Sei sulla pagina 1di 7

ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

ASPETTI CONTROVERSI DELL’AMERICA SCHIAVISTA:


TRA RELIGIONE E VIOLENZA
di Greta Fregosi
Matricola n. 0000924134

La slave narrative rappresenta uno dei generi più influenti della letteratura americana, il quale mette
in luce alcuni degli aspetti più controversi e riprovevoli, sia nella fiction che nell'autobiografia,
della storia degli Stati Uniti d’America. La stragrande maggioranza dei racconti degli schiavi sono
stati scritti da afroamericani, altri da intellettuali il cui scopo era denunciare la crudeltà del sistema
schiavistico basato sul maltrattamento di esseri umani di colore. Attraverso questo saggio
analizzeremo alcune delle opere più importanti nel panorama delle narrazioni degli schiavi e
scopriremo la grande ipocrisia dietro a questa pratica, dove schiavisti bianchi che predicavano la
parola di Dio, allo stesso tempo frustavano uomini, violentavano donne e vendevano bambini. 

1. Una panoramica generale


Per avere un’idea chiara di che cosa sia effettivamente la narrativa degli schiavi e come essa si sia
sviluppata è bene fare riferimento ad un testo molto importante: La Slave Narrative e
L’abolizionismo Atlantico di Sonia Di Loreto, tratto dal volume La Letteratura Degli Stati Uniti
(Roma, Carrocci, 2017). In questo saggio, l’autrice ci mostra un quadro generale dell’America del
XIX secolo, a partire dai movimenti per l’abolizione della schiavitù a inizio Ottocento fino
all’analisi delle più famose narrazioni, tra cui Uncle Tom’s Cabin e l’autobiografia di Frederick
Douglass, che tratteremo successivamente. Un aspetto molto interessante delle slave narratives è la
ricorrenza dell’elemento religioso all’interno di buona parte dei testi: esse infatti si ispirano alle
autobiografie spirituali, diffuse soprattutto nel XVII secolo, dove si descrivono episodi di
redenzione e conversione spirituale. Gli autori, per la maggior parte ex schiavi, paragonano la
liberazione dalla schiavitù alla liberazione dal peccato e l’esistenza passata all’insegna di violenze e
percosse viene rappresentata come un cammino doloroso, ma che si conclude con la salvezza
dell’anima e il rafforzamento della propria fede in Dio. La testimonianza delle ingiustizie subite,
unita al tema della cristianità, vuole far riflettere l’opinione pubblica su un piano più ampio e
morale:

<<I racconti di conversione spirituale da parte dei neri forniscono sostegno e danno forza nello
stabilire che i neri, alla stregua dei bianchi, possiedono un’anima: e dal momento che affrontano il
tema della salvezza per tutti, questi racconti spostano la questione schiavista all’interno di una
prospettiva morale generale, con pesanti ripercussioni sulle Chiese cristiane>> (pag. 72)

I neri devono essere considerati uguali a noi bianchi? E come per i bianchi, anch’essi desiderano
essere liberi? A giudicare dalla stesura di molte autobiografie la risposta sembrerebbe affermativa.
Frederick Douglass, per esempio, grazie alla sua scrittura degna dei più grandi intellettuali, riesce a
dimostrare che un nero, oltre a soffrire per la propria condizione, è in grado anche di esprimere
questo stato d’animo in un discorso articolato e vibrante (pag 81). Un altro aspetto su cui si
sofferma l’autrice del saggio è il tema del silenzio: raccontare storie di schiavitù, esporre le
sofferenze che il popolo bianco infliggeva al popolo nero non era molto conveniente e soprattutto
non erano temi di cui si voleva parlare. Harriet A. Jacobs, nella sua autobiografia, Incidents in the
Life of a Slave Girl, Written by Herself, analizzata nel saggio, afferma che sarebbe stato meglio per
lei non diffondere il suo passato (pag 84), ma come afferma Sonia, il silenzio è proprio

<<la barriera che deve essere superata perché la natura della schiavitù venga disvelata in tutto il
suo orrore>> (pag. 85)

2. Frederick Douglass: tra violenza, istruzione e religioni


Pietra miliare delle slave narratives e testimonianza della brutalità della schiavitù in America è
sicuramente l’autobiografia di Frederick Douglass: Narrative of the Life of Frederick Douglass: An
American Slave, Written by Himself. Pubblicato nel 1845, Douglass racconta la storia di come dopo
anni di tentativi riuscì a fuggire dalla condizione di schiavo e a conquistare la libertà. Il suo non è
solo un racconto pieno di sentimentalismi volto a commuovere il pubblico: egli fa ordine nei suoi
ricordi, analizza le tecniche e gli stratagemmi utilizzati per scappare alla violenza della schiavitù,
compie delle riflessioni su ciò che ha visto e subìto sulla sua pelle. Al razzismo ed alla violenza
della nazione, Douglass oppone la scrittura come strumento di ribellione e come vera e propria
dichiarazione di indipendenza. Affascinante è il percorso che Douglass compie verso
l’alfabetizzazione, a partire dalle parole del signor Auld, suo padrone, rivolte alla moglie:

<<(…)se tu insegni a quel negro (riferendosi a me) a leggere, non ci sarebbe più verso di tenerlo.
Lo renderebbe inadatto a essere uno schiavo. Diventerebbe immediatamente ingestibile e non
sarebbe più di alcun valore per il suo padrone. Quanto a lui, non gli potrebbe fare alcun bene, anzi
un gran danno. Lo renderebbe scontento e infelice>> (trad. pag 127)

Queste parole convincono Douglass della necessità di imparare e non potendo più farlo in casa, la
sua scuola diventa il mondo là fuori: i ragazzini bianchi del vicinato diventano insegnanti, riproduce
i segni che i falegnami utilizzavano per marcare le parti delle navi, tutte azioni pericolose che
avrebbero potuto portare a conseguenze fatali per il ragazzo. Ma la sete di libertà si dimostra essere
più forte della paura. Tuttavia la via dell’istruzione porta Douglass a rendersi meglio conto della sua
condizione di schiavo, capisce di trovarsi in una situazione peggiore di quanto non credesse e
apparentemente senza una soluzione definitiva. Nonostante ciò, egli non si arrende: l’essere istruito
gli fa comprendere che può meritare di più di una vita dedita ai lavori forzati gratuiti e ciò lo porta
ad avere coraggio e fiducia nelle sue capacità. Coraggio che si manifesta nel duello tra lui e il signor
Covey: una risposta inaspettata, forse dettata dall’istinto di sopravvivenza o magari dalla rabbia
verso quell’odio ingiustificato del nuovo padrone. Una lotta che segna un turning point nella vita di
Douglass, un simbolo di cambiamento interiore:

<<Avete visto come un uomo è stato reso schiavo; ora vedrete come uno schiavo è stato reso
uomo>> (trad. pag 193)

2
Un uomo che ha avuto il coraggio ribellarsi, mettendo in pericolo la propria vita ogni giorno con le
sue scelte. Questo è ciò che perviene dalla lettura della sua biografia, ma Douglass non si limita ad
analizzare le sue esperienze personali: egli riflette a lungo sul sistema schiavista in America e sulle
contraddizioni che si nascondono dietro a questa pratica, prima fra tutte la religione. Interessante è
il paragone tra religione e religione che Douglass compie alla fine dell’opera autobiografica.
Nell’appendice del suo libro, egli esplica le differenze tra il cristianesimo di Dio e il cristianesimo
schiavista:

<<(…) tra il cristianesimo di questo Paese e il cristianesimo di Cristo riconosco la più grande
differenza possibile (…). Essere seguaci dell’uno significa necessariamente essere oppositori
dell’altro. Io amo il cristianesimo puro, non violento ed equo di Cristo: e quindi odio il
cristianesimo corrotto, schiavista, fustigatore di donne, saccheggiatore di culle, iniquo e ipocrita di
questo Paese>> (trad. pag 293).

Dalle parole di Douglass, viene reso noto il modo di vivere degli uomini bianchi: essi si nascondono
dietro le Sacre Scritture, predicano la carità e la solidarietà ma poi finiscono per fare tutt’altro.
Difatti,

<<abbiamo ladri di uomini come ministri di culto, fustigatori di donne come missionari e
saccheggiatori di culle come membri della Chiesa>> (trad. pag 295).

Il tono aspro e violento mostra la rabbia dello scrittore. Rabbia per l’incoerenza e la falsità con cui
gli uomini bianchi feriscono gli schiavi affermando di agire in nome di Dio, ma il loro è un altro
dio: un dio cattivo, il dio dell’odio e dell’intolleranza. Risulta dunque assurdo, preoccupante, quasi
irreale il comportamento degli americani del XIX secolo, di come essi non si accorgessero della
totale incongruenza tra le loro azioni pratiche e le loro predicazioni, e di come la maggior parte di
loro non avesse mai riflettuto su questa controversia.

3. Il ritratto della cristianità in Uncle Tom’s Cabin


Rimanendo sul rapporto tra schiavismo e religione, non possiamo non citare il romanzo di Harriet
Beecher Stowe, Uncle Tom’s Cabin, pubblicato la prima volta a puntate sul giornale antischiavista
<<The National Era>> nel 1852. A una prima lettura esso risulta molto più leggero rispetto alla
narrazione di Douglass, alcuni lo hanno addirittura definito un romanzo << che ha molto in comune
nel suo ipocrita, virtuoso sentimentalismo, con Piccole Donne>>, un sentimentalismo che però
nasconde <<la maschera della crudeltà>> (trad. J. Baldwin, Everybody’s Protest Novel in Notes
of a Native Son, 1955). Infatti scene di crudeltà nei confronti degli schiavi (ispirate ad eventi
realmente accaduti) ve ne sono, anche se in numero minore rispetto ad altri testi, e sono ugualmente
dure da digerire, come le violenze subite dallo schiavo di colore George:

<<mi ha legato ad un albero, ha tagliato delle verghe per quel signorino e gli ha detto che mi
poteva frustare fino a che ne aveva voglia: e cosi è stato.>> (trad. pag. 32).

Oltre ad essere un mezzo di denuncia per il flagello che attraversa gli Stati Uniti, Uncle Tom’s
Cabin è anche una straordinaria testimonianza di fede: crudeli mercanti e cacciatori di schiavi si
affiancano a personaggi come la piccola Eva, la cui ingenuità e genuinità la rendono un perfetto
3
modello di amore e gentilezza. Eva è più di un modello da seguire, ella rappresenta il vero
cristianesimo di Dio. Eva gioca con i servi, gli vuole bene davvero, essi occupano un posto speciale
nel suo cuore, come lo dimostra il dono che la ragazza fa prima di morire: una ciocca dei suoi
biondi capelli, affinché essi si ricordino di lei e dell’affetto nei loro confronti. L’esempio di Eva,
così come l’esempio dello zio Tom, sono la prova che solo il cristianesimo può salvare l’America
dalla piaga della schiavitù, il cristianesimo vero e autentico basato sull’amore, sulla fede in Dio e
sulla bontà d’animo. In particolare, la figura dello zio Tom è stata fortemente criticata per la sua
totale passività, la sua contentezza di eseguire gli ordini e rendere lieto il proprio padrone. In realtà
Tom non è felice della sua condizione di schiavo: egli vorrebbe tornare da sua moglie ed essere
libero, la cosiddetta “passività” che si può riscontrare in questo personaggio è mossa
dall’undicesimo comandamento, diventato la sua unica legge: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Nessuna ribellione dunque, solo fede, una fede che tenta anche di alleviare la sofferenza della
condizione di schiavo. La sua integrità viene spesso messa alla prova, ma la forza dell’amore e della
compassione sono più forti di qualsiasi forma d’odio, come lo dimostra l’episodio del capitolo 33,
dove Tom disobbedisce al comando del nuovo padrone Legree e si rifiuta di frustare la schiava
Lucy, restando fedele ai suoi valori:

<<quella poveretta è debole e ammalata; sarebbe una crudeltà ed io non lo farò mai, non ci
proverò neppure. Se il padrone mi vuole uccidere mi uccida; ma alzare una mano contro uno
chiunque di qua, io non lo farò mai: piuttosto morirò.>> (trad. pag 402)

Il comportamento di Tom è la prova che chi ha Dio nella sua anima e rispetta la sua legge non può
commettere crimini d’odio. Inoltre, il modello di amore e cristianità descritto nel romanzo non deve
essere concepito come un modello “da persone nere”, bensì come un modello universale che tutti
dovrebbero rispettare. Insomma, il messaggio finale dell’opera è più o meno il seguente: se ogni
cittadino americano avesse avuto un po’ di Dio nel proprio cuore, lo schiavismo e la schiavitù
avrebbero potuto cessare prima, o addirittura non esistere. Questa è l’opinione dell’autrice,
probabilmente dettata anche dall’essere cresciuta da un ministro calvinista e pastore
congregazionista.

4. La civile disobbedienza in Huckleberry Finn


L’opera della Stowe non avrà fermato la schiavitù, ma è stata decisamente influente per molti
intellettuali del tempo, primo fra tutti Mark Twain, con il cui romanzo The Adventures of
Huckleberry Finn diventerà l’autore americano più letto al mondo. Scritto nel 1885, nel pieno della
Gilded Age, epoca di apparente splendore post bellico, The Adventures of Huckleberry Finn ci
riporta indietro di circa quarant’anni, nella fittizia cittadina di St. Petersburg, a fare i conti con un
passato schiavista che ha appena lasciato gli Stati Uniti. Come tutte le opere a tema schiavismo, il
romanzo di Twain è un’opera scomoda, fastidiosa, poiché mette in luce le controversie della società
dell’epoca, dove essere un buon cittadino cristiano significa accettare la schiavitù ed il razzismo
insiti nella cultura americana. Difatti, anche nella piccola città del Missouri, i membri di una
famiglia cristiana che si rispetti lavorano, pregano e possiedono almeno un household slave, una
sorta di schiavo domestico. Una forma di schiavitù certamente meno brutale del lavoro nelle
piantagioni, tuttavia essa non rende gli acquirenti di schiavi meno colpevoli o più umani,

4
considerando le ore di servizio gratuito che i servi erano obbligati a rendere ai padroni e la
sofferenza causata dalla forzata separazione di famiglie nere. In questo spaccato di società bigotta
ed eccessivamente inquadrata si colloca Huckleberry Finn, bambino disobbediente, parassita della
società: egli beve, fuma, cammina scalzo, non va a scuola né lavora. Un monello? Probabile, ma
Huck è molto più di questo. Egli rifiuta la società in cui vive, non vuole rispettare regole e principi
che nemmeno comprende, vuole essere libero ma questa libertà non è concessa ad Hannibal. La
fuga dal padre alcolizzato e il viaggio intrapreso a bordo di una zattera assieme allo schiavo Jim
saranno per entrambi un’occasione di riscatto e di crescita. Durante questa avventura si instaura tra i
due un legame forte e ciò porta Huck a mettere in discussione gli insegnamenti ricevuti riguardanti
la razza e la schiavitù. Effettivamente Jim si dimostra essere molto più di un semplice schiavo:
cucina per Huck, fa il suo turno di guardia notturna, e non svela al ragazzo la morte di Pap Finn, per
non traumatizzarlo. Inoltre, Jim gli racconta della sua vita passata, della sua famiglia, di quando ha
schiaffeggiato sua figlia perché ella non aveva ubbidito ad un suo comando, gesto per il quale egli si
sente ancora profondamente in colpa. È qui che una prima parvenza di umanità in Jim e una crepa
nella vecchia mentalità di Huck appaiono, ma è ancora presto per parlare di conversione, come si
intuisce dalle parole del ragazzo:

<<I do believe he cared just as much for his people as white folks do for their’n. It don’t seem
natural, but I reckon it’s so>> (pag 251)

Non è naturale, ma è così: anche un nero può amare la sua famiglia come un bianco, ed è
sorprendente. Il razzismo è ancora presente nella mente di Huck, tuttavia la crepa si estende mano a
mano che il viaggio prosegue: padrone e schiavo si avvicinano sempre di più, un’amicizia sembra
nascere ma il bigottismo culturale è difficile da debellare. Il momento clou del racconto arriva nel
capitolo 31, quando il ragazzo deve scegliere se rivelare o meno a miss Watson dove si trova Jim:
ciò implicherebbe il rientro a casa di entrambi e la mancata occasione per Jim di scappare e
rincontrare la sua famiglia. Ricordando quanto buono è stato l’amico (perché oramai di amicizia si
tratta) nei suoi confronti, Huck straccia la lettera e accetta le conseguenze della sua decisione :

<<All right then, I’ll go to Hell>> (pag. 330)

Questa scelta segna la conversione del protagonista: egli capisce che Jim, come lui, desidera la
libertà, una libertà diversa, più importante, più vera e allo stesso tempo illegittima da un certo punto
di vista, ma giusta. Alla fine di questo viaggio Huck capisce sul serio che cosa sia il bene e che cosa
sia il male, conferma che è la società, ancora una volta, ad essere sbagliata, poiché non può essere
considerato giusto vietare ad uomo di riabbracciare la propria famiglia, a prescindere dal colore di
pelle.

5. Violenza come piacere: James Baldwin


Il racconto dell’odio verso gli schiavi neri d’America non si arresta al XIX secolo, ma continua
ancora in quello seguente: è una parte del passato che non deve essere dimenticata e ciò non lo
permette Going To Meet The Man di James Baldwin, pubblicato nel 1965, nel pieno delle campagne
e dalle proteste per i diritti civili. In particolare, l’ultimo di questi racconti cattura l’attenzione,
ovvero Going To Meet The Man, da cui prende il titolo l’intera raccolta. In esso Baldwin fa

5
un’accurata analisi della violenza contro i neri in epoca schiavista: la violenza non è fine a se stessa,
bensì è sinonimo di divertimento, di dominio (anche sessuale) e di insegnamento. La violenza è
infatti l’espressione del controllo della parte bianca sulla parte nera, essa stabilisce la superiorità di
quest’ultima ed è l’espressione delle libertà civili che garantiscono tale superiorità. Un concetto che
deve essere spiegato e mostrato ai figli, di modo da poter essere tramandato, appreso e riapplicato
dalle generazioni future. Per questo motivo il piccolo Jesse viene portato ad assistere al linciaggio di
uno schiavo, evento che viene paragonato ad un pic-nic con un intrattenimento extra, un momento
di convivialità e divertimento. Il linciaggio non avviene subito, si fa aspettare, sono proprio gli
uomini a tenerlo in sospeso, poiché l’attesa del piacere è essa stessa il piacere:

<<He (lo schiavo) wanted death to come quickly, they wanted to make death wait: and it was they
who held death, now, on a leash which they lengthened little by little.>> (pag. 249).

Lo spettacolo attira il piccolo Jesse, il piacere della sofferenza si presenta nel suo animo, tanto da
desiderare di essere lui stesso l’uomo che impugna il coltello, l’esecutore. L’evento, che può ormai
essere definito un rito di iniziazione per il ragazzo, sta portando i suoi frutti:

<<He began to feel a joy he had never felt before. He watched the hanging, gleaming body, the
most beautiful and terrible object he had never seen ‘till then>> (pag. 250)

L’uomo sul rogo non è più tale, ma viene ridotto a oggetto: questo è il culmine della sua
umiliazione. La spettacolarizzazione del linciaggio dei neri serve per dare un senso alla loro
esistenza, ovvero per provocare piacere e senso di superiorità negli uomini bianchi. Il piacere si
formula sotto molte varianti, come divertimento nel caso del “pic-nic indimenticabile” o come (ed è
questo il punto più raccapricciante del racconto) piacere sessuale. A molti anni di distanza, il Jesse
adulto divenuto vicesceriffo fa riaffiorare il ricordo di quell’avvenimento e una libidine lo assale,
tanto da riuscire, a soddisfare sessualmente la moglie. Baldwin vuole tornare alla radice della
violenza antineri, che piano piano si estende fino a diventare la base del controllo politico,
economico e civile dell’America del secolo precedente. La crudezza e il realismo con cui gli
avvenimenti sono narrati portano il lettore ad accendere la sua fervida immaginazione, ed ecco che
ci ritroviamo davanti alla scena assistita dal piccolo Jesse e da tutta la comunità, vediamo lo schiavo
sofferente, sentiamo l’odore del suo sangue unito a quello delle pietanze del rinfresco post
esecuzione, percepiamo l’eccitazione del Jesse adulto: il racconto diventa un quadro
multisensoriale, volto a renderci totalmente partecipi dello scempio e della crudeltà che accadeva
giusto pochi anni prima.

6
Bibliografia
Baldwin James, Going To Meet The Man da Going To Meet The Man (1965)

Beecher Stowe Harriet, Uncle Tom’s Cabin (1852)

Di Loreto Sonia, La Slave Narrative e L’abolizionismo Atlantico in La Letteratura degli Stati Uniti,
Roma, Carocci (2017)

Douglass Frederick, Narrative Life of Frederick Douglass: An American Slave, Written by Himself
(1845)

Twain Mark, The Adventures of Huckleberry Finn (1885)

Potrebbero piacerti anche