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PARTE III: Gender studies – il genere come dispositivo socioculturale

Simone de Beauvoir: Il secondo sesso / Infanzia


Scrittrice e filosofa nata in una famiglia dell’alta borghesia francese poi andata in bancarotta,
Simone de Beauvoir è oggi considerata la fondatrice del femminismo contemporaneo. Sebbene
venga spesso ricordata solo per il suo contributo al femminismo o peggio, come “la compagna di
Sartre”, lei è molto di più. Nel corso della sua opera ha scritto numerosi saggi e romanzi e, durante
l’occupazione nazista della Francia, fondò con Sartre il gruppo di resistenza “Socialismo e libertà”.
De Beauvoir è un’esponente della corrente esistenzialista. Secondo lei l’esistenza, cioè il fatto che
veniamo messi al mondo senza sceglierlo, precede l’essenza, cioè tutto ciò che può essere
modificato tramite il libero arbitrio. I fatti dell’esistenza possono essere affrontati in due modi: con
l’immanenza, accettando il mondo così com’è, o con la trascendenza, tentando di progettarlo e
modificarlo. Infatti, nulla è naturale, poiché la nostra vita è una conseguenza del nostro modo di
porci di fronte a tutto quello che consideriamo dato. Questo principio è alla base de “Il secondo
sesso”: per secoli si è pensato che la condizione subordinata della donna fosse qualcosa di
naturale, quando in realtà non c’è un destino comune a tutte le donne, un “eterno femminino”
insuperabile. Le donne sono oppresse perché hanno scelto la via dell’immanenza e non quella
della trascendenza, anche se de Beauvoir non sa spiegare come e perché questa scelta sia
avvenuta. Tuttavia, non è la trascendenza la chiave per la liberazione della donna. L’unica
rivoluzione possibile è la lotta finalizzata alla parità tra i sessi: “L’oppresso non può realizzare la sua
libertà se non nella rivolta, giacché la peculiarità della situazione contro la quale si ribella consiste
proprio nell’impossibilità di ogni sviluppo positivo; la sua trascendenza si supera all’infinito solo
nella lotta sociale e politica”. Il libro comincia con una domanda fondamentale: che cos’è una
donna? Tutti sono d’accordo nel riconoscere che nella specie umana sono comprese le femmine,
che costituiscono circa mezza umanità, ma si afferma che “la femminilità è in pericolo”, esortando
le donne “a restare donne”. Quindi, dice de Beauvoir, non è detto che ogni essere umano di genere
femminile sia una donna. Per essere tale, bisogna che partecipi alla “femminilità”, che tuttavia non
è un’entità fissa: “Donne non si nasce, lo si diventa”. Non esistono caratteristiche fisse e immutabili
che definiscano la categoria di donna, così come non esistono caratteristiche fisse che definiscano
la categoria dell’ebreo o del nero. “Se oggi la femminilità è scomparsa, è perché non è mai esistita”.
Gli uomini non scrivono libri sulla posizione singolare che i maschi hanno nell’umanità. Perché?
Perché il rapporto tra i due sessi non è quello tra due poli: l’uomo rappresenta insieme il positivo e
il negativo, al punto che diciamo “gli uomini” per indicare tutti gli esseri umani. Esiste un tipo
umano assoluto, che è il tipo maschile. La donna è diversa e particolare in quanto ha le ovaie e
l’utero, mentre l’uomo dimentica di avere ormoni e testicoli. Il suo corpo ha una relazione
“normale” con il mondo, mentre il corpo della donna, come diceva Aristotele, viene considerato
“naturalmente difettoso e manchevole”. Ugualmente, san Tommaso diceva che la donna è “un
uomo mancato” e la Bibbia narra che Eva nasce dalla costola di Adamo. L’umanità è maschile, e
l’uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso. Lei è ciò che l’uomo
decide che sia: “l’inessenziale di fronte all’essenziale”. L’uomo è il Soggetto, la donna è l’Altro.
L’alterità, la contrapposizione tra il sé e un altro, è una categoria fondamentale del pensiero
umano. Come concluse Lévi-Strauss, il passaggio dalla natura alla cultura è contrassegnato dalla
tendenza a pensare le relazioni sotto forma di sistemi di opposizioni. La coscienza dell’Altro, però,
gli oppone la stessa pretesa: io sono lo straniero per gli stranieri. Ma questa reciprocità non ha
rilievo tra i essi, perché uno solo dei termini si definisce come essenziale; la donna si interfaccia
solo come Altro, mai come Uno. Non è una questione numerica, perché ci sono tante donne quanti
uomini sulla Terra. Non c’è stato neanche un particolare evento storico. Nel caso dei proletari, ad
esempio, c’è uno sviluppo storico che spiega la loro esistenza come classe e che rende conto della
distribuzione di quegli individui in quella classe. I proletari non ci sono sempre stati, le donne sì. La
loro subordinazione non è avvenuta, non è la conseguenza di un fatto o di uno sviluppo. I proletari
si affermano come soggetti identificando come altri i borghesi, mentre le donne non dicono “noi”,
sono gli uomini che dicono “le donne”. I proletari hanno fatto la rivoluzione in Russia, mentre
l’azione delle donne è sempre stata un movimento simbolico che ha ottenuto ciò che gli uomini si
sono designati di concedere. Non hanno strappato niente, hanno solo ricevuto. Inoltre, non c’è
unità: le borghesi sono solidali coi borghesi e non con le donne proletarie; le bianche con gli
uomini bianchi e non con le donne nere. La donna è sempre stata suddita dell’uomo. I due sessi
non si sono mai divisi il mondo in parti uguali e ancora oggi la donna è in una condizione di
subordinazione. Anche se le sono riconosciuti dei diritti, una lunga abitudine impedisce che essi
trovino nel costume un’espressione concreta. Economicamente, a parità di condizioni, gli uomini
hanno situazioni più favorevoli, salari più elevati, occupano un numero più ampio di posti e le
cariche più importanti. L’educazione dell’infanzia tramanda che il presente assorbe il passato, e nel
passato la storia è stata fatta dai maschi. Essi hanno creato le leggi favorendo il loro sesso e le
religioni riflettendo la loro volontà di dominio. Nell’800 la contesa femminista diviene una lite
settaria, perché una delle conseguenze della Rivoluzione Industriale è la partecipazione delle
donne al lavoro produttivo, che permette loro di dare una base economica alle loro rivendicazioni.
Di conseguenza, i loro avversari si fanno più aggressivi.
La borghesia, ad esempio, si aggrappa alla morale tradizionale e vede nella famiglia la garanzia
della proprietà privata, pretendendo di legare la donna all’ambiente domestico con tanta asprezza
quanto più l’emancipazione femminile si fa minacciosa. Ciò avviene anche nella classe operaia,
dove le donne diventano concorrenti pericolose, abituate com’erano a lavorare a bassi salari. Per
provare l’inferiorità della donna, gli antifemministi hanno messo in campo non solo la religione, la
filosofia e la teologia, ma anche la scienza. Come nelle leggi Jim Crow a proposito dei neri
d’America, si afferma una segregazione “egualitaria”, un’“uguaglianza nella differenza” che serve
solo a introdurre discriminazioni severe. In questo senso, dice de Beauvoir, ci sono diverse analogie
tra la situazione delle donne e quella dei neri: la casta dominante vuole tenerli al loro posto, cioè al
posto che essa ha scelto per loro. Essa decanta le virtù del “buon nero” incosciente, infantile,
giocoso e rassegnato e della donna “veramente donna”, frivola, puerile, irresponsabile e
sottomessa all’uomo. Gli interessi economici, comunque, non sono gli unici a entrare in gioco. Uno
dei benefici che l’oppressione assicura agli oppressori è che il più umile di loro si sente superiore:
“Un povero bianco del Sud degli USA ha la consolazione di dire a se steso che non è uno sporco
negro; così il maschio più mediocre si sente di fronte alle donne un semidio”. Attualmente gli
uomini sanno cosa perdono rinunciando alla donna come la sognano oggi, ma non sanno cosa
potranno avere dalla donna di domani. La grande maggioranza di essi non afferma, nel rispetto
dell’ideale democratico dell’uguaglianza tra gli esseri umani, l’inferiorità della donna, con un
atteggiamento di collaborazione e di benevolenza. Ma sul piano dell’uguaglianza concreta, non
appena entra in conflitto con la donna, l’uomo tende a tematizzare l’ineguaglianza: le donne sono
uguali agli uomini e quindi non hanno niente da rivendicare, o non saranno mai uguali agli uomini
e per questo le loro rivendicazioni sono vane. Con “donne non si nasce, lo si diventa” de Beauvoir
intende dire che non c’è nessun destino biologico, psichico o economico che definisce la posizione
della donna della società, ma è l’insieme della storia e della civiltà e elaborare la divisione tra il
maschio e il “castrato” che chiamiamo donna. Nel primo capitolo, ad esempio, parla di come
queste percezioni vengono costruite nell’infanzia. I drammi della nascita sono gli stessi per
entrambi i sessi, ma quando il bambino cresce viene trattato in modo diverso. Nei primi 3 o 4 anni,
non c’è differenza l’atteggiamento dei maschi e quello delle femmine: entrambi si sforzano di
perpetuare la condizione che ha preceduto lo svezzamento e entrambi vogliono sedurre gli adulti,
piacere, provocare riso, farsi ammirare. La bambina, però, continua a essere circondata da moine e
a stare attaccata alla mamma, mentre si vuole che il bambino diventi “un ometto”. Egli diventerà
simpatico se non cercherà di piacere, se si libererà dall’attaccamento ai genitori. “Un uomo non
chiede di essere baciato, non si guarda nello specchio. Un uomo non piange”. Molti bambini,
infatti, vorrebbero per questo essere femmine, ma questa iniziale posizione di svantaggio dipende
dai grandi progetti che si fanno per il maschio. La severità a cui viene sottoposto implica
un’immediata valorizzazione. Gli si fa capire che i sacrifici richiesti sono una prova della sua
superiorità maschile. Per il bambino queste nozioni astratte diventano concrete nel pene. La
fierezza nei suoi confronti non nasce in modo spontaneo, ma proviene dall’ambiente. Il pene è
visto come un privilegio originario, dal quale il ragazzo trarrebbe un sentimento di superiorità. La
bambina, invece, non vede stimolata la sua curiosità intorno alla vagina. Viene trattata come se
non avesse sesso. Il famoso “complesso di castrazione” femminile è uno degli argomenti preferiti
degli psicanalisti. Un’infinità di bambine, in realtà, ignorano l’anatomia maschile o considerano il
pene come una cosa ridicola. Succede anche che venga considerato un’anomalia, qualcosa di
disgustoso. La cosiddetta “invidia del pene” viene suscitata soprattutto nel modo di urinare. Ci
sono Paesi in cui uomini urinano seduti e le donne in piedi, ma nella società occidentale
contemporanea gli usi vogliono che le donne si accovaccino e i che i maschi restino in piedi. Per
urinare, la bambina deve accovacciarsi, denudarsi e quindi nascondersi, mentre il bambino vede la
funzione urinaria come una specie di gioco volontario. Alle bambine pare che il bambino, che ha il
diritto di toccare il proprio pene, possa servirsene come un giocattolo, mentre i loro organi
femminili sono tabù. Questa, per la bambina, è la più accentuata delle differenze sessuali.
** “Il secondo sesso” è il testo da cui è cominciata la riflessione politica sulle donne nel II
dopoguerra. Va collocato nella cosiddetta seconda ondata femminista, che proponeva un
femminismo anti-identitario, che non valorizza la differenza femminile in quanto tale (a differenza
della terza ondata a partire dagli anni ‘60, che cercherà di spiegare la differenza tra i generi a
partire dalla differenza femminile → “femminismo della differenza”). L’esistenzialismo, in quanto
umanesimo, si concentra sul ruolo della coscienza. Anche se il suo approccio si differenzia molto da
quello di Lévi-Strauss (che appunto parlava dell’esistenza di strutture inconsce e non di coscienza),
si può dire che in de Beauvoir la subalternità femminile è simile al divieto dell’incesto, perché
anche se in modo diverso è presente in ogni società. La sua opera ha indubbiamente subito
l’influenza di Richard Wright, che faceva parte anch’egli del circolo esistenzialista. Molte idee di de
Beauvoir sulla subalternità femminile sono infatti mutuate dalle idee trasmesse da Wright sul
razzismo in “Black Boy”. Per Wright, negli USA la “questione nera” era in realtà una “questione
bianca”, perché le costruzioni sui neri sono creazioni dei bianchi per dominarli e per mantenere i
loro privilegi. Questo tema fu ripreso anche da Sartre in “Riflessioni sull’antisemitismo” in relazione
all’antisemitismo. “Il secondo sesso” è un testo filosofico, ma è importante per l’antropologia
perché analizza la problematica della rappresentazione della donna come Altro e pone la
femminilità come qualcosa di socialmente costruito. (“Nella storia della specie umana c’è stata una
prevalenza del sesso che uccide sul sesso che genera”). In particolare, enfatizza come la lingua sia
la prova più elementare della negoziazione della femmina in quanto persona e della sua
costruzione in quanto donna, soprattutto nelle lingue latine.
Più la società si fa borghese, più la discriminazione aumenta, perché più viene istituzionalizzato il
matrimonio nucleare nelle classi medie, più la donna viene confinata in casa ad accudire il marito.
Anche se conquista l’uguaglianza formale, la donna subisce una disuguaglianza di fatto.
**De Beauvoir critica Freud per il suo concetto di “invidia del pene”, perché concepisce la donna
come qualcosa di mancante, quando questa invidia non è rivolta tanto all’organo quanto al
privilegio che ne deriva.

Federici Silvia: Salario per il lavoro domestico – Perché l’attività sessuale è lavoro
Silvia Federici è una sociologa, filosofa, attivista e saggista italiana naturalizzata statunitense. Nei
suoi lavori, analizza il capitalismo, la politica salariale e il lavoro riproduttivo da una prospettiva di
genere, sostenendo che il corpo delle donne sia l’ultima frontiera del capitalismo. Il suo ultimo
libro, “Il punto zero della rivoluzione”, raccoglie quasi 40 anni della sua riflessione teorica e politica.
Il saggio che apre il volume è del 1974, quello che lo chiude del 2010. Per Federici, il salario per il
lavoro domestico non è solo una prospettiva rivoluzionaria, ma è anche l’unica prospettiva
rivoluzionaria dal punto di vista femminista. Nel capitalismo ogni lavoratore e ogni lavoratrice è
sfruttato. Il salario crea l’impressione di uno scambio equo (tu lavori e io ti pago), ma piuttosto che
pagare il lavoro fatto, in realtà nasconde tutto il lavoro non pagato che si traduce in profitto. Il
salario, però, riconosce che a una persona la qualifica di lavoratore. Essere un lavoratore permette
di contrattare le condizioni del lavoro e l’ammontare del salario e significa essere parte di un
contratto sociale. Il lavoro domestico non è pagato e quindi non è considerato un lavoro. Esso è la
più sottile violenza perpetrata dal capitale contro un settore della classe operaia, poiché non solo è
stato imposto alle donne, ma è stato anche trasformato in un attributo naturale della femminilità.
Il fatto che non sia considerato come un vero lavoro impedisce alle donne di lottare contro di esso,
se non all’interno di quelle liti familiari in cui le donne non sono viste come lavoratrici in lotta, ma
come bisbetiche. Quanto poco naturale sia essere una casalinga è dimostrato dagli anni di tirocinio
giornaliero diretti da una madre senza salario per preparare la donna a questo ruolo e per
convincerla che figli e marito sono il meglio che può aspettarsi dalla vita. E per quanto possono
essere ben addestrate, sono poche quelle che non si sentono ingannate quando, passato il giorno
del matrimonio, si trovano davanti a un lavandino sporco. L’amore e i soldi sono poca cosa di fronte
a un lavoro così grande. Negando un salario al lavoro domestico e trasformando quest’ultimo in un
atto d’amore il capitale ha preso due piccioni con una fava: da un lato ha disciplinato le donne a
pensare che sia la cosa migliore da fare nella vita, ottenendo un’enorme quantità di lavoro gratuito;
dall’altro ha disciplinato il lavoratore maschio rendendo la “sua” donna dipendente dal suo lavoro e
dal suo salario, dandogli una serva per compensarlo di aver servito per tante ore in fabbrica o in
ufficio. “Nello stesso modo in cui Dio ha creato Eva per far piacere ad Adamo, così il capitale ha
creato la casalinga per servire fisicamente, emotivamente e sessualmente il lavoratore maschio”.
Tanto più povera è la famiglia tanto più pesante è l’asservimento della donna, perché più un uomo
è servo e comandato a lavoro, più comanda a casa. Le donne si ribellano e cercano di fargliela
pagare, ma sempre all’interno della propria casa. Il problema allora è come portare queste lotte
fuori dalle cucine e dalle stanze da letto. La richiesta di salario per il lavoro domestico è la richiesta
con cui finisce la natura delle donne e inizia la loro lotta, perché volere un salario per il lavoro
domestico significa rifiutare tale lavoro come espressione della loro natura, e dunque rifiutare il
ruolo femminile inventato dal capitale. È una richiesta rivoluzionaria non perché distrugge il
capitale, ma perché lo costringe a ristrutturare i rapporti sociali in termini più favorevoli all’unità
della classe. Chiedere il salario significa rendere visibile che la mente, il corpo e le emozioni delle
donne sono state distorte per una funzione specifica: “D’ora in poi ci dovranno pagare perché
come donne non garantiamo più niente. Vogliamo chiamare lavoro ciò che è lavoro e da questo
punto di vista possiamo chiedere non uno, ma più salari, perché siamo cameriere, prostitute,
infermiere allo stesso tempo. Questa è l’essenza dell’eroica sposa che si celebra alla festa della
mamma. Noi diciamo basta: smettetela di celebrare il nostro sfruttamento. D’ora in poi vogliamo
soldi per ogni momento del nostro lavoro così da poterlo rifiutare in parte o completamente.” Un
secondo lavoro non cambia le cose, poiché riproduce lo stesso ruolo in forme diverse. I lavori creati
per le donne sono semplici estensioni della condizione della casalinga in tutte le sue articolazioni. I
fatto che le donne debbano preoccuparsi del loro aspetto sul posto di lavoro, ad esempio, è una
condizione di lavoro. Fino a poco tempo fa le hostess delle linee aeree statunitense venivano
periodicamente pesate ed erano costantemente a dieta per paura di essere licenziate. Qualsiasi
cosa faccia, la donna non deve perdere la sua “femminilità”, non deve cessare di appagare l’uomo.
Libera o repressa, anche la sessualità delle donne è ancora sotto controllo. Federici dice che
l’attività sessuale è lavoro, perché le donne hanno la responsabilità di rendere l’esperienza sessuale
piacevole per l’uomo. Il dover piacere è così costitutivo della sessualità delle donne che esse hanno
imparato a godere del dare piacere, dell’eccitare gli uomini. All’interno della famiglia, padri fratelli
e mariti agiscono come agenti dello Stato, garantendosi che le prestazioni sessuali delle donne
rispettino le norme di produttività stabilite e socialmente sanzionate. La commercializzazione del
corpo femminile, inoltre, spinge le donne a odiare il proprio corpo. Lo odiano perché vengono
abituate a guardarlo da fuori, con gli occhi degli uomini. Da come il loro corpo si presenta dipende
la possibilità di ottenere un buon lavoro e di avere un potere sociale. Sempre impegnata a recitare
e a piacere, la donna ha insomma troppa paura di fallire nei compiti assegnatole dalla società per
poter godere nel fare sesso.

Ortner, Whitehead: Sesso e genere – L’identità maschile e femminile – Una


spiegazione dei significati sessuali
In “Sesso e genere: l’identità maschile e femminile”, Ortner e Whitehead, due antropologhe
statunitensi, ribaltano il naturalismo dominante nell’ambito del sesso e del genere a favore di un
approccio che considera genere e sessualità in quanto costruzioni culturali. Infatti, anche se da
tempo è stato riconosciuto che i “ruoli sessuali” variano da cultura a cultura, così come il grado e la
qualità dell’asimmetria sociale tra i sessi, prevale ancora il pregiudizio per cui gli uomini e le donne
sono soprattutto oggetti naturali. In realtà, le caratteristiche naturali del genere e i processi del
sesso e della riproduzione fanno solo da sfondo all’organizzazione culturale del genere e della
sessualità. Ciò che gli uomini e le donne sono, quali tipi di relazioni si instaurano tra loro, non
riflettono semplicemente dei dati biologici, ma sono soprattutto prodotti dei processi sociali e
culturali. Questo approccio “simbolico” permette la scoperta di una diversità dei significati
transculturali attribuiti ai sessi e alla sessualità e richiama l’attenzione su quei fattori sociali e
culturali che si scontrano direttamente con la cultura di genere. In altre parole, non si tratta solo di
capire che significano “maschio”, “femmina”, “sesso” e “riproduzione” in una data cultura, ma
anche mettere in relazione tali significati con un contesto più vasto di significati interrelati. “Sesso e
genere” è una raccolta di saggi di vari autori. Dal punto di vista metodologico, sono due gli approcci
prevalenti: uno più “culturalistico”, che si concentra sulle relazioni tra simboli culturali e sulla loro
logica interna, e uno più “sociologico”, che si concentra sui rapporti tra simboli, significati e aspetti
delle relazioni sociali.
• L’approccio culturalistico evidenzia che nessun simbolo di genere può essere compreso senza una
sua valutazione all’interno di un più ampio sistema di simboli e significati. L’enfasi è quindi sulla
produzione di senso dei simboli che si riferiscono al sesso e al genere in termini di altre credenze,
classificazioni e assunzioni culturali. Ad esempio, da un’analisi del simbolismo andaluso emerge
che i simboli popolari del diavolo sono in prevalenza associati al sesso femminile piuttosto che a
quello maschile.
• L’approccio sociologico, invece, prende in considerazione in che modo certi tipi di assetti sociali
tendano a generare determinati tipi di percezioni culturali relativi al genere e alla sessualità.
Nell’antropologia sociale tradizionale, i caratteri culturali sono considerati come riflessi delle
strutture giuridiche basilari (caste, classi), che servono sostanzialmente a rafforzarle. Nella variante
marxista di questa concezione, la cultura è considerata soprattutto come un’ideologia che giustifica
lo status quo. Essa ha dunque il merito di sottolineare che raramente la cultura è un riflesso del
tutto, ma piuttosto una distorsione sistematica. Tuttavia, l’antropologia simbolica introduce un
fattore che l’analisi marxista e quella durkheimiana hanno trascurato, ossia il concetto di “attore”. Il
significato non è inerente ai simboli, ma è attribuito ai simboli e interpretato dagli attori sociali in
azione, che devono dunque essere parte dell’analisi. Questo metodo di analisi non consiste nel
proiettare determinati simboli come riflessi o giustificazioni di accordi istituzionali, ma nel mostrare
come per gli attori che operano all’interno di tali accordi il mondo tenda ad assumere determinati
aspetti apparentemente inevitabili e naturali. Questi due approcci non si escludono a vicenda, ma
sono semplicemente enfasi metodologiche differenti nell’ambito del tentativo di interpretare e
analizzare il genere come sistema culturale. Tutti i saggi infatti hanno in comune la responsabilità di
affermare che maschio, femmina, sesso e riproduzione sono costrutti culturali o simbolici. In ogni
contributo, si ricomincia discutendo i significati di sesso e genere in quanto simboli in relazione alla
società in questione; poi si ricercano e si mostrano i contesti entro cui tali simboli assumano un
“senso” (in un insieme più vasto di simboli e significati nel primo caso, in un particolare
ordinamento di relazioni sociali nel secondo). Venendo al contenuto dei saggi, la prima cosa che si
deve osservare è che il grado in cui le culture hanno nozioni formali e elaborate relative al genere e
alla sessualità è variabile. La cultura mediterranea, per esempio, ha concezioni molto complesse ed
esplicite sul genere, che organizzano e definiscono molte sfere della vita, del lavoro, del tempo
libero e dell’attività religiosa, mentre la cultura nordeuropea ha nozioni meno elaborate, che non
sembrano agire come principi organizzatori generali di altri ambiti della vita sociale. In secondo
luogo, non tutte le culture elaborano nozioni di virilità e femminilità in termini di dualismo
simmetrico. In questi casi le credenze relative ai sessi non formano sistemi di opposizioni o di
complementarità; piuttosto, sembrano gradazioni su una scala. Nella maggior parte dei casi,
tuttavia, prevale l’opposizione binaria e ci sono opposizioni che si ripetono con una certa frequenza
in diverse culture. Ad esempio, sembra essere molto ricorrente una versione dell’opposizione
natura-cultura che associa il maschio alla cultura e la femmina alla natura: il primo si occupa
dell’universale, delle cose che attengono a tutta la società; la seconda del particolare, delle cose
che giovano a loro stesse e ai loro figli. Quasi universalmente, infatti, gli uomini controllano la
“sfera pubblica” in cui si manifestano gli interessi universali e le donne sono relegate alla “sfera
domestica”, incaricate del benessere delle loro famiglie. Tutte queste opposizioni (natura-cultura,
domestico-pubblico, interesse personale-bene sociale) derivano dalla stessa intuizione: l’attività
sociale associata prevalentemente ai maschi include la sfera associata prevalentemente alle
femmine, e quindi ha un valore più alto. Un altro fattore riscontrabile quasi ovunque è la tendenza
generale a definire gli uomini in termini di categorie di status (guerriero, cacciatore, statista,
anziano ecc.), mentre le donne vengono definite quasi esclusivamente in termini relazionali, in
particolare con appellativi che si riferiscono a ruoli parentali e che risultano incentrati soprattutto
sul rapporto che esse hanno con gli uomini (moglie, madre, sorella ecc.). Nel caso polinesiano, ad
esempio, le categorie di moglie e sorella costituiscono una distinzione tra donne sessuate (le mogli)
e donne non sessuate (le sorelle), con una maggiore preminenza culturale delle seconde. Questa
distinzione ha vaste implicazioni per la valutazione culturale polinesiana delle donne e per i modelli
delle relazioni tra i sessi.
Ancora, è possibile notare che gli stessi assi che dividono e distinguono il maschio dalla femmina,
collocando il maschio al di sopra, intersecano anche le stesse categorie di genere, determinando al
loro interno delle gradazioni. Nelle isole Samoa, ad esempio, il fatto che le donne debbano essere
controllate sessualmente mentre gli uomini non genera delle gerarchie interne al maschile e al
femminile in modo opposto per i due sessi. La categoria femminile più importante, la principessa
vergine, è quella più controllata dal punto di vista sessuale, seguita dalla sorella, dalla moglie e
dalla donna dissoluta. Nel caso degli uomini, al contrario, che in ogni caso non sono controllati, si
ritiene che gli quelli di classe più elevata siano sessualmente più attivi di quelli di status più basso.
Un certo numero di ambiti del sociale appaiono cruciali nel modellare e nell’essere modellati dalle
nozioni di genere e sessualità in una prospettiva culturale, in particolare la parentela, il matrimonio
e le relazioni di prestigio. L’analisi delle relazioni di parentela e matrimonio richiede sempre di
specificare se gli attori coinvolti sono maschi o femmine. Come ha evidenziato Gayle Rubin
riprendendo i ragionamenti di Lévi-Strauss sugli “scambi di donne”, gli uomini hanno determinati
diritti sulle loro parenti di sesso femminile, mentre le donne non hanno gli stessi diritti né verso se
stesse né sui loro parenti di sesso maschile. Questa sfera è chiaramente consequenziale alle
nozioni culturali di genere e di sessualità, ma a volte le connessioni che noi diamo per ovvie
vengono a mancare. Per esempio, la funzione parentale delle donne, la capacità di procreare, è
sottovalutata ignorata in una vasta gamma di società. Dunque, si può affermare che anche se
l’organizzazione della parentela è importante per la messa in forma dei concetti di genere e delle
relazioni tra i sessi, quest’influenza è esercitata solo in modo indiretto. Per Ortner e Whitehead, le
strutture più importanti per la costruzione culturale del genere sono le strutture di prestigio. Una
struttura di prestigio è l’insieme delle posizioni o dei livelli di prestigio che risultano da un
particolare programma di valutazione sociale. In altre parole, è l’insieme dei meccanismi con cui gli
individui e i gruppi raggiungono determinati livelli o posizioni. Le fonti del prestigio (o, come lo
chiamava Weber, dello status) sono il controllo delle risorse materiali, il potere politico, le capacità
personali o il collegamento tramite la parentela con il ricco, il potente o il capace, utilizzati nei
rapporti con gli altri o con l’ambiente con un po’ di generosità e di interesse per il bene sociale. Il
prestigio viene assegnato o attraverso canali ascrittivi, che assegnano agli individui posizioni di
status in base all’affiliazione di parentela o alle loro caratteristiche naturali esteriori, o attraverso
canali di realizzazione, che assegnano il prestigio a seconda del successo ottenuto nei compiti
designati. A volte i due modi si combinano. Le strutture di prestigio hanno bisogno di un’ideologia
legittimante, senza la quale sarebbero incomplete. Esse sono infatti sempre sostenute da credenze
e associazioni simboliche che rendono ragionevole l’ordinamento delle relazioni umane secondo
rispetto e disprezzo, e in molti casi comando e obbedienza. Nei casi concreti, bisogna quindi
chiedersi a quali idee si fa appello per trasformare il potere sociale in stima e in che modo insiemi
di strutture di prestigio differenti (esistono più strutture di prestigio in una stessa società) siano in
armonia tra loro. Secondo Ortner e Whitehead, le strutture di prestigio sono strutture emergenti,
nel senso che non sono direttamente riducibili ai rapporti di produzione in senso marxista.
Dunque, condividono l’idea di Weber per cui lo status è distinguibile dall’idea di classe. Questa
relativa autonomia, dovuta in parte all’importanza della tradizione nel frenare il cambiamento e in
parte all’ideologia legittimante, spiega la capacità del sistema di prestigio di retroagire sui rapporti
di produzione esistenti, come nel caso del sistema delle caste in India. Date queste premesse, le
due studiose argomentano la loro tesi per cui l’organizzazione sociale del prestigio è la sfera della
struttura sociale che influisce più direttamente sulle nozioni culturali di genere e sessualità.
• Un sistema di genere è innanzitutto una struttura di prestigio: In tutte le società conosciute, gli
uomini e le donne costituiscono due termini di un insieme di valori valutati in modo differenziale.
Nelle società più semplici, spesso ci sono solo due principi di differenziazione di status: uno che
classifica gli uomini anziani al di sopra degli uomini giovani, e uno che classifica gli uomini al di
sopra delle donne. Nelle società più complesse, anche se il genere come principio organizzativo
passa in secondo piano, i generi restano tra i gruppi di status più importanti dal punto di vista
psicologico. Infatti, molti status al di fuori dell’ambito del genere sono spesso presentati in termini
di genere: dell’uomo andaluso umiliato da un altro si dice che “si è calato i pantaloni”, così come
del maschio americano a cui non piace prendere parte agli sport violenti si dice che è una
“femminuccia”.
• In qualsiasi società, le strutture di prestigio tendono reciprocamente verso la coerenza simbolica:
Una struttura di prestigio è invocata in rapporto con un’altra e viceversa e due o più dimensioni del
prestigio possono apparire concettualmente fuse in un unico sistema. Ad esempio, ci sono società
in cui il genere e qualche altra dimensione del prestigio non sono differenziati, come in molte
società indigene del Nord America, dove il genere era in parte fuso con la specializzazione
professionale. In altri casi, invece, le somiglianze tra le distinzioni di genere e altre distinzioni
sembrano essere il risultato dell’applicazione di una filosofia generale, come nel caso dell’India. Qui
le caste e i generi non sono indifferenziati, ma sono considerati manifestazioni diverse degli stessi
principi di gerarchia. Ma perché il genere si fonde con x in una società e con y in un’altra? Quando
un sistema di stratificazione di status fortemente esplicito ha l’effetto di dominare l’intera
organizzazione delle società, come nel caso della casta indù, non può sorprendere che esso getti la
sua ombra anche sulla gerarchia sessuale. Nel caso degli indigeni del Nord America, invece, è
possibile che in assenza di definizioni dei sessi altamente ritualizzate o cariche simbolicamente e in
assenza di altre gerarchie di prestigio, la professione sia apparsa come l’indicatore sessuale più
importante.
• I costrutti di genere sono funzioni dei modi in cui l’azione maschile, orientata al prestigio, si
articola con le strutture delle relazioni tra i sessi: In che modo le relazioni sociali tra i sessi si
estendono al prestigio maschile dal punto di vista del maschio? Nella maggior parte delle società,
le gerarchie di prestigio diverse dal genere sono in linea di massima dominate dagli uomini. Il fatto
di definire gli uomini in termini di categorie di ruolo e le donne in termini relazionali deve essere
considerato un riflesso del fatto che le categorie fondamentali del maschile provengono dalla sfera
delle relazioni di prestigio, da cui le donne sono escluse. In alcune società, il prestigio maschile non
dipende direttamente dalle donne, poiché si produce con attività come la caccia e la guerra, da cui
le donne sono escluse. In altre, il prestigio maschile dipende dal lavoro produttivo o dal
comportamento femminile, e per questo le donne hanno il potere di sabotare le ambizioni dei loro
mariti. Nei villaggi andalusi, ad esempio, l’onore di un uomo è connesso alla difesa della casa, della
terra e della famiglia, che insieme costituiscono la base della sua posizione sociale. Dato che i
comportamenti delle donne potrebbero sabotare questa situazione, esse vengono descritte come
creature minacciose. Al di là delle differenze, nella maggior parte dei casi il prestigio maschile è
comunque profondamente implicato nelle relazioni tra i sessi: le donne possono essere un premio
per il coraggio o il successo dell’uomo; avere una moglie può essere un requisito indispensabile per
acquisire lo status di uomo adulto; le buone o le cattive relazioni con le donne possono elevare o
ridurre lo status dell’uomo; lo status della madre influisce sistematicamente su quello del bambino
alla nascita; il comportamento sessuale delle figlie o delle sorelle può infangare l’onore e via
dicendo. Si ritorna allora alla parentela e al matrimonio. Per Ortner e Whitehead, non bisogna
catalogare i modi in cui le relazioni di parentela e matrimonio possono essere implicate
nell’organizzazione dei sistemi di prestigio, ma fare l’esatto contrario: concentrarsi sulle peculiarità
della relazione tra i due ambiti in ogni caso determinato, per capire l’origine delle nozioni culturali
di genere. Dai vari saggi della raccolta emerge che in sistemi culturali differenti, i ruoli relazionali
femminili (madre, moglie, sorella) tendono a dominare la categoria del femminile e a influire sui
significati di tutti i loro altri ruoli. Nelle società brideservice* il ruolo dominante è quello della
moglie, in Polinesia quello della sorella, nella società attuale statunitense quello della madre. Il
dominio di questi tipi è altamente consequenziale ai modi in cui vengono considerate tutte le
donne in una determinata cultura, ed emerge come una funzione dei modi in cui il prestigio
maschile dipende o no dal matrimonio, dalle relazioni tra fratelli, dall’affiliazione. Nella maggior
parte delle società, il legame tra i sessi più cruciale in questo senso è il matrimonio. In molte di
esse una moglie è spesso una risorsa produttiva, poiché produce beni utilizzati nelle attività di
scambio che generano il privilegio maschile o nelle occasioni in cui si offre ospitalità. Inoltre, la
moglie mette al mondo i figli, che sono a loro volta risorse produttive e possono rappresentare la
continuità della discendenza o del “nome” di un uomo. Nelle società in cui ci sono caste e ranghi,
la produzione domestica perde importanza per alcuni settori della società, ma resta cruciale per
preservare o accrescere la purezza del gruppo. Nelle società brideservice, l’uomo ha bisogno di una
moglie per le attività domestiche e sessuali che lo rendono “indipendente”, e quindi uguale agli
altri uomini. In tutti questi casi, dunque, l’essere donna si definisce soprattutto come essere moglie
e l’essenza dell’essere donna, vale a dire ciò che in una moglie costituisce il valore più grande, è
costituito dalla sessualità e dall’utilità economica. In alcuni casi i legami tra i sessi più significativi
per il prestigio possono non essere quelli matrimoniali e sessuali, ma quelli di consanguineità. È il
caso, ad esempio, della Polinesia, dove la posizione parentale rispetto a un insieme di fratelli
carnali gioca un ruolo importante nel determinare lo status individuale. Qui le sorelle dominano la
categoria del femminile, perché hanno un grande valore potenziale nella costruzione delle linee di
discendenza per migliorare lo status. Tutte le donne, anche le mogli o le amanti, sono considerate
in qualche misura sorelle e vengono rispettate in quanto tali. Allo stesso tempo, però, la tendenza a
considerare tutte le donne come sorelle può essere in parte responsabile dell’elevata incidenza
dello stupro in Polinesia (“diventa difficile trasformare la relazione asessuale tra fratelli carnali in
una relazione asessuata”). In altri modelli la figura femminile dominante è quella della madre,
come nella maggior parte delle culture cattoliche. La donna deve innanzitutto procreare ed essere
una brava madre, cosa che implica determinati significati nella relazione sessuale tra marito e
moglie. Nelle società dove la figura femminile dominante è quella della moglie, viene posta più
enfasi sull’aspetto sessuale delle donne, che tendono a essere considerate e trattate con meno
rispetto. Le donne i cui ruoli implicano una componente sessuale maggiore, infatti, sono spesso
considerate esseri “naturali” di tipo diverso rispetto agli uomini, mentre le parenti sono
considerate semplicemente attori sociali diversi. Al di là di questi aspetti generali, sistemi di
prestigio diversi non solo assegnano un posto centrale a legami diversi tra i sessi, ma lo stesso
legame potrà essere dotato di significati differenti. I sistemi basati sulla madre, ad esempio, variano
in base alla definizione di madre. Nelle culture cattoliche, è enfatizzato l’aspetto dell’allevamento e
della protezione affettuosa, mentre in quella statunitense, dominata dai protestanti, si tende a
enfatizzare la natura autoritaria e manipolatrice. Nei sistemi basati sulla moglie, sposare una donna
causa cose molto diverse: ad avere importanza può essere il semplice fatto di essere sposati, o il
fatto che il matrimonio vincola un uomo ai suoi parenti acquisiti o ai suoi consanguinei maschi. Può
anche essere che il matrimonio procuri soprattutto proprietà, figli o il lavoro produttivo di una
moglie.

Bell Hooks: Elogio del margine – Razza, sesso e mercato culturale


Negli Stati Uniti, il discorso sul sesso e il discorso sulla razza si sovrapponevano, il corpo delle
donne nere era il punto in cui sessismo e razzismo convergevano. Lo stupro come diritto e rito del
gruppo maschile bianco dominante era la norma culturale, inoltre lo stupro può anche essere
considerato come una metafora della colonizzazione imperialista europea. Lo stupro messo in atto
dai maschi dominanti ricorda ai maschi dominati la loro perdita di potere, infatti le donne che
potrebbero “possedere” sono sottomesse e possedute dal gruppo maschile dominante.
Quali furono le condizioni in cui la sessualità servì come forza capace di sovvertire e di sconvolgere
i rapporti di potere, di scardinare il paradigma oppresso/oppressore? La narrativa storica è stata
inventata dai maschi bianchi, secondo cui gli uomini neri volevano stuprare le donne bianche. Il
protagonista di questa storia risulta essere lo stupratore nero; i maschi neri non sarebbero altro
che dei falli ambulanti in preda ad un desiderio negato: la donna bianca. Si tratterebbe di una
storia di vendetta: lo stupro sarebbe lo strumento con cui i maschi neri, i dominati, capovolgono la
situazione riguadagnando il proprio potere sui maschi bianchi. Ciò ha portato i maschi neri
oppressi e i maschi bianchi dominanti a condividere la credenza patriarcale che la lotta
rivoluzionaria abbia come proprio vero oggetto l’erezione fallica: il dominio politico dell’uomo
deve essere equivalente al dominio sessuale.
Elridge Cleaver, parlando del bisogno di redimere la sua virilità soggiogata, descrive lo stupro delle
donne nere come addestramento pratico al futuro stupro di donne bianche. Cleaver riuscì a
stornare l’attenzione dal sessismo misogini delle sua dichiarazioni sostenendo con aggressività che
tali atti erano una risposta naturale al dominio razziale. Ancora una volta, la liberazione dal
dominio sessuale veniva espressa in termini di redenzione della maschilità nera. Il sessismo è
sempre stato un utile atteggiamento politico di mediazione del dominio razziale: grazie ad esso,
maschi bianchi e maschi neri hanno potuto condividere un’identica sensibilità rispetto ai ruoli
sessuali e all’importanza del dominio maschile. Evidentemente, entrambi i gruppi hanno
identificato libertà e virilità, virilità e diritto degli uomini di avere accesso indiscriminato al corpo
delle donne. Entrambi i gruppi sono stati socializzati a fare i proprio dogma patriarcale che lo
stupro è un modo accettabile di mantenere il dominio maschile. Il saggio di Robin Morgan, The
Demon Lover: On The Sexuality Of Terrorism, parte dallo stupro: gli uomini sono uniti tra loro da
un’idea condivisa di maschilità che fa della mascolinità sinonimo della capacità di affermare il
proprio potere attraverso atti di violenza e di terrorismo. Bell Hooks sostiene che razzismo e
sessismo siano sistemi interconnessi di dominio che si rafforzano e si sostengono a vicenda. Molte
femministe continuano a considerarle questioni del tutto distinte e a credere che il sessismo possa
essere abolito anche se il razzismo continua ad esistere, o che le donne impegnate nella lotta
razzista non stiano sostenendo il movimento femminista. Poiché la lotta di liberazione nera viene
così spesso inquadrata in termini che confermano e sostengono il sessismo, non sorprende che le
donne bianche si chiedano se la lotta per i diritti delle donne risulterebbe sminuita qualora ci si
concentrasse eccessivamente sulla lotta contro il razzismo, o che molte donne nere, schierandosi a
fianco del movimento femminista, temano ancora oggi di commettere un atto di tradimento nei
confronti dei loro uomini. Entrambe queste paure sono una risposta all'equazione liberazione
nera/virilità. Finché i neri continuano a credere che il trauma della dominazione razziale coincida
con la perdita della virilità nera, è per noi inevitabile investire nel copione razzista che perpetua
l'idea che tutti i maschi neri sono degli stupratori, bramosi di usare il terrorismo sessuale per
esprimere la loro rabbia contro la dominazione razziale. Oggi si assiste a una riproposizione di tali
narrative, tornano alla superficie in un momento storico in cui i neri sono sottoposti ad attacchi
razzisti sempre più aperti e vistosi in cui i maschi neri e in particolare i giovani neri sono sempre più
drammaticamente privati dei loro diritti.
In ciascuno dei suoi articoli, la giornalista Susan Estrich, racconta di come 15 anni prima un nero
l'avesse stuprata e descrive in che modo la reazione al crimine da parte della polizia e la sua stessa
reazione fossero state determinate dal razzismo. Anche se il suo intento è di sollecitare all'impegno
nella lotta contro il razzismo, ogni suo articolo empatizza con forti sottolineature in grassetto il
tema della violenza sessuale. Il contenuto sovversivo del suo lavoro è stravolto e lo stereotipo che
tutti i maschi neri sono degli stupratori ne esce reinscritto e rafforzato. Nella nostra società, i più
non realizzano che la stragrande maggioranza degli stupri non è interrazziale, che è assai più
probabile che ciascun gruppo di uomini con piatti di violenza sessuale nei confronti di donne della
propria razza. Per restare nell'ambito della cultura popolare anche il video di Madonna Like a
Prayer ricorre a immagini che collegano maschi neri e stupro, rafforzando tale rappresentazione
nella mente di milioni di spettatori, nonostante la stessa cantante abbia affermato che la sua
intenzione assumere una posizione antirazzista: per lei, il video suggerisce che non tutti i maschi
neri accusati di violenza contro le bianche sono colpevoli. Tuttavia, questo messaggio si eversivo e
stravolto dalla fissazione assoluta su immagini sessualmente cariche: da un lato la sessualità
femminile bianca e dall'altro il desiderio maschile nero. Il suo messaggio che dà il video non è per
nulla antirazzista, esso ha piuttosto a che vedere con la costruzione della donna bianca come
soggetto desiderante capace di affermare liberamente la propria iniziativa sessuale. Naturalmente
l'espressione tabù di tale iniziativa sta nella scelta di indirizzare la propria sessualità verso il
maschio di colore. Non si tratta purtroppo che del nuovo capitolo di una vecchia storia: per
mettere fine al dominio razzista basterebbe superare il divieto sessuale interrazziale. È un mito da
sottoporre a dura critica se vogliamo che questa società riesca a misurarsi con le attuali
conseguenze materiali, economiche e morali del perpetuarsi della supremazia bianca e del suo
traumatico impatto genocida sui neri. Nella nostra cultura l'immagine del maschio nero stupratore,
minaccia e pericolo per la società, ha da qualche tempo un corso spettacolare: la fissazione
ossessiva dei media su tali rappresentazioni è politica; il ruolo che essa gioca nel mantenere il
dominio razzista e ti convincere il pubblico che i maschi neri sono una grave minaccia che va
controllata con ogni mezzo necessario, inclusa l'eliminazione fisica. Quest'idea plasma le reazioni
delle persone davanti ad episodi di stupro. Ironicamente, gli stessi che dichiarano di essere
traumatizzati dalla brutalità della vicenda, non esitano ad affermare che i presunti colpevoli
dovrebbero essere castrati o uccisi: essi non vedono alcun legame tra il sostenere la violenza come
strumento di controllo sociale e l'uso della violenza come esercizio di controllo da parte dei
presunti colpevoli. Molti neri, servendosi del paradigma sessista secondo cui lo stupro di una
bianca da parte di un nero non è che una reazione al dominio razzista, considerano la vicenda di
Central Park come una denuncia del sistema razzista, senza accorgersi di quanto la natura del
crimine e la scelta della vittima siano informati dal sessismo. Le nere che hanno preso posizione
sulla stessa questione si sono concentrate unanimemente sulla natura sessista del crimine,
fornendo spesso esempi del sessismo maschile nero: ironico che per ammettere che nelle
comunità nere il sessismo è un problema serio si debba passare attraverso lo stupro brutale di una
donna bianca da parte di un gruppo di ragazzi neri.
La scrittrice Lisa Kennedy, nel suo articolo Body Double: The Anatomy of a Crime, sostiene che
l'offensiva femminista dovrebbe partire dal coltivare la consapevolezza critica di come razzismo e
sessismo siano sistemi interconnessi di dominio. Perché dovremmo decidere se questo crimine è
più sessista che razzista come se si trattasse di forme di oppressione in concorrenza tra loro?
Perché i bianchi, e in particolare le femministe bianche, si sentono meglio quando i neri, e
soprattutto le nere, per enfatizzare l'opposizione al sessismo maschile nero all'interno del
patriarcato capitalistico fondato sulla supremazia bianca, prendono le distanze dalla condizione dei
maschi neri? Le nere non possono continuare a preoccuparsi seriamente dell'effetto brutale del
dominio razzista sui maschi neri e allo stesso tempo denunciare il sessismo dei loro uomini?
Queste domande riportano l'attenzione sulla logica e il modo di pensare binari, chi sono il
fondamento filosofico dei sistemi di dominio. La vicenda di Central Park ha in sé aspetti di
sessismo, dominio maschile, misoginia e uso della violenza sessuale come strumento di terrore; ha
però anche a che vedere con la razza e il razzismo: non è verosimile che, nell'aggredire una donna
bianca, dei ragazzi neri cresciuti in questa società la vedono semplicemente come donna - nella
loro coscienza la sua razza conta tanto quanto il sesso. È ciò che è capitato a masse di persone
quando hanno appreso l'evento e si sono preoccupate di identificare innanzitutto la razza della
donna: in una società sessista fondata sulla supremazia dei bianchi, ogni corpo femminile è
svalutato, ma il corpo delle bianche ha un valore superiore a quello delle donne di colore.
Analizzando la questione femministicamente, prendendo in considerazione gli aspetti razziali tanto
quelli di genere, si noterà come gli uomini che appartengono ai gruppi più poveri e ai maschi di
colore non riescano a ottenere alcun riconoscimento materiale e sociale dal fatto di partecipare al
patriarcato; di fatto, essi sono spesso vittime di una messa in atto cieca e passiva di un mito della
virilità che mette a repentaglio la vita, il loro modo di pensare è talmente impegnato di sessismo da
impedirgli di vedere questa realtà. Diventano quindi vittime del patriarcato, nessuno può credere
davvero che i giovani maschi neri implicati nei fatti di Central Park non fossero impegnati nella
rituale suicida drammatizzazione di una rischiosa mascolinità destinata a minacciare la loro stessa
vita. Per questo motivo la lotta di liberazione dei neri va revisionata, perché non si ha più
identificata con la mascolinità. Ci serve una visione rivoluzionaria della liberazione nera, una
visione che emerga dalla prospettiva femminista e che apostrofi la condizione collettiva delle
persone nere.

--
La volontà di appoggiare l’oppressore o l’oppresso influenza il nostro linguaggio, che diventa un
luogo di lotta. Si è uniti nella lingua, si vive nelle parole. Gli oppressi lottano con la lingua per
riprendere possesso di se stessi, per riconoscersi, per riunirsi e per ricominciare. Queste voci, però,
per un privilegiato sono difficili da comprendere, e cerca quindi di metterle in discussione fino ad
arrivare a cancellarle. La lotta contro la discriminazione è anche una lotta della memoria contro
l’oblio: in vari testi culturali (film, poesie, libri) è evidente la tendenza al ricordo, una tendenza che
porta a creare spazi in cui sia possibile recuperare e ridare significati al passato e trovare modi per
trasformare il presente. I frammenti di memoria non servono come semplici documenti, bensì a
dare una nuova versione del vecchio per raggiungere nuove forme di articolazione.
L’autrice parla dell’idea di casa, che con l’esperienza della decolonizzazione cambia: a volte, casa è
in nessun luogo, a volte si conoscono solo alienazione e straniamento, allora casa diventa quello
spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento, uno spazio in
cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza. Sperimentare e
accettare dispersione e frammentazione come delle fasi della costruzione di un nuovo ordine
mondiale che riveli appieno dove siamo e chi possiamo diventare, e che non costringa a
dimenticare.
I neri di estrazione povera e sottoproletaria che riescono ad arrivare all’università e a frequentare
ambiti culturali privilegiati, e che però non intendono dimenticare le loro radici, se vogliono
sopravvivere con un animo integro, devono creare spazi all’interno della cultura dominante. In
fondo, la presenza dell’oppresso è un atto di rottura. L’oppresso risulta essere “altro” per
l’oppressore, tanto per diventare una minaccia (ciò vale anche per i borghesi neri nei confronti dei
neri sottoproletari). Coloro che restano in vita, per sopravvivere, devono inventare spazi di
apertura radicale, che per l’autrice corrisponde al margine: essere nel margine significa
appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. Potendo solo accedere al mondo, ma
tornando sempre agli argini, le persone nere hanno sviluppato uno sguardo particolare sul mondo;
guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, concentrando la loro attenzione tanto sul
centro quanto sul margine. Ciò ci fa comprendere che l’universo è una cosa sola, fatta di margine e
di centro, questo modo di vedere ha fatto sì che si lottasse contro la povertà e la disperazione,
rafforzando il loro senso di identità e di solidarietà. Ciò che si vuole intendere, è che il margine è
uno spazio di resistenza, è quindi un luogo che nutre, a cui restare attaccati e fedeli, non un luogo
da abbandonare. All’oppressore si può dire di no solo se si è sui margini, è un contro-linguaggio: il
linguaggio degli oppressi è caratterizzato dalla memoria di tante voci spezzate, di tante vittime del
potere, e ciò dà la forza di resistere e di cercare la libertà, così da decolonizzare le nostre menti e
tutto il nostro essere. Capire la marginalità come posizione e luogo di resistenza è cruciale per chi
è oppresso, sfruttato e colonizzato. Le menti che resistono alla colonizzazione lottano, in fondo, per
la libertà e ad esse aspirano come ad un bene perduto. Innanzitutto, la lotta non si riferisce
direttamente all’oppressore, ma passa prima all’interno delle comunità oppresse stesse: affinché
tutti lottino, occorre riconoscere la propria posizione. I margini, quindi, non sono solo luoghi di
repressione, ma anche di resistenza. Il colonizzatore vuole parlare l’oppresso, ma solo per riscrivere
e riraccontare la sua storia in un modo differente, tipico del colonizzatore, vuole però che la si parli
del margine inteso come dolore, sofferenza, privazione e desiderio insoddisfatto, mai come segno
di resistenza.
È essenziale, quindi, distinguere il margine imposto da strutture oppressive e il margine eletto a
luogo di resistenza, uno spazio di possibilità e di apertura radicale, un luogo di resistenza
caratterizzato dalla cultura segregata di opposizione, che è la risposta al dominio. Si giunge in
questo spazio attraverso la sofferenza, il dolore e la lotta. Sappiamo che la lotta è il solo strumento
capace di soddisfare, esaudire e appagare il desiderio. La nostra trasformazione, individuale e
collettiva, avviene attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale, capace di affermare e
sostenere la nostra soggettività, di assegnarci una posizione nuova da cui poter articolare il nostro
senso del mondo.

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