Quando pensiamo alla parola "genere" o al termine "studi di genere" di solito tendiamo a
pensare che seguirà una discussione sulle donne. Così come quando parliamo di uomini e
della loro mascolinità, raramente ci poniamo i tipi di domande che invece facciamo
emergere quando ci riferiamo alle donne e alla loro femminilità o all'omosessualità.
In realtà, anche gli uomini hanno un genere e, sebbene il pensiero popolare a volte crede
che ci esista una “naturalità” nell’essere uomo, è improbabile che la mascolinità possa
essere intesa semplicemente come un aspetto della biologia o della natura. È interessante
notare che
Il femminismo storicamente applicava gran parte della sua energia iniziale a metteer in
discussione concezioni e rappresentazioni delle donne e della femminilità. Gli studi
sull’omosessualità erano più preoccupati di considerare le reazioni della società
all'omosessualità che all'eterosessualità. Ciò significava che, almeno per un certo periodo,
la mascolinità e uno dei suoi componenti tradizionali, l'eterosessualità maschile,
sfuggivano alla notazione e potevano continuare a rappresentare la norma naturale.
Possiamo dire che esiste un'ampia convinzione che gli uomini non possano cambiare
radicalmente, che la mascolinità sia qualcosa di fisso. Un ampio spettro della società
moderna ancora abbraccia questo punto di vista, compresi i fondamentalisti cristiani, gli
essenzialisti femministi e parte del movimento maschile.
Questa convinzione cerca di giustificarsi utilizzando concetti come ormoni e anatomia.
Esiste davvero una giustificazione biologica, per esempio, che possa convalidare il
legame tra il testosterone, il principale ormone sessuale maschile, e l'aggressività
maschile? Fino a che punto, la biologia può spiegare la grande varietà del comportamento
sociale maschile? Se accettiamo che le dinamiche di genere possano spiegarsi facendo
riferimento a branche di studio problematiche come la psicologia evoluzionista la
neurologia, o banalmente la tradizione “biologica”, neghiamo o minimizziamo
l'apprendimento della mascolinità attraverso la socializzazione: in questo caso, la
mascolinità diventa qualcosa di impossibile da cambiare. E di cui non è necessario
neanche parlare.
Perché è importante oggi parlare di mascolinità
Secondo molti studiosi ci troviamo di fronte alla rinascita di una politica maschilista in
diverse parti del mondo, dove il progresso verso l'uguaglianza di genere viene contratato
da una politica reazionaria che rinvigorisce i valori familiari, religiosi pietà, nazionalismo e
orgoglio maschile.
Basti pensare all’elezione di Donald Trump: non è l’economia che ha determinato la
vittoria di Donald Trump. Il presidente, cioè, non è stato eletto malgrado la sua xenofobia e
il suo razzismo o sessismo. È riuscito a vincere la competizione per la Casa Bianca
proprio grazie al suo modo di pensare e atteggiarsi tradizionalista e conservatore. Si
pensi, ad esempio, che più del 60% degli elettori di Trump erano contrari all’aborto, e il
39% erano d’accordo nel punire le donne che vi ricorrono. Un mese prima dell’elezione, la
diffusione di una registrazione in cui il candidato mostrava tutta la sua violenza sessista
non gli aveva affatto nuociuto presso i suoi elettori, ma al contrario il 10% aveva dichiarato
che il loro giudizio nei confronti del presidente ne usciva rafforzato. Donald Trump non va
preso sul serio sul fronte economico, ma proprio su quello culturale. Quindi la vittoria di
Donald Trump non può essere scissa dalla questione maschile: come emerso in un
famoso dibattito del Marzo 2016, Trump passerà sicuramente alla storia come il primo
candidato presidenziale a vantarsi delle sue dimensioni del pene. Quando Trump mostra i
suoi assalti alla dignità delle donne come fonte di orgoglio, è quindi disastroso per le
donne, ma non meno per ogni uomo che finisce per entrare in contatto con questa
versione caricaturale di una mascolinità che assume i caratteri di una parodia.
Il concetto che meglio ci aiuta a capire fenomeni come quello di Trump è il risentimento
culturale del maschio bianco. Trump è riuscito a mobilitare una versione sessista e
razzista dell’identità maschile bianca. Conferendogli legittimità, la ha fatta esistere
politicamente.
Risentimento del maschio bianco
È evidente che la politica non la si fa solo attraverso le idee, ma si gioca anche nell’ambito
delle passioni. E una di queste passioni è proprio il risentimento, o quello che lo scrittore
francesce Michel Houllebecq definisce godimento frustrato: l’idea che - in una società che
si fonda sull’appello continuo alla libidine e al piacere - ci sono altri che godono al mio
posto fa crescere in me il risentimento, e se io non godo, è per causa loro. Il godimento
frustrato è al cuore dei suoi romanzi: da Estensione del domino della lotta del 1994 a Le
particelle elementari del 1998 o Sottomissione del 2014, Houllebecq mostra uomini bianchi
eterosessuali privati del loro presunto diritto al godimento: i loro genitori sessantottini,
liberati e libertini, le donne liberate che in Occidente vogliono godere di una vita
nell’uguaglianza senza più sforzarsi di soddisfarli; gli uomini meglio dotati in capitali
estetici o altri che li condannano alla pauperizzazione sessuale; gli islamici o gli immigrati
venuti a prendersi le proprie donne. L’idea è che ci siano “altri” che godono al mio posto. E
al tempo stesso, paradossalmente, sono proprio questi “altri” a garantire a me il
godimento del mostrarmi come vittima, il piacere del sentirmi un loser.
Il corpo – e quindi il corpo di genere - è diventato una delle principali aree di scontro tra
diverse prospettive morali, emotive e politiche. Da un lato, come si dice, la sensazione
della propria fragilità – corporea - si può orientare verso la politica dell’uomo forte. In
realtà, il limite di affermazioni del genere è quello di pensare la mascolinità come tratto
distintivo di un individuo, mentre quello che ci interesse è riflettere sulla mascolinità come
struttura o per usare le parole di Carol Gilligan come “modo di pensiero”. Dobbiamo subito
chiarire quindi che quando parliamo di genere lo intendiamo non come termine descrittivo
di una caratteristica di un individuo, ma come un "sistema simbolico, un discorso
organizzativo centrale della cultura, uno ciò non solo modella il modo in cui sperimentiamo
e comprendiamo noi stessi come uomini e le donne, ma che si intreccia anche con altri
discorsi - e quindi modella altri aspetti del nostro mondo. Per questo, ad esempio, per
capire uno dei problemi centrali della questione maschile attuale è usare la formula
coniata dalla studiosa femminista Iris Marion Young che parla a proposito piuttosto logica
della protezione mascolinista. Ed è un termine che consente di evitare una certa
interpretazione liberale del concetto di genere come attributo binario di singoli uomini e
donne
Questo revival di politica mascolinista nasce, come abbiamo detto, dalla frustrazione, dal
senso del godimento perduto. Questo senso di frustrazione lo ha ben spiegato Michael
Kimmel nel suo libro Angry White Men: American Masculinity at the End of an Era (2017).
Come spiega il sociologo statunitense, non potremmo mai davvero capire l’ascesa di
Donald Trump e del mascolinismo se non andiamo alla radice dell’indignazione che porta
il “maschio bianco arrabbiato” a scagliarsi contro l’establishment politico di stampo liberal.
Per capire questa indignazione, Kimmel fa un vero e proprio viaggio attraverso tutta
l’America – soprattutto in quella più profonda, nella Youngstown (Ohio) cantata da Bruce
Springsteen, nella Rust Belt che ha assistito al crollo dell'industria manifatturiera e dove
Trump ha trionfato, promettendo il riscatto di molti di quei macchinisti, minatori e lavoratori
che incarnano proprio i personaggi cantati da Springsteen. Sbaglieremmo tuttavia a
leggere il sostegno a Trump solo come una questione di carattere economico. Al di là di
quella narrativa popolare che ha visto Trump trionfare tra la working class, non è
l’economia che ha definito questo elettorato. È piuttosto quell’indignazione che deriva da
quella che Kimmel chiama “aggrieved entitlement” (diritto leso), ossia una sorta di
sentimento per cui quei benefici che un tempo ti sembravano appartenere per diritto ti
sono stati tolti da forze invisibili più potenti. E, dice Kimmel, questi uomini hanno ragione:
hanno perduto la loro capacità di sentirsi “qualcuno”, hanno perduto il senso di sé stessi in
quanto “uomini”, “real men” che hanno contribuito con il loro lavoro, i loro sforzi e sacrifici a
costruire il loro paese e a modellare l’american dream e la sua idea di meritocrazia. Ora
questi uomini si sentono furiosi, proprio perché gli sembra di non avere quello che
pensano di meritarsi. Si sentono umiliati. E tale umiliazione ha una forte radice di genere,
in quanto gli uomini della classe media inferiore e della working class sono l’ultima
generazione della nostra storia ad essere cresciuti con il mito del padre di famiglia
“breadwinner” (colui che porta il pane a casa). E questo spiega perché anche molte donne
hanno votato per Trump. Molte di esse lo hanno votato non in quanto “donne”, ma in
quanto “madri” che vorrebbero tornare a vivere una realtà sociale – patriarcale, ma
rassicurante, che non esiste più.
È inutile, ed anche sbagliato, convincere questi uomini che “stanno sbagliando” o che i
loro sentimenti non sono “giusti”. I loro sentimenti sono “reali”. Quello che è “sbagliato”
è che tali sentimenti nascono da una cattiva percezione della realtà circostante e si
rivolgono ai “nemici” sbagliati. Tale percezione può essere spiegata proprio usando la
teoria della deprivazione relativa, del godimento frustrato di cui abbiamo già parlato. Gli
uomini di Kimmel condividono questo sentimento di “deprivazione relativa”, ma invece di
guardare in alto, si rivolgono a coloro che sono più in basso nella scala sociale, le donne o
gli immigrati.
Ciò deriva dal fatto che essi non si rendono conto o non vogliono vedere che, in quanto
uomini bianchi, già beneficiano di un sistema basato su ineguaglianze razziali o di
genere. Del resto, nessuno di noi capisce il proprio privilegio, finché qualcun altro non
inizia a metterlo in discussione. Ed è quello che oggi sta accadendo agli uomini bianchi.
Non stiamo semplicemente vivendo nell’era della “fine dell’uomo”, come molti
commentatori dicono sui giornali. È la fine dell’era dei “diritti dovuti” maschili, l’era in cui un
giovane maschio bianco può pensare, senza alcun dubbio, che il mondo sia fatto a misura
del suo privilegio. Ed è vero che oggi viviamo in un mondo non più costruito a misura di
uomini, e che gli uomini devono condividere un po’ di spazio con gli altri. Un uomo può
avere il potere e un altro può sentirsi così potente, è questo senso di “diritto dovuto”,
questo senso che sebbene io possa non essere al potere in questo momento, io merito di
esserlo, e se non lo sono, qualcosa è decisamente sbagliato. È un mondo di aspettative
maschili diminuite per tutti gli uomini bianchi, che hanno beneficiato di un sistema
ineguale per così tanto tempo.
Per questo, la loro è una rivolta nostalgica, pessimista e reazionaria, è un modo per
“reclamare la propria mascolinità perduta”. La strada, dice Kimmel, è quella di capire
questi sentimenti e offrire una alternativa per comprende meglio il quadro complessivo.
Questi uomini non condividono una visione politica, un’analisi. Essi condividono
sentimenti, che potremmo definire populisti. Ma il populismo non è una teoria o una
ideologia, è anzitutto una emozione.
La mascolinità in crisi
In realtà l’immagine dell’uomo in crisi non è una novità. Per alcuni studiosi, si può dire
che storicamente quando si è parlato di mascolinità, è sempre stato per raccontarne la sua
crisi: essendo la mascolinità stata intesa come la norma universale dominante, come l’Uno
a partire dal quale si è definito l’Altro, ogni volta che tale sistema normativo è stato messo
in discussione, si sono verificate “crisi della mascolinità”. Questa crisi si è avuta, ad
esempio, a cavallo tra i due secoli tra il 1871-1914, quando l’emancipazione della donna
della media borghesia produsse reazioni di intellettuali come Robert Musil, Karl Kraus,
Arthur Schopenhauer o, per citare un caso famoso, di Otto Weininger misogino ossessivo
autore del famoso libro del 1903 Sesso e carattere. Il trattato L’inferiorità mentale della
donna del medico Paul Moebius (1900), uscito proprio in quegli anni, si preoccupava di
dimostrare (negando che in questa sua dimostrazione ci fosse un implicito giudizio di
valore) l'inferiorità fisiologica della donna rispetto all'uomo, per dedurre la necessità di
continuare ad escluderla dal gioco sociale. La donna era considerata vicina all’animale e
al negro. Nel libro Le Bostoniane, Henry James illustra la paura maschile della possibile
femminilizzazione. Uniche eccezioni: Georg Groddeck e Otto Gross. In America, l’eroe di
quei tempi era Theodore Roosevelt perché incarnava i valori virili tradizionali. E non è un
caso che proprio in quegli anni si inventi la figura del cowboy, nasca la serie Tarzan (1912)
di Edgar Rice Burroghs e venga istituita una associazione tipicamente tesa a riaffermare i
valori maschili come i boy-scout.
Ma è soprattutto a cavallo tra la fine degli anni '70 -'80 quando l’avvento nel neoliberismo
reaganiano negli Stati Uniti e thatcheriano in Gran Bretagna produsse un significativo
cambiamento economico, politico e sociale, che portò a fenomeni conosciuti come lo
smantellamento dello stato sociale, la crescente disoccupazione, i cambiamenti nella
composizione della forza lavoro con l’ingresso delle donne e delle minoranze etniche, la
"femminilizzazione" del posto di lavoro postindustriale, mobilità al ribasso, stagnazione dei
salari e sottoccupazione. Tutto ciò ebbe come conseguenza tra gli anni Ottanta e Novanta
la produzione di una mole di letteratura che raccontava per la prima volta in maniera
estensiva la crisi della mascolinità.
In particolare, un libro uscito nel 1999 fece molto parlare di sé. Lo scrisse la giornalista
femminista Premio Pulizer Susan Faludi e si chiamava Stiffed. The Betrayal of the
American Man. Era una documentata analisi dei cambiamenti della società americana e
come questi cambiamenti stavano impattando soprattutto la nuova generazione che non
poteva più esercitare quel tipo di virilità tradizionale che i loro padri avevano affermato.
Ora la virilità maschile era ridotta ad una parodia pubblicitaria: gli aspetti più produttivi
della mascolinità si scontravano con la cultura consumistica (la cultura dell’ornamento)
che promuoveva una rozza parodia di virilità. Come scrisse la giornalista in quegli anni:
...più prendevo in considerazione ciò che gli uomini hanno perso, un ruolo utile nella vita
pubblica, un lavoro e un reddito decorosi e sicuri, l’apprezzamento in ambito domestico,
un trattamento rispettoso da parte della cultura, più mi sembrava che gli uomini della fine
del XX secolo stessero precipitando in una condizione stranamente simile a quella delle
donne della metà del secolo. Possiamo dire che la casalinga degli anni Cinquanta […] si è
trasformata in un uomo anni Novanta.
Invece di domandarmi perché gli uomini si oppongano alla lotta femminile per una vita più
libera e più sana, ho iniziato a chiedermi perché essi rifuggano dall’iniziare una propria
lotta. […] Perché gli uomini non si ribellano? (p. 48)
Questo a mio avviso è il vero problema che si nasconde dietro la “crisi della virilità” che la
società odierna deve affrontare: non che gli uomini stiano combattendo contro il
movimento di liberazione femminile, quanto che essi si rifiutino di impegnarsi per la
propria liberazione o per un cambiamento della società. Non sono i ruoli maschili a
essere in pericolo, bensì sono gli uomini a correre il rischio di rimanere passivi. (p. 48)
Faludi concludeva la sua analisi sostenendo che, se vogliamo comprendere perché gli
uomini siano così riluttanti a infrangere i codici della virilità sanzionato, abbiamo bisogno
forse di capire quanto sia forte la coercizione sociale. “Se gli uomini non reagiscono è
perché la società non ha indicato loro una rotta su cui avventurarsi. Di certo non ha
proposto alcuna visione alternativa della virilità; del resto nessuno lo ha fatto: non il
movimento maschile, quello gay, ma neppure il movimento femminile che spinge gli
uomini a cambiare, ma che non ha ancora tradotto in concetti tale cambiamento”.
Il libro di Susan Faludi ci poneva di fronte ad un bivio nella riflessione sulla mascolinità che
è ancora molto attuale: il rapporto tra liberazione e vittimizzazione. O detto diversamente
tra: educare alla mascolinità o educare la mascolinità?
I primi movimenti di liberazione maschile
Fortemente condizionata dai cambiamenti economico-sociali, la crisi della mascolinità è
ovviamente una crisi “culturale”. Le trasformazioni che a partire dal Secondo Dopoguerra
hanno investito le dinamiche dei ruoli di genere hanno portato ad un complessivo
ripensamento del discorso sulla mascolinità come “norma universale dominante” e di
decostruzione di tutto quell’apparato simbolico-iconografico su cui si è fondato lo
stereotipo maschile. Non si è trattato tanto di una scomparsa dello stereotipo maschile,
bensì della sua progressiva erosione a cui hanno contributo sia le culture giovanili degli
anni Sessanta, che esaltavano la gioia del movimento e dell’espressione fisica, del ritmo e
della liberazione incontrollata dei sentimenti, sia i media di massa come cinema e
televisione, che iniziavano a proporre modelli di mascolinità che sino ad allora erano
stati giudicati decisamente poco virili.
Non a caso, proprio negli anni Settanta nascono i primi centri dedicati alla riflessione sulla
condizione maschile – il primo men’s center viene fondato a Berkley nel 1970 – le prime
associazioni antisessiste in stretta collaborazione con i movimenti femministi, e le pratiche
di autocoscienza maschile. Si inizia a prendere consapevolezza che troppo spesso si è
trattato gli uomini come se la loro esperienza personale del genere fosse priva di
importanza. Troppo spesso, cioè, nella riflessione sul gender, si è assunta la mascolinità
come elemento astratto di un sistema binario Decostruire la mascolinità diventava così
l’imperativo primo dei movimenti di liberazione maschile: ripensare la mascolinità al di là
dello schema normativo dell’ideale virile o l’idea psicoanalitica tradizionale. Si mirava a
rifiutare il concetto essenzialistico di una sola maschilità naturale e astorica per porre
attenzione sulla mascolinità come costruzione sociale. È proprio in quegli anni che si inizia
a parlare in termini di maschilità "multiple", secondo una varietà di esperienze identitarie
situate – gerarchizzate le une rispetto alle altre, tanto quanto rispetto alla cosiddetta
maschilità "egemone", e che ogni società produce in un determinato contesto sociale e in
un determinato periodo storico.
Nel 1977 John Stoltenberg, quando scriveva un articolo dal titolo Refusing to be a Man,
affermando che il sesso maschile esige l’ingiustizia per esistere. Accogliere, piuttosto, la
sfida femminista al dominio maschile ha la potenzialità di liberare gli uomini e aiutarli nella
scoperta di nuove maschilità. Anche nell’ambito dei Film Studies il saggio pioneristico di
Steve Neale ha il merito di superare il famoso lavoro di Laura Mulvey del 1975 – che
scindendo il piacere del guardare in attivo/maschile e passivo/femminile, finiva per
sottovalutare la possibilità che anche la mascolinità potesse essere uno “spettacolo per lo
sguardo”. In realtà, grazie ai media, e in particolare la pubblicità, il corpo maschile viene
separato dalla sua concezione di “corpo da usare” e inizia diventare un corpo da mostrare
come oggetto di desiderio. L’uomo accetta di essere oggetto dello sguardo altrui. Si
assiste quindi a una crescente femminilizzazione del corpo degli uomini: la maschilità
amplia i propri confini, l’aspetto androgino diventa una moda. Non è un caso che proprio in
questi anni, in altri contesti, iniziano a diffondersi le riviste di men’s help e le pubblicità e i
consumi propongono l’immagine del new man: l’uomo che si interroga sulla propria
condizione di maschio moderno e cerca di rispondere in modo positivo ai cambiamenti
sociali. Michael Kimmel sostiene che questa preoccupazione verso il corpo maschile è
derivata da: una sempre più crescente partecipazione delle donne nella sfera pubblica che
ha portato all’esaltazione di una sorta di muscolar backlash (come è possibile vedere nelle
figure di Sylvester Stallone and Arnold Schwarzenegger, attori che assomigliano ad una
sorta di fallo antropomorfizzato); l’importanza sempre minore del ruolo produttivo maschile
– anche il corpo maschile diventa oggetto di consumo e non solo più soggetto produttivo;
e la sempre minore stigmatizzazione dell’universo gay a cui si associa l’emersione del
bodybuilder gay macho.
L’avvento New Man
Il cosiddetto "uomo nuovo" è stato creato per la prima volta negli anni '70, ma da allora è
stato ricreato in una varietà di forme. Sembrerebbe essere un professionista della classe
media, bianco, eterosessuale, di solito tra la metà degli anni venti e l'inizio degli anni
quaranta, con una compagna. Il nuovo uomo è l'uomo che rifiuta gli atteggiamenti sessisti
e il tradizionale ruolo maschile, specialmente nel contesto delle responsabilità
domestiche e dell'assistenza all'infanzia, e che è (o è ritenuto) premuroso, sensibile
e non aggressivo. Il suo primo riferimento era un articolo del Washington Post del 1982
sulla commedia travestita di Dustin Hoffman, Tootsie. "(It)
Il nuovo uomo, nei suoi rapporti con le donne, tende a rinnegare il legame tradizionale tra
desiderio sessuale e oggettivazione femminile. Uno dei modi in cui la sessualità viene
ripensata in questo contesto è nei suoi legami con la paternità e la riproduzione. Possiamo
vedere come la pubblicità delle riviste mette in mostra le fotografie di padre / bambino. Vi
sono segnali nella crescita del movimento per i diritti del padre, che cerca di cambiare la
legge per ridurre il controllo delle donne sui bambini e sulla cura dei figli, che queste
immagini non sono completamente separate dall'azione sociale.
Ma al piacere della denuncia e della distruzione del modello ha fatto seguito negli anni
Ottanta un periodo di incertezza e di angoscia. Difatti, pur esprimendo un giudizio negativo
verso la mascolinità tradizionale, i discorsi sulla mascolinità finivano spesso per ruotare
attorno a temi quali l’angoscia, la crisi identitaria, i disagi degli uomini rispetto all’emergere
del femminismo e all’emancipazione delle donne. Emergeva, ma in fondo emerge anche
oggi, tutta la difficoltà di parlare dell’esperienza maschile uscendo fuori dell’angusta
polarizzazione potere-crisi e dall’altro violenza-dominio.
Male Rampage
I film cosiddetti "furia maschile" coinvolgono uomini selvaggi, la cui natura selvaggia deriva
da una sensibilità sorprendente. Possono soffrire di angoscia per un matrimonio che sta
fallendo o è defunto, come Mel Gibson nella prima arma letale. Nel corso della narrazione
vengono spesso chiamati ad occuparsi di autorità corrotte o criminali. Per farlo, devono
armarsi, letteralmente e metaforicamente, per diventare temibili siti di resistenza al male
che li circonda, così come ai demoni al loro interno. O si pensi al tema del maschio
soldato.
The theme of post-Vietnam reassessment of the soldier male, and thus of a particular
conception of masculinity, is returned to in several major movies, most notably in Michael
Cimino's The Deer Hunter (1978)
John Rambo (Sylvester Stallone) è inizialmente un veterano del Vietnam derubato
dell'autorità che una volta aveva. La sua risposta è "diventare nativo" contro le autorità in
tempo di pace che, poiché non lo comprendono, lo abusano fisicamente. L'appello
dell'incarnazione di Sylvester Stallone dell'ipermasculina John Rambo è stato accolto da
un grande pubblico ansioso di superare la crisi psicologica della sconfitta in Vietnam. Ciò
che avrebbe potuto essere meno ovvio in una prima visione era il forte legame creato tra
la mascolinità aggressiva di Rambo e la natura. Per riaffermarsi, Rambo in First Blood
si ritira nella foresta, dove scarta la maggior parte dei suoi vestiti e sembra diventare un
tutt'uno con la natura. I legami emotivi con le donne sono attentamente contenuti, così
che, come con l'eroe dei western, Rambo può rimanere isolato e in grado di concentrarsi
sulla correzione dei torti con fiducia nei suoi poteri individuali e maschili. In questo
senso, e anche in molti altri, la mascolinità implica un elemento di paranoia e vigilanza
non solo contro i nemici esterni, ma anche all'interno (nemici interni come "morbidezza"
e diversione rispetto alla propria missione unica). Implica un senso di vittimizzazione.
La violenza di Rambo, nel contesto, è una risposta quasi inevitabile al tradimento delle
autorità.
Forse la sofferenza è un rituale che purifica Rambo è in guerra con se stesso anzitutto.
Parte del dolore sembra essere inflitto a se stesso. La star, Stallone, secondo quanto
riferito, ha suggerito di desiderare ardentemente il dolore, anche a livello di soddisfacenti
allenamenti "punitivi" per spingere il suo corpo agli estremi. Il curioso risultato del
duro lavoro che va alla creazione del corpo spettacolare è che deve essere mostrato.
L'esposizione negli anni '80 sembra ancora fortemente associata culturalmente alla
femminilità o alla femminilizzazione. Pertanto, l'ipermasculinità suggerita a un livello
ovvio dal corpo sviluppato e simile a un'armatura di Rambo suggerisce anche dalla
sua ripetuta esposizione che gli viene data un'esposizione "femminile" allo sguardo
dello spettatore. La violenza climatica di First Blood può essere vista come un alibi per
l'esposizione del corpo.
Il sadomasochismo riflessivo
La vittimizzazione maschile – legata al discorso della sua crisi – non è una novità. Già
anni fa lo studioso David Savran aveva coniato l’efficace concetto di sadomasochismo
riflessivo. Secondo Savran nel secondo dopoguerra si assiste all’ ascesa di una nuova e
potente figura della cultura occidentale: il maschio bianco come vittima. Questa figura
emerge nell’ideale della mascolinità emarginata e dissidente degli anni '50 – che troviamo
ad esempio negli scrittori della beat generation – si pensi al famoso libro di Norman Mailer
The white negro. La solitudine dell'hipster che racconta la crisi del giovane americano
bianco ribelle che assume volontariamente la posizione marginalizzata del Nero. La
blackness ha funzionato come una forma di marginalità simbolica che permetteva ai
giovani bianchi di immaginarsi come una minoranza oppressa. Si pensi a quando Lou
Reed cantava Oh I wanna be black I don't wanna be a fucked up, middle class, college
student anymore.
Ma sarà soprattutto a metà degli anni '70 che il tema del maschio bianco in crisi
diventerà egemonico nella cultura americana e produrrà diverse varianti: il maschio bianco
arrabbiato, il new man ossia il maschio sensibile, il maschio alla ricerca della propria
essenza archetipica (faccio qui riferimento al movimento mitopoietico nato in America
dall’iniziativa dello psicoanalista junghiano Robert Bly), il suprematista bianco, il maschio
spirituale. Tutte queste esibizioni della mascolinità sono basate su ciò che Freud ha
soprannominato il sadomasochismo riflessivo, una condizione in cui la mascolinità si
divide ingegnosamente in due: diventa un corpo spettacolare che essere
masochisticamente abusato, torturato, assumere la posizione di vittima, femminilizzarsi,
per poter dimostrare la propria capacità maschile di resistenza, la sua costruzione
implacabile, la sua virilità. Come dire: il soggetto, torturandosi, può dimostrarsi un uomo.
White Male Paranoia
Come spiega la studiosa Susan Jeffords, l’ipermascolinità rappresentata nel cinema degli
anni Ottanta non era tanto semplicemente percepita come una riaffermazione dell'identità
maschile, ma più una risposta isterica a un'apparente mancanza di identità. I film degli
anni '80 in particolare, con la loro celebrazione della furia maschile o dell'ipermasculinità in
contesa con l'autorità indifferente e corrotta, testimoniano la perdita di fiducia dei maschi
piuttosto che ciò che inizialmente sembra più probabile, il suo contrario. Negli anni '90,
questo senso di vittimizzazione maschile diventa quello che alcuni hanno definito come
white male paranoia.
Attrazione fatale, istinto di base e caduta cadono tutti al centro di un uomo in pericolo. Tutti
recitano lo stesso uomo, Michael Douglas, che a questo punto fa carriera interpretando il
maschio come vittima. La particolare inflessione di questo eroe vittima in Falling Down è
costantemente assalita e degradata da un'impressionante varietà di tormentatori: sua
moglie, bande di chicano, negozianti, gestori troppo meticolosi di ristoranti fast-food. La
violenza che commette come segno che sta resistendo ai suoi persecutori, piuttosto che
cadere davanti a loro, secondo quanto riferito è stato applaudito dai maschi nel pubblico. Il
"maschio bianco americano medio" ha solo violenza sembra, a quanto pare,
ripristinare il suo senso di mascolinità quando è minacciato dal cambiamento
sociale, dalla disoccupazione, dalla pluralità dell'organizzazione sociale americana.
Come osserva Carroll (2011), poiché la mascolinità non può più fare affidamento sullo
status normativo, si trasforma in strategie reattive in base alle quali ridefinisce questa
normativa posizionandosi in altre posizioni di identità marginali. Questa proclamazione
della propria marginalità – che se volete è molto simile all’idea del godimento della
vittima di cui abbiamo parlato all’inizio – oggi trova un terreno di elezione su Internet.
Perché proprio su Internet?
La mascolinità in Rete
Sostanzialmente per due motivi: 1) La tecnologia non è mai neutrale, ossia non possiamo
mai pensare all’affermazione di una specifica tecnologia, come ad una forza slegata dai
discorsi storici sociali e dalle dinamiche di potere che arrivano a modellarla così come la
conosciamo. In tal senso, la storia stessa della Rete è una storia tutta costruita al
maschile. Basti solo pensare a come le radici di Internet affondino nelle utopie libertarie
delle controculture degli anni Sessanta (dai beat agli hippie, dagli hacker ai primi grandi
imprenditori della Silicon Valley). Queste utopie sono state utopie fortemente legate a miti
fortemente maschili, come quello della conquista, della frontiera. E nell’immaginario della
frontiera americana, la divisione dei ruoli di genere è sempre stata molto netta e
conservatrice. La cultura tecnocratica, che ne deriva, è sempre stata a leadership
maschile e ha sempre escluso le minoranze. E non è un caso che già nel 1993 – con i
primi fenomeni di MUD o comunità di discussione –, la studiosa Susan Herring scrisse un
articolo in cui sosteneva che uomini e donne mostravano un diverso stile di comunicazione
online e questa differenza tendeva a mettere le donne in svantaggio negli ambienti virtuali.
2) Il secondo motivo è legato alle affordance tecnologiche delle piattaforme dei social
media – dalla velocità di propagazione, all’anonimato, sino all’effetto camera d’eco che
permetto la emersione di quelli che possiamo definire veri e propri contropubblici – ossia
pubblici che si pongono come obbiettivo quello di offrire narrative “contrarie” a quelle
considerate “dominanti” nell’opinione pubblica, la cui lotta è quindi principalmente
simbolica, ossia mira a trasformare il proprio particolare lessico sociale in una grammatica
“universale”.
E dunque in questo ultimo decennio, assistiamo su Internet ad un riemergere della
questione maschile nell’ambiguo crinale tra vittimizzazione e liberazione. Tale fenomeno si
lega sostanzialmente al recente fenomeno americano della Manosphere. Il termine appare
nel 2009 e si riferisce ad un blog di Blogspot e viene usato per descrivere una rete online
di comunità di interessi maschili tra loro anche molto diversi.
Troviamo ad esempio movimenti con una consolidata tradizione e radicamento sociale
come i movimenti per i diritti maschili. Non è un fenomeno assolutamente nuovo: la prima
Men’s Rights Association (ora Men’s Defense Association) è del 1973 e si poneva di
affrontare da un punto di vista maschile un'ampia serie di temi, dal divorzio alle azioni
affermative, dalla giustizia al welfare in connessione con i movimenti dei padri separati.
L’idea alla base di questi movimenti è fondamentalmente molto simile alle analisi
femministe di quegli anni: cioè la preoccupazione circa i costi sociali della mascolinità,
preoccupazione che riguarda non solo aspetti psicologici e culturali – come l’ansia di dover
aderire ad un insieme di aspettative sociali che limita fortemente la possibilità di esprimere
liberamente istati emotivi, ma colpisce in maniera concreta benessere psicofisico degli
uomini stessi: dal più alto tasso di suicidio e mortalità degli uomini al maggiore
coinvolgimento in criminalità, alcol e droghe, dalla crisi dell'istruzione e della salute
mentale dei ragazzi alle frustrazioni e preoccupazioni relative alla paternità e alla perdita di
status all'interno delle famiglie. Non a caso una delle metafore che più circolano tra questi
gruppi è quella della mascolinità come “sesso sacrificabile”. Secondo molte ricerche, negli
Stati Uniti, le ragazze hanno superato i maschi nel numero di iscrizioni all’università. Da
qualche anno Philip Zimbardo, sottolinea proprio come questo aspetto, lo stesso che
denunciava Susan Faludi: l’assenza di alternative psicologiche e culturali accettabili a una
visione egemonica della mascolinità per cui se non sei dominante, sei un mollusco.
C’è dunque, al fondo di questi movimenti un’idea di liberazione maschile, di ripensamento
della mascolinità – che testimonia di come questi discorsi siano emersi da una matrice di
analisi femminista. Il problema però è che questa liberazione della mascolinità – questa
uscita dalla crisi – finisce per virare nel crinale opposto: ossia la vittimizzazione. Questi
movimenti, cioè, non si limitano a denunciare i costi sociali che la mascolinità produce
sugli uomini, o a diffondere l’idea che anche gli uomini debbano liberarsi dai ruoli sociali
imposti, ma arrivano a sostenere appunto l’idea del maschio bianco come vittima, soggetto
a numerose e non riconosciute ingiustizie a livello legale, sociale e psicologico. E laddove
c’è una vittima, c’è un carnefice da riconoscere.
Se dunque, tale prospettiva condivide con il femminismo un rifiuto degli ideali conservatori
di ruoli di genere tradizionali, allo stesso tempo ritiene che gli uomini non possano fare a
meno di questi ideali, di questa mascolinità che li danneggia, perché come aveva detto la
stessa Faludi: Se gli uomini non reagiscono è perché la società non ha indicato loro una
rotta su cui avventurarsi.
Ecco allora che la mascolinità tradizionale viene negata per essere ribadita come postura
vittimizzante attraverso cui gli uomini cercano di affrontare la realtà della loro impotenza
rispetto ad una società in cui loro sono solo le tematiche femminili ad emergere come
degne di riflessione. E dunque, paradossalmente, è colpa delle donne o del femminismo
stesso che, da lato dice all’uomo “devi cambiare”, ma dall’altro continua a perpetuare
l’immagine dell’uomo come oppressore, violento, carnefice, producendo quel “sessismo al
contrario” che nei gruppi maschili prende il nome di male bashing.
Cosa fare?
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Maschilità oggettificata (Patterson e Elliott 2002). Attualmente, gli uomini stessi appaiono
sottomessi a quei medesimi codici di apparenza che un tempo erano considerati esclusivo
appannaggio del femminile. Se la maggior parte degli studi si concentra sulle
rappresentazioni femminili, quelli che mettono a confronto i due generi riscontrano un
cambiamento nelle rappresentazioni degli uomini, piuttosto che delle donne. Belknap e
Leonard (1991) rilevano che gli uomini sono rappresentati in maniera meno autoritaria e
maggiormente decorativa. Vent’anni dopo, anche Mager e Helgeson (2011, 249) trovano
una «tendenza della pubblicità nelle riviste di moda a un uso degli uomini più decorativo».
Michael Kimmel sostiene che questa preoccupazione verso il corpo maschile è
derivata da: una sempre più crescente partecipazione delle donne nella sfera
pubblica che ha portato all’esaltazione di una sorta di muscolar backlash (come è
possibile vedere nelle figure di Sylvester Stallone and Arnold Schwarzenegger, attori che
assomigliano ad una sorta di fallo antropomorfizzato); l’importanza sempre minore del
ruolo produttivo maschile – anche il corpo maschile diventa oggetto di consumo e non solo
più soggetto produttivo; e la sempre minore stigmatizzazione dell’universo gay a cui si
associa l’emersione del bodybuilder gay macho. La nascita dei primi magazine dedicati
agli uomini coincidono con questo cambio di paradigma nella rappresentazione
della mascolinità. Diventa sempre più accettabile per un uomo porre grande attenzione
alla propria salute e aspetto fisico.
Viviamo ogni giorno l’esposizione a questa mascolinità egemonica, in televisione, film,
pubblicità e sport. La mascolinità ha più stereotipi fissi della femminilità. Di solito sono
raffigurati come individui forti, intelligenti e indipendenti. Devono essere potenti e sotto
controllo, senza prendere ordini dalle donne. Ogni individuo mostra la propria mascolinità
attraverso l'autorità e l'oggettivazione delle donne. Questo è un tratto dominante che
vediamo negli uomini, come ho già detto, è egemonico per gli uomini essere assertivi e
potenti.
Inoltre, questa pubblicità rafforza l'eterosessualità, in quanto non vi sono segni di relazioni
omosessuali. Ignorando qualsiasi relazione omosessuale, rinforza l'oppressione di
diversi orientamenti sessuali.
Anche la mascolinità è una costruzione sociale, frutto di un lavoro performativo. Nella sua
qualità di prova, di sforzo, la maschilità risulta non solo una condizione perpetuamente
fragile ed elusiva, ma anche una fabbricazione perseguitata dallo spettro del fallimento,
dall'incapacità di essere pari a un ideale che richiede una costante verifica personale e
sociale.
Nel campo della pubblicità, oggi è diventato un cliché che gli uomini sono incompetenti,
insensibili, superficiali e decisamente stupidi a livello nazionale. La tenacia di questa
pubblicità suggerisce che gli uomini colludono nella loro diffamazione. Possiamo vedere
qui un risveglio della cultura lad nell'americano popolare The Simpsons (con Bart come
ladro irriverente mentre Homer è stupido) La cultura lad (anche cultura laddish e laddismo)
è una sottocultura britannica nata nei primi anni '90. Raffigura giovani uomini che
coinvolgono giovani che assumono una posizione anti-intellettuale, evitando la sensibilità
a favore del bere, della violenza e del sessismo.