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DISTRUTTIVITA’ UMANA E GIUSTIZIA

Affrontare un tema così cruciale e complesso come l’intrinseca pulsione dell’uomo a


distruggere se stesso e il mondo circostante rappresenta in termini antropologici e
psicologici una sfida talmente grande che certamente non può essere soddisfatta in
una trattazione necessariamente limitata come quella che questa sera affrontiamo;
pertanto mi limiterò a richiamare gli aspetti principali di una condizione che
affligge l’uomo fin dalla sua comparsa sulla terra ma che oggi potremmo a buon
diritto affermare essere divenuta una vera e propria sindrome, intesa come
manifestazione intrinsecamente patologica e fondamentalmente minacciosa per la
stessa sopravvivenza dell’umanità.

Il terribile problema che accompagna l’uomo, fin da quando egli è stato capace di
consapevolezza, è stato quello di poter concepire e valutare la profondità del bene
e del male di cui era capace; non a caso questa tematica rappresenta il nucleo
fondante di tutte le religioni e di tutti i sistemi sociali, giuridici e
naturalmente iniziatici.

Dove finisce l’uno e comincia l’altro rappresenta l’enigma insolubile di ogni


filosofo e mistico nonché di ogni giurista degno di questo nome. Fin dall’antichità
la problematica è ben sviluppata e la consapevolezza della sua tragicità è
ampiamente riconosciuta

In un mito greco sull’età del ferro si può leggere quanto segue: “Le generazioni
peggiorano sempre più, verrà un tempo in cui saranno talmente maligne da adottare
il potere; il potere equivarrà a diritto per loro, e sparirà il rispetto per la
buona volontà. Infine, quando l’uomo non sarà più capace di indignarsi per le
ingiustizie o di vergognarsi in presenza delle meschinità, Zeus lo distruggerà;
eppure, persino allora, ci sarebbe una speranza, se soltanto la gente comune
risorgesse e rovesciasse i tiranni che la opprimono”.

Questo testo potrebbe essere stato scritto oggi e rappresentare un’altissima


sintesi di quanto sta avvenendo nel mondo presente. Non c’è giorno in cui non si
parla di violenza, distruzione, guerra, sofferenza fisica e morale e naturalmente a
corollario si pronuncia spesso in modo incongruo la parola giustizia.

Poiché la violenza e la distruttività aumentano su scala nazionale e mondiale, per


non parlare dell’aumento esponenziale di conflitti familiari, interpersonali,
sociali e naturalmente all’interno stesso individuo, ogni sorta di specialisti
hanno rivolto la loro attenzione all’indagine teorica della natura e delle cause
dell’aggressione.Già negli anni ‘20 Freud, rivedendo la sua precedente teoria
incentrata sulla pulsione sessuale, aveva formulato una nuova teoria in cui la
passione di distruggere (istinto di morte) era considerato altrettanto potente
della passione di amare (istinto di vita).

Probabilmente uno dei motivi di tale mutamento va individuato nel fatto che il
livello di violenza e la paura della guerra avevano superato una soglia critica; a
questo tema si dedicò anche Konrad Lorenz nella sua opera sull’aggressione umana in
particolare nel testo del 1969 “Il cosiddetto male”.

Da allora non si contano gli studi che hanno indagato i diversi tipi di
aggressività che si manifestano nell’uomo, individuando una cosiddetta aggressione
“benigna” di tipo difensivo al servizio della sopravvivenza dell’individuo e della
specie, programmata filogeneticamente (lotta o fuga), biologicamente adattiva,
contrapposta a una aggressività “maligna”.

La crudeltà della distruttività è specifica della specie umana mentre la prima


apparirebbe programmata filogeneticamente, l’altra è praticamente assente nella
maggior parte dei mammiferi, non è programmata filogeneticamente, non è
biologicamente adattiva, non ha alcuno scopo e se soddisfatta procura piacere e
voluttà.

Inoltre il grado di distruttività aumenta con il crescente sviluppo della civiltà,


con la complessità sociale e con il potere intrinseco dei gruppi umani e poi delle
nazioni e non è il contrario; dunque l’uomo si differenzia dagli animali perché un
assassino. E l’unico primate che uccide tortura membri della propria specie senza
motivo, non ideologico, traendone soddisfazione. E proprio questa aggressione
“maligna” biologicamente non adattiva e non programmata filogeneticamente, che
costituisce il vero problema e il pericolo dell’esistenza dell’uomo come specie.

Nella distinzione fra aggressione benigna e maligna occorre introdurre un ulteriore


elemento di differenziazione fra istinto e carattere o più precisamente fra
pulsioni radicate nelle esigenze fisiologiche o pulsioni organiche e quelle
passioni specificamente umane che affondano le radici nel carattere di un individuo
o società.

La brama di potere o di possesso sono risposte a esigenze esistenziali a loro volta


radicate nelle condizioni stesse dell’esistenza umana e sono derivate dalle
circostanze sociali che in ogni caso operano in riferimento alla situazione
esistenziale dell’uomo, possono essere derivate da una psiche infinitamente
malleabile, indifferenziata che può essere modificata a seconda delle circostanze
ambientali e culturali, così come vogliono le teorie ambientaliste che vedono nel
condizionamento esterno l’evoluzione delle manifestazioni individuali e sociali.

Si potrebbe richiamare a questo punto quanto dice Terenzio nel Heautontimorumenos


(il punitore di se stesso) “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” ovvero “Sono
un uomo, e non c’è niente di umano che mi sia estraneo”. La frase è perfetta per
sottolineare l’ambiguità della condizione umana in quanto le interpretazioni che
sono seguite nel tempo si dividono tra quelle diciamo “benevole” per cui la si
potrebbe interpretare come manifestazione affabile di umanità nel non temere di
forzare un po’ la barriera dietro la quale sta colui che ci è estraneo, e farlo
diventare il nostro prossimo – il nostro vicino.

Naturalmente le interpretazioni opposte sono altrettanto rappresentate tanto che


Dostoevskij la fa pronunciare al diavolo nei F.lli Karamazov: “Satana sum…”. Il
marchese de Sade le fa aprire “Le 120 giornate di Sodoma”. Carl Gustav Jung ne
aveva fatto il proprio motto. Etc.

Dunque la vita dell’uomo è dominata da istinti che sono una categoria puramente
naturale, mentre le passioni radicate nel carattere sono una categoria socio-
biologica e storica; queste ultime sebbene non siano direttamente al servizio della
sopravvivenza fisica sono altrettanto forti e spesso anche più forti degli istinti.

Sono la materia di cui sono fatti i sogni dell’uomo, così come l’arte, la
religione, il mito, il dramma, tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta;
l’uomo non può vivere come una cosa, soffre immensamente quando viene ridotto a un
meccanismo capace solo di mangiare, moltiplicarsi e anche nella più confortevole
sicurezza crea per se stesso il dramma della distruzione.

Sono le passioni umane che trasformano l’uomo da semplice cosa in eroe; dunque le
passioni intese come buone o cattive vanno interpretate come il tentativo di dare
un senso alla propria vita, di trascendere le pure e semplici esigenze di
sussistenza, altrimenti potrà essere addomesticato ma mai guarito. Così come le
passioni che si trovano al servizio della vita rispetto alla distruttività e alla
crudeltà, anche queste rappresentano una risposta al problema dell’esistenza umana;
persino l’individuo più distruttivo è umano come un santo. Potremo vedere in lui un
uomo che ha preso la strada sbagliata nella ricerca della salvezza.

Dunque il vizio è umano, in effetti tali pulsioni distruggono la vita dello spirito
non solo della vittima ma anche dell’aguzzino, costituiscono un paradosso: la vita
che si rivolta contro se stessa nel tentativo di darsi un senso; capire le
perversioni non significa perdonare ma se non le capiamo non abbiamo modo di
scoprire come limitarle e quali fattori tendono ad accrescerle.

Molte di queste considerazioni vengono riprese da Erich Fromm nel suo testo
fondamentale:

“ANATOMIA DELLA DISTRUTTIVITA’ UMANA” del 1978.

La letteratura scientifica dedicata a queste tematiche è sterminata; gli


antropologi hanno constatato che le società primitive fin dai cacciatori-
raccoglitori, erano enormemente meno aggressive e distruttive rispetto a quelle più
evolute in epoca storica dove la concentrazione umana e dell’organizzazione
sociale, con la sua differenziazione in ruoli e poteri, ha costituito la condizione
necessaria per la comparsa e la prevalenza della pulsione al controllo e allo
sfruttamento degli altri, mentre le società precedenti erano improntate più alla
solidarietà ed alla collaborazione. Ciò non vuol dire che in queste ultime non
esistessero forme di violenza anche estrema ma che queste venivano limitate
all’indispensabile o alla necessità di sopravvivenza del gruppo.

Anche l’evoluzione dell’organizzazione umana da un iniziale forma matriarcale


intesa come incentrata sulla generatrice della vita, verso una forma Patriarcale
basata sul potere dell’intelletto e della parola come principio creativo,
altrettanto potente, è stata considerata come punto di svolta nella storia
dell’umanità.

Impossibile in questa sede anche solo enumerare gli studi scientifici che sono alla
base di questa considerazione e di quanto la psicanalisi e la sociologia hanno
prodotto,

Si potrebbe dire che oggi quella che gli psicoanalisti riconoscono, da Frued in
poi, come “desiderio di morte” contrapposto al desiderio di vita è da sempre
conosciuto come “Cupio dissolvi”, espressione che ha la sua origine in San Paolo,
il quale nella 1a lettera ai Filippesi scrive, secondo il testo della Vulgata,
Desiderium habens dissolvi et cum Christo esse, dal greco : τὴν ἐπιϑυμίαν ἔχων εἰς
τὸ ἀναλῦσαι καὶ σὺν Χριστῷ εἶναι: dove dissolvi e ἀναλῦσαι esprimono il concetto
dello scioglimento dell’anima dal corpo e quindi della morte. La frase ritorna con
frequenza nella patristica in Tertulliano, De patientia 9, 5: «Cupio dissolvi et
esse cum Christo, dicit Apostolus»). Col tempo però il senso originario di cupio
dissolvi si è via via trasformato, per indicare rifiuto dell’esistenza, desiderio
di estinzione, volontà masochistica di autodistruzione, etc.

L’uomo porta con sé il gravame del bene e del male fin dalla sua comparsa sulla
terra e ogni sua manifestazione di pensiero lo ricorda senza pietà, bene e male,
luce e buio, Jin e Jang, pavimento a scacchi.

Soltanto la capacità di saggezza iniziatica del profondo senso della giustizia


intesa come capacità cosciente meditata ed applicata nella valutazione della
realtà, può almeno temporaneamente contrastare quella “Banalità del male” che Anna
Arent ha così ben definito; dico temporaneamente perché non mi illudo che l’uomo
possa raggiungere una qualsiasi perfezione ma è compito dell’iniziato tentare un
equilibrio soddisfacente soprattutto quando ogni risorsa sembra esaurita e ogni
speranza vana. Senza questo tentativo pragmatico ogni discussione rimane un
esercizio interessante ma vuoto dal punto di vista morale ed intellettuale.
Concepire la giustizia come possibile risultante di ogni sforzo è la sublimazione
di quello che noi tentiamo di

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