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La figura moderna della donna

Lo stereotipo
Il pensiero della società odierna è colmo di stereotipi, che possono riguardare
dal proprio genere all’etnia di appartenenza, dal luogo di provenienza alla
religione che si professa. In qualunque caso l’identità e l’unicità degli individui
viene messa in secondo piano da idee generalizzate sulla personalità degli stessi,
scaturite da caratteristiche, per lo più esteriori, che li distinguono dalla massa, o
che quanto meno li possano far emergere come gruppo ben definito. Nella
maggior parte dei casi gli stereotipi causano una generale semplificazione del
modo di concepire i “diversi”, coloro che si distinguono, attribuendogli
determinate caratteristiche legate alla loro appartenenza a un gruppo sociale
rispetto che a un altro. Le vite di coloro che subiscono stereotipi vengono
complicate per lo più dal punto di vista relazionale in quanto non sempre le
caratteristiche attribuitegli sono positive. La situazione però è da ritenersi grave
nel momento in cui gli stereotipi arrivano a condizionare le vite di interi gruppi
sociali, annullandone le possibilità di esprimere se stessi al proprio meglio. In
particolare questo avviene con una delle figure stereotipate di cui si prende
meno coscienza: la donna.
Le donne e le loro “identità artificiali”
Attraverso un processo che percorre più o meno tutta la storia dell’uomo, le
donne hanno visto sempre ingabbiare l’espressività del proprio io interiore. Da
millenni interi si sono viste limitare la loro libertà da una società che le ha
sempre relegate a ruoli ben precisi, delle identità “artificiali” in un certo senso,
ovvero dei modelli di donne, ai quali rifarsi, imposti e creati dagli uomini.
Facendo riferimento al libro “Ave Mary” di Michela Murgia se ne possono
citare alcuni, come quello della donna dedita al servizio degli altri, caritatevole
e benevola ma anche sottomessa e inferiore, oppure la donna madre, dedita alla
famiglia ma comunque relegata a un determinato ruolo nella stessa che limita
non poco uno sviluppo della sua vita “esterna” al nido familiare. Oppure ancora
la donna bella “ad ogni costo”, che deve sempre sembrare in forma, senza
bruttezze e alla quale vengono messi a disposizione tutti i mezzi possibili (che
possono andare dai semplici trucchi ai più drastici interventi di chirurgia
estetica) per aiutarla. Oppure la donna vittima, indifesa e impotente. Tutte
queste figure sono legate da un filo comune: l’inferiorità rispetto all’uomo.
La donna passiva

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Di fatto l’indipendenza femminile dall’uomo non è mai considerata come una
condizione possibile. La donna è infatti sempre vista come una figura passiva,
che subisce e basta, reagendo sempre di conseguenza. Prendendo d’esempio le
figure di donne stereotipate citate prima abbiamo la donna servizievole che
dipende dai bisogni degli altri, che siano le persone più sfortunate o il proprio
marito, o il proprio capo, l’importante che lei sia pronta a venire in contro alle
loro esigenze. Poi la donna madre, passiva in quanto la figura del padre la
sovrasta nettamente di importanza e la relega ad un ruolo ben preciso che non
potrà abbandonare. Per non parlare della donna bella e desiderabile che
sottomette sé stessa ai gusti degli altri, al piacere che possono provare nel
guardarla, indipendentemente dalla propria volontà effettiva di farlo. Agisce
perciò passivamente, privandosi della libertà di farsi vedere comodamente senza
ritocchi, senza paura di essere vista come brutta o non adatta agli standard di
bellezza imposti dalla società. Ma forse la figura stereotipata di donna più
passiva è la donna vittima. Basti pensare alle notizie di femminicidi che troppo
spesso ci riportano oggi i giornali. Dai media arriva alle persone sempre la
figura della donna uccisa, che anche nel morire resta legata passivamente a
qualcun’altro. Non solo perché sia stata effettivamente un’altra persona a
ucciderla, ma anche per esempio quando si dice “morta dal dolore”,
generalmente legato alla perdita di qualcuno, indipendentemente dalle effettive
condizioni di salute della deceduta. Michela Murgia denuncia infatti nel suo
“Ave Mary” l’episodio della famosa coppia formata da Sandra Mondaini e
Raimondo Vianello. Dopo la morte del marito i media hanno riportato la morte
di Sandra come diretta conseguenza del dolore provato, senza accennare al fatto
che fosse malata da tempo e in coma da diversi giorni per insufficienza
respiratoria. L’intero mondo femminile è quindi gravemente danneggiato da
secoli di reclusione a specifici ruoli nella società. Ma lo stereotipo di genere non
consiste solo in questo. Andando più in profondità nell’analisi della nostra
società è possibile trovare un radicato sentimento patriarcale che non può essere
eliminato come si può fare con un normale stereotipo. Esso permea il nostro
pensiero, a partire dal nostro linguaggio: diversi sono gli esempi di inferiorità
attribuita al genere femminile. Si può pensare soprattutto ai vari modi di
rivolgersi ad una pluralità di persone appellandosi a termini esclusivamente
maschili per nominare gruppi in cui sono presenti anche donne. Questo discorso
evidenzia ancora di più la passività attribuita alla figura della donna:
indipendentemente dalla sua presenza all’interno di un gruppo di persone, a
quest’ultimo ci rivolgerà al maschile. Non solo, ma ritorna il concetto di
passività delle donne quando si parla dei vari mestieri. Gli appellativi dati alle
donne in base al loro lavoro, dipendono tutti dalla loro versione maschile e non
si può supporre il contrario, come per esempio per gli aggettivi o altre parole.
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Perciò il concetto di donna dipendente dall’uomo è un concetto molto più
radicato di quanto si pensi.
Donne e religione
A ciò ha contribuito l’ingombrante presenza delle religioni in tutto il mondo. Al
giorno d’oggi è decisamente raro trovare una religione che non sottometta
neanche in parte la figura della donna a quella dell’uomo. Per esempio in Medio
Oriente e in gran parte dell’Africa, soprattutto settentrionale, le donne hanno
ancora l’obbligo di portare il velo in pubblico e i loro diritti vengono
“calpestati” quotidianamente dagli stati stessi, poiché le loro religioni
impongono severe e limitanti condizioni alle loro devote. Ma non si parla di
sottomissione solamente in casi così espliciti. In Italia, come in qualsiasi altro
paese cattolico, la religione ha avuto un ruolo molto importante nel delineare
dei particolari modelli di donne. Il brano riportato, tratto sempre dal libro di
Michela Murgia citato precedentemente, spiega come una figura così ben vista
come quella di Madre Teresa di Calcutta sia in realtà simbolo di una
celebrazione della donna servizievole e una più sottile ma conseguente
condanna della figura della donna indipendente. Di fatto la Chiesa non ha mai
celebrato particolarmente quelle donne che nella storia si sono distinte per
dimostrazioni di fede e dedizione in ambiti designati solitamente agli uomini.
Le varie figure di santi protettori di mestieri e attività pubbliche sono per lo più
uomini (per esempio san Luca è il protettore dei medici o san Benedetto che,
oltre ad essere il patrono d’Europa, è il protettore degli agricoltori e degli
ingegneri), le sante invece proteggono arti o figure di donne conformi ai modelli
ideali forniti dalla società (per esempio santa Cecilia è la patrona della musica o
santa Caterina da Siena, compatrona d’Italia e d’Europa è la protettrice delle
lavandaie e degli infermieri). Gli esempi di femminilità che quindi ci fornisce la
Chiesa sono tutti allineati a figure femminili collocate in determinati ruoli per
niente diversi da quelli degli odierni stereotipi. Essendo comunque la religione
estremamente radicata nella storia del nostro paese, ma non solo, essa ha
contribuito enormemente ad una radicalizzazione e diffusione di modelli
prestabiliti di donna che hanno nel corso del tempo delineato determinati
confini oltre i quali le donne trovano oggi estrema difficoltà a farsi strada.

Anton Luca Leggiero VL

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