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Federici Silvia: Salario per il lavoro domestico – Perché l’attività sessuale è lavoro
Silvia Federici è una sociologa, filosofa, attivista e saggista italiana naturalizzata statunitense. Nei
suoi lavori, analizza il capitalismo, la politica salariale e il lavoro riproduttivo da una prospettiva di
genere, sostenendo che il corpo delle donne sia l’ultima frontiera del capitalismo. Il suo ultimo
libro, “Il punto zero della rivoluzione”, raccoglie quasi 40 anni della sua riflessione teorica e politica.
Il saggio che apre il volume è del 1974, quello che lo chiude del 2010. Per Federici, il salario per il
lavoro domestico non è solo una prospettiva rivoluzionaria, ma è anche l’unica prospettiva
rivoluzionaria dal punto di vista femminista. Nel capitalismo ogni lavoratore e ogni lavoratrice è
sfruttato. Il salario crea l’impressione di uno scambio equo (tu lavori e io ti pago), ma piuttosto che
pagare il lavoro fatto, in realtà nasconde tutto il lavoro non pagato che si traduce in profitto. Il
salario, però, riconosce che a una persona la qualifica di lavoratore. Essere un lavoratore permette
di contrattare le condizioni del lavoro e l’ammontare del salario e significa essere parte di un
contratto sociale. Il lavoro domestico non è pagato e quindi non è considerato un lavoro. Esso è la
più sottile violenza perpetrata dal capitale contro un settore della classe operaia, poiché non solo è
stato imposto alle donne, ma è stato anche trasformato in un attributo naturale della femminilità.
Il fatto che non sia considerato come un vero lavoro impedisce alle donne di lottare contro di esso,
se non all’interno di quelle liti familiari in cui le donne non sono viste come lavoratrici in lotta, ma
come bisbetiche. Quanto poco naturale sia essere una casalinga è dimostrato dagli anni di tirocinio
giornaliero diretti da una madre senza salario per preparare la donna a questo ruolo e per
convincerla che figli e marito sono il meglio che può aspettarsi dalla vita. E per quanto possono
essere ben addestrate, sono poche quelle che non si sentono ingannate quando, passato il giorno
del matrimonio, si trovano davanti a un lavandino sporco. L’amore e i soldi sono poca cosa di fronte
a un lavoro così grande. Negando un salario al lavoro domestico e trasformando quest’ultimo in un
atto d’amore il capitale ha preso due piccioni con una fava: da un lato ha disciplinato le donne a
pensare che sia la cosa migliore da fare nella vita, ottenendo un’enorme quantità di lavoro gratuito;
dall’altro ha disciplinato il lavoratore maschio rendendo la “sua” donna dipendente dal suo lavoro e
dal suo salario, dandogli una serva per compensarlo di aver servito per tante ore in fabbrica o in
ufficio. “Nello stesso modo in cui Dio ha creato Eva per far piacere ad Adamo, così il capitale ha
creato la casalinga per servire fisicamente, emotivamente e sessualmente il lavoratore maschio”.
Tanto più povera è la famiglia tanto più pesante è l’asservimento della donna, perché più un uomo
è servo e comandato a lavoro, più comanda a casa. Le donne si ribellano e cercano di fargliela
pagare, ma sempre all’interno della propria casa. Il problema allora è come portare queste lotte
fuori dalle cucine e dalle stanze da letto. La richiesta di salario per il lavoro domestico è la richiesta
con cui finisce la natura delle donne e inizia la loro lotta, perché volere un salario per il lavoro
domestico significa rifiutare tale lavoro come espressione della loro natura, e dunque rifiutare il
ruolo femminile inventato dal capitale. È una richiesta rivoluzionaria non perché distrugge il
capitale, ma perché lo costringe a ristrutturare i rapporti sociali in termini più favorevoli all’unità
della classe. Chiedere il salario significa rendere visibile che la mente, il corpo e le emozioni delle
donne sono state distorte per una funzione specifica: “D’ora in poi ci dovranno pagare perché
come donne non garantiamo più niente. Vogliamo chiamare lavoro ciò che è lavoro e da questo
punto di vista possiamo chiedere non uno, ma più salari, perché siamo cameriere, prostitute,
infermiere allo stesso tempo. Questa è l’essenza dell’eroica sposa che si celebra alla festa della
mamma. Noi diciamo basta: smettetela di celebrare il nostro sfruttamento. D’ora in poi vogliamo
soldi per ogni momento del nostro lavoro così da poterlo rifiutare in parte o completamente.” Un
secondo lavoro non cambia le cose, poiché riproduce lo stesso ruolo in forme diverse. I lavori creati
per le donne sono semplici estensioni della condizione della casalinga in tutte le sue articolazioni. I
fatto che le donne debbano preoccuparsi del loro aspetto sul posto di lavoro, ad esempio, è una
condizione di lavoro. Fino a poco tempo fa le hostess delle linee aeree statunitense venivano
periodicamente pesate ed erano costantemente a dieta per paura di essere licenziate. Qualsiasi
cosa faccia, la donna non deve perdere la sua “femminilità”, non deve cessare di appagare l’uomo.
Libera o repressa, anche la sessualità delle donne è ancora sotto controllo. Federici dice che
l’attività sessuale è lavoro, perché le donne hanno la responsabilità di rendere l’esperienza sessuale
piacevole per l’uomo. Il dover piacere è così costitutivo della sessualità delle donne che esse hanno
imparato a godere del dare piacere, dell’eccitare gli uomini. All’interno della famiglia, padri fratelli
e mariti agiscono come agenti dello Stato, garantendosi che le prestazioni sessuali delle donne
rispettino le norme di produttività stabilite e socialmente sanzionate. La commercializzazione del
corpo femminile, inoltre, spinge le donne a odiare il proprio corpo. Lo odiano perché vengono
abituate a guardarlo da fuori, con gli occhi degli uomini. Da come il loro corpo si presenta dipende
la possibilità di ottenere un buon lavoro e di avere un potere sociale. Sempre impegnata a recitare
e a piacere, la donna ha insomma troppa paura di fallire nei compiti assegnatole dalla società per
poter godere nel fare sesso.
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La volontà di appoggiare l’oppressore o l’oppresso influenza il nostro linguaggio, che diventa un
luogo di lotta. Si è uniti nella lingua, si vive nelle parole. Gli oppressi lottano con la lingua per
riprendere possesso di se stessi, per riconoscersi, per riunirsi e per ricominciare. Queste voci, però,
per un privilegiato sono difficili da comprendere, e cerca quindi di metterle in discussione fino ad
arrivare a cancellarle. La lotta contro la discriminazione è anche una lotta della memoria contro
l’oblio: in vari testi culturali (film, poesie, libri) è evidente la tendenza al ricordo, una tendenza che
porta a creare spazi in cui sia possibile recuperare e ridare significati al passato e trovare modi per
trasformare il presente. I frammenti di memoria non servono come semplici documenti, bensì a
dare una nuova versione del vecchio per raggiungere nuove forme di articolazione.
L’autrice parla dell’idea di casa, che con l’esperienza della decolonizzazione cambia: a volte, casa è
in nessun luogo, a volte si conoscono solo alienazione e straniamento, allora casa diventa quello
spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento, uno spazio in
cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza. Sperimentare e
accettare dispersione e frammentazione come delle fasi della costruzione di un nuovo ordine
mondiale che riveli appieno dove siamo e chi possiamo diventare, e che non costringa a
dimenticare.
I neri di estrazione povera e sottoproletaria che riescono ad arrivare all’università e a frequentare
ambiti culturali privilegiati, e che però non intendono dimenticare le loro radici, se vogliono
sopravvivere con un animo integro, devono creare spazi all’interno della cultura dominante. In
fondo, la presenza dell’oppresso è un atto di rottura. L’oppresso risulta essere “altro” per
l’oppressore, tanto per diventare una minaccia (ciò vale anche per i borghesi neri nei confronti dei
neri sottoproletari). Coloro che restano in vita, per sopravvivere, devono inventare spazi di
apertura radicale, che per l’autrice corrisponde al margine: essere nel margine significa
appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. Potendo solo accedere al mondo, ma
tornando sempre agli argini, le persone nere hanno sviluppato uno sguardo particolare sul mondo;
guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, concentrando la loro attenzione tanto sul
centro quanto sul margine. Ciò ci fa comprendere che l’universo è una cosa sola, fatta di margine e
di centro, questo modo di vedere ha fatto sì che si lottasse contro la povertà e la disperazione,
rafforzando il loro senso di identità e di solidarietà. Ciò che si vuole intendere, è che il margine è
uno spazio di resistenza, è quindi un luogo che nutre, a cui restare attaccati e fedeli, non un luogo
da abbandonare. All’oppressore si può dire di no solo se si è sui margini, è un contro-linguaggio: il
linguaggio degli oppressi è caratterizzato dalla memoria di tante voci spezzate, di tante vittime del
potere, e ciò dà la forza di resistere e di cercare la libertà, così da decolonizzare le nostre menti e
tutto il nostro essere. Capire la marginalità come posizione e luogo di resistenza è cruciale per chi
è oppresso, sfruttato e colonizzato. Le menti che resistono alla colonizzazione lottano, in fondo, per
la libertà e ad esse aspirano come ad un bene perduto. Innanzitutto, la lotta non si riferisce
direttamente all’oppressore, ma passa prima all’interno delle comunità oppresse stesse: affinché
tutti lottino, occorre riconoscere la propria posizione. I margini, quindi, non sono solo luoghi di
repressione, ma anche di resistenza. Il colonizzatore vuole parlare l’oppresso, ma solo per riscrivere
e riraccontare la sua storia in un modo differente, tipico del colonizzatore, vuole però che la si parli
del margine inteso come dolore, sofferenza, privazione e desiderio insoddisfatto, mai come segno
di resistenza.
È essenziale, quindi, distinguere il margine imposto da strutture oppressive e il margine eletto a
luogo di resistenza, uno spazio di possibilità e di apertura radicale, un luogo di resistenza
caratterizzato dalla cultura segregata di opposizione, che è la risposta al dominio. Si giunge in
questo spazio attraverso la sofferenza, il dolore e la lotta. Sappiamo che la lotta è il solo strumento
capace di soddisfare, esaudire e appagare il desiderio. La nostra trasformazione, individuale e
collettiva, avviene attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale, capace di affermare e
sostenere la nostra soggettività, di assegnarci una posizione nuova da cui poter articolare il nostro
senso del mondo.