questa sia
una dimensione innata delle persone, un'essenza che è li e che resiste alle trasformazioni storiche e
culturali. Critica lidea derivante dai primi modelli psicoanalitici per cui le persone presentano il bisogno
potente di sviluppare un'identità di genere coerente con il proprio sesso biologico e che dal grado di
compimento di questo sviluppo sia possibile misurare la maturità psicologica dell'individuo.

Nel suo modello teorico, Pleck considera iruoli di genere (cosi come l'identità di genere) non come
espressione della natura e dell'essenza biologica delle persone, bensi come entita socialmente determinate
co la funzione di preservare e sostenere il patriarcato.

Per questo, il sistema offre da un punto di vista sia simbolico sia concreto ricompense a chi si conforma e
invece punizioni a chi viola le aspettative sui ruoli di genere. La continuità nel tempo dei ruoli di genere non
si spiega in virtù della loro naturalità, ma in base proprio a questo sistema di rinforzi e punizioni.

Sono dieci le proposizioni che definiscono il modello di Pleck, tutte ruotanti attorno all'origine
socioculturale dei ruoli di genere: 1) i ruoli di genere sono definiti da norme e stereotipi sociali; 2) i ruoli di
genere sono contradditori e incoerenti fra loro; 3) la quantità di persone che viola le aspettative associate ai
ruoli di genere è alta; 4) la violazione dei ruoli di genere provoca condanna sociale e 5) produce
conseguenze negative per le persone; 6) la reale o immaginata violazione dei ruoli di genere spinge le
personea iperconformarsi agli stessi; 7) la violazione dei ruoli di genere presenta conseguenze piü negative
per gli uomini che per le donne; 8) alcuni tratti psicologici relativi ai ruoli di genere, come ad esempio
l'aggressività maschile, sono spesso disfunzionali; 9) sia le donne sia gli uomini fanno esperienza dello stress
associato al ruolo di genere nella vita lavorativa e familiare; 10) i cambiamenti storici e culturali causano
stress nel ruolo di gico delle questioni di genere da un punto di vista genere.

Fra i tipi di stress da ruolo di genere, l'autore si concentra principalmente sullo stress da discrepanza e sullo
stress da disfunzione. Lo stress da discrepanza si presenta quando un uomo non riesce a mantenere lo
standard dell'ideale tradizionale di mascolinità (vorrei essere un uomo tutto d'un pezzo, ma non ci riesco
perché mi sento troppo emotivo), mentre lo stress da disfunzione emerge quando un uomo sviluppa un
disagio proprio perché riesce a rispettare quelle norme tradizionali di mascolinità che definiscono come
desiderabili dei comportamenti in realtà disfunzionali per lui e per le persone con cui entra in relazione
(sono un uomo tutto d'un pezzo e parlare dei miei problemiè una roba da donne, meglio evitare).

Un altro costrutto importante per la ricerca psicologica sul tema della mascolinità è il conflitto nel ruolo di
genere, introdotto dallo studioso James O'Neil nel 1982. Anche O'Neil rivolge la sua attenzione agli effetti
negativi dell'adesione a rigidi ruoli di genere socializzati e appresi nelle società sessiste e patriarcali. Con il
concetto di conflitto nel ruolo di genere si fa riferimento allo stato psicologico di sofferenza e conflitto che
si verifica tutte le volte in cui le persone si confrontano con queste rigide prescrizioni sessiste. L'esposizione
ripetuta a questo tipo di conflitto per O'Neil conduce a una restrizione del potenziale umano sia della
persona che sta vivendo quel conflitto sia di altre persone vicine a lei.

Proviamo a capire meglio la proposta concettuale dell' autore. Sebbene sia gli uomini sia le donne possano
fare esperienza di questo conflitto, il focus di O'Neil e del suo gruppo di ricerca è prevalentemente sul
vissuto degli uomini. Il conflitto nel ruolo di genere è definito in modo complesso da quattro domini
psicologici in interazione fra loro. II primo è il dominio cognitivo, riferito a come pensiamo ai ruoli di
genere; il secondo ayjettivo, riferito a come ci sentiamo riguardo ai ruoli di genere; il terzo è quello
comportamentale, riferito a come agiamo, rispondiamo e interagiamo con gli altri e con noi stessi; infine il
quarto è quello inconsapevole, riferito al modo in cui le motivazioni al di là della nostra consapevolezza
influenzano il nostro comportamento.

Anche nella proposta di O'Neil, un ruolo centrale per poter comprendere lo stato di stress emotivo e
cognitivo che si genera nel conflitto del ruolo di genere è rappresentato dall'avversione e dalla paura della
femminilità, sentimenti negativi a cui gli uomini vengono socializzati fin dalla primissima infanzia. Altri tre
elementi fondamentali attraverso cui si esprime il conflitto nel ruolo di genere sono le svalutazioni, le
restrizioni e le violazioni del ruolo di genere. Le svalutazioni del ruolo di genere sono critiche negative
espresse nei confronti degli altri o di sé stessi quando non ci si conforma, ci si discosta o si violano le
prescrizioni che normano il ruolo di genere maschile tradizionale.

Le restrizioni del ruolo di genere si verificano quando gli uomini sono attivamente impegnati nel controllare
e limitare la libertà di espressione nel proprio e altrui comportamento in conformità alle norme
stereotipate della mascolinità tradizionale. Le violazioni del ruolo di genere rappresentano la forma più
grave attraverso cui si esprime il conflitto di genere e consistono nel fare del male da un punto di vista
psicologico e/o fisico a sé stessi e agli altri tutte le volte in cui ci si discosta o non ci si conforma alle norme
sul ruolo di genere. 0°'Neil ha anche sviluppato la Gender Role Conflict Scale (GRCS), uno strumento di
misurazione del conflitto del ruolo di genere articolato in quattro dimensioni fondamentali. Il primo ambito
è quello dell' emotività limitata, che descrive la quello paura percepita dagli uomini a riconoscere,
esprimere e verbalizzare le proprie emozioni.

Il secondo ambito è quello dell'espressione limitata di affetto fra uomini e si riferisce alle autolimitazioni
che gli uomini stessi si infliggono nell'esprimere il proprio affetto attraverso le parle e attraverso
comportamenti di contatto fisico con altri uomini. I restanti due sono il primato del
successo/potere/competizione nella definizione di sé e lo squilibrio fra il peso assegnato al lavoroe quello
dato alla cura delle relazioni interpersonali che ne consegue

Nei trent'anni dalla sua introduzione sono stati condotti più di 300 studi in cui è stata usata la GRCS, che
hanno mostrato come le svalutazioni, le restrizioni e le violazioni provocate dal conflitto nel ruolo di genere
possono provocare negli uomini problemi di salute mentale tra cui stress, depressione, ansia, odio per se
stessi, senso di colpa e vergogna lper una rassegna vedi O'Neil 2008; 2015].

Capitolo secondo

Mai chiedere aiuto 1. Quale sesso forte? Il prezzo del patriarcato

Ospedale Niguarda, apre il primo reparto riservato agli uomini con la febbre a 37, questo lo stravagante
titolo dell'articolo pubblicato sulla rivista satirica «Lercio», nell'ottobre 2019. Scorrendo la pagina web, si
leggono interessanti dettagli a riguardo. Nello specifico, l'ospedale milanese ha avviato una sfida ambiziosa
e di estrema avanguardia nel campo medico: «aprire un intero reparto riservato a una delle sindromi più
diffuse, ma inspiegabilmente meno studiate dalla medicina contemporanea: la febbre a 37 negli uomini con
più di 30 anni». Il fantomatico Mango Lucani, presidente dell'AIUCLaFA37 (Associazione italiana uomini con
la febbre a 37) e progettista della sede del nuovo reparto afferma nell'articolo:

Solo chi ha avuto la sfortuna di nascere maschio può capire cosa significhi avere un leggerissimo mal di
testa, una leggerissima sensazione di spossatezza, leggerissimi dolori articolari, un leggerissimo senso di
nausea e soprattutto l'incapacità di raggiungere il telecomando. Sono tutti sintomi che gli uomini tendono a
nascondere per non minare la propria virilità. E così ci si ritrova bloccati sul divano con la TV accesa su
Sentieri.

Questo articolo diverte o quantomeno fa sorridere molte e molti di noi. Quali sono i motivi di questa
reazione? Direi almeno due: il primo è che gioca su un'immagine ormai ricorrente e diffusa, la seconda è
che, con prontezza, disponiamo di un codice culturale condiviso per interpretarla. L'immagine è quella
dell'uomo afflitto dalla malattia, il codice condiviso riguarda il suo sbeffeggiamento pubblico. L'idea
tradizionale che gli uomini siano più potenti e meno vulnerabili delle donne, che abbiano un corpo più
efficiente, che chiedere aiuto e preoccuparsi per la propria salute sia una roba da donne provoca in noi una
reazione molto specifica: rende socialmente fastidiosa, inopportuna e, per dirla senza troppi giri di parole,
ridicola, la preoccupazione maschile per la propria salute. Del resto, come l'articolo di «Lercio» ci spiega
attraverso il degradante e indegno passaggio dalla febbre a 37 alla visione della soap opera Sentieri,
l'esperienza della malattia è devirilizzante. Al sesso forte (non è cosi del resto che ci si riferisce ancora agli
uomini?) neanche per un attimo è concesso di deporre lo scettro di potenza e invulnerabilità assegnatogli
socialmente, né per i malanni fisici né per quelli psicologici.

Eppure i dati a disposizione ci raccontano una storia diversa in termini di sopravvivenza, benessere e qualità
della vita degli uomini. L'incidenza delle malattie infettive più diffuse è maggiore negli uomini rispetto alle
donne e, ancora, gli uomini soffrono di malattie croniche e di infarto più delle donne. Gli uomini muoiono
prima delle donne nel mondo e nel nostro paese: per dare dei numeri, in Italia l'aspettativa di vita è più
bassa per gli uomini di 4,4 anni rispetto alle donne [ISTAT 2019; Vandello, Bosson e

Lawler 2019].

Come è possibile che gli uomini muoiano prima pur godendo di maggiori privilegi a livello sociale in termini
di reddito, status professionale ecc.? Il fatto che esista una varietà di rischi per la salute associata allessere
uomini non cancella la posizione di potere sociale degli uomini garantita dal patriarcato: anzi, è proprio
grazie a quella posizione di potere che possiamo dare senso a questi rischi [Courtenay 2000]. Potremmo
definire queste difficoltà come il prezzo che gli uomini sono tenuti a pagare per il ruolo sociale di cui
godono di fatto o in potenza all'interno di un sistema patriarcale: le pratiche sociali apprese dagli uomini
per conservare i propri privilegi sono le stesse che li possono danneggiare in modo pesante se si pensa alla
loro salute fisica e psicologica.

Da questo ragionamento nasce una domanda: come se la passano gli uomini nei paesi in cui c'è maggiore
uguaglianza di genere? E questo linterrogativo a cui il ricercatore norvegese Oystein Holter, direttore del
Center for Gender Research dell'Università di Oslo, ha provato a rispondere in un lavoro del 2014 in cui ha
selezionato un campione di 31 paesi europei e i 50 stati USA considerando i dati indiretti (cioè non raccolti
direttamente ma presi da altri studi) relativi a ben 1,1 miliardi di persone esaminate. Nell'articolo, facendo
riferimento all'anno 2010, ha considerato quattro ben noti indici di uguaglianza di genere (il Gender Gap
Index, il Social Watch Gender Equality Index, l'US Gender Equality

Index e l'US Women's Autonomy Index) e ha valutato il benessere delle persone basandosi sul Gallup Index
for Well-Being per gli USA e il Gallup's Thriving Index per l'Europa che include a sua volta delle misure di
benessere emotivo, salute fisica, frequenza di comportamenti legati alla salute e soddisfazione lavorativa. E
ricorso, inoltre, ad altri indici macroscopici come il prodotto interno lordo (PIL) e il grado di disuguaglianze
economiche misurate con Pindice di Gini. Dallo studio di Holter è emerso che negli Stati

Uniti la probabilità per un individuo di stare bene in uno stato con alti ivelli di uguaglianza di genere è più
alta del doppio rispetto a uno stato con bassi livelli di uguaglianza di genere. Questo stesso pattern ritorna
anche nel vecchio continente, confrontando i tre paesi europei con più alta uguaglianza con i tre paesi con
più bassa uguaglianza di genere. Disaggregando i dati per genere, è emers0 in generale che vivere in un
paese dove è maggiore l'uguaglianza di genere si associa a più alti livelli di felicitààe più bassa depressione
non solo per le donne, ma anche per gli uomini e questo dato resta invariato anche se si tiene conto del PIL
e dell'indice di disuguaglianza del paese. Quanto trovato da Holter può risultare sorprendente, perché
siamo immersi in un clima culturale che vede l'uguaglianza di genere come un gioco a somma zero, in cui ci
deve essere per forza un genere che vince e un genere che perde, e dunque se stanno meglio le donne gli
uomini necessariamente devono stare peggioe viceversa. E invece le cose non stanno cosi e questa è senza
dubbio una buona notizia.
Al tema della complessa relazione fra mascolinità e salute psicofisica èdedicato questo capitolo. 2. Lo
stoicismo emotivo

I tried to laugh about it

Cover it all up with lies

I tried to laugh about it

Hiding the tears in my eyes 'Cause boys don't cry

The Cure, Boys don't cry (1979)

Nel 1979 la band inglese The Cure pubblica il singolo Boys don't cry che, a distanza di più di quarant'anni,
emoziona e stupisce per la sonorità malinconica. Nel brano, Robert

Smith, il cantante del gruppo, racconta di una storia d'amore finita e del suo desiderio di piangere per
quella rottura. Non gli resta però che ingoiare le proprie lacrime, mascherandole con risate: il motivo, lo
ripete più volte Smith nella canzone, è che ragazzi non devono piangere. Altrettanto suggestivo il video del
brano in cui vediamo dei bambini, nel ruol0 dei componenti della band, suonare e cantare. Dietro di loro un
telo dove appaiono le ombre adulte dei componenti della band, ombre che si muovono indipendenti da
quei bambini quasi a simboleggiare una disconnessione fra la parte emotiva adulta di sé, ridotta a
un'ombra, e la parte emotiva infantile che solo attraverso la musica puð avere voce.

Le ricerche danno ragione a Smith e ci dicono che agli uomini è concesso meno di piangere in pubblico
rispetto alle donne [Lombardo, Cretser e Roesch 2001]. Uno studio della società tedesca di oftalmologia del
2009 ha riscontrato, ad esempio, che le donne piangono mediamente cinque volte più degli uomini e per
una durata pari a quasi il doppio per ogni episodio dl pianto. Le evidenze storiche e letterarie peró
suggericono un dato curioso. Nel passato agli uomini non solo era concesso piangere, ma nessuno veniva
considerato ridicolo o troppo femminile per questo: l pianto maschile era del tutto accettabile e normale
[Newman 2019]. Anche se non possono essere considerate delle evidenze storiche tout court, le opere
letterarie ci danno degli indizi significativi rispetto a come nel passato veniva tematizzato il pianto in
relazione alla mascolinità.

Nell'Tliade di Omero, vediamo l'esercito greco una compatta moltitudine di uomini in guerra, immagine
quasi prototipica della mascolinità ipertradizionale - piangere allunanimitä per ben tre volte. Il re Priamo
non solo piange, ma si strappa i capelli dalla disperazione, e Zeus addirittura piange lacrime di sangue. La
legittimazione del pianto maschile è presente anche nel medioevo. Nella Chanson de Roland, opera epica
scritta nell'Undicesimo secolo, il poeta racconta la reazione alla morte dell'eroe descrivendo ben 20 mila
cavalieri piangere per il lutto. L'obiezione possibile rispetto agli esempi di pianto maschile appena riportati
è che quel tipo di pianto investe l'espressione pubblica e rituale del lutto collegato a due domini
tradizionalmente maschili, la politica e la guerra. Ben diversa è lesperienza delle lacrime intime collegate al
vissuto personale dell'amore. E invece, sorpresa, sorpresa, non é cosi: nei romanzi medievali, si trovano
inumerevoli esempi di pianto dei cavalieri che soffrono per la mancanza delle loro amate. Anche la

Bibbia, come test0 sacro, è colma di esempi in cui re e uomini comuni versano le proprie lacrime. Lo stess0
Dio incarnato in Gesü piange più volte e in circostanze assai significative. Piange per la morte di Lazzaro,
partecipando al dolore della sorella Maria: «Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei
che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: "Dove l'avete posto?". Gli dissero:
"Signore, vieni a vedere!" Gesù scoppió in pianto» (Gv 11, 33-36). Piange anche per il proprio dolore nella
preghiera del Getsemani: «Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offri preghiere e
suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb
5, 7). Sant'Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti, descrive ben 175 episodi personali di pianto in una
sezione del suo diario composta da 40 pagine: in media, sono più di quattro episodi per pagina! Il quadro
sugli uomini e il pianto è abbastanza chiaro, almeno nel passato. Ma allora dove sono andate a finire tutte
le lacrime degli uomini nel corso del tempo?

Se dovessimo spiegare a un essere alieno appena sbarcato sulla Terra perché gli uomini piangono meno
delle donne (anche solo in pubblico), sarebbe ben dificile chiarire motivi di tale stranezza. Perché per gli
uomini e solo per loro è presente questo divieto?

Come mai non è possibile abbandonarsi alla reazione spontanea e liberatoria del pianto?

Per rispondere a questa domanda possiamo partire dalle due fondamentali funzioni del pianto. La prima
funzione è soprattutto personale e serve come sollievo dalla tensione, l'altra é soprattutto sociale e serve
per comunicare alle altre persone che ci sentiamo indifesi/e elo bisognosi/e di aiuto. Nel capitolo
precedente, si è detto che una norma fondamentale a cui gli uomini devono attenersi per dare prova della
propria mascolinità è lo stoicismo: per apparire invulnerabili, ai maschi è richiesto un ferreo controllo delle
proprie emozioni, che deve manifestarsi pubblicamente con l'inespressività emotiva.

Piangere è una violazione importante di quella norma, ma piangere è anche un modo salutare per
esprimere le nostre emozioni. Iniziamo a scorgere il cortocircuito che caratterizza la vita emotiva di molti
uomini. Che cos'è che garantisce e consente la perpetuazione della norma dello stoicismo emotivo? Cosi
come per le altre norme, i processi socioculturali giocano un ruolo fondamentale, raggiungendo e
plasmando gli individui attravers0 i processi di socializzazione, quei processi cioè attraverso cui i gruppi

SOCiali trasmettono al componenti le norme e gli stili di comportamento considerati accettabili.

I genitori spesso creano, anche in modo non intenzionale, degli ambienti di apprendimento stereotipici
rispetto al genere del/della figlio/a attraverso i giochi, o attraverso le attività e i compiti che assegnano
loro. L'educazione al comportamento congruente con il ruolo di genere avviene in tanti modi, uno dei quali
è un'interazione diversa a seconda che di fronte si abbia un bambino o una bambina. Uno degli ambiti
privilegiati di questa interazione differenziata è, senza dubbio, l'espressione delle emozioni.

Sappiamo che non esiste alcuna differenza di genere nell'espressione facciale delle emozioni dei bambini e
delle bambine nei primi mesi di vita. Malgrado ci0, i genitori tendono a esprimere una maggiore varietà e
una più elevata intensità di espressioni facciali emotive con le bambine rispetto ai bambini, fin dai primi
giorni di vita [Malatesta et al 1989]. Inoltre, i genitori tendono a dare un nome diverso alla stessa reazionne
emotiva, usando l'etichetta della rabbia se quell'emozione negativa coinvolge il bambino e l'etichetta della
tristezza se invece coinvolge la bambina. Questa etichetta non è solo linterpretazione che i genitori offrono
al/alla figlio/a, ma è la chiave di lettura della stessa che il/la figlio/a apprenderà e su cui si baserà nel corso
della propria esistenza per dare un nome alle proprie emozioni. Più avanti, quando piano ad acquisire il
proprio repertorio di abilità verbali, esprimere di più emozioni come la rabbia e le seconde a esprimere di
più emozioni quali paura, tristezza e ansia [Fivush et al. 2000]. II mondo emotivo dei bambini rispetto a
quello delle bambine diventa sempre più angusto, condannato a essere schiacciato sotto un numero
sempre più ristretto di emozioni che è possibile esprimere, o addirittura provare (vedi fig. 2.1). Di fronte
all'espressione di emozioni negative come la tristezza, la paura o la vergogna, i genitori incoraggiano le
bambine a guardare dentro di sé per capire che cosa stanno provando, mentre svalutano la reazione dei
bambini minimizzandola con esortazioni quali: «Smettila di comportarti come un bambino piccolo». Gli
adulti, inoltre, tendono più spesso a ricorrere alle punizioni corporali con i bambini che con le bambine,
incoraggiandoli maggiormente a difendersi nei conflitti con i pari ricorrendo alla forza fisica invece che al
confronto verbale. bambini e le bambine iniziano pian primi sono incoraggiati a

AREA DELLA FEMMINILITÀ

AREA DELLA MASCOLINITA


Segnale di indipendemza dall'aiuto delle altre persone

Segnale di dipendenza dall'aiuto delle altre persone

Vergogna

Ansia

Tristezza

Rabbia

Paura

Segnale di frustrazione

Segnale di valnerabilitàà

FIG. 2.1. Emozioni distinte per genere.

Dal quadro appena tracciato si potrebbe trarre l'impressione di genitori feroci che educano a una disciplina
militare i propri figli maschi senza pietà nei confronti dei loro sentimenti. E ovvio che le cose sono molto più
complicate di cosi. Innanzitutto, i genitori possono aderire a loro volta con intensità diversa a questo tipo di
visione del maschile ed esprimerla di conseguenza con intensità maggiore o minore con i propri
comportamenti.

Inoltre, siamo cosi imbevuti di questi modelli culturali che a volte ci comportiamo di conseguenza senza
farci troppa attenzione, in modo automatico e non intenzionale.

Infine, fare delle scelte conformiste è sempre meno costoso in termini di impegno da dedicare alle stesse.
Quando le proprie scelte, anche educative, si allineano con quelle della maggioranza, nessuno chiede conto
della loro bontà, non bisogna difenderle pubblicamente, argomentarne la validità, persuadere gli altri della
loro efficacia: il codice culturale condiviso fa si che tutti le percepiscano come ovvie, normali, giuste e
pertanto indiscutibili. Le scelte minoritarie sono sempre le più difficili, da tanti punti di vista, e assumendole
si rischia di diventare bersaglio di critiche e attacchi. Non tutti hanno la forza di volontà, la motivazione, lo
spazio e la lucidità mentale per sostenere questi sfori, che talvolta diventano veri e propri sacrifici. Ultimo
ma non meno importante, non va trascurata la paura delle conseguenze negative a cui il proprio figlio può
andare incontro a livello sociale nelle interazioni con i pari, la paura che sia escluso o ridicolizzato per la sua
diversità e più avanti che diventi un adulto infelice per questo. Tutto ciò può essere una spinta potente a
educarlo in senso tradizionale.

Con il passare degli anni, proprio i pari si rivelano degli agenti formidabili di socializzazione emotiva di
genere [Rose e Rudolph 2006]. Soprattutto durante l'adolescenza, i pari dello stesso sesso assumono un
ruolo disciplinatore nel punire lespressione «inadeguata» di emozioni, attraverso la derisione misogina e
omofoba con rimproveri quali: «Sembri una femminuccia!» o «Sembri un frociol». Questi dispositivi di
punizione e rinforzo negativo - che potremmo sinteticamente definire come i metodi a disposizione di una
formidabile e diffusa polizia di genere - ricorrono anche nella vita adulta: quando gli uomini esprimono
emozioni percepite come poco maschili in senso stereotipico ricevono meno conforto e sono valutati più
negativamente se confrontati alle donne che esprimono le stesse emozioni [Fisher 2000J. Tutto ciò avviene
perché esistono delle regole culturali di esibizione delle emozioni che sono distinte per genere: anche se
nessuno di noi ha mai seguito un corso specifico su quest0, tendiamo a perpetuarle proprio attraverso
linteriorizzazione di questi codici culturali di comportamento. Il messaggio fondamentale, in estrema
sintesi, è che la virilità di un uomo si pesa e si misura in gran parte sulla capacità di rendere visibili e udibili i
suoi successi pubblici e sull'impegno a rendere muto e invisibile il proprio mondo interiore [Addis 2011].
2.1. Quando la regolazione emotiva non funziona: il dolore muto
Le emoz1oni sono sistemi di risposta complessi che presentano diverse componenti interconnesse fra loro,
da quella fisiologica (che cosa cambia nel nostro corpo), a quella soggettiva (che cosa stiamo provando), a
quela cognitiva (che valutazione facciamo di quel che stiamo provando), fino a quella espressiva (come
manifestiamo quello che sentiam0). Il significato delle emozioni associate ai ruoli di genere non è neutro da
un punto di vista sociale. La paura, la tristezza e l'ansia sono emozioni che comunicano la propria
vulnerabilità: sono un segnale inequivocabile di ricerca di soccorso e conforto, e comunicano la nostra
disponibilità ad affidarci a un'altra persona, cosi come la propensione a dipendere dal suo aiuto. Al
contrario, la rabbia e la gioia sono emozioni collegate al raggiungimento (o al mancato raggiungimento) di
un obiettivo e possono anche essere collegate a un rapporto competitivo con gli altri per il raggiungimento
dell'obiettivo stesso |Izard e Ackerman 2000].

Essere sistematicamente esposti ed esposte a queste norme sessuate di esibizione emotiva e alle relative
punizioni o rinforzi fa sì che le bambine, le ragazze e poi le donne rafforzino di più la capacità di prendersi
cura e farsi carico della propria paura, tristezza e ansia, a differenza dei bambini, ragazzi e uomini
condannati simbolicamente a trascurarla. In sintesi, detto in termini tecnici, le prime apprendono e
coltivano una capacità cruciale nella comprensione di sé stesse e nella gestione efficace delle diverse
richieste provenienti dellambiente sOCiale, una capaCita che ha un nome preciso: la regolazione emotiva.
Questa é un processo dinamico e interattivo attraverso cui le persone comprendono, valutano e modificano
attivamente la propria esperienza emotiva e il modo in cui la esprimono [Aldao, Nolen-Hoeksema e
Schweizer 2010]. Attraverso la regolazione delle emozioni, siamo in grado di riconoscere le emozioni che
proviamo, quando le proviamo, il modo in cui le percepiamo e il modo in cui le comunichiamo agli altri. La
capacità di riconoscere le proprie em0zioni non facendosi sovrastare dalle stesse è una delle competenze
più importanti che come individui siamo chiamati ad acquisire per la nostra salute psicologica. La nostra
esperienza quotidiana è connessa a doppio filo con il nostro mondo emotivo: la nostra esperienza dela
realtà è spesso filtrata proprio dal repertorio di emozioni che proviamo. E per questo che la regolazione
delle emozioni non ci consente solo di stare bene con noi stessi, ma anche di avere relazioni più
soddisfacenti con le altre persone [Gross e Muñoz 1995].

Lo stereotipo dell'uomo forte e razionale - accanto agli innegabili privilegi in termini di acquisizione di
risorse materiali e simboliche - condanna gli uomini che vi aderiscono a un'esperienza parziale e perfino
mutilata della propria esperienza psichica. Le strategie apprese per proteggere la propria mascoliità quali
levitamento o la soppressione dell'espressione delle emozioni sono esempi di disregolazione emotiva, una
regolazione disfunzionale che può essere causa di problemi psichici e fisici, dall'aggressività
all'autolesionismo, all'abuso di sostanze, come vedremo a breve [Pennebaker, Hughes e

O'Heeron 1987].

Il copione sociale dell'uomo forte e silenzioso conduce dritti dritti, secondo Levant,

Allen e Lien [20141, alla condizione di alessitimia normativa. In che cosa consiste questa condizione? Prima
di rispondere, è necessario un passo indietro, per chiarire innanzitutto cos'è l'alessitimia più in generale.
Potremmo dire, traducendo letteralmente, che soffre di alessitimia chi è sprovvisto di parole per definire le
proprie emozioni, insomma una condizione clinica in cui le persone sono incapaci di descrivere e
identificare a parole le proprie emozioni eipropri sentimenti.

Levant ha introdotto il concetto di alessitimia normativa per indicarne una forma più lieve e subclinica: per
aderire a un modello tradizionale di mascolinità, gi uomini si condannano a provare emozioni silenziose, a
sperimentare un dolore muto e poco intelegibile e spiegabile. Considerando normativa l'inespressività
emotiva, questi uomini mostrano maggiori difficoltà sia nell'identificare sia nell'esprimere in pubblico
quelle emozioni incoerenti col proprio ruolo di genere che fanno trasparire un senso di vulnerabilità
(dolore, tristezza o paura) o un bisogno di attaccamento (affetto, cura o bisogno di qualcun0).
In che modo avviene il silenziamento? Addis 2011] parla delle tre p del silenzio, il silenzio personale, il
silenzio privato e il silenzio pubblico. Il silenzio personale è il silenzio dell'uom0 che non riesce a identificare
il proprio dolore e dunque «non sa» nemmeno di provarlo. L'autore riporta un caso clinico raccontatogli
proprio dal collega

Robert Levant, che può essere assunto senza difficoltà come un episodio emblematico del silenzio
personale.

Un giorno arriva in seduta da Levant un paziente molto addolorato: gli racconta che suo figlio aveva
annullato, all'ultimo momento e senza preavviso, l'appuntamento per andare a vedere una partita di hckey.
L'appuntamento era stato fissato da tanto temp0 e lui lo attendeva con grande impazienza. L'aspetto
dell'uomo era molto triste, ma interrogato dallo psicologo su come si sentisse per il comportamento del
figli0, tutto ció che riusciva a dire era solo che il figlio non avrebbe dovuto comportarsi cosi. Nella scena
clinica emergono con chiarezza le dificoltà di un uomo il cui mondo emotivo è ridotto a un bisbiglio dal
volume cosi flebile che neanche lui riesce più a sentirlo. La buona notizia è che attraverso un lavoro
psicoteraupetico orientato anche all'acquisizione di un vocabolario emotivo appropriato, l'uomo è riuscito
progressivamente a riprendere contatto con la propria emotivitā.

Se il silenzio personale ha a che fare con l'identificazione delle emozioni, il silenzio privato ha a che fare con
la loro espressione. Il primo è senza ombra di dubbio disfunzionale, il secondo non lo è sempre e
comunque. Avere contezza di quali emozioni sia adeguato esprimere in pubblico e valutare quali fra queste
invece è preferibile non comunicare, specialmente in specifici contesti, è infatti una competenza sociale di
tutto rispetto. E evidente che una persona equilibrata da un punto di vista psicologico non è chi dice tutto a
tutti in ogni circostanza, chi non trattiene nulla e ricorre a tutte le persone attorno a sé trattandole alla
stregua di un contenitore in cui rovesciare senza limitü le proprie emozioni e i propri sentimenti. Anzi, il
ritratto appena tracciato è di una persona con seri problemi personali e relazionali, ed é plausibile supporre
che chi sta accanto a quella persona (il contenitore di cui sopra) possa darsi a gambe levate da quella
relazione perché claustrofobizzato o claustrofobizzata da quello straripante bisogno di parlare di sé. Ma
allora perché stiamo elencando questo tipo di silenzio fra quelli disfunzionali? Per rispondere alla domanda,
più che concentrarci sul perché dobbiamo concentrarci sul quando. l silenzio privato è un problema quando
assume i caratteri di una modalità fissa,

Costante nel tempo, nelle Situazioni e nelle relazioni piu diverse. Al contrario, avere o sapere di poter
contare su una persona con cui confidarsi, con cui aprirsi e raccontare di sé è importante e ha a che fare
con la competenza di cui parlerem0 più a fondo nell'ultimo paragrafo, dedicato alla ricerca d'aiuto.

L'ultimo silenzio, il silenzio pubblico, è quello più sociale. Forse potremmo definirlo in modo più appropriato
come silenziamento: in questo caso non siamo noi a scegliere di stare zitti: il nostro silenzio è una vera e
propria imposizione che proviene dagli altri.

Questo dispositivo normativo (sempre annoverabile nel vasto repertorio a disposizione della polizia di
genere) si manifesta attraverso forme sottili, quali ad esempio azzittire una persona cambiando
volutamente argomento mentre essa ci sta parlando oppure attraverso modi più plateali di derisione
misogina e omofoba. Con un altro caso clinico emblematico, Addis descrive in modo assai eloquente questo
silenzio. E un episodio raccontato da un suo paziente, Sal, in cui parla con tre amici durante una partita di
golf.

Lo riporto testualmente per la sua efficacia.

Fred: Allora, che c'è di nuovo dalle tue parti Sal?

Sal: Bah, niente di nuovo a parte che la settimana scorsa mi hanno fatto una biopsia alla prostata.
Fred: Ah si? (ridendo) Ti è piaciuto?

Sal: Come? Che cazzo dici?

Fred: (rivolto agli altri tre) Sapete, ve lo devono mettere in quel posto. Almeno cosi mi hanno dett0. Ma a
me no, io al mio medico non glielo faccio nemmeno mettere il guanto di gomma! (ride)

Sal: Voialtri siete bacati. Pensate che mi piaccia?

Fred: E che ne so, voi che ne pensate ragazzi? lo su Sal ho qualche dubbio voi no?

Sal: Te l'ho detto, voialtri siete bacati [Addis 2011; trad. it. 2013, 31].

Gli amici di Sal non gli concedono alcuno spazio per parlare della sua preoccupazione per il rischio di un
tumore, o anche, perché no?, dell'esperienza sgradevole dovuta all'invasività del test. Non c'è certezza di
questo leggendo il racconto dell'interazione, ma è plausibile pensare che lo azzittiscano con una
ridicolizzazione omofoba (ti è piaciuta la stimolazione anale?), solo perché in fondo sono a loro volta
sprovvisti della capacità emotiva di affrontare una situazione critica come quella che potrebbe
potenzialmente riguardarli.

Quando le tre forme di silenzio (silenzio privato, personale e pubblico) entrano in una sinergia sistematica
fra di loro, è probabile che si finisca per innescare un circolo vizioso difficile da spezzare. L'essere sottoposti
a un ripetuto silenziamento sociale delle proprie emozioni fa sì che la normalità (nel senso statistico della
maggior frequenza) sia evitare di parlare in pubblico delle proprie emozioni. Gli uomini finiscono per
conformarsi a quella norma, evitando di parlare di sé, soprattutto con altri uomini, per non sembrare strani
e diversi dal gruppo. Scegliendo di tenere per sé le emozioni, il rischio è di arrivare, attraverso questa
ripetuta e mancata condivisione, a rendere alcuni stati mentali perfino sconosciuti a sé stessi.

E interessante che questa difficoltà a identificare o esprimere le emozioni non emerga per tutte le
emozioni. Pensiamo ad esempio alla rabbia e all'aggressività. Gli uomini apprendono a fare leva
sull'aggressività per sbarazzarsi di emozioni impensabili primae innominabili poi, come la paura, la tristezza
o la vergogna. Esprimono cosi la sofferenza che stanno provando plasmandola e schiacciandola sotto l'unica
possibile veste che è loro concessa, con il duplice effetto di sentire a livello personale e mostrare a livello
pubblico di aver riacquisito il controllo della situazione [O'Neil e Harway 1997]. Non a caso, la rabbia -
intesa nella psicologia delle emozioni come un'emozione primaria - viene a volte definita in ambito clinico
come un'emozione secondaria proprio perché può mascherare altre emozioni sottostanti come la paura o
la tristezza: spesso negli uomini la sintomatologia depressiva è caratterizzata da eccessi di rabbia,
aggressività e alta irritabilità [Oliffe e Phillips 2008].

In conclusione a questo paragrafo tengo a sottolineare che il mio obiettivo è ben lontano dal dire che ogni
uomo in quasiasi parte del mondo non ha la più pallida idea di che cosa stia provando o non sappia come
esprimere quelle emozioni, a differenza di ogni donna in qualsiasi parte del mondo, che invece va intesa
come straordinariamente competente nel decifrarle e nell'esprimerle. Come abbiamo visto nel primo
capitolo, scivolare in categorie essenzialiste per spiegare il comportamento degli uomini e delle donne è
molto frequente e anche molto facile, per certi versi.

Quello che la ricerca psicologica contemporanea ci dice invece sugli uomini è molto chiaro: sarebbe un
grave errore assumere che gli uomini tout court non siano in grado di badare al proprio benessere
psicologico e fisico. Altrettanto grave è fare generalizzazioni negative sugli uomini intendendoli come
gruppo omogeneo e senza diversità al suo interno. L'idea qui è quella di rivolgere l'attenzione agli uomini
che considerano la mascolinità tradizionale come una componente centrale della propria identità. Le
ricerche ci dicono chiaramente che questi uomini sono tendenzialmente più a rischio di incontrare i
problemi di cui abbiamo parlato prima. Tanto per dare qualche cifra, in una metanalisi abbastanza recente,
pubblicata nel 2016 da Wong e colleghi, è emerso su un totale combinato di 19.453 partecipanti che
maggiore è la conformità alle norme tradizionali maschili, più fragile è la salute mentale degli uomini
coinvolti. 3. Il corpo maschile ei comportamenti legati alla salute: «Doing health is doing gender»

A livello mediatico e più in generale a livello culturale, ricorre spesso la rappresentazione del corpo
maschile come una macchina potente e affidabile pensata per eseguire compiti di grande forza, velocità e
resistenza. In quanto macchina infallibile e indistruttibile, il corpo maschile per definizione è ambito di cui
non è necessario né tantomeno utile prendersi cura. E proprio da questa illusione di invulnerabilità e
invincibilità che possiamo partire per comprendere perché il rapporto degli uomini con la propria salute si
sviluppa in modo cosi complesso. L'idea che abbiamo di salute - e questo vale per chiunque, sia per gli
uomini sia per le donne - risente in modo significativo del contesto socioculturale in cui trascorriamo la
nostra esistenza. Nel passato, ad esempio, nei paesi occidentali la salute veniva intesa come una condizione
che si manifestava o con la sua presenza (essere in salute) o con la sua assenza (essere in malattia), senza
possibili alternative di mezzo. Con il temp0, questa concezione è andata modificandosi, per arrivare a
intendere oggi una buona salute come una condizione che va raggiunta e mantenuta attraverso l'impegno
costante e deliberato delle persone [Cockerham 2014].

All'insieme delle azioni intraprese dalle persone per prendersi cura della propria salute o per prevenire
disagi viene dato il nome di comportamenti legati alla salute. Queste attività in cui gli uomini e le donne si
impegnano quotidianamente sono come una moneta nelle transazioni messe in atto nel quotidiano per
dimostrare il genere: Doing health is doing gender, sostiene Courtenay [2000]. I comportamenti legati alla
salute possono essere annoverati fra le pratiche a cui gli uomini e le donne ricorrono per differenziarsi tra
loro: essi diventano un modo tramite cui dimostrare la propria adesione a una visione tradizionale della
mascolinità. Fra questi comportamenti possiammo annoverare lo stile alimentare e il regime dietetico, il
consumo di tabacco e di alcolici o ancora le azioni tese a prevenire le patologie piu diverse. Proprio a questi
comportamenti e al modo in cui la loro espressione cambia a seconda dell'adesione a una visione
tradizionale della mascolinità saranno dedicati i prossimi paragrafi. 3.1. Abitudini alimentari

Oltre alla finalità evidente della sopravvivenza individuale, l'alimentazione presenta una dimensione
spiccatamente pubblica. L'alimentazione è, infatti, un palcoscenico di tutto rispetto su cui siamo chiamati a
interpretare il nostro ruolo sociale e in definitiva un altro territorio chiave in cui gli uomini sono chiamati a
dare prova della propria virilità.

Il cibo in molte culture ha avuto per secoli la funzione di differenziare da un punto di vista sociale gli uomini
dalle donne. Ci è avvenuto in molti modi, primo fra tutti quello di attribuire ad alcuni cibi delle qualità
maschili e ad altri delle qualità femminili. In questo modo, si è resa appropriata, opportuna o perfino
normativa (o viceversa inappropriata, inopportuna o addirittura trasgressiva) l'assunzione di alcuni cibi per
le donne e l'assunzione di altri cibi per gli uomini. Per esempio, gli Hua nella Nuova Guinea distinguono i cibi
koroko e i cibi hakeri. I koroko sono freddi, umidi, morbidi e femminili, gli hakeri sono caldi, secchi, duri e
maschili. Per diventare come «gli uomini», alle donne è concesso mangiare cibi maschili; diversamente, agli
uomini non è dato mangiare i cibi femminili in quanto ritenuti ripugnanti per il gusto maschile e in grado di
metterne in pericolo la virilità [Counihan e Kaplan 1998]. Come vedremo, non possiamo illuderci che quello
che vale per gli Hua non valga anche per noi, privilegiati abitanti della parte di mondo più avvantaggiata
nella storia dell'umanità.

Come osserva Arnold [1988], infatti, il cibo ha da sempre rappresentato, e continua a farlo, il potere nella
sua forma più basilare, tangibile e inesorabile. Per questo, in un sistema patriarcale il cibo, inteso come
risorsa, è un altro veicolo attraverso ci far viaggiare i significati sociali associati al diverso potere dei ruoli di
genere. Da un punto di vista antropologico, sia la quantità sia il tipo di cibo scelto veicolano dei significati
sociali molto precisi rispetto al potere dei diversi attori sociali coinvolti nell'interazione conviviale. La
quantità di cibo ha a che fare con le risorse a cui si puð accedere e il tipo di cibo alla pregevolezza di quelle
risorse

Se in gioco c'è, fra le altre cose, una questione di discrepanza di potere fra i generi, non stupisce, quindi,
che anche noi occidentali, come gli Hua della Nuova Guinea, abbiamo i nostri koroko e hakeri. Le persone
tendono infatti a percepire la frutta, la verdura, il pesce ei cibi con pochi grassi come femminili e la carne
rossa, i cibi grassi e le bevande alcoliche come maschili [Rozin et al. 2012]. E noto che un regime dietetico
con pochi grassi e abbondante in frutta e verdura è parte integrante di uno stile di vita sano e orientato alla
prevenzione di malattie coronariche, diabete e obesità. Fra l'altro, sempre più evidenze indicano che un
consumo elevato di carne rossa sia associato a un rischio più elevato di cancro al polmone, all'esofago e al
fegato [Cross et al 2007]. E altrettanto noto che gli uomini praticano generalmente uno stile alimentare di
gran lunga meno salutare rispetto alle donne: mangiano meno frutta e verdura, consumano più carne
rossa, stanno meno attenti alle informazioni nutrizionali relative alle calorie o ai grassi dei cibi, rivolgendo il
loro interesse, nel migliore dei casi, solo alla percentuale di proteine nell'alimento scelto [Levi, Chan e
Pence 2006].

A differenza delle donne, da cui ci si aspetta socialmente che mangino poco, da un uomo ci si aspetta che
mangi molto, che non badi troppo alla dieta da seguire e che sia un grande consumatore di carne rossa
[Cavazza e Guidetti 2020]. Queste aspettative sociali trovano conferma e riscontro nella realtà sociale. Gli
uomini esprimono atteggiamenti più favorevoli delle donne nei confronti del consumo di carne, mostrano
meno interesse nei confronti della sofferenza animale, e considerano generalmente un pasto decente
quello che prevede almeno una portata di carne [Rothgerber 2013]. In che modo siamo arrivate e arrivati a
intendere la carne come un cibo virile? La carne - con tanto di sangue grondante - è stata spesso associata
alla forza e al vigore per la sua capacità di dare energia. Inoltre, essendo stata storicamente limitata la sua
disponibilità, è diventata cibo prezioso ed esempio emblematico di un'alimentazione all'altezza degli
uomini [Rozin et al. 2012]. Durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, ad esempio, le donne sono state
esortate a mangiare meno carne cosi da conservarla per i soldati che ne avevano bisogno

Lewin 1972; Ruby e Heine 2011].

Oggi, la fiera esibizione da parte di alcuni uomini di mangiare la carne senza preoccupazioni di alcun tipo -
etiche o di salute - dice qualcosa, oltre che sul loro stato di salute, anche sull'adesione a un modello
tradizionale di mascolinità. La domanda provocatoria è: gli uomini sono proprio liberi di scegliere che cosa
mangiare? Difficile rispondere con una risposta secca a questa domanda che chiama in causa in generale la
nostra libertà e autonomia dai condizionamenti sociali. In ogni caso, non va trascurato che per un uomo,
molto più che per una donna, può essere minaccioso mangiare carne saltuariamente o addirittura non
mangiarne in modo sistematico, come nel caso di chi adotta un regime alimentare vegetariano o vegano. E
ci si mettono anche le donne a complicare le cose. Sappiamo infatti che le donne eterosessuali
attribuiscono maggiore virilità a un uomo che mangia carne, trovandolo più attraente e sexy di uno che
preferisce altri alimenti [Timeo e Suitner 2018]. In una logica rigidamente organizzata e imperniata sugli
stereotipi tradizionali di genere, la scelta di astensione dalla carne, anche se salutare e rispettosa degli
animali, può essere devirilizzante e ciò che ne consegue è una derisione misogina («Mangi come una
donna!») oppure omofoba («Sembri un gay!») per punire chi sta violando in superficie una norma di
comportamento alimentare e più nel profondo una norma di organizzazione sociale. La polizia di genere
colpisce ancora e puntuale, insomma.

In una ricerca di Nakagawa e Hart [2019] è stato esaminato l'effetto della minaccia alla mascolinità
sull'interesse degli uomini nei confronti della carne. Nello studio, lo stato di minaccia veniva innescato con
una procedura abbastanza frequente in questo tipo di lavori. Si chiedeva agli uomini di elencare otto
episodi nella condizione sperimentale di minaccia (vs. due episodi nella condizione di controllo non
minacciosa) in cui avevano dato prova della loro mascolinità. Essendo l'elenco di otto episodi numeroso e
potenzialmente difficile da stilare, la minaccia si innescava poiché le persone - in base a quella che in
termini tecnici viene definita euristica della disponibilità - sono indotte a considerare la difficoltà del ricordo
come un indice di minore frequenza dello stesso e a scambiare la disponibilità in memoria di un evento con
la sua frequenza (se non riescoa ricordare otto episodi, vuol dire che quegli episodi non sono cosi frequenti
e quindi che si verificano di rado). Dai risultati è emerso che i partecipanti mostravano un maggiore
interesse verso la carne dopo aver subito una minaccia alla propria mascolinità, proprio affidandosi alla
manifestazione di questo interesse come strategia di rispristino della propria mascolinità minacciata. 3.2.
Consumo di tabacco e alcol

Fra i fattori di rischio più importanti per la salute delle persone troviamo senza dubbio il consumo di
tabacco e il consumo di alcol. Diversi e gravi sono i problemi di salute collegati all'assunzione di queste
sostanze. L'uso costante e prolungato di tabacco incide negativamente sulla durata della vita media e sulla
qualità della stessa: 20 sigarette al giorno riducono di circa 4,6 anni la vita media di un giovane che inizia a
fumare a 25 anni. Inoltre, sono ben 27 le malattie fumo-correlate, fra cui infezioni broncopolmonari, infarto
e cardiopatie ischemiche, tumori a polmoni, vescica, fegato, laringe, esofago, pancreas. I dati del Ministero
della Salute per il 2018 ci dicono che, in Italia, sugli 81.855 decessi per patologie legate al fumo, ben 65.613,
quindi l80 per cento, hanno colpito persone di sesso maschile

Per quanto riguarda l'alcol, secondo lOrganizzazione mondiale della sanità (OMS), nel 2016, più di 3 milioni
di persone sono morte nel mondo per uso dannoso dello stesso e di queste, come per il tabacco, più di tre
quarti sono uomini. I dati dellIstituto superiore di sanità forniscono indicazioni coerenti anche nel nostro
paese per le differenze fra uomini e donne: il numero di decessi di persone di età superiore a 15 anni per
patologie totalmente alcol-attribuibili è stato pari a 1.543, di cui il 78,4 per cento riferiti a maschi.

Impressionano i numeri dello sbilanciamento dei danni per gli uomini. Altrettanto inquietante è la
«coerenza di genere»: la stragrande maggioranza di decessi per alcol e tabacco ha colpito uomini. Prima di
dare una chiave interpretativa di questa preoccupante differenza di genere, riporto una vignetta del 1963,
in cui Charles M. Schulz, autore dei Peanuts e profondo conoscitore dell'animo umano, descrive
splendidamente l'interazione fra due amici, Linus e Charlie Brown. Passeggiando con Charlie Brown e la sua
amata copertina, Linus snocciola all'amico una lezione di vita, spiegandogli che non gli piace per niente
affrontare i problemi di petto e che il miglior modo in assoluto per risolvere i problemi sia proprio evitarli.
«Senti qui la mia filosofia: non esiste problema cosi grande o così complicato da cui non sia possibile fuggire
a gambe levate!». Potremmno definirla come un'emblematica illustrazione della socializzazione maschile al
coping evitante. Il coping evitante è la tendenza a gestire le emozioni, i pensieri, le sensazioni fisiche
negative che emergono in occasione di situazioni stressanti evitando di pensarci e rivolgendo l'attenzione
ad altro Krohne e Egloff 2005]. Nel paragrafo dedicato alla regolazione emotiva, si è visto come la
soppressione e l'evitamento delle emozioni siano strategie tanto disfunzionali quanto abituali negli uomini
che aderiscono a modeli tradizionali di definizione di sé. Analogamente, lo stile di coping evitante ha degli
effetti paradossali poiché anche se l'intento è di evitare le emozioni negative non prestandoci attenzione, il
rischio invece è propri di incrementare P'attenzione nei confronti di quelle emozioni. Una storia buddista
racconta come un monaco interessato a raggiungere lo stato zen si reca da un saggio chiedendogli che cosa
fare per raggiungere quellobiettivo. Il saggio a quel punto gli fornisce un'unica, semplice indicazione da
seguire nella pratica di meditazione: non pensare mai alle scimmie. Il monaco, quasi deluso per la banalità
dell'indicazione, va via certo che non avrebbe avuto alcuna difficoltà a ignorarle, in fondo mai prima di alora
aveva pensato alle scimmie in vita sua. Pochissimo tempo dopo,il monaco torna disperato dal saggio
scongiurandolo di liberarlo dall'incubo che stava vivendo: stava impazzendo, era perseguitato dal pensiero
delle scimmie che non riusciva più ad allontanare da sé. Che cosa ci dice questa storia? Ci dice che per
sopprimere un pensiero o un'emozione, è necessario esercitare un controllo incessante, anche se
inconsapevole. Più nello specifico, è necessario monitorare i pensieri e verificare che il pensiero/emozione
da sopprimere non sia presente e questo paradossalmente produce leffetto opposto rispetto a quanto
atteso. Un po' come in aeroporto ai controlli di sicurezza, in cui proprio la verifica che sia tutto regolare nei
nostri bagagli e nel nostro abbigliamento rende sempre saliente e vivido nella nostra mente l'inquietante
pensiero di sottofondo collegato al rischio di un attentato terroristico. Si parla a questo proposito in
psicologia sociale di etfetti ironici e paradossali della soppressione di un pensiero [Macrae et al 1994].

Il fumo e l'alcol si adattano benissimo a questo paradosso. Le persone con uno stile di fronteggiamento
evitante dei problemi possono ricorrere al fumo o all'alcol per distogliere la propria attenzione dai pensieri
negativi; dal momento che il copng evitante, lo abbiamo visto prima, è per definizione fallimentare, il
risultato sarà un incremento delle emozioni negative non elaborate e digerite, incremento che a sua volta
innescherà di nuovo il bisogno di fumare o bere per allontanare quelle emozioni. Ricorrendo ancora una
volta a un esempio non scientifico, è iluminante nel descrivere questo circolo vizioso il passo del Piccolo
principe in cui il bambino incontra un «ubriacone» «Che cosa fai?» chiese il piccolo principe all'ubriacone
che stava in silenzio davanti a una collezione di bottiglie vuote e a una collezione di bottiglie piene. «Bevo»
rispose, in tono lugubre, l'ubriacone. «Perché bevi?» domandò il piccolo principe. «Per dimenticare»
rispose l'ubriacone. «Per dimenticare che cosa?» si informò il piccolo principe che cominciava già a
compiangerlo. «Per dimenticare che ho vergogna» confessò l'ubriacone abbassando la testa. «Vergogna di
che cosa?» insisteva il piccolo principe che voleva aiutarlo. «Vergogna di bere».

Non sorprenderà a questo punto sapere che le ricerche disponibili sono molto chiare nell'indicare che gli
uomini che aderiscono maggiormente alle norme dominanti di mascolinità sono anche quelli che assumono
più di frequente comportamenti poco salutari per gestire lo stress come il consumo di alcol e tabacco
[Courtenay 2000; Eisler e

Hersen 2000]. 3.3. Sporte attività fisica

Potremmo raccontare la storia dell'Occidente, dei suoi drammi e delle sue conquiste, anche a partire dallo
sport. Nel bel volume a fumetti Pesi massimi, Federico Appel racconta, ad esempio, le storie sportive del
secolo scorso che hanno segnato delle evoluzioni significative, non solo nella storia dello sport, ma anche
della cultura e del costume. Pensiamo a Jessie Owens, fortissimo velocista nero americano che, con le
quattro medaglie d'oro vinte alle Olimpiadi del 1936 di Berlino, umilia la delirante idea della superiorità
genetica della «razza ariana» nell'imbarazzo generale del Führer e dei suoi fedeli gerarchi nazisti. Uno dei
più grandi ciclisti di sempre, l'italiano Gino Bartali, tra il 1943 e il 1944, riesce a salvare oltre 800 persone
trasportando documenti falsi da Assisi, dove si trovava una stamperia clandestina, a Firenze, portandoli al
vescovo che a sua volta li distribuiva agli ebrei ed ebree italiani/e perché potessero espatriare. Il tutto ben
nascosto nel telaio della sua bicicletta, fingendo di allenarsi e riuscendo cosi ad aggirare il controllo della
polizia fascista. Ancora, fra gli eventi memorabili del secolo scorso, le

Olimpiadi di Città del Messico del 1968. Dieci giorni prima si compie a opera della polizia messicana un
massacro inaudito, oltre 300 studenti che manifestavano contro il governo vengono assassinati. Sempre
durante quelle incredibili Olimpiadi, si assiste a un evento che è entrato a far parte dell'iconografia della
storia delle battaglie per i diritti civili dei neri americani. Durante la premiazione per la finale dei 200 metri, i
velocisti Tommie

Smith e John Carlos, rispettivamente primo e terzo classificati, testa bassa, piedi scalzi, pugno alzato con un
guanto nero, restano sul podio con il volto scuro e non mostrando deliberatamente alcuna gioia per la
vittoria ottenuta, in segno di protesta contro un'America razzista che non aveva chiuso e forse non ha
ancora chiuso del tutto i conti con la vergognosa pagina della segregazione razziale. Per nulla apprezzato
dal pubblico di

Città del Messico e ancor meno dalle associazioni sportive di cui facevano parte, questo gesto interromperà
per sempre la carriera sportiva di due veri e propri fuoriclasse. Non solo: anche Peter Norman, l'atleta
australiano arrivato secondo, con il tempo di 20,06 secondi - ancora oggi, a distanza di oltre mezzo secolo,
record nazionale -, sale sul podio solo in apparenza indifferente e invece solidale alla causa. Norman
indossa sul petto la spilla dellolympic Project for Human Rights, dando prova di un coraggio per cui pagherà
un prezzo altissimo negli anni a seguire, costretto anche lui ad abbandonare l'atletica.

E possibile tracciare anche una storia di genere, altrettanto significativa, a partire dalla storia dello sport. Lo
sport è un terreno di gioco, è il caso di dirlo, dove la mascolinità tradizionale ha avuto e ha ancora modo di
celebrarsi in tutta la sua illusione di magnificenza. Pensiamo a un primo, significativo dato: 1laccesso alle
discipline sportive è stato per secoli precluso alle donne e la partecipazione femminile allo sport,
altrettantoa lungo, e stata considerata come un'idea bizzarra, innaturale e pericolosa per la salute delle
donne stesse. Quando il barone Pierre de Coubertin modernizzò gli antichi giochi olimpici, escluse in modo
categorico la possibilità di partecipazione delle donne. Nel 1912, durante le Olimpiadi di Stoccolma
affermò: «Un'Olimpiade femminile sarebbe sconveniente, non interessante, inestetica e scorretta. I vero
eroe olimpico è il maschio adulto. I giochi olimpici devono restare ristretti agli uomini e il ruolo delle donne
dovrebbe essere quello di premiare i vincitori» [citato in Ferez 2012]. Grazie all'impegno di Alice Milliat, che
nel 1917 creò la Federation des Societes Feminines Sportives de France (FSFSF) e nel 1921 la Federation
Sportive Feminine Internationale (FSFI), a Parigi, avranno luogo nel 1922 le prime Olimpiadi femminili. Solo
in seguito, nel 1928, alle donne sarà concesso di accedere, anche se solo per un numero limitato di
discipline, alle Olimpiadi di

Amsterdam. Tutto ciò avvenne in un gran vespaio di polemiche. In Francia molti medici mostrarono
un'accorata inquietudine per l'intensa attività sportiva delle atlete olimpiche, un'attività che avrebbe
potuto, a loro pensoso e accorato parere, compromettere in modo irreversibile la fertilità femminile e in
ultima analisi provocare (ebbene si, lo hanno detto davvero!) lestinzione della specie umana [ibidem).

Lo sport dunque si delinea, per usare le parole di Eric Dunning [1986], come una vera e propria riserva
maschile, un'istituzione creata fin dai suoi albori dagli uomini e per gli uomini; come tale, un ambito
privilegiato in cui rappresentare la mascolinità nell'ideale di competizione e aggressività da un lato e forza e
invincibilità del corpo dall'altro |Kidd 2013]. Paradigmatico in questo senso il ruolo dello sport nelle
dittature in generale e nello specifico nell'esperienza italiana del fascismo. Nelle foto e nei video del tempo,
il duce spesso viene ritratto in tutta la sua prestanza fisica, mentre trebbia il grano a torso nudo con la folla
che lo acclama o mentre pratica equitazione e nuoto: nel 1934 Lando Ferretti, presidente del CONI e
direttore del giornale «Lo sport fascista», definisce il duce come il primo sportivo d'ltalia. In un reperto
video dell'Istituto Luce del 1934 in cui si vede

Mussolini andare a cavallo, dare di scherma, nuotare ad ampie bracciate, la voce di accompagnamento alle
immagini osserva con emozione composta:

Nelle intense fatiche quotidiane del suo altissimo ufficio, il duce non trascura la sua bella e rigenerante
fatica sportiva. L'allenamento fisico, sulla terra, nel cielo e sul mare costituisce l0 Svago preferito delle sue
rare ore di riposo che egli dedica allo sport. Particolarmente alta è poi la sua fedeltà al mare che egli non
dimentica neppure in questo periodo di primi rigori autunnali.

Lo sport è centrale non solo nella costruzione della trionfante virilità del duce, ma anche della mascolinità
dell'intera nazione. L'importanza del'esercizio fisico è cruciale non solo e non tanto nella preparazione alla
guerra, ma per temprare il carattere del giovane uomo fascista educandolo alla disciplina, al rigore e
all'autocontrollo. Il motto latino mens sana in corpore sano ritorna per questo in auge nellItalia fascista
come punto di riferimento per la costruzione di sé [Mosse 1998].

E passato poco meno di un secolo da allora e lo sport ha subito grandi evoluzioni. Che chiami però ancora in
causa topoi prototipici di una mascolinità trionfante e indomita è fuor di dubbio. Giampiero Boniperti,
calciatore prima e poi presidente della Juventus, ha dichiarato senza troppi giri di parole celebrando la sua
amata Juve: «Vincere non è importante, è l'unica cosa che conta». E evidente, oltre che molto inquietante,
che quando l'unico orizzonte possibile è la vittoria, la sconfitta diventa un'umiliazione irreparabile.

Oltre le dichiarazioni di un singolo (che sono comunque diventate un mantra recitato con orgoglio anche
dai tifosi e dalle tifose della squadra), esistono delle vere e proprie discipline sportive che per il modo in cui
sono organizzate son0 emblematiche rispetto all'ideale maschile di invincibilità e forza. Una per tutte è
l'Ironman, il cui nome è già una garanzia. Questa disciplina prevede che l'atleta si sottoponga a una prova
massacrante composta da ben tre tappe ognuna estenuante di per sé: la prima di circa 4 chilometri a
nuoto, la seconda di 180 chilometri in bicicletta e infine la terza in cui percorrere più di 42 chilometri di
corsa. Non a caso chi vince (anche se è una donnal), vince il titolo di

Ironman, uomo d'acciaio.

La disciplina e la resistenza sono cruciali nella pratica sportiva ed educarsi a queste dimensioni non deve e
non può essere considerato un problema tout court. Tuttavia accade che spesso, in nome della resistenza,
gli uomini siano chiamati a ignorare e a non prendersi cura del proprio dolore, trattando il proprio corpo
alla stregua di uno strumento da usare senza porsi alcun limite per raggiungere l'obiettivo. Sabo [2009] ha
introdotto per questo il concetto di socializzazione maschile al «principio del dolore».

L'autore ha osservato come i ragazzi e gli uomini che fanno sport e che vogliono diventare degli atleti di
successo sono sottoposti spesso a un sistema di controlo severo del dolore del proprio corpo. E necessario
apprendere il prima possibile questo principio di sopportazione del dolore, non abbandonando mai la
competizione anche se feriti o infortunati, pena la perdita della propria posizione nella squadra, o la
ridicolizzazione attraverso gli ormai arcinoti insulti omofobi e sessisti. Esplicativa in questo senso la
ricorrente celebrazione dei commentatori sportivi, durante le cronache delle competizioni, di atleti che
perseverano nel restare in gara nonostante infortuni seri e dolorosi. Altrettanto emblematico il caso di
Giampiero Ventrone, preparatore fisico della

Juventus di Lippi negli anni Novanta, il quale ha introdotto nel ritiro valdostano della squadra il metodo
della «campana della vergogna». Riporto la descrizione presente in un articolo del quotidiano «La Gazzetta
dello Sport» che è interessante non solo per quello che racconta - che già basterebbe a dirla tutta - ma per
come lo racconta, commentando, con ammirato stupore, l'idea di Ventrone:

La campana della vergogna è la sublimazione, il simbolo, il succo dell'idea di lavoro e fatica che alberga
nella testa di Giampiero Ventrone. Si tratta di una comunissima campana piazzata nei posti dove il
preparatore atletico della

Juve torchia la banda bianconera. Può essere il prato dove ci si allena, il percorso tra gli alberi dietro l'hotel
del ritiro, la palestra. Ha uno scopo semplice e psicologicamente terrorizzante, la campana: chi arriva allo
stremo dopo, diciamo a casaccio, cento flessioni, e deve alzare bandiera bianca, sfinito, ha il dovere, in un
ultimo anelito, di avvicinarsi alla campana e di farla suonare. Cosi tutti sapranno che il primo a cedere sei
stato tu. E non ci farai bella figura di fronte al gruppo. Non è un'invenzione di cui Ventrone possa assumersi
la paternità, in assoluto. Ma spetta a lui, indubbiamente, lidea di averla proposta al calcio italiano e alla
Juve in particolare. Gli piace

OVvio (e dice Ventrone): è uno stimolo a superare i propri limiti. Anche perché i limiti non esistono, in
questo campo.

Fin qui abbiamo descritto il mondo dello sport professionista che, pur essendo assai significativo in termini
simbolici, riguarda un numero limitato di uomini. Come cambiano le cose quando parliamo di sport e
attività fisica praticati in modo non agonistico? Qui è possibile riscontrare un'nteressante contraddizione
dei modelli attuali e passati di mettere in atto la propria mascolinità. In un passato neanche troppo lontano,
agli uomini non era richiesto di badare al propri0 corpo in termini estetici: non solo non erano tenuti a
controllare il proprio peso o l propri0 aspett0, ma mostrare interesse per queste dimensioni veniva
addirittura guardato con sospetto e di certo non era una prova di virilità: «Uomo di panza, uomo di
sostanza» recita, non a caso, un proverbio un po' desueto. La bellezza è stata infatti per secoli intesa (e lo é
ancora spesso) come una qualita prettamente femminile, come la qualità femminile più importante e come
una condizione il cui raggiungimento e/o il cui mantenimento sono un obbligo da ottemperare per tutte le
donne, a prescindere dai possibili costi che ne derivano. Questi orizzonti normativi hanno registrato pochi
cambiamenti nel tempo per le donne e ancora oggi la bellezza è una categoria fondamentale per esse. Cosa
è accaduto invece per gli uomini? Possiamo rilevare un grande mutamento: a differenza del passato, oggi
per un uomo la cura estetica e fisica del proprio corpo - sebbene non prioritaria per la definizione del suo
valore sociale è considerata molto più importante e per questo non più demascolinizzante.

E in atto ormai da circa trent'anni una trasformazione molto riconoscibile negli ideali di bellezza maschile.
Nelle generazioni passate, agli uomini piacenti non era richiesto di avere un corpo muscoloso per essere
considerati gradevoli fisicamente. Basti pensare ai cosiddetti sex symbol di un passato neanche troppo
lontano, come gli attori Jean-Paul

Belmondo, Marlon Brando, Paul Newman, Marcello Mastroianni ecc. Tutti uomini il cui corpo era
decisamente diverso in termini di volumi e massa muscolare dai sex symbol di oggi. Con il tempo invece,
per definire il sex appeal degli uomini è diventata sempre più centrale la caratteristica della muscolarità che
ha anche generato il sottoprodotto della depilazione maschile funzionale a esibire megli0 i muscoli. Hunt,
Gonsalkorale e Murray |2013] osservano come proprio nelle societâ e nei paesi dove si é asSistito a
maggiori evoluzioni positive nel rapporto fra uomini e donne, cosi come a una significativa riduzione delle
disuguaglianze di genere, si è assistito in parallelo a una paradossale maggiore tendenza a dare importanza,
a livello sociale, all'ipermuscolarità del corpo. Cið risponderebbe al bisogno di riaffermare la propria
mascolinità intesa in senso tradizionale attraverso un potenziamento della massa muscolare, un indice
concreto, visibile, misurabile di forza, agentività e potere.

In passato, mentre molti uomini praticavano sport, erano pochi gli uomini che andavano in palestra solo
per allenarsi e tonificare e aumentare la massa muscolare. Oggi le cose sono molto diverse e non
trascurabile è anche il ruolo assunto, in queste evoluzioni, dall'ascesa dei social media, dove tutto quello
che accade nella propria vita offline si documenta ossessivamente online, ammesso e non concess0 che
questi ambiti - online e offline - siano ancora distinguibili. I social network pullulano di uomini che si
fotografano o filmano durante i loro allenamenti facendo sfoggio di addominali a tartaruga, braccia
possenti e colli taurini. Queste immagini fanno da contraltare alle onnipresenti immagini mediatiche di
uomini supersessualizzati, resi oggetti e merce. l g1ornalista inglese Mark Simpson ha introdotto il termine
spornosexuals per definirlı, sintesi delle parole sportsmen e porn stars, atletici come degli sportivi e
contemporaneamente sessualmente ammiccanti (per usare un eufemismo) come pornoattori. In questo
scenario, le ricerche documentan0 in modo sempre piu coerente come per gli uomini soprattutto
occidentali il desiderio di un corpo muscoloso accompagnato dall'insoddisfazione per il proprio corpo sia
sempre più diffuso [Frederick et al. 2007; Gattario et al. 2015].

L'attenzione alla forma fisica non va patologizzata tout court, anzi. Se pensiamo al crescente tasso di
obesita, che lOrganizzazione mondiale della sanita ci segnala come un problema epidemico nelle società
occidentali, la cura del corpo maschile è indubbiamente un'evoluzione positiva. Ció nonostante non può
essere trascurato che molti uomini intraprendono strategie pericolose e non salutari di cura del proprio
corpo e di accrescimento della propria massa muscolare, quali sedute estenuanti di allenamento o diete
iperproteiche. Un numero crescente di uomini ricorre, inoltre, a steroidi per aumentare velocemente la
massa muscolare e migiorare la performance atletica trascurando gli effetti collaterali pericolosi
dell'assunzione di queste sostanze, fra cui malattie del fegato e problemi cardiovascolari. 3.4. Prevenzione e
percezione del rischio
La prevenzione può ridurre in modo significativo il rischio di malattia e di morte e gli uomini, a questo
punto della lettura non sarà più una sorpresa, fanno in generale meno prevenzione delle donne e
assumono comportamenti più rischiosi di loro.

Sono disponibili dati molto coerenti fra loro nell'indicare quanto ho appena scritto.

L'ideale di forza e invincibilità maschile spinge gli uomini che vi aderiscono a percepire

Come inutile la prevenzione e come una roba da donne il preoccuparsi delle conseguenze possibili di
attività rischiose. Un vero uomo è forte, il suo corpo è invulnerabile alla malattia e il manifestare
preoccupazione per le malattie è un chiaro segnale di debolezza e scarsa mascolinità. Il risultato è che gli
uomini assumono meno precauzioni e sottostimano maggiormente i rischi che le proprie azioni possono
avere per la salute.

Nel 1954, la Marlboro, nota casa di tabacco, aveva necessità di lanciare presso un pubblico maschile le
sigarette con filtro, che peròò essendo meno rischiose per la salute rispetto a quelle senza filtro erano
considerate troppo femminili e dunque una potenziale minaccia a una mascolinità che non ha paura di nulla
e non si preoccupa dei rischi delle azioni sulla propria salute. Pare che il pubblicitario americano Leo
Burnett abbia chiesto al suo staff quale fosse secondo loro l'immagine più mascolina degli Stati Uniti
dell'epoca cosi da rendere meno minaccioso per gli uomini l'acquisto delle sigarette senza filtro. La scelta
cadde sull'immagine del cowboy, e Burnett lanciò The Marlboro Man, la campagna pubblicitaria forse più
famnosa, e certamente più duratura, di tutti i tempi che ebbe un tale successo associata al marchio di
sigarette, che venne lanciata anche una linea di abbigliamento sportiva con lo stesso nome [Dell'Agnese
2007].

Le donne si mostrano più disponibili a cambiare abitudini non salutari rispetto a quanto fanno gi uomini,
che invece tendono a sottovalutarne la problematicità [Courtenay 2011]. Gli uomini con ipertensione, tanto
per fare un esempio, mostrano scarsa disponibilità a cambiare il proprio regime alimentare, a ridurre o
eliminare l'uso del sale o l'alcol, a perdere peso ec., cambiamento che invece sarebbe fondamentale per
evitare malattie coronariche come l'infarto. Gli uomini che aderiscono a una visione tradizionale della
mascolinità tendono anche a percepire minori rischi rispetto alla trasmissione di malattie sessualmente
trasmissibili come l'HIV, mostrando per questo maggiore riluttanza a usare il preservativo e mettendo cosi
anche a rischio le persone con cui hanno rapporti sessuali Jadack, Hyde e Keller 1995]. Più in generale, la
risposta allo stress degli uomini avviene spesso assumendo comportamenti rischiosi mentre le donne
tendono a rispondere allo stress facendo il contrario [ILighthall, Mather e Gorlick 2009].

Gli uomini e gli adolescenti si ubriacano più spesso, percepiscono meno rischi per la salute associati alle
sigarette, all'alcol e ad altre droghe rispetto alle donne e si percepiscono meno a rischio di cancro alla pelle
rispetto alle donne, sottostimando i problemi derivanti dall'esposizione al sole [Banks et al. 1992]. È
impressionante la percentuale di uomini che perde la vita in incidenti stradali in

Europa rispetto alle donne, per l'esattezza rispettivamente 76 per cento e 24 per cento nel 2017 [European
Commission 2018]. E minore anche la paura di morire in episodi di violenza/risse rispetto alle donne,
sebbene la probabilità che questo accada sia nettamente maggiore per gli uomini rispetto alle donne.
Altrettanto interessante è la gestione della propria saute in ambito lavorativo. Ho già parlato del principio
di sopportazione del dolore in ambito sportivo ma sono diversi gli ambiti professionali, soprattutto quelli
tradizionalmente maschili, che prevedono lavori manuali, come il settore delle costruzioni, in cui questa
logica della sopportazione del dolore e dello spostare sempre più in là la soglia del rischio è molto più
diffusa di quanto si possa pensare. L'ideologia tradizionale della mascolinità normalizza il rischio anche
quando invece non è affatto normale e agisce così silenziando le possibili lamentele dei lavoratori su
condizioni professionali rischiose. Si creano delle culture organizzative e del lavoro per cui affrontare a testa
bassa rischi, anche seri, diventa un modo per dar prova del proprio valore maschile nella sfera
professionale [Stergiou-Kita et al. 2015]. 4. La ricerca di aiuto

Non so se alle ragazze e alle donne che stanno leggendo questo libro è capitato almeno una volta nella vita
di essersi perse in una città nuova in compagnia di un uomo, immagino però di si. Emergerà forse sepolto
nella memoria il ricordo di una solitariae frustante attesa dell'amico, fidanzato o marito di turno alle prese
con lo studio ostinato di una cartina stradale. Ricorderete forse un uomo cocciuto nel trascorrere un tempo
infinito per trovare la strada da sé piuttosto che cedere alla vostra degradante idea di chiedere aiuto a un
passante. Questa è evidentemente una generalizzazione scherzosa, e ci tengo a chiarire che non sto
dicendo che tutti gli uomini con una cartina in mano si sentono come Cristoforo Colombo, alla volta
dell'India e giunto invece in quella che oggi chiamiamo America. Resta pur sempre una domanda: perché,
per alcuni uomini, è cosi difficile chiedere aiuto? Al di là di quanto accade in relazione all'orientamento
spaziale e stradale, che cosa succede nell'ambito della salute quando è necessario chiedere aiuto?

Direi, purtroppo, qualcosa di molto simile. Un dato coerente che emerge da ormai quasi cinquant'anni di
ricerche sul tema è il seguente: gli uomini chiedono meno aiuto delle donne al personale sanitario per i
problemi fisici, per la salute mentale e per i problemi di abuso di sostanze stupefacenti |Garfield, Isacco e
Rogers 2008]. Si rivolgono meno a servizi psichiatrici e psicoterapeutici, vanno meno dal medico di base e
quando ci vanno pongono meno domande rispetto alle donne, soffrono di più di alcolismo e dipendenza da
droghe delle donne (l'abbiamo visto nel par. 3.2) ma chiedono meno aiuto per questo [Courtenay 2000]. La
riluttanza degli uomini a chiedere aiuto nel momento del bisogno è ancora più sorprendente considerato lo
stato di salute in cui spesso versano.

In uno spot che appare nella televisione italiana da circa un anno si sponsorizza un farmaco per la prostata:
vediamo un uomo che si alza dal letto spesso e ogni notte, inventando puntualmente un pretesto per sua
moglie: ««Avevo sete!», «Ho sentito un rumore strano in garage.. Lo spot continua con il messaggio che
una capsula al giorno del farmaco contribuisce a favorire la normale funzionalità della prostata e delle vie
urinarie per concludersi, infine, con un messaggio diretto al potenziale acquirente, in cui gli si dice in modo
severo: «Non hai più scuse!». Lo spot è molto interessante ai fini del tema affrontato in questo paragrafo:
non acquistando il prodotto, luomo sarebbe condannato a urna vita di notti insonni e scuse strampalate
offerte non a una persona sconosciuta qualsiasi ma a sua moglie! Si insinua che il problema alla prostata è
un problema di cui vergognarsi, prima di tutto con la partner. Quello che colpisce è il finale: indovinate chi
va in farmacia a comprare il farmaco? Sua moglie, naturalmente! Il messaggio che passa è in sintesi che un
uomo: 1) non può parlare di un problema alla prostata con sua moglie (ma sua moglie è tenuta a capirlo) e
2) non puð autonomamente risolvere da séil problema (ma sua moglie ètenuta a risolverlo).

I contesto sociale che fa da scenario alla richiesta di aiuto per gli uomini inizia ad assumere contorni più
precisi e riusciamo cosi a capire meglio perché sono cosi numerosi gli uomini che incontrano tante
difficoltà. L'atto di chiedere aiuto chiama in causa e sfida un'idea di mascolinità tradizionalmente intesa.
Sono due le sfide maggiori in campo. La prima investe la sfera della dominanza, della forza, del controllo:
l'atto di chiedere aiuto segnala agli altri che si ha un problema, che si è in uno stato di debolezza, una
condizione in contraddizione con la definizione di sesso forte. La seconda sfida riguarda il dominio
dell'autonomia e dell'indipendenza. Quando chiediamo aiuto è perché non possiamo risolvere in
autonomia il nostro problema e siamo costretti a passare giocoforza da una condizione di presunta
indipendenza a una di dipendenza relazionale.

Qual è il mod0 in cui le norme di mascolinità sono chiamate in causa nei comportamenti di ricerca d'aiuto?
Facciamo un passo indietro per definire meglio cosa si intende per ricerca di aiuto. Sebbene spesso non sia
riconosciuta come una capacità, la ricerca di aiuto invece è un'importante competenza sociale. Grazie alla
richiesta di aiuto, le persone in condizione di bisogno possono arrivare a gestire in modo efficace i problemi
che incontrano nella vita quotidiana. La ricerca di aiuto è un processo dinamico e complesso: coinvolge le
persone che chiedono aiuto, le persone che forniscono aiuto, il tipo di auto richiesto e le situazioni
specifiche in cui l'aiuto è richiesto [Addis e Mahalik 2003]. Inoltre, sono diverse le tappe nel processo di
richiesta d'aiuto, per ognuna delle quali è possibile individuare una competenza psicologica specifica. La
prima tappa consiste nel riconoscimento del problema. Per farci aiutare a risolvere un problema dobbiam0
riconoscere che la condizione che stiamo vivendo è proprio un problema. Da un punto di vista del
malessere psicologico, questo significa, per esempio, identificare prima e dare voce poi a sentimenti ed
emozioni negativi, per arrivare a riconoscerli comne disfunzionali. Un primo passo, questo, tutt'altro che
scontato per chi fa dello stoicismo emotivo un modello da seguire: linibizione e la soppressione delle
emozioni negative sono infatti le protagoniste della sua regolazione emotiva.

Proseguiamo con le tappe di cui sopra. Una volta riconosciuta e identificata la condizione di disagio, è
importante la definizione del problema, pensare che quel problema sia diffuso e che sia normale soffrirne.
In questo modo, si sgombra del tutto 0 in parte il campo dall'imbarazzo o dalla vergogna di sentirsi strani. Al
contrario, quando il problema è percepito come anormale o raro, renderlo pubblico attraverso la richiesta
di aiuto puó essere avvertito come minaccioso per la propria autostima («sono strano, nessun ha questa
patologia, solo io ho qualcosa che non va»). A definire se il problema è normale o no concorre la definizione
soggettiva e personale che ne fa il singolo interessato, il modo in cui le persone in generale e più nello
specifico gli uomini della propria rete sociale intendono quel problema e, allargando ancora lo sguardo, il
modo in cui è inteso da un punto di vista sociale. Non a caso, proprio per contrastare lo stigma associato
alla depressione negli uomini e alla sua presunta rarità, il NIMH, lIstituto nazionale di salute mentale degli
Stati Uniti, ha lanciato dal 2003 al 2005 la campagna Real

Men. Real Depression. Gli uomini veri, ci dice lo slogan della campagna, possono soffrire di depressione e
questa malattia non deve essere vista come in contraddizione con la mascolinità, evitando per questo di
farsi aiutare. Le ricerche ci dicono infatti che se la malattia non è percepita come minacciosa rispetto alla
propria virilità, gli uomini hanno meno difficoltà a chiedere aiuto [Gough 2018].

Il problema è stato riconosciuto e percepito come normale e dunque degno di essere trattato ma manca un
ultimo fondamentale tassello: l'interazione reale con la persona a cui chiediamo aiuto. Rivolgersi al
personale sanitario è un'esperienza che può essere molto stressante per le persone in generale e per gli
uomini in particolare. Rivolgersi a un professionista ed entrare in una relazione per definizione asimmetrica
in termini di potere e conoscenza può essere molto stressante per chi aderisce a un modello tradizionale di
virilità. Comporta infatti rinunciare al controllo in molti modi, incluso quello di gestire il tempo (si pensi alla
frustante e sgradevole attesa del personale sanitario quando é in ritardo) o di gestire il proprio corpo, come
nel caso in cui ci si deve sottoporre a esami diagnostici invasivi. Il tutto diventa ancora più complicato se la
persona specialista a cui si chiede un aiuto e con cui si entra in questa relazione asimmetrica è una donna
con la quale di solito ci si relaziona in modo che sia l'uomo a controllare la situazione [Himmelstein e
Sanchez 2016].

Quanto descritto finora riguarda il modo in cui l'uomo tradizionale in cerca di aiuto può sentirsi nella
relazione con la persona specialista a cui ha chiesto quell'aiuto. Come si diceva all'inizio, però, la richiesta di
aiuto è un processo relazionale e, tanto per complicare ancora le cose, anche la persona esperta a cui si
chiede aiuto può presentare una visione stereotipica della mascolinità. Il bias di genere influenza infatti
anche il processo diagnostico e terapeutico. Per esempio, i ragazzi e gli uomini ricevono meno diagnosi per i
disturbi mentali di solito associati al sesso femminile come la depressione o disturbi alimentari, anche a
parità di sintomi espressi [Gomez 1991; Potts, Burnam e

Wells 1991]. Il bias di genere influenza inoltre la prescrizione di farmaci. Agli uomini vengono prescritti
meno farmaci che alle donne [Simoni-Wastila, Ritter e Strickler 2004;
AIFA 2014], fatta eccezione per i farmaci psicotropi, che vedono invece gli uomini, fin da bambini, riceverne
in misura assai maggiore come quelli per trattare l'ADHD, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, a
sua volta diagnosticato maggiormente nei maschi rispetto alle femmine [Rucklidge 2008; Zito et al. 2000].

Un'ultima questione degna di nota riguarda i significati culturali di cui i comportamenti legati ala salute non
sono solo espressione ma anche rinforzo. Un significato importante riguarda la costruzione sociale dei corpi
degli uomini come sani e invulnerabili e di quelli delle donne come deficitari e deboli [Courtenay 2011].
Pensiamo ad esempio all'adozione, per stimare il livello di salute in una popolazione, di indicatori
comportamentali come la frequenza dell'uso dei servizi sanitari o il numero dei giorni di astensione per
malattia da lavoro. Il ricorso a questi indicatori da un lato sottostima la significatività dei problemi di salute
negli uomini (se non ricorrono ai servizi sanitari, va tutto bene) e dall'altro patologizza il corpo delle donne
(se vi ricorrono più degli uomini sono più fragili). Di fatto, si scambia e confonde il modo in cui gli uomini e
le donne fanno fronte alla malattia con il loro reale stato di salute, non rivolgendo la dovuta attenzione alle
patologie degli uomini e rendendo la presunta, sottolineo presunta, buona salute degli uomini come lo
standard a cui fare riferimento. Capitolo terzo

Mai perdere l'occasione di fare sesso 1. Uomini e intimità: una relazione complicata

Ci sono due cose a questo mondo che fanno di un ragazzo un uomo. La prima è l'amore di una donna. La
seconda è l'odio di un altro uomo. [...] Chi conosce solo la prima si rammollisce come una donnicciola,
mentre chi conosce solo la seconda si indurisce come la roccia. Al contrario chi riesce a provare entrambe le
cose diventa come una spada d'acciaio. Come ben sa ogni artigiano che si rispetti, il modo migliore per
rafforzare un metallo è scaldarlo nel fuoco per poi temprarlo in acqua. Lo stesso vale per gli uomini.

Hanno bisogno di essere scaldati dall'amore e temprati dall'odio, concluse

Baba, facendo una pausa per permettere al figlio di interiorizzare quella lezione [Shafak 2012, 75].

Queste sono le parole che Elif Shafak, l'autrice del libro La casa dei quattro venti, fa dire a Baba rivolgendosi
a uno dei suoi tre figli maschi, Adem, al quale la vita riserva un percorso travagliato quasi quanto quello del
padre. Il libro descrive una storia intricata di migrazione dalla Turchia all'Inghilterra, ma è anche molto
altro; vi leggiamo del macigno di una millenaria tradizione di mascolinità posto sulle spalle degli uomini e di
quanta sofferenza questo peso possa generare nella vita di quegli uomini e in generale delle persone che
entrano in relazione con loro. Il bizzarro equilibrio di cui parla Baba fra amore e odio, cosi come la metafora
dell'oggetto inanimato per rappresentare la vita intima e relazionale di un uomo, raccontano bene la
relazione complicata che spesso gli uomini hanno con l'intimità.

Che cos'è l'intimita? Possiamo definirla come la condizione in cui due persone, vicine da un punto di vista
affettivo, condividono liberamente sentimenti, pensieri e azioni [Masters, Johnson e Kolodny 1995].
L'intimità non è solo una condizione, ma anche un bisogno fondamentale degli esseri umani. Ciò
nonostante, nella mascolinità tradizionale viene spesso declassata a un'esigenza e/o competenza
unicamente femminile.

Competitività, indipendenza, assertività, capacità decisionale, sicurezza di sé, capacità di mantenere il


sangue freddo. Emotività, gentilezza, sensibilità, capacità di comprendere gli altri e i loro sentimenti,
disponibilità a prendersi cura degli altri. Quelle appena elencate sono delle qualità che si inseriscono in due
grandi categorie con cui percepiamo la realtà sociale: agentività e comunalità, competenza e calore [Abele
e Wojciszke 2007; Bakan 1966]. Queste categorie non sono affatto neutre da un punto di vista sessuale. Per
ricorrere ai due colori stereotipici con cui si identificano gli uomini e le donne, se la prima categoria è
celeste, la seconda è sicuramente rosa. Pensare che gli uomini e le donne siano naturalmente dotati e
dotate delle une o delle altre qualità ci conduce anche a pensare che siano inclini ad assumere ruoli diversi
a livello sociale e coerenti con le loro qualità.
Essendo più competitivi e con capacità decisionali maggiori, gli uomini sono stati ritenuti per secoli come
più abili nella sfera lavorativa; le donne, in quanto più sensibili ed emotive, sono state considerate
altrettanto a lungo come più propense alla cura della famiglia e delle relazioni intime. Questa suddivisione
rigida delle competenze ha creato parallelamente una società altrettanto rigida in termini di funzioni da
ricoprire: le donne in virtù della loro competenza emotiva e relazionale sono state relegate ai ruoli
domestici e gli uomini in virtù della loro razionalità e capacità decisionale sono stati indirizzati alla sfera
pubblica e lavorativa e meno interessati al versante delle relazioni intime.

Le relazioni intime sono dei sistemi dinamici in cui le persone si influenzano l'una con l'altra nel
funzionamento fisico e mentale. Sono diverse le relazioni intime in cui siamo impegnate e impegnati, dalle
relazioni affettive a quelle sessuali [Diamond 2013].

Comprendere come si articola e organizza la sessualità maschile vuol dire disporre di una chiave di lettura
privilegiata nella comprensione non solo della sessualità di per sé, ma dell'identità maschile nel suo
complesso. La sessualità è infatti, da un punto di vista simbolico, il terreno di gioco più importante in cui si
disputa la partita della prova della mascolinità tradizionale e, per tale ragione, ampio spazio sarà dedicato a
questo tema. 2. Sessualità e copioni sociali

Che cos'è la sessualità e soprattutto perché funzioniamo nel modo in cui funzioniamo in ambito sessuale?
Tendiamo spesso a pensare che la sessualità abbia a che fare solo con quello che le persone fanno a letto
sulla spinta di un istinto «naturale», illudendoci per questo di poter sgombrare il campo, qui più che
altrove, da «inutili complicazioni culturali». Ormai lo sappiamo bene: la chiave di lettura semplicistica e
tendenziosa sempre a portata di mano nella cassetta degli attrezzi delle spiegazioni del comportamento
umano ê quella per cui é la biolog1a (o meglio una Visione parziale e ipersemplificata della biologia) a
guidarci e a determinarci. Nell'ambito specifico qui oggetto di analisi, la premessa e la conclusione si
articolano più o meno cosi: se la sessualità è innata, biologica, stabilita dai geni, allora siamo quello che
siamo nella sfera sessuale perché è la biologia che determina i nostri comportamenti sessuali. Dunque,
possiamo fare poco per contrastare la forza irresistibile dell'istinto naturale e non ci resta che assecondarlo.

Si tratta di un errore concettuale cosi frequente da essersi guadagnato in ambito filosofico un nome ben
preciso: la fallacia naturalistica. Quando consideriamo qualcosa come naturale, finiamo ben presto per
pensare a quella stessa cosa come buona, legittima, valida e immodificabile. Ne consegue la tendenza a far
derivare ciò che deve essere da cio dimensioni e le vediamo come interscambiabili, pensiamo che
lassunzione di comportamenti maschili atipici sia il segnale inequivocabile dell'omosessualità di un
individuo. Impegnati come siamo, di continuo, nella semplificazione della realtà sociale, ci affidiam0
all'espressione di genere per categorizzare e classificare l'orientamento sessuale delle persone, adottando
così un criterio veloce, elegante e assai spesso sbagliato.

Sebbene l'espressione di genere non sia un canale affidabile attraverso cui stabilire lorientamento sessuale
di una persona, ciò nonostante è a essa che continuiamo ad aggrapparci per fare le nostre inferenze sociali.
Proviamo a visualizzare per un momento l'immagine di un uomo con aderentissimi collant bianchi, lungo
mantello con pizzo a balze, scarpe col tacco e con un gran bel fiocco rosso e una folta e voluminosa chioma
artificiale di capelli ricci e fluenti. Se usassimo il criterio dell'espressione di genere per farci un'idea di chi
abbiamo di fronte, quell'uomo potrebbe essere classificato oggi come una drag singer che si sta esibendo in
uno spettacolo di un locale notturno. Se ripeschiamo invece dal primo capitolo l'immagine del Re Sole,
possiamo ricordare non solo che il sovrano era vestito proprio nel modo appena descritto, ma che anzi esso
costituiva l'esempio della mascolinità eterosessuale nella sua massima potenza. Ciò è per riflettere su
quanto l'espressione di genere sia socialmente determinata e ciò che si ritiene tipico di una mascolinità non
convenzionale oggi è ben diverso da ciò che si riteneva in passato.

Ho iniziato sostenendo che l'omosessualità è uno spettro che si aggira attorno alla mascolinità, ma non ho
detto il motiv0, molto semplice, del perché questo accade. Nella visione tradizionale della mascolinità, si
parte da una premessa fondamentale: un uomno vero è solo un uomo cisgender eterosessuale e la
mascolinità è una qualità attribuibile solo a un uomo attratto esclusivamente dalle donne. Di conseguenza,
un uomo omosessuale - o che semplicemente appare come omosessuale - non solo sta comunicando
qualcosa sul proprio orientamento sessuale, ma sta anche dicendo che ha rinunciato, in modo definitivo e
irrevocabile, alla definizione di sé come uomo. Questo è l'esito di quello che

Ingraham [2005] definisce come «pensare etero» (thinking straight). Pensare etero consiste nel ritenere
che l'eterosessualità sia un fenomeno universale non modificato nella sua espressione dalla storia o dalla
cultura, vuol dire considerare l'eterosessualità come non solo la migliore, ma anche l'unica espressione
possibile nell'orientamento sessuale di una persona, un evento naturale e sano, e tutto ciò che non si
etichetta come eterosessuale diventa innaturale e patologico. Sebbene in base alle indicazioni delle
principali società scientifiche psichiatriche, psicologiche e mediche sia ben noto ormai da tempo che
lomosessualità, cosi come la bisessualità, sono un'opzione normale dell'orientamento sessuale di una
persona, in questa visione esse sono intese come una condizione non solo patologica, ma anche
fortemente contagiosa.

Per sintetizzarne il potere infettante, Anderson e Magrath [2019] fanno riferimento alla

One Time Rule of Homosexuality, mutuandola da un arcaico dettame dell'America segregazionista, in base
al quale un uomo bianco con una singola goccia di sangue nero fra i suoi antenati non poteva in alcun modo
dirsi un vero bianco. Traslata sull'orientamento sessuale, la regola funziona più o meno cosi: è sufficiente
un solo rapporto sessuale con un altro uomo per definire l'uomo (eterosessuale) che ha avuto quel
rapporto come un non-uomo, a prescindere dalla sua identità, dai suoi desideri e dalla sua storia di
relazioni. L'inverso però non si applica nella regola: non è certo fare una volta sesso con una donna a poter
restituire la virilità per sempre perduta a un uomo gay, essendo ormai quell'individuo contaminato in modo
irreparabile dal sesso con altri uomini.

L'omosessualità e l'eterosessualità maschile non sono equivalenti in termini di considerazione sociale,


poiché la prima rappresenta un ripugnante tradimento del genere maschile. In questa visione esiste un
confine simbolico fra l'essere uomo (ossia eterosessuale) e l'essere gay che divide l'ordine dal caos, il buono
dal cattivo, il morale dall'immorale. In molte lingue europee, il concetto di moralità è associato all'idea di
camminare lungo una linea retta mentre al contrario limmoralità si associa all'abbandono di quella via. Si
pensi al termine italiano rettitudine (in francese e in inglese rectitude e in spagnolo rectitud), che descrive
non solo la qualità di ciò che è morale, ma anche di ciò che è dritto, retto, corretto. Dante intraprende il suo
viaggio verso l'inferno, luogo della perdizione e del peccato, proprio perché «la diritta via era smarrita»
[Pacilli et al. 2018]. E interessante osservare il modo in cui, in diverse lingue, si definisce una persona
omosessuale o gay. Straight in inglese è l'aggettivo per indicare ciò che è dritto (e dunque morale), ma vuol
dire anche eterosessuale; in italiano, a lungo le persone omosessuali sono state descritte in modo
spregiativo come deviati, invertiti, termini che indicano proprio l'allontanarsi da una linea retta.

Essendo le categorie di mascolinità (eterosessuale) e omosessualità cosi diverse rispetto allo status sociale
di cui godono, potremmo aspettarci che siano altrettanto distinte l'una dall'altra in termini sostanziali.
Detto in modo diverso, se le due categorie di mascolinità e omosessualità si scartano a vicenda - o sei
maschio o sei gay -, classificare qualcuno di qua o di là dovrebbe essere il compito più semplice del mondo.
E invece i confini fra le due categorie sono molto più labili di quanto si pensi. Nel primo capitolo ho parlato
di mascolinità precaria; si potrebbe a questo punto ri-denominare quella mascolinità precaria,
descrivendola in modo più puntuale. Per farlo basta aggiungere un aggettivo per andare a definire la
mascolinită eterosessuale precaria. Per un uomo non è sufficiente definirsi come eterosessuale una volta
per tutte. Bisogna darne prova in modo incessante e pubbico. Nella mascolinità convenzionale,
l'eterosessualità è un fondamentale principio organizzatore dell'identità e fornire agli altri la prova costante
di non essere omosessuali è, per usare le parole di Michael Kimmel [2008], la single cardinal rule of
manhood. Gli uomini che aderiscono al modello tradizionale dell'identità maschile devono dimensioni e le
vediam0 come interscambiabili, pensiam0 che lassunzione di comportamenti maschili atipici sia il segnale
inequivocabile dell'omosessualità di un individuo. Impegnati come siamo, di continuo, nella semplificazione
della realtà sociale, ci affidiamo all'espressione di genere per categorizzare e classificare lorientamento
sessuale delle persone, adottando cosi un criterio veloce, elegante e assai spesso sbagliato.

Sebbene lespressione di genere non sia un canale affidabile attraverso cui stabilire lorientamento sessuale
di una persona, ciò nonostante è a essa che continuiamo ad aggrapparci per fare le nostre inferenze sociali.
Proviamo a visualizzare per un momento

P'immagine di un uomo con aderentissimi collant bianchi, lungo mantello con pizzo a balze, scarpe col tacco
e con un gran bel fiocco rosso e una folta e voluminosa chioma artificiale di capelli ricci e fluenti. Se
usassimo il criterio dell'espressione di genere per farci un'idea di chi abbiam0 di fronte, quell'uomo
potrebbe essere classificato oggi come una drag singer che si sta esibendo in uno spettacolo di un locale
notturn0. Se ripeschiamo invece dal primo capitolo limmagine del Re Sole, possiamo ricordare non

Solo che il sovrano era vestito proprio nel modo appena descritto, ma che anzi esso costituiva l'esempio
della mascolinità eterosessuale nella sua massima potenza. Cio è per riflettere su quanto l'espressione di
genere sia socialmente determinata e ció che si ritiene tipico di una mascolinità non convenzionale oggi è
ben diverso da ciò che si riteneva in passato.

Ho iniziato sostenendo che lomosessualità è uno spettro che si aggira attorno alla mascolinità, ma non ho
detto il motivo, molto semplice, del perché questo accade. Nella visione tradizionale della mascolinitá, si
parte da una premessa fondamentale: un uomo vero é solo un uomo cisgender eterosessuale e la
mascolinita é una qualita attribuibile solo a un uomo attratto esclusivamente dalle donne. Di conseguenza,
un uomo omosessuale o che semplicemente appare come omosessuale - non solo sta comunicando
qualcosa sul proprio orientamento sessuale, ma sta anche dicendo che ha rinunciato, in modo definitivo e
irrevocabile, alla definizione di sé come uomo. Questo è l'esito di quello che

Ingraham [2005] definisce come «pensare etero» (thinking straight). Pensare etero consiste nel ritenere
che feterosessualita sia un fenomeno universale non modificato nella sua espressione dalla storia o dalla
cultura, vuol dire considerare l'eterosessualità come non solo la migliore, ma anche l'unica espressione
possibile nell'orientamento sessuale di una persona, un evento naturale e sano, e tutto ciò che non si
etichetta come eterosessuale diventa innaturale e patologico. Sebbene in base alle indicazioni delle
principali società scientifiche psichiatriche, psicologiche e mediche sia ben noto ormai da tempo che
lomosessualità, cosi come la bisessualità, son0 un'opzione normale dell'orientamento sessuale di una
persona, in questa visione esse sono intese come una condizione non solo patologica, ma anche
fortemente contagiosa.

Per sintetizzarne il potere infettante, Anderson e Magrath [2019] fanno riferimento alla

One Timne Rule of Homosexuality, mutuandola da un arcaico dettame dell'America segregazionista, in base
al quale un uomo bianco con una singola goccia di sangue nero fra i suoi antenati non poteva in alcun modo
dirsi un vero bianco. Traslata sull'orientamento sessuale, la regola funziona più o meno cosi: è sufficiente
un solo rapporto sessuale con un altro uomo per definire I'uomo (eterosessuale) che ha avuto quel
rapporto come un non-uomo, a prescindere dalla sua identità, dai suoi desiderie dalla sua storia di
relazioni. L'inverso però non si applica nella regola: non è certo fare una volta sesso con una donna a poter
restituire la vVirilita per sempre perduta a un uomo gay, essendo ormai quellindividuo contaminat0 in
modo irreparabile dal sesso con altri uomini.

L'omosessualità e l'eterosessualità maschile non sono equivalenti in termini di considerazione sociale,


poiché la prima rappresenta un ripugnante tradimento del genere maschile. In questa visione esiste un
confine simbolico fra lessere uomo (ossia eterosessuale) e l'essere gay che divide lordine dal caos, il buono
dal cattivo, il morale dall'immorale. In molte lingue europee, il concetto di moralità è associato all'idea di
camminare lungo una linea retta mentre al contrario limmoralitá si associa all'abbandono di quella via. Si
pensi al termine italiano rettitudine (in francese e in inglese rectitude e in spagnolo rectitud), che descrive
non solo la qualità di ciò che è morale, ma anche di ciò che è dritto, retto, corretto. Dante intraprende il suo
viaggio verso l'inferno, luogo della perdizione e del peccato, proprio perché «da diritta via era smarrita»
[Pacilli et al 2018|. E interessante osservare il modo in cui, in diverse lingue, si definisce una persona
omosessuale o gay. Straight in inglese è l'aggettivo per indicare ciò che è dritto (e dunque morale), ma vuol
dire anche eterosessuale; in italiano, a lungo le persone omosessuali sono state descritte in modo
spregiativo come deviati, invertiti, terrmini che indicano proprio l'allontanarsi da una linea retta.

Essendo le categorie di mascolinità (eterosessuale) e omosessualità cosi diverse rispetto allo status sociale
di cui godono, potremmo aspettarci che siano altrettanto distinte l'una dall'altra in termini sostanziali.
Detto in modo diverso, se le due categorie di mascolinità e omosessualità si scartano a vicenda - 0 sei
maschio o sei gay classificare qualcuno di qua o di là dovrebbe essere il compito più semplice del mondo. E
invece i confini fra le due categorie sono molto più labili di quanto si pensi. Nel primo capitolo ho parlato di
mascolinita precaria; si potrebbe a questo punto r-denominare quella mascolinitâ precaria, descrivendola in
modo piu puntuale. Per farlo basta aggiungere un aggettivo per andare a definire la mascolinità
eterosessuale precaria. Per un uomo non è sufficiente definirsi come eterosessuale una volta per tutte.
Bisogna darne prova in modo incessante e pubblico. Nella mascolinità convenzionale, l'eterosessualità è un
fondamentale principio organizzatore dell'identità e fornire agli altri la prova costante di non essere
omosessuali è, per usare le parole di Michael Kimmel (2008], la single cardinal rule of manhood. Gli uomini
che aderiscono al modello tradizionale dell'identità maschile devono mettere in atto una continua
esibizione della propria mascolinità eterosessuale di fronte a una diffusa e spesso invisibile autorità
maschile (rappresentata ad esempio da fratelli maggiori, colleghi di lavoro, compagni di spogliatoio ecc.)
che va a comporre la giuria di valutazione. E incessante lo scrutinio severo della giuria che valuta, misura,
classificail livello di mascolinità assegnando una patente di accettabilità e dignità maschile. Essendo a
tempo, questa patente consente solo col superamento continuo delle prove di eterosessualità di accedere
ai vantaggi sociali dell'essere uomo a pieno titolo.

Che cosa viene messo sul banco di prova perché la giuria possa esprimere il suo verdetto temporaneo?
Quali sono i contenuti attraverso cui la mascolinità eterosessuale deve dar prova di sé? L'unica mascolinità
possibile, in questa visione tradizionale, è quella che respinge da sé, con prontezza e con disprezzo, oltre
che la femminilità, lomosessualità in tutte le sue manifestazioni [Herek 1986]. Qualsiasi piccola o grande
deviazione dalla mascolinità dominante diventa un segno anzi un sintomo patologico di omosessualità. Se
apparire gay è la peggiore delle umiliazioni possibili, evitarlo è un dovere e il dovere si manifesta nel
prestare una meticolosa attenzione a che cosa si mostra O non si mostra di sé.

Fra le qualità che un uomo deve sempre esibire per non apparire omosessuale, troviamo la sicurezza e la
dominanza, lo vedremo meglio nei paragrafi successivi. Che cosa invece non può mostrare? In generale, per
respingere il più possibile lontano da séil sOspetto di omosessualità bisogna evitare comportamenti atipici
o inconsueti per il proprio genere. Tutto ciò che appare, infatti, incongruente con il ruolo di genere attira
uno sguardo di curiosità, se non di vero e proprio sospetto, che si accompagna puntualmente alla
domanda: «Ma non sarà che è gay se fa cosi?». Completamente bandite, dunque, le caratteristiche
stereotipicamente considerate femminili - dall'espressione delle proprie em0zioni ai gusti alimentari,
passando per la ricerca d'aiuto: questa è una regola ferrea a cui attenersi, l'abbiamo visto già nel capitolo
precedente. Anche la scelta degli abiti, il modo di sistemarsi i capelli, di muovere le mani, di accavallare le
gambe o, ancora, l'intonazione della voce sono segnali importanti per comunicare il proprio orientamento
sessuale a una platea principalmente (ma non esclusivamente) maschile impegnata in modo sistematico a
esaminare le persone di sesso maschile.
Ne consegue una condizione di ipervigilanza psicologica che prende il nome di omoisteria e si caratterizza
per lo scrutinio prima e leliminazione poi di tutti i possibili segnali di omosessualità nel proprio
comportamento e aspetto [McCormack e Anderson 2014]. Morin e Garfinkle [1978] suggeriscono che sia
proprio questa paura di essere etichettati come omosessuali a interferire pesantemente con la possibilità di
sviluppare relazioni di intimità fra gli uomini eterosessuali, come se gli uomini non potessero sperimentare
che cosa significhi amare un amico e prendersene cura senza lombra di una ridicolizzazione omofobica.
Altra faccia dell'ipervigilanza psicologica è l'acquisizione da parte di un uomo gay della competenza di
riconoscere l'orientamento sessuale di un altro uomo a prima vista, una finalità che nasce probabilmente
dalla necessità di non scoprirsi e non andare incontro a conseguenze negative manifestando la propria
omosessualità con le persone sbagliate. Questa abilità, pi presunta che reale, si basa ad esempio su segnali
di interazione interpersonali come la durata dello sguardo reciproco e viene definita gaydar. Si parla anche
di gaydar uditivo quando si fanno inferenze (spesso imprecise) sull'orientamento sessuale degli altri a
partire dalla voce [Fasoli e Maass 2018].

Non finisce qui lelenco dei modi attraverso cui allontanare da sé il sospetto di omosessualità. Non possiamo
trascurare nella lista, infatti, quello potenzialmente più aggressivo, ossia l'espressione di atteggiamenti
omofobici. Il termine omofobia è stato introdotto dallo psicologo George Weinberg nel 1972 per definire la
paura irrazionale di entrare in contatto con una persona gay o lesbica; nel tempo, il significato di questa
parola è cambiato e si è ampliato per includere non solo o non tanto il sentimento della paura ma anche
quello del disgusto, dell'avversione e dell'ostilità nei confronti delle persone omosessuali. L'omofobia è
insomma la sentinella in prossimità del confine fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sessualmente, è il
braccio armato del sessismo cui è affidata la missione di presidiare e difendere bellicosamente i confini
della mascolinità convenzionale. In che modo avviene il presidio omofobico? Di fronte a un ragazzo o a un
uomo che manifesta comportamenti «strani», troppo femminili o troppo poco eterosessuali, si reagisce con
lo sberleffo, la denigrazione o le aggressioni fisiche vere e proprie segnala una divisione intra-genere fra
maschi e permette di distinguere delle sottocategorie all'interno della categoria più generale di uomini. Da
un lato troviamo la sottocategoria degli uomini abbastanza mascolini, veri e dunque degni (almeno fino a
prova contraria), dall'altro la categoria degli uomini non abbastarnza mascolini, falsi e dunque indegni. Va
detto che, come tutti gli atteggiamenti, anche l'omofobia assolve la funzione di comunicare alle altre
persone qualcosa di sé e del proprio modo di vedere. Un ragazzo che esprime in modo plateale un
atteggiamento ostile nei confronti di un altro ragazzo gay (o presunto tale) è spesso un ragazzo che sta
bramando, in modo affannoso e feroce, una convalida della propria mascolinità dal gruppo dei pari,
facendo leva su un codice violento di comunicazione.

L'omofobia maschile racconta e descrive relazioni di potere fra gli uomini,

L'omofobia può associarsi ad atti di violenza sistematica e ripetuta. La violenza legata all'omofobia si
configura anche come una pratica politica formale e informale per individuare prima e debellare poi le
manifestazioni di varianti anomale della sessualità umana. Rispetto alle pratiche politiche di tipo formale, in
alcuni paesi la violenza omofoba è espressa dallo stato e l'omosessualità persino punita con la morte. La
pena capitale per chi si è macchiato del reato di sesso omosessuale è attiva in sei paesi che fanno tutti
parte delle Nazioni Unite: Iran, Arabia Saudita, Yemen, Nigeria, Sudan e

Somalia. La pena capitale è un'opzione possibile per la legge, sebbene per fortuna non si siano registrati
casi recenti, anche in Mauritania, Emirati Arabi, Qatar, Afghanistan e

Pakistan.

E nei paesi occidentali che cosa accade? E importante riconoscere gli importanti cambiamenti sociali e
culturali che negli ultimi decenni hanno portato a un atteggiamento generale più positivo nei confronti
delle persone non eterosessuali. Cio nonostante, i rischi di violenza e abusi continuano a essere ancora
troppo alti quando associati a pratiche politiche informali». Gli uomini eterosessuali, assillati dal bisogno di
dare prova del proprio orientamento sessuale «normale», dispongono del dispositivo violento
dell'omofobia e del sessismo per acquisire la propria patente di normalità sessuale.

L'omofobia presidia il confine fra ciò che si ritiene morale e ciò che si ritiene non lo sia.E proprio questo
presidio violento che svela la fragile impalcatura della mascolinità eterosessuale tradizionale insieme a tutti
i limiti di un'ansiosa eterosessualità alla compulsiva ricerca di convalide sociali. Riporto qui solo un
piccolissimo campionario dei gravi episodi a danno di ragazzi gay accaduti nel nostro paese nel 2019: a
Torino un ragazzo è stato pestato a sangue da un gruppo di ragazzi mentre gli urlavano contro «Brutto
ricchione, ti ammazziamo», a Roma un ragazzo è stato cacciato dal taxi e apostrofato con «Frocio, scendi
dalla mia auto», ad Arezzo un ragazzo è stato picchiato violentemente in discoteca mentre gli dicevano «Vai
via, frocio di merda». Proseguo con alcune minacce quali «al rogo», «giù di manganello», «figli di cani»,
«merce da termovalorizzare», «radere al suolo per il bene dei normali», «se comandavo io eravate tutte
saponette» che nel 2019 gli attivisti e le attiviste di Arcigay si sono sentiti recapitare e che hanno
denunciato [Alliva 2019]. Mi fermo qui, ma la lista è purtroppo molto più lunga. Questa agghiacciante
quanto monotona sequela di insulti è coerente con quanto da sempre sa chi studia le relazioni fra nazioni: i
confini si presidiano per definizione quando sono deboli, altrimenti l'esigenza del presidio verrebbe a
mancare.

Cè un dato altrettanto rilevante a cui rivolgere attenzione: il modello culturale eterosessista in cui lunico
orientamento sessuale possibile, legittimo e morale è quello eterosessuale [Herek, Chopp e Strohl 2007;
Lingiardi, 2007] è lo stesso in cui tutti e tutte siamo cresciuti/e. Pertanto, il peso di questa pressione
culturale non può che ricadere anche sulle spalle delle stesse persone omosessuali o bisessuali. Anzi, su di
loro lo fa in maniera ancora più gravosa. I pregiudizi sociali eterosessisti, infatti, finiscono per essere
approvati ed espressi non solo da individui eterosessuali ma anche da donne lesbiche, uomini gay e
persone bisessuali che possono arrivare a guardarsi con la stessa lente negativa di chi li umilia. La
condizione psicologica per cui le persone che violano la rigida legge dell'eteronormatività apprendono,
accettano e fanno propri i pregiudizi sociali prevalenti viene definita come omofobia interiorizzata o
eterosessismo interiorizzato

Szymanski, Kashubeck-West e Meyer 2008]. Essa implica sentimenti negativi relativi all'essere gay o lesbica,
atteggiamenti negativi (come la mancanza di rispetto) rivolti ai componenti del proprio gruppo, l'idea che le
persone eterosessuali siano in qualche modo superiori a quelle che non lo sono e una debole connessione
con la comunità gay e lesbica.

I mandato dell'antifemminilità, tanto per fare un esempio, è un principio organizzatore dell'identità


maschile a cui anche gli uomini gay, proprio in quanto maschi, sono esposti ed educati fin da piccoli nella
costruzione della propria mascolinità. Agli uomini gay che assumono comportamenti stereotipici femminili
di solito ci si riferisce, nella migliore () delle ipotesi, con l'espressione gay effeminati. Questa espressione,
solo in apparenza neutra, trasuda invece tutto il disprezzo sociale per la femminilità; molto più frequente
èe lespressione checca (vezzeggiativo del nome femminile Francesca che associatoa un uomo diventa,
neanche a dirlo, oltraggioso), nella sua variante di checca pazza o checca isterica, tanto per continuare col
campionario degli stereotipi femminili sull'instabilità mentale. Ebbene gli uomini gay più «femminili»,
quando confrontati agli uomini gay che

Si comportano in modo piu «maschile», sono guardati con maggiore diffidenza o aperta ostilità non solo
dagli uomini eterosessuali, ma anche dagli stessi uomini gay con livelli elevati di omofobia interiorizzata
[Glick et al. 2007]1. E per questo che estromettere una volta per tutte la dinamica dell'omofobia dalla
definizione di sé e delle proprie relazioni è urgente: avvantaggerebbe non solo gli uomini eterosessuali, ma
anche le persone omosessuali e bisessuali più in generale, apportando insomma un beneficio per tutte e
tutti noi. 4. Il mandato della compulsività
Pare che il talentuoso e tormentato attore Robin Williams abbia pronunciato la seguente frase, ripresa in
seguito da molti altri: «Dio ha dato all'uomo un pene e un cervello, ma sfortunatamente non lo ha provvisto
di abbastanza sangue da far funzionare entrambi nello stesso momento». Le parole scherzose di Williams
sintetizzano in modo efficace la visione comune della sessualità maschile: una sessualità tutta costruita
attorno a una potente spinta biologica (ritorna, sempre lei, la rincuorante e semplificata visione della
biologia) che conduce l'uomo a perdere completamente la ragione in preda alla pulsione sessuale.
Arricchisce questa visione un'altra complementare e altrettanto popolare, in cui il pene maschile è visto
come un vero e proprio maschio in miniatura: ospitato nel corpo di ogni uomo, il pene si relaziona al suo
portatore in un rapporto di complessa convivenza [Potts 2000). Appare alla stregua di un omuncolo
dispotico, il pene: dotato di una sua carnale intelligenza, segue un'agenda tutta sua basata sull'istinto, se ne
infischia gioiosamente del maschio che lo ospita e, quando è in aperto contrasto con la razionalità che
quest'ultimo prova a esercitare, è lui, il tirannico omuncolo, ad avere la meglio.

Ho già riflettuto in abbondanza su quanto il richiamo al primato della biologia sia funzionale a descrivere un
comportamento umano come naturale e dunque come immodificabile. Questo non vale solo fuori, ma
anche dentro il letto: quante volte sentiamo dire che se ci comportiamo cosi come facciamo è solo perché
non ci è possibile fare altrimenti. Dunque, perché tutto vada per il verso giusto, nei rapporti eterosessuali
non resta che assecondare la reciproca natura istintuale, sbarazzarsi delle resistenze nocive frutto di inutili
orpelli culturali e abbandonarsi alla più autentica e profonda condizione umana, quella animale. Va detto,
però, che in questa visione tutta istintuale della sessualità umana, la natura animale si attiva a
intermittenza, ossia a seconda del sesso dela persona. Le donne, a differenza degli uomini, sarebbero per
natura meno interessate al sesso: il richiamo, per così dire, zoologico risuonerebbe dunque nei corpi delle
donne e degli uomini con intensità assai diversa. Proprio per questo, le donne non rischiano gli stessi effetti
collaterali dovuti alla perdita della ragione in cui incappano gli uomini quando il pene, il dispotico tiranno di
cui sopra, è al comando e traccia, senza sentire ragioni, la rotta istintuale da seguire.

Da dove trae origine questa idea di una sessualità mossa da pulsioni di diversa intensità per gli uomini e le
donne? Senza dubbio potremmo andare molto lontano nel temp0, ma gia tornare indietro al 1948 è utile.
In quell'anno il biologo e botanico Angus Bateman ha condotto una serie di esperimenti sulla drosofila,
specie di insetto nota anche come moscerino della frutta, che è sembrato fornissero la dimostrazione
definitiva del fatto che la principale spinta dell'evoluzione fosse la competizione fra i maschi per la femmina
fertile. Lipotesi era piu o meno questa: deporre le uova richiede un investimento fisico molto piu
importante rispetto al produrre sperma. Quindi per massimizzare il successo riproduttivo le femmine
devono essere selettive e caute nella propria attività sessuale, mentre per i maschi è più strategico essere
promiscui e competitivi. Questo sarebbe il motivo di un diverso successo riproduttivo per i maschi e per le
femmine a vantaggio dei primi. E ciò spiegherebbe perché, anche negli esseri umani, le donne sono più
domestiche e votate alla monogamia e gli uomini più interessati all'esplorazione della sfera pubblica e di
quanti più letti possibile.

Il paradigma di Bateman ha rappresentato per molto tempo il principio guida e la pietra angolare per gran
parte della teoria della selezione sessuale e le sue conclusioni hanno goduto per molti anni dello status di
principi universali per spiegare il comportamento sessuale umano. Dunque, la duplice idea tradizionale per
cui, da un lato, gli uomini sarebbero mossi da un desiderio sessuale maggiore sotto la spinta dell'evoluzione
e della necessità di distribuire il proprio seme in lungo e in largo, nel numero più alto possibile di donne e,
dall'altro, le donne sarebbero meno interessate al sesso in quanto alla ricerca di un partner stabile che badi
alla prole, troverebbe nella «psicologia moscerina» un importante fondamento. Ma Cordelia Fine [2019] ha
ilustrato brillantemente una grave scorrettezza metodologica operata da Bateman. Mosso dal desiderio di
confermare le sue tesi, l'autore presentò solo i risultati compatibili con l'idea che i maschi traessero
maggior vantaggio dalla promiscuità - immortalata poi in un principio universale di spiegazione del
comportamento umano. Insomma Bateman selezionò tendenziosamente i risultati che meglio s'adattavano
al concetto di maschi competitivi e promiscui da un lato e di femmine schive e monogame dall'altro. Da
analisi successive e recenti dei suoi lavori è emerso che il successo riproduttivo aumenta in misura simile
per i maschi e per le femmine in base al numero di accoppiamenti attuati. La promiscuità sessuale è un
vantaggio insomma anche per le femmine: sia i maschi sia le femmine dei moscerini producono più prole
quando si accoppiano con piu partner.

Che i moscerini possano essere dei maestri di vita è, in definitiva, una questione di gusti personali. Gusti
che non devono però prescindere dalla constatazione che le condotte umane, proprio perché umane, sono
sistematicamente l'esito dell'interazione fra spinte biologiche, psicologiche, culturali e sociali. Resta
comunque il fatto che l'idea della promiscuità sessuale come principio evoluzionistico della sessualità
maschile è entrata a far parte del nostro immaginario collettivo. E assai familiare, nei discorsi collettivi sulla
sessualità, limmagine degli uomini come schiavi del proprio corpo e dei propri ormoni, governati da un
desiderio fortissimo che no riescon0 a dominare e cotrollare, orientati a una sessualità compulsiva in nome
della sopravvivenza della specie. Sebbene ci siano delle evidenze relative a una più frequente attività
sessuale presente negli uomini rispetto alle donne, va detto però che le ricerche sugli atteggiamenti e
comportamenti sessuali delle persone si basano su questionari self report, questionari in cui i/le
partecipanti devono valutare e stimare da sé la frequenza di certi comportamenti. Chi fa ricerca con questo
tipo di metodi sa bene quanto sia in agguato nella produzione delle risposte la desiderabilità sociale, ossia il
desiderio delle persone di apparire in un modo socialmente accettabile. Il doppio standard in base al quale
per gli uomini, a differenza delle donne, è molto positivo dichiarare in libertà di avere numerosi partner
sessuali potrebbe spiegare le differenze di cui sopra [Marzio, Dalla Zuanna e Garelli 2010].

Uno dei mandati che investono gli uomini eterosessuali individua dunque nella spinta incessante a fare
sesso un aspetto cruciale della propria vita relazionale e sessuale. Si parla in termini tecnici del mandato
dell'eterosessualità compulsiva. Tony Porter [2015] nel libro Breaking Out of the Man Box. A Call to Men
racconta di un episodio emblematico accaduto a Jim durante gli anni del college. L'episodio ha inizio in un
bar: Jim e un suo amico incontrano due ragazze con cui trascorrono piacevolmente la sera bevendo un
drink e facendo due chiacchiere. Finita la serata al bar, le due ragazze invitano Jime il suo amico a salire nel
loro appartamento. Non appena entrati in casa, l'amico di Jim e una delle due ragazze si dirigono senza
esitazioni in camera da letto. Jim e l'altra ragazza restano cosi da soli nella sala. A Jim è molto chiaro che la
ragazza sia attratta da lui e che desidera che la porti in camera da letto, esattamente come l'altro ragazzo
aveva fatto con la sua amica. Ciò nonostante, sebbene trovi la ragazza molto attraente, non ha voglia in
quel momento di fare sesso con lei. Il tempo passa e Jim sente aumentare il suo imbarazzo per la situazione
e per le aspettative della ragazza, che lui non si sente di soddisfare. Dopo interminabili minuti di dialogo
impacciato sul meteo e sui corsi che seguivano al college, il ragazzo sente che non ne può più, che vuole
andar via e che è ora di bussare alla porta dell'amico (Jim guidava la macchina e andando via da solo
avrebbe infatti lasciato l'amico a piedi, per questo era costretto a interromperlo). L'amico esce così dalla
camera da letto molto infastidito e seccato per linterruzione forzata del proprio rapporto sessuale. Dopo 25
anni, Jim e questo amico si ritrovano seduti al tavolo di un ristorante. Vedono passare una donna molto
attraente e l'amico, come se si fosse accesa una lampadina nella sua memoria, rivolge a Jim una divertita e
allo stesso tempo severa domanda chiedendogli di ricordarsi di quando, durante gli anni del college, lo
aveva portato via di forza dalla casa di quelle due ragazze perché lui non voleva fare sesso. La storia di Jim,
ci spiega bene

Tony Porter, è significativa rispetto a come intendiamo la sessualità maschile. Per l'amico era del tutto
incomprensibile che Jim non avesse voluto fare sesso pur avendone l'occasione e, proprio per la sua
insensatezza, questo episodio si era impresso in modo indelebile nella sua mente.

Gli uomini eterosessuali, quando fanno il loro ingresso simbolico nel mondo della sessualità, imparano
presto che un maschio deve essere sempre pronto e disponibile per il sesso. Sentiamo spesso dire in
ambito sessuale: ogni occasione lasciata è un'occasione persa, senza però che la frase prosegua a spiegarne
il motivo. Non c'è bisogno di esplicitare quel non detto che si respira nell'aria: è un'occasione persa per
dare prova (a sé stessi prima ancora che agli altri) della propria mascolinità. L'altra faccia della medaglia è
che sottrarsi alla prova - rifiutarsi di approfittare di un'opportunità per fare sesso con una donna
dall'aspetto gradevole - è il segnale che c'è qualcosa che non va. Tra le prove che l'uomo è sempre portato
a offrire sull'altare della mascolinità, troviamo un vero e proprio curriculum virtuale ricco di partner sessuali
da sfoggiare. A differenza delle donne per le quali è ancora oggi un fatto positivo, per un uomo disporre di
un curriculum scarno è qualcosa di degradante e poco virile. 5. Il mandato della prodezza

Abilità sessuale, performance e competenza: ecco altre tre parole chiave attorno a cui la sessualità
maschile si organizza in un ulteriore mandato, quello della prodezza [Kilmartin 1999]. In questa visione, il
pene si trasforma da parte del corpo per lo scambio e il reciproco piacere sessuale in uno strumento
attraverso cui espletare una prestazione. In una pubblicità per la carta stampata di qualche tempo fa del
profumo Obsession della nota casa di moda Calvin Klein è ritratto un uomo muscoloso e in mutande
immortalato nel momento in cui tira lelastico che regge i suoi boxer per guardarci dentro fra l'ammirato e il
pensoso. Il pene come ossessione, insomma, ci dicono i pubblicitari, una parte del corpo che può diventare
la peggior nemica di un uomo, pronta a tendergli (sempre nell'ottica di una scissione fra l'uomo e il pene
come mini-uomo) un tranello carico di vergogna e umiliazione: il fallimento della propria performance.

Può essere allora di qualche sorpresa che l'ansia da prestazione sia un'esperienza cosi diffusa nel modo in
cui gli uomini vivono la propria sessualità? Insicurezza e paura sono sentimenti frequenti nel vissuto
sessuale degli uomini e le ricerche confermano che gli uomini (e le donne) che aderiscono in modo rigido ai
ruoli di genere provano meno piacere a letto rispetto a chi ha un'idea meno rigida e più fluida della
mascolinità e della femminilità [Sanchez, Crocker e Boike 2005]. Quando non è aperta ostilità,
l'atteggiamento nei confronti delle trasformazioni sociali nei rapporti fra uomini e donne assume spesso le
sembianze di una rassegnata accettazione: d'accordo, non possiamo fare altrimenti, la società sta andando
nella direzione di colmare le disuguaglianze di genere, ma sappiate che poi nel sesso andrà tutto a rotoli,
perderemo il desiderio reciproco nella melassa politically correct. Come se solo gli uomini «virili» e le donne
«femminili» in senso tradizionale potessero davvero godere di una vita sessuale appagante. Gli uomini e le
donne eterosessuali raggiungerebbero in questa visione il massimo del loro piacere fisico a partire
dall'essere ipermascolini e iperfemminili secondo queli che sono gli standard tradizionali. Invece, sorpresa
sorpresa, le cose vanno diversamente.

La ricerca mostra in modo convergente che pensare di non essere liberi di agire seguendo in modo
spontaneo le sensazioni e i desideri del momento e sentire di doversi attenere a uno schema rigido di
performance sessuale non favorisce nelle persone l'abbandono al piacere fisico. Quando si sentono
costretti/e a comportarsi in linea con : ruoli tradizionali di genere, gli uomini e le donne fanno esperienza di
una minore agentività sessuale e sono meno in grado di governare il proprio piacere. Inoltre, pensando
nello specifico agli uomini, assumere un ruolo sempre dominante può essere faticoso e stressante per la
pressione di dover mostrare di continuo prodezza e competenza. In questa logica, la finzione dell'orgasmo
femminile nel rapporto eterosessuale trova il significato preciso di una rassicurazione dell'uomo sulla
sufficiente qualità della sua performance durante l'esame in corso. In gioco c'è evidentemente la radicale
riduzione della dimensione di scambio di piacere fra due persone in relazione fra di loro, in favore
dell'impegno in una prestazione con tanto di voto finale in cui l'uomo, quando riscontra «sonoramente»
una conclusione soddisfacente della donna, può dire con sollievo di aver superato l'esame. Situazione
brillantemente descritta nel film Harry ti presento Sally dove lei mostra a lui in un ristorante affollato di
New York, ormai diventato meta di pellegrinaggio, come una donna puó fingere un orgasmo senza che un
uomo se ne possa accorgere.

In quanto prestazione, la prodezza eterosessuale è a tutti gli effetti misurabile e stimabile: dalla durata del
rapporto sessuale, passando per il numero degli orgasmi provocati nella dornna fino alle dimensioni del
pene è tutto un cronometrare, misurare, classificare la competenza sessuale maschile. A proposito di
misurazioni, come non fare riferimento alla delicata questione delle dimensioni del pene? Nei discorsi sulla
sessualità maschile, il pene viene spesso descritto come la parte del corpo che più descrive la mascolinità. Il
porno su internet - data la sua sconfinata accessibilità - non ha fatto che amplificare in modo esasperato
questa visione, proponendo immagini di attori dotati di un pene dalle misure straordinarie in grado di
accendere nel corpo delle donne reazioni di piacere altrettanto strabilianti [Kilmartin 2000].

La maggior parte degli uomini èè consapevole che i modelli fisici proposti dal porno sono atipici; ció
nonostante, la ripetuta esposizione a queste immagini grandiose può innescare o accrescere un senso di
inadeguatezza sessuale nelle persone che non sono o non si sentono provviste di dotazioni adeguate a
quelle che si abituano a vedere, e questo si verifica soprattutto fra i ragazzi adolescenti che trovano nel
porno oggi la principale fonte di apprendimento della sessualità. Da una ricerca di Lever, Frederick e Peplau
del 2006 è emerso come la maggior parte dei partecipanti nordamericani percepisse le dimensioni del
proprio pene come normali. Tuttavia, il 90 per cento di quelli che lo consideravano piccolo e il 46 per cento
di quelli che lo consideravano medio avrebbero desiderato comunque avere un pene di dimensioni
maggiori. Sempre dalla ricerca è emerso che la valutazione soggettiva delle dimensioni del pene come
piccole fosse associata a un'immagine negativa del propri0 corpo, a scarsa attrattività percepita e al disagio
nell'indossare un costume da bagno in pubblico. Fra il 2013 e il 2017, l'International

Society of Aesthetic Plastic Surgery ha riportato che nel mondo sono stati condotti dai professionisti suoi
soci ben 45.604 interventi di ricostruzione additiva del pene: questi interventi in realtà forniscono un
illusorio aumento delle dimensioni che si evidenzia solo a livello estetico e non a livello di performance
sessuale [Usher 2019].

Perché, in una visione tradizionale, le dimensioni del pene sono considerate come una componente
fondamentale della propria competenza sessuale e in definitiva della propria mascolinità? La risposta a
questa domanda ci conduce alla presentazione di un altro mandato centrale della sessualità maschile
eterosessuale, il mandato della dominazione. 6. II mandato della dominazione

E attorno alla dicotomia dominazione/sottomissione che si articola un altro copione fondamentale della
mascolinità tradizionale. Nella cultura occidentale, la sessualità è stata ed è ancora lespressione più sublime
del potere maschile, un potere che può esprimersi attraverso forme più soft e nascoste o forme più dure e
violente alle quali saranno dedicati rispettivamente i paragrafi che seguono. 6.1. Di dominazioni gentili e
cavalieri romantici

Accade spesso che un uomo gentile con una donna, uno che le apre la porta della macchina prima che lei
esca, che le paga il ristorante, che le regala fiori, e così via, riceva numerosi complimenti perché ha dato
prova di essere «un cavaliere». La cavalleria è un codice di comportamento che nel tempo non solo non ha
perso il suo smalto, ma che ancora oggi è considerato più che apprezzabile da molti uomini e da molte
donne.

Tuttavia, come osserva Volpato |2013, 63], «La visione dell'uomo come cavaliere romantico [...] ha
contribuito per secoli a confinare la donna tra le mura domestiche e a contenerne le ambizioni, come
insegna la letteratura popolare .]che ha guidato generazioni di adolescenti all'accettazione dei ruoli
tradizionali». Il codice cavalleresco nasce, infatti, come un sistema morale in cui i cavalieri avevano il dovere
- in virtù della straordinaria forza e competenza di cui erano dotati - di proteggere con generosità e
premura le persone deboli, indifese e vulnerabili, una categoria nella quale erano evidentemente incluse le
donne [Davis 2003]. La cavalleria ammanta di lusinghiera cortesia ciò che a tutti gli effetti è un sistema di
disuguaglianze tra i sessi.

L'idea delle donne come esseri fragili e bisognosi della protezione speciale maschile è una componente
fondamentale del sessismo, definita da Peter Glick e Susan Fiske [2001] come sessismo benevolo. Centrale
nel sessismo benevolo è la retorica delle donne come creature meravigliose e delicate, che per la loro
grazia innata meritano di essere collocate su un piedistallo e adorate dagli uomini. Di solito pensiamo al
sessismo solo nella sua componente più ostile e vecchio stampo di svalutazione femminile e per questo
abbiamo difficoltà a riconoscere come sessista un atteggiamento paternalistico di affettuosa
condiscendenza come è quello del sessismo benevolo. Considerare una persona come degna di essere
messa su un piedistallo (indipendentemente da chi essa sia, solo per la sua appartenenza al genere
femminile) genera una relazione asimmetrica. Sul piedistallo si mettono gli oggetti non le persone, le quali
proprio perché messe sul piedistallo di fatto perderebbero la propria libertà di movimento. Non a caso
l'altra faccia del sessismo benevolo è l'idea che le donne abbiano bisogno di un uomo per poter adempiere
ai compiti, principalmente professionali, che la società si aspetta dalle persone adulte.

Esseri puri, romantici e inferiori, insomma: un pregiudizio insidioso proprio perché sottile, latente, difficile
da riconoscere e da combattere. Come osserva Giulia Blasi [2019], il sessismo benevolo risulta pericoloso
perché si gioca la carta «le donne sono migliori» settando la santità come barra minima per l'appartenenza
al genere femminile. Agli uomini, in virtù della loro presunta inferiorità, è concesso essere persone orrende
salvo poi ritrovarli nella maggior parte dei consigli di amministrazione, nei posti di comando nelle istituzioni
e in generale in tutte le posizioni sociali ed economiche di rilievo.

Particolarmente suggestivo per esaminare quanto il sessismo benevolo riscuota ancora oggi grande
successo fra gli uomini e le donne eterosessuali è il primo appuntamento, forse il momento per eccellenza
in cui si celebrano i copioni sessuali che la cultura ci ha insegnato [Lamont 2020]. E raro trovare oggi una
donna o una ragazza eterosessuale che ambisca a un rapporto ipertradizionale con un uom0 dotato di più
potere decisionale o più diritti nella coppia per il solo fatto di essere maschio. L'ideale di rapporto amoroso
eterosessuale contemporaneo è generalmente quello di un amore paritario in cui l'uomo e la donna si
sostengono a vicenda nel raggiungimento degli obiettivi personali. Eppure, nel momento del primo
appuntamento si verifica spesso un cortocircuito in questa visione.

Quando nello specifico? Tutte le volte in cui le ragazze si aspettano che un uomo si comporti «da cavaliere»
decidendo dove andare a cena, pagando il conto o essendo il amplificare in modo esasperato questa
visione, proponendo immagini di attori dotati di un pene dalle misure straordinarie in grado di accendere
nel corpo delle donne reazioni di piacere altrettanto strabilianti [Kilmartin 2000].

La maggior parte degli uomini èè consapevole che i modelli fisici proposti dal porno sono atipici; ció
nonostante, la ripetuta esposizione a queste immagini grandiose può innescare o accrescere un senso di
inadeguatezza sessuale nelle persone che non sono o non si sentono provviste di dotazioni adeguate a
quelle che si abituano a vedere, e questo si verifica soprattutto fra i ragazzi adolescenti che trovano nel
porno oggi la principale fonte di apprendimento della sessualità. Da una ricerca di Lever, Frederick e Peplau
del 2006 è emerso come la maggior parte dei partecipanti nordamericani percepisse le dimensioni del
proprio pene come normali. Tuttavia, il 90 per cento di quelli che lo consideravano piccolo e il 46 per cento
di quelli che lo consideravano medio avrebbero desiderato comunque avere un pene di dimensioni
maggiori. Sempre dalla ricerca è emerso che la valutazione soggettiva delle dimensioni del pene come
piccole fosse associata a un'immagine negativa del propri0 corpo, a scarsa attrattività percepita e al disagio
nell'indossare un costume da bagno in pubblico. Fra il 2013 e il 2017, l'International

Society of Aesthetic Plastic Surgery ha riportato che nel mondo sono stati condotti dai professionisti suoi
soci ben 45.604 interventi di ricostruzione additiva del pene: questi interventi in realtà forniscono un
illusorio aumento delle dimensioni che si evidenzia solo a livello estetico e non a livello di performance
sessuale [Usher 2019].

Perché, in una visione tradizionale, le dimensioni del pene sono considerate come una componente
fondamentale della propria competenza sessuale e in definitiva della propria mascolinità? La risposta a
questa domanda ci conduce alla presentazione di un altro mandato centrale della sessualità maschile
eterosessuale, il mandato della dominazione. 6. II mandato della dominazione
E attorno alla dicotomia dominazione/sottomissione che si articola un altro copione fondamentale della
mascolinità tradizionale. Nella cultura occidentale, la sessualità è stata ed è ancora lespressione più sublime
del potere maschile, un potere che può esprimersi attraverso forme più soft e nascoste o forme più dure e
violente alle quali saranno dedicati rispettivamente i paragrafi che seguono. 6.1. Di dominazioni gentili e
cavalieri romantici

Accade spesso che un uomo gentile con una donna, uno che le apre la porta della macchina prima che lei
esca, che le paga il ristorante, che le regala fiori, e così via, riceva numerosi complimenti perché ha dato
prova di essere «un cavaliere». La cavalleria è un codice di comportamento che nel tempo non solo non ha
perso il suo smalto, ma che ancora oggi è considerato più che apprezzabile da molti uomini e da molte
donne.

Tuttavia, come osserva Volpato |2013, 63], «La visione dell'uomo come cavaliere romantico [...] ha
contribuito per secoli a confinare la donna tra le mura domestiche e a contenerne le ambizioni, come
insegna la letteratura popolare .]che ha guidato generazioni di adolescenti all'accettazione dei ruoli
tradizionali». Il codice cavalleresco nasce, infatti, come un sistema morale in cui i cavalieri avevano il dovere
- in virtù della straordinaria forza e competenza di cui erano dotati - di proteggere con generosità e
premura le persone deboli, indifese e vulnerabili, una categoria nella quale erano evidentemente incluse le
donne [Davis 2003]. La cavalleria ammanta di lusinghiera cortesia ciò che a tutti gli effetti è un sistema di
disuguaglianze tra i sessi.

L'idea delle donne come esseri fragili e bisognosi della protezione speciale maschile è una componente
fondamentale del sessismo, definita da Peter Glick e Susan Fiske [2001] come sessismo benevolo. Centrale
nel sessismo benevolo è la retorica delle donne come creature meravigliose e delicate, che per la loro
grazia innata meritano di essere collocate su un piedistallo e adorate dagli uomini. Di solito pensiamo al
sessismo solo nella sua componente più ostile e vecchio stampo di svalutazione femminile e per questo
abbiamo difficoltà a riconoscere come sessista un atteggiamento paternalistico di affettuosa
condiscendenza come è quello del sessismo benevolo. Considerare una persona come degna di essere
messa su un piedistallo (indipendentemente da chi essa sia, solo per la sua appartenenza al genere
femminile) genera una relazione asimmetrica. Sul piedistallo si mettono gli oggetti non le persone, le quali
proprio perché messe sul piedistallo di fatto perderebbero la propria libertà di movimento. Non a caso
l'altra faccia del sessismo benevolo è l'idea che le donne abbiano bisogno di un uomo per poter adempiere
ai compiti, principalmente professionali, che la società si aspetta dalle persone adulte.

Esseri puri, romantici e inferiori, insomma: un pregiudizio insidioso proprio perché sottile, latente, difficile
da riconoscere e da combattere. Come osserva Giulia Blasi [2019], il sessismo benevolo risulta pericoloso
perché si gioca la carta «le donne sono migliori» settando la santità come barra minima per l'appartenenza
al genere femminile. Agli uomini, in virtù della loro presunta inferiorità, è concesso essere persone orrende
salvo poi ritrovarli nella maggior parte dei consigli di amministrazione, nei posti di comando nelle istituzioni
e in generale in tutte le posizioni sociali ed economiche di rilievo.

Particolarmente suggestivo per esaminare quanto il sessismo benevolo riscuota ancora oggi grande
successo fra gli uomini e le donne eterosessuali è il primo appuntamento, forse il momento per eccellenza
in cui si celebrano i copioni sessuali che la cultura ci ha insegnato [Lamont 2020]. E raro trovare oggi una
donna o una ragazza eterosessuale che ambisca a un rapporto ipertradizionale con un uom0 dotato di più
potere decisionale o più diritti nella coppia per il solo fatto di essere maschio. L'ideale di rapporto amoroso
eterosessuale contemporaneo è generalmente quello di un amore paritario in cui l'uomo e la donna si
sostengono a vicenda nel raggiungimento degli obiettivi personali. Eppure, nel momento del primo
appuntamento si verifica spesso un cortocircuito in questa visione.

Quando nello specifico? Tutte le volte in cui le ragazze si aspettano che un uomo si comporti «da cavaliere»
decidendo dove andare a cena, pagando il conto o essendo il primo a prendere l'iniziativa nell'approccio
sessuale. Il tutto secondo il rigido e tradizionale schema in cui l'uomo orienta e decide lazione mentre la
donna esercita un'influenza indiretta cercando di mostrarsi adorabile e accondiscendente così che il partner
l'assecondi in tutto. Il quadro non è dei più entusiasmanti, eppure continua ancora a riscuotere successo fra
le persone che lo scambiano appunto per romanticismo e cavalleria.

Proprio perché difficile da scardinare. Spesso la resistenza ad abbandonarlo dipende da una confusione di
fondo fra la cavalleria e la gentilezza. In questa visione, si ritiene che rinunciare alla cavalleria voglia dire
rassegnarsi a un rozzo mondo di scortesie, sgarbatezze e mancanza di attenzioni. Niente di più sbagliato.
Essere gentili dovrebbe essere qualcosa a cui tutte e tutti siamo educati ed educate. Mostrare
considerazione, interesse, disponibilità all'aiuto di un'altra persona è qualcosa che scalda il cuore non solo a
chi riceve la gentilezza, ma anche a chi la offre. Offrire una cena o una cosa da bere, aiutare in treno a
sistemare una valigia pesante in un altissimo portabagagli, raccogliere un oggetto che qualcuno ha lasciato
cadere in terra, aiutare una persona in difficoltà che ci sembra si sia persa nella nostra città, sono tutte cose
gentili da fare per gli altri e non si capisce perché dovremmo rinunciarvi. Il prblema è quando tutte queste
azioni vengono compiute seguendo un criterio di genere: chi aiuta o chi offre la cena deve essere un uomo
e chi viene aiutato o riceve la cena offerta deve essere una donna. La cavalleria è maschile per eccellenza, la
gentilezza invece no ed è proprio per questo che alla prima, ma non alla seconda, possiamo e dobbiamo
rinunciare. Praticare la gentilezza a prescindere dal sesso, dall'identità di genere o dall'orientamento
sessuale delle persone coinvolte è un ottimo esercizio per manifestare la propria umanità. 6.2. Quando la
dominazione diventa violenza: « Vis grata puellae»

Il copione della dominazione sessuale maschile può essere molto problematico quando genera una cultura
della sessualità legata a doppio filo con quella della violenza. Ci è utile per questo esaminare i significati
simbolici associati di nuovo alla parte del corpo che per eccellenza descrive la sessualità maschile, il pene.
Un pene eretto non è solo una parte del corpo di un uom0 che muta per effetto dell'afflusso del sangue. E
molto di più: è un simbolo culturale di forza, di affermazione e di successo. Essendo una diretta e
misurabile espressione di potere e dunque di mascolinità, le sue dimensioni, di cui parlavo nel paragrafo 5,
diventano prioritarie. Viceversa, quando non è in erezione, quando è flaccido (o quando non è abbastanza
grande) diventa simbolo di debolezza, di sconfitta, di fallimento. Quest'associazione fra pene in erezione e
potere si manifesta in tutta la sua chiarezza se pensiamo al termine impotenza, etichetta con cui per molto
tempo, anche in ambito medico, è stata nominata la difficoltà a raggiungere o mantenere un'erezione
durante un rapporto sessuale. Un uomo dunque con problemi di erezione sarebbe, vista letichetta
adottata, un uomo senza potere, un fallito. Altrettanto suggestiva in tutto il suo portato di violenza è
l'espressione fare cilecca, che descrive metaforicamente una prestazione sessuale non compiuta e che, fuor
di metafora, corrisponde al colpo non partito di un'arma da fuoco. In questo codice culturale, l'atto della
penetrazione è insomma per un uomo il veicolo attraverso cui esprimere la propria potenza. Un uomo
entra in contatto con la propria sessualità non a partire da sé e dai propri desideri, ma a partire dalla
propria potenza e resistenza [Ciccone 2009].

Pare che il presidente americano Lyndon Johnson incontrando altri uomini nei bagni della Casa Bianca
mostrasse fiero il suo pene mentre urinava affermando «Woo-eee! Have you ever seen something as big as
this?» («Ehi! Avete mai visto una cosa così grande?») 0, episodio ancora più clamoroso, sembra che durante
un incontro con i giornalisti, pressato dalle domande di reporter scettici sul perché gli Stati Uniti
continuassero la guerra in

Vietnam, si sia abbassato la zip dei pantaloni e tirando fuori il suo pene, da lui denominato Jumb0, abbia
dichiarato: «This is why!» [Friedman 2008]. Al di là del caso di

Johnson che sfiora quasi la mitomania, va osservato che: difficile da riconoscere, questo tipo di sessismo è
ancora più
Nel linguaggio agonistico in generale - da quello sportivo a quello militare - come in quello dell'economia
[...] è tutto un penetrare negli spazi o violarli, un'importanza nell'essere il primo, un premiare la frequenza e
la profondità del gesto, un'esaltazione della parte attiva che emette qualcosa rispetto alla parte passiva che
riceve. Inoltre, penetrare significa anche dividere, separare: l'azione maschile sul mondo traduce la tattica
politica efficace per eccellenza, il divide et impera tanto caro a un popolo di conquistatori per eccellenza, i
Romani [Gasparrini 2019, 45].

Se, come dicevo, P'atto della penetrazione è, per un uomo che aderisce agli standard tradizionali della
mascolinità, un modo tramite cui manifestare la propria potenza, viceversa l'atto di essere penetrati
corrisponde ad abdicare proprio a quella potenza [Pascoe 2005]. Si delinea, per contrasto0, a partire
dall'abiura voluta o forzata del proprio dominio simbolico un universo di mascolinità marginali. Nella
visione tradizionale dei ruoli di genere, non a caso l'uomo non eterosessuale solleva l'emozione morale per
eccellenza associata alla violazione delle norme sociali: il disgusto. La sua esistenza è l'occasione mancata
per definizione, il segnale sempre visibile del fallimento della dominazione maschile. Anche gli uomini
disabili non se la passano benissimo; hanno perso per sempre, infatti, per effetto della loro disabilità, la
possibilità di affermarsi durante l'atto sessuale in base agli standard tradizionali di dominazione maschile e
dunque non possono che essere considerati asessuati. Avendo perso il loro posto nel prestigioso club dei
virili maschi alfa eterosessuali, gi uomini disabili sono, in questa visione tradizionale, a tutti gli effetti,
uomini a metà [Philaretou e Allen 2001].

La contiguità fra la sfera della sessualità e quella del potere si evince anche dalla gerarchia delle pratiche
sessuali che distingue e classifica il ruolo sessuale maschile di penetrazione descritto come attivo -e il ruolo
sessuale femminile di ricezione - descritto come passivo. La dicotomia attivo/passivo porta con sé
evidentemente un giudizio valore e individua nella persona a cui si attribuisce il ruolo cosiddetto attivo,
l'uomo, maggiore dignità rispetto alla persona che assume il ruolo cosiddetto passivo, la donna. E
interessante, rispetto ai processi di interiorizzazione di queste visioni della sessualità, che non sono solo le
persone eterosessuali ad adottare queste categorie. Anche fra gli uomini gay ricorrono spesso le descrizioni
che reificano le proprie preferenze sessuali nella dicotomia attivo/passivo. Ne sono una dimostrazione le
app per incontro come Grindr dove per presentarsi con il potenziale partner gi uomini gay adottano le
etichette attivo, passivo o versatile o, in termini gerarchici, le ancora piùu eloquenti etichette inglesi quali
top e bottom.

Anche nel linguaggio comune, attraverso i modi di dire o gli insulti, la contiguità fra potere e sessualità
emerge in tutta la sua forza. Si pensi all'espressione siciliana diventata ormai espressione nazionale
cumannari è megghiu ca futtiri (comandare è meglio che fottere) o pensiamo ancora, sempre restando in
Sicilia, a un insulto molto comune nel

Palermitano e diffuso ormai in tutta Italia, che si esprime con una semplice ed efficace parola: suca! Che
cosa vuol dire? Sebbene si tratti di un insulto a cui anche le donne ricorrono, chi lo adopera sta intimando
una persona di sucare-succhiare simbolicamente il proprio pene. Il fatto che uno specifico tipo di attività
sessuale, il sesso orale, sia ritenuta offensiva e svilente per chi la pratica fornisce un indizio importante sul
modello di mascolinità che dà origine a questo insulto. Quali sono le occasioni in cui si ricorrea questo
insulto? Il contesto è quello del conflitto o della competizione fra i due attori coinvolti nella dinamica
dell'interazione: chi sta rivolgendo l'insulto ne è uscito in qualche modo «vincente» e chi invece lo riceve ne
è uscito «sconfitto». Proprio perché sconfitta, questa persona si trova nella condizione obbligatoria di
sucare essendo il sesso orale segno di sottomissione e subordinazione. Viceversa è nella propria superiorità
che trova fondamento e giustificazione la tronfia esortazione del suca!

La vicinanza fra sessualità e potere ha dato vita, e purtroppo ancora continua a dare vita, a comportamenti
sessuali di prevaricazione e aggressività. In ambito psicologico è stato introdotto il concetto di narcisistic
entitlemento titolarità narcisistica per descrivere la condizione psicologica di chi si sente titolato a
raggiungere un determinato obiettivobe sente di averne il diritto più di altri. E insomma la credenza che in
base alla propria importanza, superiorità e unicità si meriti un trattamento speciale e si abbia il diritto a
maggiori risorse rispetto agli altri [Major 1987]. Quando la titolarità narcisistica incontra il patriarcato, le
cose si mettono maluccio soprattutto per chi si imbatte nel proprio percorso in un uomo con questa visione
(approfondirò questo concetto e le sue evoluzioni attuali nel capitolo che segue a proposito degli angry
white men). I problemi non mancano anche quando la titolarità narcisistica incontra la sessualità.

A differenza della soggettività sessuale che ha a che fare con la percezione di sé come soggetto sessuale
capace di rispettare il proprio corpo e soddisfare, nel rispetto dell'altra persona, il proprio desiderio
sessuale, nel sexual entitlement, lidea è che un uomo abbia diritto, proprio in quanto uomo, all'attività
sessuale con una donna. In una prospettiva di titolarità sessuale, il sesso è un diritto e il rifiuto del sesso
non è solo la negazione di quel diritto, ma molto di più: un marchio d'infamia, uno smascheramento della
propria debolezza personale e in definitiva una sconfitta di genere. Non è solo in gioco la propria
mascolinità, ma la dignità dell'intera categoria.

C'è una scena del film Provaci ancora Sam di Woody Allen che descrive molto bene questo marchio
d'infamia per la categoria. Sam, il protagonista interpretato da Allen, è seduto sul divano con una ragazza
da cui è molto attratto, Linda. L'interazione fra i due avviene sotto la supervisione tanto attenta quanto
invadente di un immaginario

Humphrey Bogart- prototipo di una mascolinità affascinante perché dominante e vincente - che dispensa a
Sam, in totale preda al panico, consigli su cosa dire e su cosa fare per sedurre Linda. La buffa seduta di
supervisione si interrompe bruscamente per mano di un altrettanto immaginaria e persecutoria ex moglie
di Sam, che spara con una pistola a Humphrey. A quel punto Sam, che con tutti i consigli di Bogart già se la
cavava maluccio, deve vedersela con Linda completamente da solo. Decide allora di baciare

Linda assaltandola in modo scomposto, ottenendo il risultato disastroso di vederla scappare via a gambe
levate. E quello il punto del film in cui Sam, da solo, davanti alla porta di casa, si abbandona a una penosa
autoflagellazione per la prova di mascolinità fallita. Allen, con la sua irresistibile ironia, fa così dichiarare a
Sam: «Che cosa ho fatto? Io non sono Bogart, non sarò mai un Bogart, io sono la vergogna del mio sesso!
Dovrei trovarmi un posto di eunuco in un harem persiano!». Sam è lo sfigato per eccellenza e si biasima per
questo. L'insulto sigato-senza figa è alquanto suggestivo: è un perdente, infatti, proprio perché non è stato
capace di procacciarsi il rapporto sessuale con una donna edè rimasto «senza figa».

Essere rifiutati è, in generale, un'esperienza dolorosa che può avere delle conseguenze negative
sull'immagine che abbiamo di noi e in generale sul nostro benessere. Come ben descrive Allen con il suo
personaggio, il problema è quando ricevere un rifiuto non brucia solo a livello personale, ma diventa
umiliante per tutta la categoria alla quale si appartiene, in questo caso il genere maschile. In un modello
culturale di costruzione dell'identità maschile tutta orientata alla performance, alla competizione e alla
dominazione, il rifiuto è un evento inaccettabile e nessun uomo puo dirsi davvero preparato ad accoglierlo
[Gasparrini 2019].

In una recente ricerca, Andrighetto, Riva e Gabbiadini (2019] hanno riscontrato che in una piattaforma
online per incontrare nuovi partner costruita ad hoc per lo studio, gli uomini - ma non le donne -
mostravano maggiore ostilità e rabbia nei confronti di chi li aveva rifiutati. Se la mascolinità tradizionale si
organizza attorno all'inaccettabilità del rifiuto, la manifestazione di soggettività femminile che avviene
anche attraverso il rifiuto viene percepita come un attacco frontale all'identità maschile. Se il rifiuto di una
donna (in ambito sessuale o relazionale) è secondario rispetto al desiderio sessuale di un uomo, il rischio è
che il passaggio dal rifiuto alla violenza sia molto breve.

Sono consapevole che, leggendo queste considerazioni, molti uomini e molte donne avvertiranno un
disagio per il quadro a tinte fosche dello scenario sociale che ne viene fuori. La descrizione proposta può
apparire come desueta, inchiodata in modo ideologico a un passato arcaico e tribale di rapporti basati sulla
forza e sulla prevaricazione. Il fatto che questo tipo di considerazioni sia lontano dalla nostra esperienza
personale o dal nostro modo di sentire, il fatto che siano accadute e continuino a verificarsi importanti
evoluzioni nei rapporti fra uomini e donne, può farci alzare gli occhi al cielo e sbuffare

Con esternuazione pensando: ma noné cambiato proprio nulla nel corso del temp0? Siamo davvero ancora
e sempre li? Siamo capaci di raccontare una storia più attuale?

L'epoca in cui viviamo pullula di trasformazioni significative rispetto al passato. Non riconoscere questi
passaggi chiave ci impedisce di andare avanti perché è proprio facendo leva sulle spinte positive presenti
nella società civile che si può progredire. La storia attuale però ha anche un'altra faccia ed è altrettanto
sbagliato trascurarla. Voglio raccontare un episodio personale che mi è accaduto qualche mese fa.
Passeggiavo a Romna con un amico quando, a un certo punto, ci imbattiamo per strada in un uomo e una
donna. Le terribili immagini di quella sera sono ancora vivide e angoscianti nella mia mente. L'uomo
schiaffeggiava e colpiva rabbiosamente la donna accanto a sé, sferrando ripetuti e violenti pugni sulla testa.
Lei singhiozzava e cercava, senza riuscirci, di ripararsi il capo. Io eil mio amico, assieme ad altre persone che
avevano assistito alla scena, siamo accorsi turbati, gridando all'uomo con decisione di smettere subito.
L'uomo, che era un turista e non parlava bene litaliano, ci ha rassicurato, con un incerto inglese e con un
premuroso movimento delle mani quasi a tracciare un no nell'aria, dicendoci: «Nessun problema, è mia
moglie!», Fiducioso che questo bastasse a chiarire tutto e che, essendo la donna una proprietà in sua
gestione, non ci fosse alcun problema di usufrutto, è rimasto interdetto di fronte al nostro sdegno per
l'assurdità o tutta risposta: «Voi vedete solo questo, ma non sapete che cosa ha fatto!» alludendo a un
comportamento scorretto con altri uomini. Non riesco a dimenticare gli occhi spaventati e impotenti di
quella donna che mi diceva, una volta distante dall'uomo, che non era la prima volta e che non sapeva che
cosa fare.

Al di là della specifica esperienza sono molti, troppi i casi di violenza maschile, anche mortale. Nel 2016,
Sara Di Pietrantonio, una ragazza di 22 anni, è stata trovata morta semicarbonizzata nei pressi della sua
auto in fiamme, nella periferia di Roma, uccisa dall'ex fidanzato Vincenzo Paduano, di 27 anni, che non
riusciva ad accettare la fine della loro relazione. Andando oltre i confini nazionali, è stato denunciato, dalle
attiviste femministe del gruppo We Can't Consent to This nel Regno Unito, un allarmante aumento della
strategia di difesa, nelle aule di tribunale, del cosiddetto rough sex (sesso duro). Negli ultimi due decenni, si
è arrivati a contare ben 59 casi in cui gli uomini colpevoli di aver ucciso la propria partner si sono difesi
sostenendo che l'assassinio era avvenuto in un contesto di rough sex, ossia in un rapporto sessuale molto
estremo e violento, ma, a loro dire, consensuale. abuso e violenza nei confronti di altre partner. Ciò che
inquieta è che questa linea di difesa in alcuni casi abbia funzionat0, consentendo agli imputati di essere
accusati di omicidio colposo e pertanto non intenzionale.

Questi sono singoli episodi, ma per quantificare violenza nei confronti delle donne servono dati scientifici e
sistematici. Che cosa ci dicono lle sue parole. Ha incalzato così in punto è che spesso gli accusati di omicidio
avevano dei precedenti di diffusione e la rilevanza della allora gli studi in merito? Il panorama che emerge
dalle ricerche nazionali e internazionali è assai critico. A livello globale, circa 15 milioni di ragazze tra i 15 e i
19 anni hanno subito violenza sessuale, nella maggioranza dei casi a opera del proprio partner o di un ex
partner. I dati per lItalia non sono più incoraggianti. Un'indagine ISTAT del 2014 racconta come ben 6
milioni e 788 mila, ossia il 31,5 per cento delle donne dai 16 ai 70 anni, abbia subito nel corso della propria
vita una qualche forma di violenza fisicao sessuale: il 20,2 per cento ha subito violenza fisica, il 21 per cento
violenza sessuale, il 5,4 per cento le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il
tentato stupro (746 mila). La grande maggioranza di queste violenze avviene tipicamente in casa, a opera di
persone appartenenti alla rete sociale delle vittime. Ne consegue che questi dati sono con grande
probabilità enormemente sottodimensionati, dato che è assai difficile denunciare un familiare o un
parente.
Dedichiamoci alla forma più grave di violenza sessuale sulle donne, lo stupro. Possiamo afferrarne di più il
senso se inquadriamo di nuovo l'idea della sessualità in associazione alla dominazione. Il dispositivo dello
stupro del resto è molto antico, e immagini e resoconti di stupri e violenze esistono da secoli, dalla
mitologia alla letteratura. Inquieta, ma non sorprende, sapere che la proliferazione di queste
rappresentazioni non abbia mai mirato nel passato e nel presente a denunciare la violenza di questa
pratica, quanto piuttosto a normalizzarne il senso. Si pensi ad esempio all'Ars Amatoria di Ovidio, in cui
l'autore invita a non demordere nel corteggiamento di una ragazza che sembra all'apparenza resistere
poiché proprio la sua oPposizione è un invito a perseverare nel tentativo di conquista, grata est vis ista
puellis, oppure al fatto che la fondazione di Roma raccontata da Plutarco si basi proprio su uno stupro di
massa, il ratto delle Sabine

TCerrato 2011]. Anche nella musica, quella rock, solo per cominciare con un esempio,

T'immagine proposta della sessualità maschile è spesso aggressiva e violenta tanto che si parla di cock rock
per definire quel tipo di contenuti sessualmente espliciti e basati su una mascolinità aggressiva ai danni
delle donne [Frith e McRobbie 1978]; la legittimazione dello stupro e della violenza ai danni delle donne
diventa ancora più inquietante se pensiamo alla musica rap o hip hop [Weitzer e Kubrin 2009]. In questo
scenario, nella rappresentazione idealizzata e romanzata di una mascolinità onnipotente, lo stupro assume
il fascino irresistibile del dominio assoluto dell'uomo sulla donna [Brownmiller 1975]. Come è possibile che,
nonostante la sua unanime condanna e nonostante tutte le trasformazioni sociali, lo stupro sia ancora un
fenomeno cosi diffuso e in fondo ancora cosi tollerato tanto che si parla di una cultura dello stupro? Per
rispondere a questa domanda dobbiamo porcene un'altra ancora: di che cosa parliamo quando parliamo di
stupro?

Una definizione molto ristretta di che cos'è uno stupro può condurci a guardarlo con occhi diversi,
sottostimando la frequenza del fenomeno. Mi spiego meglio: se in testa abbiamo un prototipo di stupro, un
modo cioė in cui pensiam0 avvenga di solito uno stupro, allora quando un evento presenta caratteristiche
che non rientrano in quel prototipo non potrà essere definito come stupro [Peterson e Muehlenhard 2004].

L'espressione con cui in letteratura si definiscono questi prototipi dello stupro è miti dello stupro, credenze
false e stereotipiche sulle caratteristiche delle vittime dello stupro o sulle caratteristiche di chi stupra o
ancora sulla situazione/contesto della violenza [Burt 1980].

Queste credenze molto diffuse e persistenti consentono di legittimare e giustificare le aggressioni sessuali a
danno delle donne, proprio negando che siano delle vere aggressioni (vedi tab. 3.1 per avere un esempio di
come si rilevano queste credenze con una scala di misura).

In un mito ricorrente dello stupro, ad esempio, l'aggressore è uno sconosciuto, possibilmente brutto,
cattivo e straniero. Che cosa ne consegue? Che le donne non possono essere stuprate quando
intrattengono con un uom0, l'aggressore, una relazione di conoscenza e intimità. I dati smentiscono
nettamente questa idea: la maggior parte degli stupri, come dicevamo, avviene a opera di persone che
appartengono alla rete sociale della vittima.

Altri miti tendono a delimitare il luogo degli stupri alle zone malfamate di una città. Il messaggio classista,
oltre che sessista, è dunque che sono soloipoveracci a stuprare. I dati mostrano che, anche in questo caso,
siamo di fronte a un mito e non alla realtà. Tuttavia, molti tendono a continuare a credere che i ricchissimi,
proprio in quanto tali, non possano essere interessati da questo tipo di comportamento. Quando un uomo
ricco e potente è accusato di stupro, l'idea spesso diffusa è, infatti, che la donna di turno stia
strumentalmente tramando ai suoi danni, inventandosi di sana pianta la violenza, per giovarsi della sua
ricchezza: «Così ricco e potente, può avere tutte le donne che vuole, dunque perché arrivare a stuprarne
una?». Sono considerazioni che sentiamo spesso a commento di personaggi ricchi, famosi e potenti
accusati di stupro da donne assai meno ricche, famose e potenti. Queste parole contengono già la risposta
alla domanda che pongono, anche se la risposta non è quella più evidente. L'idea di sessualità associata al
dominio e al potere oggetto di questo paragrafo ci aiuta a riflettere sul fatto che se un uomo aderisce a
quella visione culturale, pensa probabilmente che avere molti soldi significa avere accesso a tutti i beni
possibili.

TAB. 3.1. Scala di accettazione dei miti dello stupro femminile di Payne, Lonsway e

Fitzgerald [1999]

Sottoscala- Se l'è cercata

Se una ragazza viene violentata mentre è ubriaca, è almeno in qualche modo responsabile dell'accaduto

Quando le ragazze vanno alle feste indossando abiti scollati, sono in cerca di guai.

Se una ragazza durante una festa entra da sola in una stanza con un ragazzo, è colpa

Sua se viene violentata.

Se una ragazza esce con molti ragazzi, alla fine si metterà nei guai.

Sottoscala - Non è stato davvero uno stupro

Se una ragazza non resiste fisicamente al sesso - anche protestando verbalmente - non può davvero essere
considerato stupro.

Se una ragazza non si difende energicamente, non si può davvero dire che è stato uno stupro.

Se l'uomo accusato di essere lo «stupratore» non aveva un'arma, non puoi davvero definirla una violenza.

Se una ragazza non dice «no», non può dire dopo che era uno stupro.

Sottoscala - Ha mentito

Molte volte, le ragazze che affermano di essere state stuprate hanno accettato di fare sesso e poi dopo se
ne sono pentite.

Le accuse di stupro sono spesso usate come modo per vendicarsi dei ragazzi.

Le ragazze che affermano di essere state violentate spesso hanno prima provocato il ragazzo e poi se ne
sono pentite.

Molte volte, le ragazze che affermano di essere state stuprate hanno solo problemi emotivi.

Le ragazze che vengono sorprese a tradire i loro fidanzati a volte affermano che è stato uno stupro.

Sottoscala - Lui non intendeva farlo

Quando i ragazzi violentano, di solito è a causa del loro forte desiderio di sesso.

I ragazzi di solito non intendono forzare una ragazza a fare sesso con loro, ma a volte sono presi dal troppo
desiderio sessuale.

Lo stupro si verifica quando il desiderio sessuale di un ragazzo va fuori controllo.

Sottoscala - Lui non intendeva farlo per via dell'alcol

Se un ragazzo è ubriaco, potrebbe violentare qualcuno senza volerlo.

Se entrambe le persone sono ubriache, non può essere stupro.


Non dovrebbe essere considerato stupro se un ragazzo è ubriaco e non si è reso conto di quello che stava
facendo.

Le donne, sempre in questa visione, sono alcuni di questi beni e il loro rifiuto assume i contorni di un
inaccettabile oltraggio alla propria posizione sociale: così ricco e potente, un uomo non solo può ma anche
deve avere tutte le donne che vuole. La prova del potere sta proprio in quante cose puoi fare senza dover
renderne conto [Penny 2020]. È emblematico in questo senso il caso di Harvey Weinstein, produttore
americano potentissimo nel mondo delo show biz nordamericano, al momento imputato per ben 80 capi di
accusa, dallo stupro alle molestie sessuali.

Un altro mito dello stupro prevede che quando un uomo violenta una donna, la loro interazione comporti
inevitabilmente un elevato grado di violenza ed efferatezza, violenza che deve essere visibile e
quantificabile con tanto di lividi e segni di escoriazioni sul volto o sul corpo della vittima. Da questa
premessa consegue quasi inevitabilmente che una donna debba necessariamente opporre resistenza fisica
altrimenti non si puð parlare di stupro. Si escludono cosi dallo stupro tutti i numerosissimi casi in cui il
corpo della donna è illeso oppure la donna ha mancato di difendersi attivamente, magari semplicemente
perché troppo impaurita per farlo.

Ci troviamo di fronte a un mito dello stupro anche quando siamo in grado di riconoscere la violenza, ma la
minimizziamo. In che modo? Prima di tutto, biasimando le donne e il loro comportamento per quanto
accaduto. Bere troppo alcol subisce uno stupro da ubriaca èè in qualche modo responsabile dell'accaduto
perché non è stata abbastanza attenta -, indossare certi abiti piuttosto che altri o ancora esprimere l rifiuto
in forma dubbia sono tutti modi per dire che le «brave ragazze» non corrono alcun rischio e per biasimare
le vittime [per una rassegna sul victim blaming vedi Spaccatini e

Pacilli 2019]. Molte donne vengono violentate anche quando sono vestite in modo tutt'altro che
sessualizzato, quando frequentano zone sicure e quando si comportano in modo non seduttivo. Ma al di là
di questo, pensare che una donna possa evitare lo stupro evitando di indossare certi capi d'abbigliamento,
di andare in posti poco raccomandabili e di comportarsi in modo tropp0 sensuale, non è solo un modo
svilente di guardare alle donne. E prima di tutto un modo degradante di considerare un uomo. Si presume
infatti che un uomo sia incapace di controllarsi, che sia cosi in preda alle sue pulsioni che debba adoperarsi
in un0 sforzo titanico per evitare di stuprare qualcuno camminand per strada. Gli uomini, dunque,
dovrebbero essere i primi a sentirsi offesi quando si dice loro che sono le donne a dover prevenire lo
stupro. Alla base di questo discorso c'è un'immagine precisa, svilente e terribile di uomo in cui la condizione
maschile di partenza, la condizione di default, è quella di uno stupratore. Condizione che ha solo bisogno di
una leggerissima spinta proveniente dall'ambiente per innescarsi.

Lidea è che, essendo spinti da bisogni sessuali fortie incontrollabili, gli uomini debbano pur soddisfarli in
qualche modo. E qui che si vede con chiarezza come i due mandati della dominazione e della compulsività
possano intersecarsi e sovrapporsi, al punto che la compulsività diventa una giustificazione per la
sopraffazione. C'è un mito tanto duraturo quanto difficile da abbandonare che funziona più o meno cosi: se
un uomo è troppo eccitato, perché in uno stato prolungato di deprivazione sessuale o perché
«Costituzionalmente» molto interessato al sesso, c'è il ragionevole rischio che possa perdere il controllo di
sé di fronte a una donna attraente. Per questo, sono le donne che sono tenute a stare attente, a premurarsi
il più possibile rispetto al rischio di incappare in simili incidenti che non fanno altro che riflettere la vera
natura maschile. Havelock Ellis, medico e psicologo britannico e autore, nel 1933, del volume Psychology of
Sex, era convinto che essendo la sessualità maschile per natura violenta e predatoria lo stupro altro non
fosse che una manifestazione normale del desiderio maschile. Questa debordante mascolinità che trova
sfogo nello stupro a lungo si è pensato fosse di origine endocrina e che gli uomini stupratori avessero un
difetto di iperproduzione di un ormone.
Indovinate quale? Neanche a dirlo, l'ormai familiare testosterone, l'elisir della virilità, che con il suo potente
effluvio e immancabile bagaglio di sciocchezze pseudoscientifiche al seguito soggioga gli uomini e li rende
(sostanzialmente in modo legittimo e inevitabile) maschi violenti e irrazionali. Ancora oggi è assai
frequente, di fronte all'ennesimo caso di stupro, sentire il politico o la politica di turno chiedere a gran voce
la castrazione chimica del violentatore, ossia l'inibizione, indotta da un farmaco, della presunta eccessiva
quantità di testosterone prodotta dal suo corpo.

In questa soffocante e avvilente teoria idraulica del desiderio sessuale, in cui un uomo deve liberarsi del
desiderio impetuoso e incontrollabile che proviene dai suoi ormoni, unici motori della sua individualità e
della sua agentività, una donna dall'aspetto molto attraente non a caso si usa il termine «provocante» per
definire un abbigliamento sexy- può essere pericolosa, per sé stessa e per gli altri. Quella donna, con il suo
richiamo fisico, può far crollare la fragile diga della civilizzazione, facendo straripare il desiderio sessuale
presente negli uomini: il risultato, per chi ragiona in questo modo, è che anche un uomo qualsiasi può finire
per stuprare una donna, a patto però che essa sia attraente.

Nel novembre 2017, la Corte di Appello di Ancona ha emanato un verdetto di assoluzione per reato di
stupro che ha generato grande scalpore mediatico. In particolare, se una donna la Corte ha stabilito che
l'aspetto mascolino e poco avvenente della vittima fosse la prova della consensualità del rapporto e quindi
dell'innocenza dei suoi aggressori: era troppo brutta per essere stuprata, insomma. Anche Jair Bolsonaro,
attuale presidente del Brasile, nel dicembre del 2014, rivolgendosi a Maria do Rosario, ex ministra per i
Diritti umani del suo paese, ha dichiarato, come se l0 stupro fosse un gradevole atto di attenzione: «Non la
stupro solo perché è troppo bruttal». Il modo in cui la mascolinità tradizionale si interseca con l'arena
politica sarà oggetto d'esame nel capitolo che segue. Al di là di quello che accade nelle aule di tribunale o in
politica, inquietano i dati di indagini nazionali come quella dell'ISTAT del 2019 sugli atteggiamenti nel
nostro paese nei confronti della violenza sessuale e delle sue vittime. Da questa indagine è emerso che
quasi una persona u quattro in Italia pensa che la causa della violenza sessuale sulle donne sia ascrivibile al
loro modo di vestire; inoltre il 15 per cento della popolazione pensa che una donna che subisce violenza
sessuale quando ubriaca o sotto l'effetto di droghe sia da considerarsi almeno in parte responsabile. La
strada da fare è evidentemente ancora molto lunga. 6.3. L'altra faccia della dominazione: gli uomini come
vittime inconcepibili di violenza sessuale

Il modo in cui la sessualità tradizionale maschile si organizza attorno al concetto di dominazione va di pari
passo con i numeri impressionanti che ci mostrano la diffusione della violenza sessuale ai danni delle
donne. Per tale ragione, in ambito scientifico, presente da anni uno studio e una riflessione sistematica
sulla violenza sessuale maschile, e un focus altrettanto puntuale sulle vittime femminili della violenza.
Questo non deve e non può sorprendere. Come già visto nel paragrafo precedente, esistono dei dispositivi
culturali che legittimano la violenza sessuale, quali i miti dello stupro, che è fondamentale comprendere e
demolire. Questi dispositivi giocano un ruolo centrale, anche se subdolo, nella percezione e nel trattamento
delle vittime femminili, contribuendo a esporle alla violenza per due volte, la prima quando la subiscono
direttamente dall'aggressore e la seconda quando viene inferta loro dalla discriminazione sociale, culturale
e giuridica in cui sono immerse, che le porta a essere considerate come, in parte o del tutto, responsabili di
quanto accaduto.

Il fatto che le donne siano vittime di violenza sessuale con una frequenza più alta degli uomini non vuol dire
però che gli uomini non possano essere o non siamo vittime a loro volta di violenza sessuale [Graham 2006;
Turchik e Edwards 2012]. Pensare agli uomini come i perpetratori e alle donne come le vittime di un
crimine sessuale genera il copione mentale che ci sia una rigida distinzione di genere fra chi agisce e chi
subisce il crimine.
Quanto appena descritto equivale a sintetizzare il primo mito dello stupro maschile, da cui tutti gli altri in
qualche modo discendono: gli uomini non possono essere stuprati (vedi tab. 3.2 per un esempio di scala di
misura di queste credenze riferite agli uomini).

Nell'autunno del 2019 è stato ospite di una trasmissione televisiva italiana Jimmy

Bennett, il ragazzo che ha accusato di stupro l'attrice italiana Asia Argento, a sua volta fra le accusatrici del
produttore americano Weinstein. Durante l'intervista, il conduttore della trasmissione commentava
perplesso su quanto la violenza di una donna su un ragazzo fosse difficile da comprendere «in termini
tecnici» perché un uomo è parte attiva in un rapporto sessuale. II ragazzo ha risposto a questo commento
osservando che spesso si era sentito dire che c'era qualcosa che non andava in lui, che l'unica spiegazione
di quanto avvenuto - sempre che non stesse mentendo perché in cerca di notorietà - era che fosse gay.
Come avrebbe potuto del resto non desiderare di avere rapporti sessuali con una donna sexy e attraente
come Asia Argento? Durante quella trasmissione, sono stati presentati a uno a uno i miti dello stupro
maschile quasi come in un'involontaria lezione di psicologia sociale. Se gli uomini sono percepiti come la
parte attiva del rapporto sessuale, allora saranno invulnerabili allo stupro: per usare le parole
dell'intervistatore di

Bennett, gli uomini tecnicamente non sono stuprabili. E una premessa erronea quella da cui si parte e che
vede l'erezione o l'eiaculazione come qualcosa che si verifica solo in un rapporto non coercitivo. Un uomo,
invece, può avere un'erezione anche solo riflessogena, ossia determinata esclusivamente da stimoli tattili
sui genitali (del resto anche i bambini molto piccoli possono avere un'erezione senza stimolazione sessuale,
ma solo per contatto dei genitali). Un'erezione, inoltre, può essere determinata, in alcuni casi, da stati
emotivi molto diversi dal desiderio sessuale, come rabbia o paura [Levin e van Berlo 2004].

TAB. 3.2. Scala di accettazione dei miti dello stupro maschile di Struckman-Johnson e Struckman-Johnson
[1992]

Sottoscala - Impossibilità dello stupro

E impossibile per una donna stuprare un uomo

Anche un uomo grosso e forte può essere stuprato da una donna"

Sottoscala- Biasimo della vittima

La maggior parte degli uomini che sono stuprati da una donna sono in qualche modo da biasimare perché
non sono stati abbastanza attenti

La maggior parte degli uomini che sono stuprati da una donna sono in qualche modo da biasimare perché
non si sono svincolati

Sottoscala - Impossibilità del trauma

La maggior parte degli uomini che sono stuprati da una donna restano molto turbati dall'evento

La maggior parte degli uomini che sono stuprati da una donna non hanno bisogno di alcun aiuto
professionale

Affermazione che nel calcolo del punteggio finale va considerata con un punteggio invertito.

Item il cui significato è in direzione contraria a quello della sottoscala relativa, pertanto il suo punteggio va
invertito quando si procede al calcolo del punteggio

Complessivo.
Essendo «per natura» potenti e dominatori, gli uomini sarebbero invulnerabili allo stupro anche perché più
forti delle donne. Ci si domanda interdetti: «Ma cosa gli ci vuole a un uomo a svincolarsi da una donna che
sta provando a stuprarlo?». Qui ritorna un mito frequente, anche nello stupro femminile, per cui lo stupro
avviene solo sotto lo scacco della violenza e della sopraffazione fisica. La realtå dei casi di stupro è invece
molto diversa: le persone spess0 finiscono per essere vittime di violenza sessuale per via di uno squilibrio di
potere e per l'impossibilità psicologica percepita in quel momento di sottrarsi a un rapporto sessuale che
non si desidera.

Inoltre, per il mandato della compulsività, in base a cui un vero uomo è e deve essere sempre disponibile al
sesso, la rinuncia all'opportunità di un rapporto sessuale e addirittura la denuncia di una sua costrizione
genererà reazioni che spaziano dall'ilarità: «Di che si lamenta? Ma è matto?! Magari fossi io ad avere
queste fortunel», alla vera e propria ridicolizzazione omofoba della mascolinità della vittima: «Sarà gay,
altrimenti come può denunciare un'occasione ghiotta come quella di un rapporto sessuale?». Sempre per il
mandato della compulsività, ammesso e non concesso che si riconosca che lo stupro ai danni dell'uomo sia
avvenuto, si sottovalutano le conseguenze psicologiche dell'evento.

Se per le donne si riconosce che lo stupro possa essere un'esperienza traumatica, per

Iuomo nel peggiore dei casi esso si classifica come un evento fastidioso. Ho detto all'inizio che pensare agli
uomini come i perpetratori e alle donne come le vittime di un crimine sessuale genera il primo e
fondamentale mito dello stupro maschile, da cui tutti gi altri in qualche modo discendono, ossia che gli
uomini non possono essere stuprati. Strettamente associato a questo mito è quello per cui chi compie il
reato viene mascolinizzato e chi lo subisce femminilizzato con tutto il portato di debolezza e disprezzo
associato alla femminilitä di un uomo che ormai conosciamo.

Date tutte queste premesse, è difficile pensare che un uomo possa denunciare uno stupro commesso da
una donna senza andare incontro a processi definiti di vittimizzazione secondaria: lo stupro maschile
genera una classificazione degli uomini sulla base del loro valore, per cui, quando ne è vittima, l'uomo viene
percepito come poco credibile, come femminile e come debole. Alla violenza subita si aggiunge la violenza
secondaria di essere ridicolizzato e di non essere considerato un vero uomo.

Mi sono focalizzata fino a questo punto sulla violenza che un uomo, generalmente eterosessuale, può
subire da una donna eterosessuale, ma questo non vuol dire che la violenza sessuale non investa anche gli
uomini omosessuali. Va detto a questo proposito che uno dei miti dello stupro confina lo stesso solo alle
relazioni omosessuali. Del resto, se gli uomini veri sono invulnerabili allo stupro (tranne quando finiscono in
carcere, unico luogo in cui lo stupro di un uomo eterosessuale diventa pensabile), gli uomini falsi, quelli gay
o bisessuali, sono vulnerabili per definizione.

Chi aderisce maggiormente a questi miti dello stupro sia maschili sia femminili? La ricerca ci dice
chiaramente che a fare propri questi dispositivi culturali sono gli uomini più delle donne e in generale le
persone che aderiscono a una visione tradizionale dei ruoli di genere, che abbracciano una visione
convenzionale della mascolinità e che hanno atteggiamenti più negativi nei confronti delle persone
omosessuali [Walfield 2018].

Capitolo quarto

Mai rinunciare al comando «Negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del
tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell'equilibrio di preparazione che più
corrisponde per tradizione a queste funzioni» (Giovanni Leone, politico italiano e sesto presidente della

Repubblica, gennaio 1947). «Ma la Lega Nord ce l'ha duro, duro, duro!» (Umberto Bossi, fondatore della
Lega Nord, raduno di Pontida, 1991). «A loro piace che arrivino i neri perché ce l'hanno grosso» Ignazio La
Russa, attualmente parlamentare nelle file di Fratelli d'Italia, durante la discussione sulla Legge Bossi-Fini,
rivolgendosi alle deputate di centrosinistra, 2002). «Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay»
(Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio italiano, novembre 2010). «Le leggi, come le donne,
esistono per essere violate» (Castelao Bragaña, deputato del Partito popolare spagnolo, 2012). «Cosa
succederebbe se ti trovassi

Boldrini macchina?» (Beppe Grillo, fondatore del Movimento 5 stelle, sul suo blog in riferimento all'allora
presidente della Camera, gennaio 2014). «La realtà è che le donne semplicemente non vogliono essere
trattate in modo rispettoso dal loro partner sessuale. [.] La realtà è che le donne vogliono essere
sovrastate, dominate, sopraffatte» (Thierry Baudet, leader del partito olandese Forum per la democrazia,
novembre 2014). «Non la stupro solo perché è troppo brutta» (Jair Bolsonaro, attuale presidente del
Brasile, rivolgendosi a Maria do Rosario, ex ministra per i

Diritti umani, dicembre 2014). «Preferirei non fare la doccia con un gay. Perché provocarlo? E poi lei lo sa,
io sono maestro di judo» (Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, durante un'intervista con il
regista Oliver Stone, giugno 2017). «ll leader nordcoreano Kim Jong-un ha appena dichiarato che il pulsante
nucleare è sempre sulla sua scrivania. Anch'io ho un pulsante nucleare, ma è molto più grande e molto più
pote

USA, 2018). te del suo» (Donald Trump, esidei «Tndici le elezioni allora, femminuccial» (Boris Johnson,
attuale primo ministro inglese, rivolto al leader laburista Jeremy Corbin durante una seduta in parlamento,
settembre 2019). «Mi auguro che chi di dovere controlli chi è sbarcato e chi continua a sbarcare in Italia
perché purtroppo gli sbarchi sono continui e insieme a donne e bambini non vorrei che stessero arrivando
anche dei delinquentie terroristi» (Matteo Salvini, gennaio 2020).

Che cosa hanno in comune le dichiarazioni cosi distanti nel tempo e nei contesti geografici di questo lungo
elenco che avete appena letto? Pur nella loro diversità, esse ci offrono una rappresentazione plastica del
tema di cui parlerò in questo capitolo, ossia di come nell'arena politica la mascolinità tradizionale si esprime
nella definizione di sé, nella definizione degli uomini e delle donne in generale e degli avversari e delle
avversarie in particolare, fino a giungere alla rappresentazione della mascolinità di chi è estraneo da sé, gli
uomini migranti. 1. Mascolinità ed estrema destra. Dal suprematismo bianco occidentale al suprematismo
maschilee

L'adesione a una visione tradizionale della mascolinità comporta, come abbiamo visto finora, non solo
atteggiamenti specifici rispetto agli uomini e alle donne, atteggiamenti rispetto a come questi dovrebbero
comportarsi in privato e in pubblico. Abbracciare una visione tradizionale della mascolinità genera anche un
visibile fastidio per tutte le qualità e le caratteristiche tradizionalmente associate al femminile. Se le
caratteristiche femminili sono quelle più adatte nell'ambito privato, le caratteristiche stereotipiche
associate alla mascolinità - assertività, capacità decisionale, scarsa emotività - sono quelle ritenute
fondamentali nell'ambito pubblico e, dunque, le qualità ideali perché una persona possa impegnarsi in
modo efficace in politica. Questa asimmetria fra femminile/privato e maschile/pubblico è profondamente
radicata a livello culturale e spesso trasversale all'orientamento politico delle persone, essendo non di rado
presente sia nelle persone di destra sia nelle persone di sinistra.

La relazione fra mascolinità tradizionale e politica però non si esaurisce nella svalutazione del femminile e
nella celebrazione del maschile per il buon governo della cosa pubblica. Essa assume sfumature più
complesse, soprattutto se andiamo a esaminare l'ascesa dei movimenti di estrema destra, in diversi paesi
del mondo, oggi [Greig 2019]. Le forze di estrema destra dagli Stati Uniti di Donald Trump al Brasile di Jair
Bolsonaro, alla
Russia di Vladimir Putin, fino all'Italia di Matteo Salvini reclutano sostenitori organizzando i propri
programmi politici puntando spess0 sulla carta del genere e nello specifico sulla mascolinità tradizionale
[Träbert 2017]

Nonostante la guerra alla cosiddetta ideologia gender e complessivamente agli studi di genere per
l'importanza «eccessiva» assegnata al genere [Taurino 2016], la retorica di estrema destra è imbevuta di
questioni di genere, questioni sulle quali torna in modo.

insistente e martellante. Ma quali sono i temi attorno a cui si sviluppa il discorso politico dei movimenti di
estrema destra sul genere e sulla mascolinità in particolare? E possibile individuarne due fondamentali e
ricorrenti. Nonostante la loro diversità, camminano spesso a braccetto, dando vita cosi a un sistema tanto
incoerente quanto saldo al suo interno. ll primo è relativo alla rappresentazione della mascolinità alloctona,
della mascolinità degli «altri» (che potremm0 sintetizzare con l'espressione suprematismo occidentale), il
secondo riguarda la rappresentazione della mascolinità autoctona, della mascolinità nazionale (che
potremmo sintetizzare con l'espressione suprematismo maschile). 2. Il suprematismo bianco occidentale e i
maschi migranti pericolosi

Nel suprematismo occidentale, il discorso si organizza attorno alla figura emblematica e minacciosa del
maschio (nero) migrante. Il contesto bianco occidentale e nazionale si vede costretto ad accogliere e subire
la mascolinità primitiva, barbarica e predatoria di cui gli uomini migranti sono portatori. In questa visione,
essi sono additati come gli emissari violenti di codici culturali misogini e arretrati che gli uomini bianchi
devono respingere proteggendo i confini fisici e simbolici della superiorità occidentale. La mascolinità
alloctona viene rappresentata come una minaccia per l'incolumità delle donne autoctone e in generale per
la civiltà dello stato-nazione. Le ansie derivanti dalla minaccia percepita alla propria identità culturale e alle
proprie tradizioni religiose si coagulano attorno descrizioni sinistre di questi uomini. La loro presunta
pericolosità diventa cosi il modo per alimentare la paura, aizzare la rabbia e rafforzare l'etnonazionalismo. Il
nemico per eccellenza della civile, progredita e bianca società occidentale è dunque presto trovato: il
maschio migrante, nero, gretto, violento e stupratore.

Quanto appena detto ben si sintetizza con le parole di Donald Trump, che durante la campagna elettorale
presidenziale, riferendosi agli immigrati messicani ha dichiarato:

Quando il Messico manda le sue persone negli USA non sta mandando persone come gli

Americani. Manda persone con molti problemi, problemi che agli Americani toccherà risolvere. Manda
persone che portano droga, portano crimine. Questi sono stupratori».

Anche nei partiti di estrema destra europei ricorre quest'idea che i migranti, e soprattutto i migranti
musulmani, siano un pericolo, a causa della loro misoginia, per le civili e avanzate società occidentali. La
studiosa Sara Farris [2019] ha coniato la felice espressionne femonazionalismo per descrivere la
strumentalizzazione dei temi femministi che i partiti nazionalisti e neoliberisti attuano con il solo obiettivo
di portare avanti campagne xenofobe e razziste in Europa. Nel suo lavoro esamina, fra l'altro, la Francia
elItalia come casi emblematici di femonazionalismo. In Francia, il dibattito sullo svelamento delle donne
musulmane, molto acceso già a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, ne è un esempio: è
nel velo che si reifica la presunta brutale oppressione patriarcale musulmana delle donne da cui è
necessario proteggere non solo quelle donne oppresse, donne «altre», ma anche le donne francesi. Sempre
in Francia e in modo più sistematico, verso la fine degli anni Dieci di questo secolo, il Front National - partito
di estrema destra fondato nel 1972 da Jean-Marie Le Pen e guidato poi dal 2002 dalla figlia,

Marine Le Pen - si è appropriato della questione dei diritti delle donne con l'obiettivo di alimentare
campagne islamofobe e razziste. E Marine Le Pen a dichiarare più volte che la
Francia non è un paese sessista e che il sessismo è un problema presente solo nei quartieri periferici e
degradati ad alta concentrazione di immigrati, nelle banlieus, un problema insomma solo delle comunità di
immigrati. Che cosa accade in Italia? Anche nel nostro paese, osserva Farris, partiti come la Lega Nord fin
dal suo ingresso nel 2001 nel governo hanno fatto propria la retorica degli uomini migranti come brutali
stupratori e incalliti criminali. Nel 2005, ad esempio, la campagna della Lega Nord nel pieno del dibattito
sulla possibile entrata della Turchia nell'Unione Europea fu incentrata sull'immagine da un lato di una
donna, velata, ritratta dietro le sbarre di una prigione con la didascalia «loro...» e dall'altro di due donne
con capelli corti e abiti occidentali sedute alla scrivania di un ufficio con la didascalia «e noi... volete correre
il rischio?».

Nel quadro appena tracciato dunque, i partiti/movimenti di estrema destra prendono a cuore le istanze
femministe relative al contrasto dell'oppressione femminile. E evidente qui un'incoerenza enorme su cui è
importante soffermarsi. Sappiamo bene infatti che le politiche sociali di cui si fanno portavoce e promotori i
partiti prima citati, in Francia come in Italia, sono improntate su una visione fortemente conservatrice e
ultratradizionale dei ruoli di genere in cui viene celebrato il ruolo delle donne come madri oltre che il valore
della cosiddetta «famiglia naturale» eterosessuale. Quindi come sanare questa contraddizione cosi
stridente? Come conciliare da un lato le neonate istanze femministe e dall'altro la visione storica
ultraconservatrice dei rapporti di genere?

Per rispondere a questa domanda, è di grande aiuto rivolgere lo sguardo a come i diritti delle donne in
questi partiti siano strategicamente circoscritti: si pone l'attenzione sulla questione della violenza fisica e si
tagliano completamente fuori dal discorso politico i temi relativi alla discriminazione delle donne sul lavoro
o quelli relativi ai diritti riproduttivi ossia, cosi come li ha definiti la Conferenza interrnazionale su
popolazione e sviluppo del 1994 tenutasi a Pechino, i diritti umani basati sul riconoscimento di decidere
liberamente sul numero, il momento e lintervallo fra le nascite dei propri figli, di avere i mezzi e le
informazioni necessari per esercitare tale diritto, e di ottenere i migliori standard di salute sessuale e
riproduttiva. Ciò comporta anche il diritto di ognuno a prendere decisioni relative alla riproduzione senza
essere oggetto di discriminazioni, coercizioni o violenze [Corsi e Scrinzi 2019].

Limmagine della donna vittima di violenza paternalistica dei rapporti di genere: il contraltare
dell'aggressione fisica delle donne diventa la protezione e difesa delle stesse. Ma c'è di piu: con un abile e
quasi acrobatico gioco retorico, si sposta in modo strategico il contesto fisico e simbolico della fisica ben si
accorda con una visione discriminazione. L'oppressione delle donne va attaccata solo o soprattutto oltre i
confini fisici della nazione oppure oltre i confini simbolici etnici e culturali. L'oppressione di genere interessa
l'altro da sé, non avendo l'occidente alcun problema strutturale e sociale su questo fronte. Questo
dispositivo retorico di attribuzione del sessismo all'altro razzializzato è stato definito da molti studiosi e
studiose come razzializzazione del sessismo [Davis 1983; Hamel 2005]. Su che cosa si fonda questo processo
di razzializzazione? Sulla rappresentazione essenzialista della differenza culturale, in base alla quale i
migranti sono percepiti come diversi e soprattutto inferiori agli autoctoni nella loro essenza fondamentale e
quindi non assimilabili per natura [Haslam, Rothschild e Ernst 2000]. Insomma, la faccia è salva (o almeno
cosi sembra): queste battaglie non riguardano le persone occidentali, essendo la discriminazione di genere
un problema non occidentale. Anzi, se un problema c'è in termini di perdita di diritti, quello investe in
questo discorso politico proprio i maschi autoctoni. 3. Il suprematismo maschile. Leader duri e seguaci
rabbiosi

Eccoci dunque allaltro topos di cui si nutre la retorica di estrema destra sulla mascolinità, quello da un lato
della mascolinità occidentale in crisi e dall'altro del bisogno di riaffermare una mascolinità forte. Il
suprematismo maschile corrisponde alla considerazione delle donne da un lato come persone inferiori e
meno intelligenti degli uomini e dall'altro come perfide manipolatrici, persone che in ogni caso è bene
tenere al loro posto sia nella vita pubblica e politica sia nella vita privata e personale, lasciando il posto di
comando agli uomi suprematismo maschile rispetto alla vita politica e alla vita pubblica, più in generale,
affrontando prima il tema degli uomini duri al comando e poi quello degli uomini duri e rabbiosi al loro
seguito. 3.1. La mascolinità dei politici: l'uomo duro al comando

Negli anni Cinquanta del secolo scorso il gruppo di ricerca coordinato da Theodor

Adorno ha prodotto quello che è un testo classico per gli studi psicologici e sociologici ovvero La personalità
autoritaria. L'obiettivo di questo lavoro era quello di comprendere i fattori psicosociali che avevano dato
vita all'antisemitismo e al fascismo: fu definito e teorizzato per questo un assetto specifico di personalità
affetta dalla sindrome autoritaria.

Fra le diverse componenti della sindrome della personalità autoritaria [per una disamina esaustiva vedi
Roccato 2003], l'obbedienza cieca nell'autorità, che si associa alla marginalizzazione e alla soppressione
delle persone deboli, devianti, subordinate.

Un'altra componente altrettanto interessante ai fini della nostra analisi è l'antiintraccezione, ovvero
l'avversione nei confronti dell'introspezione e dell'emotività, vissuta come un segnale di debolezza. Infine,
degna di nota l'intuzione di Adorno rispetto al concetto di pseudomascolinită, termine introdotto per
indicare quell'enfasi maschile sui tratti di energia, determinazione, industriosità, indipendenza e
decisionismo volta a nascondere un profondo sentimento di debolezza: oggi l'autoritarismo è considerato
da molti proprio come un'espressione della mascolinità tradizionale Messerschmidt e

Bridges 2017].

L'immagine dell'uomo duro, forte, solo al comando rievoca una pagina buia del passato del nostro paese
contrassegnata dalla deriva autoritaria e fascista tristemente nota. Ciò nonostante l'idea di una persona,
anzi di un uomo duro e solo al potere é ancora presente e ha riscosso negli ultimi vent'anni notevole
consenso. Dalla sua fondazione nel 1991 la

Lega Nord si presenta con la guida di Umberto Bossi e il progetto secessionista della

Padania con una retorica politica marcatamente maschilista. Come osserva Francesca

Scrinzi [2014], negli scritti di Bossi la Padania emerge a tutti gli effetti come una nazione virile e i conflitti
politici tendono a essere espressi in termini militari con un Bossi guerriero che porta con sé la famiglia
simbolica dei leghisti sul campo di battaglia. Al grido «La Lega ce l'ha duro!», il programma politico del
movimento si nutre di

Proverò a delineare qui i contorni che assume il un'immagine in cui la prestanza sessuale è prestanza
politica. E oggi? Il 53 rapporto del

CENSIS sulla situazione sociale del paese pubblicato nel 2019 mostra un dato allarmante e assolutamente
coerente con quanto appena detto e con lo spirito del temp0 populista che domina, il desiderio di un uomo
forte che parli a nome e per conto del popolo, di cuiè espressione diretta e organica [Roccato et al. 2019]: il
48 per cento degli italiani dichiara che ci vorrebbe un uomo forte al potere che non debba preoccuparsi di
parlamento ed elezioni. Ancora più allarmante è che il dato sale al 56 per cento tra le persone con redditi
bassi, al 62 per cento tra i soggetti meno istruiti, al 67 per cento tra gli operai.

Il fascino dell'uomo duro e forte non fa presa solo nel nostro paese. Una figura senza dubbio emblematica
per descrivere la mascolinità autoritaria in politica è proprio quella dell'attuale presidente degli USA,
Donald Trump, già citato nel paragrafo 2. L'elezione di

Donald Trump è stata considerata come un tassello fondamentale nella storia di una mascolinità bianca ed
eterosessuale che si combina perfettamente con razzismo, sessismo e nazionalismo [Pascoe 2017]: il noto
slogan di rendere l'America di nuovo grande, Make
America Great Again, sembra celare, neanche troppo bene, un'altra promessa di grandezza riferita nello
specifico proprio ai maschi americani: Make American Men Great

Again (lo vedremo meglio nel par. 3.2.2).

Fin dalla campagna elettorale, Trump ha disegnato in modo netto e violento i contorni del profilo di quello
che possiamo definire un supermaschio dominatore, sia nel rapporto con le donne sia nel rapporto con gli
altri uomini. Per quanto riguarda il rapporto con le donne, il ritratto del maschio ostile alle donne emerge in
numerose circostanze. Trump ha apostrofato spesso in modo sessista numerose giornaliste, deridendo
altrettanto di frequente l'aspetto fisico, a suo parere non attraente, delle donne in generale e in particolare
della sua unica donna avversaria alle primarie Carly Fiorina: «Guardate quella faccia, ma chi voterebbe per
lei? Ve lo immaginate il nostro futuro presidente con quella faccia? Ok, è una donna e non dovrei dire cose
spiacevoli, ma davvero gente, siamo seri...». Non ha perso occasione di mettere in discussione le capacità di
leadership della sua avversaria democratica Hillary Clinton dubitando della sua «forza d'animo e resistenza
fisica» per gestire il paese, descrivendola durante un dibattito come una nasty woman, una donna odiosa.

Non trascurabile anche il suo comportamento nei confronti delle donne prima che si candidasse alla
presidenza USA, comportamento che gli è costato diverse grane durante la campagna elettorale e che
esprime perfettamente la dimensione di eterosessualità compulsiva di cui abbiamo parlato più volte nel
corso del volume. E stato accusato di avance sessuali indesiderate da più di una dozzina di donne (accuse
per lo più respinte dall'interessato). E stato costretto a scusarsi per i suoi «discorsi da spogliatoio», resi
pubblici in formato audio dal programma televisivo statunitense Access Hollyvwood, in cui si vantava,
grazie alla fama raggiunta, della sua capacità di aggredire sessualmente le donne afferrandole per gli organi
sessuali («Grab 'em by the pussy») commentando, tra le altre cose, che le donne ti concedono tutto
quando sei famoso.

Il suo profilo di uomo duro si delinea anche nel contrasto con altri uomini: gli avversari politici, democratici
e repubblicani che siano, quando dissentono da lui sono catapultati bruscamente nel territorio nemico,
diventando così bersaglio di ridicolizzazione e disprezzo. Le espressioni stereotipicamente devirilizzanti
quali «perdente», «con poco vigore», «buono a nulla» ricorrono nel linguaggio di Trump. Descrive il
senatore repubblicano John McCain, suo aspro avversario intern0 al partito, come un buono a nulla, un
inetto perché incapace a suo dire di difendersi durante la guerra del Vietnam (come un vero uomo avrebbe
dovuto fare, possiamo aggiungere) facendosi catturare (e torturare prima di essere liberato, sic!). Non è un
caso che la sua parola preferita per insultare qualcuno sia l'aggettivo debole [Carter 2019]. Ad esempio,
durante la campagna elettorale descrive l'allora presidente Barack Obama come «debole e inefficace», e lo
stesso fa in seguito per parlare del politico repubblicano Paul Ryan «debole, inefficace e stupido», o ancora
per descrivere Joe Biden, ex vicepresidente di Obama e attuale candidato democratico alla presidenza USA,
«penso che sia il più debole mentalmente».

Se per la descrizione degli avversari - interni o esterrni al proprio partito, poco importa - saccheggia tutto il
repertorio di insulti che rimarcano un'immagine inferiore rispetto all'ideale di mascolinità tradizionale, la
descrizione di sé avviene invece attingendo a tutte le caratteristiche proprie di quell'ideale di
supermaschio: un uomo combattente, forte, duro, di successo. La retorica delluomo forte si sostanzia
anche tramite prove pseudoscientifiche di una mascolinità dimostrabile «chimicamente». Durante le
elezioni presidenziali del 2016, il dott. Dareld Morris, proprietario di una piccola clinica in Florida, registra e
paga di tasca sua una campagna pubblicitaria a favore di Donald Trump. Lo zelante sostenitore di Trump
argomenta nel suo spot casalingo che un voto per la candidata democratica Hillary Clinton non sarebbe
stato solo una scelta politica sbagliata, ma addirittura un segnale preoccupante dello stato di salute del
potenziale elettore, o più precisamente l'esito di uno squilibrio ormonale a cui prestare la massima
attenzione. Nel suo spot, Morris propone dunque un'offerta speciale: un test per misurare il proprio livello
di testosterone, a suo avviso sicuramente più basso del normale negli uomini intenzionati a votare Hillary
Clinton [Wolfson 2019].

Questa trovata non è solo la marginale (oltre che strampalata) idea di un eccentrico dottore pro Trump
(vedi cap. 1 per una riflessione sui falsi miti relativi agli effetti del testosterone sul comportamento umano).
Basti pensare infatti che nella stessa campagna elettorale, e proprio nel momento in cui circolano voci su
possibili problemi di salute di

Hillary Clinton, Trump partecipa a una puntata speciale del programma televisivo americano Dr. Oz. Nel
corso della puntata, the Donald rende noti al pubblico proprio i suoi livelli di testosterone e il Dr. Oz
comunica entusiasta allo stesso pubblico come quei valori siano pienamente soddisfacenti. 3.2. Uomini duri
(e rabbiosi) al seguito

L'ideologia del suprematismo maschile non affascina solo i leader politici, ma anche le persone comuni.
Analizzando la relazione fra gli atteggiamenti degli americani riguardo alla mascolinità e il loro
comportamento elettorale nel 2016, Deckman e Cassese [2019] hanno mostrato come la campagna di
Donald Trump, tutta imperniata sull'idea di uomo forte al comando, ha risuonato in modo particolare
proprio tra gli uomini dei ceti socioeconomici più bassi. I sentimenti di marginalizzazione, di povertà
crescente, di insicurezza rispetto al futuro hanno portato questi uomini a essere sedotti dal rassicurante e
nostalgico ethos ipermascolino che si nutre della superiorità maschile sulle donne. DiMuccio e Knowles
[2020] hanno condotto una ricerca molto intrigante in cui hanno provato a testare la relazione fra la
mascolinità fragile degli uomini americani e le loro preferenze di voto, adottando un originale stratagemma
per testare su larga scala la loro ipotesi. Esiste uno strumento di Google, Google Trends, con il quale è
possibile misurare la frequenza con cui sono cercate online parole o frasi. Questo strumento di

Google, in sintesi, fornisce un quadro preciso dell'andamento della popolarità delle ricerche che le persone
fanno online in un dato periodo. Il team di ricerca ha iniziato a valutare così la frequenza di alcuni
argomenti tramite Google Trends collegati all'affannoso inseguimento degli ideali di mascolinità
tradizionale, fra cui quello relativo alla «disfunzione erettile» che conteneva al suo interno anche la ricerca
relativa alla parola «impotenza», Nello specifico, è stato misurare la popolarità della ricerca di queste
parole negli Stati Uniti negli anni precedenti alle ultime tre elezioni presidenziali americane. Dai risultati è
emerso qualcosa di molto interessante: il sostegno per Trump, nelle ultime elezioni era più alto nelle aree
dove Google Trends indicava una più frequente ricerca del tema relativo alla disfunzione erettile.
Diversamente, nessuna relazione è emersa fra questa ricerca e il supporto per i candidati repubblicani Mitt

Romney nel 2012 e John McCain nel 2008. Questi risultati provengono da una ricerca correlazionale che
non consente di individuare una direzione causale della relazione frai due termini in esame. Non è insomma
possibile comprendere, delle due variabili 'interesse per la disfunzione erettile, come emerge da Google
Trends, e il voto per

Trump), quale sia la causa e quale sia l'etfetto. Ciò nonostante essi sembrano indicare una tendenza su cui
riflettere: l'adesione a una visione ipertradizionale della mascolinità (con tutto il suo portato di fragilita) è
un correlato importante del comportamento elettorale degli uomini americani proprio negli ultimi anni.

Approfondiremo ora come P'adesione all'ideologia del suprematismo maschile permea le idee, gli
atteggiamenti e il comportamento degli uomini cosiddetti «comuni» nella scena pubblica partendo dai casi
più estremi e inquietanti di violenza stragista fino alla galassia - online e offline - dei movimenti degli
attivisti per i diritti degli uomini. 3.2.1. Suprematismo maschile e terrorismo

Nel luglio del 2011, l'Europa è sconvolta da due contemporanei e sanguinosi attentati in

Norvegia, il più grave dei quali, in termini di vittime, avvenuto a Utøya, un'isola poco distante da Oslo. Li,
ragazi e ragazze sostenitori del partito laburista norvegese si erano radunati per un campo estivo. Giunto
nell'isola, l'allora trentaduenne Anders Breivik, per quasi due interminabili ore, fa fuoco contro giovani
vittime inermi. L'isola si trasforma in un inferno, una trappola da cui è quasi impossibile salvarsi. Si consuma
così un attentato pianificato da nove lunghi anni, che vede 77 8iovani vite interrompersi drammaticamente.
Perché raccontare questa tragedia? Quale relazione è presente fra questa strage e lideologia di
suprematismo maschile qui in esame? La relazione, come è stato possibile ricostruire dall'analisi del
delirante manifesto programmatico di 1.518 pagine redatto da Breivik e intitolato 2083: una dichiarazione
europea di indipendenza, è chiara oltre che inquietante. L'azione terroristica viene descritta come
l'energico richiamo per scuotere un'Europa cristiana allo sbando e la sua necessità motivata con lodio
versso le élite multiculturali, ma anche verso i movimenti femministi per l'emancipazione delle donne
responsabili della decadenza della società occidentale [Jones 2011]. L'introduzione del documento è tutta
dedicata alla critica del «politicamente corretto» e dell'ideologia femminista, entrambi volti a trasformare il
patriarcato, l'unico sistema sociale legittimo per Breivik, in matriarcato, attraverso l'evirazione simbolica dei
maschi eterosessuali e cristiani europei. L'Europa, un tempo orgogliosa, virile e inespugnabile, è stata
infettata per il terrorista da una progressiva femminilizzazione che ha reso gli uomini un'indegna
sottospecie delle donne. La degenerazione della civiltà cristiana occidentale, secondo

Breivik, è intimamente legata all'innaturale richiesta delle donne di uguaglianza e il destino della civiltà
europea è per questo nelle mani degli uomini e della loro capacità di resistere al femminismo.

Breivik non è un caso isolato di terrorismo occidentale associato al suprematismo maschile. I casi negli Stati
Uniti, ad esempio, sono numerosi. Sebbene le violenze di massa siano spesso spiegate mediaticamente con
la malattia mentale, con il consumo di media violenti o con il possesso di armi da parte degli attentatori, sta
acquisendo sempre più attenzione, in termini sia mediatici sia di studi scientifici condotti a riguardo, la
relazione fra suprematismo maschile e terrorismo stragista. In una recente ricerca condotta da

Melissa Johnston e Jacqui True (2019] in Asia (Indonesia, Bangladesh e Filippine) e in

Africa (Libia) per conto dell'ONU è emerso che il sessismo ostile e l'idea che la violenza contro le donne sia
una pratica accettabile si associano al supporto dell'estremismo violento.

Ritornando in occidente, nel 2014, in California, nel cosiddetto massacro di Isla Vista, dal nome della
località dove si sono verificati i tragici fatti, lo studente universitario Elliot

Rodger, prima di suicidarsi, uccide 6 persone e ne ferisce 14. Prima di compiere la brutale carneficina,
Rodger carica su YouTube un video di 6 minuti in cui racconta di non aver mai ricevuto un bacio da una
ragazza e di essere ancora vergine, suo malgrado, dopo due anni di college; esprime il uo rancore verso le
donne che lo hanno rifiutato, che hanno concesso non a lui, ma ad altri uomini affetto e sesso, e promette
ifine un fiume di sangue nel college e nelle vie di Isla Vista [Olimpio 2014]. Nel 2015, nell'Umpqua

Community College, in Oregon, un altro giovane uomo, Chris Harper-Mercer, uccide 9 persone
immediatamente prima di togliersi la vita, lasciando un manifesto in cui celebra l'attentatore californiano
Elliot Rodger. Nel 2016 in una scuola superiore della Florida

Nikolas Cruz, sempre dichiaratosi un seguace di Rodger, uccide 17 studenti. Anche in

Canada si sono verificati casi simili. Nel 2018, a Toronto, il ventiseienne Alex Minassian alla guida di un
furgone investe e uccide 10 persone ferendone 16. Prima dell'attacco pubblica un post su Facebook dal
titolo La ribellione degli Incel (termine che deriva dalla combinazione di In-volontariamente e cel-ibe) è
iniziata. Anche in Germania, il quarantatreenne Tobias Rathjen, terrorista suicida che nel febbraio del 2020
ha ucciso 9 persone in due shisha bar della città di Hanau, si è dichiarato un Incel.

Per il sociologo americano Michael Kimmel, che nel 2018 ha dedicato un volume proprio al tema dell'
estremismo violento occidentale, l'obiettivo fondamentale di queste violenze è quello di diminuire il senso
di vergogna associato a una mascolinità percepita come sotto attacco attraverso due strategie: la prima, più
pacifica, è quella di puntare sull'orgoglio maschile che diventa un collante per fare comunità e costruire
appartenenza attorno al vittimismo. Se peró il senso di devirilizzazione genera una vergogna profonda che
non riesce a essere sedata dall'orgoglio, si approda alla violenza. La violenza avrebbe la funzione in questo
senso proprio di ridurre o debellare il senso di vergogna e frustrazione da cui questi uomini si sentono
sopraffatti.

Il quadro a tinte fosche tracciato fino a questo momento sollecita reazioni emotive contrapposte. Da un
lato emerge un'angosciante inquietudine per la violenza di questi attentati terroristici inneggianti, a vario
titolo, al suprematismo maschile. Dall'altro il loro carattere di (apparente) eccezionalità suscita la
rassicurante sensazione che, in fondo, sono fenomeni estremi, sporadici e in definitiva lontani anni luce
dalla nostra ben diversa e pacifica realtà quotidiana. Tuttavia, se la dimensione di violenza fisica dei
movimenti suprematisti maschili ha un carattere non sistematico, ciò non toglie che la galassia di
movimenti per i diritti degli uomini, il più delle volte portatori di istanze apertamente e violentemente
misogine, sia cresciuta negli ultimi vent'anni in modo significativo e preoccupante. A essi è dedicato il
paragrafo che segue. 3.2.2. I movimenti per i diritti degli uomini: i «Men's Rights Activists» È molto più
comune di quanto si pensi la fascinazione degli ideali tradizionali di mascolinità per alcuni uomini - giovani e
meno giovani - accomunati in fondo dalla stessa fragilità. E una rabbiosa nostalgia ad alimentare questa
fascinazione, nostalgia di un passato idilliaco, celebrato come privo di difficoltà e tensioni di genere, un
passato insomma in cui i maschi erano rispettati e apprezzati. ILa forza fisica, l'autocontrollo e il potere che
definivano l'identità dei nostri padri e dei nostri nonni sono andati in frantumi e la causa di ciò è individuata
nei cambiamenti sociali generati da un'incomprensibile e oltraggiosa militanza delle donne femministe,
persone per natura rapaci e malevole (vedi fig. 4.1).

Ritorniamo dunque alla definizione prima fornita di suprematismo maschile, fenomeno sociale
corrispondente alla considerazione delle donne da un lato come persone inferiori e meno intelligenti degli
uomini e dall'altro come perfide manipolatrici. In questa visione, il valore delle donne viene relegato alle
loro funzioni riproduttive e sessuali. Fin qui, possiamo dirlo senza timori, nulla di nuovo rispetto all'arcinoto
sessismo vecchio stampo.

Perché allora adottare questa nuova espressione? Abbiamo dell'ennesima etichetta per definire un
fenomeno già noto? La risposta a questa domanda è si, dal momento che qualcosa di nuovo tinge questa
versione 2.0 del maschilismo ed è quelo che «rappresaglia», sintetizza bene. oroprio bisogno l'espressione
backlash, traducibile con litaliano «contraccolpo»,

MASCOLINITÀ ED ESTREMA DESTRA

Suprematismo maschile

Suprematismo bianco occidentale

Uomini duri e rabbiosi al comando

Uomini duri al comando

Razzializzazione del sessismo

Femonazionalismo

Movimenti

Terrorismno per i diritti degli uomini stragista

Superiorità occidentale
Superiorità maschile

FIG. 4.1. Mascolinità ed estrema destra.

Che cos'è il backlash? Il backlash è una risposta di stampo politico reazionario di fronte alle spinte di
cambiamento politico e sociale promosse da un gruppo sociale. Il termine descrive nello specifico la
reazione di un gruppo dominante che avverte il proprio potere in bilico, o in declino, per le istanze di
cambiamento sociale fatte proprie da un altro gruppo, percepito come rivale. Il senso di titolarità, di
legittimità del gruppo dominante rispetto alla propria condizione avvantaggiata si accompagna a una
condizione di completa invisibilità agli occhi dei suoi componenti dei privilegi di cui godono (ma ben visibili
agli occhi dell'altro gruppo che si mobilita per cambiare le cose). Ne consegue un sentimento di oltraggio
poiché il proprio diritt0 «naturale», il proprio potere è stato messo «ingiustamente» in discussione [Faludi
1991; Mansbridge e Shames 2008].

Il sociologo americano Michael Kimmel nel suo libro del 2017 Angry White Men (Uomini bianchi rabbiosi)
ha brillantemente introdotto l'espressione lesa titolarità, aggrieved entitlement, per spiegare il
suprematismo maschile e il mondo dei cosiddetti Men's Rights

Activists (da questo momento in poi, MRA), gli attivisti peri diritti degli uomini. Che cos'è questa lesa
titolarità per Kimmel e chi sono gli attivisti per i diritti degli uomini? Per rispondere alla prima domanda, la
lesa titolarità puð essere descritta come la rabbia furiosa che proviene dalla fusione di due sentimenti: il
senso di titolarità e il vittimismo.

La figura emblematica nel discorso suprematista maschile è quella dell'uomo bianco occidentale ferito e
umiliato nella sua virilità dalle donne emancipate sempre più avide nella richiesta di diritti da sottrarre e da
usurpare agli uomini. Il presunto declino sociale provocato dalle istanze progressiste dei partiti e movimenti
di sinistra ben si sintetizza nella mascolinità aggredita e umiliata. Se la mascolinità barbarica della
minoranza etnica rappresenta una minaccia per la famiglia e per la nazione dall esterno, l'altro pericolo,
altrettanto insidioso, in quanto interno alla società occidentale, è proprio il movimento femminista. Il
femminismo ha rivoluzionato la gerarchia sociale considerata naturale, ha raccontato un mondo di
discriminazione femminile che non corrisponde alla realtà.

L'unica risposta possibile è quella dell'uomo forte e duro al comando nella vita pubblicaae privata. Questa
rabbia deve essere mantenuta accesa con costanza. Da un punto di vista personale, ciò avviene coltivando
rancore nei confronti di malvage ex fidanzate, ex mogli, colleghe di lavoro ecc., colpevoli di perfide azioni ai
danni degli uomini. Da un punto di vista collettivo, lo sforzo è di portare contenuti all'idea che gli uomini
come gruppo sono stati attaccati nei loro diritti e feriti nella loro dignità. Il messaggio è chiaro, chi è
colpevole di questa situazione deve pagare e quel colpevole ha un nome preciso: il movimento femminista.

Come possiamo ricostruire la storia del movimento degli MRA, degli uomini bianchi arrabbiati? E
interessante che esso trovi le sue radici proprio nella cosiddetta seconda ondata del femminismo degli anni
Settanta del secolo scorso [Kimmel 2017]. Nel movimento interessato alla liberazione degli uomini si è poi
assistito negli anni Ottanta a un vero e proprio scisma. Da un lato la corrente profemminista portavoce di
una proposta radicale di cambiamento sociale e dall'altro quella marcatamente antifemminista con una
visione ipertradizionale dei ruoli di genere. Nel secondo caso, in sintesi, la fonte del malessere e delle
difficoltà personali e sociali degli uomini non è individuata nel ruolo tradizionale maschile, ma anzi nella sua
perdita di importanza. Invece di mettere in discussione quegli ideali di mascolinità che abbiamo visto essere
cosi pericolosi per il benessere maschile, la scelta è di aggrapparsi a immagini nostalgiche, mitiche e
granitiche di mascolinità tradizionale. Sentirsi e descriversi come le vittime, come il bersaglio sbagliato di un
sistema ingiusto rende le emozioni negative di impotenza, insicurezza, e soprattutto di oltraggio,
socialmente accettabili, dando legittimazione e rilevanza politica al senso personale di essere feriti.
La bibbia del movimento degli MRA coincide con il volume pubblicato nel 1993 da

Warren Farrel, The Myth of Male Power. Nel testo di Farrell, a partire da una falsa equivalenza fra
l'oppressione delle donne e l'oppressione degli uomini, si afferma che la supremazia maschile è solo
un'illusione: secondo l'autore, cosi come guardando superficialmente un uomo in uniforme che guida
un'automobile si può avere limpressione che sia al comando, decidendo il tragitto da seguire, ma poi a ben
guardare è solo l'autista che esegue gli ordini di qualcun altro, seduto nei posti piü comodi e non visibile
attraverso i vetri oscurati, altrettanto accade per gli uomini a livello sociale. Va detto che in questo testo e
in generale nelle istanze degli MRA si mettono a tema alcuni- ribadisco solo alcuni - aspetti senza dubbio
rilevanti: la perdita dell'abitazione degli uomini per la crescente povertà, la mancanza di centri protetti per
uomini vittime di violenza domestica, i contenziosi per l'affidamento dei figli in caso di divorzio. Le questioni
sono più che degne di considerazione: il nodo problematico è, tuttavia, con quale tipo di soluzioni si prova a
rispondere alle stesse. Non si mettono in discussione le regole di un sistema - 1 patriarcato disfunzionale e
causa (anche) di malessere e sofferenza (anche) per gli uomini. La strada che si sceglie di percorrere è
quella di denigrare chi è considerato il presunto avversario, oVvero le donne, la controparte malevola di un
sistema invece equo. Insomma, la partita che si sta giocando è giusta, sono gli altri giocatori, anzi le altre
giocatrici, il problema. Il femminismo viene rappresentato come un movimento anacronistico e assetato di
potere, un pericolo per la società e per le stesse donne che promette di liberare. Esso viene delegittimato
attraverso affermazioni evidentemente false le donne sarebbero già in una condizione di uguaglianza con
gli uomini -o paranoiche - le politiche egualitarie avrebbero armato le donne di un potere enorme e funesto
contro gli uomini [Jordan 2019].

Un tema molto caro agli MRA tanto da generare un sottomovimento esplicitamente dedicato a esso, il
Father's Rights Movement, il movimento per i diritti dei padri, è quello della gestione dei figli nei casi di
divorzio. Gli MRA spesso individuano nel trattamento riservato agli uomini rispetto alla controparte
femminile nei processi per l'affidamento dei figli il segnale più indicativo della discriminazione maschile, la
prova che le vere vittime nel sistema di genere, completamente colonizzato dal femminismo, sono i maschi,
non le femmine. Gli uomini sono derubati dei loro diritti come padri in un sistema completamente a favore
delle donne. Sono molti gli esempi di questi movimenti in

Australia, Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera e anche nel nostro
paese [Jordan 2019]. L'importanza delle pratiche e dei lavori di cura è espressa in una dimensione che
potrebbe essere in qualche modo assimilata anche alle istanze femministe nella misura in cui si contrasta la
visione essenzialista che vede le donne come le uniche a essere in grado di assumere al meglio le funzioni
genitoriali. I1 punto problematico però è che questa attenzione alla paternità in realtà è valorizzata solo
nella misura in cui si definisce nel conflitto con la partner femminile e non in assoluto come dimensione da
curare a prescindere dal contenzioso con la partner. All'interno del rapporto matrimoniale, infatti, in modo
contradditorio e incoerente, la madre è considerata la prima e più importante figura di accudimento.

Di importanza fondamentale per capire gli MRA è il contesto online soprattutto statunitense dove pullula
una galassia di gruppi e movimenti antifemministi, dai nomi che si spiegano da soli quali: Boicotta le donne
americane, Il controfemminista, La società del falso stupro ecc. Questo universo abbastanza omogeneo
rispetto ai temi trattati ha preso il nome di manosphere (che potremmo tradurre in italiano come
uomosfera). I1 termine, apparso per la prima volta nel 2009 su un blog per descrivere una rete online di
comunità di interessi maschili, è diventato popolare grazie a Ian Ironwood, autore nel 2013 del volume The
Manosphere: A New Hope for Masculinity. Prontamente fatto proprio sia dagli MRA sia dai giornalisti che
ne scrivono, la uomosfera da allora ha ricevuto una notevole attenzione da parte dei media, in particolare
per la sua estrema misoginia. Nel 2009, Paul Elam, amico e protetto di Warren Farrell, fonda uno dei siti più
violenti e misogini di questa galassia, A Voice for Men (AVFM), e nomina il mese di ottobre come il bash a
violent bitch month, il mese del «Colpisci una stronza violenta». Fra le sue dichiarazioni, la seguente del
2007 può aiutare a capire meglio di chi stiamo parlando:
La figa è lunica reale forma di empowerment che le donne potranno mai conoscere. Metti da parte le
velleità senza speranza dell'ideologia femminista e ciò che ti rimane è l fatto che sono solo ed
esclusivamente gli uomini che inventano la tecnologia, costruiscono nazioni, curano le malattie, creano
imperi e fanno avanzare la civiltà. Le donne [...] dipendono dagli uomini per questo e lunico strumento che
hanno a disposizione per avere qualsiasi tipo di influenza sul mondo è il potere della figa e la figa è davvero
potente [...]. La robotica sessuale potrebbe essere la cosa migliore che sia mai accaduta alle donne dal
punto di vista della loro umanità [..] cosa accadrebbe alla stragrande maggioranza delle donne che
improvvisamente dovrebbero dimostrare il loro valore di esseri umani oltre a essere semplicemente le
proprietarie di figa [citato in Barth 2018].

Un altro personaggio di spicco del movimento degli MRA è Mike Cernovich, autore del volume La mentalità
del gorilla. Come dominare l'animale che è dentro di te e vivere una vita di salute, ricchezza e libertà. Nel
2011, Cernovich fonda il blog Danger and Play, un «magazine online per uomini alpha», dove l'autore offre
consigli di fitness, stile di vita e propone numerose riflessioni sullo stupro e la sua legittimità (fornendo
anche indicazioni su come difendersi da false accuse di stupro): la forma più naturale di sesso, sostiene

Cernovich, é proprio lo stupro. A suo dire, sebbene basti cercare su Go0gle un'immagine di come si
accoppiano i leoni per capirlo alla svelta, non riusciamo ad accettare questa realtà e il motivo è che
abbiamo rinunciato alla nostra vera natura, quella istintuale. In queste parole si chiarisce una volta per
tutte perché se alcune istanze dei MRA sono in parte comprensibili, altre, come quelle appena descritte,
sono assolutamente inaccettabili.

Negli Stati Uniti, Cernovich è noto anche per aver contribuito alla diffusione di fake news sui problemi di
salute di Hillary Clinton durante la campagna elettorale presidenziale e sulla presunta pedofilia e traffico di
bambini da parte di politici democratici.

Sempre continuando a delineare il profilo dei personaggi che popolano la uomosfera, un riferimento
obbligato, se così si può dire, è al blog il cui nome Return of Kings è già tutto un programma. Il blog è per i
pickup artists, gli artisti del rimorchio, uomini con l'obiettivo di manipolare le donne per arrivare ad avere
rapporti sessuali con loro. II fondatore del blog, Daryush Valizadeh, noto come Roosh V., afferma che lo
stupro dovrebbe essere legale quando avviene nella proprietà privata dell'uomo (in fondo se la ragazza è
entrata in casa, quello è un inequivocabile segno di consenso). Roosh V. pubblica video che raggiungono
migliaia di visualizzazioni, scrive post dai titoli «7 modi moderni in cui le donne trattano gli uomini come dei
cani», «Quando il suo no vuol dire si», «Perché le donne non dovrebbero lavorare», o ancora «Se odi il
patriarcato, allora ridacci indietro la nostra elettricità» (nostra!?) e organizza diversi incontri con i suoi
sostenitori in diversi paesi del mondo, dagli USA all'Australia fino all'Europa.

Nella galassia dei gruppi MRA online, anche gli Incel meritano di essere menzionati, gruppi di «celibi
involontari» che abbiamo già incontrato esaminando le stragi compiute negli USA e in Canada. Gli Incel si
incontrano online nei forum specifici a loro dedicati, parlando dei propri sentimenti di sconfitta personale e
sociale causati dal non avere alcun tipo di relazione con le ragazze. Sono furiosi con le donne perché
scelgono uomini con cui avere relazioni sessuali e sentimentali solo sulla base dell'aspetto, del denaro e
dello status (LMS, look, money, status) e per questo, a causa del proprio aspetto sgradevole e della cronica
mancanza di popolarità, si sentono ingiustamente fuori da quello che loro intendono come una sorta di
mercato sessuale. Quelli più estremi sono convinti che la propria condizione di perdenti nel mondo non
abbia speranza di migliorare e per questo lunica rivalsa possibile sia aggredire, insultare e minacciare le
donne online, arrivando nei casi piu estremi alle tragedie di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente

Scaptura e Boyle 2019].

Nel 2016, Cassie Jaye, una documentarista e regista americana, dichiaratasi orgogliosamente ex
femminista, pubblica il documentario The Red Pill (finanziato in parte proprio da Mike Cernovich) in cui
racconta il mondo dei Men's Rights Activists intervistando molti militanti e personaggi di spicco, fra cui Paul
Elam e Warren Farrell, e fornendo un quadro parziale e acriticamente favorevole a tale movimento. Anche
questo documentario è fondamentale nel rapido sviluppo degli ultimi anni della subcultura del movimento
per i diritti degli uomini. Il concetto della pillola rossa trae spunto dal film del 1999 The Matrix, in cui
Morpheus, capitano della città di Zion, offre a Neo, il protagonista, la scelta di assumere una sola fra due
pillole, o quella blu o quella rosa. Prendere la pillola blu significa continuare a vivere una vita di illusione;
prendere la pillola rossa significa aprire gli occhi ma essere illuminati da una triste verità. Nel caso del
documentario, la pillola rossa (red pill) permette agli uomini di risvegliarsi dal «lavaggio del cervello» del
femminismo e dalla miseria in cui ha catapultato gli uomini, svelando agli uomini stessi che sarebbero loro a
trovarsi in una condizione discriminata e subalterna rispetto alle donne e non viceversa.

Gli attivisti dei movimenti per gli uomini non sono solo interessati a evangelizzare gli uomini ma rivolgono le
loro maschie intenzioni di proselitismo anche alle donne, con risultati che potremmo definire farseschi, se
non fossero drammatici. Nel maggio 2020, ad esempio, a Orlando in Florida si tiene una convention di tre
giorni intitolata Make Women

Great Again. Il sito dedicato alla convention, dove è possibile acquistare i biglietti per l'evento alla modica
cifra di 1.000 dollari, è realizzato completamente con uno sfondo in rosa shocking, probabilmente per
consentire, all'eventuale MRA smarrito che vi accede per caso, di capire senza ambiguità che è una roba per
donne. Si promette, parole testuali, l'evento più importante per le donne fatto dagli uomini» e le parole
«fatto dagli uomini» sono sottolineate, per chiarire che sono proprio gli uomini e non le donne a farlo, e per
enfatizzare l'evidente valore aggiunto della cosa. Nel sito si spiega come oggi i dogmi tossici femministi
producano tassi vertiginosi di divorzio, depressione, e una confusione disastrosa in cui gli uomini finiscono
per agire come le donne e le donne come gli uomini, con il risultato che va tutto in malora e niente
funziona davvero. I bianchi e barbuti organizzatori promettono, per questo, un'esperienza miracolosa di tre
giorni e tre notti () con i corrispettivi barbuti relatori della uomosfera (fra cui il Mike Cernovich di cui
abbiamo parlato prima). L'obiettivo è consentire alle partecipanti di abbandonarsi felicemente alla propria
antica natura biologica di donne e potenziare del 500 per cento (è scritto proprio cosi, 500 per cento!) la
propria femminilità. Fra i titoli specifici dei seminari, «Mantieniti nella migliore forma fisica di sempre» (Get
in the best shape ever), «Resta incinta e fai un numero infinito di figli» (Get pregnant and have unlimited
babies), «Vinci la sfida e diventa la moglie migliore di tutte» (Beat the competition - become the ultimate
wife).

Un altro esempio emblematico del modo di operare degli MRA è la mobilitazione online per la cosiddetta
campagna Gamergate, una vera e propria campagna squadrista che ha ricevuto molta attenzione mediatica
e scientifica. Nel 2013, studiose di media e

Sviluppatrici di videogiochi, fra cui Zoé Quinn, Brianna Wu e Anita Sarkeesian, hanno criticato
pubblicamente - con articolio con la realizzazione di veri e propri documentari - la cultura sessista nel
mondo dei videogiochi. Con il pretesto di difendere la libertà di pensiero, tutelando il mondo dei
videogiochi da chi voleva censurarne la creatività, una vera e propria guerriglia si è scatenata contro queste
donne, diventate bersaglio di una campagna online e offline feroce, con ripetute e sistematiche minacce di
stupro e di morte [Chess e Shaw 2015].

Esiste uno stretto collegamento fra i movimenti degli MRA e l'estrema destra dei suprematisti bianchi (fra
cui il movimento americano alt-right; Shaw [2018]). Nel sito di informazione di destra Breitbart News,
diretto dal noto Steve Bannon, uno dei principali spin doctors di Trump, ad esempio, il femminismo è
paragonato, senza troppi giri di parole, a un cancro. Nel 2017, alcuni attivisti dell'alt-right hanno
organi1zzato la conferenza Make Men Great Again e Christopher Cantwell, un noto neonazista americano,
ha scritto un post per il blog A Voice for Men di Elam di cui abbiamo parlato prima. Il
Southern Poverty Law Center, che monitora i gruppi che istigano all'odio negli USA, e a cui si rimanda per
una disamina puntuale degli MRA nordamericani, ha inserito gli MRA nella lista di gruppi che istigano
all'odio e che costituiscono un pericolo per gli USA a causa dei contenuti violenti e misogini che
diffondono0.

Da questo affresco grottesco e inquietante che ho appena tracciato, l'impressione che, a torto, se ne puo
trarre é di avere di fronte un movVimento online di persone che, seppur numeroso, in fondo costituisce un
coacervo di outsider, persone dagi strumenti culturali abbastanza limitati che possono in ultima analisi
ambire a colonizzare solo una ben precisa nicchia sociale, costituita esclusivamente da altri outsider come
loro.

Sarebbe, tuttavia, una conclusione sbagliata, dal momento che il movimento degli MRA include al suo
interno anche studiosie studiose universitari che hanno fornito con il loro contributo una parvenza di
pseudoscientificità al movimento. Paul Nathanson e

Katherine Young, docenti di religious studies presso la canadese McGill University, ad esempio, hanno
scritto numerosi volumi dal 2001 ostinatamente dedicati al tema della misandria, quali ad esempio
Diffondere la misandria, Legalizzare la misandria e Santificare la misandria.

Il termine misandria viene ripreso e celebrato da Nathanson e Young per indicare il presunto clima culturale
di odio e di disprezzo nei confronti degli uomini (bianchi

Occidentali). La misandria a loro dire costituisce una pericolosa ideologia generata dal femminismo che
avrebbe infettato ogni aspetto della vita culturale nordamericana e occidentale demonizzando e
perseguitando gli uomini con l'obiettivo di individuare nel genere l'unica fonte di identità individuale. La
debolezza del costrutto che viene proposto come speculare a quello di misoginia è evidente ed è stata
criticata da molti. Ammesso e non concesso che la misandria corrisponda a un fenomeno realmente
esistente (per una problematizzazione del tema vedi il concetto di razzializzazione del sessismo, presentato
nel par. 2), essa manca della dimensione sistemica, istituzionalizzata e legalizzata che ha caratterizzato nei
secoli la misoginia. Inoltre, come l'antropologo David Gilmore [2001] ha ben spiegato, l'equivalenza fra
misandria e misoginia è banalmente scorretta. Quando si prende di mira la misoginia, la critica che il
movimento femminista porta avanti non è assolutamente agli uomin tout court, ma ai processi Sistemici
che sono alla base di un modello culturale patriarcale. L'obiettivo del movimento femminista è infatti quello
di abbandonare i ruoli tradizionali maschili e femminili che possono essere fonte di malessere non solo per
le donne ma anche per gli uomini, come del resto abbiamo avuto modo di documentare in modo
dettagliato fino a questo momento. Resta interessante riflettere su un punto. Si pensi all'esaltazione
negativa e strategica di personaggi estremi e marginai che poco hanno a che fare con la storia del
femminismo come Valerie Solanas, autrice del volume Manifesto per l'eliminazione del maschio o in senso
più generale all'uso diffuso del termine nazifemminista, coniato proprio per popolarizzare lidea che il
femminismo sia associato all'assenza di libertā di pensiero e ala violenza, come il sistema politico del
nazismo. Questi sono esempi concreti di denigrazione e criminalizzazione del movimento femminista, un
dispositivo noto e frequente nel corso della storia che è stato adottato per delegittimare le istanze di una
minoranza attiva al fine di mantenere e difendere proprio lo status quo che le minoranze provano a
sovvertire. Del resto, l’idea delle femministe come odiatrici degli uomini (man-haters) è vecchia quanto il
femminismo. Il termine misandria però consente di realizzare qualcosa di più efficace poiché assume una
funzione ideologica performativa. Adottare questa parola consente infatti agli MRA di appropriarsi di un
linguaggio più politico, una sola parola diventa sufficiente per riconoscersi in termini identitari in un
universo culturale preciso attraverso la delegittimazione del femminismo e delle sue istanze, tout court
squalificate come antimaschili, attraverso la diffusione di generalizzazioni denigratorie sulle donne
femministe e infine tramite la reificazione del ruolo di vittime del sistema per gli uomini

Marwick Caplan 2018].


Nel quadro accademico che stiamo tracciando non mancano anche autori di volumi bestseller come Jordan
Peterson, professore di psicologia clinica presso l'Università di

Toronto, in Canada, e vera e propria star accademica del movimento. Nel pensiero di

Peterson, il privilegio degli uomini bianchi è solo un mito e le donne e gli uomini sono essenzialmente e
irriducibilmente diversi e per questo dovremmo dare spazio alla vera essenza della nostra umanità (in
barba a tutto quello che le evidenze scientifichea riguardo ci dicono, di cui ho parlato nel cap. 1). Nel testo
12 regole per la vita. Un antidoto al caos, che ha venduto più di 3 milioni di copie, si descrive l'ordine come
maschile e il caos come femminile e sebbene si dichiari che entrambi sono fondamentali nella vita delle
persone il titolo del libro definisce in modo limpido qual è il principio che l'autore preferisce e quale quello
che ritiene vada contrastato. Nelle sue analisi, che emergono più spesso nelle sue dichiarazioni pubbliche
piuttosto che nei suoi lavori scientifici, Peterson denuncia come il patriarcato sia stato a torto criminalizzato
e la vera rappresaglia in atto sia quella che avviene contro la mascolinità, il tutto facendo riferimento
strategicamente ad alcuni studi selezionati ad hoc e non alle evidenze scientifiche che vanno
coerentemente in una direzione diversa rispetto a quanto da lui sostenuto. Si è espresso apertamente
contro l'American Psychological Association per le Linee guida per la pratica psicologica con i ragazzi e gli
uomini pubblicate nel 2018 (di cui parlerò nelle conclusioni in modo più dettagliato) ed è noto per le sue
opinioni scettiche contro il cambiamento climatico, tema che ci conduce direttamente al prossimo
paragrafo. 3.2.3. Singolari convergenze fra negazionismo climatico, disinteresse per l'ambiente e
suprematismo maschile

I cambiamento cimatico è quel fenomeno per cui, per effetto di cause sia naturali sia antropiche, si è
verificato, negli ultimi cento anni, un aumento eccezionalmente rapido della temperatura terrestre.
Sebbene la maggior parte degli scienziati e delle scienziate converga nel riconoscimento dell'effettiva realtà
di questo fenomeno, il tema ha sollevato in passato e ancora oggi solleva in molte persone atteggiamenti di
fiera indifferenza o di perplessa diffidenza fino ad arrivare all'aperta negazione.

Cosa c'entra tutto questo con il suprematismo maschile? Anche qui possiamo individuare diversi livelli di
intensità di questa relazione. Partiamo, ad esempio, da una persona che è diventata alla fine dei recenti
anni Dieci il simbolo dell'attivismo ambientalista, la svedese Greta Thunberg, e dalle reazioni nei suoi
confronti. Greta

Thunberg ha iniziato all'età di 15 anni la sua personale forma di protesta saltando la scuola ogni venerdi e
scioperando in modo solitario seduta davanti al parlamento svedese. L'immagine di questa ragazza con
lormai iconico impermeabile giallo per ripararsi dalla pioggia e con il cartello Skolstrejk for klimatet
(Sciopero per il clima) ha fatto ben presto il giro del mondo scatenando diverse reazioni. Nel corso di un
annoe mezzo, il suo attivismo ha ricevuto una risonanza mediatica globale: il success enorme fra i ragazzi e
le ragazze della sua età ha dato vita a un vero e proprio movimento, Fridays for Future, la nota rivista
«Time» lha messa in copertina per il 2019 come la persona dell'ann0, la prestigiosa rivista «Nature» lha
inserita tra i dieci personaggi scientifici del 2019 e, ultimo ma non ultimo, è stata candidata al Nobel per la
pace 2019. Accanto alle reazioni entusiastiche rispetto al suo operato, è possibile registrarne di altrettanto
negative nei suoi confronti.

Ciò che è interessante non è tanto rilevare questo dato, più che comprensibile direi, poiché ogni fenomeno,
quando diventa globale, come è avvenuto nel suo caso, può suscitare reazioni diverse e non sempre
positive. Ciò che colpisce è il modo in cui le reazioni negative si articolano rispetto a Greta Thunberg come
persona e come attivista.

Un elemento ricorrente è linfantilizzazione: è un'adolescente, ma viene descritta come una bambina. A


questo si aggiunge molto altro. L'attivista inglese di estrema destra David
Vance ha attaccato la «assoluta petulanza di questa bambina arrogante», il pastore evangelico
conservatore del Colorado Kevin Swanson le ha dato del'indemoniata e il commentatore australiano
Andrew Bolt ha scritto di lei: «Non ho mai visto una ragazza cosi giovane e con cosi tanti disturbi mentali
trattata da cosi tanti adulti come una guru .. Sembra ossessionata da visioni apocalittiche, oltre che
cronicamente ansiosa e disturbata». Confondendo la sindrome di Asperger, da cui è affetta, con la malattia
mentale, è stata ed è dunque bersaglio di quelle accuse di isteria, instabilità mentale e carattere demoniaco
che di solito troviamo regolarmente nella lista delle caratteristiche femminili che servono a rimettere le
donne «al proprio posto» nello spazio privato e pubblico [Nelson e Vertigan 2019].

Anche in Italia non sono mancate reazioni negative. Il quotidiano «Libero» ha titolato su di lei La rompiballe
va dal papa. Vieni avanti Gretina e il direttore Vittorio Feltri ha dichiarato: «Se fosse mia figlia, la prenderei
a schiaffi per mandarla a scuola invece di andare a fare l'imbecille per il mondo dove non imparerà niente e
continuerà a sentirsi il padre eterno». Emerge dunque come lirritazione e il disprezzo nei suoi confronti
siano delle reazioni comuni nelle persone che la criticano.

Ma perché tutta questa acredine? Per quali ragioni accade questo? Un primo dato da rilevare è che il suo
modo di porsi è lontano dalle prescrizioni di genere per le donne; Greta Thunberg non è rassicurante, non
prova a essere carina mostrandosi sorridente, non è affabile, non è né docile né deferente al cospetto dei
politici. Il suo discorso al summit sul clima dell'ONU nel settembre 2019 in cui, senza sconti, ha criticato
aspramente il modo di fare politica sull'ambiente, ha impressionato il mondo per grinta, determinazione e
passione civile. Va da sé che il presidente Trump non ha perso occasione di ridicolizzarla affermando in un
tweet a commento del discorso tenuto: «Sembra una giovane ragazza molto felice che guarda a un brillante
e meraviglioso futuro. Che piacere vederla!». La rabbia nei confronti di Greta Thunberg però non si spiega
solo per il suo modo non stereotipicamente femminile di presentarsi e comportarsi. Attaccando il
capitalismo industriale, infatti, attacca una visione del mondo e anche una visione precisa della mascolinità.
Come osservano Anshelm e Hultman 2014), il mito di Prometeo, l'idea della conquista della natura, da
parte dell'uomo (e qui si intende proprio uomo, non essere umano) è fortemente legata all'identità
maschile nel capitalismo moderno industriale. La natura è a disposizione degli uomini che dopo averla
conquistata e domata attraverso il progresso tecnologico sono titolati per sfruttarla al meglio e per
massimizzarne 1 possibili profitti economici.

Oltre agli attacchi apertamente sessisti a figure femminili di spicco del movimento ambientalista come
Greta Thunberg, esiste una realtà altrettanto interessante che non riguarda solo gli uomini che aderiscono
a visioni spiccatamente misogine e suprematiste come quelle appena descritte. Esiste infatti un dato
interessante su cui riflettere: in generale, gli uomini tendono a essere meno interessati delle donne alle
tematiche ambientali. Anche tenendo sotto controllo l'effetto dell'età e dell'area geografica di provenienza,
gli uomini mostrano infatti minore preoccupazione e interesse per

T'ambiente rispetto alle donne sia a livello di atteggiamenti generali, sia in termini di comportamenti
quotidiani. Le ricerche ci dicono che, rispetto alle donne, gli uomini riciclano meno, ricorrono meno al car
sharing e usano meno prodotti ecofriendly per pulire casa.

Il messaggio fondamentale dell'ambientalismo può sintetizzarsi nel prendersi cura dell'ambiente, e il


prendersi cura è a tutti gli effetti la quintessenza degli stereotipi di genere riferiti alle donne. Anche
l'antropomorfizzazione del nostro pianeta come una donna e nello specifico una madre, «madre terra»,
contribuisce a connotare le tematiche ambientaliste non solo come femminili, ma anche come
pericolosamente femminilizzanti

Swim, Gillis e Hamaty 2020]. Proprio per questo, lo stereotipo diffuso per cui l'attenzione all'ambiente è
qualcosa di tipicamente femminile rende minaccioso per lidentità maschile interessarsi a queste tematiche.
Questo, ad esempio, è particolarmente evidente per gli uomini vegetariani/vegani che scelgono di non
mangiare carne per motivazioni etiche. Se il consumo vorace di carne è un segnale di mascolinità, il
mancato consumo derivante dall'empatia nei confronti degli animali è devirilizzante per gli uomini che ne
fanno mostra [Rothgerber 2013]. Di questo ho già parlato nel secondo capitolo. Un altro esempio è
rappresentato dal fatto che assumere comportamenti proambiente, stereotipicamente associati alle donne,
porta a dubitare della eterosessualità degli uomini [ibidem]). In sintesi, il minore interesse nei confronti
dell'ambiente degli uomini rispetto a quello manifestato dalle donne non va tanto spiegato sulla base di un
disinteresse tout court, quanto piuttosto sulla base del bisogno di preservare la propria identità maschile
dalla minaccia rappresentata dalla femminilità delle istanze ambientali.

Conclusioni 1. E questo il meglio a cui un uomo può aspirare?

Con questa domanda si apre lo spot diffuso nel 2019 dalla Gilette, nota azienda di rasoi, che ha suscitato
grande interesse nell'opinione pubblica. Nello spot si vedono dei bambini picchiarsi sotto gli occhi di una
lunga sfilza di uomini adulti, che commentano in coro come in una cantilena ossessiva, ognuno davanti al
suo barbecue, «Sono ragazzi! Boys will be boys!». La voce fuori campo spiega a chi guarda lo spot che è
necessario un cambiamento e nelle immagini che accompagnano questo invito vediamo susseguirsi uomini
che, a differenza di quelli mostrati in precedenza che restavano a guardare, intervengono separando dei
bambini che si stanno azzuffando. Nel finale vediamo dei bambini che guardano intensamente in camera,
con la vOce fuori campo a ricordare che gli uomini di domani stanno assistendo alle azioni che mettiamo in
atto oggi. E un video che colpisce quello della Gilette: riesce con la potenza delle immagini non solo a
denunciare la cultura che normalizza e celebra la violenza degli uomini, ma anche a proporre un modello
alternativo e credibile di mascolinità.

Nel corso di questo volume più volte ho riflettuto su quanto la gabbia della mascolinità tradizionale sia
pericolosa per la salute psicofisica degli uomini. La litania di doveri che

Scandisce la mascolinità è ormai tristemente nota: un uomo vero è un uomo che non mostra le proprie
emozioni, un uomo vero è un uomo che sta con molte donne, un uomo vero è un uomo che non chiede mai
aiuto, un uomo vero è un uomo atletico, un uomo vero è forte fisicamente e non ha mai paura di mettere
in atto azioni pericolose e rischiose. In questa logica, dunque, gli uomini devono mostrare la propria
mascolinità non tanto attraverso quello che sono, quanto attraverso quello che fanno. Per concludere, la
domanda iniziale dello spot della Gilette è una domanda centrale a cui è doveroso rispondere. E proprio
questo il meglio a cui un uomo può aspirare? La risposta è «decisamente no, e per molte ragioni
convergenti».

I dati a disposizione sulla salute mentale degli uomini non possono e non devono essere trascurati.
Pensiamo ad esempio al numero di suicidi. Secondo i dati dell'OMS del 2019, quasi 800 mila persone si
suicidano ogni anno. Questo vuol dire che esiste una realtà inquietante e spesso sottovalutata per cui in
tutto il mondo ogni 40 secondi una persona si toglie la vita. Di tutte le persone che si suicidano, la
percentuale degli uomini è doppia rispetto a quella delle donne. Sappiamo che la depressione maschile è
spesso sottovalutata da chi ne soffre e che gli uomini spesso manifestano rabbia e aggressività per
nascondere agli altri o a sé stessi le proprie difficoltà psicologiche. Sappiamo inoltre che per gi uomini puð
essere molto difficile ammettere la propria vulnerabilità e chiedere aiuto e che gli uomini fanno piu spesso
ricorso delle donne a sostanze stupefacenti e all'alcol come strategia (disfunzionale) di gestione delle
proprie difficoltà.

Spesso i problemi di salute mentale degli uomini sono poco riconosciuti non solo dagli uomini stessi e dalle
persone a loro vicine, ma anche dai professionisti e dalle professioniste della salute mentale, che tendono a
fornire come indicazioni operative delle strategie che rinforzano in modo problematico gli ideali
convenzionali della mascolinità di stoicismo emotivo e autocontrollo [Hale, Grogan e Willott 2010].
Per tutte queste ragioni, nel 2005, l'American Psychological Association ha costituito un gruppo di ricerca
per elaborare delle linee guida sul lavoro psicologico coni ragazzi e con gli uomini. Ci sono voluti ben 13
anni perché quel gruppo arrivasse a produrre

Pimportante documento che sintetizza in modo accurato e puntuale la ricerca psicologica ormai
trentennale sul tema della mascolinità. Il punto da cui si parte nel documento, la premessa necessaria delle
linee guida che vi troviamo descritte, è che, esattamente come la femminilità, la mascolinit è un artefatto
culturale che si costruisce sulla base di norme sociali, culturali e contestuali. Il secondo passaggio
fondamentale è l'invito ad aprire gli

Occhi sulla nocività dell'ideale di mascolinità convenzionale per la salute psicofisica degli uomini. Nel
documento si forniscono a tal fine indicazioni operative su come favorire nella vita dei ragazzi e degli
uomini la comprensione del ruolo complesso della mascolinità nella costruzione della propria identità;
un'indicazione particolarmente interessante è quella in cui si esorta in primis chi pratica la professione
psicologica a fare i conti con i propri pregiudizi e stereotipi, per permettere poi ai ragazzi di andare oltre le
definizioni ristrette e asfittiche della mascolinità convenzionale. Nel documento si chiarisce che chi pratica
la professione psicologica deve impegnarsi attivamente per progettare e realizzare interventi volti alla
promozione nei ragazzi e negli uomini di una cultura delle relazioni basata sul rispetto, sull'intimità e sulla
condivisione emotiva.

Cruciale è anche il supporto professionale ai genitori perché imparino a rispondere ai bisogni dei ragazzi in
modo non coerente con gli stereotipi di genere e perché forniscano loro l primo contesto significativo in cui
coltivare una relazione con sé stessi e con gli altri basata sulla vicinanza affettiva ed emotiva. Altro aspetto
fondamentale di cui i professionisti e le professioniste della salute mentale dovrebbero occuparsi è la
riduzione dell'aggressività, operando al fine di disattivare i dispositivi culturali che legittimano il ricorso alla
violenza come modo per fronteggiarei propri problemi personali e relazionali. Ultimo, ma non per
importanza, incoraggiare gli uomini a proteggere la propria salute riconoscendo come il potere e i privilegi
che li avvantaggiano sono spesso anche le condizioni che li intrappolano. 2.Di mandati della mascolinità,
trasgressioni e culture organizzative Le ricerche condotte in ambito psicologico che ho discusso nel corso di
questo volume indicano in modo limpido come l'adesione alle norme convenzionali e agi stereotipi maschili
si associ a preoccupanti condizioni psicofisiche negli uomini. A questo punto, il modo di procedere per
risolvere questa situazione potrebbe apparire molto semplice. Se aderire a una visione tradizionale della
mascolinità fa male agli uomini, chiediamo «semplicemente» loro di abbandonarla. In realtà, è evidente che
non è cosi facile sbarazzarsi di secolari copioni comportamentali. Del resto, liberare gli uomini dai legacci
della mascolinità tradizionale non sempre equivale in modo automatico a un beneficio per loro. Basti
pensare che quando le persone si discostano dalle aspettative stereotipiche rispetto al ruolo che sono
chiamate ad assumere nella società vanno spesso incontro a sanzioni sociali ed economiche [Rudrman e
Phelan 2008]. Un esempio emblematico è quello degli uomini che scelgono di rinunciare temporaneamente
o stabilmente alla propria vita professionale per prendersi cura dei propri figli piccoli. Da una donna, è
arcinoto, ci si aspetta che scelga di dare priorità alla cura della prole rispetto alla vita professionale,
considerandola una cattiva madre quando decide di non farlo.

Diversamente, quando un uomo mostra un interesse nei confronti della genitorialità a scapito della propria
vita professionale le reazioni sociali nei suoi confronti sono spesso di diffidenza se non di aperta ostilità. Nel
nostro paese, l'etichetta ricorrente del «mammo0» che, in modo sprezzante e denigratorio, femminilizza gli
uomini che scelgono Iiberamente di occuparsi a tempo pieno dei propri figli e figlie lo illustra bene. La
stessa architettura dei bagni pubblici in Italia rende ancora oggi faticoso se non impossibile a un uomo
cambiare il proprio bambino o bambina essendo i fasciatoi collocati nella stragrande maggioranza dei casi
solo nei bagni dele donne. Forse tutto questo può essere scambiato più come un automatismo culturale,
una consuetudine, piuttosto che una scelta architettonica sessista. In ogni caso, il risultato inevitabile è
quello per cui quella scelta, automatica o deliberata che sia, assume i contorni sgradevoli di un orizzonte
normativo, un'indicazione precisa su quale deve essere il sesso del genitore che si occupa dei figli e su
quanto strano oltre che a disagio deve sentirsi chi prova a trasgredire quella regola.

Anche in ambito lavorativo sono molti i costi sociali ed economici a cui vanno incontro le persone che fanno
scelte professionali atipiche o si comportano al lavoro in modo incoerente con le prescrizioni di ruolo. La
ricerca psicosociale si è concentrata per lo piùu sulle donne, mostrando che quando danno prova delle
caratteristiche considerate tipicamente maschili quali indipendenza, sicurezza e assertività generano
sospetto e antipatia [Rudman e Phelan 2008]. Sebbene le ricerche a riguardo siano numericamente molte
meno, sappiamo che le rappresaglie sociali investono anche gli uomini che fanno scelte professionali
atipiche. La mascolinità di un uomo vacilla agli occhi di chi lo guarda quando sceglie un lavoro non
tradizionalmente maschile (ostetrico, assistente sociale, stilista ecc.) ed è dunque impiegato in un ambiente
professionale composto per lo più da donne, o si comporta sul posto di lavoro in modo umile e non
assertivo, o ancora lavora in una posizione subordinata rispetto a una donna o in generale guadagna meno
di una donna [Moss-Racusin e Johnson 2016].

Un altro dato non trascurabile su cui riflettere è che i sistemi di credenze tipici della mascolinità
convenzionale che valorizzano il dominio sociale e che danno al lavoro la priorità su tutte le altre
dimensioni della vita possono generare organizzazioni malsane per chi vi lavora, uomini o donne che siano
[Berdahl et al. 2018]. Le dimensioni valoriali della mascolinità convenzionale presenti nelle culture
professionali occidentali sono numerose e tossiche. Mostrare sempre forza e resistenza, nascondere anche
la più piccola debolezza o crepa nella metaforica «armatura» che si indossa per lavorare, evitando
tassativamente i comportamenti che possano essere interpretati come femminili (come, ad esempio,
manifestare le proprie emozioni in pubblico) sono spesso prerequisiti indispensabili per il successo
professionale nei paesi occidentali. Accompagnano queste dimensioni il dovere per gli uomini di mostrarsi
sempre aggressivamente vincenti, interessati allo status, al potere, al successo e al prestigio professionale,
la considerazione degli altri come rivali da sconfiggere e di cui non fidarsi mai e l'obbligo di sfoggiare
competenza non facendo mai trapelare esitazioni o incertezze [Matos, O'Neill e Lei 2018].

A questo proposit0, Prime, Moss-Racusin e Foust-Cummings [2009] hanno descritto molto bene con
l'etichetta della «sindrome compulsiva della risposta maschile» il fernomeno per cui un uomo non deve mai
perdere l'occasione di dar mostra della propria competenza.

Che cosa vuol dire questo precisamente? Vuol dire che deve sempre mostrare di sapere, anche quando sa
poco o perfino non ha la più pallida idea di cosa sta dicendo. Far parte di una categoria a cui «per
contratto», per un'automatica e secolare fiducia, si assegna una sconfinata competenza è di certo una
condizione di vantaggio, ma corrisponde anche a un fardello non trascurabile. A un uom0 non è concesso
rispondere «non lo so» a una domanda: ogni volta che gi viene posto un problema deve sempre essere
pronto a fornire una risposta, pena la perdita della sua credibilità professionale da quel momento in poi.

Ecco dunque che in un ambiente spietato di lavoro ipercompetitivo e in una cultura del o vinci o muori, si
crea un terreno fertile per la proliferazione di uno stile tossico di leadership caratterizzato da
comportamenti abusanti finalizzati a maltrattare o

Controllare gli altri, e in ci il successo di una persona corrisponde necessariamente alla sconfitta di un'altra
ancora [Matos 2017].

Togliersi la maschera di potenza e infallibilità ha dunque conseguenze assai negative sia in ambito
relazionale sia in ambito professionale. Per questa ragione, il tipo di passaggio da compiere è lavorare su
più fronti. Non solo è insufficiente, ma è anche profondamente ingiusto, limitarsi a chiedere a ogni singolo
uomo di modificare individualmente il proprio comportamento, di fare insomma da solo questo percorso,
semplicemente rivoluzionario, senza alcun sostegno culturale. Proprio per le conseguenze negative a cui
vanno incontro quelli che possiamo definire i trasgressori di genere, diventa cruciale lavorare attivamente
per creare un clima culturale che accolga il rifiuto degli standard tradizionali di genere non con la
ridicolizzazione né tantomeno con lostilità a cui speso assistiamo, ma con il favore e con l'apprezzamento.
3. Dalla mascolinità all'umanità: per un cambiamento culturale

Quando ci domandiamo che cos'è un uomo e cosa lo caratterizza, di fatto spesso ci stiamo domandando
che cosa rende un uomo diverso da una donna. II sistema culturale patriarcale ed eteronormativo in cui
siamo immersi ha stabilito un rigido binarismo fra i sessi. Non a caso infatti si parla di sesso opposto per
definire il sesso di volta in volta complementare a quello in esame come se il sesso maschile fosse per
definizione inevitabilmente diverso e in opposizione a quello femminile. In questo sistema culturale le
caratteristiche semplicemente umane si ripartiscono e classificano in modo rigido per ciascun sesso: di qua
le caratteristiche tipiche delle donne e di là quelle tipiche degli uomini. Come ho ripetutamente mostrato,
questa distinzione fra le caratteristiche psicologiche associate al femminile e quelle associate al maschile è
artificiosa e non tiene conto della complessità dell'esperienza umana. Categorizzare gli altri sulla base del
sesso ci sembra un dato inevitabile, mentre è un atto squisitamente sociale. Per questo, più che parlare di
modelli positivi di mascolinità è fondamentale parlare di modelli positivi e complessi di umanità da coltivare
e costruire, oltre un binarismo di genere che ci appare naturale solo per un errore di prospettiva culturale,
come ho descritto nel primo capitolo.

Alcuni ricercatori ritengono infatti che sia importante promuovere una mascolinità positiva centrata sulle
norme del coraggio o della resilienza. Tuttavia, questa visione non si distanzia così tanto in termini di
premesse teoriche da quella che difende il valore della mascolinità tradizionale. Anche in questo caso,
infatti, il rischio è quello di reificare la mascolinità in qualcosa di statico e universale, definito da una serie di
attributi simili a dei tratti stabili e immutabili e fondati sulla biologia. Più che ricostruire una mascolinità
positiva, abbiamo un gran bisogno di decostruire la mascolinità e il genere in senso più ampio per renderlo
meno saliente nel modo in cui influenza la nostra idea di noi e degli altri [Addis e Hofman 2019]. Anziché
parlare di mascolinità positiva perché allora non parlare di qualità umane positive? Proprio in quanto esseri
umani, gli uomini e le donne dovrebbero avere entrambi il permesso di essere vulnerabili, dovrebbero
avere entrambi la possibilità di esprimere sensibilità ed emotività senza andare incontro a ridicolizzazioni,
sberleffi o rappresaglie cosi come dovrebbero avere entrambi la possibilità di dare mostra di
determinazione, assertività, coraggio e forza d'animo.

Una persona ben funzionante, infatti, è chi è capace di entrare in contatto con la propria esperienza,
consapevole delle proprie emozioni e della propria identità e flessibile nella gestione dei propri costrutti,
compresi quelli di gernere [Rogers e Kinget 1965; trad. it. 1970, 194]. In questo senso una persona e un
uomo nello specifico è capace di scegliere e di comportarsi non aderendo in modo stereotipato a ciò che
viene considerato maschile o femminile, ma partendo da sé stesso, da ciò che è buono per lui,
indipendentemente dal fatto che il suo comportamento sia giudicato da «vero uomo» o meno, quindi
libero dalle costrizioni sociali di cui abbiamo appena parlato.

Sviluppare un'identità su questa base richiede d'altro canto l'aver vissuto relazioni affettive con figure di
riferimento capaci di accettazione dell'altro indipendentemente dai costrutti definiti socialmente, come è
accaduto al bimbo che amava fare le faccende di casa imitando i genitori nel primo capitolo. In questo caso
le persone significative (ovvero genitori) divengono, a livello individuale, uno dei principali fattori per la
costruzione di una identità di genere libera da stereotipi e costrutti di origine maschilista.

E evidente che ciò comporta un vero e proprio cambiamento di paradigma, una visione del mondo molto
diversa da quella a cui da sempre siamo abituati e abituate. Non è semplice abbandonare una volta per
tutte le immagini sclerotizzate di mascolinità e femminilità che ci sono cosi tanto familiari, pena la paura di
perdere la propria identità.
Inoltre, le resistenze sociali e politiche al mutamento sono molte, perché questo cambierebbe non solo la
vita delle singole persone, ma anche l'assetto della società per come l'abbiamo sempre conosciuta. E una
sfida importante che va colta con urgenza.

La scuola in questo senso è un terreno fertile per incoraggiare questa nuova visione del mondo.

Un passaggio centrale per questo cambio di paradigma è imparare a identificare e comprendere in che
modo la disuguaglianza di genere sia prevalente nella vita di tutti i giorni e come essa influenzi la propria
identità e le proprie relazioni con gli altri. Per gli uomini, riconoscere il privilegio del patriarcato è il primo
passo da compiere, oltre che il più difficile. E la parte più complessa, che incontra, soprattutto con i ragazzi
più grandi, forti resistenze. Ciò nonostante il tema del potere e del privilegio non può non essere
affrontato. Il privilegio è invisibile agli occhi di chi ne gode e per questo riuscire a riconoscerlo senza sentire
minacciate la propria autostima e la propria visione del mondo non è semplice. Anche se un uomo non è
apertamente sessista, lorganizzazione della società favorisce gli uomini e ne rafforza i privilegi. Spesso
tendiamo a pensare che il sessismo e lomofobia siano la provincia di menti perverse e cuori avvizziti, per
usare le evocative parole di Susan T. Fiske [2000]. Quando dobbiamo pensare a degli esempi concreti di
questo tipo di fenomeni accade di frequente che si riesca a richiamare alla memoria soli casi estremamente
violenti e cruenti. Perché accade questo? Piuttosto che pensare a episodi più soft come ad esempio alla
prima pagina di un quotidiano in cui non appare neanche un nome di una giornalista e solo nomi di colleghi,
o al comitato scientifico di una rivista in cui ci sono solo uomini, o a un panel di esperti sul tema dove di
esperte ce n'è in abbondanza ma nessuno ha pensato di invitarle, alla risatina di fronte a un uomo che ci
passa accanto mano nella mano con il suo compagno, è più facile pensarea episodi di sessismo plateale,
come ad esempio l'aggressione fisica di una donna, o a dichiarazioni apertamente sessiste come «Le donne
devono restare a casa perché il loro posto è la cucina» o di omofobia altrettanto violenta come
l'aggressione di una coppia di ragazzi gay o ragazze lesbiche.

E evidente che, rispetto a quelle più sottili e striscianti, queste manifestazioni di pregiudizio sono più
evidenti e più riconoscibili, e per questo riusciamo a metterle meglio a fuoco. Non è solo questo il motivo
però per cui riusciamo a richiamarle piu facilmente alla mente. Focalizzandoci sulle forme più estreme,
tendiamo infatti a pensare a quegli esempi come a eccezioni rispetto alla normalità, come a qualcosa che
riguarda pochi, brutti e cattivi personaggi. Se non si comincia invece a vedere il sessismo nelle sue
manifestazioni quotidiane, quelle che proprio perché sono sotto gli occhi di tutte e tutti diventano invisibili,
non si riuscirà mai a liberarcene una volta e per sempre. Le dinamiche del sessismo e dell'eterosessimo non
sono solo un insieme di pratiche ostili che hanno l'obiettivo aperto ed esplicito di escludere, discriminare o
fare del malea qualcuno.

Salvo casi estremi, spesso non sono tanto loro a danneggiare la qualità della vita quotidiana delle persone,
proprio perché è facile riconoscerle e combatterle. Al contrario, spesso sono le pratiche (etero)sessiste soft,
solo in apparenza innocue, che diam per scontate, a modellare la nostra visione della realtà e dei rapporti
fra le persone.

Il riconoscimento del privilegio (e del caro prezzo da pagare per il privilegio in termini di salute mentale) è
dunque un pass0 necessario nel cammino per coinvolgere i ragazzi e gli uomini in un ruolo da protagonisti
nei processi di cambiamento personale e sociale dei rapporti di genere. Ogni ragazzo può e deve essere un
catalizzatore e moltiplicatore di cambiamento. E importante che 1 ragazzi e le ragazze imparino a
riconoscere l'attuale sistema sociale come ingiusto, sviluppando una coscienza femminista che consenta
loro di immaginare prima e costruire poi un sistema sociale alternativo che sia più equo per tutte le
persone coinvolte.

Quanto detto potrà sembrare strano: ma è possibile per un uomo essere femminista? La risposta è senza
dubbio affermativa, proprio perché il femminismo equivale a un impegno attivo per raggiungere una
società ispirata a ideali di giustizia sociale, di piena uguaglianza e pari opportunità fra uomini e donne. La
domanda quindi diventa un'altra: perché un uomo non dovrebbe essere femminista? Tutte e tutti
dovremmo lavorare per promuovere l'uguaglianza di genere e decostruire una società in cui c'è un genere
che ha più potere dell'altro o in cui alcune persone sono limitate nelle loro possibilità sociali per illoro
genere. Impegnarsi per una società in cui sia presente una maggiore uguaglianza di genere vuol dire
impegnarsi per costruire una società in cui non solo le donne ma anche gli uomini staranno meglio. Questo
deve essere il nostro obiettivo per il presente e per il futuro.

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