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I QUADERNI DEL SAN PIETRO A MAJELLA I-2020

Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli

I Quaderni del San Pietro a Majella

I - 2020

a cura di Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione


Comitato di redazione de I Quaderni Conservatorio di musica
I Quaderni del San Pietro
del San Pietro a Majella “San Pietro a Majella”
a Majella I/2020
Carmine Santaniello Via San Pietro a Majella, 35
Direttore del Conservatorio I - 80138 Napoli (NA)
Progetto e direzione scientifica
Antonio Caroccia Antonio Caroccia Tel. +39 081-544.92.55
Paologiovanni Maione docente di Storia della musica Fax +39 081-297.778

Marta Columbro direttore@sanpietroamajella.it


docente di Storia della musica
www.sanpietroamajella.it
Cesare Corsi
docente di Bibliografia e biblioteco-
nomia musicale
ISBN 978-88-98528-05-9 Paologiovanni Maione
docente di Storia della musica
Edizioni San Pietro a Majella
Domenico Sapio
© Conservatorio di Musica “San docente di Poesia per musica e
Pietro a Majella” di Napoli drammaturgia musicale

Tutti i diritti riservati. Daniela Tortora


Nessuna parte di questa pubbli- docente di Musicologia sistematica
cazione può essere tradotta, ri-
Giulia Veneziano
stampata o riprodotta, in tutto o docente di Storia della musica per
in parte, con qualsiasi mezzo, didattica della musica
elettronico, meccanico, fotocopie,
film, diapositive o altro senza au- In copertina
torizzazione degli aventi diritto. Antonio Stradivari (Cremona 1644-
1737), Arpa diatonica. (Museo degli
Printed in Italy strumenti musicali del Conservatorio
di Musica “San Pietro a Majella”).
OA 555279 - Repertorio 2010, 5.34.

La rivista scientifica «I Quaderni del


San Pietro a Majella» è una pubblica-
zione periodica senza fini di lucro a cura
del Conservatorio San Pietro a Majella.
La redazione di questo numero è stata
chiusa il 30 aprile 2020.
SOMMARIO

Presentazione del Presidente 7


Presentazione del Direttore 9

Introduzione
a cura di Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione 11

Saggi

PAOLO EMILIO CARAPEZZA


La musica in Calabria nell’era di Bernardino Telesio,
Giordano Bruno e Tommaso Campanella 13

AGOSTINO ZIINO
“Se la doglia e ’l martire”: un’inedita intonazione a voce sola e basso continuo
di Giovanni Brunetti 19

SILVIA URBANI
Il Venceslao di Apostolo Zeno: fonti dichiarate, remote e sottaciute 73

SAVERIO FRANCHI
Patroni, politica, impresari: le vicende storico-artistiche dei teatri romani
e quelle della giovinezza di Metastasio fino alla partenza per Vienna 87

STEFANIA ONESTI
Muzzarelli coreografo dall’Italia a Vienna. Continuità o rottura? 119

Tesi

MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO


La monodia accompagnata e l’introduzione del genere rappresentativo
a Napoli tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento 129

NICOLA DE ROSA
Su una voce del poeta nella Fantasie op. 17 di Schumann 145

WALTER AVETA – OSCAR CORPO – PAOLA NASTASI


Ten to Survive: la settima arte dà voce ai bambini 165
Note d’archivio

TOMMASINA BOCCIA
L’Archivio Storico del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli esiste! 187

Recensioni

Serenata and festa teatrale in 18th century europe


(Renata Maione) 209

Diplomacy and the aristocracy as patrons of music and theatre


in the europer of the ancient régime
(Francesca Seller) 210

Musica, Arte e Grande Guerra


(Chiara Macor) 212

La danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio 215


(Maria Venuso)
PRESENTAZIONE

Il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, che ho il grande onore di presie-


dere, è stata nei secoli, è attualmente, lo sarà in futuro, una magnifica comunità
educante, edificata con il contributo di molti e di grandi, per fare musica, trasmet-
tere ai posteri un patrimonio insigne, in primo luogo umano, e poi anche culturale
e documentale, infine per contribuire a disegnare un modello umanistico intessuto
di accoglienza e tolleranza, costitutivamente a proiezione internazionale e cosmo-
politica.
Per un non musicista come chi scrive, ma di certo musicofilo, l’approccio alla
presidenza di questa grande Istituzione è stato sempre nel tempo caratterizzato da
sommesso rispetto e da permanente senso di inadeguatezza dinanzi all’aura di
storia che si respira nei suoi corridoi, nelle magnifiche sale della biblioteca ed al
cospetto di una collezione di strumenti antichi che conversano con chi li osserva,
li interrogano su un passato che non trascorre e che circonfonde il presente vissu-
to dall’osservatore.
La collezione di scritti nel volume dei «Quaderni del Conservatorio» che con
gioia presento sono di intonazione tecnica, scritti da musicisti e Maestri per musi-
cisti in primo luogo, ma solleticano la curiositas di studiosi di diversa formazio-
ne, rappresentano una finestra su un mondo che raggiunge l’ascoltatore solo a val-
le di un processo complesso, fatto di tecnica ma anche di cultura ma anche di sen-
timento.
Di particolare interesse, la sezione dedicata alla pubblicazione delle tesi parti-
colarmente meritevoli dei nuovi giovani Maestri formatisi nel Conservatorio e de-
stinati auspicabilmente ad esserne ambasciatori nel mondo, a segnalare una conti-
nuità di impegno e formazione musicale nel tempo, che è stata l’eredità maggiore
del nostro Istituto.
Infine, non può non esprimersi il più vivo compiacimento per il riprendersi di
una tradizione di cultura alta, ampiamente rappresentata in questi bellissimi Qua-
derni, interrottasi da qualche tempo e poi luminosamente oggi rinata, una tradi-
zione che dal passato si fa presente per il futuro e che è dovere ed identità di una
Istituzione di alta formazione musicale nota nel mondo.

Antonio Palma
Presidente del Conservatorio

7
8
PRESENTAZIONE

Con i «Quaderni del San Pietro a Majella» si inaugura un percorso editoriale teso a
valorizzare la forte vocazione dell’istituzione al settore della ricerca sul quale, negli
anni, si è scommesso per valorizzare la centralità del conservatorio napoletano nel
tessuto nazionale e internazionale.
Questo primo volume assume un significato particolare e si inserisce nel quadro di
quelle iniziative destinate a consolidare qualitativamente il nostro istituto e soprattut-
to ad avviare un progetto sistematico degli studi musicologici. La ricerca storica trova
in questa laboriosa “bottega”, luogo dove convergono i saperi di una tradizione musi-
cale antica e luminosa, una sede autorevole e blasonata.
La biblioteca e l’archivio sono i custodi di una “storia” avventurosa che ci parla di
un fenomeno europeo senza eguali che ancora persiste nell’immaginario, vivificando
il mito di una città che si fonda sull’Arte della musica e su tutte quelle manifestazioni
performative in cui trova una “naturale” vocazione.
Indissolubile è il legame partenopeo con le sorti della “scena” e con la sua storia,
mai asfittica o provinciale, guardava con lungimiranza imponendosi come interlocu-
trice privilegiata nelle “cose” dello spettacolo in tutte le sue declinazioni senza auto-
referenzialità sterili o implosive.
Attraverso questo “strumento” della condivisione dei “saperi” si spera di promuo-
vere una nuova generazione di studiosi all’ombra di alcune figure significative nel
panorama scientifico internazionale. Alle penne autorevoli si affiancano i primi risul-
tati di entusiasti giovani che intraprendono, in un percorso virtuoso di formazione
musicale e umanistica, la perigliosa strada della ricerca indagando, con volontà e
acribia, sentieri disparati alla ricerca di una propria identità intellettuale.
Il primo volume dei «Quaderni», pur nell’inevitabile eterogeneità degli argomenti
trattati, presenta una fisionomia ben determinata; vuol essere un po’ il biglietto da vi-
sita della scuola, o almeno aspira ad esserlo.
Nell’esprimere la più profonda gratitudine agli autori, ai curatori e ai membri del
comitato di redazione, formulo l’augurio che questa nuova iniziativa periodica possa
diventare un ulteriore mezzo per incentivare lo studio e continuare il percorso virtuo-
so intrapreso dalla nostra casa d’elezione.

Carmine Santaniello
Direttore del Conservatorio

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INTRODUZIONE

I «Quaderni» del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli sono una
nuova realtà periodica, a cadenza annuale, che nasce per valorizzare le attività di ri-
cerca dell’istituto attraverso i contributi di studiosi, docenti e studenti. Fortemente vo-
luti da una direzione attenta a seguire, con acume, le tante anime che affollano
l’antico convento e le più disparate strade prese dalla didattica dei conservatori nel
nuovo millennio dove le discipline musicologiche trovano un armonioso tessuto in
cui inserirsi adeguatamente. La ricerca e l’indagine storico-musicale è un ambito da
coltivare con tenacia e volitività affinché i giovani che si formano all’interno delle
nostre scuole, nell’accezione più nobile, abbiano coscienza del loro compito e possa-
no con autorevolezza affrontare repertori e, perché no, volgere i propri interessi anche
all’affascinante mondo musicologico.
Questa pubblicazione testimonia, dunque, l’impegno del San Pietro a Majella nel
voler affrontare le nuove sfide a cui vanno incontro gli istituti dell’Alta Formazione
Artistica Musicale, non visti più soltanto come luoghi di formazione ma anche di ri-
cerca e produzione.
Per questo primo numero si è creduto opportuno ospitare, a rassicurante viatico, al-
cune firme autorevoli che hanno segnato la disciplina nel secolo breve, quel secolo
che vide la fondazione del settore e il lento riconoscimento accademico di una mate-
ria, insieme con quelle sorelle afferenti allo spettacolo, guardata con sufficienza e
talvolta non riconosciuta. La prima sezione della pubblicazione offre così i contributi
di prestigiosi studiosi quali Paolo Emilio Carapezza (La musica in Calabria nell’era
di Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella) che ricostruisce il
contesto musicale in Calabria al tempo di Bernardino Telesio, Giordano Bruno e
Tommaso Campanella esaminando l’attività del madrigalista Achille Falcone; Ago-
stino Ziino (Se la doglia e ’l martire: un’inedita intonazione a voce sola e Basso con-
tinuo di Giovanni Brunetti) analizza il madrigale Se la doglia e ’l martire di Giovanni
Brunetti, su testo di Giovan Battista Marino, con l’analisi testuale e musicale, e il
confronto con le fonti di Francesco Dognazzi, Claudio Saracini e Costantijn Huy-
gens; Saverio Franchi (Patroni, politica, impresari: le vicende storico-artistiche dei
teatri romani e quelle della giovinezza di Metastasio fino alla partenza per Vienna)
delinea invece, con quella adamantina perizia che lo ha reso un modello per gli studi
dediti al recupero delle fonti documentarie, la Roma che vide il giovane Metastasio
assurgere alla suprema gloria con l’incarico di poeta cesareo alla corte degli Asburgo.
Il saggio del compianto Maestro Franchi è stato un prezioso dono che dobbiamo alla
generosità di Orietta Sartori custode di una memoria ineguagliabile. A questi tre con-
tributi si affiancano quelli di Stefania Onesti (Muzzarelli coreografo dall’Italia a
Vienna. Continuità o rottura?) che traccia l’itinerario artistico di Antonio Muzzarelli
nel corso del suo soggiorno viennese dove propone un modello teatrale ancorato al
passato con soggetti storico-mitologici, e di Silvia Urbani (Il Venceslao di Aposto
Zeno: fonti dichiarate, remote e sottaciute) in cui si esamina il Venceslao di Apostolo
Zeno sondando le fonti testuali tra quelle esplicite e sottaciute.

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La seconda sezione del volume è riservata alla pubblicazione di giovani allievi del
nostro conservatorio che a conclusione dei propri percorsi accademici o durante labo-
ratori promossi dalle cattedre di storia hanno prodotto interessanti lavori di ricerca.
Maria Cristina D’Alessandro (La monodia accompagnata e l’introduzione del genere
rappresentativo a Napoli tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento)
per il suo diploma di primo livello in canto ha intrapreso un’indagine puntuale e bi-
bliograficamente aggiornata sull’avvento della monodia nella Napoli cinque-
seicentesca rettificando in tal modo quei luoghi comuni che ancora sopravvivono nel-
la storiografia corrente, a tal proposito analizza e mostra alcuni casi eccellenti di tale
fenomeno. Nicola De Rosa (Su una voce del poeta nella Fantasie op. 17 di Schu-
mann), a coronamento della sua formazione pianistica avvenuta con il diploma magi-
strale, con abile acume indaga la scrittura schumanniana contestualizzandola in un
ambito teso a restituire la complessità creativa del musicista, con dimestichezza e di-
sinvoltura fa interloquire il grande autore con l’esclusivo milieu culturale del tempo e,
per iperbole, con i grandi intellettuali del ventesimo secolo che a lui si sono ispirati
per disamine profonde e disparate. Il gruppo composto da Walter Aveta, Oscar Corpo
e Paola Nastasi (Ten to Survive: la settima arte dà voce ai bambini) presenta i risulta-
ti di un laboratorio sulla musica del Novecento soffermandosi sull’inedita pagina che
vede compositori di varia estrazione partecipare a un progetto ardito dagli esiti quan-
to mai avvincenti.
La terza sezione del volume, intitolata Note d’archivio, è dedicata alla valorizza-
zione dei molteplici “tesori” del conservatorio e in questa occasione si è puntato su
un patrimonio meno noto custodito all’interno dello storico edificio, si tratta
dell’Archivio Storico depositario della memoria di tre dei quattro antichi conservatori
nonché del Collegio di Musica di San Sebastiano e dell’attuale istituto. Tommasina
Boccia, referente dell’archivio, nel suo contributo – L’Archivio Storico del Conserva-
torio di Musica San Pietro a Majella di Napoli esiste! – tratteggia il profilo storico
dell’organismo descrivendone i preziosi fondi e la loro importanza per la conoscenza
di una delle pagine più importanti della storia cittadina.
Chiude il primo numero dei «Quaderni del San Pietro a Majella» una rubrica di re-
censioni librarie incentrata su alcune novità editoriali.
Non resta che ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile e creduto in
quest’impresa con slancio e generosità: studenti, amici e colleghi hanno, con il loro
contributo e la loro disponibilità, impreziosito questo volume che ci auguriamo possa
essere accolto favorevolmente dalla comunità scientifica.
La nostra gratitudine va altresì al presidente prof. avv. Antonio Palma e al direttore
m.° Carmine Santaniello che hanno creduto da subito a questo nostro cimento che ha
coinvolto tutti i colleghi dell’area musicologica a cui va il nostro grazie per aver
plaudito alla bella impresa con dimostrazioni di raro affetto.

Napoli, 30 aprile 2020

Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione

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SAGGI
____________________________________________________________________

Paolo Emilio Carapezza

LA MUSICA IN CALABRIA NELL’ERA DI


BERNARDINO TELESIO, GIORDANO BRUNO E TOMMASO CAMPANELLA

Prologo

Trentacinque anni fa, il 26 novembre del 1981, ebbe luogo a Reggio Calabria una
giornata di studi su La polifonia sacra e profana in Calabria nei secoli XVI e XVII,
organizzata da don Vincenzo Barbieri, maestro del coro della cattedrale. Ne furono
poi stampati gli atti: 1 contengono relazioni di cinque studiosi, tre siciliani e due cala-
bresi. Uno dei due calabresi era Annunziato “Tino” Pugliese, che recentemente ha
organizzato un convegno dal titolo Dal madrigale al teatro d’opera: musicisti cala-
bresi del Cinque e Seicento (Vibo Valentia, 9-11 dicembre 2016). 2

Tre apici

Nella storia della cultura e della civiltà in Calabria vi sono tre apici: nell’antichità
ellenica tra il VI e il IV secolo a.C., nell’età normanna tra l’XI e il XIII d.C., e nel
tardo rinascimento tra XVI e XVII. Rigogliosa vi fioriva allora la musica in senso la-
to (l’arte delle Muse): poesia e musica, e filosofia.
Nelle città della Magna Grecia nascono, o operano, musici eccellenti: Pitagora
fonda la sua scuola musico-filosofica a Crotone, dove – con i suoi discepoli – gover-
na la città, prefigurando la repubblica aristocratica di Platone; scacciati dai democra-
tici, i pitagorici sciamano a Locri, a Reggio, a Metaponto, a Taranto. Tra i musici
poeti spiccano Stesicoro, nato a Metauro (oggi Gioia Tauro) e poi attivo in Sicilia,
specialmente a Imera, e il suo discepolo Ibico di Reggio; elencati entrambi, nel cano-
ne alessandrino: tra i nove eccellenti poeti lirici, e come inventori, il primo della clas-
sica struttura coreutica triadica (strofe, antistrofe, epodo), il secondo del bárbiton
(strumento musicale dionisiaco e muliebre).
In età normanna Mileto fu capitale della Contea di Calabria, e poi prima capitale
del Regnum Siciliae, esteso dall’Aquila a Malta. Quando i normanni giungono
1
Polifonisti calabresi dei secoli XVI e XVII. Giornata di studi su La polifonia sacra e profana in
Calabria nei secoli XVI e XVII (Reggio Calabria, 26 novembre 1981) a cura Giuseppe Donato, Ro-
ma, Torre d’Orfeo, 1985
2
Fu questa la mia prolusione al convegno Dal madrigale al teatro d’opera: musicisti calabresi del
Cinque e Seicento (Vibo Valentia, 9-11 dicembre 2016), ideato e organizzato da Annunziato Pu-
gliese.

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PAOLO EMILIO CARAPEZZA

nell’Italia Meridionale, trovano in Calabria e in Sicilia cenobi basiliani: i basiliani ci


tramandarono la letteratura ellenica e coltivarono la liturgia musicale bizantina, come
fecero i benedettini con la letteratura latina e la liturgia musicale romana-gregoriana.
Nel 1004 San Nilo, calabrese di Rossano, ormai novantenne, fonda l’abbazia basilia-
na di Grottaferrata, oggi la più importante; durante il regno normanno, archimandrita
era l’abbazia del Santissimo Salvatore di Messina, dove nel XV secolo si trasferisco-
no i basiliani transfughi da Costantinopoli, recandovi i preziosi manoscritti che riu-
scivano a salvare dalla furia dell’Islam e istituendovi la più importante scuola di lin-
gua e letteratura greca: lì studiò per due anni, 3 sotto la guida di Costantinos Láscaris,
Pietro Bembo, l’ideologo del madrigale polifonico rinascimentale. (Ancor oggi Mes-
sina e Napoli sono le capitali, esterne, della Calabria).
E siamo così giunti al terzo apice.
A Cosenza la vita di Bernardino Telesio nel 1509 inizia e nel 1588 finisce. Durante
la sua vita sorgono la filosofia, l’astronomia e la musica moderne. Con lui inizia la
nuova filosofia ilozoica, fondata sulla natura vivente, sull’osservazione e
l’interpretazione della natura e sulla comunione con essa:

Il bene – egli afferma, precetto oggi quanto mai opportuno! – è la natura stessa; e il
principio etico supremo comanda di fare ciò che giova alla conservazione ed
all’evoluzione della natura. La natura si rivela ai sensi. (Telesio 1565: I). 4

Con lui nell’Italia meridionale inizia una dinastia filosofica, che proseguirà col no-
lano Giordano Bruno (1548-1600) e con Tommaso Campanella (1568-1639), cala-
brese di Stilo; e culminerà poi in Gian Battista Vico napoletano (1668-1744).
Nel 1515, durante l’infanzia di Telesio, Nicola Copernico comincia a delineare il
sistema eliocentrico: i sei libri del suo trattato De revolutione orbium caelestium
escono postumi nel 1543. Se ne entusiasma Giordano Bruno, che nel 1584 pubblica
De l’infinito universo e mondi. Campanella poi coniuga l’ammirazione per Telesio
con quella per Galilei, che aveva definitivamente dimostrato l’eliocentrismo: dopo
aver progettato una meravigliosa democrazia utopica secondo natura e secondo ra-
gione ne La città del Sole (1602), scrive un’Apologia pro Galileo (1616).

Il madrigale

Il Rinascimento in musica aveva preceduto quello astronomico e filosofico: Jo-


squin des Prez (1452 c.-1521), coetaneo di Leonardo da Vinci, aveva infatti sviluppa-
to al massimo la costruzione polifonica, ma per porla al servizio del discorso verbale,
3
Dal 1492 al 1494. Lì trovò il trattato Perì synthéseos onomáton (La composizione delle parole) di
Dionigi d’Alicarnasso: ne promosse l’editio princeps stampata da Aldo Manuzio nel 1507 a Vene-
zia e ne ricavò, adattandolo alla fonetica della lingua italiana, il secondo libro delle sue Prose della
volgar lingua, stampate nel 1525 a Venezia da Giovanni Tacuino.
4
BERNARDINO TELESIO, De natura iuxta propria principia liber primus et secundus, Romae, apud
Antonium Blandum, 1565. (L’edizione definitiva, in 9 libri, sarà stampata a Napoli nel 1586: De re-
rum natura iuxta propria principia Libri IX, Neapoli, apud Horatium Salvianum, 1586).

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LA MUSICA IN CALABRIA

secondo le esigenze degli umanisti italiani: aveva così ricostituito l’unità tra poesia e
musica dell’antichità ellenica, ma per sintesi polifonica, invece che per analisi mono-
dica. Josquin attinge il culmine della sua maestria già nel 1492, anno della scoperta
del nuovo mondo; e le sue opere dominano nei primi libri di musica stampati, a parti-
re dal 1501, da Ottaviano Petrucci a Venezia.
La poetica di Pietro Bembo, fondata sulla sintesi che Dionigi d’Alicarnasso fa della
dottrina di Aristosseno,5 si coniuga con il complesso equilibrio costituzionale logico-
costruttivo della musica di Josquin; nasce da tal unione il genere d’arte specifico del
rinascimento: il madrigale polifonico italiano, 6 il cui scopo consiste nel rendere in
immagini sonore il senso delle parole intonate.
La parabola storica del madrigale inizia nel 1520 con la Musica a quattro voce di
messer Bernardo Pisano sopra le canzone del Petrarcha (Petrucci, Fossombrone) e
finisce nel 1638 con i Madrigali guerrieri e amorosi di Claudio Monteverdi (Vincen-
zi, Venezia): dal concento vocale centripeto al concerto vocale-strumentale centrifu-
go su basso continuo. Tale parabola coincide con quella della suddetta dinastia filoso-
fica: sorge nell’età di Telesio, culmina in quella di Bruno, tramonta in quella di Cam-
panella.

Il madrigale in Calabria

Il madrigale fiorisce rigoglioso in Calabria: Gian Gero, madrigalista di prima gene-


razione, è alla corte del principe di Bisignano tra il 1540 e il 1558. 7 Annunziato Pu-
gliese ha pubblicato nel 2007 un’antologia discografica di Madrigali Calabresi: 8 co-
mincia con Gian Domenico Martoretta di Mileto (discepolo di Gero e di Arcadelt)
che introduce il madrigale in Sicilia, soggiornando a lungo intorno al 1550 nel castel-

5
Quasi certamente già a Messina Bembo potè leggerne gli Harmonikà Stoichéia. Li lesse poi co-
munque a Roma, prendendone più volte in prestito il manoscritto conservato nella Biblioteca Apo-
stolica Vaticana.
6
Composizione vocale non strofica su poesie in lingua italiana; il termine deriva appunto
dall’omonima breve forma poetica, in cui endecasillabi e settenari sono liberamente rimati. Le voci
(in genere da tre ad otto; ma più spesso quattro dapprima, cinque e sei dopo) hanno ciascuna auto-
nomia melica e ritmica, ma sono interdipendenti: il complesso intreccio scorre in unico flusso tra-
sparente omogeneo.
7
CESARE CORSI, Le carte Sanseverino. Nuovi documenti sul mecenatismo musicale a Napoli e
nell’Italia Meridionale nella prima metà del Cinquecento, in Fonti d’archivio per la storia della
musica e dello spettacolo a Napoli tra XVI e XVIII secolo. Atti del Convegno (Napoli, Centro di
Musica Antica, 13-14 maggio 2000), a cura di Paologiovanni Maione, Napoli, Editoriale Scientifica
2001, pp. 1-40; MARIA PAOLA BORSETTA, La cappella musicale della cattedrale di Cosenza. Canto
liturgico, libri, strumenti musicali e musicisti tra Cinque e Seicento, in Tra Scilla e Cariddi. Le rot-
te mediterranee della musica sacra tra Cinque e Seicento. Atti del Convegno internazionale di studi
(Reggio Calabria-Messina, 28-30 maggio 2001), I, a cura di Nicolò Maccavino e Gaetano Pitarresi,
Reggio Calabria, Edizioni del Conservatorio di Musica “F. Cilea” 2003, pp. 85-184 (in particolare
la nota 177, pp. 143-144).
8
Madrigalisti calabresi, a cura di Annunziato Pugliese, eseguiti dall’Hesperimenta vocal ensemble
CD Ibimus-Cal/003, 2007.

15
PAOLO EMILIO CARAPEZZA

lo del conte di Caltanissetta; prosegue tal antologia con Gian Battista Melfio di Bisi-
gnano (fl. 1556), Manilio Caputi nobile cosentino (fl. 1564-1593), Alessandro Scialla
“gentiluomo et academico di Tropea” (fl: 1610), Giacomo Tropea di Squillace (fl.
1621-22) e Francesco Pasquali “nobile cosentino” (fl. 1615-1633).
Achille Falcone, “musico et academico cusentino”; m’affascina per la bellezza del-
la sua musica e per il tragico fulgore della sua breve vita: quando il 9 novembre 1600
morì a Cosenza, sua patria, dove s’era fermato lungo il suo viaggio da Palermo a
Roma, non aveva ancora 25 anni.
Achille Falcone
Bernardino Telesio, dopo aver a lungo vissuto a Milano (1518-1523), Roma (1523-
1527) e Padova (1527-1535), si ritirò a meditare e scrivere in Calabria, nel monastero
benedettino di Seminara (1535-1552). Nel 1552 tornò a Cosenza, dove – con frequen-
ti viaggi a Napoli – risiedette fino alla morte, nel 1588, dopo esservi divenuto capo
della celebre Accademia, fondata all’inizio del XVI secolo da Aulo Giano Parrasio:
ne fecero parte sia Antonio Falcone (1550 c. – post 1603) che suo figlio Achille
(1575 c. – 1600).
L’Accademia cosentina, detta poi telesiana, «si proponeva […] di raccogliere e de-
scrivere il maggior numero di fenomeni fisici naturali». 9 Questi Antonio li sperimenta
con la sua musica nelle latomìe di Siracusa, come ci racconta don Vincenzo Mirabel-
la cavaliere siracusano, 10 «in far quella non mai più (cred’io) veduta inventione di far
un cànone, nel quale – cantando due voci, e rispondendo l’Eco – si vien formando
una perfetta harmonia di quattro voci».
E Achille, in un madrigale dedicato a «don Berlinghieri Ventimiglia cavalier pa-
lermitano», traduce in intrico sonoro la natura minerale, vegetale, animale, umana e
divina:
All’hor che prima vidi /
Questi odorati ameni /
Boschi d’ambrosia pieni, /
Ornamento maggior de’ nostri lidi, //
5 “Ben sai – dissi – che far, / se qui t’annidi, /
Quasi augelletto, Amore: //
E se tornar pastore /

9
LUDOVICO GEYMONAT Storia del pensiero filosofico e scientifico, 5 volumi. II: Il Cinquecento, il
Seicento, Milano, Garzanti, 1970, p. 144.
10
VINCENZO MIRABELLA, Dichiaratione della pianta delle antiche Siracuse e d’alcune scelte me-
daglie d’esse , e de’ principi che quelle possedettero descritte da don Vincenzo Mirabella e Alago-
na caualier siracusano, In Napoli, nella stampa di Lazzaro Scoriggio, 1613: cit. ACHILLE FALCONE,
Madrigali, mottetti e ricercari (1603), a cura di Massimo Privitera, Firenze, Leo S. Olschki, 2000
(Musiche rinascimentali italiane, XXI), p. XI, che si basa su L’immagine dell’artifico, dattiloscritto
inedito di Nicolò Maccavino e Silvana Norci (allora suoi colleghi docenti nel Conservatorio di Co-
senza), che riportano il passo letto in ALVISE SPADARO, Caravaggio a Siracusa e l’Orecchio di
Dionisio, «Geoarcheologia» 1-2, 1985, pp. 81-100: 86-87. Il passaggio riportato da Spadaro è tratto
da MIRABELLA, Dichiarazione cit., p. 89.1-2.

16
LA MUSICA IN CALABRIA

Ei brami, o Febo, / e di novelle fronde /


Cinger le chiome bionde, /
10 Che non pur Pafo o Cnido, /
Ma possi anco lasciar / pe’ boschi il lido”.// 11

Grande affresco d’un meraviglioso paesaggio naturale: con un crescendo dal vege-
tale (i boschi) all’animale (l’augelletto) all’umano (il pastore) al divino (Febo). Amo-
re è il demiurgo, l’artefice di quest’ascesa, che parte dal minerale (il lido).
La prima quartina rende l’intrico lussureggiante del bosco: l’intreccio dei rami del-
le foglie e dei fiori, dei colori e dei profumi, di zefiro e ruscello, è reso dall’abbraccio
tra i quattro soggetti melodici. Nel distico seguente sentiamo saltellare e cinguettare
l’augelletto Amore. Gli ultimi cinque versi si posson dividere in tre più due: l’ascesa
della natura giunge all’umano (pastore) e al divino (Febo); ma Febo Apollo, coronato
d’alloro, mescolando cioè le chiome dell’in-lignata Dafne alle sue, ai suoi raggi sola-
ri, preferisce lasciare le isole d’Afrodite (Pafo, Cnido) per immergersi – attraversati i
mari, oltrepassato il lido – in questi boschi amati, e in-lignarsi come Dafne in essi.
Il 9 maggio 1597 Achille Falcone era già in Sicilia, “maestro di cappella della città
di Caltagirone”. Il prologo della sua celebre contesa con Sebastian Raval, “maestro
della cappella reale di Sicilia”, si svolse qualche mese dopo a Siracusa, nel palazzo
del cavalier Vincenzo Mirabella, che non tollerandone la boria – come racconta An-
tonio Falcone, padre di Achille12 –, in presenza del viceré e del suo seguito, tra cui lo
stesso Raval, «fe’ venire delle opere sue [di Mirabella] e nostre [dei Falcone] e le fe’
cantare in presenza di tutti quei signori, non senza scorno dell’opere di Raval».
Da quel momento la breve vita di Achille brucia veloce, come fulgida cometa.
Pochi mesi dopo, all’inizio di aprile dell’anno 1600, la contesa si svolge a Palermo:
lì Achille, nella strada del Càssaro, «si venne a caso a incontrare con Ravalle». Questi
lo provoca a pubblica disfida in «ogni sorte di compositione». I due scelgono concor-
di come giudice Nicolò Toscano, sacerdote «dell’ordine di san Domenico, musico
principale e cantore» celeberrimo, «venerando per virtù e santità di vita». La senten-
za, data il 18 aprile, fu quanto mai netta: «l’opera del signor Raval è composta senza
artificio niuno, e non vi si scorge cosa d’arte né d’ingegno […] Al contrario in quella
del signor Achille vi si scorge artificio grande […]». 13

11
Le barre oblique / separano i 12 soggetti melodici; le doppie barre // indicano le 3 cadenze perfet-
te. Questo madrigale Achille lo dedicò «a don Berlinghieri Ventimiglia cavalier palermitano»: forse
a lui si riferisce il pronome “Ei” all’inizio dell’ottavo verso; avrà certo goduto d’esser assimilato ad
Apollo, che fu costretto da suo padre Zeus a far il pastore per Admeto, re di Fere in Tessaglia (cfr.
CARLO KERÉNYI, Gli dei e gli eroi della Grecia, trad. it. di Vanda Tedeschi, Milano, il Saggiato-
re,1963, pp. 119-120).
12
ANTONIO FALCONE, Relatione del successo, seguito in Palermo tra Achille Falcone musico co-
sentino e Sebastian Ravelle musico spagnolo, 1603, p. 3, riproduzione fotografica in FALCONE, Ma-
drigali, mottetti e ricercari cit., p. 129.
13
Ivi, p. 6, riproduzione fotografica in FALCONE, Madrigali, mottetti e ricercari cit., p. 132.

17
PAOLO EMILIO CARAPEZZA

Raval, furioso, chiede la rivincita a palazzo reale, alla presenza del viceré e con
giudici da questo scelti. Achille, imprudente, accetta. Il secondo atto si svolse quindi
in giugno a palazzo reale. E l’esito, come prevedibile, fu catastrofico.
Achille, resosi conto di non poter contrastare a Palermo con «la forza, i rispetti e i
favori del mondo», risolse di «terminar il negotio in Roma», e invitò Raval a recarvisi
anch’egli «per conferire in presenza dei più eminenti musici romani […] Ma, arrivato
in Cosenza, sua casa, nel primo d'agosto […] si ammalò fortemente di febre […] per
il che nel principio di novembre piacque al Signore Dio di chiamarlo di questa a mi-
glior vita». 14
Il terzo atto della contesa non si svolse dunque a Roma nell’ottobre del 1600; ma
quattro secoli dopo tra Palermo, Firenze e Cosenza. Achille – pur difeso da alcuni
gentiluomini e da padre Nicolò Toscano, decano dei compositori siciliani – subì gravi
torti a Palermo; ma la storia li ha riparati: sono stati i musicologi palermitani a cele-
brarlo modernamente (Ottavio Tiby, Lorenzo Bianconi ticinese durante i suoi studi
palermitani e io stesso); l’Università di Palermo ne ha pubblicato – nel corpus di Mu-
siche rinascimentali siciliane – l’edizione critica di tutte le sue opere rimasteci,15 per
le amorevoli cure e con un meraviglioso saggio introduttivo ed esegetico di Massimo
Privitera, siciliano, professore allora nell’Università della Calabria e ora in quella di
Palermo.
Il volume è uscito nel 2000, e proprio il 9 novembre, nel quarto centenario della
morte immatura di Achille, Massimo Privitera, Maria Antonella Balsano ed io – allo-
ra direttore dell’Istituto di storia della musica dell’Università di Palermo – ne abbia-
mo recato a Cosenza la prima copia, affinché giungesse in quel preciso giorno nelle
mani di Giacomo Mancini, sindaco di Cosenza, accompagnato da una lettera di Leu-
luca Orlando Sindaci di Palermo.

14
Ivi, p. 12.
15
ACHILLE FALCONE, Alli signori musici di Roma Madrigali a cinque voci di Achille Falcone musi-
co cusentino maestro di cappella di Caltagirone, con alcune opere fatte all’improviso a competenza
con Sebastian Ravalle fra’ capellano di Malta, con una narratione come veramente il fatto seguis-
se. Novamente dati in luce, Venezia, Giacomo Vincenzi, 1603; edizione moderna FALCONE, Madri-
gali, mottetti e ricercari cit., pp. IX-XXXVIII.

18
Agostino Ziino

“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”:


1
UN’INEDITA INTONAZIONE A VOCE SOLA E BASSO CONTINUO DI GIOVANNI BRUNETTI
A Fred Hammond

Tra le carte di Malatesta Albani conservate nell’Archivio Albani presso la Biblioteca


Oliveriana di Pesaro 2 si conserva una versione finora sconosciuta per voce e Basso
continuo del madrigale di Giovan Battista Marino Se la doglia e ‘l martire attribuita,
nell’intitolazione, a Giovanni Brunetti. Questa nuova fonte viene ad aggiungersi alle
trentaquattro già note e messe in musica da altrettanti compositori tra il 1603 e il
1652, 3 tutte polifoniche tranne tre a voce sola e Basso continuo, composte rispettiva-
mente da Francesco Dognazzi (1614),4 da Claudio Saracini detto Il Palusi (1620)5 e

1
Ringrazio per l’aiuto ed i consigli che mi hanno amichevolmente dato in questo momento dram-
matico causato dal coronavirus Claudia Aristotele, Luca Aversano, Francesco Badaloni, Paola
Besutti, Luciana Battagin, Stefano Campagnolo, Antonio Caroccia, Luigi Collarile, Giuliana Gial-
droni, Teresa M. Gialdroni, Frederick Hammond, Peter G. Laki, John Nádas, Cecilia Nanni, Cristi-
na Paciello, Diego Papaldo, Massimo Privitera, Annunziato Pugliese, Francesco Saggio, Giorgio
Sanguinetti, Patrizia Schioppa, Lorenzo Tozzi, Lucio Tufano e mio figlio Ottavio. La redazione in-
formatica dei quattro madrigali, testo e musica, si deve a Francesco Badaloni.
2
L’Archivio Albani conservato presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro mi è stato segnalato dal
prof. Luca Della Libera che ringrazio sentitamente. Ringrazio anche la dott.ssa Maria Grazia Albe-
rini, Direttore della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, per avermi concesso di studiare e di pubblicare
questa importante nuova fonte; ringrazio inoltre la dott.ssa Brunella Paolini, curatore dell’Archivio
Albani, per aver facilitato le mie ricerche. Sul riordino dell’Archivio Albani si veda BRUNELLA
PAOLINI, Il progetto Archivio Albani, «RiMARCANDO», Bollettino della Direzione Generale per i
Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche 5, 2010, pp. 125-136. La composizione di Brunetti con-
sta di due carte sciolte (ve ne veda la riproduzione nel presente articolo) ed è catalogata tra le carte
di Malatesta Albani con il numero 1-09-001/2 (vecchia segnatura: P.XVII.191). Le trascrizioni mu-
sicali sono state realizzate da Agostino Ziino (Brunetti e Huygens), Peter Laki (Saracini) e Lorenzo
Tozzi (Dognazzi).
3
L’elenco completo, in ordine cronologico, di tutte le versioni poste in musica del madrigale Se la
doglia e ‘l martire è nell’Appendice in fondo al presente articolo. Ogni versione è corredata del
numero che porta in EMIL VOGEL – ALFRED EINSTEIN – FRANÇOIS LESURE – CLAUDIO SARTORI, Bi-
bliografia della musica italiana vocale profana, Pomezia (Roma), Staderini Editore, 1977 (d’ora in
poi NV).
4
Il madrigale è inserito ne Il Primo Libro de varij Concenti a una et a due voci. Per cantar nel Chi-
tarone o altri simili istrumenti, Venezia, Gardano, 1614 (NV, 843). Su Francesco Dognazzi si ve-
dano: Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, a cura di Alberto Basso,
Le Biografie (d’ora in poi: DEUMM), Torino, UTET, 1985, vol. II, sub voce, p. 511; JEROME
ROCHE, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, ed. Stanley Sadie, London, Macmil-
lan, 1980 (d’ora in poi: New Grove/1), vol. 5, sub voce, pp. 521-522 (scrive che «the solo madrigals
are more convincing, and are in an up-to-date manner», p. 522); GÜNTHER MORCHE, in Die Musik
in Geschichte und Gegenwart – online, hrg. von Laurenz Lütteken, Kassel, 2016 (d’ora in poi:
MGG-online), sub voce; SUSAN PARISI, Ducal Patronage of Music in Mantua, 1587-1621: An ar-
chival Study, Part 1, Ph. D. diss., University of Illinois at Urbana-Champaign, 1989, pp. 434-437;
SUSAN PARISI, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, ed. Stanley Sadie, London,
Macmillan, 2001 (d’ora in poi: New Grove/2), vol. 7, pp. 423-424.

19
AGOSTINO ZIINO

da Constantijn Huygens (1647).6 Si tratterebbe, per quanto ne sappiamo, della sua


unica composizione profana pervenuta, dato che finora Brunetti era conosciuto solo
come autore di musica sacra e liturgica.
Giovanni Brunetti nasce probabilmente a Sabbioneta, vicino Casalmaggiore7 e
muore a Urbino dopo il 1631. Purtroppo non si conosce l’anno di nascita. Dopo aver
operato per alcuni anni nell’Italia del Nord – fu maestro di cappella alla cattedrale di
Novara dal 1613 al 1617 e all’Accademia della Morte di Ferrara dal 1621 al 1625 –,
ottiene il posto di maestro di cappella presso il duomo di Urbino dal 1625 al 1631.8
Una delle sue prime composizioni è stato probabilmente il mottetto Gloriosum diem
sacra veneratur Ecclesia a due voci inserito nella raccolta miscellanea intitolata Sa-
crae et Divinae Cantiones Binis, ac Ternis Vocibus Organum decantandae, scelte da
Zaccaria Zanetto, edita a Venezia da Alessandro Vincenti nel 1619. 9 Durante i suoi
soggiorni nell’Italia del Nord – nell’avviso “ai Lettori” premesso ai Salmi intieri con-
certati del 1625 scriverà di aver «praticato tutte le parti d’Italia, sì per haver havuto
occasione di governare Capelle, come anco per curiosità» – potrebbe aver conosciuto
Alfonso d’Este, Principe di Modena al quale dedica i suoi Mottetti concertati a due,
tre, quattro, cinque, et sei voci con le letanie della Madonna a cinque editi a Venezia
da Alessandro Vincenti nel 1625. Infatti, nella dedica, datata Venezia, 10 giugno,
scrive tra l’altro:

5
Il madrigale è inserito ne Le Seconde Musiche di Claudio Saracini detto il Palusi nobile senese
per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti, Venezia, Alessandro Vincenti,
1620 (NV, 2555). Su Claudio Saracini si vedano: CRISTINA SANTARELLI, in DEUMM, vol. VI, sub
voce, p. 577; NIGEL FORTUNE-PETER LAKI, in New Grove/2, pp. 277-279; ANTONIO MAZZEO, Clau-
dio Saracini compositore senese del ‘600, Siena, Barbablù, 1986; PETER LAKI, The Madrigals of
Giambattista Marino and their Setting for Solo Voice (1602-1640), Ph. D. diss., University of Penn-
sylvania, 1989, p. 153; ID., Musical References in the Poetic Works of Giambattista Marino, «Inter-
national Journal of Musicology» 2, 1993, pp. 85-100: 94; ID., Claudio Saracini: Innovative or In-
competent ?, Atti del XIV Congresso della Società Internazionale di Musicologia. Trasmissione e
recezione delle forme di cultura musicale (Bologna, 27 agosto – 1° settembre 1987, Ferrara – Par-
ma, 30 agosto 1987), vol. III, Free Papers, a cura di Angelo Pompilio, Donatella Restani, Lorenzo
Bianconi, F. Alberto Gallo, Torino EDT/Edizioni di Torino, 1990, pp. 905-913: 905-906; ÉVA PIN-
TÉR, Claudio Saracini. Leben und Werk, Frankfurt am Main, Peter Lang, 1992, “Europäische
Hochschulschriften: Musikwissenschaft”, vol. 87; JOACHIM STEINHAUER, in MGG-online, sub voce.
6
Il madrigale è inserito in Pathodia sacra et profana occupati constanter, Parigi, Robert Ballard,
1647 (NV. 1327). Su Constantijn Huygens si vedano: FRITS NOSKE, in Die Musik in Geschichte und
Gegenwart, hrg. Friedrich Blume, Kassel, Bärenreiter, Bd. 6, 1957, coll. 982-984, sub voce; RAN-
DALL H. TOLLEFSEN, in New Grove/1, vol. 8, sub voce, pp. 831-832; RUDOLF RASCH, in New
Grove/2, vol. 12, pp. 6-7, sub voce; RUDOLF RASCH, in MGG-online, sub voce.
7
Cfr. JEROME ROCHE, in New Grove/2, sub voce, vol. 4, pp. 510-511. Nel DEUMM, vol. I, p. 736
come città di nascita è indicata, ma con un punto interrogativo, Sabbioneta, Mantova; RAOUL ME-
LONCELLI, in Dizionario Biografico degli Italiani - online (d’ora in poi: DBI), sub voce.
8
Giuseppe Ottavio Pitoni lo qualifica «Maestro di cappella dell’arcivescovato d’Urbino», cfr. GIU-
SEPPE OTTAVIO PITONI, Notitia de’ Contrapuntisti e Compositori di Musica, a cura di Cesarino Rui-
ni, Firenze, Leo S. Olschki, 1988, p. 263.
9
Cfr. Répertoire International des Sources Musicales (d’ora in poi: RISM), B/I, 1619/5.

20
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Poiche essendosi ella medesima prima, che hora compiaciuta di haver qualche mio
Componimento, & in particolare alcuni di questi, posso credere, che V. A. si sia degnata
di sentirli non senza qualche sodisfattione. Onde, come suo devotissimo servo, sperando
di poter incontrar il suo gusto, vengo à fargliele un humil dono […].

La dedica ad Alfonso d’Este, però, mi fa sorgere il sospetto che Brunetti tra il 1617
e il 1621 possa aver avuto un qualche incarico forse proprio nel Duomo di Modena,
città dove si erano trasferiti i duchi d’Este dopo l’annessione del ducato estense allo
Stato Pontificio.
Come ho detto, Brunetti lavorò per un certo tempo anche all’Accademia della Mor-
te di Ferrara, alla quale dedicherà («A Gl’illustrissimi Signori il Signor Prencipe et
Accademici Dell’Archiconfraternità della Morte di Ferrara») in data: Venezia, 12
giugno 1625 – due giorni dopo i Mottetti concertati citati prima – i suoi Salmi intieri
concertati a cinque, e sei voci […] Con il Basso Continuo per sonar nell’Organo,
stampati a Venezia da Alessandro Vincenti. Egli auspica inoltre che il «Sig. Marche-
se Filippo Forni Cavalliero di così eminenti virtù, & mio riverito Signor sia beneme-
rito Principe della vostra nobilissima, & virtuosissima Accademia».
Dopo queste due raccolte dedicate a istituzioni e a personaggi con i quali ha avuto
rapporti prima del suo trasferimento a Urbino Brunetti dà alle stampe la raccolta inti-
tolata Motecta binis, ternis, quaternisque vocibus una cum Basso ad Organum. Liber
Primus, pubblicata sempre a Venezia da Alessandro Vincenti nel 1625 e dedicata in
data 30 agosto a D. Paolo Emilio Santorio Arcivescovo di Urbino. Evidentemente
aveva un debito di gratitudine nei confronti dell’arcivescovo, suo diretto superiore.
Interessante è il seguente passo della dedica:
nam & ipse Deus Opt. Max. rerum omnium conditor, & architectus ita delectatus est
musica, ut ea ipsa in mundi creatione una cum Arithmetica, & Geometria sit usus.
Arithmetica enim ratione compacta creduntur elementa, Geometria figures affinxit. Mu-
sica vero adnexuit proportiones: Atque hinc dicuntur omnia à Deo create in numero
pondere & mensura.

Nell’ottobre dello stesso anno, il 1625, pubblica a Venezia, anche questa volta con
Alessandro Vincenti, la raccolta intitolata Motecta quinque vocum […] Liber Primus
e dedicata in data 1° ottobre «Ad Sanctissimum Urbanum VIII Pont. Max.». 10 Ecco il
testo completo della dedica:

Musicae ars, Pater Beatissime, non immeritò divinior coeteris à Sapientioribus Philoso-
phis, sanctioribusque Patribus est habita, Eius enim rhitmus uti coelestis harmoniae imi-
tatio hominum mentes à curis mortalium rerum ad immortalium contemplationem rapit

10
Una copia di questa raccolta si trovava perfino anche nella biblioteca del Palazzo Barberini di
Monterotondo, figurando in un inventario del 17 novembre 1636, f. 8r («Motecta quinque vocum
Johannis Brunetti Urbinatis») e in uno dell’11 aprile 1648 («Partitio motecta quinque vocum aucto-
re Joanne Brunetto Urbinatensi liber primus (V. f. 974v) ad sanctissimum Urbanum 8 pontificem
maximum in coperte di pergamena», cfr. MARIA TEMIDE BERGAMASCHI – RICCARDO DI GIOVAN-
NANDREA, Il Palazzo di Monterotondo. Una residenza baronale della nobiltà romana in Sabina tra
XVI e XIX secolo, Roma, Campisano Editore, 2014, pp. 59, n. 254 e 170. In questi inventari sono
menzionati anche numerosi cembali.

21
AGOSTINO ZIINO

eosque ad expiationem animi, affectuum scilicet moderationem, impellit. Sed illius


praeceptis humana saepius abusa malitia, ea ad mollem delectationem, lasciviamque
traxit, atque in labem ingenij usum sacrosanctae facultatis convertit. Quamobrem non-
nulli tam ex veteribus, veluti stoici, quam ex recentioribus, ut nostrae aetatis Haeretici
nimis asperis, sordidisque legibus à templis, imò à Civitatibus Musicen poenitus arcen-
dam existimarunt, quippe quae hominum sensus ad voluptatum illecebras excitaret, ac si
Davidi Regi invictissimo gladium gestare non liquisset, eo quod Saulus itidem Rex gla-
dio se ipsum interemit. Ego equidem cum à pueritia sedulò huic arti operam navaverim,
ac per multos annos in aliquibus ex nobilioribus Italiae Ecclesijs, & meae praesertim pa-
triae eiusdem moderator extiterim, non nisi ad divinam laudem, vel saltem ad honestam
oblectationem modos facere consuevi. Instituti huius mei primi fructus sunt hae Sacrae
modulationes, quas Sanctitati Tuae iure optimo dicandas duxi; Nam si Priscorum vana
pietas novas fruges nemini gustandas tradebat, priusquam Sacerdotibus primitias obtu-
lisset, quanto magis Beatitudini Tuae vero, summoque Sacerdoti has meorum laborum
primitias, sacrasque res Sacrorum Principi Consecravero? Nec mihi verendum est, Pater
Beatissime Sanctitatem Tuam, cui concors Concentus omnium laudum, omnisque glo-
riae contigit, hosce meos concentus, veluti domum tantae impar Maiestati aspernaturam;
Scio enim, cum ipsa fato quodam bonis artibus, ac virtutibus iuvandis sit coelitus data,
quodcunque studiosi ingenij, hac devoti animi munus quamvis exile, eidem fore iucun-
dum. Sospitet, fortunetque foeliciter Deus Beatitudinem Tuam, & Christianae Reipubli-
ce diutissimè servet incolumen. Venetijs die Kal. October. Anno MDCXXV. Sanctitatis
Tuae Humillimus Servus Ioannes Brunetus Urbinas.

È probabile che una volta stampato il volume – presumibilmente verso la fine di


ottobre 1625 – Brunetti sia venuto a Roma per consegnarlo personalmente al papa
forse tramite qualche membro della famiglia Albani, originaria di Urbino, in quanto il
manoscritto con il madrigale Se la doglia e ‘l martire si trova proprio tra le ‘Carte’ di
Malatesta Albani’. 11 Brunetti rimase certamente a Roma fino al dicembre di quello
stesso anno dato che, forse su segnalazione di Urbano VIII, portò «a cantar in capel-
la», cioè nella Cappella Pontificia, una sua Messa che fu subito eseguita e che dai
cantori papali – ovvero dal Collegio dei cantori – fu giudicata «bell’e vagha». 12 A

11
Il padre di Malatesta, Orazio Albani, era stato inviato a Roma – da Urbino – da Francesco II Del-
la Rovere, duca di Urbino, come ambasciatore presso la Santa Sede. Da Urbano VIII fu nominato
senatore di Roma. Per le benemerenze acquisite presso i Barberini riuscì ad assicurare ai suoi tre fi-
gli posizioni di rilievo: Annibale divenne primo custode della Biblioteca Vaticana, Malatesta non
solo fu un ‘uomo di fiducia’ del cardinale Francesco Barberini ma entrò anche nell’esercito pontifi-
cio, infine Carlo, padre di Giovanni Francesco – il futuro papa Clemente XI –, divenne maestro del
cardinale Carlo Barberini. Nel 1625 Malatesta, nato a Urbino il 4 dicembre 1617, aveva solo otto
anni, ma è verosimile che Brunetti sia rimasto in rapporto con tutti i membri della famiglia Albani
anche negli anni successivi al 1625.
12
Cfr. Diario Sistino 44, c. 57r, 8 dicembre 1625; cito da CLAUDIO ANNIBALDI, La Cappella Musi-
cale Pontificia nel Seicento – Da Urbano VII a Urbano VIII (1590-1644), tomo I, Palestrina, Fon-
dazione Giovanni Pierluigi da Palestrina, 2011, pp. 107 e 171; GIANCARLO ROSTIROLLA, Celebra-
zioni ed eventi musicali nella Cappella Pontificia durante l’Anno santo 1625 redatto dal cantore e
compositore Francesco Severi. Con l’edizione integrale del manoscritto, in Vanitatis Fuga, Aeterni-
tatis amor. Wolfgang Witzenmann zum 75 Geburtstag, edd. Sabine Ehrmann-Herfort e Markus
Engelhardt, Laaber, Laaber Verlag, 2005, pp. 151-226: 221 (= Analecta Musicologica, XXXVI); si
veda anche JEAN LIONNET, Performance Practice in the Papal Chapel during the 17th Century,
«Early Music» XV/1, 1987, pp. 3-15, rist. in JEAN LIONNET, «Parve che Sirio…rimembrasse una

22
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

questo proposito Claudio Annibaldi scrive che «Il caso è eccezionale non solo per la
positività del giudizio, ma anche perché l’esecuzione ebbe luogo senza che il Colle-
gio, che da una decina d’anni era arroccato sulle posizioni rigidamente protezionisti-
che […], avanzasse le obiezioni con cui usava respingere i compositori esterni che gli
proponevano, o gli facevano proporre, loro musiche sacre».13 Annibaldi sostiene,
inoltre, che si tratta della Messa che Brunetti incluse nella raccolta pubblicata nel
1626 da Alessandro Vincenti, dal titolo Salmi spezzati concertati a due, tre, et quat-
tro voci con una messa a quattro et il Basso Continuo per l’Organo […] Libro Se-
condo. Opera quinta, dedicata, in data Venezia, 8 gennaio, al Conte Girolamo Abbate
di Monte Vecchio, che peraltro il compositore neanche conosceva. 14
È molto singolare che Brunetti si sia deciso solo nel 1625 a pubblicare tutte le sue
composizioni (ma l’ultima, i Salmi spezzati concertati, andrà in stampa solo dopo l’8
gennaio del 1626), anno nel quale, trasferitosi ad Urbino, assume, come sappiamo, la
carica di maestro di Cappella del Duomo: forse, solo ora potrebbe aver trovato uno
sponsor disposto a pagare le spese di stampa, per giunta con uno dei più importanti
editori musicali italiani, Alessandro Vincenti. Ma non escludo neanche l’ipotesi che
sia stato proprio lo stesso Brunetti ad autopromuoversi pubblicando a sue spese un
numero di composizioni sufficiente ad ottenere la carica di maestro di Cappella del
Duomo di Urbino oppure a dimostrare che possedeva tutti i requisiti artistici e profes-
sionali per ricoprire degnamente questo importante e prestigioso incarico. Queste due
ipotesi potrebbero trovare una conferma indiretta nel fatto che Alessandro Vincenti
non sembra essere stato interessato a vendere nessuna delle composizioni di Brunetti,
tranne l’ultima, cioè i Salmi spezzati concertati, Opera quinta, del 1626, che figura
nei suoi cataloghi del 1649, 1658 e del 1662. 15
Le prime due raccolte, date alle stampe rispettivamente dopo il 10 e il 12 giugno
1625 – i Mottetti concertati a due, tre, quattro, cinque, et sei voci […] Libro secondo
e i Salmi intieri concertati a cinque, e sei voci –, potrebbero essere state composte al-
cuni anni prima, presumibilmente quando egli era maestro di Cappella nella Cattedra-
le di Novara e nell’Arciconfraternita della Morte a Ferrara. Nel caso dei mottetti con-
certati, però, il fatto che sia indicato come «Libro secondo» lascia pensare che debba
essere esistito prima anche un ‘Libro primo’ ora perduto, da non identificare comun-

florida primavera». Scritti sulla musica a Roma nel Seicento con un inedito, a cura di Galliano Cili-
berti, Bari, Florestano Edizioni, 2018, p.77; ne esiste un’altra testimonianza nel Diario Sistino 43, c.
37r: «è riuscita molto bella», cfr. ANNIBALDI, La Cappella Musicale cit., p. 107; LIONNET, Palestri-
na e la Cappella Pontificia, in Palestrina e la sua presenza nella musica e nella cultura europea dal
suo tempo ad oggi, Atti del II Convegno Internazionale di Studi Palestriniani (Palestrina 3-5 maggio
1986), a cura di Lino Bianchi e Giancarlo Rostirolla, Palestrina, Fondazione Giovanni Pierluigi da
Palestrina, 1991, pp.123-137, rist. in «Parve che Sirio…rimembrasse una florida primavera» cit.,
p.112; LIONNET, Una svolta nella storia del Collegio dei Cantori Pontifici: Il decreto del 22 giugno
1665 contro Orazio Benevolo, «Nuova Rivista Musicale Italiana» XVII/1,1983, pp. 72-103, rist. in
«Parve che Sirio…rimembrasse una florida primavera» cit., pp.123-150:126.
13
Cfr. ANNIBALDI, La Cappella Musicale Pontificia nel Seicento cit., p.107.
14
Nella dedica, difatti, si leggono frasi di questo tenore: «se ben non mi conosce» oppure «E perche
il non havere di me conoscenza non occulti la devotione ch’io le debbo».
15
Cfr. OSCAR MISCHIATI, Indici, cataloghi e avvisi degli editori e librai musicali italiani dal 1591
al 1798, Firenze, Leo S. Olschki, 1984, pp. 178, n. 478; 203, n. 528; 232, n. 628.

23
AGOSTINO ZIINO

que con i Motecta […] Liber primus dedicati il 30 agosto dello stesso anno
all’Arcivescovo di Urbino, D. Paolo Emilio Sanctorio in quanto si tratta di una tipo-
logia liturgico-musicale alquanto diversa: l’intitolazione è in latino, non si tratta di
mottetti concertati, le voci vanno da due fino a quattro (mentre nell’altra raccolta ar-
rivano fino a sei), infine la data della dedica (30 giugno) è successiva a quella
dell’altra raccolta (10 giugno). I Motecta […] Liber primus dedicati a Don Paolo
Emilio Sanctorio, arcivescovo di Urbino, potrebbero essere stati composti o qualche
tempo prima della nomina a maestro di Cappella al duomo di Urbino – a tale proposi-
to sarebbe molto importante trovare la data esatta della nomina – o subito dopo
l’assegnazione di questo prestigioso incarico. Ciò non toglie che potrebbe trattarsi
anche di mottetti sciolti composti separatamente in momenti diversi e riuniti in un vo-
lume unico in occasione della nomina a maestro di cappella al duomo. Similmente, è
difficile stabilire se anche i Motecta quinque vocum erano stati composti in preceden-
za e poi riuniti in una raccolta organica per l’Anno Santo del 1625, ma successiva-
mente, il primo ottobre, dedicati a Urbano VIII eletto al soglio pontificio il 6 agosto
di quello stesso anno. Sulla base delle stampe pervenute la raccolta intitolata Salmi
spezzati concertati a due, tre, et quattro voci con una messa a quattro et il Basso
Continuo per l’Organo, Opera quinta edita nel 1626 dovrebbe essere l’ultima sua
raccolta importante, anche se al termine dell’Avviso ai lettori si legge
un’affermazione abbastanza ambigua dalla quale sembrerebbe che Brunetti avesse in
programma di pubblicarne altre: «Et non si meraviglieranno se l’altre mie Opere che
di presente usciranno dalla stampa, tutte saranno di differenti stili». Comunque sia, è
certamente l’ultima tra quelle giunte fino a noi. Vorrei osservare, infine, che nella
‘voce’ del New Grove scritta da Jerome Roche e in quella del DEUMM è citata anche
una raccolta dal titolo Salmi spezzati concertati a 2-4 voci, con il Basso continuo
all’Organo […] Libro Primo che sarebbe stata pubblicata sempre nel 1625 da Ales-
sandro Vincenti che però non trova nessun riscontro nel RISM. D’altra parte l’opera,
prima citata, contenente i Salmi spezzati e concertati pubblicata a Venezia nel gen-
naio del 1626 porta chiaramente l’indicazione «Libro Secondo», il che presuppone
necessariamente che ci sia stato in precedenza un ‘Libro Primo’. In ogni caso, ci tro-
viamo ugualmente di fronte a uno strano imbroglio in quanto la stampa del 1626 pre-
senta sul frontespizio, per la prima volta, anche il numero d’opera: «Opera quinta», il
che sarebbe giusto se non considerassimo quel «Libro Primo» di Salmi spezzati con-
certati segnalato nel New Grove e nel DEUMM ma ignorato dal RISM e comunque,
purtroppo, fino a questo momento ancora introvabile. In realtà, però, le sue ultime
composizioni pervenute sono le Letanie a quattro voci raccolte da Lorenzo Calvo in
un volume intitolato Prima Pars Rosarum Litaniarum Beatae Virginis Mariae, pub-
blicato a Venezia da Alessandro Vincenti con dedica alla Congregazione del Rosario
di Pavia in data 1° luglio 1626, nel quale figurano tra gli altri anche composizioni di
Claudio Monteverdi, Orazio Vecchi, Adriano Banchieri e Alessandro Grandi. 16 Ri-
cordo a questo proposito che la dedica della raccolta precedente, i Salmi spezzati con-
certati, indirizzata al Conte Girolamo Abbate di Monte Vecchio, porta la data 8 gen-
naio, sempre del 1626.
16
Cfr. RISM B/I, 1626/3.

24
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Nell’Avviso «Ai Lettori» premesso alla raccolta del 1626 ora citata (Salmi spezzati
concertati […] con una messa a quattro) Brunetti dà alcune interessanti informazioni
di carattere prettamente musicale:
Ai Lettori. Perche nel rappresentare ch’ho fatto questi miei Salmi mentre erano scritti à
penna, vi hò trovato una differenza grande nel governarli da me, & sentirli rappresentare ad
altri. Per questo non hò voluto mancare per sodisfare à me stesso di fare quattro parole, con
accennare brevemente la mia intentione, se bene sò che in parte havranno inteso da altri.
Prima dove sarà scritto la lettera p. significherà piano, & che le parti concertano frà di loro,
& dove sarà la lettera f. dinoterà forte, cantando tutte le parti insieme, & in quel caso vi so-
gliono essere anco li ripieni, quali non hò voluto stampare per molti rispetti, ma se alcuno
gli volesse, potrà farli da se stesso, principiando sempre dove è segnato forte, e terminare al-
la lettera piano. Circa il presto e tardi con la battuta è necessario ancora questo, ricercando
così lo stile; tutta via mi rimetterò sempre al Moderatore, havendo riguardo à gli affetti[,]
esclamationi e qualità de sogetti nel sospenderla, & stringerla, come ben spesso potrà acca-
dere in detti Salmi, e quando cantano tutti, si potrà sempre affrettare un poco. I tre Salmi,
cioè In exitu, Domine probasti me, & Memento Domine David, questi più si affretterà la
battuta, più riusciranno & havranno il loro essere, ricercando così quel stile. Non hò voluto
mettervi abachi per gli accompagnamenti, prosuponendo che l’Organista havendo riguardo
alle note antecedenti e susseguenti, con dare anco orecchia alle parti che cantano, possi fa-
cilmente venire in cognizione dalle loro relationi gli accompagnamenti che se li devono.
Nel resto procureranno rappresentare l’Opera come è scritta, & con quel maggior affetto
possibile, acciò habbia l’intento necessario. Et non si meraviglieranno se l’altre mie Opere
che di presente usciranno dalla stampa, tutte saranno di differenti stili, perche havend’io
pratticato tutte le parti d’Italia, si per haver havuto occasione di governare Capelle, come
anco per curiosità, per ciò ho trovato ogni paese havere il suo stile particolare, & quello che
piace in un luogo, non piace nell’altro, che per questo mi sono andato ingegnando
d’accomodarmi secondo la qualità del luogo. Quello poi sia il meglio, ne lascierò il giuditio
à voi altri, che è quanto m’occorre. Vivete felici.

Jerome Roche – basandosi ancora sulla nozione, forse troppo schematica, che ‘stile
concertante’ significa progresso e che ‘stile a cappella’ equivale a conservatorismo – co-
sì concludeva, commentando la lista delle composizioni di Brunetti pervenute fino a noi:
He is known only as a composer of such music [la musica sacra]. Much of it is in the mod-
ern concertato idiom, as the titles of three of his collections indicate, but the five-part motets
in the first collection listed below [i Motecta quinque vocum […] Liber Primus] are in the
more impersonal stile antico beloved of some composers of the Roman school (appropriate-
ly enough he dedicated them to Pope Urban VIII). 17

Fino ad ora, come abbiamo visto, si sapeva che Giovanni Brunetti aveva composto
solo musica sacra polifonica per lo più in stile concertato, ma il ritrovamento tra le
carte di Malatesta Albani di un brano – un madrigale – per voce di basso e Basso con-
tinuo su testo di Giovanbattista Marino apre nuove e interessanti prospettive di ricer-
ca. La prima cosa da osservare è che, trattandosi di un brano singolo e per di più co-
piato a mano, è molto probabile che sia stato l’autore stesso a donarlo a Malatesta
Albani (o a qualche altro membro della famiglia). Ma, come potrebbero essersi cono-

17
Cfr. ROCHE, sub voce “Brunetti, Giovanni”, in New Grove/1, vol. 3, pp. 388 e New Grove/2, vol.
4, pp. 510-511.

25
AGOSTINO ZIINO

sciuti? Brunetti, come abbiamo accennato in precedenza, era certamente a Roma nel
1625 per l’esecuzione, in via del tutto eccezionale, (l’8 dicembre) di una sua Messa
nella Cappella Sistina forse in occasione dell’Anno Santo e presumibilmente su pro-
posta dello stesso pontefice; 18 è quindi verosimile che durante il suo soggiorno roma-
no sia entrato in contatto con varie persone originarie di Urbino, tra cui anche qualche
membro della famiglia Albani,19 compreso anche Malatesta, e che abbia continuato a
frequentarlo anche negli anni successivi. Difatti, anche se nel 1625 Malatesta – nato a
Urbino il 4 dicembre 1617 e morto a Desize a soli 28 anni il 7 ottobre 1645 –, aveva
solo otto anni e se, pur essendo precocissimo, era forse ancora troppo giovane per
avere rapporti intellettuali con persone molto più grandi di lui, è molto probabile, pe-
rò, che già qualche anno dopo, verso i 13-14 anni, avesse raggiunto una totale maturi-
tà ed un livello culturale e artistico molto alto. Comunque sia, non escludo che possa
trattarsi di un cadeau al giovane rampollo di una famiglia importante, gli Albani, alla
quale per qualche motivo Brunetti doveva riconoscenza, tanto più apprezzato proprio
per essere Malatesta molto interessato anche alla musica.
Malatesta Albani era ricordato finora solo per aver compiuto nel 1644 una missio-
ne diplomatica presso Luigi XIV, re di Francia, per conto del papa Urbano VIII,20 il
che dimostra che dovette essere una persona di assoluta fiducia dei Barberini tanto da
affidargli anche numerosi incarichi militari. Egli era altresì menzionato nei dizionari
storico-artistici per aver disegnato la figura della Giustizia incisa da Cornelis Bloe-
maert II, il Giovane,21 nell’edizione dei Documenti d’Amore di Francesco da Barberi-
no edita nel 1640 da Federico Ubaldini e dedicata a Urbano VIII. 22 Malatesta, però,

18
Durante il pontificato di Urbano VIII, difatti, furono cantate in Cappella tre messe nuove: questa
di Brunetti l’8 dicembre 1625, una di Kapsberger per la Pentecoste del 1627, ed una di Giovanni
Carlo Rossi, fratello del più celebre Luigi, il 6 gennaio 1637; cfr. LIONNET, Palestrina e la Cappella
Pontificia cit., rist. in «Parve che Sirio…rimembrasse una florida primavera» cit., p. 112.
19
Come ho detto in precedenza, non escludo che qualche membro della famiglia Albani possa aver
presentato Brunetti al papa Urbano VIII al quale aveva dedicato il Motecta quinque vocum […] Li-
ber Primus.
20
Si tratta della missione compiuta a Parigi nei mesi maggio-agosto 1644 al fine di ottenere
l’appoggio della Francia a Urbano VIII nella controversia con i Farnese relativamente al territorio di
Castro; sulla questione si vedano VITTORIO SIRI, Del Mercurio Overo Historia de’ correnti tempi
[…], Casale, Giorgio Del Monte, 1655, tomo IV, Parte II, pp. 552-560 e CLAUDIO COSTANTINI, Fa-
zione urbana. Sbandamento e ricomposizione di una grande clientela a metà Seicento, «Quaderni di
Storia e Letteratura», maggio 1998; 2.a ed. corretta e ampliata, Genova, quaderni.net - editoria on-
line, novembre 2004.
21
Si vedano, tra i tanti: Allgemeines Künstler-Lexikon, hrg. Julius Meyer, Leipzig, Wilhelm Engel-
mann, 1872, vol. I, p. 181 (è qualificato correttamente come «Dilettant im Zeichen»); EMMANUEL
BÉNÉZIT, Dictionnaire critique et documentaire des Peintres, Sculpteurs, Dessinateurs et Graveurs
[…], Nouvelle édition, ed. Jacques Busse, Tome 1, Paris, Éditions Gründ, 1999, p. 143; ULRICH
THIEME-FELIX BECKER, Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegen-
wart, Erster Band, Leipzig, E. A. Seemann, 1908, p. 178; si veda anche GIULIA FUSCONI, La fortuna
delle “Nozze Aldobrandini”. Dall’Esquilino alla Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, 1994, pp. 219, 375, 393.
22
Su questa famosa edizione si veda I Documenti d’Amore di Francesco da Barberino, a cura di
Luana Salvarani, Lavis, La Finestra Editrice, 2009 (Archivio Barocco).

26
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

come ora sappiamo, non fu solo un uomo di fiducia dei Barberini,23 un abile diploma-
tico e un ottimo disegnatore; egli dovette essere un personaggio straordinario: preco-
cissimo, 24 pieno di interessi, colto e versato in tutte le arti, non ultime anche quelle
marziali, cavalleresche e militari; traduce testi dal greco e dal latino, scrive compo-
nimenti poetici e drammi teatrali, tra i quali un Teodosio; versato nella musica, suona
certamente il liuto, forse anche la viola da gamba e possiede un’interessante raccolta
di musica vocale polifonica profana e di musica strumentale. 25 Giovanni Battista Do-
ni, nel dedicargli il “Discorso Quarto” della Lyra Barberina intitolato “Della disposi-
zione, e facilità delle Viole diarmoniche” scrive tra l’altro:
chi è quello, che non ammiri, come in sì fresca età ella abbia potuto far così nobile ac-
quisto di cose tanto diverse, e pregiate, non solo nelle lingue, e nelle lettere umane, ma
negli esercizj Cavallereschi ancora, e sino nella Musica, e nella Pittura? E chi non rac-
coglie da ciò la sottigliezza dell’ingegno, la saldezza del giudizio, la tenacità
dell’imaginativa, ed in somma l’ottima disposizione e temperamento dell’animo suo?

Nel 1639, a soli 22 anni, forse d’intesa con Gian Lorenzo Bernini che ne fu
l’ideatore, organizzò il “Combattimento” con cui si chiude l’intermedio intitolato La
Fiera di Farfa posto al termine della ‘commedia’, Chi soffre speri, su testo di monsi-
gnor Giulio Rospigliosi, musica di Marco Marazzoli, rappresentata nel Carnevale di
quell’anno nel teatro “alle Quattro Fontane” fatto costruire dai Barberini.26 Nella con-

23
Il cardinale Francesco Barberini nella lettera di accreditamento inviata al re di Francia e conser-
vata in copia nell’Archivio Albani così scrive: «invio il Sig.re Malatesta Albani mio Gentilhuomo,
quale per la particolare confidenza, che ho lungamente usata seco, potrà tanto più al vivo rappresen-
tarle i miei ossequiosi sentimenti».
24
Nel Catalogo della copiosa biblioteca già appartenuta all’Eccellentissima Famiglia de’ Principi
Albani pubblicato nel 1858 figurano a p. 52 alcuni «Saggi de’ Studii nell’Arte del Disegno dati da
Malatesta Albani negli anni di sua età quindici, e sedici 1632-33 con l’aggiunta di alcune Piante di
Fortezze, Città, ed altri luoghi fatte dal med. fol. grande Originale».
25
Sull’argomento si veda AGOSTINO ZIINO, “Libri di musica” appartenuti a Malatesta Albani (Ro-
ma, c. 1640): un tassello in più nella ricezione di Carlo Gesualdo, «Fonti Musicali Italiane» 25,
2020 (in corso di stampa).
26
Su questo avvenimento si vedano in particolare: FREDERICK HAMMOND, Girolamo Frescobaldi
and a Decade of Music in Casa Barberini, «Analecta Musicologica» 19, 1979, pp. 94-124; ID.,
Bernini and the “Fiera di Farfa”, in Gianlorenzo Bernini: New Aspects of His Art and Thought, ed.
Irving Laving, University Park, Pennsylvania State University, 1985, pp. 115-178; ID., More on
Music in Casa Barberini, «Studi Musicali» 14, 1985, pp. 235-261; ID., Girolamo Frescobaldi, A
Guide to Research, New York & London, Garland Publishing, 1988; ID., Music and Spectacle in
Baroque Rome. Barberini Patronage under Urban VIII, New Haven – London, Yale University
Press, 1994; ID., Girolamo Frescobaldi, Palermo, L’Epos, 2002, 2.a ed., traduzione di Roberto Pa-
gano, 1.a ed. in inglese 1983; ID., The Ruined Bridge. Studies in Barberini Patronage of Music and
Spectacle 1631-1679, Sterling Heights, Michigan, Harmonie Park Press, 2010; NINO PIRROTTA, Un
intermedio campestre, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia, Modena, Mucchi,
1989, pp. 1057-1073, rist. in ID., Poesia e Musica e altri saggi, Discanto, Firenze, 1994, pp. 65-88;
DAVIDE DAOLMI, “Marazzoliana”, in «L’armi e gli amori». Un’opera di cappa e spada nella Roma
di mezzo Seicento, Tesi di Dottorato in Storia e analisi delle culture musicali, Roma, Università La
Sapienza, a.a. 2000-2001 (redazione rivista e aggiornata @ 2006); ID., La drammaturgia al servizio

27
AGOSTINO ZIINO

tabilità dei Barberini sono indicate le spese fatte per le rappresentazioni teatrali in oc-
casione del carnevale e per altre necessità, studiate e commentate accuratamente in
più riprese da Frederick Hammond; ai ff. 135r-136r del col. 76 sono registrati tutti i
pagamenti fatti per il “Combattimento” «per ordine del Sig.re Malatesta».27 Leila
Zammar sostiene con buoni argomenti che Malatesta fu effettivamente coinvolto nel-
la rappresentazione dato che un suo disegno potrebbe riferirsi alla scenografia di Gian
Lorenzo Bernini ed alla sua macchina del sole.28
Passando ora a Brunetti e al madrigale di Giambattista Marino penso che non sia
da escludere l’ipotesi che possa essere stato proprio Malatesta Albani a suggerirgli di
metterlo in musica, conoscendo egli questo madrigale o per averlo letto nell’edizione
del 1602 o in altre successive,29 o perché già intonato da molti musicisti,30 tra i quali
Crescenzio Salzilli nel Primo Libro de madrigali a cinque voci del 1607, Pomponio
Nenna, nel Primo Libro di madrigali a quattro voci del 1613, e Agostino Agresta nei
Madrigali a sei voci…Libro Primo del 1617, raccolte madrigalistiche che figurano
proprio nella lista di libri musicali da lui posseduti. 31 Comunque sia, è anche vero che
le opere di Marino erano molto apprezzate da tutti i membri della famiglia Barberini
– anche se Urbano VIII l’11 giugno 1624 mette L’Adone tra i libri all’Indice – e da
tutto il loro entourage. 32 Ricordo infine che il madrigale Se la doglia e ‘l martire fu
messo in musica anche da vari musicisti operanti a Roma – città dove Marino ri-
siedette dal 1600 al 1606 e successivamente dal 1623 al ’25 –, alcuni dei quali
molto vicini alla cerchia dei Barberini: si tratta di Girolamo Frescobaldi, Vincenzo
Liberti, 33 J. Hieronymus Kapsperger, Vincenzo Ugolini, Pietro Pace e Carlo Cec-
chelli. 34 Non escludo, comunque, che Brunetti e Huygens abbiano potuto conoscere

della scenotecnica. Le «volubili scene» dell’opera barberiniana, «Il Saggiatore musicale» XIII/1,
2006, on-line.
27
Cfr. ZIINO, “Libri di musica” appartenuti a Malatesta Albani (Roma, c. 1640) cit.
28
LEILA ZAMMAR, Gian Lorenzo Bernini: a Hypothesis about his Machine of the Rising Sun, in La
dimensione del tragico nella cultura moderna e contemporanea, a cura di Erica Faccioli, Roma,
UniversItalia, 2014, pp. 233-252. Per maggiori dettagli e nuove integrazioni si veda ZIINO, “Libri di
musica” appartenuti a Malatesta Albani (Roma, c. 1640) cit.
29
Le Rime sono state pubblicare per la prima volta nel 1602 a Venezia da Gio. Battista Ciotti; le
edizioni successive sono: Venezia, Ciotti, 1604-1605; Parma, Erasmo Ciotti, 1605; Venezia, G. B.
Ciotti, 1606; Venezia, presso Bernardo Giunti, G. B. Ciotti et compagni, 1608. Le edizioni succes-
sive appaiono tutte con il titolo La lira. Rime: Venezia, G. B. Ciotti, 1614; Venezia, G. B. Ciotti,
1615-1616; Milano, Gio. Battista Bidelli, 1617-1618; Venezia, G. B. Ciotti, 1618; Venezia, G, B.
Ciotti, 1620; Venezia, G. B. Ciotti, 1621-1625; Venezia, appresso il Ciotti, 1629; Venezia, nella
stamperia de gl’heredi di Gio. Salis, 1638.
30
Se ne veda la lista nell’Appendice in fondo al presente articolo.
31
Cfr. ZIINO, “Libri di musica” appartenuti a Malatesta Albani (Roma, c. 1640) cit.
32
Cfr. HAMMOND, Music and Spectacle in Baroque Rome cit., pp. 18, 34, 64, 103, 107, 110, 184.
33
Nel 1609 Liberti dedica il Secondo Libro di Madrigali a cinque voci al cardinale Maffeo Barberi-
ni, il futuro Urbano VIII, in quel momento arcivescovo di Spoleto (NV, 1512), contenente due ma-
drigali di Marino; l’anno precedente, il 1608, aveva dedicato al cardinale Scipione Borghese il Pri-
mo Libro di Madrigali a cinque voci, contenente ben nove testi del Marino tra i quali Se la doglia e
‘l martire (NV, 1511).
34
Su Carlo Cecchelli si veda JEROME ROCHE sub voce in New Grove/2, vol. 5, p. 327. Giuseppe Ot-
tavio Pitoni così scriveva: «fu compositore di buona stima e valoroso contrappuntista, come ce ne

28
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

(e forse anche acquistare) queste due versioni per voce e Basso continuo composte
precedentemente da Francesco Dognazzi nel 1618 (Venezia, Bartolomeo Magni) e da
Claudio Saracini nel 1620 (Venezia, Alessandro Vincenti): esse figurano difatti in
due cataloghi di Vincenti – l’editore di Brunetti – rispettivamente del 1621 e del
1649. 35 Eccone il testo:36
Se la doglia, e ‘l martire
Non può farmi morire,
Mostrami almeno Amore,

dimostrano molte opere scritte a mano e stampate»: in base a questa testimonianza dovremmo ipo-
tizzare che molte opere, presumibilmente quelle non pubblicate o rimaste manoscritte, rispetto
all’elenco compilato da Roche sono andate perdute; cfr. GIUSEPPE OTTAVIO PITONI, Notitia de’ con-
trapuntisti cit., p. 290. Sarà interessante sottolineare che il testo di Marino fu messo in musica anche
da dieci musicisti napoletani o comunque ‘regnicoli’: Alessandro Roccia, Crescenzio Salzilli, Pietro
Maria Marsolo, Alessandro Scialla, Pomponio Nenna, Francesco Genvino, Sigismondo D’India,
Agostino Agresta, Lelio Basile e Giacomo Tropea. Lelio Basile, poeta e musicista, nato a Napoli,
nel 1611, insieme ad fratello Giovambattista, raggiunse la sorella Adriana alla corte di Vincenzo
Gonzaga duca di Mantova rimanendovi fino al ducato di Francesco. Nel 1619 pubblica il Primo Li-
bro de Madrigali a cinque voci nel quale figura anche il madrigale di Marino, ma non escludo che
possa essere stato proprio lui a consigliare a Don Francesco Gonzaga di inserire questo madrigale
nel suo Primo Libro delle Canzonette a tre voci edito sempre nel 1619 (questa raccolta, comunque,
contiene ben quattro testi di Marino). Potrebbe esserne una conferma il fatto che la dedica di Basile
è precedente a quella di Gonzaga (quella di Basile è datata 25 aprile, mentre quella di Gonzaga 1°
ottobre). D’altra parte, però, sarà anche interessante notare che questo madrigale – come tanti altri
testi di Marino – era molto noto nell’ambiente mantovano già prima dell’arrivo della ‘famiglia’ Ba-
sile a Mantova: difatti lo avevano messo in musica già Salomone Rossi nel 1603 e Francesco Do-
gnazzi, quest’ultimo in forma monodica, nel 1614, musicisti che lavoravano in quegli anni alla Cor-
te di Francesco Gonzaga contemporaneamente a Lelio Basile e a Don Francesco Gonzaga (1590-
1628), appartenente ad un ramo cadetto, operante nella Cappella di Santa Barbara e autore di molta
musica sacra. Vorrei far presente che Michelangelo Grancino dedica a D. Vincenzo Gonzaga –
presso il quale aveva lavorato prima di passare a Milano («le primizie d’una antica servitù») – il suo
Primo Libro de’ Madrigali in concerto a 2.3.4 voci edito a Milano nel 1646 e che in questa raccolta
figurano tre madrigali di Marino tra cui anche Se la doglia e ‘l martire. Su don Francesco Gonzaga
si vedano: FRANCESCA CAMPOGALLIANI, Guglielmo e Francesco Gonzaga: un prencipe e un sacer-
dote nella storia musicale della chiesa di Santa Barbara in Mantova, Tesi di laurea, Università di di
Padova, 1970; EAD., Francesco Gonzaga: un sacerdote nella storia musicale della chiesa palatina
di Santa Barbara, «Civiltà mantovana» VIII, 1974, pp. 277-292; SUSAN HELEN PARISI, Ducal Pa-
tronage of Music in Mantua, 1587-1627: An archival Study, Part 1, Ph. D. diss., University of Illi-
nois at Urbana-Champaign, 1989, pp. 448-449; EAD., ‘Licenza alla mantovana’: Frescobaldi and
the Recruitment of Musicians for Mantua, 1612-1625, «Frescobaldi Studies», ed. by A. Silbiger,
Durham, NC, 1987, pp. 55-91: 86-87, nota 62; NIGEL FORTUNE (with SUSAN PARISI), “Francesco,
Gonzaga”, sub voce, in New Grove/2, vol. 10, p. 140.
35
Cfr. MISCHIATI, Indici cit., rispettivamente pp. 153, n. 631, 185, n. 702, 152, n. 568, 184, n. 668.
Ambedue i madrigali figurano anche nelle edizioni successive del 1658 e del 1662. Mi interessa sot-
tolineare il fatto che questi due compositori, ma più in generale anche il repertorio musicale da essi
rappresentato, erano conosciuti e forse anche eseguiti ancora agli inizi degli Anni ’60 del Seicento.
36
Riporto la versione edita nella prima edizione: La Lira, Rime del Cavalier Marino, Parte Secon-
da, Madrigali & Canzoni, Venezia, Gio. Battista Ciotti, 1602, p. 97, n. LXXXXV. Nella trascrizio-
ne ho tolto le “h” etimologiche (“haver”; “hore”) e ho regolarizzato la “u” con “v”, secondo l’uso
moderno.

29
AGOSTINO ZIINO

Come di gioia, e di piacer si more.


Voi, che la morte mia negl’occhi avete,
E la mia vita siete,
Dite, dite ch’io mora a tutte l’ore,
Ch’io son contento poi
Mille volte morir, ma in braccio a voi. 37

Come ci indica anche il titolo – Morte dolce – si tratta a mio parere di un testo con
una connotazione fortemente erotica e sensuale, tutto giocato, com’è, sul contrasto –
in questo caso puramente retorico – tra la doglia e la gioia, tra il martire e il piacere,
ma principalmente tra la vita e la morte, laddove quest’ultima, oltre al suo significato
proprio assume metaforicamente anche quello del suo contrario, vita (= piacere), nel
momento in cui si identifica con il culmine dell’atto amoroso/sessuale, cioè con il
«morir ma in braccio a voi». Sul piano formale è bipartito essendo composto di nove
versi suddivisi in 4+5, cioè quattro nella prima sezione e cinque nella seconda: si trat-
ta di una struttura molto frequente nelle Rime di Marino subito dopo quella in ottonari
(su 205 madrigali 54 sono di otto versi, 48 di nove, 45 di dieci, 20 di undici, 13 di sei
e sette, 5 di tredici, dodici e tre).38 Faccio osservare che la seconda sezione inizia e
termina con la parola «voi», che è poi la donna amata (nel testo). Questa suddivisione
in 4+5 ha indotto cinque autori a realizzare addirittura due distinti madrigali qualifi-
cati come ‘Prima parte’ e ‘Seconda parte’: 39 si tratta di Vincenzo Ugolini, Sigismon-
do D’India, Agostino Agresta, Andrea Anglesio e Lelio Basile, tutti concentrati in so-
li quattro anni, tra il 1615 e il 1619. Tutti gli altri, tranne alcuni, presentano una strut-
tura abbastanza unitaria, pur rispettando quasi sempre la suddivisione bipartita in 4+5
tramite una cadenza alla fine del quarto verso oppure utilizzando note lunghe al fine
di creare uno stacco, anche se minimo, con la sezione musicale successiva. Fanno ec-
cezione la versione di Francesco Gonzaga del 1619, monostrofica, nella quale viene
messa in musica solo la prima quartina con il segno di ripetizione per il secondo di-
stico; quella di Tommaso Pecci del 1603 in tre strofe cantate tutte sulla musica della
prima quartina e sempre con il segno di ripetizione per il secondo distico, tutte con la
stessa struttura rimica (yyxX) e costituita dalla prima quartina della versione originale
– cioè quella di Marino –, da una seconda con versi ripresi in parte da quella originale

37
Varianti presenti in Brunetti: v. 3: almen; v. 4: muore; v. 5: Voi, voi (variante presente in molte
altre versioni); v. 8: e poi.
38
Mi riferisco a ALESSANDRO MARTINI, Marino e il madrigale attorno al 1602, in The Sense of Ma-
rino. Literature, Fine Arts and Music of the Italian Baroque, ed. by F. Guardiani, Legas, New York,
1994, pp. 361-393: 389-393. La struttura metrica è la seguente: aabBCcBdD.
39
Purtroppo non è possibile comparare in ogni dettaglio tutte le versioni polifoniche dato che solo
sedici ci sono pervenute complete di tutte le parti – Salomone Rossi, Girolamo Frescobaldi, Tibur-
zio Massaino, Vincenzo Liberti, Hieronymus Kapsperger, Alessandro Scialla, Bernardino Borlasca,
Francesco Rognoni Taeggio, Pomponio Nenna, Francesco Genvino, Vincenzo Ugolini, Sigismondo
D’India, Pietro Pace, Agostino Agresta, Giacomo Tropea, Alessandro Costantini –, mentre le altre
sono incomplete. Le versioni polifoniche incomplete saranno prese in considerazione solo in rela-
zione a quegli elementi che esulano dal numero delle parti. Avverto comunque il lettore che ho po-
tuto visionare direttamente solo quindici versioni, tra complete e incomplete, come risulta dalla lista
delle fonti riportata in Appendice.

30
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

ed infine da una terza completamente nuova; 40 da ultimo quella di Bernardino Borla-


sca del 1611, costituita da anch’essa da tre strofe cantate tutte sulla stessa musica, ma
nella quale le due ultime presentano un testo completamente nuovo, sia pure con lo
stesso ordine di rime della prima. 41 Nella versione di Taroni, almeno nella parte del
Quinto, l’unica pervenutaci, sembra mancare il quarto verso. Tropea e Genvino, infi-
ne, riducono il settimo verso, «Dite dite ch’io mora a tutte l’hore», da endecasillabo a
novenario eliminando uno dei due «Dite». La variante testuale più consistente si os-
serva, però, in Genvino ai vv. 5-6, variante che comporta anche un’inversione metrica
(il v. 5 diventa un settenario e il v. 6 un endecasillabo): «Voi che la morte sete / e che
la vita ne’ begli occhi avete». 42 Mi meraviglia molto che Tommaso Pecci abbia alte-
rato il testo originale in modo così banale,43 proprio lui che Marino aveva tanto lodato
nel 1601 durante il suo soggiorno a Siena nel sonetto a lui dedicato – Quelle de’ miei
piacer dolci e lascivi – per aver «leggiadrissimamente messo in canto la Canzon de’
Baci», O baci aventurosi, nel quale così si esprime, molto retoricamente, nelle due
terzine conclusive: «Malgrado homai del Tempo, e del’Oblio, / Spero vivrà, seben
morrà lo stile, / Immortal nel tuo canto il canto mio. // Tal suole in licor dolce amaro
e vile / Frutto addolcirsi: e tal roza vid’io / Pianta innestarsi, e divenir gentile». 44 Pe-
ter G. Laki afferma che questo sonetto contiene «what is probably Marino’s most
substantial statement on music», mentre tutti gli altri riferimenti alla musica presenti
nelle sue opere «may appear somewhat superficial, revealing little if anything about
the poet’s views on music as an art and its relation to literature». 45 Laki conclude che
Even if this [cioè il contenuto generale del sonetto] is merely conventional flattery on
the part of the poet, it is interesting to see that Marino ascribed an important function to
musical settings of his works. He was aware and appreciative, of his poems being set to
music and he regarded musical settings as enhancing the values of the lyrical poetry he

40
Tommaso Pecci: «Voi che mia vita sete / Morte darmi potete, / Ch’io son contento poi / Mille
volte morir; ma in braccio à voi. // Morte felice à pieno / Haverei nel vostro seno, / Che del mio
corpo essangue / Raccorreste pur voi lo spirto, e ‘l sangue». Non escludo che i versi che ho indicati
come ‘nuovi’ possano essere stati estratti da altre poesie sempre del Marino.
41
Eccone i testi; Seconda strofe: «Se l’angoscia, ch’io sento / Mi tiene vivo spento, / Mostrami al-
meno Amore / Come spento ravviva un cor che more.» Terza strofe: «Poi che ‘l grave mio affanno /
Mi somministra il danno, / Non perir non morire, / Non campar, non gioir, né duol sentire.»
42
Sempre in tema di varianti testuali bisogna dire che nella versione di Dognazzi nel quarto verso la
parola «gioia» è sostituita da «doglia», ma è evidente che si tratta di un refuso di stampa. Difatti ci
troviamo di fronte ad una stampa alquanto scorretta, pur essendo Bartolomeo Magni un editore-
tipografo di un certo prestigio; si vedano anche: nel v. 5: «Voi che alla morte mia nelli occhi…», e
nel v. 7: «ch’io morra».
43
Ma la cosa ancora più strana è che Se la doglia e ‘l martire apre tutta la raccolta, è il primo, cioè,
di una serie di ventun madrigali dei quali dodici del Marino e nove adespoti.
44
Questo sonetto è in GIAMBATTISTA MARINO, Rime, sezione Rime varie, Parte I, Venezia, Gio.
Battista Ciotti, 1602, p. 211. Si veda anche JOACHIM SCHULZE, Formale Themen in Giovanni Batti-
sta Marino’s “Lira”, Amsterdam, B. R. Gruner, 1978, pp. 134-135. La «canzone dei baci» risulta
essere stata messa in musica da otto compositori – in tre casi completa e in cinque solo parzialmente
–, tra i quali però non figura Tommaso Pecci, la cui versione evidentemente o non è stata mai pub-
blicata oppure è andata perduta.
45
Cfr. LAKI, Musical References cit., p. 94.

31
AGOSTINO ZIINO

produced. […] Nevertheless, he was quite conscious of the new dimension music could
add to the words through its capacity to enhance the qualities of the poems, a capacity
he recognized and praised in many of his works. 46

Tornando ora alle quattro versioni monodiche – Dognazzi (1614), Saracini (1620),
Brunetti (presumibilmente intorno agli Anni ’40) e Constantijn Huygens (1647) – c’è
da osservare per prima cosa che quella di Brunetti sul piano musicale è molto più lunga
rispetto alle altre due. Dognazzi comprende 27 battute di cui 12 per la prima sezione e
15 per la seconda; Saracini, che ripete sia la prima che la seconda sezione, 46 di cui 8
(+ 8) per la prima e 15 (+ 15) per la seconda; Huygens 48 di cui 11 (+ 11) per la prima
e 13 (+ 13) per la seconda, con la replica di ambedue; Brunetti 77 di cui 27 per la prima
sezione e 23 (+ 27) per la seconda, compresa la replica (scritta). Nel caso di Saracini e
di Huygens la replica è indicata dal doppio segno di ripetizione posto alla fine della
prima sezione, mentre in Brunetti non solo è riscritta per intero ma presenta anche no-
tevoli varianti rispetto alla prima esposizione. D’altra parte, come sappiamo, nel ripete-
re una parte i cantanti erano soliti improvvisare sempre varianti ed abbellimenti. La re-
plica di un’intera parte, quindi, ha sempre e comunque un significato solo musicale.
Tuttavia il problema, in questo caso, riguarda il modo con il quale la ripetizione è rea-
lizzata: Brunetti, difatti, nel ripetere la seconda parte non solo ne modifica tutti gli ab-
bellimenti, rispetto alla prima esposizione, ma interviene perfino sui campi sonori (si
osservi, tra l’altro, che la cadenza mediana, a b. 50, è nella sonorità di Re minore men-
tre quella finale è nella dominante, La minore). Come si vede, quindi, sul piano musi-
cale la replica della seconda sezione non è soltanto una semplice ripetizione con qual-
che modificazione negli abbellimenti ma ha anche un valore strutturale.
A mio parere, una spia molto interessante per comprendere i diversi modi di acco-
starsi ad un testo poetico da parte di un musicista è quella di provare a valutare la tipo-
logia e il significato delle ripetizioni testuali non solo in sé stesse, cioè per il loro con-
tenuto poetico e per ciò che esprimono, ma anche in relazione alle soluzioni musicali
adottate dai vari compositori. Questa prospettiva, infatti, potrebbe addirittura rovescia-
re il problema nel senso che è la struttura musicale a richiedere la ripetizione di un ver-
so o di una sua parte, e non viceversa. Ecco tre delle quattro versioni a voce sola in or-
dine cronologico:47

46
Ivi, p. 95.
47
Con il corsivo indico le parole e i versi ripetuti. Nella versione di Dognazzi ho corretto «doglia»
(v. 4) in «gioia» e «nelli» (v. 5) in «negli».

32
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

DOGNAZZI SARACINI BRUNETTI

Se la doglia e’l martire Se la doglia e’l martire Se la doglia e’l martire


non può farmi morire non può farmi morire non può farmi morire
Non può farmi morire Non può farmi morire Mostrami
Mostrami almen’ Mostrami almen’ Amore mostrami almen’Amore
Come di gioia e di piacer si muore
Mostrami almen’ Amore
come di doglia e di piacer si more. Come di gioia e di piacer mostrami

mostrami almen’ Amore


Voi che la morte mia negli occhi ave- come di gioia e di piacer si more. Come di gioia e di piacer
te
E la mia vita sete Voi, voi che la morte mia negli occhi ave- come di gioia e di piacer
te
Dite dite ch’io mora a tutte l’ore E la mia vita siete come di gioia e di piacer si more.
Dite dite ch’io mora a tutte l’ore e la mia vita Voi, voi che la morte mia negl’occhi ave-
te
Ch’io son contento poi e la mia vita siete E la mia vita siete
Mille volte morir ma in braccio a voi Dite dite ch’io mora Dite dite ch’io mora a tutte l’ore

Ch’io son contento poi dite dite ch’io mora a tutte l’ore Ch’io son contento poi
Mille volte morir ma in braccio a voi. Ch’io son contento poi mille volte morir

Mille volte morir mille volte morir ma in braccio a voi

Mille volte morir ma in braccio a voi. Chi’io son contento poi

Mille volte morir


Mille volte morir ma in braccio a voi.

Voi che la morte mia ne gl’occhi avete

e la mia vita siete


dite dite chi’io mora a tutte l’ore
ch’io son contento poi
mille volte morir
mille volte morir ma in braccio a voi

ch’io son contento poi


mille volte morir
mille volte morir ma in braccio a voi.

33
AGOSTINO ZIINO

Come si può osservare, tra le tre versioni 48 cambia in modo significativo il modo di
ripetere parole singole, versi singoli, parti di essi più o meno estese o più versi insie-
me. Questo dipende non solo dall’approccio che i quattro musicisti potrebbero aver
avuto nei confronti del testo poetico in quanto tale, del suo significato e della sua
struttura metrica ma anche dalle caratteristiche melodiche, ritmiche e fraseologiche
della musica sulla quale hanno immaginato di intonarlo. Ne consegue che uno studio
sul modo di ripetere le parole, versi interi o solo parti di essi ha un senso solo se rap-
portato alla loro intonazione musicale. Partiamo dalla prima quartina che contiene un
discorso assolutamente compiuto e definito. Dognazzi e Saracini – per iniziare con i
due compositori più antichi – 49 ripetono per intero un solo verso, il secondo (ambe-
due sullo stesso modulo ritmico – e in parte anche melodico – del primo, rispettiva-
mente una quarta e una terza sopra), al termine del quale figura una cadenza su una
parola-chiave, «morire». Il terzo verso, «mostrami almen, Amore», dà l’avvio ad un
concetto che in un certo senso è in antitesi rispetto a quello dichiarato nei due versi
precedenti in quanto la morte può essere provocata non solo dalla «doglia» e dal
«martire» ma anche dalla «gioia» e dal «piacer». Forse proprio per questo Dognazzi
ne enfatizza lo stacco intonando il primo emistichio, «mostrami almen», su un veloce
modulo ritmico e melodico e ripetendolo immediatamente dopo un tono sotto insieme
alla parola seguente, «Amore», fino a completare il verso. Saracini invece preferisce
abbandonare il principio dell’unità motivica attraverso un «jump from A to F […]
and new melodic material» che ha un forte effetto di sorpresa. 50 Ambedue i musicisti,
però, si soffermano su «Amore» utilizzando una semiminima e due semibrevi. Sarà
interessante notare, inoltre, che in ambedue le versioni il verbo «mostrami» è cantato
con la medesima scansione ritmica: minima puntata, due crome, minima (minima
puntata o semiminima), semiminima, semibreve, semibreve (Dognazzi, bb. 7-9; Sara-
cini, b. 5). Saracini prosegue intonando la prima parte del quarto verso, «come di
gioia e di piacer», su un vivace modulo di crome che sarà ripetuto simmetricamente
prima dal Basso continuo un tono sotto (partendo dal Re) e poi dalla voce, ma una
quarta sotto (partendo dal Si). Se Saracini ripete due volte l’espressione «come di
gioia e di piacer», Dognazzi invece, dopo aver espresso il senso della «gioia» – ma in
realtà il compositore usa il termine «doglia» – attraverso un lungo, vivace e articolato
vocalizzo sulla prima sillaba, prosegue con un breve inciso di tre crome, ripetute
simmetricamente dal Basso continuo una quinta sotto, che esprimono ovviamente il
«piacer» (bb. 10-11), fino a concludere la prima sezione, su «[si] more», con una bre-
ve cadenza che termina con nota coronata sulla dominante (Re). Anche Saracini
chiude con due semibrevi, cadenzando però sulla tonica (Sol). La seconda parte si
apre in ambedue le versioni con una sorta di declamato che si estende lungo tutto il
verso; stesso trattamento si osserva anche in molte delle versioni polifoniche.51 Sara-
cini, in più, ripete il «Voi» iniziale attraverso un passaggio cromatico (Si-Do-Do die-

48
Non ho considerato la versione di Constantijn Huygens del 1647 in quanto replica solo il secondo
emistichio dell’ultimo verso: «ma in braccio a voi».
49
Escludo Huygens in quanto ripete solo l’ultimo emistichio, «in braccio a voi».
50
Cfr. LAKI, The Madrigals of Giambattista Marino cit., p. 153.
51
Sarà interessante notare che Salzilli passa invece al tempo ternario.

34
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

sis, b. 10) che rende ancora più forte e incisivo il riferimento alla persona amata, già
annunciato nel terzo verso («Amore»). 52 Se Dognazzi non sfrutta tutte le potenzialità
che offre il verso successivo, il sesto («e la mia vita siete») – che si oppone al prece-
dente «Voi che la morte mia negli occhi avete» –,53 facendone quasi una prosecuzio-
ne di questo con un movimento ascendente (come Saracini) di semiminime fino a
terminare con una cadenza di due semibrevi (bb. 15-16), Saracini, invece, dopo aver
iniziato con un veloce moto di tre crome ascendenti che si allarga subito sulla caden-
za con una minima e tre semibrevi (bb. 12-13), ripresenta questo verso altre due volte
utilizzando il veloce modulo ascendente su diversi gradi della scala (rispettivamente
una quarta e una sesta minore sotto), fino a concludersi, come Dognazzi, con una ca-
denza spalmata su due semibrevi (b. 15). In conclusione, mentre Dognazzi intona il
sesto verso una sola volta e tutto di seguito, Saracini preferisce metterlo in maggiore
evidenza e dopo averlo cantato la prima volta lo ripropone, dividendolo però in due
segmenti, di cui il primo intonato due volte. Passando ora agli ultimi tre versi (7-9)
c’è da osservare per prima cosa che Dognazzi ripete per intero il settimo verso («dite,
dite ch’io mora a tutte l’ore») – caratterizzato da un ritmo veloce e molto scandito –
una quinta sotto (dalla b. 16) e con un segmento melodico solo in parte simile, e lo
unisce senza soluzione di continuità al verso successivo, l’ottavo, sul quale cadenza.
Saracini, invece, lo divide – intonandolo sempre su un ritmo vivace e scandito – in
due emistichi ripetendone il primo due volte a distanza di un tono sotto, e chiude con
una cadenza sulla dominante (Re) posta alla fine del verso, su «l’ore». A questo pun-
to Saracini, dopo un brevissimo stacco di una croma, passa immediatamente al penul-
timo verso e quasi senza soluzione di continuità prosegue sull’ultimo che tratta esat-
tamente come quelli precedenti, vale a dire anticipando il primo emistichio, che ripete
una quarta sotto, dopo una replica affidata al Basso continuo, e legandolo al secondo
(«in braccio a voi»), con il quale termina il pezzo su un segmento musicale a note
lunghe. In questo modo sembra che Saracini evidenzi nell’ordine i verbi «mora» nel

52
Sull’impiego del cromatismo in Saracini si veda in generale LAKI, The Madrigals of Giambattista
Marino cit., pp. 150-151: «The Sienese nobleman and amateur composer wrote contrapuntally de-
rived chromaticism in the manner of Gesualdo and d’India, major-minor shifts over unchanging
bass as seen in Romano [Giulio], chromaticism in the bass line and many other varieties that are pe-
culiar to him and that are hard to classify. Furthermore, there is a recurring feature in Saracini’s
style, virtually nonexistent in the music of other monodists, that can perhaps be best explained in
the context of chromaticism, although it does not always involve the linear succession of ascending
or descending semitones. This is Saracini’s habit of abruptly moving from one tonal center to an-
other, witsìh basses that use steps quite unheard of in either musical theory or practice of the time,
such as augmented seconds, fourths, and fifths. Often such progressions result in cross-relations that
are really another form of chromaticism. Occurring within the same voice or not, however, chro-
maticism is more pervasive in Saracini’s songs than those of other monodists. He did not restrict the
use of chromatic progressions to structurally important points or words that called for such progres-
sions according to the madrigalistic usage of the day. Many of his madrigals meander rather unpre-
dictably from one tonal center to another, sometimes even failing to return to the initial cadential
sonority at the end. Others, while making ample use of chromaticism and other innovative devices,
do not contain anything more extraordinary than the usage of Saracini’s more venturesome profes-
sional colleagues».
53
In ambedue i casi il corsivo è mio.

35
AGOSTINO ZIINO

settimo verso e «morir» nell’ultimo, verbi che in questo contesto sono una chiara me-
tafora dell’atto sessuale e della sua felice conclusione. Dognazzi, invece, rimane coe-
rente con il principio di non spezzare i versi – in questo caso gli ultimi due – ma di
intonarli per esteso, separandoli tramite una pausa di semiminima e ripetendoli alla
quarta sopra. A ben vedere, però, l’ultimo verso è pur sempre suddiviso in due emi-
stichi dal momento che il primo è ripetuto alla quarta sotto, non dal canto ma dal Bas-
so continuo. Si osservi inoltre che sia Dognazzi che Saracini nei versi «dite, dite ch’io
mora» e «mille volte morir» adoperano lo stesso modulo ritmico: due crome e una
semiminima (o minima). A questo si aggiunga anche la circostanza che sia Dognazzi
che Saracini alternano in imitazione la voce e il Basso continuo proprio nello stesso
punto (dopo «mille volte morir»): forse anche questo potrebbe contribuire ad impa-
rentare, forse non casualmente, le due versioni.
Diversamente da Dognazzi e Saracini che lavorano più sul dettaglio, Brunetti pre-
ferisce le grandi campate, anche se poi è uno dei pochi a ripetere parole singole con
valore rafforzativo: «Voi» con cui inizia il quinto verso (come d’altra parte fa, come
abbiamo visto, anche Saracini54) e «Mostrami» all’inizio del terzo, ma replicato un
tono sopra (bb. 7-9 e 15-17). Come si è visto, anche Saracini e Dognazzi mettono in
evidenza, sia pure in modi diversi, questo terzo verso, differenziandolo dai due pre-
cedenti ma Brunetti va ancora più avanti e non si limita a ripetere la prima parola,
come fa anche Dognazzi, ma rafforza la ripetizione anche attraverso un brevissimo
canone; la trovata più stupefacente, però, è quel lungo vocalizzo sulla prima sillaba
della parola «Amore», che insieme a «morte» è l’altra parola-chiave di questo madri-
gale (bb. 9-11 e 17-19). I primi due versi sono intonati l’uno di seguito all’altro senza
soluzione di continuità, come d’altra parte fanno anche Dognazzi e Saracini, mentre il
terzo e il quarto sono ripetuti a coppie; nella replica, il terzo è cantato di seguito (co-
me nella prima esposizione) mentre il quarto è suddiviso in due parti, forse per sotto-
linearne il significato apparentemente contrastante («come di gioia e di piacer / si mo-
re»), la prima delle quali a sua volta è ripetuta tre volte su tre diversi gradi della scala
con un modulo composto di crome discendenti e ascendenti. Un trattamento partico-
lare è riservato, ovviamente, al secondo segmento, «Si more» (come in Huygens).
Nella seconda sezione, i primi tre versi – il quinto, il sesto e il settimo – sono cantati
l’uno di seguito all’altro, anche se l’ultimo è intervallato tramite una pausa di semi-
minima; gli altri due (l’ottavo e il nono), invece, sono ripetuti a coppie con la stessa
tecnica impiegata nella sezione precedente, vale a dire che l’ottavo è cantato per inte-
ro e tutto di seguito mentre il nono è suddiviso in due emistichi («mille volte morir /
ma in braccio a voi»), il primo dei quali è ripetuto due volte senza soluzione di conti-
nuità ma su gradi diversi della scala, mentre il secondo, che si riferisce alla persona
amata – vedi «Amore» del terzo verso – con la quale si attua l’atto sessuale, è enfa-
tizzato attraverso un vocalizzo, molto elaborato specialmente nella replica. Tutta la
seconda sezione viene a sua volta ripetuta per intero ma su diversi gradi della scala e
con un numero maggiore di passaggi vocalizzati, com’era d’uso allora (su «Voi»,
«vita», «mora», «ma in braccio a voi», il quale ultimo nella replica finale abbraccia
ben cinque battute). Precedentemente avevo osservato che Dognazzi e Saracini – a lo-
54
Tra i polifonisti ricordo, tra i tanti, Vincenzo Liberti (1608) e Vincenzo Ugolini (1615).

36
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

ro si aggiungerà, come vedremo, anche Huygens – impiegano lo stesso modulo ritmi-


co per intonare le parole «dite, dite ch’io moro» e «mille volte morir»: Brunetti con-
corda con loro per quanto concerne il primo, ma per il secondo sceglie un modulo
ritmico forse più vicino alla scansione verbale e comunque certamente più vivace:
croma, croma, semiminima, croma puntata, semiminima. In conclusione, dal con-
fronto tra queste tre versioni risulta, a mio parere, che quella di Brunetti si basa su
principi strutturali, formali e costruttivi molto precisi e definiti che mirano ad ottenere
architetture musicali ampie, dilatate e chiaramente articolate al loro interno secondo
una logica musicale ben determinata. Al contrario, Dognazzi e, specialmente, Saraci-
ni (e Huygens) sembrano fortemente incardinati nei principî del “recitar cantando”
basati sullo stretto legame tra poesia e musica sia sul piano ritmico che su quello
espressivo e contenutistico.
Prima di passare ad un’analisi musicale dettagliata dei quattro madrigali vorrei pre-
sentare una ‘tavola’ molto sintetica delle ‘sonorità’ principali impiegate dai quattro
compositori. Nell’approntare la ‘tavola’ ho preso come punto di riferimento i singoli
versi e le ‘sonorità’ con cui iniziano e terminano. Purtroppo non ho indicato tutti i va-
ri passaggi che sono serviti per ‘modulare’ da una ‘sonorità’ all’altra all’interno delle
singole unità versali, di conseguenza i dati che la ‘tavola’ potrà fornire saranno per
forza di cose molto generali e riguarderanno solo le macrostrutture.55

Dognazzi
1: Solm>Re / 2: Re>Sib / 3: Sib>Re / 4: Re>Re // 5: Re>La / 6: La>Re/ 7: Sib>La / 8: La>Do /
9: Do>Re / 8: Re>Fa / 9: Fa>Solm
Saracini
1: Sol>Mi / 2: Sol>La / 3: Fa>Do / 4: Do>Sol // 5: Sol>Re / 6: Re>Re / 7: Sol-Re / 8: Sol>Do /
9: La>Sol
Brunetti
1: Re>Re / 2: Re>Solm / 3: Solm>Do / 4: Do>Do / 3: Do>Fa / 4: Fa>Re // 5: Re>Re / 6:
Re>Solm / 7. Solm>Fa / 8: Fa>Sib / 9: Sib>Solm / 8: Sol>Do / 9: Do>Re – A partire dal verso 8
si ripete tutto uguale, ma con varianti negli abbellimenti; inoltre, dalla b. 74 fino all’ultima (b.
77) cambia anche la linea del Basso continuo passando subito alla sonorità di La (quinto grado di
Re, sonorità di partenza) con la quale il pezzo si conclude.
Huygens
1: Sol>Sib / 2: Sib>Re / 3: Solm>Fa / 4: Fa>Re // 5-6: Sib>Solm / 7: Solm>La / 8: La>Re / 9:
Solm>Solm

Peter Laki ha affermato che nella monodia del primo ‘600 «Much of the harmonic
activity takes place around the circle of fifths: […]. The use of the circle of fifths
gives the piece a clear sense of tonal direction.» 56 Nell’approntare le osservazioni che
seguono ho preso anch’io come punto di riferimento il circolo delle quinte, ben con-
sapevole, però, che le musiche che stiamo analizzando appartengono ad un momento
storico-musicale nel quale il concetto di ‘armonia’ – le sue ‘leggi’, la sua pratica e la
sua relativa terminologia – è ancora molto fluttuante tra modalità e tonalità, tra ‘oriz-

55
Ovviamente “Solm” significa Sol minore. La ‘sonorità’ maggiore non è indicata. I numeri in bold
indicano i singoli versi in ordine crescente.
56
LAKI, The Madrigals cit., p. 151.

37
AGOSTINO ZIINO

zontalità’ legata ancora al contrappunto ed alla pratica polifonica e ‘verticalità’ con-


nessa alla nascente monodia accompagnata. La prima cosa da chiarire è quella della
divisione in versi, ovvero, fine a qual punto è giusto far coincidere le varie frasi mu-
sicali con le singole unità versali, cioè con i singoli versi. Difatti alcune volte
un’unica frase musicale può comprendere due o più versi; in tal caso ho preferito col-
legare i numeri dei versi interessati con un trattino. Sul piano musicale le singole uni-
tà versali si possono distinguere l‘una dall’altra attraverso le cadenze, una o più pau-
se, un cambio improvviso di campo sonoro oppure ancora attraverso un diverso modo
di interpretare musicalmente il significato o il contenuto di un verso. I singoli versi
iniziano per lo più nello stesso ambito armonico di quello precedente, tranne che in
alcuni casi: una volta in Dognazzi e Brunetti, tre in Huygens e cinque in Saracini.
Questo significa che Dognazzi e Brunetti mantengono una certa stabilità ‘armonica’
(Dognazzi si muove prevalentemente tra il Solm e il Re, il La; Brunetti tra il Re, il
Solm e il Do), mentre Saracini e Huygens si caratterizzano per una continua mobilità
‘modulante’ che interessa tutti, o quasi, i gradi della scala. Queste differenze mi sem-
brano quindi molto significative per varie ragioni, come, ad esempio, nel caso di Do-
gnazzi il quale, per evidenziare probabilmente l’inizio della parte finale del madrigale
(«dite, dite», b. 16) cambia improvvisamente sonorità da Re maggiore a Sib maggio-
re. Dal quadro che ho approntato sopra si notano anche più facilmente le modulazioni
a sonorità estranee a quella(e) di base. Nella versione di Dognazzi, che si apre e si
chiude in Sol minore, compare in due occorrenze una sonorità di “Fa”, anch’essa
‘lontana’. La prima volta appare all’inizio del secondo verso, come indica il 6 posto
sopra il La («non può farmi morire», b. 3) dopo una sonorità di Re maggiore, quindi
con un significato estraniante, sonorità che rimane fino alla fine del verso su una ca-
denza mediana sospesa Do-Fa (b. 4). Difatti, dopo una pausa di semiminima il verso
viene ripetuto su un’altra sonorità per chiudersi con una cadenza sul Sib – anche que-
sta una sonorità ‘lontana’ – nella quale il Fa che lo precede ha assunto la sua vera
funzione, vale a dire quella di dominante (b. 6). Poco significativo è invece il passag-
gio alla sonorità di Fa nella b. 25. Del “Fa” acuto con il quale Saracini apre il terzo
verso –innestato sempre in una sonorità di Sol minore – ha parlato già Peter Lake ed
io non ho altro da aggiungere. In Brunetti a b. 20 sul verbo «more» si può osservare
una cadenza nella sonorità di Fa che proviene da una di Do tramite un movimento
V6-I. Un’altra cadenza nella sonorità di Fa è presente alle bb. 35-36 su «mora a tutte
l’ore»; la stessa sonorità prosegue nelle due battute successive sul v. 8 che cadenza su
un Sib. Nella versione di Huydens già nel primo verso si passa dalla sonorità Solm a
quella di Sib («[marty]-re»), mentre il terzo chiude con una cadenza sul Fa prove-
niente da un Do (su «[a]-more»). Ma il caso più interessante, a mio parere, si può os-
servare all’inizio della seconda parte nel quale si passa direttamente dalla sonorità di
Sib a quella di Mib, una perfetta quarta giusta ascendente (bb. 12-13).
Passiamo ora ad illustrare, anche se solo in linea generale, gli aspetti musicali delle
quattro composizioni, partendo sempre dalla versione di Francesco Dognazzi. Si trat-
ta di un brano molto suggestivo, 57 costruito in modo chiaro e lineare, ma sofisticato
57
Si può ascoltare in internet interpretata da Van der Meel con l’ensemble La Sfera armoniosa. Dal
punto di vista musicale tutte e quattro le versioni sono, a mio avviso, molto belle e suggestive.

38
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

nel contempo, prevalentemente sulla sonorità di Sol minore, con frequenti modula-
zioni alla dominante, ma toccando di sfuggita anche altri gradi. Inoltre, i vari passag-
gi V6-I contribuiscono a confermarne la coerenza e la compattezza ‘tonale’. Pur nella
sua brevità, il brano è abbastanza variato nelle soluzioni tecniche e stilistiche, sempli-
ci ma raffinate. Dognazzi, difatti, ha enfatizzato la sostanziale unitarietà dei due versi
iniziali non solo per averli concatenati l’uno all’altro ma anche per aver realizzato un
certo parallelismo nella linea musicale. Ma c’è anche qualche passaggio particolare
interessante e significativo: ad esempio il salto discendente di quinta diminuita
all’inizio di b. 8 su «mostrami almen amo-[re]» che risale con un passaggio di quarta
diminuita fino a Sib, sempre che il secondo Fa sia ancora diesis; quella preziosa ca-
denza IV6-V-I che passa dal minore al maggiore (anche a b. 15); similmente, a bb.
13-14 quel cromatismo dal Fa a Fa diesis che provoca un improvviso passaggio da
una sonorità in maggiore (Re) ad una in minore (Sol); la complessa cadenza in Re
maggiore a b. 12; ed infine la modulazione da La maggiore a Re minore che a sua
volta si tramuta in Si-Re-Fa (Re con la sesta alterata, cioè non bemolle – quasi una
quinta di un immaginario Mi, a sua volta quinta del La iniziale), per cadenzare sul Do
maggiore. Per non parlare poi del vocalizzo su «gioia» e di quello meno esteso su
«[brac-]cio» a bb. 22 e 26. Anche l’uso delle imitazioni su gradi diversi è abbastanza
contenuto: si vedano le bb. 16-18 («dite dite ch’io mora»), all’interno della stessa vo-
ce, e le bb. 11, 20-21 e 24-25 tra voce e Basso continuo.
Per quanto concerne la versione di Claudio Saracini vorrei segnalare per prima co-
sa che, come Dognazzi, non solo ha concatenato i primi due versi l’uno dopo l’altro
senza soluzione di continuità ma ha realizzato anche un certo parallelismo musicale
all’interno del distico specialmente sul piano ritmico. Inoltre, sempre similmente a
Dognazzi, ha ripetuto il secondo verso.
Peter Laki ha indicato con grande chiarezza attraverso quali tecniche e soluzioni
musicali Saracini – nonostante la sua «enigmatic musical personality» 58 – ha potuto
raggiungere livelli musicali così interessanti proprio in questo madrigale che «shows
the composer at his innovative best»:
In ”Se la doglia” chromaticism appears at several structural levels. On the local level it
is found in the form of the typical ascending semitone/descending minor third pattern
(“Voi che la morte,” “Dite, dite ch’io mora”). It also operates on a higher level, as seen
from the sequence of downbeats in the bass of mm. 1-3 (G- G sharp- A). Finally, chro-
maticism is audibly manifest as C and C sharp, G and G sharp, or F and F sharp are
heard in close succession, whether in the same part or as cross-relations (“a tutte l’hore,
/ ch’io son contento poi”; “mille volte morir, ma in braccio a voi”; “come di gioia e di
piacer”). All these uses of chromaticism are, however, controlled by a harmonic plan
that is very clearly defined, though it includes more frequent and more distant key
changes than is usually the case in monodies. Much of the harmonic activity takes place
around the circle of fifths: the second line, “non può farmi morire,” goes from G to D,
and is repeated in transposition from D to A. Also, in the next two lines (“Mostrami al-
men Amore, / come di gioia e di piacer si more”) the bass proceeds from F to C to G to
D, returning to G for the central cadence. The use of the circle of fifths gives the piece a
clear sense of tonal direction. The two chromatic gestures already mentioned on the one

58
LAKI, The Madrigals cit., p. 151.

39
AGOSTINO ZIINO

hand and the recurrent cadential patterns V6-I (“negli occhi havete”; “a tutte l’hore”;
“mille volte morir”) on the other reinforce that sense of direction with a considerable
degree of motivic unity. In this context breaks in that logic, as at the words “Mostrami
almen”, where a jump from A to F occurs and new melodic material appears, have an
effect of surprise. In a word, “Se la doglia” possesses a strong internal order against the
background of which musical conceits can be appreciated. Some of these conceits are
less melodic or harmonic than rhythmic or textural (sometimes involving voice/bass im-
59
itation), […].

Questi elementi, indubbiamente molto innovativi, riscontrati anche da Laki nella


musica di Saracini non devono essere presi, però, come unico punto di riferimento e
come unico parametro di valutazione. Lo stesso Laki afferma a questo proposito che

There are many kinds of deviations from the ordinary in Saracini’s monodies, and it is
impossibile to describe them all at the present time. […] Saracini’s melodies use inter-
vals hardly ever encountered in the period; his rhythmic language involves sincopations
very much at variance with common practice; and his metre abounds in strikingly
asymmetrical phrase structures. Some of these peculiarities do indeed betray the hand of
the amateur. It is certain that Saracini, who may have lacked a rigorous training as a
composer, did some of these things out of technical inadequacy rather than artistic radi-
calism. But it is possible to draw a rigid line between a conscious challenge to the
norms and a failure to live up to them as a consequence o compositional shortcomings?
Certainly, the norms of monody, a young and relatively short-lived genre, have to be de-
fined before departures from those norms can be recognized as such. After all, stylistic
freedom is one of the main characteristics associated with monody, a freedom made
possible by the disappearance of strictures of counterpoint and the primacy of textual
expression. Still, Saracini’s excesses call of for a special justification, and his amateur
status strengthens our suspicion that there may in fact be downright errors in his mu-
sic. 60

Constantijn Huygens – uomo di grande cultura in molti campi, nelle scienze, nella
letteratura, nelle lingue, nell’arte e nella musica – conosceva molto bene anche la mu-
sica italiana: nel 1620 durante un suo viaggio a Venezia ascoltò alcune musiche di
Monteverdi (e forse lo incontrò anche di persona); conobbe certamente anche qualche

59
Cfr. LAKI, The Madrigals cit., p. 151. Si legga anche a proposito del cromatismo: «chromaticism
is much more pervasive in Saracini’s songs than in those of the other monodists», tra i quali in par-
ticolare Sigismondo D’India e Pietro Benedetti, cfr. p. 150.
60
Cfr. LAKI, Claudio Saracini: Innovative or Imcompetent? cit., pp. 905-913: 905-906. Sulla
posizione storica di Saracini Laki così scrive: «In the existing, none-too-vast, literature Saracini is
placed in a group of radical monodists along with Sigismondo d’India, Domenico Belli, and Pietro
Benedetti, all of whom used daring chromaticism and unconventional harmonies and carried textual
expression to the estreme. But lumping Saracini together with other composers in a group of radi-
cals obscures the fact that his case is quite unique and besides, there is no evidence that he had any
links with any of the other “radicals”. Unlike d’India and Belli, Saracini was an amateur whose ef-
forts were virtually limited to the monadic genre. Unlike Benedetti, he employed musical gestures
can be qualified as radical to a much greater extent. With him, they are the rule rather than the ex-
ception, the majoritiy of his works containing something unusual. Many passages by far surpass in
boldness anything that appeared in print in the Italian secular songs of the time.», cfr. LAKI, Claudio
Saracini cit., p. 905.

40
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

madrigale di Carlo Gesualdo da Venosa e di Pomponio Nenna;61 nella sua biblioteca


figuravano anche opere di musicisti italiani tra i quali Gastoldi, Marenzio, Merula e
Artusi; 62 infine, Luigi Rossi, pur non conoscendolo direttamente, ha avuto modo di
lodarlo molto.63 Vorrei osservare, innanzitutto, che il madrigale di Giambattista Ma-
rino, Se la doglia e ‘l martire, inaugura la serie delle composizioni – chiamate «Airs»
– su testi profani, italiani (12) e francesi, 64 dopo quelle a carattere religioso e su testo
latino. Come ho già accennato in precedenza, c’è un elemento che accosta la sua ver-
sione a quella di Dognazzi, vale a dire il fatto che nel quarto verso ambedue sostitui-
scono la parola «gioia», com’è nella versione originale di Marino, con «doglia», per
la quale non avrebbe senso, almeno in Dognazzi, quel lungo vocalizzo sul quale è in-
tonata. Un altro aspetto in comune è rappresentato dallo stile quasi declamatorio con
il quale ambedue – ma in parte anche Brunetti – realizzano il quinto verso. Ma ci so-
no anche altre somiglianze sia con Dognazzi e Brunetti, sia anche con Saracini: in-
nanzitutto il fatto di interpretare il distico iniziale come se fosse un blocco unico no-
nostante la ripetizione del secondo verso (Dognazzi e Saracini); si veda inoltre il mo-
do, identico, di trattare ritmicamente le sequenze di tipo anapestico «dite, dite» oppu-
re «mille volte». Infine, non sarà forse un caso se Huygens intona il passaggio «e la
mia vi-[ta]» (b. 14) con un arco melodico ascendente che abbraccia una sesta (Fa-
Re): difatti anche Dognazzi, Saracini e Brunetti, prima di lui, avevano scelto questa
soluzione, Dognazzi con un arco di quinta e Saracini e Brunetti con uno di quarta. Ma
la cosa più interessante è costituita a mio parere da alcune convergenze che si osser-
vano solo tra Saracini e Huygens. Difatti Huygens, come Saracini, ripete sia la prima
che la seconda parte. Un altro elemento che lo avvicina a Saracini è il modo di tratta-
re i primi due versi, specialmente dal punto di vista ritmico (sono ambedue a base
anapestica).65 La versione di Huygens, inoltre, similmente a quella di Saracini, si di-
stingue per il suo esteso cromatismo: si vedano le bb. 2 su «marty-[re]» (molto effi-
cace ed espressivo), 4 su «farmi-[morire]», 8 su «doglia», 17-18 su «contento poi»,
19-20 su «volte morir». Come gli altri, anche Huygens mette in maggiore evidenza
l’immagine verbale «mostrami» (b. 6) passando alla ‘sonorità’ di Sol maggiore. An-
che il Basso continuo è trattato in modo molto interessante e intrigante; si veda, ad
61
Cito da ANGELO POMPILIO, I madrigali a quattro voci di Pomponio Nenna, Firenze, Olschki,
1983, p. 28.
62
Cfr. RANDALL H. TOLLEFSEN, sub voce in New Grove/1, vol. 8, pp. 831-832.
63
Cfr. FRITS NOSKE, sub voce in MGG, 1957 cit., Bd. 6, coll. 982-984: 983.
64
Dei dodici testi italiani i primi cinque sono tutti di Marino mentre gli altri sette sono adesposti.
Tra quelli di Marino, uno (Temer, donna, non dei) è stato messo in musica solo da Tommaso Cec-
chino nella raccolta Amorosi concetti Madrigali a voce sola facili da cantare et sonare nel Clavi-
cembalo Chitarone o Liuto […] Libro Primo, Venezia, Ricciardo Amadino, 1612(NV, 539) e da
Giovanni Ghizzolo ne Il Terzo Libro delli Madrigali, Scherzi et Arie. A una, et a due voci. Per suo-
nare, et cantare nel Chitarrone, Liuto, o Clavicembalo, Milano, Filippo Lomazzo, 1613 (a una vo-
ce) (NV, 1188). Non è da escludere che Huygens abbia potuto acquistare una copia della raccolta di
Cecchino dato che questo volume figura nel catalogo di Vincenti del 1621, cfr. MISCHIATI, Indici
cit., p. 152, n. 582.
65
Se ne può ascoltare in internet una versione molto interessante con la realizzazione della parte del
cembalo curata da Willem Verkaik all’indirizzo <http://www1.cpdl.org/wiki/index.php/Se_
la_doglia_e%27l_martire_(Constantijn_Huygens)> (ultima consultazione 23 aprile 2020).

41
AGOSTINO ZIINO

esempio, quel passaggio cromatico ascendente su «Voi che la morte mia negl’occhi
avete, e la mia vita siete» (bb. 12-15) così carico di tensione attraverso questa serie di
continue modulazioni e di giri armonici. Altri passaggi interessanti, sempre nel Basso
continuo, sono il Sib e il Mib con cui si apre la seconda parte. La struttura generale,
al contrario, è assolutamente lineare: nella prima sezione si parte dalla tonica (Sol
minore) per chiudere la prima sezione sulla dominante (Re maggiore) e terminare di
nuovo sulla tonica. Tra le varie soluzioni armoniche vorrei segnalare due passaggi di
4/6 a bb. 4 e 8 e, come ho già accennato prima, il passaggio V6-I a bb. 5-6, ma con
due raffinatezze: la prima consiste nel fatto che il segmento V6 (Fa diesis)-I (Sol
maggiore) non ha la funzione di chiudere un periodo musicale (in questo caso coinci-
dente con la fine del verso: «[mo]-rire»), insomma non è una cadenza, ma il I grado
sul quale inizia il verso successivo (si trova su «mo-[strami]») ed ha quindi un valore
propulsivo e non conclusivo; la seconda enfatizza la circostanza che dal Sol minore
con cui il pezzo si è aperto improvvisamente sulla parola «mostrami» si passa a Sol
maggiore. Un altro passaggio interessante dovuto certamente alla presenza della paro-
la «doglia» al posto di «gioia» è rappresentato a mio parere da quel salto improvviso
di sesta discendente, Re-Fa (b. 9, su «di piacer»), che, come anche in Brunetti, porta a
«si more» (bb. 9-10), con cui si conclude la prima parte. Huygens dalla sonorità di Re
maggiore passa a quella sul quarto grado (Sol) con un accordo di settima minore (e
con la terza minore) che a sua volta transita sul quinto (La) per concludere sulla toni-
ca Re (la classica formula I-IV-V-I). Nell’insieme, però, il cromatismo di Saracini, ri-
spetto a quello di Hyugens, pur ricorrendo un numero minore di volte è però, in com-
penso, forse più sofisticato.
Se la versione di Saracini, come si è visto, si caratterizza per un tessuto armonico
abbastanza ricercato quella di Brunetti, invece, sotto questo aspetto si presenta senza
dubbio molto più semplice, chiara e lineare: mancano ad esempio i cromatismi e i giri
armonici sono meno articolati. La struttura ‘armonica’ si basa tutta sul Re maggiore:
così inizia, così terminano la prima e la seconda sezione (bb. 27 e 50), mentre tutto il
componimento si chiude sulla dominante (La maggiore). Confermano la sonorità di
base (Re magg.) anche alcuni passaggi V6-I alle bb. 3-4, 29-30, 47, 55-56, 73 e 43-
44/69-70 (Do). Mi sembra abbastanza intrigante la seconda battuta che contemple-
rebbe, stando alla numerica, un Fa naturale che viene a creare una sorta di falsa rela-
zione con il Fa diesis della battuta precedente (sonorità di Re maggiore); il Re al Bas-
so continuo, difatti, non è altro che una sorta di 3/6 dell’accordo di Sib-Re-Fa cui fa
seguito una 4/6 dell’accordo di Sol-Sib-Re. La linea del Basso continuo dalla prima
alla quarta battuta, con la quale termina il primo verso, viene ad essere quindi: Re-
Sib-Sol-La-Re, una linea ‘armonica’ semplice e coerente. Mi sembra pure interessan-
te la b. 6 con il ritardo della sesta. Sono anche molto efficaci, sulle parole «mostrami,
mostrami almen», le due entrate in canone tra voce e basso a distanza di una semimi-
nima (bb. 7-9 e replicate rispettivamente una quinta e una terza sotto nel Canto e di
una terza sotto nel Basso alle bb. 15-17) e in progressione ascendente di un tono in
ambedue le parti (tranne il Canto che nella replica è di una sesta) che danno al discor-
so musicale un avvio improvviso, serrato e slanciato nel contempo – specialmente
nella quarta ripetizione (b. 16) con quel salto ascendente di sesta (La-Fa) –, fino a
congiungersi con i due lunghi vocalizzi su «A[more]». Un altro inciso melodico pie-

42
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

no di slancio (con un salto di quarta iniziale, Do-Fa), ampio e sostanzialmente unita-


rio (comunque separato da una pausa di semiminima), anche se su due versi, ricorre
nella seconda sezione alle bb. 37-40 e replicato un tono sopra alle bb. 43-46 sulle pa-
role «ch’io son contento poi mille volte morir, mille volte morir». Anche Dognazzi
inizia la frase con un salto di quarta (Mi-La, b. 20) ma, mentre Brunetti prosegue con
una linea melodica discendente molto incisiva sul piano ritmico, Dognazzi procede
invece con una successione di semiminime, certamente più banale e senza consisten-
za. Su «mille volte morir» Dognazzi e Saracini scelgono la stessa scansione ritmica
sul modello dell’anapesto: croma-croma-semiminima-croma-croma-semibreve, men-
tre Brunetti preferisce una soluzione più mossa: croma-croma-semiminima-croma
puntata-semicroma-minima. Sarà anche interessante osservare che in Brunetti il Bas-
so continuo non dialoga mai con il canto –tranne il breve canone iniziale e le bb. 50-
53 che servono di raccordo tra la fine della seconda parte e la sua ripetizione – mentre
in Dognazzi interviene tre volte (bb. 11, 21 e 25) e in Saracini due (bb. 6 e 21). In
Brunetti, quindi, il Basso continuo ha principalmente solo una funzione di sostegno
armonico al canto, ovvero, come scrive Agostino Agazzari, «serve per fondamen-
to». 66 La versione di Brunetti, inoltre, si distingue dalle altre tre versioni anche per
l’uso frequente di lunghi passaggi vocalizzati,67 ma la cosa più interessante è che nel-
le ripetizioni alcuni di questi subiscono modifiche, talvolta anche sostanziali, spe-
cialmente per quanto concerne l’estensione e l’articolazione interna. Il primo si os-
serva sulla prima sillaba della parola «Amore» alla fine del terzo verso (bb. 9-11 e
nella replica, ma diverso, a bb.17-19). Mi sembra anche molto interessante il caso del
melisma connesso alle parole con le quali termina il madrigale, «ma in braccio a
voi», che compare quattro volte, ma con musica sempre diversa: la prima volta su due
battute (41-42); la seconda, con la quale si conclude il pezzo prima della replica su
quattro (bb. 47-50), la terza – cioè la prima volta nella replica – su due battute (67-
68) e infine quella con la quale si chiude definitivamente il brano, su cinque battute
(73-77). Ma ci sono molti altri passaggi vocalizzati meno lunghi ed estesi collegati,
però, solo con parole significative e quindi da evidenziare musicalmente: a b. 26 su
«si more» (come farà anche Huygens); a bb. 31-32 e 58 su «vita»; e infine a b. 35 su
«mora a tutte», replicato molto più lungo e variato alle bb. 61-62. Ma ciò che sul pia-
no musicale distingue maggiormente la versione di Brunetti dalle altre è, a mio pare-
re, la perfezione della costruzione formale e dell’impianto strutturale nonché

66
Cfr. AGOSTINO AGAZZARI, Del sonare sopra ‘l Basso con tutti li stromenti e dell’uso loro nel
Conserto, Siena, Domenico Falcini, 1607, p. 6. In Brunetti il Basso continuo ha un ruolo più scoper-
to alle bb. 50-53 dove interviene da solo con la funzione di collegare la fine della seconda sezione
del madrigale con la ripetizione della stessa. Ma si vedano anche le bb. 8-9 nelle quali si muove in
canone con il canto. La numerica relativa al Basso continuo figura solo in Dognazzi, Brunetti e
Huygens (ma in un solo caso, a b. 17).
67
Ma anche Dognazzi colloca un lungo melisma abbastanza articolato sulla parola «doglia» (b. 10).
Si osservi comunque anche un breve abbellimento a b. 22 e ripetuto una quarta sopra a b. 26. Anche
Saracini, ma in altre composizioni, inserisce spesso lunghi vocalizzi sulla scorta di Caccini; si veda-
no ad esempio i madrigali Io moro; O quante volte e Amorose dolcezze; se ne vedano le trascrizioni
in LAKI, The Madrigals cit. pp. 405-406, 183 e 184; ma nel caso di Saracini Laki parla più giusta-
mente di «passaggi».

43
AGOSTINO ZIINO

l’assoluto equilibrio tra le varie parti nel loro simmetrico alternarsi. In conclusione,
mentre Dognazzi e Saracini, sia pure in modi diversi, sono interessati più che altro al
rapporto testo-musica visto anche nei suoi dettagli verbali, Brunetti sembra avere
come scopo principale quello di realizzare un ampio quadro architettonico e una chia-
ra struttura formale entro cui inserire il testo cantato, scandito per lo più sulla base
delle sue entità versali.
Finora ho preso in considerazione – ma potrebbero essere approfonditi ulterior-
mente – solo alcuni aspetti; altri, comunque, se ne potrebbero aggiungere; ritengo, pe-
rò, che essi siano sufficienti a tentare già qualche conclusione, anche se provvisoria, e
ad aprire nuove strade di ricerca. Ho l’impressione, difatti, che, almeno sulla base di
queste quattro versioni a voce sola e Basso continuo, si possa individuare già una li-
nea comune di lettura, una sorta di tradizione interpretativa diffusa nel tempo e nello
spazio. Molti sono, infatti, i passaggi verbali e le immagini poetiche che i quattro
compositori mettono in musica secondo modalità abbastanza simili tra loro, ad inizia-
re dalle strutture metriche, come ad esempio quelle di tipo dattilico («mostrami») op-
pure quelle basate sul ritmo dell’anapesto («se la doglia e ‘l martire / non mi fanno
morire», «dite dite o «mille volte morir»). Provo ad elencarli. Innanzitutto non dob-
biamo meravigliarci se il primo distico, di senso assolutamente compiuto, è stato trat-
tato, musicalmente, nella sua globalità, cioè senza separare i due versi tra loro, e dato
il suo contenuto ‘drammatico’ con note lunghe, un tempo più lento e dilatato, croma-
tismi e dissonanze varie; Dognazzi e Saracini replicano perfino il secondo verso che
termina con il verbo «morire». Il terzo verso si distingue per la sua accelerazione su
«mostrami almen» – realizzata attraverso un chiaro e improvviso andamento dattilico,
la sua ripetizione (Dognazzi), l’uso del canone (Brunetti), un effetto di sorpresa otte-
nuto attraverso un salto di sesta ascendente (Saracini) – e per l’enfatizzazione della
parola «Amore» che chiude il verso. Al quarto verso, con il quale termina la prima
parte, è riservato un trattamento vivace e scandito sulle parole «come di gioia e di
piacer», che Saracini, Brunetti e Huygens realizzano attraverso una serie di crome ri-
petute più volte e che Dognazzi evidenzia con un lungo vocalizzo seguito da un bre-
vissimo intervento di crome. Al contrario, il segmento «si more» in Brunetti e Huy-
gens è intonato su un breve melisma nel registro basso. La seconda parte inizia con
un verso che tutti e quattro i compositori realizzano musicalmente con uno stile quasi
recitato, parlato e declamato, con note brevi (crome) e spesso ripetute recto tono (fa
eccezione Saracini che si basa più sul cromatismo, mentre su «morte» adopera una
quinta diminuita; in Huygens invece solo il Basso continuo è trattato cromaticamen-
te); per sottolineare il «Voi» iniziale alcuni lo ripetono mentre altri lo intonano par-
tendo da una nota molto più alta. Similmente per il sesto verso, «e la mia vita sete»:
Dognazzi e Huygens lo risolvono con un segmento ascendente di sesta, Brunetti di
quinta, con un vocalizzo alla fine e Saracini di quarta, che però ripete tre volte su
gradi diversi. Infine, a partire dal terz’ultimo verso tutte e quattro le versioni sono
trattate in modo abbastanza simile con movimenti vivaci, ritmi incisivi, ripetizioni e
ampie vocalizzazioni. All’interno di questo, si possono osservare anche modi simili
di trattare alcuni segmenti testuali, specialmente sul piano ritmico. Ad esempio, su
«dite, dite» (Dognazzi, Saracini, Brunetti, Huygens) o su «mille volte mo[rir]» (Do-
gnazzi, Saracini, Huygens); fa eccezione Brunetti il quale nella seconda metà del

44
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

segmento ritmico invece di ripetere due crome più una semiminima (o una nota più
lunga) sceglie, come ho già detto, una versione ritmica forse più aderente al parlato,
alla pronunzia reale (croma puntata, semicroma, semiminima). Ma la cosa che più mi
ha colpito è l’uso frequente dell’intervallo di quarta giusta ascendente, specialmente
in coincidenza degli stessi segmenti testuali. Forse vale la pena di farne un quadro
sintetico.

Do-Fa: Brunetti, bb. 37, 63 («ch’io son»), 44-45 e 70-71 («mille vol-[te]»)
Re-Sol: Brunetti, bb. 5, 38-39, 45-46 («mille vol-[te]») e 64-65 («mille vol-[te]»);
Huygens, bb. 15-16 («dite, di[te]»)
Sol-Do: Brunetti, bb. 34 e 60 («dite, di-[te]»)
Fa-Sib: Dognazzi, b. 15 («la mia vita se-[te]»); Brunetti, bb. 31 e 57 («e la mia vi-[ta]»)
La-Re: Saracini, b. 12 («e la mia vi-[ta]»); Dognazzi, bb. 9-10 («come di gio-[ia]»);
b. 23 («ch’io son»); Huygens, b. 14 («e la mia vi-[ta]»)
Mi-La: Saracini, bb. 22-23 («a voi»); Dognazzi, b. 20 («ch’io son»); Brunetti,
bb. 8, 39-40 («mille vol-[te]»; Huygens, bb. 18-19 («[conten]-to poi mille vol-[te]»)
Si-Mi: Saracini, b. 17 («dite, di-[te]»)
Sol-Do: Brunetti, b. 60 («dite, di-[te]»)

Tutto questo vale, ovviamente, solo su un piano generale, ma se andiamo a consi-


derare situazioni ancora più specifiche e particolari o ancora più nel dettaglio trove-
remo certamente un numero ancora maggiore di corrispondenze. Come si può vedere
quindi, si tratta di una tradizione interpretativa che è durata molti anni, dal 1614 al-
meno fino al 1647, con Huygens.
La prima versione monodica, quella di Dognazzi, risale, come sappiamo, al 1614;
prima di questa ce ne sono ben sedici polifoniche precedenti, messe in musica da
compositori di un certo valore, se non addirittura di primo rango, come Frescobaldi,
Salomone Rossi, Pietro Maria Marsolo, Crescenzio Salzilli, Pomponio Nenna, Tom-
maso Pecci, Tiburzio Massaino e Alessandro Scialla. Ora, quanto questi compositori
potrebbero aver influenzato Francesco Dognazzi o gli altri dopo di lui? Posto in que-
sti termini il problema potrebbe sembrare certamente banale e semplicistico, ma non
lo diventa se estendiamo il discorso a tutto l’arco di tempo nel quale questo testo ha
avuto fortuna presso i musicisti. Insomma, esiste una tradizione interpretativa, un
modo comune di leggere musicalmente alcune immagini verbali presenti nel madri-
gale? Alcuni studiosi hanno sostenuto che i primi monodisti hanno preso alcune mo-
dalità musicali dalla tradizione polifonica di fine ‘500. Da ultimo anche Peter Laki,
che così afferma: «The monodists in most cases took their cues in textual interpreta-
tion from the polyphonic madrigal». 68 Da un primo approccio non sistematico che ho
potuto fare ho l’impressione che nel caso del madrigale di Marino ora preso in consi-
derazione il discorso possa valere, ma per ottenere conclusioni valide e scientifica-
mente accertate la ricerca dovrebbe essere estesa a tutte le fonti conosciute, anche se
molte incomplete. Forse ne varrebbe la pena, dato l’impatto straordinario che Marino
ha avuto nei confronti della musica e dei musicisti, anzi sarebbe interessante estende-
68
Cfr. LAKI, The Madrigals cit., p. 51.

45
AGOSTINO ZIINO

re questa ricerca sistematica a tutti i madrigali di Marino che sono stati messi in mu-
sica. Il discorso di Peter Laki, però, va ben oltre e ci fa capire che uno studio come
questo in realtà si dovrebbe estendere se non a tutta la tradizione polifonica preceden-
te (ma anche successiva) alla ‘nascita’ della monodia, almeno ai poeti più rappresen-
tativi del tardo ‘500 ai quali i compositori, nella maggior parte, si sono accostati.

46
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

APPENDICE

1603 – TOMMASO PECCI e MARIANO TANTUCCI, Canzonette a tre voci […]. Libro secondo, Vene-
zia, Giacomo Vincenti – NV, 2167 (solo le parti del Canto II e del Basso); visionato.
1603 – FRANCESCO ROCCIA, in DATTILO ROCCIA, Il Secondo Libro de Madrigali a cinque voci, Na-
poli, Costantino Vitale – NV, 2356 (solo la parte del Quinto); non visionato.
1603 – SALOMONE ROSSI, Il Terzo Libro de madrigali a cinque voci […], Venezia, Ricciardo Ama-
dino – NV, 2453 (completo); visionato.
1604 – ORAZIO SCALETTA, Affettuosi affetti. Madrigali a sei voci. […], Venezia, Ricciardo Amadi-
no – NV, 2576 (solo la parte del Basso); non visionato.
1604 – TIBURZIO MASSAINO, Madrigali a sei voci […]. Libro Primo. […], Venezia, Angelo Garda-
no – NV, 1751 (completo); non visionato.
1607 – CRESCENZIO SALZILLI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci […], Napoli, Gio. Giaco-
mo Carlino – NV, 2537 (solo le parti del Canto, del Tenore e del Basso); visionato.
1607 – PIETRO MARIA MARSOLO, Il Terzo Libro de Madrigali a cinque voci. […], Venezia, Giaco-
mo Vincenti – NV, 1729 (solo le parti dell’Alto, del Tenore, del Basso e del Quinto); non visionato.
1608 – GIROLAMO FRESCOBALDI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci […], Anversa, Pietro
Phalesio – NV, 1023 (solo le parti del Canto, del Tenore, del Basso e del Quinto); visionato. Edi-
zioni: Frescobaldi’s Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci, ed. Charles Jacob, University Park
and London, The Pennylvania State University Press, 1983; GIROLAMO FRESCOBALDI, Il Primo Li-
bro de Madrigali a cinque voci, a cura di Lorenzo Bianconi e Massimo Privitera, Milano, Edizioni
Suvini Zerboni, 1996 (“Monumenti Musicali Italiani” a cura della Società Italiana di Musicologia:
GIROLAMO FRESCOBALDI, Opere Complete, vol. V).
1608 – VINCENZO LIBERTI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci […], Venezia, Ricciardo
Amadino – NV, 1511 (completo); visionato.
1609 – J. HIERONYMUS KAPSPERGER, Libro Primo de Madrigali a cinque voci, col Basso continuo,
et suoi numeri. Roma, Pietro Manelfi – NV, 1360 (completo); non visionato.
1610 – ALESSANDRO SCIALLA, Primo Libro de’ Madrigali a cinque voci […], Napoli, Gio. Giaco-
mo Carlino e Costantino Vitale – NV, 2592 (completo); visionato. Edizioni: CLAUDIA ARISTOTELE,
Il Primo Libro dei Madrigali di Alessandro Scialla, Tesi di Laurea (dattiloscritta), Università degli
Studi della Calabria, anno accademico 2002-2003, Relatore: Prof. Annunziato Pugliese
1611 - BERNARDINO BORLASCA, Canzonette a tre voci di Bernardino Borlasca nobil di Gavio geno-
vese appropriate per cantar nel Chitarrone, Lira doppia, Cembalo, Arpone, Chitariglia alla spa-
gnuola, o altro simile strumento da concerto; com’hoggi di si costuma nella Corte di Roma. Libro
Secondo, Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 405 (completo); visionato.
1612 – VINCENZO DAL POZZO, Il Quarto Libro di Madrigali a cinque voci, Venezia, Ricciardo
Amadino – NV, 688 (solo la parte del Tenore); visionato.
1612 – ANTONIO TARONI, Secondo Libro di Madrigali a cinque voci, Venezia, Ricciardo Amadino
– NV, 2710 (solo le parti del Canto e del Quinto); non visionato.
1613 – FRANCESCO ROGNONI TAEGGIO, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci con il Basso per
sonar con il Clavicembolo, o Chitarrone, Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 2359 (completo); non
visionato.
1613 – POMPONIO NENNA, Il Primo Libro de Madrigali a quattro voci, Napoli, Gio. Battista Garga-
no – NV, 2016 (completo); visionato. Edizione: ANGELO POMPILIO, I Madrigali a quattro voci di
Pomponio Nenna, Firenze, Leo S. Olschki, 1983.
1614 – FRANCESCO DOGNAZZI, Il Primo Libro de varii Concenti a una et a due voci. Per cantar nel
Chitarone o altri simili istrumenti. […], Venezia, Bartolomeo Magni – NV, 843 ( a una voce); vi-
sionato. Edizioni: in internet è possibile ascoltarne l’incisione di Van der Meel con l’Ensemble “La
Sfera armoniosa”.
1614 – FRANCESCO GENVINO, Madrigali a cinque voci. Libro Quinto, Napoli, Gio: Giacomo Carli-
no – NV, 1122 (completo); visionato.
1615 – SIMONE MOLINARO, Madrigali a cinque voci con partitura, Loano, Francesco Castello –
NV, 1875 (perduto).
47
AGOSTINO ZIINO

1615 – NICOLÒ RUBINI, Madrigali a cinque voci. […] Con il Basso seguito per servire alla Thiorba,
Arpicordo, et simili stromenti a beneplacito. Ma necessariamente per li sei ultimi, Venezia, Garda-
no Appresso Bartholomeo Magni – NV, 2470 (solo le parti dell’Alto, del Tenore e del Basso); non
visionato.
1615 – VINCENZO UGOLINI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci, Venezia, Giacomo Vincenti
– NV, 2776 (completo); visionato.
1616 – SIGISMONDO D’INDIA, Il Quarto Libro de Madrigali a cinque voci, Venezia, Ricciardo
Amadino – NV, 828 (completo); non visionato.
1617 – PIETRO PACE, Madrigali a quattro et a cinque voci parte con sinfonia se piace, e parte senza
[…]. Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 2078 (completo); visionato.
1617 – AGOSTINO AGRESTA, Madrigali a sei voci di Agostino Agresta napolitano Libro Primo, Na-
poli, Costantino Vitale – NV, 32 (completo); visionato. Edizioni: in internet è possibile visionarne
la trascrizione e ascoltarne l’incisione a cura di Willem Verkaik.
1617 – ANDREA ANGLESIO, Il Primo Libro de Madrigali concertati a quattro, et a cinque voci. […].
Con il suo Basso continuo, per sonare col Chittarone Clavicembalo, overo Spinetta, et simili altri
strumenti. Venezia, Ricciardo Amadino – NV, 82 (solo la parte del Tenore); non visionato.
1619 – LELIO BASILE, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci. […], Venezia, Gardano «appresso
Bartolomeo Magni» – NV, 262 (solo la parte dell’Alto); non visionato.
1619 – FRANCESCO GONZAGA, Il Primo Libro delle Canzonette a tre voci. Con alcune Arie poste
nel fine del Basso continuo. […], Venezia, Bartolomeo Magni – NV, 1260 (solo le parti del Canto
II, del Basso e del Basso continuo); visionato.
1620 – CLAUDIO SARACINI, Le Seconde Musiche di Claudio Saracini detto il Palusi nobile senese
per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti […], Venezia, Alessandro Vincenti
– NV, 2555 (a una voce e Basso continuo: completo); visionato.
1621 – ALESSANDRO COSTANTINI, in Ghirlandetta amorosa, Arie, Madrigali, e Sonetti, di diversi
Eccellentissimi Autori a Uno, à Due, à Tre, & à Quattro, Poste in luce da Fabio Costantini romano
Maestro di Cappella dell’Illustrissima Città d’Orvieto. Opera settima. Libro primo, Orvieto, M. A.
Fei et R. Ruuli (a due tenori); non visionato.
1622 – GIACOMO TROPEA, Madrigali a quattro voci […]. Libro Primo, Napoli, Constantino Vitale –
NV, 2764 (completo): visionato. Edizione: PATRIZIA SCHIOPPA, Il Primo Libro dei Madrigali a
quattro voci di Giacomo Tropea, Tesi di Laurea (dattiloscritta), Università degli Studi della Cala-
bria, anno accademico 2005-2006, Relatore: Prof. Annunziato Pugliese.
1643 – GERONIMO BETTINO, Concerti Accademici […], Venezia, Bartolomeo Magni – NV, 355 (a
quattro voci; solo la parte del Quinto); non visionato.
1646 – MICHELANGELO GRANCINO, Il Primo Libro de’ Madrigali in concerto a 2.3.4 voci […], Mi-
lano, Carlo Camagno – NV, 1266 (a tre voci; solo le parti del Canto I, del Basso e del Basso conti-
nuo); non visionato.
1647 – CONSTANTIJN HUYGENS, Pathodia sacra et profata occupati, constanter, Parisiis, Robertus
Ballard – NV, 1327 (a 1 voce e Basso continuo); visionato. Edizioni: in internet è possibile visio-
narne la trascrizione (con la realizzazione del Basso continuo) e ascoltarne l’incisione a cura di Wil-
lem Verkaik.
1652 – CARLO CECCHELLI, in Florido Contento di Madrigali in Musica à trè voci con la Parte da
sonare di Eccellentissimi Auttori. Mandato in luce da D. Florido Canonico De Silvestris da Barba-
rano, Parte Prima, Roma, Vitale Mascardi (a tre voci); non visionato.

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“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

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“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Figura 1: GIOVANNI BRUNETTI, Se la doglia e ’l martire


(I-PESo, Archivio Albani, 1-09-001/2 olim P.XVII.191)

Si ringrazia la Biblioteca Oliveriana di Pesaro per la riproduzione


e la gentile concessione alla pubblicazione

61
AGOSTINO ZIINO

Figura 2a: FRANCESCO DOGNAZZI, Il Primo Libro de varii Concenti a Una, et Due voci,
Venezia, Gardano-Bartolomeo Magni, 1614. Frontespizio.

Si ringrazia la Biblioteca Reale del Belgio


per la gentile concessione alla pubblicazione

62
“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Figura 2b: FRANCESCO DOGNAZZI, Il Primo Libro de varii Concenti a Una, et Due voci,
Venezia, Gardano-Bartolomeo Magni, 1614. Dedica.

Si ringrazia la Biblioteca Reale del Belgio


per la gentile concessione alla pubblicazione

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AGOSTINO ZIINO

Figura 2c: FRANCESCO DOGNAZZI, Il Primo Libro de varii Concenti a Una, et Due voci,
Venezia, Gardano-Bartolomeo Magni, 1614, p. 5: Se la doglia e ’l martire, madrigale.

Si ringrazia la Biblioteca Reale del Belgio


per la gentile concessione alla pubblicazione

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“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Figura 3a: CLAUDIO SARACINI detto IL PALUSI, Le Seconde Musiche…


per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti,
Venezia, Alessandro Vincenti, 1620. Frontespizio.

Si ringrazia il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna


per la gentile concessione alla pubblicazione

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AGOSTINO ZIINO

Figura 3b: CLAUDIO SARACINI detto IL PALUSI, Le Seconde Musiche…


per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti,
Venezia, Alessandro Vincenti, 1620. Dedica.
Si ringrazia il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna
per la gentile concessione alla pubblicazione

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“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Figura 3c: CLAUDIO SARACINI detto IL PALUSI, Le Seconde Musiche…


per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti,
Venezia, Alessandro Vincenti, 1620, p. 3: Se la doglia e’l martire, madrigale.

Si ringrazia il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna


per la gentile concessione alla pubblicazione

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AGOSTINO ZIINO

Figura 4a: CONSTANTIN HUYGENS, Pathodia sacra et profana,


Paris, Robert Ballard, 1647. Frontespizio.
(fonte di pubblico dominio: https://archive.org/details/VM119RES/page/n6/mode/2up)

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“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Figura 4b: CONSTANTIN HUYGENS, Pathodia sacra et profana,


Paris, Robert Ballard, 1647. Dedica.
(fonte di pubblico dominio: https://archive.org/details/VM119RES/page/n6/mode/2up)

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AGOSTINO ZIINO

Figura 4c: CONSTANTIN HUYGENS, Pathodia sacra et profana,


Paris, Robert Ballard, 1647. Dedica.
(fonte di pubblico dominio: https://archive.org/details/VM119RES/page/n6/mode/2up)

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“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Figura 4d: CONSTANTIN HUYGENS, Pathodia sacra et profana,


Paris, Robert Ballard, 1647, pp. 24-25: Se la doglia e’l martire, madrigale.
(fonte di pubblico dominio: https://archive.org/details/VM119RES/page/n6/mode/2up)

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Silvia Urbani

IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO:


FONTI DICHIARATE, REMOTE E SOTTACIUTE

In cartellone al San Giovanni Grisostomo di Venezia nella stagione di carnevale del


1703, more veneto 1702, inaugurata da L’odio e l’amor, dramma a lieto fine
dell’«incomparabile» Noris, 1 compare, come seconda opera, il Venceslao di Apostolo
Zeno, rivestito di musica da Carlo Francesco Pollarolo, in questi anni una sorta di
compositore ufficiale del teatro della famiglia Grimani. Si apprende infatti dalle pre-
fazioni del libretto che il Venceslao è per il compositore bresciano la «ventesima sua
fatica in questo solo teatro». 2
Venceslao, l’eroe eponimo, è l’anziano e inflessibile sovrano di Polonia, straziato
dalla necessità di dover decidere la sorte del figlio maggiore macchiatosi di un fratri-
cidio: la ragion di stato ne esige la condanna a morte, la natura ne invoca il perdono.
Ad onta dell’efferato delitto, l’intreccio, ricorrendo ai classici artifici dell’equivoco,
dello scambio di persona, del travestimento, dell’oscurità e della istantanea elabora-
zione del lutto, avrà il suo bravo happy end completo di ben due matrimoni: uno ce-
lebrato ufficialmente, l’altro per il momento solo concordato.
A Vienna nel 1725, poco più di vent’anni dopo la prima veneziana, per la consueta
rappresentazione da allestire ai primi di novembre per l’onomastico dell’imperatore
Carlo VI, Zeno risfodera, con qualche ritocco, il Venceslao. L’intonazione per
l’allestimento nel teatro asburgico è affidata ad Antonio Caldara, vicemaestro di cap-
pella di corte.
Le fonti sfruttate dal drammaturgo veneziano per la stesura dell’opera si possono
classificare in tre tipologie:

a. fonti dichiarate;
b. fonte remota;
c. fonte sottaciuta.

a. Fonti dichiarate

Come d’abitudine, Zeno stuzzica la curiosità del lettore dichiarando distesamente


le proprie fonti negli ampi paratesti iniziali del libretto stampato per la prima vene-
ziana e in modo più stringato anche in quelli dell’edizione viennese del 1725:

1
LORENZO BIANCONI, Il Seicento, Letture 7: BARTHOLD FEIND, Gedanken von der Opera, Torino,
EdT, 1991, p. 334; NICOLA BADOLATO, voce Noris Matteo, in Dizionario biografico degli Italiani
<http://www.treccani.it/enciclopedia/matteo-noris_(Dizionario-Biografico)> (ultima consultazione
20 marzo 2020).
2
APOSTOLO ZENO, Venceslao, Venezia, Girolamo Albrizzi, 1703, A chi legge, p. 11 n.n.

73
SILVIA URBANI

Lo stesso argomento ch’io tratto verso la metà del secolo scorso fu trattato da monsieur
Rotrou, i cui dramatici componimenti gli acquistarono su’ teatri francesi non poca ripu-
tazione, prima che Pier Cornelio, il gran tragico della Francia, innalzasse questa spezie
3
di poema a quel più alto punto di perfezione e di gloria a cui potesse arrivare.

Il riferimento è dunque al Venceslas di Jean Rotrou (1609-1650), tragicomédie


rappresentata alla fine del 1647 e pubblicata a Parigi nel 1648.4 Nel catalogo mano-
scritto autografo dei libri posseduti da Zeno in sei volumi ordinati alfabeticamente,
conservato presso la biblioteca Marciana di Venezia,5 alla lettera R compare la voce
Rotrou monsieur seguita da una lista di cinque opere del drammaturgo francese: La
Doristée, Les deux pucelles, Cosroès, Venceslas e Bellisaire. 6 Non si può escludere
che una copia del Venceslas, ora mancante dalla biblioteca a differenza di altre, si
trovasse sul tavolo di lavoro del poeta. Gli autori italiani impegnati in questo periodo
nella riforma teatrale guardano con molta attenzione alle opere dei colleghi d’oltralpe
che dominano ormai incontrastati in tutta Europa. Le opere di Corneille e Racine, in
primis, diventano la fonte di ispirazione e il patrimonio letterario dove attingere i
nuovi soggetti drammatici. Si saccheggiano soprattutto le tragédies di argomento sto-
rico perché concepite, secondo i canoni tradizionali della drammaturgia classica fran-

3
ZENO, Venceslao cit., A chi legge, p. 8 n.n.; cfr. ZENO, Venceslao, Vienna, Gio. Pietro van Ghelen,
1725, Argomento, p. 4: «Se poi il soggetto dell’opera sia storia o favola, ognuno a suo piacimento
ne creda. So che il medesimo verso la metà del secolo andato fu esposto in una tragedia sopra le
scene francesi dal signor Rotrou, che al suo tempo fu in riputazione di insigne scrittore»; cfr. MAR-
CO BIZZARINI, Griselda e Atalia: exempla femminili di vizi e virtù nel teatro musicale di Apostolo
Zeno, dissertazione dottorale, Università degli Studi di Padova, 2008, Appendice B, Lettere inedite
di Apostolo Zeno (I-Fl ms. Ashburnham 1788, c. 53r), p. 182: «Al Sig. Antonfrancesco Marmi a Fi-
renze, Venezia 3 gennaio 1702 m.v. Sono stato più d’un mese alle delizie di Conegliano, dove ho
cominciato e finito il dramma che quest’anno dee recitarsi in S. Gio. Grisostomo, sarà intitolato il
Venceslao: soggetto tratto da una tragicomedia francese di M. Rotrou, ma da me in più motivi ac-
comodato alla scena italiana, con isperanza che non abbia interamente a spiacere», (Lettera origina-
le in I-Fn, Magliab. Cl. VIII, Cod. 983, c. 4r-4v).
4
JEAN ROTROU, Venceslas, Paris, Antoine de Sommaville, 1648.
5
Cfr. I-Vnm Cod. It., cl. XI 288-293 (7273-7278); per la storia della biblioteca Zeno, cfr. MARINO
ZORZI, La libreria di San Marco: libri, lettori, società nella Venezia dei dogi, Milano, Mondadori,
1987; MARINELLA LAINI, La raccolta zeniana di drammi per musica veneziani della Biblioteca Na-
zionale Marciana (1637-1700), Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1995; CHIARA CRISTIANI, Per
una prima schedatura della raccolta zeniana dei drammi per musica dal 1701 al 1750 (Venezia,
Biblioteca Nazionale Marciana), «Quaderni Veneti» I/2, 2012, pp. 79-120; GIOVANNI POLIN,
Nell’officina del librettista: autografi zeniani alla Biblioteca Marciana di Venezia, in Apologhi mo-
rali: i drammi per musica di Apostolo Zeno, Atti del Convegno internazionale di Studi (Reggio Ca-
labria, 4-5 ottobre 2013), a cura di Gaetano Pitarresi, Reggio Calabria, Edizioni del Conservatorio
di Musica “Francesco Cilea”, 2018, pp. 267-327, consultabile on line all’indirizzo
<https://www.conservatoriocilea.it/index.php/produzione-e-ricerca/1289-pubblicazioni-online> (ul-
tima consultazione 20 marzo 2020).
6
I-Vnm Cod. It., cl. XI 292 (=7277), voce Rotrou monsieur.

74
IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

cese, senza elementi irrazionali o indecorosi.7 Anche Zeno si lascia sedurre dal fasci-
no della sirena francese e sfrutta ampiamente gli autori transalpini, sicuro così di ren-
dere meno imperfetta la sua poesia.
Se poi sia vero che nelle cose mie io spesso mi sia valuto degli autori tragici francesi, lo
confesso che è verissimo, e nella prefazione di ciascuno di que’ componimenti, ove ho
8
preso ad imitare gli altrui, ne ho fatta un’aperta e sincera confessione.

Ed è dunque spesso consegnata alle prefazioni dei libretti, in particolare


nell’Argomento, l’ammissione del furto.9

Faramondo Venezia, Nicolini, «Del suggetto principale di questo drama, per


1699, Argomento, p. 9 tacere monsieur di Mezeray, de la Serre, Ver-
dier ed altri storici francesi, confesso d’esser
singolarmente tenuto a monsieur de la Calpre-
nède, che non solo me ne ha dato il motivo, ma
ancora mi ha somministrata una parte del vi-
luppo nella seconda parte del suo Faramondo o
sia della sua Storia di Francia».

Venceslao Venezia, Albrizzi, v. supra


1703

Ifigenia in Aulide Vienna, van Ghelen, «Nelle prime maniere l’argomento è stato ma-
1718, Argomento, p. neggiato dall’incomparabile Euripide e nella ter-
4 n.n. za dal famoso Racine. Confesso di aver tolto as-
sai dall’uno e dall’altro, ad oggetto di render me-
no imperfetto, che per me fosse possibile, il mio
componimento».

Andromaca Vienna, van Ghelen, «Chiunque ha letta l’Andromaca di Euripide e di


1724, Argomento, p. Racine e le Troadi di Euripide e di Seneca, cono-
3 n.n. scerà che io in questo dramma mi sono ingegnato
di imitarli in più luoghi e di approfittarmi di così

7
Cfr. PIERO WEISS, Teorie drammatiche e «infranciosamento»: motivi della riforma melodramma-
tica nel primo Settecento, in Antonio Vivaldi. Teatro musicale cultura e società, a cura di Lorenzo
Bianconi e Giovanni Morelli, Firenze, Olschki, 1982, pp. 273-296.
8
Lettere di Apostolo Zeno cittadino veneziano istorico e poeta cesareo nelle quali si contengono
molte notizie attenenti all’istoria letteraria de’ suoi tempi e si ragiona di libri, d’iscrizioni, di me-
daglie e d’ogni genere d’erudita antichità, seconda edizione, in cui lettere già stampate si emenda-
no e molte inedite se ne pubblicano, vol. V, Venezia, Francesco Sansoni, 1785, lettera 894, a Giu-
seppe Gravisi, Venezia, 27 settembre 1735, p. 153.
9
Per una disamina sulle fonti francesi non dichiarate delle opere di Zeno, cfr. WEISS, Teorie dram-
matiche e «infranciosamento» cit., pp. 293-295; ANNA LAURA BELLINA – BRUNO BRIZI, Il melo-
dramma, in Storia della cultura veneta, Il Settecento, 5/I, a cura di Girolamo Arnaldi e Manlio Pa-
store Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1985, pp. 392-400; BIZZARINI, Griselda e Atalia cit., pp. 109-
113.

75
SILVIA URBANI

eccellenti esemplari: ma con tutto questo cono-


scerà parimente che la tessitura di esso è molto
diversa da quella delle loro tragedie».

Mitridate Vienna, van Ghelen, «Il rimanente s’intende dalla tessitura del dram-
1728, Argomento, p. ma, ad alcune scene del quale ha molto contribui-
5 n.n. to una moderna tragedia francese del signor de
La Motte».

Ludovico Muratori, in una lettera del maggio 1699 nella quale ringrazia Zeno per
avergli spedito una copia del Faramondo, esprime la sua sincera ammirazione per il
lavoro del giovane poeta veneziano che aveva saputo ben armonizzare la sua poesia,
ispirata a un modello francese, con le vincolanti esigenze di un dramma per musica:
Il Faramondo è un dramma esquisito e benché sia difficile servire a’ musici, alla brevità
e a mill’altri intoppi che non hanno i Francesi, ell’ha saputo soddisfare alla poesia e al
teatro. Me ne rallegro sommamente con lei, con la sua età e col mondo. Ella coltivi que-
10
sto suo raro talento e spero che farà meglio ancora.

Oltre all’originale francese, Zeno dichiara di conoscere bene anche una traduzione
italiana in prosa: «elegantemente trasportata nella nostra favella da nobilissimo e dot-
tissimo cavaliere, la cui modestia avrà di certo compiacimento ch’io non ne pubblichi
il nome, al più alto segno di ammirazione e di osequio [sic] da me riverito». 11
Alla fine del Seicento era uscita per i torchi di Longhi a Bologna una traduzione
anonima del Venceslas di Rotrou con un bizzarro, ma non inusuale, refuso nel fronte-
spizio dove l’opera tragicomica veniva ascritta a Pierre Corneille (1606-1684).12 Si-
monetta Ingegno Guidi ha attribuito questa redazione a Giovan Gioseffo Orsi (1652-
1733), amico carissimo di Zeno, il cui interesse per il teatro francese era noto e del
quale circolavano all’epoca apprezzate traduzioni, sfruttate per allestire rappresenta-
zioni private come passatempo dei nobili durante la villeggiatura o le feste di carne-
vale. 13 Nel fondo Muratori-Orsi della biblioteca Estense di Modena è custodito un
manoscritto che contiene due stesure della tragicommedia disposte l’una a fianco

10
I-Fl ms. Ashburnham 1788, Appendice, lettera di Ludovico Muratori ad Apostolo Zeno, Milano
20 maggio 1699, c. 539r-v.
11
ZENO, Venceslao [1703] cit., p. 8 n.n.
12
Il | Vincislao | opera tragicomica | di | Pietro Cornelio | tradotta dal francese e | accomodata all’uso
| delle scene | d’Italia. | In Bologna; 1699 | Per il Longhi | Con licenza de’ Superiori; esemplare con-
sultato I-Mb Raccolta Drammatica Corniani Algarotti, Racc. Dramm. 2615; cfr. anche il volume
Opere varie trasportate dal franzese e recitate in Bologna, tomo IV, Bologna, Lelio dalla Volpe,
1725, pp. 133-247; per la fortuna delle traduzioni italiane del Venceslas di Rotrou, cfr. LUIGI FER-
RARI, Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII° e XVIII°, Paris, Édouard
Champion, 1925, pp. 259-261.
13
Per l’attribuzione della traduzione a Giovan Gioseffo Orsi e la sua attività di traduttore, cfr. SI-
MONETTA INGEGNO GUIDI, Per la storia del teatro francese in Italia: L. A. Muratori, G. G. Orsi e P.
J. Martello, «La Rassegna della letteratura italiana» 78, 1974, pp. 64-94.

76
IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

all’altra.14 Una corrisponde, sia pure con qualche lacuna, alla pubblicazione anonima
bolognese del 1699, l’altra, apparentemente una traduzione più letterale della fonte
francese, rivela alcune varianti molto interessanti, con l’inserimento di personaggi
ancillari nuovi ed elementi musicali.15 Potrebbe trattarsi o di una prima stesura prov-
visoria o forse di un copione per una recita privata.
Ma un altro manoscritto del Vincislao italiano, che coincide con quello stampato da
Longhi nel 1699, è conservato nel fondo Ranuzzi, acquisito nel 1968 dal Harry Ran-
som Humanities Research Center dell’università del Texas. Anche qui viene curio-
samente tradita la paternità del testo originale, che una nota nel manoscritto attribui-
sce a Quinault, mentre la traduzione è conferita esplicitamente a Orsi: «Il Vincislao
tragedia tradotta dal franzese di monsieur Chinò [Quinault], dal s.r march.e Giuseppe
Orsi». 16 Inoltre si dà notizia di una recita eseguita «nel 1693 in casa Volti da cittadi-
ni». 17

14
I-MOe Fondo Muratori Orsi, Filza 10, fascicolo 10, cc. 1-39; Filza 10, fascicolo 9, cc. 1-31; Filza
11, fascicolo 20, cc. 1-44.
15
Nel codice sono introdotti al posto di «Léonor suivante» e «Octave confident» di Rotrou, Zacca-
gnino e Ficchetto, due personaggi della commedia dell’arte, e sono riportate parecchie didascalie
sceniche; l’indicazione in apertura dell’atto primo della pièce, ad esempio, recita: «Trombe e tam-
buri, s’apre il camerone. Fichetto e Zaccagnino preparano da sedere ed accennano alla sfugita [sic] i
disgusti del re per le dissolutezze di Ladislao» (I.1).
16
HUUB VAN DER LINDEN, The performance of French theatre in Bologna around 1700, in D’une
scène à l’autre. L’opéra italien en Europe, vol. 2 La musique à l’épreuve du théâtre, a cura di Da-
mien Colas e Alessandro Di Profio, Wavre, Mardaga, 2009, p. 72.
17
US-AUS collezione Ranuzzi Ms. Ph. 12983, c. 1r. n.n.; Roberta Carpani nella monografia dedica-
ta ai libretti per musica di Carlo Maria Maggi segnala due probabili rappresentazioni della tragi-
commedia francese in versione italiana nel teatro dell’Isola Bella: la prima nell’agosto del 1695 ri-
scritta da Carlo Maria Maggi, come si evince da una lettera di Giovan Gioseffo Orsi a Muratori
«Ancorché per mille parti abbia intese descrivere le delizie della casa Borromea sul lago Maggiore,
non mi son però mai sì vivamente invogliato di vederle come ne avrei voglia nel tempo che V. S. vi
ritornerà e che vi si reciteranno gli intramezzi composti dal signor segretario Maggi. Scherzando
egli in lingua milanese muoverà maggiore ammirazione e diletto di quel che certamente sia riuscito
all’autor francese del Ladislao che nel medesimo tempo mi dic’ella doversi qui recitare» (LUDOVI-
CO ANTONIO MURATORI, Carteggio con Giovan Gioseffo Orsi, a cura di Alfredo Cottignoli, Firen-
ze, Leo S. Olschki, 1984, pp. 20-21, n. 14, Bologna, 17 agosto 1695); e la seconda, quattro anni più
tardi, nell’agosto del 1699 allestita nel teatro dell’Isola da Muratori, come si desume dalla lettera
inviata a Carlo Borromeo Arese nella quale «il dottore dell’Ambrosiana» esprime la sua preoccupa-
zione per gli imprevisti sopraggiunti durante l’allestimento: «Se vostra eccellenza desidera di vede-
re in scena il Ladislao, bisogna ch’ella beva questo sorbetto. Abbiamo bisogno di chi faccia la parte
di Cassandra. Il signor Cavalier Stampa o non vuole, o non può, o è l’uno e l’altro. Si è indarno pre-
gato, e non bisogna promettersi punto di lui. Ho dunque disposto il figlio minore del signor Protofi-
sico a prendersi tale impaccio, e quando vostra eccellenza ne dia la permissione, verrà a suo tempo
all’Isola. Tolta la voce che potrebb’essere più feminile, ha egli il rimanente acconcio per ben rap-
presentare il personaggio; spirito, statura e, con licenza de’ Platonici, ancora volto. Oltre a ciò spero
ch’egli potrà recitare all’improvviso, cosa che non vorrebbe in guisa veruna fare il signor Cavaliere.
Un poco di risposta sopra questo particolare mi sarebbe più cara che l’amicizia di cento madamigel-
le» (Epistolario di L. A. Muratori - 1699-1705, vol. II, n. 350, Milano metà agosto 1699, a cura di
Matteo Campori, Modena, Società Tipografica Modenese, 1901, pp. 400-401), citati in ROBERTA

77
SILVIA URBANI

Il numero cospicuo di traduzioni di opere francesi, edite ed inedite, è un’ulteriore te-


stimonianza dell’ampia diffusione del teatro transalpino in Italia nel corso del Settecento.
La fortuna di questo genere ebbe inizio verso la fine del Seicento quando cominciarono a
circolare versioni piuttosto libere e zoppicanti,18 di traduttori noti o anonimi, in cui il te-
sto veniva arbitrariamente manipolato con l’aggiunta o la soppressione di personaggi e
di episodi, con la riduzione degli atti da cinque a tre, realizzando una sorta di «travesti-
mento» del testo francese giustificato dalla necessità, dichiarata ufficialmente nel fronte-
spizio, di accomodarlo «all’uso delle scene d’Italia». I centri di maggiore diffusione fu-
rono Bologna, con le stampe pubblicate dal Monti e dal Longhi, Roma con quelle del
Chracas e Venezia, con le numerosissime raccolte uscite nel corso del Settecento dalle
officine tipografiche veneziane.19 Destinate soprattutto alla recitazione, vuoi agli spetta-
coli privati per il divertimento dei nobili in villeggiatura, vuoi a quelli con finalità dida-
scalico-moralistiche degli allievi aristocratici dei collegi romani, bolognesi e modenesi,
diventarono in seguito per molti letterati illustri «un banco di prova inevitabile per sag-
giare o propagandare le proprie capacità poetiche».20 Il successo di queste traduzioni eb-
be come conseguenza la nascita di importanti iniziative editoriali, con la pubblicazione
di un numero elevato di opere singole o di raccolte e collezioni di «opere varie trasporta-
te dal franzese».21
Mette conte da ultimo ricordare qui la raccolta, in due volumi, pubblicata anonima a
Venezia nel 1776 intitolata Teatro tragico francese ad uso de’ teatri d’Italia ovvero
Raccolta di versioni libere di alcune tragedie francesi,22 nella quale è ospitata anche una
traduzione del Venceslas di Rotrou. L’anonimo traduttore è il giovane barnaboto France-
sco Gritti che nella Prefazione alla sua traduzione dichiara:
Dalla lettura del Venceslao con regolar progressione commosso e dalla propria commozione
sedotto, consultando e l’original di Rotrou e la copia di monsieur Marmontel e adattandovi
qualche cambiamento tratto dall’indole del soggetto medesimo e corrispondente a quella del
teatro italiano [il corsivo è mio], ne condusse a fine una libera sì ma non pregiudicata versio-
ne, se basta per così definirla l’aver essa costantemente destato nell’animo di chi ne udì la let-
tura quell’amaro e non meno grato fremito interno, ma facile a manifestarsi, che riscosso ave-
va la lettura dell’originale in quello, certamente non prevenuto, del traduttore medesimo.23

CARPANI, Drammaturgia del comico. I libretti per musica di Carlo Maria Maggi nei «theatri di
Lombardia», Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 118-128: 123-124.
18
La questione è affrontata nel dettaglio in ANTONIO DE CARLI, Autour de quelques traductions et
imitations du théâtre français publiées à Bologne de 1690 à 1750, «L’Archiginnasio» XIV/4-6, lu-
glio-dicembre 1919, pp. 105-126 e «L’Archiginnasio» XV/1-3, gennaio-giugno 1920, pp. 24-45.
19
Cfr. NICOLA MANGINI, Considerazioni sulla diffusione del teatro tragico francese in Italia nel
Settecento, in Problemi di lingua e letteratura italiana del Settecento, Atti del quarto Congresso
dell’Associazione Internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (Magonza e Colonia, 28
aprile – 1 maggio 1962), Wiesbaden, Steiner, 1965, p. 141-156; NICOLA MANGINI, Drammaturgia e
spettacolo tra Settecento e Ottocento, Padova, Liviana, 1979, pp. 1-20.
20
MANGINI, Considerazioni sulla diffusione del teatro tragico francese cit., p. 144.
21
Per un catalogo delle traduzioni delle opere francesi, cfr. FERRARI, Le traduzioni italiane cit.
22
Teatro tragico francese ad uso de’ teatri d’Italia ovvero Raccolta di versioni libere di alcune tra-
gedie francesi, Venezia, Modesto Fenzo, 1776.
23
Ivi, p. 6.

78
IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

Il Venceslao di Gritti era andato in scena a Venezia nell’autunno 1773, riportando


un clamoroso fiasco, confessato dallo stesso traduttore nella Prefazione all’edizione
letteraria del 1776. Nonostante l’insuccesso però, la traduzione di Gritti continua a
circolare e quindici anni dopo la première, torna sulle scene nel teatro degli Accade-
mici Risoluti dove viene accolta con grande approvazione. 24
Oltre alle fonti letterarie, Zeno, per legittimare le proprie scelte poetiche, offre an-
che anche una serie di riferimenti bibliografici eruditi estremamente precisi alla storia
della Lituania e all’ordinamento della Polonia:

Di alcune cose che ho poste nel drama non istimo superfluo il render ragione, non tanto
per altrui soddisfazione che per propria discolpa. Mi è convenuto il far Lucinda regina

24
Cfr. «Gazzetta urbana veneta», num. 29, 9 aprile 1788, pp. 227-228: «Lunedì 7 corrente da questi
magnifici Signori Accademici Rinnovati si rappresentò a tenore del nostro annunzio [«Gazzetta ur-
bana veneta», 5 aprile 1788] la tragedia il Venceslao, che non è del celebre signor Conte Alfieri,
come per isbaglio s’è detto, ma del famoso monsieur Jean Rotrou di cui l’immortale Pier Cornelio,
per affetto ed istima, chiamavasi figlio. Questo autore, che fiorì nello scorso secolo, compose 35
drammi tutti sul gusto spagnuolo, il migliore de’ quali, uno degli ultimi, fu il Venceslao. Voltaire lo
chiama il fondatore del teatro, nel suo Secolo di Luigi XIV e sommamente loda la prima scena e
quasi tutto il quart’atto del Venceslao. Il signor Marmontel ripulì questa composizione per sollevar-
la alla tragica dignità, a cui non giungeva, particolarmente nell’espressioni. Il suo traduttore italiano
è l’eccellentissimo signor Francesco Gritti P. V. dalla cui dotta penna ebbimo delle graziose operet-
te originali e delle felici traduzioni dal francese. [...] Fu essa posta in iscena in questa città nell’anno
1773 ed ebbe una sola replica a teatro presso che vuoto, segno manifesto della pubblica disapprova-
zione. Ma da che dipendeva la sua caduta? O da una compagnia mal atta a rappresentarla o da
un’udienza mal disposta, confusa e raccolta dal caso a formare de’ giudizi appellabili al discerni-
mento de’ dotti. Fu ben diverso il suo destino l’altr’ieri, ma ci voleva per farlo tale niente meno che
la N. D. Venier nella parte d’Argenide, il nobile Querini in quella di Venceslao, e l’eccellentissimo
Pepoli in quella di Ladislao suo figliuolo. Ci voleva una Teodora dell’abilità della bravissima giovi-
ne che ne sostenne il carattere; e poi una scelta d’uditori, nobili in gran parte, colti ed intelligenti,
che conoscer potesse le sue bellezze e non rimanesse insensibile alle situazioni più appassionate, a’
colpi di scena più forti. Tale fu quella di lunedì, che prestò alla recita una perfetta attenzione e pene-
trata rimase vicendevolmente ora dal terrore, ora dalla compassione a misura che l’azione rinforza-
vasi e che i principali attori sentir facevano maestrevolmente gli affetti da cui erano dominati. Essi,
particolarmente nell’atto quarto, che si trovò in vero grande, sorprendente e degno di quell’elogio,
che gli fece Voltaire, diffonder seppero la commozione e rapir delle lagrime. In quello s’aprì un li-
bero campo al sommo valore d’Argenide; il re genitore diviso tra le virtù del trono e la tenerezza
paterna dipinse con gli atti e col più convenevole cangiamento de’ tuoni lo strazio delle sue viscere;
ed il figlio colpevole lacerato da crudi rimorsi e grondante del proprio sangue impietosì gli spettato-
ri in pria disposti contro di lui. Piacque il vederlo sottratto ad una ignominiosa morte, ma si trovò
inverosimile e troppo generoso l’atto di Venceslao che si priva della corona per porla sul di lui capo
condannato da lui ad esser reciso. Si lodò in Argenide la fermezza di carattere sostenuta sino alla
fine dell’azione, ma non si trovò necessario, né convenevole il farla uscire nell’ultima scena [...]»; il
giudizio di Voltaire è espresso alla voce «Rotrou» del catalogo degli scrittori illustri allegato a Le
siècle de Louis XIV: VOLTAIRE, Ecrivains, dont plusieurs ont illustré le siècle, in Le siècle de Louis
XIV, tomo II, Berlin, C. F. Henning, 1751, p. 410: «Rotrou (Jean) né en 1609. Le fondateur du
théâtre. La première scène et une partie du quatrième acte de Venceslas sont des chefs d’œuvre.
Corneille l’appelait son père. On sait combien le père fut surpassé par le fils. Venceslas ne fut com-
posé qu’après le Cid. Mort vers 1650».

79
SILVIA URBANI

di Lituania. Tutti i geografi sanno che questa provincia ha ’l titolo di granducato. Chi
leggerà tuttavolta i Frammenti storici di Micalone Lituano troverà ch’ella anticamente
fu regno e che Minduvago suo dominante vi ottenne il titolo regio. Jacopo Augusto
Tuano asserisce che come la Moscovia per la unione di molti stati fu detta granducato,
così la Lituania per la sovranità che i suoi principi, da ogni altro già indipendenti, ave-
vano su molte provincie ottenne lo stesso titolo. Ora se l’una del carattere di czar onora i
suoi sovrani, non è sconveniente l’apropriare [sic] la dignità di re a quelli della seconda.
So veramente che la Polonia è regno elettivo, non successivo; onde a taluno la corona-
zione di Casimiro parerà inverisimile in un regno dove il regnante non ha il potere di
nominare alla successione il figliuolo. Quest’ordine però non si mantenne come al pre-
sente nell’antico governo della Polonia. L’esser figliuolo del re difonto [sic] era un gran
titolo per salire sul trono. Vi voleva un gran demerito o nell’una parte o nell’altra per
esserne escluso. L’autorità regia si avvicinava alla monarchia; anzi racconta Gioacchino
Pastorio nel suo Floro Polonico che il re Piasto vivendo chiamò a parte dell’assoluto
25
comando il figliuol Zemovito che dipoi gli successe.

Zeno ha dunque sicuramente consultato:


1. i Fragmina de moribus Tartarorum, Lituanorum et Moschorum di Mykolas
Lietuvis, un umanista vissuto fra il 1490 e il 1560; in quest’opera sostiene
l’origine romana dei Lituani e riferisce che Minduvago, ovvero Mindaugas
primo re del paese, al momento dell’unione di diverse province, ricevette la co-
rona cum nomine regio e fu insignito sacri baptismatis charactere;26 non c’è
quindi nessuna appropriazione indebita del titolo di regina da parte di Lucinda;
2. gli Historiarum sui temporis libri di Jacques-Auguste de Thou (1553-1617),
ecclesiastico mancato, magistrato, storico francese, consigliere di Enrico III e
poi di Enrico IV, nei quali si afferma che la Lituania sull’esempio della Mo-
scovia si può chiamare con il titolo di granducato;27

3. il Florus polonicus, un compendio sulle vicende polacche di Joachim Pasto-


rius (1611-1681), medico e storico di Hirtenberg; nel capitolo XII del primo li-
bro, l’autore dichiara che Zemovito, dopo la morte del padre Piasto, il mitico
fondatore della dinastia dei Piast, venne nominato re,28 confermando che un
tempo l’ordinamento statale polacco prevedeva la successione dinastica.
25
ZENO, Venceslao, [1703] cit., pp. 8-9 n.n.
26
Cfr. MYKOLAS LIETUVIS, De moribus Tartarorum, Lituanorum et Moschorum, fragmina X multi-
plici historia referta, Basileae, apud Conradum Waldkirchium, MDCXV, pp. 24-25.
27
Cfr. JACQUES-AUGUSTE DE THOU, Historiarum sui temporis libri LXXX de CXXXXIII, editio
quarta, auctior et castigatior, Lutetiae, ex officina Roberti Stephani, MDCXVIII, pp. 367c, 368d e
Histoire universelle de Jacques-Auguste de Thou depuis 1543 jusqu’en 1607, traduite sur l’edition
latine de Londres. tomo sixième, 1570-1573, Londres, 1734, p. 672: «Les princes de Lithuanie ont
pris le titre de grands ducs: ce ne sont point les empereurs, qui leur en ont donné le droit; mais
comme les souverains de Moscovie ont formé un corps d’état de plusieurs duchés réünis et qu’ils se
sont donnés à eux-mêmes le titre de grands ducs, il y a grande apparence que les princes de Lithua-
nie en ont fait autant».
28
Cfr. JOACHIM PASTORIUS, Florus polonicus, Gedani et Francofurti, Simonis Beckensteinii, 1679,
pp. 17-21.

80
IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

Fin qui, l’acribia del poeta sembra non ammettere repliche, tanto più se si tiene
conto che dopo aver dichiarato ufficialmente il ‘prestito’ francese, Zeno afferma:
«Ciò che del mio vi abbia aggiunto e ciò che del suo ne abbia tratto ne sarà facile agli
studiosi il rincontro [sic], con sicurezza che all’esemplare daranno la lode, se
all’imitazione ricuseranno il compatimento». 29
b. Fonte remota
Come è noto però il tema della tragedia di Rotrou è tratto dalla comedia spagnola
No hay ser padre siendo rey di Francisco de Rojas Zorilla (1607-1648), stampata a
Madrid nel 1640.30
Sebbene Rotrou, a differenza di Zeno, nella princeps del Venceslas non dichiari uf-
ficialmente la sua fonte di ispirazione, essa verrà in seguito scoperta e resa pubblica,
per la prima volta, nella rubrica Spectacles del numero di febbraio 1722 del Mercure
de France. Un anonimo spettatore, dopo il successo riportato dagli attori del Théâtre
François col Venceslas alla fine di dicembre 1721, indirizza una lettera «aux auteurs
du Mercure, […] sur les tragédies de Venceslas et d’Héraclius» e, senza nascondere
il suo disgusto per i modelli spagnoli, confusi, disordinati, contrari tout court al gusto
classico, ne rivela la fonte:
J’ai lû, messieurs, avec plaisir les louanges que vous donnés dans le Mercure du mois
de décembre dernier à la tragédie de Venceslas; je suis fâché que ce ne soit pas l’auteur
françois qui les mérite, mais un poète espagnol, le fameux don Francisco de Roxas. Il
est le véritable auteur de Venceslas et Rotrou n’en est que le traducteur. L’ordonnance
confuse, la morale et la politique répandues sans assez de ménagement, la multitude
d’incidens, l’intrigue chargée d’épisodes, le sujet entierement fabuleux, la Pologne
choisie pour théâtre de la fable, auroient pû faire soupçonner d’où venoit cette tragédie.
La plupart des tragédies espagnoles sont faites sur ce modèle; mais ce n’est pas une
simple conjecture, le fait est constant par les dattes et l’on peut s’en éclaircir dans les
ouvrages de Roxas qui sont dans la Bibliothèque du Roy. […] J’oubliois que la tragédie
31
en espagnol a pour titre On ne peut être père et roi.

Ristabilito l’ordine e riconosciuta la paternità del soggetto drammatico a Rojas


Zorrilla, si possono a questo punto elencare, seppure brevemente, anche gli antece-
denti a disposizione del drammaturgo spagnolo.
Studi più e meno recenti hanno individuato almeno un paio di fonti, storiche e let-
terarie, che, con buona probabilità, Rojas Zorrilla ha vagliato per la sua comedia. Si
tratta in particolare della vicenda di Vladislav II narrata nell’Historia bohemica
(1552) di Johannes Dubravius (1486-1553), una cronaca latina che offre lo spunto per

29
ZENO, Venceslao, [1703] cit., p. 8 n.n.
30
La comedia di Zorrilla è stata stampata per la prima volta in Parte primera de las comedias de
Francisco de Rojas Zorrilla, Madrid, María de Quiñones, 1640, pp. 23-247, consultabile online:
<http://www.cervantesvirtual.com/nd/ark:/59851/bmcw09m1» (ultima consultazione 16 aprile
2020).
31
Mercure de France, «Spectacles», fevrier 1722, pp. 118-119; citata anche in FRANCESCO OR-
LANDO, Rotrou: dalla tragicommedia alla tragedia, Torino, Bottega d’Erasmo, 1963, p. 297.

81
SILVIA URBANI

alcuni motivi nodali, e di una pièce di Guillén de Castro (1569-1631), La piedad en la


justicia (1623-1625), con la quale è possibile stabilire alcuni parallelismi. Nonostante
dunque l’incontestabile filiazione, non si deve però dimenticare che il drammaturgo
francese rielabora e modifica il modello spagnolo al punto di indurre il sospetto che
anch’egli in realtà si sia servito, come suggeriscono alcune indagini, di più fonti per
la sua tragicomédie.32
Il mancato riferimento al modello iberico nei paratesti zeniani lascia supporre che
il poeta sia venuto a conoscenza del soggetto soltanto attraverso la tragedia francese e
la successiva versione in prosa italiana. Il suo interesse per il mondo spagnolo affio-
rerà in modo esplicito più tardi, quando, in una lettera indirizzata da Vienna al fratel-
lo Pier Caterino nell’ottobre 1725, poco prima della rappresentazione viennese del
Venceslao, scriverà:
Mi preme grandemente che alla bottega del Lovisa ovvero del Baseggio mi facciate la
scelta di due dozzine di opere sceniche in prosa, ma non già comiche e buffonesche, ma
bene gravi e reali, impresse in Bologna o in Napoli o in Roma. Avvertite che non sieno
tradotte dal francese. Se sono poi traslatate dallo spagnuolo, purché non sieno semplici
commedie, serviranno al bisogno. Della lor qualità vi potrete accorgere dal registro
degl’interlocutori, accompagnati dal carattere di re, di principe e simili. Non vi dia scru-
polo che vi sieno mescolati i ridicoli, bastandomi che i principali attori sieno nobili e
tragici. Debbo valermene in servigio di sua maestà e tanto vi basti a dirvi la mia premu-
33
ra.

Sebbene per il momento non si possa dare per certo che la richiesta di Apostolo sia
stata soddisfatta dal fratello, si può tuttavia affermare che tra i volumi della biblioteca
del drammaturgo, regolarmente registrate nel suo catalogo manoscritto, vi erano an-
che alcune commedie spagnole.34

32
Per una bibliografia essenziale sulle fonti di No hay ser padre siendo rey di Rojas Zorrilla e del
Venceslas di Rotrou, cfr. HENRY CARRINGTON LANCASTER, The ultimate source of Rotrou’s “Ven-
ceslas” and of Rojas Zorrilla’s “No hay ser padre seindo rey”, «Modern Philology» 15/7, 1917,
pp. 115-120; WOLFGANG LEINER, Rotrou: “Venceslas”. Edition critique, Saarbrücken, West-Ost-
Verlag, 1956, pp. XI-XII; RAYMOND R. MACCURDY, Francisco de Rojas Zorrilla and the tragedy,
Albuquerque, University of New Mexico Press, 1958; ORLANDO, Rotrou cit., pp. 295-353; SVEN
BIRKMEIER, Sources d’inspiration et leurs traces dans “Venceslas” (1647) de Jean Rotrou, in Inter-
texto y Polifonía. Estudios en homenaje a Ma Aurora Aragón, tomo I, Oviedo, Universidad de
Oviedo, 2008, pp. 165-171, consultato online <http: //digibuo.uniovi.es/dspace/bitstream/10651/
22903/1/Intertext> (ultima consultazione 20 marzo 2020).
33
Ringrazio Giovanni Polin per la segnalazione: Lettere di Apostolo Zeno cit., vol. IV, n. 661, a
Pier Caterino Zeno, Vienna 6 ottobre 1725, p. 60.
34
I-Vnm Cod. It., cl. XI 289 (=7274), alla voce Comedias sono registrati i seguenti titoli: Comedias
españolas, el mejor de los mejores libro que ha salido de Comedias nuevas, Alcalà, Maria Fernan-
dez, 1651, Flor de las mejores doce comedias de los mayores ingegnos de España, Madrid, Diego
Diaz de la Carrera, 1652, Primera parte de comedias escogidas de los mejores de España, Madrid,
García y Morrás, 1652, Segunda parte de comedias escogidas de los mejores de España, Madrid,
Imprenta Real, 1652, Parte veinte y cinco de comedias ricopiladas de diferentes autores e illustres
poetas de España, Zaragoza, Hospital Real y General de nuestra Señora de Gracia, 1632.

82
IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

c. Fonte sottaciuta

Sempre nelle prefazioni iniziali, Zeno rivendica l’originalità dell’intreccio che nar-
ra gli «amori di Casimiro con Lucinda, granduchessa di Lituania», assenti in Rotrou,
dichiarando che «sono di mera invenzione». 35 Ma l’episodio cui allude, assente non
solo nella pièce francese ma anche in quella spagnola, ha in realtà un antecedente.
Nel 1663 era stata stampata a Napoli un’«operetta» comica, Non è padre essendo
36
re di Carlo Celano (1617-1693), un adattamento della commedia di Rojas Zorrilla,
rappresentata soltanto tre volte da «alcuni gentiluomini». 37 Nel rifacimento parteno-
peo, come osserva Katerina Vaiopoulos, Celano «ristruttura […] il testo sfruttando
elementi consueti delle fonti a cui solitamente attinge, quali la doppia coppia e la
donna travestita da uomo, e aggiunge una seconda trama, intrecciata alla vicenda ri-
presa da Rojas Zorrilla». 38
Il confronto tra le dramatis personae del rifacimento napoletano e quelle della piè-
ce di Zeno rivela una singolare corrispondenza (tabella1). La trama, è vero, non pro-
cede in parallelo, ma alcuni indizi inducono a congetturare che Zeno, pur passandolo
sotto silenzio, conoscesse il rifacimento partenopeo della commedia spagnola.
Del testo di Celano circolano sei edizioni a stampa: Napoli, [Novello] De Bonis,
1663; Roma, [Paolo] Moneta, 1669 e 1690; Bologna, Gioseffo Longhi, 1670; Napoli,
[Francesco] Massari 1691 e [Michele Luigi] Muzio 1715.39
L’operetta comica ha dunque una buona diffusione. Merita un breve cenno il testo
della cantata Reggetemi, non posso più, intonato da Alessandro Stradella nel 1668, un
duetto fra Costanza e Capriccio, attribuito a Flavio Orsini,40 nel quale si allude
all’«umore incostante» del principe Alfonso, al tradimento subito da Gismena «infan-
ta dell’ungarico regno» e alla pietà di Glostavo, tutti personaggi del rifacimento napo-
letano della commedia spagnola; e nel finale i due personaggi allegorici, duettando,

35
ZENO, Venceslao, [1703] cit., Argomento, p. 7 n.n.
36
CARLO CELANO, Non è padre essendo re, Napoli, De Bonis, 1663.
37
CARLO CELANO, Non è padre essendo re, Roma, Moneta, 1669, p. 5.
38
KATERINA VAIOPOULOS, “No hay ser padre siendo rey” di Rojas Zorrilla nell’adattamento di
Carlo Celano, in Il viaggio della traduzione, a cura di Maria Grazia Profeti, Firenze, Firenze Uni-
versity Press, 2007, p. 129.
39
Per un esame approfondito della commedia di Celano, cfr. KATERINA VAIOPOULOS, Temi cervan-
tini a Napoli. Carlo Celano e “La Zingaretta”, Firenze, Alinea, 2003, [le pp. 106-111 contengono
le schede]; VAIOPOULOS, “No hay ser padre siendo rey” di Rojas Zorrilla cit., pp. 127-143.
40
Flavio Orsini: duca di Bracciano, collezionista e studioso di pietre preziose (1620-1698), grande
appassionato di musica, è stato egli stesso un poeta e un autore drammatico, noto con lo pseudoni-
mo di Filosinavro; aggregato all’Arcadia con il nome Clearco Simbolio, organizzò magnifici spetta-
coli nel suo palazzo in piazza di Pasquino a Roma; cfr. SAVERIO FRANCHI, Drammaturgia romana
repertorio bibliografico cronologico dei testi drammatici pubblicati a Roma e nel Lazio, secolo
XVII, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1988, p. 884; SAVERIO FRANCHI, Drammaturgia ro-
mana II (1701-1750), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997, p. XXVI; ANNE-MADELEINE
GOULET, voce Orsini Flavio, in Dizionario Biografico degli Italiani
http://www.treccani.it/enciclopedia/flavio-orsini_res-610fcc7d-3730-11e3-97d5-
00271042e8d9_(Dizionario-Biografico) (ultima consultazione 20 marzo 2020).

83
SILVIA URBANI

cantano e ribadiscono: «Non è padre essendo re. | Sarà padre essendo re, | pietoso,
pietoso | Glostavo sarà, | credilo credilo a me». 41
Come è noto, per redigere i loro libretti i poeti teatrali attingono a varie fonti e
spesso si servono di topoi ricorrenti: il tradimento, il travestimento, l’equivoco, che
genera una sequenza di errori a volte letali, e ancora un biglietto o una lettera rivela-
trice. 42 Sebbene non sia finora emersa una prova inconfutabile che Zeno abbia cono-
sciuto la commedia di Celano o un suo remake, ciò che appare assai sospetto è
l’introduzione dello stesso intreccio secondario in due rifacimenti derivanti dal mede-
simo soggetto tragico.
Confesso che mi sarebbe piaciuto scoprire tra le migliaia di volumi della biblioteca
zeniana una copia della commedia di Celano o almeno trovare nel catalogo mano-
scritto sopra citato la voce “Celano Carlo”, seguita da un elenco di commedie, tra
“Cei Francesco, cittadin fiorentino” e “Celebrino Eustachio da Udine, dottore di me-
dicina”, oppure la voce “Calcolone (o Calcolona) Ettore”, pseudonimo del Celano, tra
“Calcagnini Carlo, nobile ferrarese” e “Calzaveglia Vincenzio, bresciano”: ma per
ora la ricerca non ha dato esito.
A questo punto l’elenco delle fonti sfruttate dal poeta veneziano va ridefinito e,
sebbene con cautela, si può affermare che all’origine del Venceslao non ci fu una tra-
gicommedia francese bensì un adattamento francese di una comedia spagnola. Non
solo. Di questa stessa comedia viene messa a frutto anche una riscrittura italiana, per
l’esattezza napoletana. Emerge dunque un legame, sottaciuto dal poeta, col mondo
della comedia spagnola, mediato – secondo le due tipologie di derivazione testuale
43
individuate da Maria Grazia Profeti – da adattamenti sia francesi sia italiani. Igno-
rare, tacere o censurare un antecedente iberico o napoletano e di conseguenza esibire
come fonte ufficiale esclusivamente la pièce del drammaturgo francese, appare un
sottile gioco di destrezza, opportuno – agli occhi di un classicista e di un pastore ar-
cade – per mettere in pace, di fronte agli spettatori e ai lettori, la coscienza di Zeno.

41
Prologhi et intermedii diversi per opere et altro. Musica di Alessandro Stradella, manoscritto, I-
MOe, Mus. F.1130, cc. 65r-80r: 77v-78v; non è documentata una rappresentazione della commedia
con questo prologo, ma non si può escludere che sia stato allestito uno spettacolo in forma privata
nel palazzo di Flavio Orsini a Roma, cfr. ROBERTO STACCIOLI, Roma 1670, Il concerto d’Arianna,
Dynamic, 2006, booklet.
42
Per una disamina su topoi, convenzioni ed espedienti nel teatro veneziano, cfr. PAOLO FABBRI, Il
secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera in Italia nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2003: pp.
184-201.
43
Cfr. MARIA GRAZIA PROFETI, Commedie, riscritture, libretti: la Spagna e l’Europa, Firenze, Ali-
nea, 2009.

84
IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

APPENDICE

sinossi dei personaggi

No hay ser padre Venceslas Non è padre essendo Venceslao


siendo rey Jean Rotrou re Apostolo Zeno
Francisco de Rojas Ia ed. 1648 Carlo Celano Ia rappr. 1703
Zorrilla atti 5 1663 atti 5
a
I ed. 1640 atti 5
jornadas 3

REY DE POLONIA VENCESLAS roi de GLOSTAVO re padre VENCESLAO re di Po-


Pologne [di] lonia
RUGERO príncipe LADISLAS son fils, ALFONSO principe di CASIMIRO suo fi-
prince Polonia gliuolo
ALEJANDRO infante ALEXANDRE infant FERNANDO suo fratel- ALESSANDRO altro
lo innamorato di Flo- suo figliuolo
rinda
COSCORRÓN - - -
DUQUE FEDERICO FÉDÉRIC duc de Cur- ERNANDO generale e
lande et favori favorito di Vence-
slao

CASANDRA duquesa CASSANDRE duches- FLORINDA figlia del ERENICE principessa


se de Cunisberg constestabile innamo- polacca, discendente
rata di Fernando dagli antichi re di
Polonia

CLAVELA criada - - -
ROBERTO OCTAVE gouverneur ARIMBERTO ungaro GISMONDO capitano
de Varsovie capitano delle guardie delle guardie, confi-
del re e confidente dente di Casimiro
d’Alfonso
- THÉODORE infante - -
- LÉONORE suivante - -
- - GISMENA principessa LUCINDA regina di
d’Ungaria innamorata Lituania [in abito
d’Alfonso sotto nome d’uomo]
di Dolindo ed in abito
maschile
- - CONTESTABILE cugi- -
no del re e padre di
Florinda
- - FLORETTO paggio di -
corte

- - GIUBONE di corta vi- -


sta servo d’Alfonso
- - TIRITAPPA napoletano -
grazioso, servo di
Fernando

85
SILVIA URBANI

- - GISMERO tenente del- -


le guardie del re
Dos criados y acom- - - -
pañamiento
- Gardes - -
- - Quattro moscoviti, -
soldati di Gismero
parti mute

86
Saverio Franchi†

PATRONI, POLITICA, IMPRESARI:


LE VICENDE STORICO-ARTISTICHE DEI TEATRI ROMANI
E QUELLE DELLA GIOVINEZZA DI METASTASIO
FINO ALLA PARTENZA PER VIENNA

Oggi è appunto il primo giorno delle maschere e io sono qui a gelarmi. Pure mi
trattengo piacevolmente, figurandomi voi impiegata e divertita. In questo momento, che
secondo l’orologio di Roma saranno le 21 ore, comincerà la frequenza de’ sonagli pel
Corso. Ecco il signor canonico de Magistris, che apre l’antiporta. Ecco il signor abate
Spinola. Ecco Stanesio. Ecco Cavanna. Ecco tutti i musici di Aliberti. Chi sarà mai
quella maschera che guarda tanto le nostre fenestre? Fa un gran tirar di confetti, e non
può star ferma. – È certo l’abatino Bizzaccari. – E quel bauttone così lungo che esamina
tutte le carrozze, fosse mai il bellissimo Piscitelli? – Certo; senza dubbio. – Ecco il
conte Mazziotti, che va parlando latino. – Ecco i cortegiani affettati vestiti di carta. –
Ma che baronata è mai questa! Quasi tutte le carrozze voltano a San Carlo. – Che cosa
è? – Il segno. – Presto. – Viene il bargello. – Venga, signor agente di Genova. – Non
importa. – Ma se v’è luogo per tutti? – Vede ella? – Vedo benissimo. – Ma mi pare che
stia incomodo. – Mi perdoni, sto da re. – Eccoli, eccoli. – Quanti sono? – Sette. – Chi va
innanzi? – Il sauro di Gabrielli, ma Colonna lo passa. – Uh, Gesù Maria! – Che è stato?
– Una creatura sotto un barbero. – Sarà morta certo. – Povera madre! – Lo portano via?
– No, no. Era un cane. – Manco male

Con questo brano di una famosa lettera, scritta il 27 gennaio 1731 a Marianna Benti
Bulgarelli, Metastasio rievocava da Vienna il carnevale sul Corso di Roma. 1 Tra i
protagonisti della scena da lui immaginata con singolare realistica efficacia sono
Cavanna e i musici d’Aliberti, ossia l’impresario e i cantanti del maggior teatro della
città, teatro al quale Metastasio stesso fu legato per avervi colto i maggiori successi
nel quinquennio 1726-1730 e già prima negli anni giovanili come variopinto sfondo
nel corso della sua formazione al gusto del dramma per musica, intrecciandosi altresì
con l’attività di quel teatro un nugolo di relazioni umane, di progetti e di ambizioni
personali, di difficili equilibri tra diversi indirizzi artistici e tra diversi colori politici,
e finalmente, last but not least, di vicende amorose decisive per il suo destino.
Negli anni in cui Metastasio lavorò per l’Alibert quel teatro aveva pochi anni di
vita, eppure già notevoli e complesse erano le sue vicende. Ma per inquadrarle nella
giusta prospettiva occorre risalire più indietro, al principio del secolo. Durante
l’infanzia del poeta una serie di avvenimenti negativi, tra cui il terremoto del 1703 e
soprattutto gli anni più duri del gran conflitto europeo noto come guerra di
successione spagnola, aveva imposto a Roma la proibizione d’ogni spettacolo teatrale
e d’ogni divertimento carnevalesco. Finalmente dal 1710 l’attività teatrale riprese,
crescendo sempre negli anni successivi. V’era allora in Roma, oltre a numerosi teatri
1
Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di Bruno Brunelli, vol. III, Milano, Mondadori, 1951,
pp. 52-53, lettera n. 31.

87
SAVERIO FRANCHI

pubblici minori, sale private e teatrini di collegi, un solo grande teatro pubblico per i
melodrammi, il Capranica, costruito nel secolo precedente dall’omonima famiglia
entro l’avito palazzo a S. Maria in Aquiro. L’attività del Capranica, come in seguito
quella degli altri teatri romani, fu a più riprese condizionata dalle ricorrenti «questioni
dei palchetti». I maggiori teatri pubblici dell’epoca erano divenuti, in presenza del
pubblico di maggior qualità, specchio del potere politico, e ciò tanto più a Roma
dove, per il valore ideale di centro del mondo cristiano e più ancora per il ruolo di
effettiva cassa di risonanza diplomatica dei maggiori eventi storici, gli ambasciatori
delle potenze europee e i loro simpatizzanti nel grande patriziato della città
attribuivano la massima importanza al possesso dei migliori palchi teatrali, da
contrassegnare con gli stemmi dei loro sovrani. Nella divisione avvenuta negli anni di
guerra tra i due partiti contrapposti, allora detti ‘gallispano’ quello filoborbonico e “di
genio cesareo” quello filoasburgico, divisione che si protrasse al di là dei trattati di
pace, pesava a Roma la malcelata predilezione di papa Clemente XI e della maggior
parte della curia a favore delle potenze borboniche, il regno ‘cristianissimo’ di
Francia e quello ‘cattolico’ di Spagna, ora uniti dagli strettissimi vincoli di famiglia
intercorrenti tra i due sovrani; pure non mancava a Roma una agguerrita minoranza
filoasburgica, che faceva capo non solo all’ambasciatore austriaco (e al suo alleato
ambasciatore di Portogallo) ma anche ad alcune primarie famiglie patrizie, come gli
Odescalchi e i Caetani, nonché ad alcuni cardinali. Avendo poi la conclusione della
guerra europea segnato una sostanziale vittoria per l’imperatore, i suoi sostenitori
romani fecero sentire più forte la loro voce. Ma le stesse vicende politiche avevano
portato a un duro contrasto tra il papa e l’imperatore, tanto che la maggioranza a
Roma non era tanto ‘filoborbonica’ quanto ‘filopapale’.
In questa situazione l’allestimento delle stagioni teatrali era ben difficile. Nel 1710
il Capranica non riuscì a lavorare, nei tre anni successivi le stagioni si poterono
realizzare solo sotto il patrocinio ‘neutrale’ dell’ex regina di Polonia Maria Casimira,
che per tutta la guerra era riuscita a mantenere buone relazioni con entrambe le parti.
Il musicista che in quegli anni diresse le rappresentazioni fu Giuseppe Orlandini,
virtuoso del figlio del granduca di Toscana, altro sovrano che aveva osservato una
stretta neutralità. 2 Anche le vicende del mondo letterario risentirono di queste
tensioni. L’accademia d’Arcadia aveva conosciuto proprio nel primo decennio del
secolo una straordinaria crescita, godendo dell’incondizionato appoggio di papa
Albani e della fervida attività del suo «custode generale» Giovan Mario Crescimbeni.

2
Per l’attività del teatro Capranica in quegli anni, e in generale per tutti i dati, le fonti e i riferimenti
all’attività teatrale e musicale romana relativa al periodo storico preso in esame da questo saggio,
rimando al mio volume SAVERIO FRANCHI, Drammaturgia romana II (1701-1750). Annali dei testi
drammatici e libretti per musica pubblicati a Roma e nel Lazio dal 1701 al 1750, con introduzione
sui teatri romani nel Settecento e commento storico-critico sull’attività teatrale e musicale romana
dal 1701 al 1730, ricerca storica, bibliografica e archivistica condotta in collaborazione con Orietta
Sartori, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997. Per gran parte il presente contributo scaturisce
dal lavoro e dai risultati di quel volume, cui rinvio una volta per tutte rinunziando a troppo frequenti
citazioni.

88
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

Il profondo radicamento di quest’ultimo in una formazione storico–ecclesiastica di


lontani seppur modernizzati spiriti controriformistici impresse al suo amore per le
belle lettere e all’istituzione da lui diretta un tono di ossequio al potere papale e alla
curia pontificia che i suoi nemici tacciavano di ‘cortigianesco’. Nemici ben presenti
anche in seno alla stessa Arcadia, dove l’indirizzo perseguito da Crescimbeni della
massima presenza nella società mediante la massiccia aggregazione di potenti e di
patrizi amanti della cultura non aveva potuto far distinzioni di campo in un
ecumenico progetto di «repubblica letteraria universale». A guerra non ancora
conclusa queste contraddizioni interne scoppiarono in seno all’accademia, portando
al famoso scisma del 1711. Nell’Arcadia della tradizione, rimasta unita in gran
maggioranza intorno a Crescimbeni, prevaleva l’orientamento ‘filopontificio’, e ciò
sia per convinzione personale sia per omaggio a una istituzione che tanto doveva a
papa Albani; invece nell’«Arcadia nova» degli scismatici non si può non vedere il
colore anticuriale d’una cultura amante delle «civili libertà», colore suggerito non
solo dal loro capo ideale, Gian Vincenzo Gravina, rappresentante dei moderni
indirizzi giuridici e politici sviluppatisi nel Regno di Napoli, ma anche in modo
inequivocabile dal mecenate chiamato a presiedere il neonato consesso, il principe
Livio Odescalchi, quanto dire il più fedele seguace che Casa d’Austria avesse in
Roma. 3
Morto Odescalchi il 9 settembre 1713 gli scismatici ebbero a nuovo «dittatore
perpetuo» il cardinal Lorenzo Corsini (il futuro Clemente XII), un toscano esperto del
mondo e amante delle arti (suonava il violino), politicamente ben più moderato di
Odescalchi. D’altronde la situazione politica volgeva alla pace in tutta Europa con i
trattati di Utrecht, già firmati, e quelli di Rastatt di pochi mesi dopo. Corsini ottenne
dagli scismatici la rinunzia al nome arcadico e così nacque l’Accademia dei Quirini.
Anche dall’altra parte gli Arcadi ricevevano incitamenti a una pacificazione da parte
dei loro più munifici patroni, il cardinal Ottoboni e il principe Ruspoli. Si addivenne
così a una singolare esperienza: un confronto tra le due accademie su un terreno
artistico, cioè nel maggiore teatro della città per la stagione del carnevale 1714.

3
Per le vicende dell’Arcadia nel periodo che qui interessa, in particolare per i riflessi delle vicende
storiche e politiche, rimando agli studi di Amedeo Quondam (AMEDEO QUONDAM, La crisi
dell’Arcadia, «Palatino», XII, 1968, pp. 160-170; ID., Nuovi documenti sulla crisi dell’Arcadia nel
1711, «Atti e memorie dell’Arcadia», serie 3a, VI, fasc. 3, 1973, pp. 103-215; ID., L’istituzione Ar-
cadia: sociologia e ideologia di un’accademia, «Quaderni storici», 1973, n. 23, pp. 389-438; ID.,
Gioco e società letteraria nell’«Arcadia» del Crescimbeni. L’ideologia dell’istituzione, «Atti e
memorie dell’Arcadia», serie 3a, VI, fasc. 4, 1976, pp. 165-195; ID., L’Arcadia e la «repubblica del-
le lettere», in Immagini del Settecento in Italia, a cura della Società italiana di studi sul secolo
XVIII, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 198-211), al libro di Maria Teresa Acquaro Graziosi (MARIA
TERESA ACQUARO GRAZIOSI, L’Arcadia. Trecento anni di storia, Roma, Palombi, 1991) e soprattut-
to al documentatissimo saggio di PAOLA FERRARIS, Il Bosco Parrasio dell’Arcadia, in Giovanni V
di Portogallo (1707-1750) e la cultura romana del suo tempo, a cura di Sandra Vasco Rocca e Ga-
briele Borghini, Roma, Argos, 1995, pp. 136-148; a questo eccellente lavoro rimando anche per i
riferimenti alle fonti e alla bibliografia.

89
SAVERIO FRANCHI

Figura 1: Gian Vincenzo Gravina in un disegno caricaturale di Pier Leone Ghezzi


(penna e inchiostro bruno). (BAV, Ottob. Lat. 3112, c. 79r).
Da: GIANCARLO ROSTIROLLA, Il “Mondo novo” musicale di Pier Leone Ghezzi,
Milano, Skira - Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, [2001], foto 40, p. 95.

Il Capranica, rinnovato nei palchi dall’architetto Tommaso Mattei e nel


palcoscenico dal celebre Filippo Juvarra (già al servizio di Ottoboni e della regina
Maria Casimira), era allora affidato alla gestione di una impresaria, Maria de Rosis.
Su questa singolare figura di donna organizzatrice di spettacoli vale la pena di dire
qualcosa di più. Maria era figlia di Marcello de Rosis (1648-1701), un piccolo nobile
romano che era stato impresario del teatro Tordinona dal 1673 al 1697 e che in quella
gestione, per autentica passione teatrale, aveva dilapidato ogni sua ricchezza. Nata
nel 1671, Maria aveva seguito da vicino l’attività del padre. A 24 anni si era sposata
con Filippo Colonnesi, un piccolo nobile di Velletri che per lei abbandonò una
promettente carriera ecclesiastica. Anche Colonnesi era esperto del mondo teatrale:

90
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

appassionato e competente di musica, aveva composto melodrammi e oratorii.4


Malgrado la demolizione del Tordinona, la rovina finanziaria di suo padre e il lungo
periodo di proibizione d’ogni spettacolo, Maria de Rosis non esitò ad assumere
l’impresa del maggior teatro romano, investendo nel progetto i residui suoi beni e
quelli del marito. Anch’ella probabilmente simpatizzava per il partito filoimperiale,
come suggeriscono i suoi antichi legami con casa Colonna e più ancora l’amicizia
con l’editore Komarek (ben noto ai musicologi per le prime stampe di due raccolte di
sonate di Corelli): Komarek, ch’era legatissimo all’ambasciatore austriaco, visse e
morì in casa di Maria de Rosis.5
Chiudiamo qui la parentesi sull’impresaria e torniamo alla stagione 1714 del
Capranica: la prima delle due opere rappresentate (Tito e Berenice) divenne un
manifesto artistico degli Arcadi, la seconda (Lucio Papirio) dei Quirini. In effetti il
testo poetico del Tito fu di un Arcade stimato in campo teatrale, Carlo Sigismondo
Capeci, e la musica fu di Antonio Caldara, maestro di cappella del principe Ruspoli,
il mecenate dell’accademia. Anche l’altro patrono degli Arcadi, il cardinal Ottoboni,
ebbe parte nel Tito, sia con aggiunte e ‘miglioramenti’ al testo poetico di Capeci, sia
fornendo lo scenografo Juvarra. Per l’altra opera i Quirini, tramite il cardinal Corsini
loro protettore, ricorsero invece a un poeta toscano, il medico e drammaturgo
Antonio Salvi, mentre il compositore Francesco Gasparini, reduce da lunghi anni alla
direzione di uno dei conservatori di Venezia, era in rapporti con due nobili di parte
filoaustriaca, il principe Borghese e il duca Grillo. Entrambi i drammi celebravano
«le virtù e i fatti memorabili degli antichi romani» (e proprio questo era lo specifico
programma della neonata Accademia Quirina), certo il Tito in tono più ‘affettuoso’,
mentre il Lucio Papirio era un dramma più forte, ben rappresentativo dei seguaci del
Gravina con la sua esaltazione dell’eroica Roma repubblicana. Sta di fatto che l’opera
dei Quirini riscosse un caloroso successo, mentre scarsi furono gli applausi per quella
degli Arcadi.
Fosse per questo esito o per altre ragioni (si può indicare il potente impulso
all’attività teatrale e musicale data dal nuovo ambasciatore cesareo conte Gallas),
negli anni successivi gli spettacoli del Capranica videro la netta prevalenza di artisti
legati a quella parte politica (così i musicisti Giovanni Bononcini, al servizio
dell’ambasciatore Gallas, Alessandro Scarlatti, maestro della cappella reale di Napoli,
allora sotto il dominio austriaco, e suo figlio Domenico Scarlatti, virtuoso
dell’ambasciatore di Portogallo), mentre il poeta stabilmente attivo nel teatro per le
modifiche ai libretti delle opere da rappresentare – e probabilmente anche nelle
funzioni di regista dell’azione drammatica – fu il più brillante degli Accademici

4
L’attività musicale di Colonnesi, finora sconosciuta, risulta da fonti giornalistiche dell’epoca, cfr.
ORIETTA SARTORI, Notizie d’interesse musicale in un antico periodico a stampa: il «Foglio di Foli-
gno», «Esercizi. Musica e spettacolo», 16-17, nuova serie 7-8, 1997-1998, pp. 87-120.
5
SAVERIO FRANCHI, Le impressioni sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e stampato-
ri romani e laziali di testi drammatici e libretti per musica dal 1579 al 1800, ricerca storica, biblio-
grafica e archivistica condotta in collaborazione con Orietta Sartori, Roma, Edizioni di Storia e Let-
teratura, 1994, pp. 354-358.

91
SAVERIO FRANCHI

Quirini, Paolo Rolli, proprio colui che aveva causato lo scisma d’Arcadia. Peraltro il
teatro era frequentato da ‘milordi’ inglesi: la potenza della Gran Bretagna, che nella
conclusa guerra era stata alleata dell’imperatore, era allora in continua crescita e nella
sede della Chiesa cattolica si doveva tollerare la presenza di questi gran signori
protestanti. Tale sarà la suggestione operata dalla loro ricchezza e dai princìpi liberali
del loro regime che nel 1716 l’ardente Rolli seguì Richard Boyle conte di Burlington
a Londra, dove vivrà per quasi trent’anni. Quel poeta figlio di Roma, che tanto
lavorerà per il successo dell’opera italiana in terra britannica, non mancò di cantarne
le libertà civili e il sistema politico in un sonetto famoso: 6
Fiume che imitator dell’oceano
sostien gran navi e seco alterna il corso:
ponte che ha quasi una città sul dorso:
popol, cui numerar tentasi in vano:
Senato ch’è un’immagin del romano:
governo popolar seco in concorso:
della salvezza altrui sol per soccorso
regio poter: nel ben oprar sovrano:
Commercio, e di lui figlia, ampia ricchezza:
libertà che n’è origine e sostegno:
viril valore e femminil bellezza;
Crawfurd, di Londra e del britanno regno
tutte le parti son: chi non le apprezza,
del nome d’uom, non che di vita, è indegno.

Ben altri concetti aveva sulla Gran Bretagna papa Albani. Ed anche questi, come
vedremo, verranno a incidere sulle vicende teatrali romane. Nella speranza di una
possibile restaurazione cattolica in quella nazione, Clemente XI chiamò a Roma
Giacomo III Stuart, il pretendente cattolico a quella corona, figlio del re spodestato
dalla glorious revolution del 1688. Lo Stuart, che il papa farà sposare contro il volere
dell’imperatore con Clementina Sobieski nipote della regina Maria Casimira, fu a
Roma il patrono di un nuovo grande teatro, sorto in contrapposizione al Capranica.
La nuova sala, chiamata Teatro Alibert, fu perciò sede di un ideale orientamento
‘filopontificio’ e frequentato da un nobile pubblico in maggioranza legato a papa
Albani e alla sua politica: spiccano i nomi del principe Ruspoli, del marchese
Maccarani, del finanziere Minucci, del gran priore dell’Ordine di Malta Antonio
Vaini, d’una famiglia da sempre legata alla Francia. Ma come era nato il nuovo
teatro? Il conte Antonio d’Alibert, figlio di colui che nel 1671 aveva costruito a Roma
il primo teatro pubblico d’opera in musica, il Tordinona, avendo ereditato dal padre
un piccolo patrimonio ma insieme una grande passione teatrale destinò l’unica sua
proprietà immobiliare, una casa con due lotti di terreno alle pendici del Pincio, nella
zona all’epoca detta «gli Orti di Napoli», a una nuova sala di spettacolo, che per
ampiezza e per prestigio artistico sarà tra le maggiori d’Europa. Suo padre aveva
utilizzato quella proprietà per un gioco di pallacorda, molto in voga nel Seicento
6
PAOLO ROLLI, Liriche, a cura di Carlo Calcaterra, Torino, UTET, 1926, p. 203.

92
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

romano, e forse egli stesso aveva già coltivato l’idea di costruirvi un teatro. Nel 1716,
nel corso di pochi mesi, Antonio d’Alibert eliminò la pallacorda e avviò i frenetici
lavori di costruzione del nuovo teatro, che fu inaugurato (quantunque non ancora
completato) nel gennaio 1717 e che dal carnevale 1718 ospitò splendide stagioni
d’opera in musica. Un simile progetto, che non solo accresceva in quantità e qualità
l’attività teatrale romana ma soprattutto recava una formidabile concorrenza al
Capranica nel campo fino ad allora suo esclusivo del melodramma, fu evidentemente
consentito dal papa, che certo vide con benevolenza la nuova sala agire sotto il
patrocinio del suo prediletto Giacomo Stuart. L’indirizzo affermatosi al Capranica,
con spettacoli ed artisti favoriti dall’ambasciatore austriaco e con la direzione
letteraria in mano ai Quirini, non poteva risultare gradito a Clemente XI, e non
sorprende trovare che nello stesso 1717 si riaprì al pubblico dopo una lunga chiusura
il teatro della Pace, più piccolo e di prestigio molto minore rispetto al Capranica,
eppure dal detto anno anch’esso destinato a stagioni d’opera in musica sotto il fervido
patrocinio del cardinal Ottoboni che ne era affittuario. Giacché le licenze di attività ai
teatri venivano concesse anno per anno dal governatore di Roma, il quale prendeva al
riguardo dirette istruzioni dal papa, non si può negare che Clemente XI abbia di
proposito voluto creare delle alternative all’indirizzo ideologico prevalso nel
Capranica.
La direzione artistica del nuovo teatro Alibert fu dal suo proprietario affidata
all’esperto Gasparini, strappato al teatro rivale. D’altra parte Gasparini, con un
cambio di campo del tutto normale negli artisti dell’epoca, era passato al servizio del
principe Ruspoli, il mecenate dell’Arcadia. Il Capranica, affidato al nuovo impresario
Bernardo Robatti, un benestante di Locciolo Vercellese, rispose con opere dei due
Scarlatti sotto l’aperto patrocinio dell’ambasciatore austriaco. Così dal 1718 la bella
società romana che formava il pubblico teatrale dell’epoca (gli ambasciatori, alcuni
cardinali, il grande patriziato e la mezzana e minore nobiltà, gli abatini e i giovani
prelati, la fascia più ricca della borghesia sia professionale, con medici, avvocati e
notai, sia finanziaria, con banchieri, mercanti e appaltatori) ebbe la facoltà di scelta
tra splendide stagioni operistiche allestite in vivace concorrenza tra i due teatri
maggiori, con l’aggiunta tutt’altro che insignificante di quelli minori e degli
spettacoli nei collegi. Salvo Venezia, nessuna città d’Italia, che è quanto dire nessuna
al mondo, ebbe all’epoca una simile fioritura di spettacoli in musica, in prosa, misti,
con burattini, in teatri ‘regi’ o popolari, pubblici o privati, con il contorno di concerti
d’oratorio, di cantate e serenate, di recite ‘spirituali’ e di commedie all’improvviso, di
accademie di lettere e di canto, di balli e di conversazioni. Una simile attività,
capillarmente diffusa (recitavano i carbonai e i barcaioli, tra i quali Pulcinella era
popolarissimo, si allestivano recite nei conventi di frati e nei monasteri di monache
che chiamavano i virtuosi dei teatri per gustarsi le ariette dell’Alibert o del Capranica,
si fecero spettacoli financo per i carcerati di Castel S. Angelo) non poteva non
esercitare la sua suggestione su un giovane poeta come Metastasio cui la stessa natura
aveva donato l’estro di un’invenzione elegante e cantabile, di un sicuro istinto
drammaturgico, di un dilettoso fascino musicale. In quest’ottica ripercorriamo le
tappe della sua biografia.

93
SAVERIO FRANCHI

Il suo maestro e benefattore Gian Vincenzo Gravina morì il 6 gennaio 1718. Il


ventenne Metastasio si ritrovò d’un tratto libero e ricco. È probabile che già negli
anni precedenti avesse frequentato gli spettacoli del Capranica, dove come si è visto
agiva Rolli, anch’egli allievo del Gravina, e dove devono averlo colpito le opere di
Gasparini, in particolare il Ciro rappresentato nel 1716: sul medesimo soggetto egli
stesso scriverà vent’anni dopo un notevole dramma. Passato Gasparini al teatro
Alibert, Metastasio prese a frequentare la nuova sala e l’amicizia con il compositore
giocò forse un ruolo nel suo abile bon ton con i due diversi ambienti e indirizzi
facenti capo ai due teatri rivali. Certo spinto dalla volontà di superare i pregiudizi del
mondo letterario romano, largamente ostile al Gravina,7 senza con ciò tradire il
retaggio morale e artistico del suo maestro, Metastasio entrò in Arcadia, dove ebbe il
nome pastorale di Artino Corasio (15 aprile 1718). Questa adesione, che suonò
all’epoca come una vittoria di Crescimbeni sul pupillo del Gravina, fu temperata
nello spirito di un appeasement e il giovane Pietro ottenne di leggere in una pubblica
riunione dell’accademia il poemetto in terzine La Strada della Gloria ch’era tutto un
omaggio al defunto maestro. 8 Si potrebbe dunque rileggere nella chiave del fin qui
rievocato contesto storico–ideologico tutta la produzione giovanile del Metastasio,
sperando di trarne qualche ulteriore spunto critico. Al di là degli studi già esistenti,9
non manca chi in questo tricentenario si propone appunto un nuovo esame del
Metastasio giovane.10 Qui bastano un paio di accenni, proposti in funzione del
discorso sulla committenza artistica e letteraria romana dell’epoca.
Prima di entrare in Arcadia Metastasio aveva scritto, oltre a qualche sonetto
d’occasione, due opere di maggiori dimensioni e impegno. Secondo quanto egli
stesso giudicò in vecchiaia in una lettera al sacerdote Giuseppe Calvi di Messina,11
l’idillio Il Convito degli Dei era uscito «quasi informe» dalle sue mani
nell’«immatura età di quattordici anni». Se la memoria dell’autore fosse precisa,
questa sarebbe la sua prima opera poetica, risalendo al 1712; e a quell’anno appunto
la assegna l’edizione Brunelli. Ma, come da tempo è noto agli studiosi, così non è. Il
componimento, un poemetto di 60 ottave, reca il sottotitolo «Pel felicissimo parto
d’Elisabetta Augusta» e celebra la nascita di un erede maschio alla stirpe asburgica e
al trono imperiale. Orbene, l’unico figlio maschio partorito dall’imperatrice Elisabetta
moglie di Carlo VI fu Leopoldo, nato nella primavera 1716 ma morto di lì a poco in

7
In una lettera del dicembre 1719 Metastasio parla del «pertinace odio che ancor si conserva in
Roma non meno al nome che alla scuola tutta dell’abate Gravina» (Tutte le opere cit., vol. III, p.
20).
8
Si veda al riguardo il contributo di Maria Teresa Acquaro Graziosi (MARIA TERESA ACQUARO
GRAZIOSI, Pietro Metastasio e l’Arcadia, in Metastasio da Roma all’Europa, a cura di Franco
Onorati, Roma, Fondazione Besso, 1998, pp. 49-62).
9
Specifico al riguardo è il saggio (soprattutto stilistico) di FRANCO GAVAZZENI, La poesia giovanile
del Metastasio, che costituisce il primo capitolo (pp. 5-78) dei suoi Studi metastasiani (Padova, Li-
viana Editrice, 1964).
10
ROSY CANDIANI, Pietro Metastasio da poeta di teatro a «virtuoso di poesia», Roma, Aracne,
1998.
11
Lettera n. 2008 del 13 aprile 1772 (Tutte le opere cit., vol. V, p. 154).

94
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

tenera età. Quella nascita, che per Casa d’Austria allontanava (purtroppo per poco) i
timori di una crisi dinastica, fu accolta dal partito filoimperiale di Roma con
manifestazioni di giubilo.12 L’idillio di Metastasio va perciò riportato a questa data e
a questa occasione: non dunque frutto immaturo di un quattordicenne ma opera
consapevole ed elegante di un diciottenne. Pochi mesi dopo Il Convito degli Dei
veniva stampato a Napoli nella prima raccolta edita del poeta, che nell’epistola
dedicatoria a donna Aurelia d’Este Gambacorta conferma di aver scritto l’idillio sul
parto dell’imperatrice per «la divozione [...] dovuta da chiunque romana religione e
romane leggi professa», 13 motivazione certo ispirata dall’insegnamento del Gravina,
ma destinata a differenza di altri precetti del maestro a mettere durature radici in
Metastasio.

Figura 2: PIETRO METASTASIO, ritratto di Pompeo Batoni (collezione privata)


(fonte di pubblico dominio: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Metastasio_by_Batoni.jpg)

12
Il cardinale austriaco Schrattenbach fece allestire nel Collegio Clementino una solenne Accade-
mia di lettere e d’arti cavalleresche, con recita di orazioni e di componimenti poetici (4 giugno
1716), cfr. LINA MONTALTO, Il Clementino, 1595-1875, Roma, Ulpiano, 1939, p. 122.
13
Lettera n. 3 del primo agosto 1716 in Tutte le opere cit., vol. III, pp. 13-14. La famiglia napoleta-
na Gambacorta era di salda fede filoasburgica e aveva animato la «congiura di Macchia» del 1701
contro il viceré spagnolo.

95
SAVERIO FRANCHI

Il quale aggiunge che il componimento fu «imposto dall’onore che godo della


famigliarità dell’eccellentissimo signor conte Gallas» e da ciò si deduce che se non
proprio al suo diretto servizio il poeta era in quel periodo in assidua frequentazione
dell’ambasciatore cesareo, del quale godeva il patrocinio. Chiarite così le circostanze
in cui fu scritto l’idillio, va pur detto che il giudizio espresso dal poeta oltre cinquanta
anni dopo su questa sua opera giovanile sembra errato come l’età alla quale voleva
retrodatarla. Leggendola essa non appare affatto un lavoro «quasi informe», anzi
colpisce per la piacevole e talora esuberante ricchezza di immagini, di lessico, di
richiami letterari, per la felicità della versificazione, soprattutto per la disposizione
del mitico racconto in successive scene quasi teatrali: i personaggi sono descritti con
arguta precisione,14 gli sfondi tenuti in abile equilibrio tra l’allegorico-celebrativo e il
pittorico-favoloso, la narrazione efficacemente intercalata da discorsi diretti. Il poeta
realizza qui per la prima volta quella nobilitazione di un componimento d’occasione,
nella sostanza cortigianesco, attraverso un tono lieve e brillante che, malgrado il fitto
ripetersi di consimili commissioni nel corso della sua vita, riuscirà in più momenti a
riscattarne la banalità con una raffinata eleganza non priva di una punta di sincerità.
Già in questo Convito Metastasio riuscì, nel racconto che fa il Tevere, a delineare con
ampie pennellate in una decina di ottave una materia tanto ostica quanto la storia
politica di Roma e dell’Impero dall’alto Medioevo ai tempi suoi; e soprattutto
colpisce la parte finale dell’idillio, dove Iride è inviata da Giove e Giunone alla corte
imperiale; ivi Carlo VI, «grave e pensieroso», si prepara all’imminente guerra contro
la Turchia, avendo al suo fianco il generalissimo Eugenio di Savoia, il trionfatore
della guerra di successione spagnola:
Aveva a lato il duce al Ciel sì caro,
Eugenio, onor de’ bellicosi eroi,
Quegli il cui nome va temuto e chiaro
Dal Boristene algente ai lidi eoi;
Quei che col lampo dell’ardito acciaro
Fa strada, o Carlo, ai gran disegni tuoi;
E qualor la sua mano il brando strinse,
I tuoi nemici o volse in fuga o estinse. 15

Poi Iride giunge in un giardino segreto per annunziare all’imperatrice la futura


maternità. Qui la scena è dipinta con colori deliziosi e non si può fare a meno di pensare
a una Annunciazione della Beata Vergine, cui del resto il poeta allude apertamente con
l’alone luminoso e le «diverse e colorate piume» delle ali di Iride, nonché con il pudico
rossore d’interna felicità che tinge il volto di Elisabetta. Anche di Iride, come dell’angelo
del bassorilievo nel Purgatorio dantesco, «giurato si sarìa ch’el dicesse Ave»; e con
l’immagine che conclude il poemetto siamo rapiti in cielo: «nel fulgor si ascose | Per
entro l’aria lucida e serena, | Di sé lasciando la sembianza appena».

14
Cfr. le fini osservazioni di Franco Gavazzeni (GAVAZZENI, La poesia giovanile cit., pp. 20-27),
in particolare quelle sulle figure del Danubio e dell’imperatrice Elisabetta.
15
Tutte le opere cit., vol. II, p. 868.

96
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

L’altra opera giovanile di Metastasio, la tragedia Giustino, per la forma e per


l’argomento rimase più rigidamente legata ai modelli di un classicismo formale cari a
Gravina. Ma in relazione al discorso sui legami con le vicende storiche dell’epoca
non mi pare azzardato vedere nella scelta dell’argomento, svolto sullo sfondo della
riconquista d’Italia voluta dall’imperatore Giustiniano, un’eco delle vittoriose
campagne delle armate imperiali che nel corso della guerra di successione spagnola
avevano dato all’Austria asburgica il predominio politico su tutta l’Italia. In
Giustiniano sarebbe allora da vedere Leopoldo I, nel giovane Giustino suo designato
successore Carlo VI, nell’amata Sofia Elisabetta di Brunswick e infine in Belisario
traspare Eugenio di Savoia.
Uno dei sonetti giovanili ci riconduce ai rapporti di Metastasio con il mondo
teatrale romano. Scritto all’inizio del 1719, nella fase in cui il poeta si sforzava di
affermarsi negli ambienti letterari e artistici cari a papa Clemente XI, è dedicato a
Gasparini, all’epoca direttore musicale del teatro Alibert: vi si loda l’«insigne»
compositore, che con la sua arte armonica sa «calmare ed eccitar [...] con soave
vicenda i nostri affetti». 16 E di affetti appunto si trattava poiché frequentando
Gasparini il poeta si era innamorato della bella figlia dell’operista, Rosalia. Questo,
che fu il primo e forse più sincero amore della sua vita, è stato indagato e
compiutamente narrato in un magistrale articolo di Enrico Celani pubblicato oltre
novant’anni fa.17 Gasparini, che certo apprezzava i talenti poetici di Metastasio e
forse ne immaginava una possibile attività teatrale, favorì la relazione e tant’oltre si
giunse che in breve si stese un regolare contratto di nozze. 18 Intanto i contatti con
l’Arcadia produssero la canzonetta La Primavera, che se ai severi occhi del defunto
Gravina sarebbe dispiaciuta come «canzoncina» da recitarsi in una «cicalata
pastorale», proprio in un ingenuo rapporto con la natura trova la sua tenue tinta di
pastello, così da collocarsi in una nicchia mezzana fra la tradizione melica del passato
e le esemplari strofette delle future serenate napoletane. Nella Fille che vi compare e
che «o pietosa o crudel» resta per il poeta «l’alma del mio cor» potrebbe forse vedersi
Rosalia Gasparini, ch’ebbe per Metastasio momenti alterni di affetto e di ripulsa, fino
alla rottura finale in vista delle nozze per essersi innamorata di un altro. In modo

16
Ivi, p. 950. Gasparini era allora al culmine della fama e del successo, come compositore, come
teorico, come uomo di teatro e come maestro (i suoi allievi Domenico Scarlatti e Benedetto Marcel-
lo erano a loro volta giunti alla celebrità). Su Gasparini si vedano gli atti del convegno internaziona-
le a lui dedicato (Francesco Gasparini, 1661-1727, a cura di Fabrizio Della Seta e Franco Piperno,
Firenze, Olschki, 1981) e numerose altre notizie in un successivo saggio di FABRIZIO DELLA SETA, I
Borghese (1691-1731). La musica di una generazione, «Note d’archivio per la storia musicale»,
nuova serie I, 1983, pp. 139-208.
17
ENRICO CELANI, Il primo amore di Metastasio (con documenti inediti), «Rivista Musicale
Italiana», XI, 1904, pp. 228-264.
18
Il documento, stipulato il 26 febbraio 1719, è integralmente riportato dal Celani (CELANI, Il primo
amore cit., pp. 247-249), che lo trascrisse dall’originale, conservato nell’Archivio di Stato di Roma
(Trenta Notai Capitolini, atti Caesar Parchettus, uff. 18, vol. 382, cc. 329-330).

97
SAVERIO FRANCHI

persuasivo il Celani aveva già interpretato i famosissimi versi dedicati a una Nice19
come ispirati non a un modello immaginario di amata sdegnosa e traditrice, bensì alla
reale vicenda amorosa con Rosalia. E se prima di chiamarla Nice il poeta la chiamò
Fille, fino all’amara conclusione egli fu tenuto dalla fanciulla in una affannosa
altalena di sentimenti, che gli causavano scatti d’ira e subitanei pentimenti:
Ah no: ben mio, perdona
Questi sdegnosi accenti,
Che sono i miei lamenti
Segni d’un vero amor. 20

Il «vero amor» fu per Metastasio una dura prova. La fama di Gasparini era allora
grande, tutta la città accorreva al teatro Alibert per le sue opere, e la vicenda
sentimentale di Metastasio fu perciò nota a tutti. Lo smacco crudele del rampollo
dell’orgoglioso Gravina, abbandonato in faccia a tutti alla vigilia delle nozze
avendogli la fidanzata preferito uno sconosciuto, rese ridicolo Metastasio e rinfocolò
contro di lui l’ostilità dell’ambiente letterario romano, contro il quale il poeta scriverà
dure parole nei mesi seguenti.21 L’amor proprio di un temperamento ambizioso e
abituato al controllo di sé spinse Metastasio a romper di getto con Roma, con
l’Arcadia, con il mondo teatrale e quasi quasi con la stessa poesia; l’idea d’un freddo
egocentrismo con cui pensava di conformarsi ai modelli di vita del suo defunto
maestro lo persuase a rifiutare tutte le nuove suggestioni cui si era abbandonato dopo
la morte di lui, e a impiegarne l’eredità per fare invece carriera nel campo giuridico.
Quasi confortato dal poter ribattere le orme del Gravina se ne fuggì a Napoli, patria
culturale del maestro e fervido centro di studi legali, ivi riannodando i legami con la
parte politica «giusta», cioè con il viceré austriaco e il patriziato partenopeo (in primo
luogo i Pignatelli già patroni del Gravina) che gli faceva corona. Come proprio a
Napoli, per merito di un’altra bella romana, risorgesse in lui il demone poetico e
teatrale è vicenda ben nota.
Mentre Metastasio viveva lontano dalla patria le vicende teatrali romane si

19
Le canzonette La Libertà, Palinodia, La Partenza, A Nice, nonché i sonetti Desiderio affettuoso,
Pentimento dell’antecedente desiderio, La Gelosia; infine una cantata pure intitolata La Gelosia.
20
La Primavera, vv. 65-68 (Tutte le opere cit., vol. II, p. 770).
21
La citata lettera del 23 dicembre 1719, dopo aver parlato dell’odio di Roma contro Gravina, così
prosegue: «Qual odio [...] si è trasfuso, e come discepolo eletto e come erede, sovra di me. Ed an-
corché possa io con le mie rendite onestamente vivere in Roma, ho stimato prudente risoluzione il
vivere lontano per non vivere fra nemici» (Tutte le opere cit., vol. III, p. 20). Odio non solo da
parte degli Arcadi crescimbeniani, ma anche da parte «degli altri, che invece di difendere e soste-
nere nella mia persona l’onore della scuola e l’elezione del comune Maestro, hanno caricato e
detratto le mie operazioni, pieni di malignità e di veleno» (Ivi,p. 21). Così Metastasio pagava i
suoi rapporti con l’Arcadia, con Gasparini e con il partito ‘filopontificio’ del teatro Alibert con
lo screditamento di fronte ai vecchi condiscepoli e seguaci del Gravina. In una lettera «a un ami-
co» dello stesso periodo lamenta ancora lo smacco subito «nella mia cara patria», il «sommo
danno», il tempo «malamente perduto» e per la disillusione «chiamai mille volte Roma ingrata»,
ma la colpa era sua che non aveva studiato «il gran libro del mondo» (Ivi, p. 22).

98
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

arricchivano di nuovi capitoli. La stagione del carnevale 1720 fu l’ultima per


Gasparini all’Alibert. Forse la vicenda di sua figlia aveva danneggiato anche il
compositore, che per suo conto cambiò anch’egli di patrono passando al servizio del
filoaustriaco principe Borghese. 22 Ma l’epoca dei successi teatrali di Gasparini era
finita e al suo posto il conte d’Alibert, forse su suggerimento altrui, chiamò come
nuovo direttore musicale il famoso compositore e maestro di canto Nicolò Porpora,
che guiderà l’attività del teatro Alibert nel triennio 1721-1723. Non è noto chi fosse
allora il poeta incaricato delle modifiche ai drammi da rappresentare e delle funzioni
di moderno regista, ma non sorprenderebbe, per quanto già detto, che fosse un
membro dell’Arcadia. Quello era il posto che Gasparini aveva probabilmente
progettato per Metastasio; quello sarà il posto che Metastasio, sull’onda dei grandi
successi a Napoli e Venezia, verrà a riconquistare nel 1726. Intanto nell’altro teatro
principale di Roma, il Capranica, proseguiva l’attività di artisti legati al potere
politico austriaco (Alessandro Scarlatti, Silvio Stampiglia, Giovanni Bononcini),
mentre in veste di poeta teatrale compare di nuovo un Accademico Quirino, il
giovane Gaetano Lemer.
La morte di Clemente XI dopo un lungo pontificato portò a mutamenti
significativi: il nuovo pontefice (l’anziano Innocenzo XIII Conti) operò una rapida
pacificazione con l’imperatore (giugno 1722) e così l’annosa contrapposizione che
divideva patroni artisti e pubblico in fazioni ‘filopapali’ e ‘filoimperiali’ finiva col
perdere il pepe politico del periodo precedente. In questa direzione si era mosso per
tempo il principe Ruspoli, che pure tanto doveva a papa Albani: Ruspoli, uno dei
principali patrocinatori dell’attività teatrale e musicale della città, era parente del
nuovo pontefice in quanto marito di una sua nipote.23 Fin dal 1707 Ruspoli era stato il
più generoso patrono dell’Arcadia, ospitandone le riunioni nel suo giardino in via
Merulana e poi nella villa Ginnasi all’Aventino della quale era affittuario; ma intanto
i rapporti si andavano deteriorando. Già nel carnevale 1721 il principe, abbandonando
il favorito teatro Alibert, passò a patrocinare il Capranica ed ivi a sostenere il poeta
Lemer, uno dei Quirini. La stessa situazione si ripeté nel 1723, quando al Capranica
fu attivo come poeta teatrale il segretario di Ruspoli Gian Gualberto Barlocci, un
altro Quirino. Crescimbeni, cui certo non difettava l’esperienza delle cose del mondo,
fu prontissimo a sostituire quello di Ruspoli con un patronato ben più munifico: il 25

22
Com’è noto l’anno dopo Borghese fu nominato viceré di Napoli e proprio a sua moglie Maria
Livia Spinola Borghese Metastasio dedicherà il componimento drammatico Gli Orti Esperidi.
Certo alla corte napoletana il poeta sentì parlare di Gasparini e forse di Rosalia, ma ora il suo cuore
– o almeno il suo diletto e la sua maschile vanità – era occupato dalla Bulgarelli.
23
Maria Isabella Cesi, figlia della sorella di Innocenzo XIII. Il riavvicinamento di Ruspoli alla parte
‘filoimperiale’ (per la quale alcuni storici hanno parlato di un ‘neoghibellinismo’ romano, così co-
me di ‘neoguelfismo’ si parlerà nel secolo successivo) ebbe dall’elezione di Innocenzo XIII solo
l’ultima spinta. In effetti Ruspoli fin dai tempi della guerra di successione spagnola, pur avendo ar-
mato a sue spese un reggimento col quale combatté in Romagna contro le armi austriache, si era
guadagnato il rispetto degli avversari; e soprattutto negli anni seguiti alla pace di Utrecht fu tra i
fautori di una pacificazione tra papato e impero sulla base del comune interesse nella guerra antitur-
ca (1716).

99
SAVERIO FRANCHI

novembre 1721, pochi mesi dopo la morte di Clemente XI, il ‘cognome’ arcadico del
defunto papa fu attribuito, su proposta di Crescimbeni, a Giovanni V re di
Portogallo. 24 Quel sovrano, uscito vittorioso dalla guerra di successione spagnola in
alleanza con l’Impero e la Gran Bretagna, aveva dopo la pace dato impulso a una
fastosa politica di rappresentanza, aspirando ad essere riconosciuto su un piede di
parità con i regnanti delle grandi potenze; in particolare si resero interpreti di queste
manifestazioni i suoi ambasciatori alla S. Sede,25 che promossero splendide iniziative
artistiche e musicali, attraendo al servizio del loro re personalità di gran rilievo, come
Domenico Scarlatti e Filippo Juvarra, in precedenza legati ad altri patrocini.
Ovviamente tanto sfarzo era rivolto anche all’immagine di potenza necessaria per ciò
che veramente stava a cuore al re di Portogallo: la questione dei «riti cinesi». In essa
interesse del re era che il papa confermasse l’antico privilegio portoghese del real
padroado.26
Nel suo ruolo di patrono dell’Arcadia il re di Portogallo provvide a risolvere in via
definitiva il problema della sede per le riunioni dell’accademia: grazie alla sua
munificenza fu acquistato un terreno sul Gianicolo ed ivi realizzato il Bosco Parrasio,
su tre livelli uniti da rampe di scale conducenti ad un piccolo anfiteatro. Il Bosco
Parrasio sarà solennemente inaugurato il 9 settembre 1726. L’architetto che progettò
e costruì la nuova sede fu Antonio Canevari, che in seguito partirà per Lisbona dove
lavorerà al diretto servizio di Giovanni V.27

24
FERRARIS, Il Bosco Parrasio cit., pp. 139-140. Con questa nomina non solo si soddisfaceva «la
propensione ormai evidente di Giovanni V verso riconoscimenti romani al suo prestigio», ma
s’intese compiere una scelta gradita anche al nuovo papa: Innocenzo XIII era stato nunzio a Lisbona
per dieci anni (1698-1708), mantenendo in seguito con quella corte i migliori rapporti. La scelta di
Crescimbeni si rivelò oculata: Giovanni V fu per l’accademia un vero benefattore.
25
Un diretto riflesso di questa aspirazione alla parità con le altre potenze cattoliche fu la pretesa
dell’ambasciatore portoghese marchese di Fontes di avere nel teatro Capranica «i Palchetti nella
qualità e sito che anno l’altri regi Ministri» (Avvisi di Roma del 24 dicembre 1712, Biblioteca Cor-
siniana, ms. 35.A.21, c. 102v); poi si era accontentato di quello offertogli dal contestabile Colonna
(peraltro ottimo), ma quando pochi mesi dopo si condussero grandi lavori nel teatro furono co-
struiti due palchetti in più «nell’ordine nobile», dei quali «l’uno per l’Amb.re di Portogallo e
l’altro per la Casa Albani» (Avvisi di Roma del 5 agosto 1713. Biblioteca Apostolica Vaticana, cod.
Barb. Lat. 6430, c. 75). Per i particolari si veda FRANCHI, Drammaturgia romana II cit. a nota 2.
26
L’accesa questione dei riti cinesi avrà un curioso effetto anche sulle vicende teatrali, causando lo
stravolgimento di un melodramma rappresentato nel 1726 al teatro Alibert con il titolo Il Valdema-
ro. Si trattava del Teuzzone, un libretto di soggetti e costumi cinesi scritto da Apostolo Zeno nel
1706, da riproporre a Roma con la nuova musica di Domenico Sarro. Ma dato il delicato dibat-
tito allora in corso sui riti adottati dai Gesuiti in Cina in conformità con le usanze nazionali e
contestati da altri ordini religiosi, si ritenne opportuno «mutare il titolo e l’opera» mediante un
completo rifacimento del testo drammatico ad opera di un poeta rimasto ignoto. Questo rielaborato-
re fu probabilmente un Arcade giacché quella stagione, come si dirà appresso, fu tutta sotto il
segno dell’Arcadia; ma ben decise quel poeta di mantenere sull’intervento un totale segreto, giac-
ché a causa di quel rifacimento l’opera, come notò il diarista Valesio, «è divenuta di mal gusto».
Si veda sull’episodio FRANCHI, Drammaturgia romana II cit., pp. 213-214.
27
Sul progetto e la realizzazione del Bosco Parrasio si veda il saggio di Paola Ferraris (FERRARIS, Il
Bosco Parrasio cit.). Di Canevari, oltre ai dati già noti sulla sua attività di architetto (per i quali v.

100
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

Intanto importanti novità erano intervenute nelle vicende teatrali. Il conte Alibert,
avendo voluto affrontare la magnifica impresa di costruire un gran teatro e di gestirne
in prima persona i costosi allestimenti, era riuscito sì a dare a Roma e all’Italia un
nuovo palcoscenico di successo per la splendida attività dei migliori artisti ma
insieme si era rovinato economicamente ed ora, sommerso dai debiti, fu costretto a
subire un esproprio di fatto: dalla stagione 1722 il teatro fu gestito da un gruppo di
“interessati” in rappresentanza dei suoi numerosi creditori. Tra essi spicca il
finanziere Ferdinando Minucci, da tempo esponente della linea ‘filopontificia’ per
essere depositario generale della Camera Apostolica. Minucci sarà l’amministratore
di fatto del teatro fino al 1729. Per nulla ammaestrato da queste vicende anche il
proprietario dell’altro teatro principale, Federico Capranica, aveva cacciato
l’impresario Robatti e dal 1721 si era messo a gestire in proprio gli spettacoli. Finirà
male anche per lui, costretto nel 1724 da una cospicua mole di debiti a vendere il
teatro al nipote Camillo. Nella storia dei teatri romani la serie di disastri finanziari
che colpirono proprietari e impresari è davvero impressionante (solo il teatro
Argentina, inaugurato nel 1732, avrà una vita economica meno tormentata) e bisogna
convincersi che la passione teatrale di questi aristocratici e borghesi doveva essere
davvero imperiosa per non sfuggire come la peste l’acquisto o la gestione di una sala
teatrale. Ma certo la popolarità che un simile ruolo dava, lo sfarzo degli spettacoli,
l’effimera ma esaltante euforia degli applausi, la lusinghiera vanità del rapporto con
artisti e virtuosi ovunque richiesti e celebrati, infine i contatti e la possibile amicizia
con i potenti di turno (parenti del papa regnante, ambasciatori, cardinali, principi)
erano tutte ragioni ben allettanti per questi ‘edili’ del Settecento. La stagione del 1724
fu memorabile in entrambi i teatri maggiori. All’Alibert, sempre sotto il patronato
degli Stuart, comparve per la prima volta a Roma Leonardo Vinci, un compositore
calabrese reduce da un quinquennio di continui successi a Napoli. Vinci, autore di
stile ‘moderno’ e animato, conquistò il pubblico dell’Alibert, dove lavorerà negli anni
seguenti fino alla morte. Al Capranica intanto si esibiva, sotto il patronato di Faustina
Mattei Conti nipote del papa, l’altro musicista che pienamente rappresentava lo stile
‘moderno’ dell’epoca, Antonio Vivaldi. Il famoso compositore veneziano, che già
aveva lavorato per il Capranica l’anno prima, diresse quest’anno l’intera stagione,
riportando anch’egli un vivo successo. Dopo la sosta per l’anno santo 1725
ritroviamo a Roma il Metastasio.
Con lo straordinario successo della sua Didone abbandonata, rappresentata il
primo febbraio 1724 nel teatro napoletano di S. Bartolomeo con la musica di
Domenico Sarro, alla presenza del viceré cardinal d’Althann, con Marianna Benti
Bulgarelli nei panni della protagonista e il grande contraltista Nicolò Grimaldi in
quelli di Enea, la carriera teatrale del poeta era segnata e spianata. Secondo
l’indicazione ch’egli stesso aggiunse al titolo della canzonetta L’Estate («composta in

le fonti e la bibliografia citate dalla Ferraris), va segnalata anche la presenza come scenografo nella
stagione 1718 del teatro Capranica, in collaborazione con un pittore, Giovanni Battista Bernabò,
che pure riceverà importanti committenze dall’ambasciatore di Portogallo (VASCO ROCCA, Le
committenze pittoriche di Giovanni V, in Giovanni V di Portogallo cit., pp. 289-375: 301).

101
SAVERIO FRANCHI

Roma l’anno 1724»), qualche mese dopo si trovava a Roma. Certo vi passò
provenendo da Napoli e diretto a Venezia; e probabilmente vi sostò abbastanza per
riprendere qualche opportuno contatto: L’Estate è l’evidente seguito della Primavera
e potrebbe anch’essa essere stata recitata in una riunione arcadica. Forse il nuovo
corso dell’accademia sotto il patronato del re di Portogallo e anche l’elezione di un
napoletano a nuovo papa (Benedetto XIII Orsini) ammorbidirono il terreno. Di certo
dalla fine dell’anno Metastasio era a Venezia dove nella stagione di carnevale 1725
curò il nuovo allestimento della Didone, da lui ora definita «tragedia».
L’opera andò in scena al teatro Tron di S. Cassiano con la nuova musica di
Tomaso Albinoni, interpreti ancora la Bulgarelli e Grimaldi.

Figura 3: Marianna Benti Bulgarelli in un disegno caricaturale di Pier Leone Ghezzi


(BAV, Ottob. Lat. 3116, c. 144r).
Da: GIANCARLO ROSTIROLLA, Il “Mondo novo” musicale di Pier Leone Ghezzi,
Milano, Skira - Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, [2001], foto 127, p. 137.

La dedica fu rivolta da Metastasio con un sonetto «alle dame veneziane». 28 Il


libretto a stampa reca sul frontespizio il nome arcadico del poeta: è quindi credibile
che la sosta a Roma avesse riportato Metastasio in seno all’Arcadia e che la tournée
veneziana fosse in sostanza il preludio per un rientro alla grande sulle scene
28
Oltre che nell’edizione originale del libretto (Venezia, Marino Rossetti, 1725), il sonetto è ri-
portato in Tutte le opere cit., vol. II, p. 946.

102
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

romane. 29 Ma per meglio intendere il suo futuro ruolo di poeta teatrale dell’Alibert
occorre riassumere ancora qualche dato sulle vicende di quel teatro.
La sciagurata situazione finanziaria del conte Alibert, la cui unica proprietà
immobiliare era il teatro che recava il suo nome, spinse i creditori, approfittando della
chiusura per l’anno santo 1725, a chiederne la vendita forzosa mediante asta
giudiziale. Il tribunale della Camera Apostolica diede loro ragione e per decreto del
governatore di Roma l’asta fu battuta il 10 aprile di quell’anno, risolvendosi a favore
di Cesare Salvani per il misero prezzo di 1320 scudi; pochi giorni dopo al posto di
Salvani, ch’era un prestanome, si conobbero i nomi degli effettivi nuovi proprietari
del teatro: erano dodici e a loro, in solido, fu aggiudicata l’asta. Per la gestione
artistica e finanziaria i dodici formarono una società, il cui regolamento, approvato in
novembre, rimarrà poi definitivamente in vigore: scopo della gestione era quello di
allestire nel teatro opere ‘regie’ in musica degne della città e del patriziato romano,
senza cercare un lucro ma solo obbligandosi a bilanci in pareggio affinché i soci non
subissero danni economici e rinunziando, proprio come oggi recentissime
disposizioni impongono alle associazioni culturali, alla divisione di ogni eventuale
utile, che doveva essere impiegato nell’attività successiva. Va pur detto che questa
soluzione era per l’epoca straordinariamente moderna ovvero, per usare un termine
più consono, ‘illuminata’, in quanto utile in termini ragionevoli e concreti al decoro
civile, all’onesto diletto, alla promozione delle arti belle. Forse i nuovi proprietari
furono impietosi col povero conte Alibert, che morirà dimenticato e in totale miseria,
ma certo si resero meritevoli di plauso agli occhi della città e del governo. La curia,
che fin dalla sua costruzione aveva favorito questo teatro ‘filopontificio’ in

29
In un importante articolo di Rosy Candiani (ROSY CANDIANI, Il mestiere di «poeta del tea-
tro»: la produzione di Pietro Metastasio durante il soggiorno a Roma, in Il melodramma a Ro-
ma tra Sei e Settecento, a cura di Saverio Franchi, «Roma moderna e contemporanea», IV, 1996,
pp. 143-165) si suppone che il ristabilimento a Roma del Metastasio abbia avuto come probabile
incentivo l’amichevole protezione del cardinal Ottoboni che, veneziano di nascita, può aver in-
contrato il poeta nei suoi soggiorni nella città lagunare. Certo Ottoboni è una figura di mecenate
di primissimo piano per la musica, il teatro, le lettere e le arti nel mezzo secolo dal 1690 al 1740;
sicuramente era anche, da quasi trent’anni, uno dei patroni dell’Arcadia e, quanto ai rapporti di
Metastasio con il teatro Alibert, il cardinale pur non avendo esercitato su quella sala alcun patro-
cinio era tuttavia ben presente agli spettacoli nel palchetto che aveva in affitto (nel 1729 era
quello al numero 13 del II ordine secondo un interessante documento d’archivio relativo ai palchi
del teatro che ho in animo di pubblicare [il documento non è stato poi pubblicato]). Quanto ai
possibili incontri veneziani con Metastasio sembra che vadano esclusi. Dai documenti noti (si ve-
da il ricchissimo regesto cronologico di documenti sul cardinale raccolto e pubblicato da FLAVIA
MATITTI, Il cardinale Pietro Ottoboni mecenate delle arti. Cronache e documenti [1689-1740],
«Storia dell’Arte», 84, 1995, pp. 156-243) nel 1725 l’unico viaggio di Ottoboni fu un breve
soggiorno alla Santa Casa di Loreto alla fine di giugno, mentre nel 1726 egli fu effettivamente a
Venezia, partendo da Roma il 17 luglio e tornandovi il 7 gennaio 1727, ma come diremo ap-
presso è difficile che in quei mesi Metastasio sia stato a Venezia. Dunque, se contatto vi fu
l’unica sede possibile è Roma nel corso del 1724; oppure occorre rimandare i rapporti di Meta-
stasio con il cardinale al Componimento sacro del gennaio 1728, quando ormai da un anno Meta-
stasio risiedeva stabilmente a Roma.

103
SAVERIO FRANCHI

contrapposizione al ‘filoimperiale’ Capranica, appoggiò pienamente la svolta, anche


con la sollecitudine dei suoi organi giudiziari ed esecutivi. La riapertura prevista per
la stagione di carnevale del 1726 doveva mandare segnali espliciti del rinnovato
corso del teatro e insieme della sua funzione, per dir così, ‘istituzionale’. Oltre al
rinnovato patrocinio dello Stuart, che rappresentava il mai abbandonato sogno
politico dei papi per la restaurazione di una dinastia cattolica sul suolo britannico (e
come «Giacomo III re della Gran Brettagna» figurava il patrono sul frontespizio dei
libretti), si cercò dunque un contatto con l’‘istituzione’ per eccellenza nell’ambito
della cultura romana: l’Arcadia. Un filo non troppo nascosto lega la stagione
veneziana del 1725, dove Metastasio aveva presentato sotto il nome di Artino Corasio
Pastor Arcade la sua Didone nel teatro di S. Cassiano (il più antico teatro pubblico
d’Italia per l’opera in musica), e quella romana del 1726, dove la stessa Didone
inaugurò il rinnovato teatro già del conte Alibert con la regia del medesimo poeta. Sul
frontespizio del libretto campeggiava anche questa volta il suo nome arcadico. Così
Metastasio, nel nome dell’accademia alla quale si era dapprima accostato e poi, per le
narrate vicende, allontanato, tornava a brillare nel cielo romano. E fu un trionfo.
L’atmosfera ben preparata, la sala rinnovata (il palcoscenico era stato ampliato di
dieci metri), la nuova splendida musica di Leonardo Vinci, del tutto congeniale al
dramma metastasiano, la magnifica compagnia di canto, tutto contribuì al successo.
Ne fu testimone il dotto gesuita Giulio Cesare Cordara, allora giovane professore di
retorica a Viterbo: «Il popolo dimenticò per allora i pregiudizi del Gravina, che si
dicevano passati nel suo figliolo adottivo, ed assordito dall’incanto dell’opera non
pensò all’autore. Ogni scena fu un continuo batter di mani».
All’aria con cui Didone fronteggia da donna e da regina il tracotante Iarba la
«commozione della platea» esplose: «Tale fu il grido, che parve si schiantasse dai
suoi cardini il teatro». 30 Metastasio, che per la rappresentazione aveva apportato
qualche riuscita modifica al suo dramma, ebbe in compenso un orologio d’oro del
valore di 65 scudi.31
Il clima ‘arcadico’ della stagione fu confermato da Domenico Sarro, compositore
della seconda opera rappresentata (Il Valdemaro): proprio durante quel soggiorno
romano Sarro ottenne di essere ascritto all’Arcadia; dell’essere uno dei pochi
musicisti associati alla celebre accademia menò gran vanto: il libretto del Valdemaro
cita infatti il compositore dell’opera come «Domenico Sarro, tra gl’Arcadi Daspio,
vice-maestro della R. Capp. di Napoli». 32 Infine va ricordato il nuovo nome del
30
Il passo del Cordara è citato da Giosuè Carducci (GIOSUÈ CARDUCCI, Opere, vol. XV, Bologna,
Zanichelli, 1905, p. 248) e dal Brunelli (Tutte le opere cit., vol. I, p. 1386).
31
ALBERTO DE ANGELIS, Il teatro Alibert o delle Dame (1717-1863), Tivoli, Chicca, 1951, p. 145.
Sulle modifiche di Metastasio all’opera: CANDIANI, Il mestiere cit., pp. 148-152.
32
Oltre ad essere stato il primo compositore che aveva posto in musica la Didone metastasia-
na, Sarro doveva forse agli occhi degli Arcadi prendere il posto del defunto Alessandro Scarlatti,
che era stato accolto in Arcadia all’inizio del secolo, quando era virtuoso del cardinal Ottoboni, e
che malgrado la sua successiva ininterrotta fedeltà ai viceré austriaci di Napoli era stato tanto
stimato da Clemente XI da essere fatto cavaliere dello Speron d’Oro. Sarro invece nei difficili anni
del passaggio di Napoli dal dominio spagnolo a quello austriaco era stato apertamente filoborboni-

104
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

teatro. I proprietari, volendo dare anche in questo il senso di un nuovo ciclo ed anche
per far dimenticare il nome dell’infelice costruttore da loro espropriato,
ribattezzarono la sala Teatro delle Dame. Altrove 33 avevo ricollegato il nuovo nome
alla dedica rivolta alle dame dal conte d’Alibert nello spettacolo che nel 1717 aveva
inaugurato il teatro. Ora mi sembra proponibile tener conto della dedica della Didone
nella rappresentazione veneziana, dedica rivolta da Metastasio alle dame di quella
città. Alle dame soprattutto e alla loro femminile sensibilità era adatta quella Didone
«regina e amante», sola sovrana del suo regno e del suo cuore (memorabile
dichiarazione protofemminista che aveva condotto l’opera al trionfo), con cui ora si
riapriva nel segno del poeta alla moda la maggiore sala romana.
Quanto all’altra, il Capranica, non era restata inerte di fronte al rinnovato splendido
impegno dei rivali. Il nuovo proprietario Camillo Capranica chiamò invece come
impresario Polvini Faliconti, che già aveva dato ottima prova di sé al Teatro della
Pace. Polvini, alla guida del Capranica nel triennio 1726-1728, riuscì a\\ fronteggiare
la concorrenza del Teatro delle Dame con risultati notevoli.34 Sarà in seguito il primo
impresario del nuovo teatro Argentina e infine del ricostruito Teatro Tordinona. Le
opere in musica da lui allestite nei quattro diversi teatri che diresse nel corso della sua
vita furono quasi tutte splendide, accolte da successo; le sue capacità nelle scelte
artistiche e nell’organizzazione degli spettacoli furono considerate di prim’ordine.
Insomma Polvini fu uno dei maggiori impresari del secolo. In una lettera scritta da
Vienna all’amico violoncellista Peroni qualche anno dopo Metastasio diede di lui una
definizione famosa: «Ma un’opera? Madre di Dio! Che seccatura di polmoni! Lo dica
il signor Pulvini Falliconti, ch’è stato sempre l’ortolano di Parnaso». Come non pochi
dei suoi colleghi, l’«ortolano di Parnaso» offriva bensì al pubblico i buoni frutti del

co, pagando questa scelta di campo con una lunga esclusione dagli incarichi alla corte vicereale.
Ultimamente, nel migliorato clima politico, era riuscito a farsi apprezzare dal cardinal Cien-
fuegos, plenipotenziario austriaco alla S. Sede ma spagnolo di nascita, e anche a Napoli i gover-
nanti riconobbero i suoi meriti quando, morto il maestro della cappella reale Alessandro Scarlatti
il 22 ottobre 1725 e promosso al suo posto Francesco Mancini, l’incarico di vicemaestro già di
Mancini fu dato a Sarro. Quando Sarro fu aggregato all’Arcadia erano morti i musicisti Arcadi
più famosi (Corelli, Pasquini, Scarlatti) e restavano in vita solo il violinista Valentini (da giovane
anche poeta) e l’ex cantore pontificio Adami, peraltro da tempo dedito a studi di erudizione stori-
co-antiquaria.
33
FRANCHI, Drammaturgia romana II cit., p. 213.
34
Nel 1726 il nuovo impresario, con abile mossa, chiamò a Roma Albinoni (unica presenza roma-
na nella lunga attività del musicista veneziano), proprio il compositore della Didone metastasia-
na nella versione che aveva trionfato a Venezia. Ad Albinoni fu affidata la seconda opera di car-
nevale, che fu la Statira, mentre per la prima fu chiamato, quasi a contrapporsi a Vinci e Sarro, un
altro compositore dello stile napoletano, Leonardo Leo, che pose in musica un vecchio famoso li-
bretto di Stampiglia, la Camilla. Nei rapporti con i due compositori Polvini si valse di potenti
patroni, i cardinali Coscia e Ottoboni. Ad Ottoboni Polvini era legato da anni, avendo gestito il
teatro Pace del quale Ottoboni era affittuario e patrocinatore; e ancora più importante fu la pro-
tezione di Coscia, che era il favorito di papa Benedetto XIII e in breve divenne l’uomo più poten-
te di Roma. Coscia, che era di Benevento e di inclinazione filoimperiale, fece venire da Napoli
Leonardo Leo, musicista da lui favorito.

105
SAVERIO FRANCHI

Parnaso poetico e musicale (e insieme non sgraditi frutti d’un buon lucro agli artisti),
ma il favore popolare non lo salverà dal fallimento ed anch’egli morirà tra i debiti.35

Figura 4: PIER LEONE GHEZZI, L'impresario teatrale


Giuseppe Polvini Faliconti in un disegno caricaturale
(penna e inchiostro bruno). (BAV, Ottob. Lat. 3115, c.
177r). Da: GIANCARLO ROSTIROLLA, Il “Mondo novo”
musicale di Pier Lorenzo Ghezzi, Milano, Skira - Ro-
ma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, [2001], foto
118, p. 133.
35
Era nato a Camerino nel 1673 e all’inizio del Settecento si era stabilito a Roma per esercitarvi la
professione di procuratore legale, avendo studio e abitazione in via Frattina. I suoi contatti con
il mondo artistico furono probabilmente dovuti al fratello Alessandro, appassionato di architettura
(nel 1702 ottenne il secondo premio nel concorso di architettura indetto dall’Accademia di S. Lu-
ca; dopo di lui, al terzo posto, si classificò un architetto che diventerà famoso, Gabriele Valvassori).
Frequentando i teatri Polvini divenne noto al cardinal Ottoboni il quale gli affidò la gestione del
teatro Pace, allora in suo possesso. Così Polvini lasciò via Frattina e nel 1719 si trasferì in via di
Tor Millina, vicino al teatro, e dal 1720 al 1724 vi produsse un’attività di opere in musica di
tutto rispetto, che valse a lanciarlo. Così, senza mai lasciare del tutto il teatro Pace, assunse la ge-
stione del Capranica e, negli anni Trenta del secolo, quella dell’Argentina e del Tordinona. Proprio
a Metastasio rimanda la memorabile stagione del 1735 al Tordinona: l’Olimpiade con musica di
Pergolesi e il Demofoonte con musica di Ciampi, i due più patetici libretti scritti dal poeta a
Vienna e subito da Polvini riproposti a Roma tra «il vespaio di questi nostri inquietissimi abatini, la
gara delle belle cacciatrici, il calor delle fazioni, la molteplicità dei giudizi e quel bulicame uni-
versale che costì si risveglia in somigliante stagione», come bene immaginava Metastasio stesso
scrivendo in quei giorni da Vienna all’amico Peroni (lettera n. 88 dell’8 gennaio 1735 in Tutte le
opere cit., vol. III, p. 119). Polvini morì il 22 gennaio 1741 lasciando «un’eredità abbondantissima
di debiti» (FRANCESCO VALESIO, Diario di Roma, a cura di Gaetana Scano con la collaborazione
di Giuseppe Graglia, vol. VI, Milano, Longanesi, 1979, p. 433). Un’ultima curiosità sull’«ortolano
di Parnaso» (così definito nella lettera n. 62 del 18 settembre 1733, Tutte le opere cit., vol. III, p.
93): il suo nome completo era Giuseppe Polvini Faliconti. Certo Faliconti sembra un soprannome, e
quanto adatto ad un impresario! Così fu inteso dagli stessi suoi contemporanei; ma era un vero se-
condo cognome, portato non solo da lui ma da tutti i suoi parenti (SAVERIO FRANCHI-ORIETTA SAR-
TORI, Polvini Faliconti, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXIV, 2015, pp. 662-
664; ORIETTA SARTORI, Nomen omen: Polvini Faliconti impresario del Settecento romano, «Re-
cercare» XXIX/1-2, 2017, pp. 101-150).

106
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

Subito dopo il gran successo della Didone Metastasio partì con la sua Marianna
Benti Bulgarelli per Venezia, dove in una stagione tutta metastasiana nel maggior
teatro della città, il S. Giovanni Grisostomo, il suo Siroe andò «alle stelle», com’egli
stesso scrisse al fratello.36 La musica era anche questa volta di Vinci, il compositore a
lui più congeniale. Poi per alcuni mesi del 1726 non si hanno documenti diretti sui
movimenti del poeta; si sa solo che alla fine dell’anno era di certo a Napoli.37 Nella
fase più intensa dei rapporti amorosi con la Bulgarelli è però credibile che il poeta
l’abbia seguita nelle tappe della sua professione di virtuosa di canto, in città dove
liberamente potevano manifestare la loro intimità, mentre a Roma essa andava
dissimulata per il rispetto delle convenienze dovuto alla sede della Chiesa cattolica
(la Bulgarelli era sposata e Metastasio aveva fin dal 1714 preso gli ordini minori);
infatti a Roma, come ha dimostrato il Celani, i due amanti non vissero mai nella
stessa casa. Se dunque Metastasio seguì la cantante, fu dapprima a Reggio, dove il 29
aprile ella cantava in un’opera di Vincenzo Chiocchetti, 38 poi in estate a Napoli dove
il 28 agosto la “Romanina” era prima donna nel Sesostrate rappresentato al S.
Bartolomeo per festeggiare il compleanno dell’imperatrice. La musica era di Johann
Adolf Hasse, il “Sassone”, già allievo di Alessandro Scarlatti ed ora al suo debutto
sulle scene napoletane. La cantante e Metastasio non dovrebbero essersi mossi da
Napoli per tutto il periodo da agosto 1726 a gennaio 1727. A Napoli dovevano essere
in ottobre per le prove dell’Ernelinda di Vinci, andata in scena al S. Bartolomeo il 4
novembre, rimanendovi poi per le prove dell’Astarto di Hasse, rappresentatovi in
dicembre. In entrambe le opere la Bulgarelli fu la prima donna. Vinci e Hasse: quanto
dire i musicisti prediletti da Metastasio, Vinci all’epoca anche in collaborazione
diretta, Hasse in future collaborazioni nell’età matura di entrambi, poeta e
compositore.39 Infine nel gennaio 1727 andò in scena al S. Bartolomeo il Siroe, che

36
Lettera da Venezia del 16 febbraio 1726 (Tutte le opere cit., vol. III, p. 45). L’altra opera della
stagione, il Siface, era pure un suo lavoro quantunque, per essere nato come rifacimento d’un libret-
to altrui, il poeta lo considerasse opera spuria («non è mio, benché non credo che vi sia rimasto
alcun verso del primo autore. Per esser mio avrebbe dovuto essere da me da bel principio im-
maginato», lettera del 29 giugno 1772, Tutte le opere cit., vol. V, p. 171). La musica del Siface fu
di Porpora. In entrambe le opere la Bulgarelli fu la prima donna e Nicola Grimaldi il protagonista.
37
Nella lettera che scriverà alla Bulgarelli da Vienna il 23 febbraio 1732, il poeta ricorda di aver
assistito insieme a lei alla prova della commedia di Fagiuoli Il Cicisbeo sconsolato in casa
dell’abate Andrea Belvedere, suo procuratore per i beni di Napoli. Poiché la commedia del Fagiuoli
fu rappresentata nel gennaio 1727, la prova di cui si parla nella lettera sarà della fine del 1726
(cfr. BENEDETTO CROCE, I teatri di Napoli, Napoli, Pierro, 1891, p. 295; CELANI, Il primo amore
cit., p. 253).
38
Molto apprezzata fin dalla Didone interpretata nel teatro di Reggio l’anno prima, la Bulgarelli fu
nominata «virtuosa di camera» della principessa Carlotta Aglae nuora del duca di Modena, titolo
con il quale appare non solo nel libretto dell’Andromaca di Chiocchetti ma anche in quelli delle
opere interpretate a Napoli nell’inverno 1726-1727. Al titolo certo corrispondeva, secondo l’uso
dell’epoca, qualche onorevole emolumento.
39
Nella relazione presentata al convegno metastasiano del 1983 all’Accademia dei Lincei, Nino
Pirrotta pensava che Metastasio avesse conosciuto Hasse (e la sua musica) solo a Vienna dopo il

107
SAVERIO FRANCHI

degnamente concludeva la carriera della Bulgarelli con una nuova interpretazione


dell’opera dell’amato Metastasio, questa volta con la musica di Sarro: questa fu
l’ultima apparizione sulle scene della celebre virtuosa, che per amore abbandonerà la
professione, per seguire il suo poeta a Roma dove le donne non erano ammesse sul
palcoscenico. Infatti i due partirono in fretta da Napoli, dove era nato il loro amore e
dove non torneranno più, per recarsi a Roma, dove l’11 febbraio 1727 andò in scena
al teatro delle Dame il medesimo Siroe, questa volta con la musica di Porpora, ma
ovviamente senza la Romanina. Neppure a Roma mancò il successo; anzi fu tale che
le monache di S. Maria in Campo Marzio ottennero dal cardinal vicario che alcuni
cantanti e strumentisti si recassero nel loro monastero per una speciale replica delle
migliori arie dell’opera. 40 Da Roma Metastasio non si muoverà più per due anni, fino
alla partenza per Vienna. Sul teatro delle Dame, dove dalla stagione seguente il poeta
opererà stabilmente anche nelle funzioni di regista, in ciò felicemente coadiuvato
dalla Bulgarelli,41 vi è ancora da dire qualcosa.
Forse spaventati dalle ingenti spese per i lussuosi allestimenti, alcuni
comproprietari del teatro si ritirarono dalla società e dal condominio nel corso del
1726, tanto che in breve padroni del teatro rimasero solo cinque comproprietari:
Paolo Maccarani, Ferdinando Minucci, Giacomo de Romanis, il gran priore
dell’Ordine di Malta Antonio Vaini e suo fratello monsignor Filippo. A guidare di
fatto l’attività furono il marchese Maccarani (soprattutto per la parte artistica) e
Minucci (soprattutto per quella economica). Di entrambi ho dato notizie biografiche
in un mio volume; 42 qui perciò basterà ricordare che il primo era di una famiglia di
mezzana nobiltà, romana ma oriunda fiorentina, fin dal medio Seicento appassionata
di musica e spettacoli, poi rimasta legatissima al teatro Alibert per tutto il Settecento
e ancora nell’Ottocento, impegnandovisi direttamente nella gestione fino a forme di
vero e proprio impresariato; Minucci invece, nato a Livorno, era di origini borghesi
se non plebee, ma con abilità e ingegno da «povero giovane» commesso di banca era
a sua volta divenuto ricchissimo banchiere, disponendo alla morte di un capitale di
150.000 scudi. In questa coppia che diresse il teatro delle Dame negli anni romani di

1730 (NINO PIRROTTA, I musicisti nell’epistolario di Metastasio, in Atti dei convegni Lincei. Con-
vegno indetto in occasione del II centenario della morte di Metastasio, Roma, Accademia Naziona-
le dei Lincei, 1985, pp. 245-256: 253). Per quanto detto si può invece presumere che l’incontro tra i
due artisti sia avvenuto nel 1726 a Napoli, e a quell’epoca potrebbe pure rimontare la reciproca
stima. Circa il Sesostrate va notato che era già stato rappresentato nello stesso teatro di San Barto-
lomeo nel maggio dello stesso 1726 e tanto piacque da essere replicato il 28 agosto. La compagnia
di canto era identica, salvo la Bulgarelli che prese il posto di Margherita Gualandi.
40
VALESIO, Diario cit., vol. IV, p. 779; DELLA SETA, I Borghese cit., p. 197.
41
Già per l’edizione romana del Siroe la Bulgarelli si sarebbe presa cura «dell’allestimento e della
preparazione dei musici» (CANDIANI, Il mestiere cit., p. 153; cfr. DE ANGELIS, Il teatro cit, p. 146:
la Bulgarelli avrebbe anche dato consigli di gestualità «femminile» al castrato Giacinto Fontana det-
to «il Farfallino»; peraltro quest’ultimo era già esperto per proprio conto avendo cantato in parti
femminili fin dal 1712, cfr. BIANCAMARIA BRUMANA, Il cantante Giacinto Fontana detto Farfallino
e la sua carriera nei teatri di Roma, in Il melodramma a Roma cit., pp. 75-108).
42
FRANCHI, Drammaturgia romana II cit., pp. XLIX-LV.

108
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

Metastasio si può ammirare una bella concordia fra esponenti di classi diverse, e
quindi di diversa formazione e attività, uniti
dall’amore per l’opera in musica e per una moderna proposta di civile operosità in
campo artistico.
La successiva attività di Metastasio a Roma è scandita dalle rappresentazioni dei
sette nuovi lavori ch’egli scrisse in quegli anni:
– Palazzo della Cancelleria, 2 gennaio 1728
Componimento sacro per la festività del SS. Natale, «poesia del signor abbate Pietro
Metastasio Romano fra gli Arcadi Artino Corasio», fatto eseguire dal cardinal Ottoboni con
musica di Giovanni Costanzi per l’annua riunione dell’Arcadia in onore del Bambin Gesù suo
patrono celeste;

– Teatro delle Dame, 19 gennaio 1728


Catone in Utica, «tragedia per musica di Artino Corasio P. A.», prima rappresentazione
dell’opera, musica di Leonardo Vinci;

– Teatro delle Dame, 2 gennaio 1729


Ezio, «drama per musica di Pietro Metastasio frà gli Arcadi Artino Corasio», musica di Pietro
Auletta (un compositore favorito dal cardinal Coscia), rappresentazione curata e diretta dal
Metastasio, che fu invece assente a quella allestita dal poeta–impresario Domenico Lalli a
Venezia nel teatro di S. Giovanni Grisostomo 42 giorni prima dell’edizione romana; 43

– Teatro delle Dame, 6 febbraio 1729


Semiramide riconosciuta, «drama per musica di Pietro Metastasio fra gl’Arcadi Artino
Corasio», rappresentato con la regia di Metastasio e la musica di Leonardo Vinci; 44

– Palazzo Altemps, 26 novembre 1729


Componimento dramatico, «poesia del sig. abbate Pietro Metastasio», fatto eseguire con
musica di Vinci dal cardinal Melchior de Polignac, plenipotenziario del re di Francia alla S.
Sede, per festeggiare la nascita del Delfino; 45
43
Per questa nuova opera di Metastasio ci fu dunque una vera gara tra i maggiori teatri di Roma e
Venezia; nella Serenissima, dove la stagione degli spettacoli cominciava a novembre, non fu diffici-
le per l’impresario Lalli battere sul tempo i gestori del teatro delle Dame; a Roma infatti le recite
non potevano cominciare prima della licenza concessa dal governatore, e comunque in Avvento e
fino a Santo Stefano erano proibite. A Venezia Lalli presentò l’Ezio con la musica di Porpora il 20
novembre 1728, dedicandolo al conte d’Harrach viceré di Napoli. Sintomatica dell’urgenza con cui
i padroni del teatro delle Dame allestirono la propria messa in scena dell’opera – che ritenevano
«autentica» e ufficiale per la presenza di Metastasio – è la data della «prima», il 2 gennaio, che anti-
cipò di un giorno l’editto del governatore, pubblicato il 3 gennaio. Giovò anche la dedica dell’opera
al potente cardinal Coscia, il quale influì sul riluttante pontefice per autorizzare il governatore a da-
re il via agli spettacoli senza restrizioni di sorta (salvo quelli nei collegi, che in quell’anno furono
proibiti).
44
Anche quest’opera fu data quasi contemporaneamente a Venezia, come secondo spettacolo della
stagione, probabilmente qualche giorno prima che a Roma, sempre a cura di Domenico Lalli nel
teatro S. Giovanni Grisostomo e con la musica di Porpora.
45
Questo componimento è più noto con il titolo La Contesa de’ Numi, con il quale compare nel-
le edizioni successive. Così doveva chiamarsi anche nel libretto pubblicato a Roma ma, come
riferisce Rosy Candiani (CANDIANI, Il mestiere cit., p. 163), i Numi o la loro contesa non piac-

109
SAVERIO FRANCHI

– Teatro delle Dame, 2 gennaio 1730


Alessandro nell’Indie, «drama per musica di Pietro Metastasio tra gli Arcadi Artino Corasio»,
rappresentato con la regia di Metastasio e la musica di Vinci;

– Teatro delle Dame, 4 febbraio 1730


Artaserse, «drama per musica di Pietro Metastasio tra gli Arcadi Artino Corasio»,
rappresentato con la regia di Metastasio e la musica di Vinci, e nello stesso carnevale 1730
rappresentato anche al S. Giovanni Grisostomo di Venezia con musica di Hasse.

Non mancano accurati studi critici su questi lavori metastasiani; in particolare il


Componimento sacro per il cardinal Ottoboni è stato studiato da Franco Piperno,46
l’Ezio da Elena Sala di Felice,47 l’Alessandro da Reinhard Strohm; 48 a tutti i
melodrammi di Metastasio per il teatro delle Dame sono pure specificamente rivolti
un breve saggio di Nino Pirrotta e il più ampio studio di Rosy Candiani.49 Sulla
Contesa de’ Numi 50, il più notevole cenno critico è ancora della Candiani. 51
Ai contributi critici citati si possono qui aggiungere solo brevi osservazioni,
sempre fatte nell’ottica del contesto storico e della concreta attività teatrale. Innanzi
tutto va sottolineata l’esperienza, che mi sembra un caso unico nella storia dell’opera,
di un poeta che scrive i suoi drammi perché siano rappresentati quasi
contemporaneamente in due diversi teatri di due diverse città, con musica di diversi
compositori e ovviamente con compagnie di canto completamente differenti.
Considerando poi che le due città erano Roma e Venezia, quanto dire le capitali del

quero al S. Offizio, onde l’anodina intestazione di Componimento dramatico. Meno problemi ebbe
a Venezia l’ambasciatore francese conte Languet de Gergy che il 16 ottobre dello stesso 1729
fece eseguire nel suo palazzo la serenata Il Concilio de’ Pianeti, con musica di Albinoni, sempre
per festeggiare la nascita del Delfino.
46
FRANCO PIPERNO, Il Componimento sacro per la festività del SS. Natale di Metastasio-Costanzi:
documenti inediti, in Metastasio e il mondo musicale, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze, Ol-
schki, 1985, pp. 151-169. Altri riferimenti alle fonti e alla letteratura alle pp. 237 e 240 della
mia Drammaturgia romana II e in CANDIANI, Il mestiere cit., pp. 146-147.
47
ELENA SALA DI FELICE, L’«Ezio» del Metastasio, in Orfeo in Arcadia. Studi sul teatro a Roma
nel Settecento, a cura di Giorgio Petrocchi, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1984, pp. 47-
62.
48
REINHARD STROHM, L’«Alessandro nell’Indie» del Metastasio e le sue prime versioni musicali,
in La drammaturgia musicale, a cura di Lorenzo Bianconi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 157-176.
49
NINO PIRROTTA, Metastasio e i teatri romani, in Le Muse galanti. La musica a Roma nel Sette-
cento, a cura di Bruno Cagli, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1985, pp. 23-34;
CANDIANI, Il mestiere cit.
50
Nel 2006 l’Accademia Nazionale di S. Cecilia ha pubblicato la riproduzione facsimile della Con-
tesa de’ numi dall’edizione di Antonio de’ Rossi (1729).
51
CANDIANI, Il mestiere cit., pp. 163-164: vi si sottolinea il recupero di idee e immagini dalle
precedenti esperienze (serenate e drammi), soprattutto dal Componimento sacro, in un tono asciutto
e in una dimensione «atemporale» del tutto diversi dal contesto spettacolare delle manifestazioni
festive promosse da Polignac, per le quali si veda il commento di MICHELE RAK in La Festa
a Roma, catalogo della mostra a cura di Marcello Fagiolo, vol. I, Torino, Allemandi, 1997, pp. 197-
198.

110
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

melodramma, e che i due teatri, quello delle Dame a Roma e il S. Giovanni


Grisostomo a Venezia, erano i più grandi e prestigiosi delle rispettive città, si ha il
senso del primato che Metastasio era giunto ad esercitare con i suoi drammi per
musica sulla scena italiana, con gli inevitabili riflessi europei che ne seguirono.
Eppure dal suo esordio in campo teatrale non erano passati neppure cinque anni: si
accresce così la meraviglia intorno a tanto successo, che certo l’autore seppe
sapientemente costruirsi una volta deliberato, con l’abbandono della professione
legale avviata nello studio napoletano dell’avvocato Castagnola, di ritornar poeta, e
poeta di teatro, e in tal modo prendersi piena rivincita sulla sconfitta dei suoi progetti
al tempo degli amori per Rosalia Gasparini. Roma e Venezia: ma non appena il
crescente plauso e gli opportuni preparativi lo consentirono Roma fu la sede prescelta
dal poeta per la sua stabile residenza e per una stabile collaborazione con il teatro
delle Dame, ormai volutamente ed orgogliosamente noncurante dei nemici d’un
tempo e delle male lingue del presente. Prudente però, come nel suo carattere: se,
salvo il rispetto della forma, lasciò che si chiacchierasse sul suo rapporto con una
‘canterina’ sposata e più vecchia di lui, fu certo ben contento di non rischiare un
incontro anche fortuito con Rosalia; ma la giovane fin dal 1722 aveva lasciato Roma
con l’odiato marito. Quanto al padre di lei, Francesco Gasparini era vecchio e malato:
come si è visto, cacciato nel 1720 dal teatro Alibert si era ridato al partito avverso,
contando sull’appoggio del suo nuovo patrono, il filoaustriaco principe Borghese;
partito quest’ultimo per Napoli come viceré, Gasparini aveva cercato il patrocinio del
munifico cardinale portoghese José Pereira de Lacerda; infine, in un ultimo sussulto,
aveva di nuovo cambiato campo ottenendo dal cardinal Polignac (quello della futura
metastasiana Contesa de’ Numi) l’incarico di porre in musica un componimento per
le nozze di Luigi XV (palazzo Altemps, 25 settembre 1725): ma la sua musa era agli
sgoccioli e la serenata «riuscì malinconica». 52 Nel giugno 1726 il suo stato di salute
gli impediva ormai di lavorare e la Basilica Laterana, dove era maestro, fu costretta a
nominare un sostituto (Girolamo Chiti). Il 22 maggio 1727 Gasparini morì e certo
con lui sparirono per Metastasio le ultime ombre di un passato che intendeva recidere
dalla coscienza se non addirittura dalla memoria. 53
Come ha osservato Rosy Candiani,54 l’aver ristabilito la sua fissa dimora a Roma
significò per Metastasio da un lato la rinunzia a seguire di persona gli allestimenti dei
suoi drammi nei diversi teatri d’Italia e dall’altro una «ricerca del consenso del
mondo accademico e letterario», in omaggio al quale si compiva «un gesto di

52
VALESIO, Diario cit., vol. IV, p. 584.
53
Al riguardo va citato un notevole episodio di molti anni dopo. Il 6 gennaio 1772 scriveva da
Vienna al fratello Leopoldo: «Non saprei dove domine avete mai ripescato il sonetto che mi tra-
scrivete. Io non ho la minima reminiscenza d’averlo mai letto, non che composto» (Tutte le ope-
re cit., vol. V, p. 133). Si trattava del sonetto in lode di Gasparini, scritto nel momento più fervido
dell’amore per Rosalia e degli ambiziosi progetti che ad esso si legavano. Il Brunelli così ha com-
mentato: «È singolare l’affermazione del M. di non avere “la minima reminiscenza” di averlo
scritto nonché letto» (ivi, p. 771).
54
CANDIANI, Il mestiere cit., pp. 147-148.

111
SAVERIO FRANCHI

distacco dalla vita teatrale dei propri lavori». Dunque, ancora una volta, il rapporto
con l’Arcadia. Del resto tutti i suoi melodrammi dell’epoca, come si è visto, recavano
sul frontespizio il suo nome arcadico e certo una sorta di riconoscimento ufficiale fu
la sontuosissima esecuzione del Componimento sacro per la riunione dell’Arcadia
sotto il patrocinio del cardinal Ottoboni. Orbene, questa riunione con cantata per il
Bambin Gesù si faceva alla Cancelleria tutti gli anni fin dal 1716, sempre sotto il
patrocinio del munifico cardinale: ma in tanti anni questa fu la più solenne e
memorabile, con orchestra di ben 52 elementi e magnifico apparato visivo dello
scenografo Alessandro Mauro, questa fu l’unica per la quale fu stampato il testo
poetico della cantata. 55 Fra l’altro l’esecuzione di questo componimento, che
rappresenta il momento di maggiore affermazione di Metastasio in seno all’Arcadia
lungo il corso di un rapporto complesso e difficile, fu quanto mai tempestiva: il
vecchio Crescimbeni era malato e forse assente; due mesi dopo, alla sua morte,
scoppiarono nuove liti per la successione alla guida dell’accademia tra gli ex–
graviniani e i fedelissimi alla linea del defunto custode.56 Metastasio per parte sua
aveva già risposto: pochi giorni dopo la sua cantata alla Cancelleria andava in scena
al teatro delle Dame il suo Catone, esplicito omaggio al suo maestro in consapevole
riaggancio alla giovanile elegia in terzine dantesche La morte di Catone, l’una e
l’altra ispirate ai modelli di libertà civile cari a Gravina. 57
Quanto alle rappresentazioni veneziane dei suoi melodrammi «romani», Metastasio
fu indubbiamente abilissimo. Se tollerò che Domenico Lalli (alias Sebastiano
Biancardi, alias Ortanio P. A.), «direttore delli Teatri Grimani», allestisse con ogni
disinvolta libertà di interventi e modifiche i suoi drammi nel teatro di S. Giovanni
Grisostomo, è pur vero che così si spogliava d’ogni responsabilità al riguardo di
fronte ai letterati e al pubblico di Venezia; con il risultato che qualche anno dopo sarà
proprio un editore veneziano (Giuseppe Bettinelli) a chiedergli i testi autentici delle
sue opere per un’edizione a cura dell’autore.58 D’altronde la tolleranza mostrata nei
55
L’elegante edizione, stampata da Antonio de Rossi, tipografo dell’Arcadia e di Ottoboni, è ornata
da varie incisioni di Vincenzo Franceschini, riproducenti l’apparato scenico e la «gran machina
di nuvole» dell’introduzione cantata dal Genio Celeste.
56
Una sintesi della nuova lite in ACQUARO GRAZIOSI, L’Arcadia cit., pp. 31-32.
57
La Morte di Catone è riportata in Tutte le opere cit., vol. II, pp. 760-764. Come ha notato il
Gavazzeni, il giovanile poemetto, dopo il solenne esordio narrativo, diviene «così gremito di in-
terrogazioni, di risposte, di esitazioni, di sentenze, da trasformare l’elegia in un frammento melo-
drammatico» (GAVAZZENI, Studi metastasiani cit., p. 28). Non sarà dunque casuale il ritorno sul
medesimo personaggio e sulla medesima tematica politico-morale nel Catone in Utica del 1728,
questa volta un vero melodramma, quasi una conciliazione fra un soggetto caro al Gravina e una
forma artistica, l’opera in musica, che il Gravina disapprovava ma che corrispondeva al vero ge-
nio del suo allievo.
58
La prima edizione dei drammi metastasiani (ovviamente limitata alle prime opere dell’autore)
fu quella del libraio romano Pietro Leone, di cui parla lo stesso Metastasio nelle lettere a Bettinelli
del 14 giugno 1732 e del 28 febbraio 1733 (Tutte le opere cit., vol. III, pp. 66-67 e 79-80). Mal-
grado il poeta se ne lamenti («con mio infinito rammarico», «piena d’errori ed in forma assai ordi-
naria»), l’edizione di Leone non sembrava un abuso giacché condotta sulle prime edizioni romane
dei singoli libretti, che erano state pubblicate dal medesimo Leone. Egli infatti fu il maggior edito-

112
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

confronti di Lalli non sarà stata senza opportuni compensi, dal momento che era
Metastasio stesso ad inviare i suoi testi drammatici al poeta-impresario del S.
Giovanni Grisostomo. E tanto il poeta era consapevole di questo «doppio gioco» di
lavorare per due città contemporaneamente da riuscire a blandire entrambi i pubblici,
lusingandone l’orgoglio cittadino: quello romano nell’Ezio con le vedute del Foro e
del Campidoglio, degne prospettive per le glorie del generale romano, quello
veneziano con la lode a «un popolo d’eroi» che dalle acque fece sorgere mura «di
marmi adorne e gravi», unendo «con cento ponti e cento | le sparse isole».59
La stagione del 1729 al teatro delle Dame, con l’Ezio e la Semiramide, fu l’ultima
ad essere gestita direttamente dai proprietari. I loro crescenti impegni e forse ancor
più lo stesso successo ottenuto, che causava aspettative sempre maggiori e una massa
di rapporti e operazioni sempre più fitta, suggerirono a Maccarani, a Minucci e ai loro
soci di affittare il teatro ad un impresario. Il prescelto fu quel Francesco Cavanna che
Metastasio nomina nella lettera con cui ho iniziato questo lungo intervento.
Nell’epistolario del poeta il «nostro carissimo signor Cavanna» ritorna più volte e
sempre in termini di grande simpatia, sia per augurargli il buon esito degli spettacoli,
sia per dolersi, dopo un esito negativo, delle «maladette vicende de’ teatri» («un
niente gli esalta ed un niente gli atterra»). Una volta gli scrisse personalmente 60
perché l’impresario gli aveva chiesto di persuadere Carlo Broschi, il celebre
«Farinelli», ad accettare le condizioni proposte dallo stesso Cavanna per una scrittura.
Metastasio provò per due volte, ma invano: Broschi preferì andare a Venezia, dove
evidentemente Lalli lo pagava di più; e fece bene perché in quella stagione tutti i
teatri di Roma rimasero chiusi per una nuova «questione dei palchetti». Tanta
amicizia tra Metastasio e Cavanna sarà nata sull’onda dell’ottima stagione del 1730,
con le due opere nuove (l’Alessandro nell’Indie e l’Artaserse) accolte da gran
successo: poeta e impresario costituirono insieme a Vinci, che di entrambe le opere
fece la musica, un trio artistico-teatrale davvero ben affiatato. Ma forse, al di là della
collaborazione, c’era qualche cosa di più. Nel contratto del 31 gennaio 1729 con il
quale i proprietari del teatro delle Dame, rappresentati da Minucci, davano in
locazione il teatro per ben nove anni «a fine di farvi recitare opere regie in musica»
(contratto peraltro dettagliatissimo e ricco di documenti allegati ben al di là dell’uso
consueto di questi affitti teatrali), si nomina come locatore il solo «sig.r Francesco
Cavana figlio del quondam Domenico Milanese»; così pure la notizia è data dai
giornali dell’epoca. Invece Francesco Valesio, autore di un diario privato molto bene

re di libretti teatrali dell’epoca (un ruolo analogo ebbe a Venezia Marino Rossetti) e fece stampare
tutti quelli dell’Alibert dall’inaugurazione del teatro al 1732 (cfr. FRANCHI, Le impressioni sce-
niche cit., pp. 404-440, in particolare pp. 416, 434-437). Ma si sa, per Metastasio anche le preci-
se parole da lui medesimo fatte cantare sul palcoscenico dell’Alibert non costituivano una versio-
ne «autentica» e tanto meno definitiva, poiché pur sempre legate all’effimero della rappresenta-
zione teatrale con i condizionamenti di tutte le sue circostanze concrete.
59
Così per primo aveva notato Filippo Clementi (Il Carnevale romano nelle cronache contempo-
ranee, vol. II, Città di Castello, R.O.R.E.-Niruf, 1938, p. 42), osservazione poi ripresa e amplia-
ta da PIRROTTA, Metastasio cit., p. 28.
60
Lettera da Vienna del 24 maggio 1732 (Tutte le opere cit., vol. III, p. 64).

113
SAVERIO FRANCHI

informato e libero dalle pastoie della ufficialità, riferendo alla data del 3 febbraio
1729 l’avvenuto affitto novennale del teatro aggiunge che «gli nuovi impresari sono
Millesi, corriero di Venezia, Porzio, Cavana e Vinci». 61 Anche un altro documento
d’archivio si riferisce ad una obbligazione a favore di Cavanna e di suoi soci, non
citati però per nome. 62 Dunque Cavanna era rappresentante di una società per gestire
il teatro e i nomi dei soci riportati dal Valesio sono molto interessanti: mentre Andrea
Porzio era il legale di uno dei comproprietari (il gran priore dell’Ordine di Malta
Antonio Vaini) e forse figurava nella società per tutelare gli interessi del suo patrono,
Vinci non può non essere Leonardo Vinci, cioè il compositore che ormai dal 1724 era
presente in tutte le stagioni dell’Alibert. La sua presenza nella società di gestione
giustifica l’insolito fatto che nella stagione del 1730 entrambe le opere, contro il
costume dell’epoca, siano state poste in musica da un unico compositore, cioè dallo
stesso Vinci. Rimane lo sconosciuto Millesi, definito «corriero di Venezia». Questo
Millesi ricompare nell’epistolario di Metastasio, significativamente proprio nella
citata lettera dal poeta inviata a Cavanna («È qui il nostro Millesi, ma io lo vedo poco
perché sono occupatissimo, ed egli abita fuori città»). 63
Riflettendo su queste notizie si può provare a darne una interpretazione
complessiva. Innanzi tutto, se i comproprietari del teatro delle Dame avevano deciso
di darlo in gestione certo dovevano avere grande fiducia nell’affittuario; sembra
perciò strano che ad uno sconosciuto Cavanna, ammesso pure che fosse benestante e
quindi solvibile, si desse il teatro per il quale si erano fatti tanti sforzi e sacrifici senza
una precisa garanzia umana e artistica della sua serietà e capacità. Ma negli annali di
tutti i teatri d’Italia questo Cavanna è ignoto. Possibile che ci si fidasse di un
personaggio che fino ad allora non aveva mai fatto l’impresario teatrale? E ancora,
bisogna presupporre una assoluta convinzione da parte dei proprietari circa la bontà
del negozio, tanto da stipulare in fretta (la stagione 1729 era ancora in corso) un
contratto di ben nove anni, per di più rinnovabile tacitamente di altri tre anni in tre
anni al di là della scadenza. Ecco che la società ch’era dietro le spalle di Cavanna
giunge opportunamente a giustificare un comportamento dei proprietari che altrimenti
sembrerebbe improvvido (ma certo non era uno sprovveduto il finanziere Minucci,
che di lì a poco sarà nominato tesoriere dal nuovo papa Clemente XII e che come si è
già visto proprio per la sua oculatezza negli affari da «povero giovane di Livorno»
era divenuto uno dei maggiori capitalisti di Roma): la presenza dell’avvocato Porzio,
e per suo tramite del ricchissimo priore Vaini, era la migliore garanzia economica e
61
VALESIO, Diario cit., vol. V, p. 14.
62
Per questo documento, come per il contratto e le fonti giornalistiche coeve si veda FRANCHI,
Drammaturgia romana II cit., pp. LIII-LIV.
63
Lettera da Vienna del 24 maggio 1732 (Tutte le opere cit., vol. III, p. 64). Salvo la scempia
anziché la doppia elle nel cognome, costui ricompare ancora in una lettera del 28 settembre
1751 e sempre connotato da un possessivo: «Conviene perfettamente con l’idea che mi ha lascia-
ta del gentil suo costume l’obbligante attenzione del mio signor Milesi nel parteciparmi il suo feli-
ce arrivo in cotesta corte» (Tutte le opere cit., vol. III, p. 673). La lettera è inviata da Metastasio a
un abate Milesi, con tutta probabilità parente dell’omonimo di nostro interesse, che si era stabilito
a Dresda.

114
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

insieme un punto di controllo della proprietà (esercitabile con occhio giuridicamente


esperto) all’interno della stessa società di gestione; la presenza di Vinci garantiva
invece (come di fatto avvenne per la stagione 1730) la sicura collaborazione del
musicista di maggior successo, con tutti i vantaggi che ne derivavano nella scelta e
nell’ingaggio dei virtuosi di canto. Vinci era il compositore ideale per i drammi di
Metastasio, e Metastasio era stato il cavallo vincente sul quale i proprietari
dell’Alibert avevano puntato non appena il teatro nel 1725 era passato nelle loro
mani. Ma allora, si dirà, sarebbe stata garanzia ancora maggiore se nella società che
affiancava Cavanna ci fosse stato lo stesso Metastasio. Assicurarsi Metastasio e Vinci
per nove anni: un colpo magistrale. Metastasio non figura e invece troviamo il nome
del «corriero di Venezia» Millesi. Che ruolo poteva avere costui in una società
teatrale? Immaginiamo che questo Millesi fosse per così dire il prestanome del poeta.
Certo di ciò non vi è alcuna traccia nei documenti; ma per quanto azzardata l’ipotesi
non mi sembra da scartare, almeno in attesa di trovare qualche notizia in più sul
misterioso Millesi. L’ipotesi consente inoltre raccordi di qualche suggestione: nei
suoi rapporti riservati con Lalli e il teatro di S. Giovanni Grisostomo di chi si sarà
servito Metastasio se non appunto di un «corriero di Venezia»? Come mai scrivendo
a Cavanna dirà «il nostro Millesi»? «Nostro», dunque suo e di Cavanna; e ancora
vent’anni dopo lo chiamerà «il mio signor Milesi». Quando nel settembre 1729 seppe
di essere stato scelto dall’imperatore come poeta cesareo, Metastasio certo fu
lusingato dal riconoscimento, ma come egli stesso scrisse fu colto di sorpresa. Se
l’ipotesi proposta fosse veritiera, quella bella notizia veniva a scompigliare progetti di
lunga durata che lo legavano a Roma, progetti che peraltro possono giustificare la
totale rinunzia alle scene fatta dalla Bulgarelli. Come rispose Metastasio alla proposta
che Carlo VI gli aveva fatto su suggerimento di Zeno e di Marianna Pignatelli
contessa d’Althann? Chiese piuttosto sfacciatamente l’onorario di 4000 fiorini annui,
ch’era quello percepito da Zeno, più vecchio di lui di trent’anni. Ne ottenne 3000 e si
contentò, ma certo per meno a Vienna non sarebbe andato. Nella lettera di
accettazione, datata 3 novembre 1729, chiese però tempo per partire, giacché si
trattava della «variazione di tutte le misure mie», della necessità di «dar ordine
agl’interessi domestici [...] e, finalmente, per adempiere all’obbligo di mettere in
scena due miei drammi nuovi in questo teatro di Roma, contratto quando non ardiva
di augurarmi l’onore de’ comandi augustissimi». 64 Francamente sembra un cumulo di
pretesti: gli serve tempo, questo sì, ma qual’era la vera ragione? Un librettista
dell’epoca a novembre doveva aver già scritto i libretti per la stagione di carnevale; e
ammessa la necessità di qualche giorno in più avrebbe sempre potuto mandarli a
Roma per corriere. Proprio il corriere ci riporta l’ipotesi «azzardata»: se Millesi era
un prestanome o comunque il rappresentante di Metastasio nella società che aveva
preso in gestione il teatro delle Dame, allora sì che occorreva tempo per sciogliersi
dagli impegni, in ogni caso bisognava almeno attendere il felice esito della prima
delle nove stagioni previste.

64
Tutte le opere cit., vol. III, p. 48.

115
SAVERIO FRANCHI

Quando nel marzo 1730 Metastasio partì per Vienna l’intricato nodo
probabilmente non si era ancora sciolto. Questo spiegherebbe perché il 9 marzo, in
procinto di lasciare Roma, egli con atto del notaio Orsini abbia voluto conferire
un’amplissima procura generale alla Bulgarelli.65 Con la morte improvvisa e inattesa
di Vinci (28 maggio 1730) la società di Cavanna venne meno del tutto e forse
Metastasio, al di là delle espressioni affettuose e di stima per l’amico scomparso, tirò
un sospiro di sollievo. Le successive amichevoli preoccupazioni per i problemi
impresariali di Cavanna come pure la buona volontà nel provare a mandargli il
Farinelli nascondevano forse una dose di cattiva coscienza. Certo a Vienna non si
aspettavano che il poeta, al quale la proposta di nomina era stata mandata fin dal 31
agosto 1729, non avrebbe assunto servizio neppure in tempo per il carnevale 1730. Fu
così che come spettacolo di carnevale si dovette riprendere un’opera di molti anni
prima, La Verità nell’inganno, andata in scena il 5 febbraio nel teatro di corte. Fece
bene Metastasio, che giunse a Vienna il 17 aprile, a farsi almeno precedere dal
libretto della Passione di Gesù Cristo Signor Nostro, che fu il primo suo lavoro per la
corte imperiale. Nei primi versi che mirabilmente esprimono lo smarrimento di San
Pietro –
Dove son? Dove corro?
Chi regge i passi miei? Dopo il mio fallo
Non ritrovo più pace;
Fuggo gli sguardi altrui: vorrei celarmi
Fino a me stesso. In mille affetti ondeggia
La confusa alma mia. Sento i rimorsi,
Ascolto la pietade; a’ miei desiri
Sprone è la speme, è la dubbiezza inciampo:
Di tema agghiaccio, e di vergogna avvampo 66

– si può forse cogliere l’affanno di un altro «ingratissimo Pietro», il poeta stesso, in


un momento decisivo della sua vita. Se i rapporti con l’imperatore e la corte,
principiatisi con così poca sollecitudine, fossero andati per il peggio, se le opere da
scrivere a Vienna non fossero piaciute, quanto si sarebbe pentito di aver lasciato
Roma! Ma quella partenza aveva sciolto un altro nodo intricato: quello dei suoi
rapporti sentimentali. È inutile ripetere qui quanto altri hanno già egregiamente detto:
Metastasio andando a Vienna si liberò della Bulgarelli. Non la vedrà mai più.
Trincerandosi dietro la volontà dell’imperatore fu ben lieto che la donna non potesse
metter piede nelle terre dell’Impero e non venisse a turbare i delicati compiti del
poeta cesareo, peraltro sempre più confortato dall’altra e ben più potente Marianna, la
contessa d’Althann dama favorita dell’imperatrice. Certo a suo modo voleva bene

65
Archivio di Stato di Roma, Notai del Tribunale delle Acque e Strade, atti Francicus Nicolaus
Ursinus, vol. 142, cc. 55-56 e 80-81. All’atto, rogato nella casa della Bulgarelli al Corso all’angolo
di via Laurina, furono testimoni il poeta Giovanni Bernardino Pontici e un Carlo Mossi proba-
bilmente parente dei violinisti Bartolomeo e Giovanni Mossi.
66
Tutte le opere cit., vol. II, p. 551.

116
PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

alla Bulgarelli e non poteva non serbar riconoscenza a quella donna, a quell’artista
che di lui aveva fatto il più grande poeta teatrale d’ogni tempo. Ma la psicologia di
Metastasio («ingratissimo Pietro!») prendeva forme sottili di rimozione e di
dissimulazione, nella sua mente e forse nel suo «debole, ingrato cor» giocavano pesi
e contrappesi ch’egli stesso ignorava o voleva ignorare.
Perché la Bulgarelli non partì con lui? perché rimanere sola a Roma dove tra l’altro
non poteva cantare? perché poi, dopo soli tre mesi, mettersi in viaggio per
raggiungerlo a Vienna? Di nuovo l’azzardata conclusione della società impresariale
con Cavanna potrebbe spiegare tutto. Dapprima Marianna rimase a Roma per coprire
l’amato, che perciò le fece la procura generale; e a ciò probabilmente la Bulgarelli era
motivata dall’aver spinto Metastasio nel legarsi definitivamente a Roma, cioè a lei;
ma poi la morte di Vinci alla fine di maggio mandò definitivamente per aria la società
con Cavanna e allora ella si sentì libera di raggiungere a Vienna l’amato poeta. Ma
giunta a Venezia le fu proibito di proseguire. Non è escluso che in questa faccenda la
Bulgarelli per liberare Metastasio dagli impegni romani ci abbia rimesso di tasca
propria. Il nobile disinteresse con cui in futuro il poeta ne rifiuterà l’eredità (quando
ormai non ne aveva più bisogno) può nascondere questo ed altro. Certo, ogni
passaggio di questa fase biografica del poeta poteva recargli danni, fastidi, sconfitte;
invece tutto congiurò per il meglio e alle sue scelte di vita e di attività arrisero ogni
volta il successo, la tranquillità, la soddisfazione. Ben si applica allo stesso autore una
quartina del Demofoonte:
Tutto si muta in breve,
E il nostro stato è tale,
Che, se mutar si deve,
Sempre sarà miglior. 67

Nei decenni seguenti su questi fatti girava una singolare versione. Il sopranista
bergamasco Filippo Finazzi, che aveva interpretato Selene nell’edizione romana della
Didone abbandonata del 1726, narrava viaggiando per l’Europa centrale con la
compagnia Mingotti che quell’opera famosa era in realtà la storia stessa di Metastasio e
della Bulgarelli, con la cantante-regina che aveva raccolto a Cartagine (Napoli) l’«esule
infelice» poeta, ma che questi per il destino che lo chiamava nella futura sede dei Cesari
(in realtà all’autentica corte cesarea dell’epoca) l’aveva abbandonata ed ella ne era morta
di sdegno e di dolore. Non mancava neppure un tentato suicidio con un coltellino

67
Demofoonte, atto terzo, scena ottava (Tutte le opere cit., vol. I, p. 686). Proprio questi versi citerà
Metastasio stesso in una lettera al fratello, parlando della propria fortuna, che dal male volgeva le
cose al bene (lettera n. 108 del 7 aprile 1736, Tutte le opere cit., vol. III, p. 139). Il poeta aveva sul-
la propria vita idee ben chiare. Fa impressione leggere nella citata giovanile lettera da Napoli
del 23 dicembre 1719 come già a quell’epoca, quando nulla lo faceva presupporre, Metastasio
immaginava che, non potendo aver successo a Roma, lo avrebbe cercato a Vienna dove si sarebbe
stabilito («volendo io esentarmi di qui, e non potendo sperare in Roma alcun incamminamento
fin che dura questo vento, passerò ultra montes, per cercare ove far nido, e probabilmente a Vien-
na», Tutte le opere cit., vol. III, p. 21). E a Vienna andrà, dopo essersi tolto la soddisfazione di aver
pieno successo e «incamminamento» a Roma.

117
SAVERIO FRANCHI

quando ebbe ricevuto l’ordine di non entrare nei domini imperiali. Finazzi lavorò anche
ad Amburgo (1743-44, cantando da protagonista nell’Artaserse metastasiano) e così si
spiega come mai Lessing abbia accolto questa versione nel suo libro di memorie.68
Che la Didone, cioè il più grande successo della vita sia per Metastasio che per
Marianna, abbia poi determinato il destino dei due amanti è bella, suggestiva favola
propalata da un altro artista di teatro. Che ci sia stato un abbandono è fuor di dubbio,
ma vedere il razionalissimo e piuttosto egoista Metastasio nelle vesti del pius Aeneas,
l’eroe altruista e religioso, mosso da sogni e visioni fino alla discesa nell’aldilà, è
davvero una stonatura. Del resto anche la Bulgarelli nel ruolo di Didone rimase ben
lontana da Virgilio, come peraltro lontano ne resta tutto il melodramma metastasiano.
Ma qui ci soccorre un’osservazione critica desanctisiana:
La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da
impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di Didone qui trovi l’Armida del
Tasso messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca qui cede il posto alla donna
terrena come l’ha abbozzata il Tasso in questa delle sue creazioni la più popolare, una
vera orchestra da cui scappan fuori i più varii e concitati suoni della passione femminile,
tenerezze, malizie, smanie, furori. 69

Dunque Didone come Armida. E del personaggio di Armida la Bulgarelli era


davvero una specialista: giovanissima aveva cantato come protagonista in una
Armida abbandonata (Venezia, teatro S. Angelo, autunno 1707, poesia dell’abate
Francesco Silvani, musica di Giovanni Maria Ruggieri) e dodici anni dopo nella
stessa opera al Real Palazzo di Napoli (primo ottobre 1719, musica di Michele
Falco). A quell’epoca Metastasio viveva già a Napoli, né si può escludere che fosse
presente allo spettacolo.70 Ma in fondo questo non è determinante, perché comunque
fu dovuto a lei, la virtuosa di canto già innamorata del giovane poeta, se quel
capolavoro fu poi scritto e rappresentato, dando luogo a quella catena di eventi
biografici e artistici che hanno dato materia a questo contributo.

68
Così riferisce Enrico Celani (CELANI, Il primo amore cit., p. 259).
69
FRANCESCO DE SANCTIS, Pietro Metastasio, in La poesia cavalleresca e scritti vari, a cura di
Mario Petrini, Bari, Laterza, 1954, p. 202.
70
Sicuramente era nella «gran sala» del Palazzo Reale esattamente un anno dopo, per la rappresen-
tazione del Tito Manlio (primo ottobre 1720), della quale riferisce l’esito sfavorevole all’avvocato
d‘Aguirre (lettera da Napoli del 29 ottobre 1720, Tutte le opere cit., vol. III, p. 33). Anche nel Tito
Manlio prima donna era la Bulgarelli, e Metastasio si mostra molto interessato alle vicende teatrali
malgrado parli di «noiosissimo soggiorno».

118
Stefania Onesti

MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA.


CONTINUITÀ O ROTTURA?

Dopo aver lavorato in Italia (tra Venezia, Firenze, Roma e altre città), Antonio Muz-
zarelli si trasferisce a Vienna nel 1791, dove resta fino al 1803, a parte per una pausa
tra il 1796 e il 1799. 1 Al volgere del nuovo secolo presenta a Vienna La danzatrice
ateniese, nel 1802, e dopo sporadiche apparizioni in Italia (1804, Firenze e Bologna;
1807 Torino; 1810 Venezia), vi ritorna per proporre l’ultima sua produzione a noi no-
ta, Gustavo Vasa del 1811, e trascorrervi gli ultimi anni di vita, fino alla morte, so-
praggiunta nel 1821. 2
Nella capitale austriaca, affiancato dalla moglie, Antonia Vulcani, e dal fratello di
quest’ultima, Andrea Vulcani, ripropone, almeno per i primi anni, titoli già collaudati
del suo repertorio. In lui testimoni come Cornelius von Ayrenoff3 e il conte Zinzen-
dorf 4 vedono rinascere il balletto secondo lo stile e il gusto noverriani, ma la sua for-
mazione e attività in Italia, oltre che a Vienna, lasciano trasparire anche altro. Antici-
piamo le nostre conclusioni: diversamente da quanto Ayrenoff e Zinzendorf scrivono,
a noi pare che Muzzarelli sappia accogliere gli aspetti migliori tanto di Noverre quan-
to di Angiolini, dei quali è un conoscitore. E non ci pare affatto che introduca grandi
differenze nei suoi balletti quando lavora nella capitale austriaca rispetto a quando al-
lestisce i suoi spettacoli in Italia, circostanza del resto comprensibile quando si con-
stati come i grandi coreografi del tempo sono estremamente mobili, essendo ingag-
giati da diverse capitali europee dello spettacolo e dunque possono trarre ispirazione
da diversi artisti e da varie modalità rappresentative.
Forse, l’unico cambiamento di un certo peso nell’opera di Muzzarelli nel passaggio
dall’Italia a Vienna riguarda i soggetti rappresentati, “selezionati” e adattati, presu-
mibilmente, in risposta alle aspettative di un pubblico inevitabilmente diverso: un

1
Su Antonio Muzzarelli cfr. JOHN ARTHUR RICE, Muzzarelli, Koželuh e La ritrovata figlia di Otto-
ne II (1794): il balletto viennese rinato nello spirito di Noverre, «Nuova rivista musicale italiana»
1, gennaio-marzo 1990, pp. 1-46; STEFANIA ONESTI, Di passi, di storie e di passioni. Teorie e prati-
che del ballo teatrale nel secondo Settecento italiano, Torino, Accademia University Press, 2016, in
particolare le pp. 149-164 a lui dedicate.
2
Per una biografia maggiormente dettagliata cfr. la voce Muzzarelli, Antonio curata da RITA ZAM-
BON per il Dizionario Biografico degli Italiani: <http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-
muzzarelli_(Dizionario-Biografico)> (ultima consultazione 5 gennaio 2019).
3
Al confronto fra Muzzarelli, Noverre e il giovane Salvatore Viganò, Ayrenoff dedica un intero
scritto: Uber die theatralischen tanze, und die balletmeister Noverre, Muzzarelli und Viganò, edito
a Vienna nel 1794.
4
Dopo aver assistito all’Ines de Castro, Vienna 1791, Zinzendorf scrive: «Ce dernier est dans le
gout des ballets de Noverre, les habillemens magnifiques, les decorations belles». Vienna, Haus-,
Hof-, und Staatsarchiv, Diario del Conte Zinzendorf, 15 e 19 novembre 1791, citato in RICE, Muz-
zarelli, Koželuh e La ritrovata figlia di Ottone II cit., p. 11. Su Zinzendorf cfr. DOROTHEA LINK, Vi-
enna’s Private Theatrical and Musical Life, 1783-92, as Reported by Count Karl Zinzendorf,
«Journal of the Royal Musical Association» 122/2, 1997, pp. 205-257.

119
STEFANIA ONESTI

pubblico “popolare” in Italia, un pubblico di corte a Vienna.5 Se in Italia le preferen-


ze di Muzzarelli sembrano orientate soprattutto verso soggetti di ispirazione letteraria
e a lui “contemporanea” (attinge a Voltaire e a Goldoni, per esempio), a Vienna più
spesso (e comunque non esclusivamente) si concentra su soggetti di ispirazione mito-
logica e relativi alla storia del passato. Quindi accanto a titoli come Il capitano Cook
all’isola degli Ottaiti, ispirato alle vicende dell’esploratore britannico James Cook, e
a La ritrovata figlia di Ottone (conosciuto anche come L’Adelasia), 6 rappresenta an-
che Ines de Castro, Arminio ossia La sconfitta di Varo, Il ratto d’Elena, L’incendio e
la distruzione di Troia, La danzatrice ateniese, fino ad arrivare a Gustavo Vasa (vedi
tabella 1).
A questo sembrano limitarsi le differenze tra i balli italiani e austriaci. Tutte le altre
caratteristiche tipiche dell’opera di Muzzarelli paiono ritrovarsi nei due paesi.
La prima: i personaggi, che siano figure del popolo o regali, sono latori di azioni
pervase da sentimenti che appartengono a tutti, come diversi indizi fanno supporre. In
primo luogo, presentando al pubblico veneziano una delle versioni dell’Adelasia,
Muzzarelli osserva come il suo primo intento sia stato di «richiamare colle voci della
natura il core umano» e «interessarlo con la vivacità degli spettacoli»;7 sostanzial-
mente, nell’Adelasia mette in scena il contrasto di passioni che animano la protagoni-
sta divisa fra i doveri di figlia e di sposa. Non molto differente quanto Muzzarelli
scrive sul ballo Igor primo Zar di Moscovia, rappresentato al San Benedetto di Vene-
zia nel carnevale 1786.
La semplicità del medesimo [ballo] m’ha fatto esitare qualche poco sulla scelta. Privo di
spettacolose morti, dello squallore delle carceri, di furie, e strepitosi avvenimenti, ho
dubitato, che si scostasse dal consueto. Rammentandomi per altro, che l’esponevo ad un
pubblico illuminato, e sensibile, ho creduto più opportuno eccitare i moti dell’anima
coll’interesse delle più naturali passioni, che sorprenderlo cogli eccessi del furore, e del-
la barbarie. 8

Analoghe le ragioni che guidano Muzzarelli nella messa in scena del Beverlei o sia
il giuocatore inglese, in cui sono protagonisti gli «avvenimenti lagrimevoli a’ quali è
ridotta una infelice privata famiglia» 9 (Venezia, 1787). In vicende di questo tipo il
5
Sulla vita teatrale viennese del periodo cfr. almeno DOROTHEA LINK, The National Court Theatre
in Mozart’s Vienna: sources and documents 1783-1792, Oxford, Clarendon Press, 1998.
6
Sull’Adelasia in particolare cfr. STEFANIA ONESTI, L’Adelasia di Antonio Muzzarelli. il ballo e le
sue fonti tra poetica e prassi scenica, «Studi Goldoniani» XIII/5 n.s., 2016, pp. 127-135.
7
ANTONIO MUZZARELLI, Ottone II Imperatore d’Alemagna. Ballo eroico pantomimo, in FRANCE-
SCO SALVINI, Il Ricimero. Drama per musica da rappresentarsi nel nobilissimo teatro di San Bene-
detto la fiera dell’Ascensione dell’anno 1785, in Venezia, appresso Modesto Fenzo, 1785, p. 23.
8
ANTONIO MUZZARELLI, Gli amori d’Igor Primo Zar di Moscovia. Ballo eroico pantomimo
d’invenzione, e direzione del signor Antonio Muzzarelli esposto per la prima volta nel nobilissimo
teatro di San Benedetto, in MARCO COLTELLINI, Ifigenia in Tauride. Dramma per musica da rap-
presentarsi nel nobilissimo teatro di S. Benedetto il carnovale dell’anno 1786, in Venezia, presso
Modesto Fenzo, 1786, p. 26.
9
ANTONIO MUZZARELLI, Ballo primo. Il Beverlei o sia Il giuocatore inglese, in [GIOVANNI BERTA-
TI], Il nuovo convitato di pietra. Dramma tragicomico da rappresentarsi nel nobile teatro di San
Samuele il carnovale dell’anno 1787, in Venezia, appresso Modesto Fenzo, 1787, p. 38.

120
MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA

pubblico può riconoscersi e identificarsi: esse colpiscono la sensibilità degli spettatori


attraverso le storie dei loro protagonisti.
Altrettanto vale per i balli ottocenteschi di Muzzarelli. La danzatrice ateniese
(Vienna, 1802),10 prende le mosse da un contrasto di passioni universalmente noto: si
narra sostanzialmente dell’amore contrastato tra la giovane Cyane e Filinto. La sua
nutrice, Afrodisia, vorrebbe che ella sposasse un pretendente ricco ma detestabile,
mentre la giovane si innamora dello spasimante povero.
Gustavo Vasa, allestito nel 1811,11 inizia invece con l’occupazione, da parte di
Cristierno re di Danimarca, del trono svedese e racconta le gesta di Gustavo Vasa, le-
gittimo successore al trono, per la riconquista del potere. Sebbene non vi sia
un’ambientazione bucolica, Muzzarelli non tralascia di inserire personaggi umili, dei
minatori, per conferire alla vicenda maggiore “umanità” e universalità e per fare del
protagonista un liberatore dall’oppressione del re straniero, acclamato dal popolo. I
minatori infatti accompagnano Gustavo nell’impresa e gli manifestano tutto il loro
appoggio divenendo il suo esercito e aiutandolo a deporre Cristierno, il re usurpatore.
Un’azione che fa perno sui sentimenti, piuttosto che su messe in scena spettacolari.
Più rari in Italia sono i balli muzzarelliani di argomento mitologico, come il Casto-
re e Polluce andato in scena a Faenza nel 1788. 12 In questi casi, che significativamen-
te sono ripresi anche a Vienna (nella fattispecie, nel 1792), 13 le macchine volanti e le
scenografie sono particolarmente ricche e articolate: le divinità ascendono al cielo,
appaiono carri infernali attraverso non meglio precisate magie, le Furie e la Discordia
compaiono come personaggi. Infine, nell’ultima scena vi è una vera e propria tra-
sformazione a vista con Giove che «scende maestosamente dal cielo» trasfigurando
l’atrio del palazzo di Leucippo nella sua reggia.14 Si tratta di un allestimento com-
plesso e con personaggi che sono la personificazione di passioni (le Furie, la Discor-
dia, ecc.). una pratica quest’ultima di influenza noverriana. Come è noto, Angiolini
critica apertamente il suo rivale francese su questo punto.
Per lo più questi balli di argomento mitologico nascono a Vienna, come nel caso di
Coreso e Calliroe, datato 1795.15 Anche in questo caso il ballo termina con un prodi-
gio ad opera di Bacco che rende la vita a Coreso e permette il lieto fine, contraria-
10
ANTONIO MUZZARELLI, La danzatrice ateniese. Ballo serio in cinque atti inventato e diretto da
Antonio Muzzarelli, maestro di ballo presso la corte imperiale, Vienna, presso Mattia Andrea Sch-
midt, 1802.
11
ANTONIO MUZZARELLI, Gustavo Vasa. Ballo in cinque atti. Invenzione e composizione di Antonio
Muzzarelli, Maestro di Ballo dell’I. e R. Corte, Vienna, presso Giov. Batta Wallischausser, 1811.
12
[ANTONIO MUZZARELLI], Castore e Polluce, in EUSTACHIO MANFREDI, Cajo Ostilio. Dramma se-
rio per musica di Eustachio Manfredi bolognese, da rappresentarsi nella primavera dell’anno 1788
in occasione dell’apertura del nuovo teatro di Faenza, in Faenza, nella Stamperia dell’Archi, 1788,
pp. 47-52.
13
[ANTONIO MUZZARELLI], Castore e Polluce. Ballo eroico pantomimo da rappresentarsi nelli im-
periali teatri di Vienna. Composto da Antonio Muzzarelli, in Vienna, [s.e.], 1792.
14
Ivi, p. 30.
15
[ANTONIO MUZZARELLI], Coreso e Calliroe. Ballo eroico di nuova invenzione e composizione di
Antonio Muzzarelli, in PIETRO METASTASIO, Achille in Sciro. Dramma per musica da rappresentar-
si nelli reg. imper. teatri di corte l’anno 1795, Vienna, presso Mattia Andrea Schmidt, [1795], pp.
45-60.

121
STEFANIA ONESTI

mente alla vicenda mitologica originaria da cui il coreografo trae ispirazione: «Ma
all’improvviso trasformasi il bosco nella Reggia di Bacco. Comparisce Coreso pieno
di vita. Calliroe è immersa nel più soave delirio, mentre l’ammirazione e l’allegrezza
s’impadroniscono di tutti i cuori». 16
È del tutto verosimile che in un teatro di corte, com’è quello di Vienna, scenografie
e costumi siano più lussuosi e costosi dati i fondi più cospicui di cui si può usufruire,
ma, stando alle testimonianze del tempo, Muzzarelli, a prescindere dalla sontuosità e
ricchezza dei coefficienti scenici, è attento alla loro armonizzazione fin dai tempi ita-
liani: dal vestiario alla disposizione delle figure, alla scenografia. L’idea del balletto
come un evento scenico coerente, in cui ogni parte viene messa in relazione con il
tutto, aspirazione che percorre le Lettres noverriane tanto quanto le intenzioni di An-
giolini, sembra trovare riscontro nei resoconti relativi alle messinscene di Muzzarelli
tanto in Italia quanto in Austria. A proposito del ballo Le amazzoni (Firenze, 1779 ma
ipotizziamo anche Vienna 1790) leggiamo che «il vestiario, l’esecuzione, la disposi-
zione delle figure, l’armonia, e lo scenario» suscitano tanta ammirazione da produrre
incessanti applausi. Il ballo viene percepito per l’insieme dei coefficienti che il co-
reografo ha saputo gestire bene sulla scena «ripieno di bellezza e magnificenza».17
Per i balli dati alla Pergola nel 1783 viene lodata la capacità del coreografo di costrui-
re lo sviluppo dell’azione che risulta dinamica nel suo svolgimento, ma allo stesso
tempo ben eseguita e precisa: «Il primo ballerino, che ha inventata e diretta una tal
rappresentanza, non ha lasciato di porre in vaga forma tuttociò dovea conferire allo
sviluppo dello spettacolo, essendo esso eseguito con la massima precisione e con tutti
quelli abbellimenti, e varietà di scena, che facilmente s’insinuano, ed appagano, per-
ché vivamente colpiscono la fantasia degli spettatori». 18 Per l’Adelasia leggiamo che
il ballo «per la forza dell’espressione, vivezza dei quadri, ed aggiustatezza di decora-
zione richiama singolarmente l’attenzione di coloro che intendono la bellezza
dell’arte mimica». 19
Strettamente connessa a questa caratteristica è la capacità di Muzzarelli di costruire
lo sviluppo dell’azione in modo unitario e coinvolgente. Ayrenhoff, a tal proposito,
dichiara che il coreografo dovrebbe mantenere un’«unità di intenti», vale a dire che
«ogni scena dovrebbe contribuire al raggiungimento di un singolo obiettivo»20 por-
tando appunto l’Adelasia di Muzzarelli come massimo esempio e parafrasando uno
degli assunti principali delle Lettres di Noverre. In questo lavoro ogni scena è colle-
gata alla successiva e l’alternanza di scene pantomimiche e d’insieme è magistral-
mente orchestrata. Analogo ragionamento potremmo fare per Gustavo Vasa. Costrui-
to sulla medesima struttura dell’Adelasia, presenta una concatenazione convincente

16
Ivi, p. 58.
17
«Gazzetta Toscana» n. 18, 1779, Firenze 1 maggio, p. 71.
18
Ivi n. 1, 1783, Firenze 4 gennaio, p. 2.
19
Ivi n. 30, 1777, Siena 19 luglio, p. 119.
20
CORNELIUS VON AYRENHOFF, Uber die theatralischen tanze, und die balletmeister Noverre, Muz-
zarelli und Viganò, Wien, [s.e.], 1794, citato in JOHN ARTHUR RICE, Emperor and Impresario: Leo-
pold II and the transformation of Viennese musical theatre, 1790-1792, Ph.D, University of Cali-
fornia, Berkley, 1987, p. 214. Le traduzioni dall’inglese si devono a chi scrive.

122
MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA

di quadri che conducono tutti alla soluzione finale del dramma. Tutta l’azione si
svolge tra Stoccolma e le sue vicinanze, alternando scene all’esterno e all’interno del
palazzo o della città. Ai duetti dei personaggi spetta il compito di portare avanti
l’azione, mentre il “corpo di ballo” celebra determinati passaggi narrativi attraverso
azioni d’insieme maggiormente danzate.
Se ciò è poi concretamente realizzato in scena, è per l’abilità di Muzzarelli di im-
piegare la pantomima nelle cui possibilità espressive il coreografo crede fino alla fi-
ne, come osserva nel programma di sala della Danzatrice ateniese, data a Vienna nel
1802: in «quel semplice insieme e finissimo ritrovato d’insinuare nell’animo altrui il
vivo sentimento di tutte le passioni umane senza servirsi della parola, quella muta e
viva eloquenza, che fedele imitatrice della natura sa rappresentare all’attonito spetta-
tore colle tinte più vivaci d’una pittura animata il quadro delle vicende più strepito-
se». 21 Scopo nascosto del ballo La danzatrice ateniese, sembra infatti essere quello di
rendere omaggio alla danza pantomima, erede, secondo Muzzarelli, della danza anti-
ca greca, come leggiamo dall’Avviso del programma, oltre che di istituire un parago-
ne tra la cultura dell’antichità classica e quella viennese del tempo 22. E in effetti sin
dalla prima scena intuiamo come l’assolo della danzatrice sia volto a dimostrare le
potenzialità e capacità espressive del linguaggio coreutico pantomimo.
Si presenta qui allora anche la Danzatrice Cyane, seguita dai suoi amanti Nicandro e Fi-
linto, ed Anassagora fa distinguere a Pericle la sua abilità, che seppe sublimar la danza
fino ad esprimere le misurate regole della geometria, gli orrori della tragedia, i vezzi
della commedia, e le varie attitudini della scoltura. Queste prove rendono tutti incantati,
ed impegnano Pericle ed Aspasia a protegger Cyane. 23

La fiducia nelle capacità espressive della pantomima è condivisa da Muzzarelli


tanto con Noverre, quanto con Angiolini. Anche se in realtà Noverre nell’edizione del
1803 delle sue Lettere avanzerà dubbi e perplessità sulla possibilità di imitare il lin-
guaggio pantomimico antico, esprimendo un punto di vista più critico e meno fidu-
cioso a tal riguardo.
Secondo Corenlius von Ayrenoff, Muzzarelli è particolarmente apprezzato anche
per la capacità di innestare felicemente la danza all’interno dell’azione pantomima,
senza interrompere quest’ultima ma, al contrario, rinforzandola, rendendola «parlan-
te», per utilizzare una locuzione cara ad Angiolini, e funzionale all’espressione dei
sentimenti dei protagonisti. Ecco cosa afferma a proposito della Ritrovata figlia di
Ottone II ovvero L’Adelasia (Vienna, 1794) e di Ines de Castro (Vienna, 1792):
Quando, nel secondo atto di Ottone, la regina e sua figlia danzano, ciò accade perché
sopraffatte da sentimenti di gioia e per dare il benvenuto nel campo all’imperatore.

21
MUZZARELLI, La danzatrice ateniese cit., p. 5.
22
Ivi, p. 8. Sul rapporto fra il ballo pantomimo e la saltatione antica cfr. CATERINA PAGNINI, Dalla
Pantomima classica al ballet d’action, «Mantichora» 7, 2017, pp. 158-169 e ISMENE LADA RI-
CHARDS, Dead but not Extinct: on Reinventing Pantomime Dancing in Eighteenth-century England
and France, in Fiona Macintosh (ed. by), The Ancient Dancer in the Modern World. Responses to
Greek and Roman Dance, Oxford, OUP, 2010, pp. 19-38.
23
MUZZARELLI, La danzatrice ateniese cit., p. 20.

123
STEFANIA ONESTI

L’azione tragica non è interrotta dunque, dal momento che la sua esposizione ha avuto
luogo nell’atto precedente; adesso è ferma, fino a che l’imperatore ritorna dalla caccia
con i suoi prigionieri. Alla fine della scena della prigione in Ines, la breve danza per tutti
coloro che sono in scena è come una effettiva espressione del loro piacere e della ricon-
ciliazione e della grazia del re. 24

Anche per L’incendio e la distruzione di Troia (Vienna, 1796), terza scena del
primo atto, la danza assume questa funzione: «Menelao è cinto dai suoi alleati. Cia-
scuno gli contesta la brama di seco dividere i di lui torti, e in una danza analoga
esprimono il piacere di vendicarli». 25 Così come sembrano particolarmente integrate
all’azione le danze all’interno dell’Impostore punito, andato in scena in Italia nel
1787 26 e a Vienna nel 1793. 27 In quasi tutti gli atti il coreografo trova il modo di inne-
stare dei momenti ballati che sottolineano il particolare carattere dell’azione in corso.
Per esempio, nel primo atto una «divota danza» accompagna la discesa della Dea a
cui tutti gli astanti si prostrano; 28 alla proclamazione della legge dell’impostore che
ammette la poligamia, il «giubilo generale» si trasforma in un ballo connotato in sen-
so maggiormente gioioso. 29 Nel terzo atto una danza definita «voluttuosa» 30 distrae
Selimo, il figlio del re, dalle trame dell’impostore Barach; mentre nel quarto atto l’a
solo ballato di Zelica serve a manifestare l’indecisione tra «l’amore verso Selimo, e la
venerazione per l’impostore». 31 Anche nei balli ottocenteschi permane questa caratte-
ristica, come dimostra la già citata prima scena della Danzatrice ateniese.
La chiarezza con cui il coreografo conduce e sviluppa gli episodi dei suoi balli riu-
scendo ad innestarvi felicemente danza e pantomima in Italia quanto a Vienna, gli
valgono una significativa definizione: «In quest’arte considererei Muzzarelli il Mi-
chelangelo della pantomima, mentre riterrei il forse più corretto ma meno ispirato
Noverre il suo Raffaello». 32
Muzzarelli dimostra, inoltre, di utilizzare con particolare maestria i danzatori grot-
teschi, com’è noto non particolarmente amati da Noverre e invece assai apprezzati da
Angiolini, innestandoli nelle azioni del ballo in modo, sembrerebbe, equilibrato. Nel-
24
AYRENHOFF, Uber die theatralische tanze, citato in RICE, Emperor and Impresario cit., p. 218. I
corsivi sono di chi scrive.
25
[ANTONIO MUZZARELLI], L’incendio e la distruzione di Troia. Ballo eroico-tragico in cinque atti
inventato e composto da Antonio Muzzarelli e rappresentato sugl’imperiali teatri di corte, Vienna,
presso Mattia Andrea Schmidt, [1796], p. 14.
26
[ID.], Ballo primo. L’impostore punito. Ballo tragico pantomimo composto ed eseguito dal signor
Antonio Muzzarelli nel nobil teatro di S. Samuele in Venezia il carnevale dell’anno 1787, in GIO-
VANNI GREPPI, Castrini padre e figlio. Dramma giocoso per musica di Florimondo Ermionèo P.A.,
da rappresentarsi nel nobile teatro di San Samuele il carnevale dell’anno 1787, in Venezia, appres-
so Modesto Fenzo, 1787, pp. 47-49.
27
[ID.], L’impostore punito. Ballo tragico-pantomimo in cinque atti da rappresentarsi
negl’imperiali teatri di Vienna. Composto da Antonio Muzzarelli in attual servizio di S.M.I., in
Vienna, [s.e.], 1793.
28
Ivi, p. 11.
29
Ibidem.
30
Ivi, p. 18.
31
Ivi, p. 22.
32
AYRENHOFF, Uber die theatralische tanze, citato in RICE, Emperor and Impresario cit., p. 220.

124
MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA

la Ritrovata figlia di Ottone II, il primo atto si apre su una scena bucolica in cui i due
protagonisti sono affaccendati in diversi lavori campestri insieme ad altri contadini,
interpretati da danzatori grotteschi. Tutti insieme danno vita ad una scena corale co-
reografata. Ayrenoff a tal proposito afferma:
È evidente quanto siano utili questi personaggi […] dove come contadini hanno una
parte ampia e attiva nell’azione. […] Desidero vedere banditi dalla pantomima eroica
solo le acrobazie dei grotteschi, ciò nonostante Muzzarelli sa quando introdurli nella
maniera più opportuna, nel momento in cui non interrompono l’azione tragica, come,
per esempio, nell’Ines, quando sono introdotti prima dell’inizio dell’azione, e in Ottone,
quando vengono inseriti dopo la sua conclusione. 33

L’ultima scena del ballo vede rientrare i contadini del primo atto che accorrono per
festeggiare la riconciliazione fra Adelasia e il padre. La prima scena di Ines de Castro
(Vienna 1791) si apre con una marcia trionfale che celebra le vittorie di Don Pedro,
figlio del re di Portogallo Don Alfonso. Tra i vari prigionieri vi sono degli schiavi
africani che, come apprendiamo dal libretto, sono interpretati da danzatori grotteschi.
Anche in Gustavo Vasa possiamo ipotizzare un impiego di tale tipologia di inter-
preti. Come nell’Adelasia, il protagonista è travestito da paesano e si trova tra mina-
tori intenti ai loro diversi impieghi. La scena dà luogo ad una danza ordinata dal capo
dei minatori ai suoi uomini e alle donne presenti. Le fonti non permettono un riscon-
tro puntuale; tuttavia presumiamo che anche in questo caso quelle dei minatori siano
parti affidate ai grotteschi. Se così fosse, tali interpreti risulterebbero integrati lungo
tutto il corso dell’azione, partecipando anche alla danza di festeggiamento finale che
«spiega la pubblica gioia, nella quale la corte permette che si frammischino i buoni
minatori». 34 Un passaggio che, a nostro parere, avvalora la commistione di ballerini
seri (probabilmente i protagonisti e gli stessi cortigiani) e grotteschi (i minatori)
all’interno della stessa scena.
Se i danzatori italiani sono particolarmente forti nei caratteri grotteschi e se la
troupe viennese di Muzzarelli è composta principalmente da italiani, sembra inevita-
bile che, almeno sotto questo aspetto, le coreografie di Muzzarelli a Vienna siano
contraddistinte da un preciso contrassegno italianizzante. Per il resto, si può afferma-
re che più numerosi (ma non esclusivi) sono i balli relativi alla storia passata e di ar-
gomento mitologico e che probabilmente per le scenografie, le macchine sceniche e i
costumi c’è una maggiore disponibilità economica e dunque sono più lussuosi e ric-
chi. Per il resto, le differenze nei balli italiani e austriaci non paiono particolarmente
rilevanti. Piuttosto, sembra di poter affermare che c’è una significativa continuità nel-
la produzione di Muzzarelli.

33
Ivi, p. 219.
34
MUZZARELLI, Gustavo Vasa cit., pp. 31-32.

125
STEFANIA ONESTI

APPENDICE

Tabella

I balli di Muzzarelli a Vienna

La tabella tiene traccia dei balli di Muzzarelli messi in scena a Vienna tra il 1791 e il 1811. Al tito-
lo, prima colonna, seguono le date delle rappresentazioni viennesi e italiane (laddove presenti), ri-
spettivamente seconda e terza colonna. Per redigerla sono stati utilizzati i libretti dei balli e il primo
volume del testo di Franz Hadamovsky, Die Wiener Hoftheater (Staatstheater) 1776-1966. Verzei-
chnis der aufgeführten stüche mit bestandsnachweis und täglichem spielplan. 35 I titoli contrassegna-
ti da asterisco sono quelli per cui è stato possibile rintracciare il libretto viennese. Tali fonti, solita-
mente, riportano il testo italiano con quello tedesco a fronte. Alcune corrispondenze fra le produ-
zioni italiane e viennesi sono date come ipotesi e, per questo, inserite tra parentesi quadre.

Titolo Rappresentazioni viennesi Rappresentazioni italiane


(Burgtheater)
Il capitano Cook all’isola 1791 e 1792 Venezia, 1786 - Parma e Mi-
degli Ottaiti* lano, 1789 - Roma, 1790
Ines de Castro* 1791 e 1792 Mantova, 1786

La capricciosa umiliata 1792 Venezia, 1786 - Firenze, 1788

Arminio ossia La Sconfitta 1792 –


di Varo*
La forza del bel sesso 1792 Faenza, 1788

Vogelstelle 1792 –

Castore e Polluce* 1792 Faenza, 1788

Jahrmarkt [I diveritmen- 1793 [Senigallia, 1783]


ti?] 36
I volontari / Die freiwilli- 1793 Parma, 1789
gen
L’impostore punito 1793 Venezia, 1787
Diana und Endymion 1793 –

35
FRANZ HADAMOVSKY, Die Wiener Hoftheater (Staatstheater) 1776-1966. Verzeichnis der
aufgeführten stüche mit bestandsnachweis und täglichem spielplan, teil 1, 1776-1810, Wien, Georg
Prachner Verlag, 1966.
36
Nel 1783 al teatro di Senigallia Muzzarelli presenta come secondo ballo I falsi minori, o sieno I
divertimenti. Dal momento che in entrambi i casi non possediamo alcun soggetto o argomento del
ballo, ipotizziamo sulla base del titolo che possa trattarsi di un riadattamento dello stesso lavoro.
Cfr. GIOVANNI DE GAMERRA, Medonte re dell’Epiro. Dramma per musica da rappresentarsi nel
teatro dei cinque sigg. condomini di Sinigallia in occasione della fiera del corrente anno 1783, in
Firenze, nella stamperia Bonducciana, 1783, p. 10.

126
MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA

Il giudice del proprio erro- 1793 Torino, 1807


re
L’Adelasia* 1794 Genova, 1777 - Bologna,
1777 - Mantova, 1778 - Mila-
no, 1779 - Palermo, 1780 - Fi-
renze, 1782 - Venezia, 1785 -
Brescia, 1786
La sconfitta delle amazzo- 1794 Milano, 1779
ni 37
Das Sinnbild des 1794 –
menschlichen lebens
Die Zigeuner 1794 –
Die Müller 1794 –
Die reue des Pygmalion 1794 –
Die Weinlese 1794 –
Coreso e Calliroe* 1795 –
Il ratto d’Elena* 1795 Bologna, 1804 - Padova, 1808
Die Unterhaltung auf dem 1795 –
lande
Der Mondsuchtige 1795 –
L’incendio e la distruzione 1796 –
di Troia*
La danzatrice ateniese* 1802 –
Alceste* – Venezia, 1810
Gustavo Wasa* 1811 –

37
I balli che hanno per protagoniste le amazzoni sono molto comuni nella seconda metà del Sette-
cento. Muzzarelli ne presenta diversi: La sconfitta delle amazzoni, Le amazzoni (Firenze, 1779);
L’amazzone moderna (Brescia, 1786; Roma, 1790; Torino, 1790). Per un quadro maggiormente
completo delle produzioni di Muzzarelli in Italia cfr. ONESTI, Di passi, di storie e di passioni cit.,
pp. 152-156.

127
128
TESI
____________________________________________________________________

Maria Cristina D’Alessandro

LA MONODIA ACCOMPAGNATA
E L’INTRODUZIONE DEL GENERE RAPPRESENTATIVO
A NAPOLI TRA LA FINE DEL CINQUECENTO
E LA PRIMA METÀ DEL SEICENTO

Il periodo di passaggio tra Cinquecento e Seicento costituì una svolta decisiva per la
storia della musica: si chiuse definitivamente l’epoca rinascimentale e iniziò il nuovo
mondo “barocco”; le conseguenze di tale transizione furono molteplici e travolsero le
modalità di produzione e fruizione della musica stessa, nonché le scelte stilistiche e
armoniche. Prima fra tutte fu la necessità di utilizzare un nuovo tipo di struttura mu-
sicale, individuata nella monodia con basso continuo, che scavalcò quasi del tutto il
tradizionale stile polifonico-contrappuntistico in quanto risultava molto più adatta ad
esprimere «il contenuto emozionale (e non soltanto il significato letterale) del testo
poetico a cui era associata»: 1 la musica iniziava concretamente a porsi a servizio della
parola per trarre da essa una maggiore intensità espressiva. Non a caso Claudio Mon-
teverdi diede un’autorevole svolta alla cosiddetta “seconda prattica”, secondo la quale
nell’«uso moderno», «l’armonia […] diventa serva al oratione, e l’oratione padrona
del armonia», come sosteneva già Vincenzo Calmeta a inizio Cinquecento. 2
In secondo luogo, la musica monodica veniva arricchita grazie al nuovo stile con-
certante, che consisteva nel “mettere d’accordo” diversi elementi, quali voci e stru-
menti, oppure gruppi di voci, o insieme di strumenti. Una terza importante esigenza
fu, invece, la tendenza alla rappresentatività in musica, ossia la propensione ad essere
spettatori di vicende teatrali illustrate musicalmente: è doveroso non dare per scontato
la presenza di un pubblico, in quanto nel Cinquecento coloro che assistevano ad
un’esecuzione musicale erano semplici ascoltatori di una musica quasi sempre fun-
zionale ad altri scopi e non fine a se stessa, come nel caso della musica cerimoniale –
in cui essi erano i protagonisti della cerimonia stessa – o per quanto riguardava la
musica per danza o per i banchetti, in cui essi erano coloro che danzavano o parteci-
pavano ai banchetti stessi. D’altronde, non si può parlare di “pubblico” vero e pro-
prio, secondo l’accezione moderna del termine, fino all’apertura all’opera, nel 1637,
del Teatro San Cassiano a Venezia che determinò la nascita della cosiddetta opera

1
MARIO CARROZZO – CRISTINA CIMAGALLI, Storia della musica occidentale, 3 voll., Roma, Ar-
mando Editore, 1998, II, p. 12.
2
Cfr. VINCENZO CALMETA, Prose e lettere edite e inedite, a cura di Cecil Grayson, Bologna, Com-
missione per i testi di lingua, 1959, p. 2.

129
MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

impresariale con la conseguenza di un pubblico di persone più consapevole che ini-


ziava a pagare un biglietto per vedere lo spettacolo. 3
Ciò non toglie che la quarta e fondamentale esigenza dell’epoca, nonché scopo es-
senziale di questa nuova musica monodica – d’ora in poi si parlerà di monodia ac-
compagnata, per evidenziare la sua natura intimamente polifonica –, concertante e
rappresentativa, fosse ‘muovere gli affetti’ degli ascoltatori. Il termine “affetto” va in-
teso come ‘stato d’animo’, ‘sentimento’, ‘passione’ tanto positiva quanto negativa, e
ancora, ‘esaltazione dell’emozione’, ‘turbamento’, ‘commozione fino alle lacrime
degli spettatori’. 4 La cosiddetta “teoria degli affetti” riprende, inoltre, due figure reto-
riche: la prima, l’hypotyposis, rappresentava le cose con le parole, in modo tale da
farle sembrare più viste che sentite; secondo Susenbrotus, «è una figura che rende il
discorso immediato e piacevole e può muovere qualunque affetto». 5 La seconda, la
pathopoeia, significava proprio «tutta la varietà e mozione degli affetti» 6 derivante da
circostanze, abitudini, persone e così via. Secondo Lausberg, infatti, «il grado di
emozione più violenta si chiama pathos; l’effetto cui tende l’oratore, di provocare
un’emozione violenta e sconvolgente che possa essere favorevole alla parte da lui
rappresentata, si chiama movere (commovere, commuovere)»; tale sensazione si può
pertanto ricreare «quando un testo viene interpretato dai semitoni in modo tale che
nulla appaia di intentato per produrre gli affetti che esso esprime». 7 Per tali ragioni,
sono considerate le figure retoriche più importanti del cosiddetto periodo barocco.
Per quanto riguarda il primo punto, per monodia si intende una composizione per vo-
ce sola, «l’arte di cantar solo, con accompagnamento», 8 pratica che già esisteva du-
rante il Cinquecento, in una prassi più privata e cortigiana, e in certe rappresentazioni
teatrali; comunque e tuttavia arginata dalla pratica polifonica imperante di tradizione
colta e scritta della cultura. A partire dalle intavolature di frottole per canto e liuto,
talvolta si era soliti isolare la voce a cui era affidata la parte del canto dalla partitura a
più voci, la quale veniva ridotta e le altre voci affidate agli strumenti, tramite intavo-
lature per liuto, tiorba, chitarrone, arpa, cembalo, organo o altre tastiere. Il momento
di svolta che ci consente di poter parlare di monodia accompagnata è dato
dall’avvento e dallo sviluppo del basso continuo; la natura di questo basso
d’accompagnamento era di «singola parte strumentale grave, sottoscritta alla melodia
o all’insieme principale, stesa in forma sintetica, che l’interprete svolgeva ed integra-
va all’atto dell’esecuzione, ricomponendo all’improvviso un accompagnamento com-
pleto conveniente». 9

3
Cfr. LORENZO BIANCONI, Il Seicento. Storia della musica, a cura della Società Italiana di Musico-
logia, V, Torino, EDT, 1991, pp. 195-204.
4
Cfr. CARROZZO-CIMAGALLI, Storia della musica occidentale cit., II, pp. 13-14.
5
Cfr. FERRUCCIO CIVRA, Musica Poetica, Introduzione alla retorica musicale, Torino, UTET, 1991,
pp. 148-149.
6
Cfr. Ivi, p. 162.
7
Cfr. Ivi, p. 163.
8
CLAUDIO GALLICO, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento Storia della musica, a cura della So-
cietà Italiana di Musicologia, IV, Torino, EDT, 1991, p. 107.
9
Ibidem.

130
LA MONODIA ACCOMPAGNATA

L’origine del concetto di “continuo” risale ad una base armonica di particella di


basso vocale che utilizzavano gli organisti nell’intera intavolatura o partitura, ai fini
dell’accompagnamento di composizioni polivocali; l’esecuzione tendeva pertanto ad
una riproduzione strumentale scritta delle voci dell’insieme che si stava accompa-
gnando. La pratica della monodia accompagnata fiorì soprattutto in area fiorentina,
nella cosiddetta “camerata” del conte Giovanni Maria Bardi, grazie soprattutto a Giu-
lio Caccini (1550 ca.-1618), dove il continuo apparve come una «parte concertante,
imitativa (ma “seguente”, ossia che riprendeva ogni voce, che fosse la più bassa, for-
mando una linea sonora grave non interrotta), tematicamente nutrita alla pari con le
voci», per poi successivamente apparire come una «semplice catena di bassi
d’armonia, quasi privi d’ornamenti sonori, sfondo e sostegno del divagare del can-
to». 10
Tornando al terzo punto, cioè la tendenza alla rappresentatività in musica, essa ha
origini già nei secoli precedenti. Contemporaneamente alla visione del teatro – come
nel caso delle commedie – come specchio o riproduzione della vita e dei costumi
umani, l’attenzione si indirizzò alla «rappresentazione realistica del luogo in cui si
svolge l’azione»,11 la cui conseguenza più immediata risiedette nell’uso della prospet-
tiva scenica e del concetto aristotelico dell’unità di luogo. Ciò fu esplicitamente indi-
cato nella descrizione della rappresentazione della prima commedia di Ludovico
Ariosto, la Cassaria, che avvenne a Ferrara nel 1508:

Ma quello che è stato il meglio in tutte queste feste et representationi, è stato tute le
s[c]ene, dove si sono representate, quale ha facto uno M.º Peregrino [= Pellegrino da
Udine] depintore che sta con il S(igno)re [= il cardinale Ippolito d’Este] ch’è una con-
tracta et prospetiva di una terra cum case, chiesie, campanili etzardini, che la persona
non si può satiare a guardarla per le diverse cose che ge sono, tute de inzegno et bene
intese. 12

In tal modo, l’inserimento della musica nell’azione principale assunse a sua volta
una funzione realistica in cui i personaggi potevano cantare, suonare o danzare sulla
scena, allo stesso modo in cui il canto, il suono e la danza erano verosimili nella vita
comune. Già a partire dalla fine del Quattrocento, tra un atto e l’altro di una comme-
dia, o di «uno dei cosiddetti drammi mescidati», 13 furono posti gli intermedi al fine di
segnalare agli spettatori la divisione della rappresentazione in atti – mediamente cin-
que – dato che non era presente un sipario che si abbassasse, come avviene nei teatri
moderni. Tale separazione era funzionale per distrarre temporaneamente il pubblico –
in particolar modo se l’argomento dello spettacolo principale risultava impegnativo –,
consentendogli di ‘svagarsi’, per poi riportare l’attenzione su ciò che stavano guar-
dando. Per far sì che questo diversivo funzionasse, gli intermedi dovevano presentare

10
Ivi, pp. 108-109.
11
NINO PIRROTTA, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, Einaudi, 1975, p. 92.
12
Cfr. GIUSEPPE CAMPORI, Notizie per la vita di Ludovico Ariosto, Firenze, Sansoni, 1896, pp. 48-
49: lettera di Bernardino Prosperi a Isabella Gonzaga, datata 8 marzo 1508.
13
PIRROTTA, Li due Orfei cit., p. 91.

131
MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

degli ‘ingredienti’ che si distinguessero chiaramente da quelli degli atti; in questi ul-
timi, prevaleva quasi totalmente la recitazione parlata, realistica e in prosa. Negli in-
termedi, invece, dominava l’uso della musica in funzione realistica, che doveva quin-
di esserci per davvero, e il gesto ritmato della danza, con notevole riduzione dell’uso
della parola, specialmente di quella parlata. Il ruolo degli intermedi, tuttavia, non ri-
guardava solo l’intrattenimento: «essi si ponevano quasi come un ‘negativo’ fotogra-
fico della commedia a cui venivano associati. […] Personaggi mitologici o allegorici
creavano (pertanto) un’atmosfera decisamente irreale, che giustificava pienamente
l’inverosimiglianza del loro esprimersi cantando». 14
In aggiunta, essendo la durata degli atti molto lunga – a volte occupava persino
l’arco di un’intera giornata ai fini del rispetto delle unità aristoteliche di luogo e azio-
ne –, l’ulteriore funzione degli intermedi, allo scopo di rispettare l’unità di tempo, era
di assicurare il «collegamento tra gli inevitabili piccoli salti temporali che andavano a
crearsi tra un atto e l’altro». 15 Gli intermedi, inoltre, potevano essere “apparenti”, se i
musicisti erano visibili in scena, o “non apparenti”, se la scena restava vuota e la mu-
sica proveniva da luoghi non visibili al pubblico. Per questa ragione, nel corso del
Cinquecento nella maggior parte delle commedie ci fu raramente menzione degli in-
termedi eseguiti, o da eseguire tra un atto e l’altro; e con ancor meno frequenza risul-
tavano indicazioni delle musiche che facevano parte degli atti, proprio ad ulteriore
dimostrazione che esse fossero riservate agli intermedi stessi. Questi ultimi non erano
prescritti in quanto «soltanto gli esecutori potevano farne la scelta in base alle loro
possibilità»,16 e al tempo stesso era possibile che i commediografi lasciassero sì la re-
sponsabilità agli esecutori, non considerando tuttavia un problema l’inserimento rea-
listico di elementi musicali in aggiunta ai loro testi; motivo per il quale, gli stessi in-
termedi, o alcune parti di essi, potevano essere riutilizzati in altre composizioni tea-
trali. Quest’ultima condizione andava di pari passo con la tendenza del teatro cinque-
centesco italiano di realizzarsi sul piano dell’attività letteraria – di cui si hanno testi-
monianze dalle opere pubblicate a stampa – e di quello legato all’attività pratica, go-
vernata dall’intenzione di piacere e divertire. Sotto questi aspetti, il testo letterario di
una commedia risultò essere «una traccia da integrare al momento della rappresenta-
zione»,17 nonché un’anteprima della pratica degli «scenari» della commedia dell’arte,
che di lì a poco si andò sviluppando.
Per quanto concerne la musica, ampia fu la pratica di esercizio dell’arte scenica ef-
fettuata da coloro che successivamente presero il nome di comici dell’Arte, ossia di
professione; l’atto unico della senese Comedia di Pidinzuolo del 1517 fu
un’importante testimonianza che comprese canti di chiesa, balli, strambotti, serenate
ecc.: tutte esibizioni musicali di quei comici senesi, che furono chiamati diverse volte
a Roma per il carnevale sotto il papato di Leone X e recitarono anche a Napoli nel
1536 e nel 1540. Nella città partenopea, durante il suo governo, il viceré Don Pedro

14
CARROZZO-CIMAGALLI, Storia della musica occidentale cit., I, p. 261.
15
Ibidem.
16
PIRROTTA, Li due Orfei cit., p. 97.
17
Ibidem.

132
LA MONODIA ACCOMPAGNATA

di Toledo, reggendo il viceregno napoletano di Carlo V, favorì una ripresa delle atti-
vità letterarie ed artistiche che erano andate perdute durante le guerre e i tumulti av-
venuti nei primi tre decenni del XVI secolo. Tra le attività di recupero culturale fu in-
cluso anche il teatro, e nel tentativo di dargli la medesima importanza che esso aveva
nelle altre città si distinse particolarmente Ferrante Sanseverino, principe di Salerno,
«nipote del conte Cajazzo e di Fracasso Sanseverino i quali erano stati ai loro tempi
promotori di alcune delle prime rappresentazioni date al mondo classico a Milano e a
Venezia». 18 Inoltre, egli fu il primo ad introdurre a Napoli, il «recitar Comedie con
apparati solennissimi […] nel dì che le Comedie si rapresentavano, egli haveva pen-
siero di star alle porte per far entrare i Cittadini a vedere, & sentire commodamente
quelle […]». 19
Nel novembre del 1535 l’imperatore Carlo V giunse a Napoli e vi restò fino al car-
nevale seguente; il 2 febbraio del 1536 fu ospitato dal principe Sanseverino per il
pranzo e si trattenne fino a sera per assistere alla prima impresa teatrale di rilievo del
principe stesso: una commedia. Dopo questo successo, nel 1540 ne diede altre due, il
Calando e il Beco, per le nozze di Maria di Cardona, marchesa della Padula, con
Francesco d’Este, che furono rappresentate con gli stessi comici senesi a cui aveva
fatto ricorso nel 1536. La caratteristica di «festevolezza musicale che caratterizzava il
teatro senese», 20 fu così importante al punto da ritrovare parecchi di quei musicisti
nella lista degli esecutori della commedia senese Gli ingannati, che fu rappresentata a
Napoli nel 1545. Le parti dei servi furono affidate al napoletano Scipione Dentice e al
senese Scipione del Palla, noto per essere stato, in seguito, maestro di Giulio Caccini;
«Fabrizio Dentice, figlio di Luigi e compositore di madrigali, ebbe la parte di Pa-
squella, la fante anziana furba e trafficona; l’abate Giovan Leonardo Salernitano ebbe
quella di uno dei vecchi e Giulio Cesare Brancaccio quella dell’innamorato Flami-
nio». 21 Sebbene tale commedia fosse già ricca di musica nella versione stampata a
Siena nel 1537, in quella napoletana l’aspetto musicale fu ampliato notevolmente. Per
quanto riguarda il canto, malgrado non risultassero accenni ad esso nelle parti dei
servi, né tantomeno in quella di Flaminio, a Napoli furono utilizzate due delle voci
più celebri del tempo: quelle di Scipione del Palla e di Giulio Cesare Brancaccio.
Nel marzo del 1558 il maestro di Caccini prese parte, inoltre, nelle vesti di Proteo,
ad uno degli «intermedi con i quali fu eseguito l’Alessandro di Alessandro Piccolo-
mini (anch’egli senese), fatto rappresentare dalla marchesa del Vasto «nel suo bel pa-
lazzo di Chiaia» (e nel suo «sì ricco teatro») in onore della viceregina duchessa
d’Alba che lasciava Napoli».22
Nelle occasioni particolarmente solenni, come quelle sopracitate, gli intermedi as-
sunsero tuttavia una forma, interamente sfarzosa, utilizzando persino apparati scengra-

18
Ivi, pp. 120-121.
19
GIOVANNI ANTONIO SUMMONTE, Historia della Città, e Regno di Napoli, Napoli, Antonio Buli-
fon, 1675, p. 235.
20
PIRROTTA, Li due Orfei cit., p. 122.
21
Ibidem.
22
Ivi, p. 220.

133
MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

fici articolati e costumi sontuosi: quella degli intermedi aulici, tipologia che si distinse
in particolar modo a Firenze. Proprio in questa città, il compositore pugliese Girolamo
Montesardo (1580 ca.-dopo 1620), maturò a pieno la sua formazione. Di lui si hanno
scarse notizie, «per lo più tratte dai frontespizi e dalle dediche delle sue opere, e anche
il suo cognome ha generato qualche confusione […] In realtà egli si chiamava Girola-
mo Melcarne, ma seguendo una prassi molto frequente in quel tempo, nelle città in cui
operò si fece conoscere con il nome del suo paese d’origine, chiamato appunto Monte-
sardo».23 Tale incertezza va di pari passo con la sicurezza che egli operò a Napoli, Bo-
logna, Ancona, Fano, Lecce e Firenze e in quest’ultima ebbe modo di conoscere e fre-
quentare Giulio Caccini (1550 ca.-1618), Iacopo Peri (1561-1633), il conte Giovanni
Maria Bardi (1534-1612), figure che furono fondamentali per lo sviluppo di nuovi ge-
neri monodici e per la nascita del melodramma. Nel 1608, infatti, Montesardo pubblicò
la raccolta di madrigali e arie ad una e a più voci intitolata L’allegre Notti di Fiorenza
di Girolamo Montesardo dove intervengono i più eccellenti musici di detta città, in cui
si ha per la prima volta testimonianza, da parte dell’autore, di adesione a queste nuove
forme monodiche. Intento del compositore fu quello di rievocare le serate musicali fio-
rentine a cui aveva preso parte; a tale scopo, i ventisei brani furono raggruppati in cin-
que «notti», che si svolgevano in posti molto suggestivi di Firenze. Ad ognuno di que-
sti luoghi era dedicato un madrigale a quattro voci seguito da uno monodico, mentre la
quinta «notte» chiudeva la raccolta con un madrigale a cinque voci; la prosecuzione
comprendeva arie polifoniche. La presenza di queste ultime è la dimostrazione che
Montesardo «non era riuscito a scrollarsi completamente di dosso i retaggi della sua
formazione di polifonista»,24 conferma dataci anche dalla particolare espressività delle
melodie dei suoi madrigali monodici, i quali si impadronivano delle tensioni insite nel
testo poetico. Piuttosto frequente fu l’utilizzo di abbellimenti, in particolare di quegli
«effetti» citati da Caccini nella Prefazione alle sue Nuove Musiche: «passaggi» o dimi-
nuzioni, «ribattuta di gola», «cascata scempia», «l’esclamazione» ed infine il «trillo». I
madrigali che lo stesso Caccini aveva ascoltato insieme ad alcune arie a casa del conte
Bardi a Firenze, furono un’importante testimonianza per la pratica della monodia ac-
compagnata nello stile del recitar cantando:

per fino a quei tempi non avere udito mai armonia d’una voce sola sopra un semplice
strumento di corde, che avesse avuto tanta forza di muovere l’affetto dell’animo quanto
quei madrigali: sì per lo nuovo stile di essi come perché, costumandosi anco in quei
tempi per una voce sola i madrigali stampati a più voci, non pareva loro che per
l’artifizio delle parti corrispondenti fra loro la parte sola del soprano, di per sé sola can-
tata, avesse in sé affetto alcuno. 25

23
MARIA GRAZIA BARONE, Da «L’allegre notti di Fiorenza» a «I lieti giorni di Napoli»: itinerario
di un compositore del ‘600, in La musica a Napoli durante il Seicento; a cura di Domenico Antonio
D’Alessandro – Agostino Ziino, Roma, Edizioni Torre d’Orfeo, 1987, pp. 105-123: 105.
24
Ivi, p. 110.
25
GIULIO CACCINI, Prefazione da Le Nuove Musiche, vol. I, ed. moderna a cura di Federico Kaftal,
Albese Con Cassano, Edizioni Musedita, 2009, p. 7. Tra parentesi quadre sono indicate le esplica-
zioni del curatore Federico Kaftal nella sua edizione de Le Nuove Musiche di Caccini qui utilizzata.

134
LA MONODIA ACCOMPAGNATA

Questa testimonianza di Caccini è un chiaro esempio dell’evoluzione a cui i generi


in questione si stavano sottoponendo nel corso del Seicento: nonostante nel secolo
precedente ci fosse la consuetudine di eseguire a voce sola i madrigali polifonici, can-
tando la linea del soprano e intavolando su liuto, tiorba, o chitarrone le altre voci,
particolarmente qui in Firenze […] qualunque ha voluto ha potuto vedere ed udire a suo
piacere […] così nei madrigali come nelle arie ho sempre procurata l’imitazione dei
concetti delle parole: ricercando quelle corde [= accordi] più e meno affettuose, secondo
i sentimenti di esse [= delle parole], e che particolarmente avessero grazia; avendo asco-
sto in esse quanto più ho potuto l’arte del contrappunto, e posato le consonanze nelle sil-
labe lunghe e fuggito le brevi, ed osservato l’istessa regola nel fare i passaggi [= varia-
zioni] […] se pure si debbono questi giri di voce usare, si facciano […] non a caso, o
sulla pratica del contrappunto; onde sarebbe di mestieri pensarli prima nelle opere che
altri vuol cantar solo e fare maniera di essi, […] però che alla buona maniera di compor-
re e cantare in questo stile serve molto più l’intelligenza [= significato] del concetto, e
delle parole il gusto [= il senso], e l’imitazione di esso così nelle corde affettuose come
nello esprimerlo con affetto cantando […] e legare [= preparare] alcune durezze [= dis-
sonanze] più per accompagnamento dello affetto che per far arte [= mostrare bravura]. 26

Questo brano appena citato è un piccolo esempio di quanto fosse complesso dar vi-
ta alla bellezza di queste nuove figure monodiche, e ci fa comprendere maggiormente
l’evoluzione di generi di cui sopra.
Uno dei principali veicoli di divulgazione di questo stile monodico fu rappresenta-
to da quei musicisti, come lo stesso Montesardo, che viaggiavano su e giù per la peni-
sola, portandosi dietro le novità armoniche del tempo. Per quanto riguarda Napoli, si
iniziò a parlare di monodia accompagnata già nel marzo del 1558, con la rappresenta-
zione sopracitata degli intermedi con cui si eseguì l’Alessandro di Piccolomini, e a
cui prese parte Scipione del Palla. Fu inoltre fondamentale la figura di Francesco
Lambardi, il quale compose certamente l’«Aria grave per cantar solo in Tenore, &
anco in Soprano» Erano i capei d’oro a l’aura sparsi ed il «Madrigale per cantar una
sola voce» Dolce Filli mia cara e dolce mia vita, entrambi pubblicati ne Il secondo
Libro de Villanelle a tre, a quattro et a cinque. Con alcune à modo di Dialoghi, et
nella parte del Tenore due Arie in fine… da Gio. Giacomo Carlino nel 1614: 27 stesso
anno in cui, non a caso, fu pubblicata a Firenze la seconda edizione ampliata de Le
Nuove Musiche di Caccini.
Alla luce di quanto detto finora, risultano essere chiare le principali caratteristiche
rintracciabili nella musica del Seicento: stile monodico con basso continuo (monodia
accompagnata), stile concertante (quando sono previsti più strumenti), tendenza alla
rappresentatività e l’indispensabile volontà di muovere gli ‘affetti’; ebbene, nel corso
del XVII secolo si andò proprio sviluppando un genere che le racchiuse tutte: la can-

26
Ibidem. Tra parentesi quadre sono indicate le esplicazioni del curatore Federico Kaftal nella sua
edizione de Le Nuove Musiche di Caccini qui utilizzata.
27
Cfr. AGOSTINO ZIINO, Nota su Francesco Lambardi e l’introduzione della monodia a Napoli, in
Centri e periferie del Barocco Napoletano, a cura di Gaetana Cantone, Roma, Istituto Poligrafico e
Zecca dello Stato-Libreria dello Stato, 1992, pp. 501-513: 105.

135
MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

tata. Inizialmente tale termine era utilizzato in modo vago, indicando con esso una
qualsiasi composizione cantata per una o due voci, accompagnata dal basso continuo
o da alcuni strumenti, ma anche le stesse ‘arie’ di cui parlava Caccini nelle sua Prefa-
zione a Le Nuove Musiche, con le dovute differenze, dato che quest’ultime composi-
zioni erano strofiche: cioè la stessa musica veniva riproposta quasi senza cambiamen-
to alcuno per tutte le strofe del testo; nelle cantate, invece, l’unica cosa che si ripeteva
allo stesso modo era il basso – anche per questo definito continuo –, laddove la melo-
dia variava ad ogni strofa. Per queste sue origini, ben presto «le “cantate” andarono
articolandosi in strutture più complesse, che si basavano sugli stessi criteri che veni-
vano contemporaneamente introdotti nelle musiche operistiche: vale a dire la distin-
zione tra sezioni in stile recitativo, in stile arioso e in arie vere e proprie». 28 Ciò spie-
ga perché si produssero cantate della durata di pochi minuti aventi una sola aria ed al-
tre di dimensioni più ampie che riuscivano pertanto ad ospitare sia recitativi che arie
stesse. Nonostante la prima stampa in cui comparve questo termine – Cantade et arie
di Alessandro Grandi (1575/80-1630) – fosse stata pubblicata dall’editore veneziano
Vincenti nel 1620, Roma fu considerato il luogo d’origine della cantata. Infatti, tra i
vari musicisti che nel corso del Seicento servirono le famiglie principesche romane di
cantate furono annoverati: Girolamo Frescobaldi, Giacomo Carissimi, Luigi Rossi
(1598-1653) e così via. Di quest’ultimo sopravvivono circa 300 cantate, di cui analiz-
zerò quella dal titolo Precorrea del sol l’uscita. Nonostante le sue origini pugliesi,
Luigi Rossi fu mandato a studiare a Napoli, nel 1612 – si presume sotto il patrocinio
dei di Sangro, duchi di Torremaggiore e principi di San Severo –, dove ebbe modo di
studiare con il franco-fiammingo Jean de Macque, maestro della Cappella reale, e ivi
rimase per diversi anni, beneficiando della protezione di Luigi Gaetani, duca di Traet-
ta, mecenate dello stesso Macque; esperienze di gioventù a Napoli confermate, tra
l’altro, da una sua lettera al marchese Enzo Bentivoglio datata Roma 26 gennaio
1620.
Come altri suoi colleghi, anch’egli si ritrovò a girare l’Italia; ma vicenda degna di
nota fu quando si ritrovò a Bologna nel 1644 – dopo che nel 1641 entrò al servizio
del cardinale Antonio Barberini, definendosi musicus di quest’ultimo – per delle ese-
cuzioni musicali: con la morte di Urbano VIII nel luglio di quell’anno e l’elezione del
nuovo papa filospagnolo Innocenzo X Pamphili, i Barberini messi in stato d’accusa
dal nuovo papa, si rifugiarono in Francia sotto la protezione del cardinale Mazzarino
portando con sé un gruppo di musicisti italiani fra i quali il Rossi, che si recò a Parigi
nel giugno del 1646 e, con la rappresentazione dell’Orfeo (2 marzo 1647), «tragico-
media per musica» di Francesco Buti, si assicurò fama internazionale almeno fino al-
la fine del Settecento.29
La cantata Precorrea del sol l’uscita è contenuta nella raccolta manoscritta Canta-
tes italiennes de différents auteurs. Tome I conservata a Parigi nella Bibliothèque Na-
tionale de France e in un’altra raccolta del fondo Chigi della Biblioteca Apostolica

28
CARROZZO-CIMAGALLI, Storia della musica occidentale cit., II, p. 142.
29
Cfr. ALESSIO RUFFATTI, ‘voce’ Rossi, Luigi (Aloigi de Rossi, Aloysius de Rubeis), in Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. 88, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2017, pp. 654-657.

136
LA MONODIA ACCOMPAGNATA

Vaticana di Roma (Chigi, ms. Q.VII.99, cc. 64v-67v). 30 Nonostante la sua struttura
non sia ancora ben sviluppata – in tutto il corso del Seicento avrà modo di formaliz-
zarsi più precisamente in quell’alternanza di recitativo e aria, RARA o, viceversa,
ARAR – è composta da un avvicendamento di momenti più in stile recitativo, che
portano avanti l’azione, ed altri più vicini al tipico sfogo dell’aria, quando il composi-
tore usa dei madrigalismi volti ad evidenziare meglio il significato testuale; inoltre in
Rossi – come anche in Monteverdi – tipica è l’alternanza tra tempi binari e ternari che
consentiva una maggiore scorrevolezza al fluire di musica e testo. Quest’ultimo recita:
Precorrea del sol l’uscita
la bell’alba in Oriente
e lucente già sua chioma era fiorita.
Quando il sonno si diffuse
su’l mio ciglio e’l guardo chiuse.
Non so d’onde al mio pensiero
tempestoso un mar s’offerse
che sommerse nel furor più d’un nocchiero.
Pieno il lido è di spavento
fischia l’onda e mugghia il vento.
Al soffiar d’Euro che freme
s’empie il ciel d’orrore e lutto
vola il flutto e del mar l’arena geme.
Van tra scogli i legni infranti
e dan forza all’onde i pianti.
Voce all’or nel cor mi suona
uom non sia che lasci il porto
cadeabsorto chi suoi lini all’aura dona.
Questo il mare è di Cupido
deh non sia chi lasci il lido.

La cantata, su versi di Domenico Benigni (1596-1653), è dunque composta da


quattro stanze di tipo ABACC, A₁B₁A₁C₁C₁, A₂B₂A₂C₂C₂, A₃B₃A₃C₃C₃. Il poeta fu
autore di numerose cantate e canzonette profane e morali, poste in musica dai più noti
compositori del tempo come – oltre Luigi Rossi –, Giacomo Carissimi, Mario Savio-
ni, Marco Marazzoli e Marc’Antonio Pasqualini; tra l’altro i suoi versi, concepiti pre-
valentemente per l’ambiente romano, furono pubblicati postumi, a Macerata, in una
raccolta di sue poesie nel 1667 curata dal nipote Francesco e dedicata al principe
Giovan Battista Pamphili.31 Nonostante la varietà di metri utilizzati, la musica di
Rossi riesce a dare una completezza ed unità alle quattro strofe di questo poema, gra-
zie all’uso di ‘stili declamati’ (recitar cantando o stile recitativo) che presentavano
pertanto un basso di tipo accordale; ma anche concetti con musica più ornata su alcu-
ne parole, con utilizzo di ‘stile passeggiato’ (alla Caccini) che si muove talvolta per

30
Facsimile del ms. in Cantatas by Luigi Rossi c. 1597-1653, a cura di Francesco Luisi, New York-
London, Garland, 1986, pp. 41-43.
31
Cfr. Poesie di Monsignor Domenico Benigni […], Macerata, A. Grisei e G. Piccinni, 1667.

137
MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

grado congiunto, con un basso quasi di passacaglia, nonché ‘passeggiato’. L’incipit


quasi a sé stante, «Precorrea del sol l’uscita», è declamatorio, in levare, in tempo bi-
nario, ed ha come soggetto il sopraggiungere della «bell’alba in Oriente» del verso
seguente; tra le due crome delle sillabe «pre-cor» e la semiminima col punto sulla sil-
laba «-rea» di «precorrea» è posto un intervallo di quarta ascendente che consente di
avviare il concetto con maggiore slancio, per poi procedere con due terze ascendenti,
una discendente e un semitono discendente del seguito della frase. Sul secondo verso,
«la bell’alba in Oriente», già c’è un cambio di tempo, ternario, e differenti figurazio-
ni, più lente rispetto al ritmo più rapido e puntato dell’inizio: necessarie a raffigurare
l’alba che notoriamente nasce ad est – come anticipazione del sorgere del sole. Il se-
guito, «e lucente già sua chioma era fiorita», si riferisce al sole con un madrigalismo
sulla sillaba «-cen-» di «lucente»:

Questo madrigalismo ci fa immaginare i raggi del sole che si espandono irradiando


l’orizzonte, salendo e scendendo, come dimostrato dalla catabasi con valori più lun-
ghi posta sul «già sua chio-», mentre la sillaba «-ma» è posta a distanza di quarta
ascendente dalla precedente e ridiscende in seguito di terza sulla «e-» di «era»; tutta
la sequenza di questo verso viene ripetuta allo stesso modo a distanza di quarta
ascendente per evidenziare maggiormente l’illuminazione data dai raggi:

Prima del verso successivo, «Quando il sonno si diffuse», il tempo torna binario,
l’inizio è in levare e sono utilizzate figurazioni più brevi per assecondare la stanchez-
za e la successiva diffusione del sonno con più rapidità; infatti, sulla sillaba «son-» è
posta una minima legata ad una croma che dista di una quarta discendente dalla silla-
ba «-no», la quale dista di una terza minore discendente dalle crome di «sidif-», che a
loro volta scendono di terza maggiore sulle semiminime delle sillabe «-fu-se». Il se-
guito, «su’l mio ciglio e’l guardo chiuse», dista una quinta ascendente dalla frase pre-
cedente; sono utilizzate sempre figurazioni brevi che salgono di semitono sulla parola
«ciglio» per evidenziare l’apertura delle ciglia delle palpebre prima della successiva
chiusura; «e’l guardo chiuse» dista una sesta discendente da esso e prevede una breve
anabasi sulla sillaba «-do» di «guardo» che si ferma su «chiu-» di «chiuse», in cui è
presente una sincope in catabasi volta ad evidenziare il serrare degli occhi.
Quest’ultima semifrase, «e’l guardo chiuse», viene ripetuta e sulla sillaba «guar-» è
posto un altro madrigalismo con un gioco di semicrome in anabasi e catabasi, che ci

138
LA MONODIA ACCOMPAGNATA

dà il senso di movimento ultimo che si arrende in seguito alla definitiva chiusura del-
le palpebre e del sonno avvenuto:

Il verso successivo, «Non so d’onde al mio pensiero», procede con figurazioni ra-
pide – che si fermano solo sulla minima legata ad una semiminima della parola
«d’onde» –, volte a sottolineare l’aspetto dubbioso. Prima del seguente «tempestoso
un mar s’offerse», si torna in tempo ternario e sulla sillaba «-sto-» è posto il seguente
madrigalismo:

Il verso «che sommerse nel furor più d’un nocchiero», inizia riprendendo la stessa
figurazione e il medesimo madrigalismo di «e lucente», questa volta posizionato sulla
sillaba «-mer-» di «sommerse» per evidenziare l’aver fatto annegare, alla stregua di
uno stato di pensiero tempestoso, diversi timonieri:

Paradossalmente, «nel furor più d’un nocchiero» è scritto con figurazioni più lar-
ghe ai fini di esprimere la rassegnazione per l’annegamento ormai avvenuto; l’intero
verso è poi ripetuto una quarta sopra, com’era avvenuto con «e lucente», con una sola
differenza del madrigalismo sulle sillabe «mer-se»:

Il verso successivo, «Pieno il lido è di spavento», riprende l’andamento binario:


«pieno il lido» inizia in levare preceduto da una pausa di semiminima; «è di spaven-
to», invece, inizia sempre in levare ma con una pausa di croma volta ad accentuare il
senso di timore di chi si trova sul litorale. Il verso successivo «fischia l’onda e mug-
ghia il vento» inizia con un ritmo puntato per dare il senso di penetrante suono
dell’onda, e sulla cui sillaba «on-» è utilizzato tale madrigalismo:

139
MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

Il seguito «e mugghia il vento», invece, viene ripetuto due volte per accentuare il
cupo rumoreggiare del mare in tempesta legato questa volta al vento:

Tutto questo movimento è la dimostrazione del percorso che fa il vento, determina-


to da differenze di pressione atmosferica in cui vengono evidenziati i suoi caratteri
distintivi di andamento nel tempo, dapprima calmo e in direzione ascendente, fino ad
arrivare all’intensità e forza delle crome col punto, che si abbattono infine in quella
impetuosa discesa. Il seguito, «Al soffiar d’Euro che freme», torna in tempo binario e
presenta il seguente madrigalismo:

tutto ciò per darci l’idea dello scirocco che spira da sud-ovest e prepara le frasi suc-
cessive in cui si capiscono le conseguenze di quest’azione: «s’empie il ciel d’orrore e
lutto», «vola il flutto e del mar l’arena geme». La prima ripercussione, «s’empie il
ciel d’orrore e lutto», riprende il tempo ternario ed esattamente la melodia della frase
«la bell’alba in Oriente» per evidenziare il netto contrasto tra le due; la seconda, «vo-
la il flutto e del mar l’arena geme», inizia con un madrigalismo sulla sillaba «vo-» per
darci la sensazione di spostamento d’acqua:

«vola il flutto» sta a figurare quindi l’onda potente ed ostile ormai in prossimità della
costa. La frase «e del mar l’arena geme» presenta un madrigalismo su «mar»:

140
LA MONODIA ACCOMPAGNATA

per poi continuare sulla battuta seguente con una figurazione binaria che si lega a
«l’a-» di «l’arena», sulle cui altre sillabe sono poste una minima ed una semiminima
che sale di semitono per poi essere la stessa nota di partenza – una semiminima legata
poi ad una minima e seguite da una minima col punto – della parola «geme»; tutto ciò
per spiegare che a causa die moti del mare, dapprima calmo ma in seguito agitato, il
lido (inteso come approdo di salvezza e protezione di uno stato d’animo) ne è pro-
fondamente atterrito e ne soffre penosamente. La frase «vola il flutto e del mar
l’arena geme» viene ripetuta una seconda volta una terza sopra ma con gli stessi rap-
porti intervallari e figurazioni, per accentuare maggiormente il senso figurato di la-
mento:

Il seguito «Van tra scogli i legni infranti» riprende il tempo binario, e il «van tra
scogli» procede con figurazioni rapide abbastanza linearmente; sull’ultima sillaba di
«scogli» è posta una synaeresis «-gli_i» che si collega al resto della frase, «legni in-
franti», in cui tra la croma di «in-» e la semiminima di «-fran-» è posto un intervallo
di quarta discendente che evidenzia la fragilità dei rami degli alberi che possono
rompersi facilmente. Il verso successivo, «e dan forza all’onde i pianti», è ricco di
madrigalismi:

Il primo presenta figurazioni diverse tra loro in quanto esplicative della causa ca-
pace di modificare lo stato di quiete o di moto di un corpo che, se viene applicata ad
un elemento non rigido ne può causare la deformazione. Il seguito «all’onde i» pre-
cede il secondo madrigalismo che consente di rappresentare con notevole forza
quest’espressione di commozione o dolore manifestata con lacrime spesso accompa-
gnate da gemiti e lamenti:

Il terzo madrigalismo inizia subito dopo, con la ripetizione del semiverso «all’onde
i pianti»:

141
MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

L’ennesima successione di figurazioni diverse che ci dà l’idea della massa d’acqua,


la quale si solleva alternativamente sul livello di quiete del mare modificandone la
superficie in modo caratteristico per poi struggersi in un pianto più intimo rispetto al
precedente. Nella frase successiva «Voce all’or nel cor mi suona» il tempo torna bi-
nario e ricorda un po’ l’incipit della cantata, nonostante figurazioni e note siano diffe-
renti; le prime sono alquanto scorrevoli e sono poste sulla stessa nota che scende di
semitono solo tra «cor» e «mi». Il seguito, «uom non sia che lasci il porto», riprende
il tempo ternario, presenta l’«uom non sia» identico a «la bell’al-» dell’inizio, scen-
dendo tuttavia di sesta per poi restare sulla medesima nota ed infine salire di tono,
con figurazioni di minima e semibreve su «porto» per darci l’idea di ampiezza del
tratto di mare dove gli sbarchi possono avvenire con sicurezza. Sul «cade absor-» del
verso seguente, «cade absorto chi suoi lini all’aura dona», avviene lo stesso madriga-
lismo di «e lucente» che termina tuttavia scendendo di terza:

per dare il senso figurato di una totale immersione in un processo mentale legato
all’immaginazione, alla riflessione o all’attenzione, talmente concentrato da sembrare
indifferente al mondo circostante; il seguito «chi suoi lini all’aura dona» presenta un
madrigalismo di crome sulla sillaba «au-»:

La parola «dona» inizia con la stessa nota in cui termina la sillaba «-ra», per poi
proseguire in catabasi prima sulla minima e poi sulla minima col punto. Un salto
d’ottava ci conduce alla ripetizione dell’intero verso «cade absorto chi suoi lini
all’aura dona», che risulta essere una terza sopra rispetto al precedente:

Per accentuare maggiormente il concetto metaforico che nonostante il nocchie-


ro/amante sappia come il tessuto pregiato del lino avvolgeva i morti, togliendogli per-
tanto l’aria, quindi la vita stessa (l’«aura» simboleggia proprio la vita), egli decide di
voler vivere. Il penultimo verso, «Questo il mare è di Cupido», riprende il tempo bi-
nario, inizia in levare e su «questo il mare» è presente una figurazione di croma col
punto, semicroma, semiminima col punto, croma che si collega alle crome, sempre in
levare, di «è di Cu-», seguite da due semiminime sulle sillabe «-pi-do»: tutto per sim-
142
LA MONODIA ACCOMPAGNATA

boleggiare lo scoccare della freccia del dio dell’Amore. Essendo il regno di Cupido il
‘mare’ di Amore, è evidente che l’ultimo verso «deh non sia chi lasci il lido» risulti
essere un’esortazione a non lasciare il lido, ossia il proprio stato e non abbandonarsi
ad Amore; la semiminima dell’esclamazione «deh» inizia in levare e presenta pertan-
to una sincope che termina sulla croma dell’avverbio di negazione «non» per poi pro-
cedere sulla minima legata ad una croma del congiuntivo «sia» dove inizia – sempre
in sincope e a distanza di sesta ascendente, la ripetizione di «deh non sia».
Quest’ultima è volta ad evidenziare l’esclamazione che introduce sicuramente una
preghiera: non abbandonare il proprio essere, visto come porto sicuro, per evitare
Amore. Il seguito «chi lasci il lido» inizia con un primo madrigalismo di semicrome
ascendenti a due a due sulla sillaba «la-» per poi salire di semitono su un accordo di
settima che precede la croma su cui sono poste, in synaeresis, le sillabe «-sci il»; inol-
tre anche sull’intervallo di semitono presente su «li-do» vi è un ulteriore accordo di
settima. A distanza di terza ascendente, sul «deh», è posta invece l’ultima ripetizione
dell’esclamazione «deh non sia» che presenta il «non sia» ad un intervallo di quinta
discendente. Ed ecco che inizia la ripetizione, conclusiva, di «chi lasci il lido» su cui
è utilizzato un ultimo e lungo madrigalismo:

Al di là delle altre possibili interpretazioni, questo ennesimo madrigalismo ci mo-


stra ancora una volta il grido disperato – uno sfogo vicino all’elemento distintivo
dell’«aria» – dell’amato al pensiero che, come detto, il nocchiero/amante possa meta-
foricamente lasciare il porto sicuro incappando in pericoli naturali brillantemente de-
scritti dal compositore nel corso dell’intera cantata.

143
144
Nicola De Rosa

SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

a Myra

Amoureux las de tant d’étapes et de plaies,


Schumann, soldat songeur que la guerre a déçu. 1

Proust compose questi versi su Schumann che per la loro passione fanno da motto al
nostro saggio. Ebbene tentiamo di ottenere il meglio da quest’incipit. La Recherche
racconta di come Swann, nel salotto di Madame Verdurin, finisca per associare il te-
ma della Sonata di Vinteuil al tempo dell’amore per Odette. Di più, seppur non fosse
presente, Odette irromperebbe nello spazio della stanza solo attraverso quel tema:
«Mais tout à coup ce fut comme si elle était entrée».2 L’interesse di Proust per una
melodia di tipo wagneriano – che tuttavia non si limita ad allarme annunciante
l’arrivo del personaggio, bensì diviene essa stessa personaggio che si muove e muta –
è sottolineato anche da Deleuze e Guattari, che in Mille piani trasportavano Schu-
mann dentro una prospettiva rizomatica:
Proprio Proust fu tra i primi a sottolineare questa vita del motivo wagneriano: lungi dal
credere che il motivo sia legato a un personaggio che appare, si dirà che ogni apparizio-
ne del motivo costituisce un personaggio ritmico, nella «pienezza di una musica riempi-
ta in effetti da tante musiche, ciascuna delle quali è un essere». 3

Fu la Sonata op. 75 di Saint-Saëns tra i brani che ispirarono la Sonata di Vinteuil,


il pezzo immaginario apparso nell’oeuvre cathédrale di Proust. Eppure, per il lettore
schumanniano, è arduo resistere alla tentazione di stratificare un’associazione su
un’altra: qualora passasse per l’ascolto di Swann, il ‘tema di Odette’ la invocherebbe
come farebbe il ‘tema di Clara’ 4 per quest’ultima, qualora passasse per l’ascolto di
Schumann. Quel tema è Clara. Meglio ancora, per la logica del desiderio, è Clara e
Robert condensati insieme, coi loro corpi, mai più separabili. In quel tema si aggrega
tutto ciò che fuori di esso accadde e la realtà che lo permea tende la molla romanze-
sca.
Nel marzo 1838, circa un anno prima della pubblicazione della Fantasie op. 17,
Schumann scriveva a Clara:
In più, ho completato una fantasia in tre movimenti, che nel giugno del ’36 avevo con-

1
MARCEL PROUST, Schumann, in Poesie, Torino, Einaudi, 1993, p. 46.
2
ID., À la recherche du temps perdu. Du côté de chez Swann, vol. 2, Paris, Gallimard, 1919, p. 171.
3
GILLES DELEUZE – FÉLIX GUATTARI, 1837. Sul ritornello, in Mille piani. Capitalismo e schizofre-
nia, Roma, Cooper & Castelvecchi, 2003, p. 449.
4
Sul ‘tema di Clara’ cfr. i saggi tradotti e raccolti in ERIC SAMS, Il tema di Clara. I codici cifrati, i
Lieder, la malattia e altri saggi su Schumann, a cura di Erik Battaglia, Asti, Analogon, 2010.

145
NICOLA DE ROSA

cepito fino all’ultimo particolare. Il suo primo movimento è forse il più raffinato che
abbia mai composto – un profondo lamento per te – gli altri sono più deboli, ma non c’è
bisogno di vergognarsene tanto. 5

Poi, nell’aprile 1839, le dava qualche indizio su una possibile chiave di lettura del
brano: «Puoi capire la Fantasie solo se torni indietro alla sfortunata estate del 1836, in
cui rinunciai a te».6 Ancora, in giugno, le chiedeva: «Mi scrivi cosa pensi del primo
movimento della Fantasie? Non evoca molte immagini in te? Qui la melodia [bb. 65-
67] mi soddisfa al massimo. Sei forse tu il ‘suono’ nel motto? Credo quasi che tu lo
sia».7 I versi di Friedrich Schlegel che fanno da motto alla Fantasie evocano il «suono»
a cui Schumann si riferiva:
Durch alle Töne tönet
Im bunten Erdentraume
Ein leiser Ton gezogen,
Für den, der heimlich lauschet. 8

Il velo che difendeva le note incontaminate di un brano dalle vicende degli uomini,
con violenza si squarcia per mezzo di un qualche tipo di simbolizzazione.
Ci sovviene un passo di Barthes sull’ascolto intersoggettivo, che prelude a un di-
scorso di natura edipica sull’origine del linguaggio:
Nel primo tipo di ascolto l’essere vivente rivolge la propria audizione (l’esercizio della
facoltà fisiologica di udire) verso degli indizi. [...] Questo tipo di ascolto è, se così si può
dire, un allarme. Il secondo è una decifrazione: quel che si cerca di captare con l’orecchio
sono dei segni [...]. Per finire, il terzo tipo di ascolto [...] non riguarda ciò che è detto, o
emesso, quanto piuttosto chi parla, chi emette. Questo ascolto ha luogo in uno spazio in-
tersoggettivo, dove «io ascolto» vuol dire anche «ascoltami»; ciò di cui esso si impadroni-
sce per trasformarla e rilanciarla all’infinito nel gioco del transfert, è una «significanza»
generale, inconcepibile al di fuori della determinazione dell’inconscio. 9
Il bambino ascolta vigile gli indizi del ritorno della madre. Quando inizia a mimar-

5
«Außerdem habe ich eine Phantasie in drei Sätzen vollendet, die ich im Juni 36 bis auf das Detail
entworfen hatte. Der erste Satz davon ist wohl mein Raffiniertestes, was ich je gemacht – eine tiefe
Klage um Dich – die anderen sind schwächer, brauchen sich aber nicht gerade zu schämen» – CLARA
- ROBERT SCHUMANN, Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe (di qui in poi Bw), vol. 1 (1832–1838),
a cura di Eva Weissweiler, Basel/Frankfurt am Main, Stroemfeld/Roter Stern, 1984, p. 126 (TdA). È
curioso notare come «Klage» in tedesco rimandi sia al «lamento» emotivo che alla «causa» legale.
Schumann si sarebbe appellato alla giustizia per risolvere la disputa con Wieck per il matrimonio. Se
vista in questa luce, la lettera si rivela persino premonitrice!
6
«Die Phantasie kannst Du nur verstehen, wenn Du Dich in den unglücklichen Sommer 1836
zurückversetzt, wo ich Dir entsagte» – Bw, vol. 2 (1839), Basel/Frankfurt am Main, Stroemfeld/Roter
Stern, 1987, p. 495.
7
«Schreibe mir was Du bei dem ersten Satz der Phantasie Dir denkst? Regt er nicht viele Bilder in Dir
an? Die Melodie [bb. 65–67] gefällt mir am meisten darin. Der „Ton“ in Motto bist Du wohl? Beinah
glaub’ ich es» – ROBERT SCHUMANN, Jugendbriefe, Liepzig, Breikopf & Härtel, 1910, p. 303.
8
«Risuonando tra le note tutte, | nei sogni colorati della Terra, | scorre un debole suono | per chi segre-
tamente ascolta» – FRIEDRICH SCHLEGEL, Die Gebüsche, in Gedichte, Berlin, Hitzig, 1809, p. 33.
9
ROLAND BARTHES, Ascolto, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Torino, Einaudi, 2001, pp. 237-238.

146
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

ne l’assenza e la presenza lanciando e riprendendo un rocchetto attaccato a uno spa-


go, allora trasforma l’indizio in segno. Prima manifestava l’allerta per
l’allontanamento o il ritorno di lei, ora ne invoca la permanenza attraverso un codice
segreto. Marcel, all’inizio della Recherche, durante la sua infanzia a Combray, non fa
altro che attendere il bacio della buona notte, ma la madre lo tradisce per intrattenere
Swann, venuto a far visita in tarda serata. «Ora, Schumann è veramente il musicista
dell’intimità solitaria, dell’anima innamorata e raccolta, che parla a se stessa [...], in
breve del bambino che non ha altro legame se non quello con la Madre».10 Da Johan-
na Christiane sgorgherebbe tutto ciò che Schumann ebbe di più intimo: l’amore ma-
terno e quello musicale, perché in casa era lei a cantare e a suonare. Se non fosse, pe-
rò, che Schumann sia il bambino tradito dalla madre sin dalla nascita: come osserva-
va Egge, sulla nascita di Schumann grava già il fardello del lutto, perché lui ha rubato
il posto della sorellina Laura, morta in tenera età. 11 Il bambino che non nasce al suo
posto si identifica con l’oggetto a cui il posto spettava: «l’ombra dell’oggetto cadde
così sull’io che d’ora in avanti potè essere giudicato da un’istanza particolare come
un oggetto e precisamente come l’oggetto abbandonato». 12 Se Laura è morta, è ‘per-
duta’, è ‘abbandonata’, lo dev’esser anche Robert, nella misura del dubbio su tutto
ciò che è umano.
Una ferita che alimenta il sospetto sembra esser di per sé emblema del poeta ro-
mantico. Egli finisce per dubitare del suo stesso spazio, abita il suo territorio, ma per-
cependolo come perduto e vivendolo come esiliato. In Zwielicht, la lirica di Eichen-
dorff scelta da Schumann per Liederkreis op. 39, così recita il poeta:

Hast ein Reh du lieb vor andern,


Laß es nicht alleine grasen,
Jäger ziehn im Wald und blasen,
Stimmen hin und wieder wandern.

Hast du einen Freund hienieden,


Trau ihm nicht zu dieser Stunde,
Freundlich wohl mit Aug’ und Munde,
Sinnt er Krieg im tück’schen Frieden. 13
Nell’inquadrare la fase del sospetto di Schumann, va posto l’accento sulla relazio-
10
BARTHES, Amare Schumann, in L’ovvio e l’ottuso cit., p. 281.
11
«Alla sua nascita, nel fantasma materno, il posto che lo accoglie è quello lasciato vuoto dalla so-
rella Laura morta poco prima [...] La madre, nell’impossibilità di elaborare il lutto, non ha preparato
un nuovo posto per lui, un posto che accolga simbolicamente l’ultimo nato, ma, nella sua depressio-
ne, lo colloca nel posto vacante lasciato dalla figlia morta» – MARTIN EGGE, Gli ultimi anni di Ro-
bert Schumann: quando il sintomo non tiene più, in Robert Schumann. Dall’Italia, a cura di Elisa
Novara - Antonio Rostagno, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2014, p. 126.
12
SIGMUND FREUD, Lutto e melanconia, in Opere, vol. 8, Torino, Boringhieri, 1976, p. 108.
13
«Hai un capriolo più caro di altri, | non lasciare che pascoli solo, | cacciatori si aggirano nel bosco
e suonano, | voci vagano di tanto in tanto. | Hai un amico quaggiù, | non fidarti di lui in quest’ora, |
amico col viso e le labbra, | medita guerra in insidiosa pace» – JOSEPH VON EICHENDORFF, Zwielicht,
in Sämtliche poetische Werke, vol. 2, Leipzig, Amelang, 1883, p. 436.

147
NICOLA DE ROSA

ne precaria dell’artista col suo spazio e coi suoi interlocutori. Rostagno osserva:
«Come Heine, Schumann è estraneo in patria e [...] il suo atteggiamento di ‘sospetto’
lo isola da qualsiasi contatto con la realtà circostante».14 Tuttavia, se la ‘ferita Hei-
ne’15 o quella Mahler sono geopolitiche, la ‘ferita Schumann’ è luttuosa per la perdita
delle sue amate: Laura, di cui Schumann prende il posto; Johanna Christiane, che
dunque non prepara mai un posto per lui; Emilie, l’altra sorellina che si suicida get-
tandosi nel fiume. Se l’amico medita guerra in insidiosa pace e le amate sono perdute,
nel suo spazio, il romantico manca di interlocutore: «il territorio non si apre ad un
popolo, tende ad aprirsi all’Amico, all’Amata, ma l’Amata è già morta, e l’Amico,
incerto, inquietante».16
L’Unheimliche che lo stesso Freud rinveniva nei racconti di E.T.A. Hoffmann, è
«quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo»; 17 soprag-
giunge col ritorno inatteso di ciò che più ci è familiare, come un doppio o un morto
che risorge dalla tomba; è un che di intrigante, attraente, ma proprio in quanto insi-
dioso e inquietante. Al tempo della faida con Wieck, che ostacolava il matrimonio tra
i due, Clara provocava in Schumann diffidenza come il desiderio di una fusione peri-
colosa. Nel novembre 1837, in una lettera rancorosa Schumann le racconta un sogno:

Poi, ora che tu tieni così poco conto del mio anello, da ieri neanche il tuo mi è più caro e
non lo porto più. Mi sognavo camminare sul bordo di un’acqua profonda, così mi veni-
va in mente e ci gettavo dentro il tuo anello, allora avevo l’infinito desiderio di lanciar-
mici dietro. 18

«Ich will meine Seele tauchen | In den Kelch der Lilie hinein»19 grida la lirica di Hei-
ne scelta da Schumann per Dichterliebe op. 48. Nel lapsus di Schumann, sono
l’ultima sillaba del nome Clara (oppure del nome Laura) e la prima del nome Robert
a concepire Raro, l’alter ego che solo può fondere i tipi antinomici di Eusebius e Flo-
restan. È come se Clara fosse un anello colmo d’acqua, un grembo in cui si può con-
densare ciò che è perduto per esser salvato, ciò che è morto per tornare a vivere.20
Nel dicembre 1837, Schumann scrive a Clara: «Addio, mio Fidelio nei panni di

14
ANTONIO ROSTAGNO, Schumann e «la fine del periodo artistico goethiano», in Schumann e i suoi rap-
porti con lo spazio letterario, a cura di Arnaldo Morelli, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2007, p. 25.
15
Cfr. THEODOR W. ADORNO, La ferita Heine, in Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 2012, pp. 34-
38.
16
DELEUZE - GUATTARI, 1837. Sul ritornello cit., p. 475.
17
FREUD, Il perturbante, in Opere, vol. 9, Torino, Boringhieri, 1977, p. 82.
18
«Und nun auch, daß Du so gar wenig von meinem Ring hältst – seit gestern hab ich Deinen auch gar
nicht lieb mehr u. trag ihn auch nicht mehr. Mir träumte, ich ging an einem tiefen Waßer vorbei, da fuhr
mir’s durch den Sinn und ich warf den Ring hinein – da hatte ich unendliche Sehnsucht, daß ich mich
nachstürzte» – Bw 1, p. 48.
19
«Voglio immergere la mia anima | nel calice del giglio» – HEINRICH HEINE, Ich will meine Seele
tauchen, in Buch der Lieder, Hamburg, Hoffmann und Campe, 1827, p. 115.
20
«Il doppio speculare di Robert, l’ideale nato dalla fusione del suo nome con quello dell’amata, non ha
altro posto per lui che quello occupato dalla sorellina morta Laura, il posto della sua prima identificazio-
ne melanconica» – EGGE, Gli ultimi anni di Robert Schumann cit., p. 128.

148
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

Julius Kraus e resta fedele al tuo Robert come lo era Leonore al suo Florestan».21
Nel febbraio 1838, con entusiasmo le racconta della vitalità del suo momento crea-
tivo: «per quattro settimane non ho fatto quasi nulla fuorché comporre». 22 Intanto,
consulta alcuni manoscritti di Beethoven. 23 Poco dopo la pubblicazione della Fanta-
sie, nel giugno 1839, si scusa con Herrmann Hirschbach per aver risposto alla sua
lettera con ritardo: «Urgenti circostanze, che fissano un verdetto su tutta la mia vita,
hanno la colpa di ciò; ora io letteralmente vivo di alcuni ultimi quartetti beethove-
niani fin dentro all’amore e all’odio».24 In quei giorni, Schumann decideva di risol-
vere per vie legali la questione del matrimonio. Fino all’amore e all’odio, imbastiva
una contesa con Wieck e sembrava rifletterla nel confronto con Beethoven e la sua
tradizione, «‘autorità’ dalla cui pesante presenza si rischia di essere schiacciati».25
Come in Fidelio Leonore libera Florestan dalle grinfie di Pizarro, Clara paradossal-
mente andrà salvata dalle grinfie di Wieck, cosicché l’eroina possa poi salvare
l’eroe. Durante la battaglia, la musica dell’amante racconterà una storia in cui «la
cattività diviene l’emblema esasperato della lontananza» 26 e, in segreto, celerà il
lamento per l’amata che si percepisce come perduta. Invocandola spasmodicamente,
l’amante si consola nel piacere di ritrovare ciò che più gli è noto. 27

21
«Adieu, mein Fidelio in Gestalt v. Julius Kraus und bleib treu wie Leonore ihrem Florestan Dein-
em Robert» – Bw 2, p. 53. Attestiamo l’interesse di Schumann per il Fidelio di Beethoven, in rela-
zione alle similitudini con la sua vicenda amorosa, rimandando anche a una testimonianza senza pa-
role. Il brano n. 21 dell’Album für die Jugend op. 68 cita il tema di «Euch werde Lohn in bessern
Welten», il terzetto in cui Florestan prigioniero supplica il pane a Rocco e Leonore intercede per
soddisfare il suo bisogno. La Stichvorlage, il Ms. 10995-A1 della Robert-Schumann-Haus a Zwic-
kau, voleva il ritorno della citazione beethoveniana alla fine del brano, che non ha titolo, ma presen-
ta al suo posto una triangolazione astrale (NdA). Senza la presunzione di svelarne un arcano, ve-
dremo come queste due ambiguità di fatto si ripresentino nei mss. della Fantasie.
22
«Seit 4 Wochen habe ich fast nichts als componirt» – Bw 1, p. 100.
23
«Skizzenbücher v. Beethoven» – ROBERT SCHUMANN, Tagebücher (di qui in poi Tb), vol. 2, a cu-
ra di Gerd Nauhaus, Leipzig, VEB Deutscher Verlag für Musik, 1987, p. 79.
24
«Dringende Verhältnisse, die eine Entscheidung meines ganzen Lebens ausmachen, haben die
Schuld daran; ich lebe jetzt einige der letzten Beethovenschen Quartette im besten Sinne bis auf die
Liebe und den Hass darin» – ID., Briefe. Neue Folge, a cura di Friedrich Gustav Jansen, Leipzig,
Breitkopf & Härtel, 1904, p. 158.
25
ROSTAGNO, Schumann e «la fine del periodo artistico goethiano» cit., p. 17.
26
ANDREA MALVANO, La citazione come strumento di poetica: Robert Schumann e le voci della
lontananza, in Schumann e i suoi rapporti con lo spazio letterario cit., p. 156. Anche Jankélévitch
osservava che «il languore dell’assenza e la nostalgia della reminiscenza offrono alla musica
l’ambito remoto dal quale essa attinge i suoi messaggi» – VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, La musica e
l’ineffabile, Milano, Bompiani, 1998, p. 44.
27
La psicanalisi osservava come «rima, allitterazione, ritornello e altre forme di ripetizione di suoni
verbali simili in poesia sfruttino la stessa fonte di piacere, il ritrovamento del già noto» – SIGMUND
FREUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in Opere, vol. 5, Torino, Boringhieri,
1972, p. 109.

149
NICOLA DE ROSA

Aprile 1836, un annuncio sulla «Neue Zeitschrift für Musik» sollecita il pubblico
di Bonn ad elargire generose donazioni per la costruzione del monumento a Beetho-
ven in Münsterplatz. August Schlegel è presidente del bonner Verein che promuove il
progetto e dunque primo firmatario della proposta pubblicata in gazzetta. 28 A giugno,
Florestan, Eusebius, Jonathan e Raro firmano quattro interventi a tal proposito e tra
questi appare l’aforisma in cui Daverio vedeva un’immagine dialettica: «io dico, di
certo un monumento è una rovina tendente in avanti (come questa un monumento
tendente all’indietro)». 29 A settembre, Schumann segna sul diario l’«idea per un tri-
buto a Beethoven»:30 sostenere il progetto coi proventi derivati dalla pubblicazione di
una grande sonata. A dicembre il brano è quasi pronto 31 e di lì a poco Schumann si
rivolge all’editore Kistner presentando il lavoro miscellaneo di due compositori anco-
ra esordienti: Florestan ed Eusebius32 vogliono omaggiare Beethoven col brano dal
titolo «Ruinen. Trophaeen. Palmen. Große Sonate f.[ür] d.[as] Pianof.[orte] Für Bee-
thovens Denkmal». 33 Kistner rifiuta il pezzo, lo stesso fa Haslinger e mesi dopo fi-
nalmente lo accetta Breitkopf & Härtel. Ma qui iniziano le vicissitudini sui dettagli
della pubblicazione. Nell’aprile 1838, Schumann presenta il lavoro a Clara come una
raccolta di fantasie, le svela che “Dichtungen” sarà il titolo dell’opera e “Ruine”,
“Siegerbogen” e “Sternbild” i titoli dei singoli movimenti.34 Incuriosisce il confronto
tra la lettera a Kistner e quella indirizzata a Clara. Rispetto agli altri titoli che cam-
biano, “Ruinen” rimane invece pressoché invariato nell’arco di due anni.
Ecco che la questione dei titoli di quella che sarà la Fantasie si aggroviglia se da
quella epistolare veniamo a una consultazione della tradizione manoscritta. Si consi-
deri il noto autografo del primo movimento (maldestramente venduto a Londra in due

28
Cfr. Aufruf an die Verehrer Beethoven’s, «Neue Zeitschrift für Musik» (di qui in poi NZfM) 4/29,
1836, pp. 121–122.
29
«Ich sage, schon ein Denkmal ist eine vorwärts gedrehte Ruine (wie diese ein rückwärts gedre-
htes Monument)» – ROBERT SCHUMANN, Monument für Beethoven. Vier Stimmen darüber, in NZfM
4/5, 1836, p. 212. «Schumann’s remarks on the paradoxical nature of monuments, written just as he
was conceiving the work that would eventually become the Fantasie, can be read in tandem with
what Walter Benjamin would later describe as a “dialectical image”» – JOHN DAVERIO, Nineteenth-
Century Music and the German Romantic Ideology, New York, Schirmer, 1993, p. 20.
30
«Idee zu Beitrag f. Beethoven» – Tb 2, p. 25.
31
«Arbeit: Sonate für Beethoven. Bis auf Kleinigkeiten Anf. Dezember geendet» – Ivi, p. 30.
32
Il debutto di Florestan ed Eusebius come compositori era avvenuto con la pubblicazione della So-
nata op. 11 nel 1836, poi Schumann avrebbe chiesto una seconda edizione senza pseudonimi. Cfr.
ELISA NOVARA, La genesi della Sonata op. 11 in Fa diesis minore. Frammentismo e grande forma,
in Robert Schumann. Dall’Italia cit., p. 63.
33
«Florestan und Eusebius wünschen gern etwas für Beethovens Monument zu thun und haben zu
diesem Zweck etwas unter forgendem Titel geschrieben: „Ruinen. Trophaeen. Palmen. Große
Sonate f. d. Pianof. Für Beethovens Denkmal“» – ROBERT SCHUMANN, Leben aus seinen Briefen,
vol. 1, a cura di Hermann Erler, Berlin, Ries & Erler, 1887, p. 101.
34
«Das nächste im Druck sind dann Phantasien, die ich aber zum Unterschied von den Phanta-
siestücken, „Ruine, Siegerbogen u. Sternbild“ und „Dichtungen“ genannt habe» – Bw 1, p. 145.

150
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

aste Sotheby’s del 1977 e del 1984). Reca in francese un’iscrizione aggressivamente
depennata: «Ruines. Fantaisie pour le Pianoforte dediée à <…>». Questa è sostituita
con «Ruinen, Trophäen, Palmen. Große Sonate für das Pianoforte. Für Beethovens
Monument». Siamo dunque di fronte all’autografo di un primo movimento, “Rui-
nen”, all’origine pensato singolarmente 35 e poi incluso nel progetto più ampio del
monumento a Beethoven, presenza ingombrante che dietro l’inchiostro offusca una
dedica più segreta. Oltretutto, all’altezza della celebre sezione che nelle edizioni
odierne è segnata con «Im Legendenton» alla sinistra del rigo, come un’indicazione
di andamento, l’autografo reca invece “Romanza” al centro, come un titolo vero e
proprio. 36 Siamo trascinati subito verso la grande questione della forma vocale nella
musica strumentale; concettualmente, verso l’antinomia di una voce che parla in un
mondo senza parole.37
C’è poi la Stichvorlage, il Ms. Mus. 37 custodito alla Biblioteca Nazionale Szé-
chényi di Budapest, ultimo esemplare di scambio col copista Breitkopf, subito prece-
dente alla prima edizione. Il titolo è «Dichtungen. Für das Pianoforte. Hrn. Franz
Liszt zugeeignet», ma “Dichtungen” è rimpiazzato da “Fantasie”. All’inizio di Im Le-
gendenton, poi, il copista lascia spazio tra l’intermezzo e la musica che lo precede,
come se fosse qualcosa di lontano dal mondo che lo circonda, e pone il titolo “Le-
gende” al centro. Tuttavia, nel manoscritto “Legende” è sostituito in prima istanza da
«Erzählend im Legendenton» alla sinistra del rigo, a sua volta «Erzählend» è cancel-
lato e l’indicazione diventa «Im Legenden-Ton», con la correzione delle maiuscole.
Come “Romanza” solleva il problema della voce nella Fantasie, coi rinvii di “Legen-
de” e ancor di più di «Erzählend» alla sfera della narrazione meditiamo su cos’è che
la voce sussurra. Ma ci sorprende anche l’esito dei titoli contenutistici che rifinivano i
singoli movimenti. Nella Stichvorlage, “Ruinen”, “Siegesbogen” e “Sternbild” sono
scartati e ad essi subentra niente di meno che una nota in cui si esplicita la richiesta di
porre una triangolazione astrale, prontamente abbozzata da Schumann, a capo di ogni
singolo movimento. 38 Benjamin applaudirebbe all’immagine generata prima dal titolo
del terzo movimento (seppur Schumann scriva Sternbild, mentre la ricorrente figura
benjaminiama sia quella della Konstellation) e in seguito riflessa attraverso i simboli,
in un brano in cui, come vedremo, indubbiamente «quel che è stato si unisce fulmi-
neamente con l’ora in una costellazione». 39

35
Cfr. NICHOLAS MARSTON, “Im Legendenton”: Schumann’s “Unsung Voice”, «19th-Century Mu-
sic» 16/3, 1993, p. 230.
36
Per le riproduzioni dell’autografo su permesso di Sotheby’s cfr. NICHOLAS MARSTON, Schumann.
Fantasie, Op. 17, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, pp. 32-33.
37
«The signs of narrative in music include not merely an event-sequence and a way of reading, but
rather a voice with a characteristic way of speaking» – CAROLYN ABBATE, Unsung Voices. Opera and
Musical Narrative in the Nineteenth Century, Princeton, Princeton University Press, 1991, p. 48.
38
«Ueber die Anfänge der drei verschiedenen Nummern bitte ich jedermal drei Sterne zu setzen». Per
le riproduzioni della Stichvorlage su permesso della Biblioteca Nazionale Széchényi cfr. MARSTON,
“Im Legendenton” cit., p. 235 e ALAN WALKER, Schumann, Liszt and the C Major Fantasie, Op. 17:
A Declining Relationship, «Music & Letters», 60, 2 (1979), pp. 158-160.
39
WALTER BENJAMIN, I «passages» di Parigi, in Opere complete, vol. 9, Torino, Einaudi, 2000, p. 516.

151
NICOLA DE ROSA

Eppure, tra l’aprile e il maggio 1839, Breitkopf & Härtel annuncia la pubblicazione
del brano semplicemente come Fantasie,40 i titoli dei singoli movimenti svaniscono
nel nulla e con loro anche la simbologia astrale. Il brano riporta una dedica a Liszt,
quella segreta dell’autografo è sepolta nel calco dell’inchiostro e neppure di quella a
Beethoven c’è più traccia. Tornando al progetto scultoreo, i bonnesi vedranno cadere
il velo dal monumento solo nell’agosto 1845, durante una cerimonia in pompa magna
per il primo Beethovenfest. 41 C’era Federico Guglielmo IV di Prussia, ma Schumann
disattese l’evento. 42
Abbiamo osservato come gli avvicendamenti epistolari ed editoriali della Fantasie
ce la presentino coi titoli formali “Sonate” e “Fantasie”, col titolo “Dichtungen”, le
triadi descrittive per i singoli movimenti “Ruinen”, “Trophäen”, “Palmen” e “Rui-
nen”, “Siegesbogen”, “Sternbild” e gli ipotetici titoli “Romanza” e “Legende” per
l’intermezzo Im Legendenton. A partire dalla sua nomenclatura, il brano alimenta
quelle ambiguità che lo pongono in un limbo della forma e animano una riflessione
sul contenuto che esso vorrebbe esprimere. Ma già in merito alle qualità dei titoli de-
scrittivi in generale pesa uno dei tanti «warum?» lasciati in sospeso dal trasognato
Eusebius e, in questo caso, mosso proprio da uno spunto beethoveniano:
La tua affermazione, Florestan, che ami la Sinfonia “Eroica” e la “Pastorale” di meno,
perché Beethoven stesso le ha denominate così e perciò ha posto dei limiti alla fantasia,
mi sembra derivare da una giusta impressione. Ma tu chiedi: perché? Allora io a stento
saprei rispondere. 43

Da una parte, Florestan a gran voce affermava come la musica «sarebbe un’arte in-
significante, se risuonasse soltanto e non avesse linguaggio né segni per gli stati
d’animo» 44. Dall’altra, commentando la Grande ouverture de Waverley op. 1 di Ber-
lioz, Schumann si lamentava della tendenza a chiedere il significato di ogni nota:
«Cielo, quando verrà finalmente il tempo in cui non ci si chiederà più cos’abbiamo
inteso con le nostre divine composizioni [...]». 45 Se la sua posizione in merito alla di-
cotomia tra il suono puro e quello descrittivo appare composita, ciò si spiega proprio
in quanto per lui questo manicheismo risulta sterile:
40
Cfr. Anzeige, in NZfM 10/40, 1839, p. 160.
41
Cfr. Inauguration des Beethoven-Monument, in NZfM 23/7, 1845, p. 28.
42
«Reise zum Beethovenfest angetreten Donnerstag d. 31sten Juli 1845»; «schon sehr krank
aufgestanden»; «Aenderung des Reiseentschlussen» – Tb 2, p. 393.
43
«Deinen Ausspruch, Florestan, daß du die Pastoral- und heroische Symphonie darum weniger
liebst, weil sie Beethoven selbst so bezeichnete und daher der Phantasie Schranken gesetzt, scheint
mir aus einem richtigen Gefühl zu beruhen. Fragst du aber: warum? so wüßt’ ich kaum zu ant-
worten» – ROBERT SCHUMANN, Aus Meisters Raros, Florestans und Eusebius’ Denk- und
Dichtbüchlein, in Gesammelte Schriften über Musik und Musiker (di qui in poi GS), vol. 1, a cura di
Martin Kreisig, Leipzig, Breitkopf & Härtel, 1914, p. 28.
44
«Das wäre eine kleine Kunst, die nur klänge und keine Sprache noch Zeichen für Seelenzustände
hätte!» – Ivi, p. 22.
45
«Himmel, wann endlich wird die Zeit kommen, wo man uns nicht mehr frägt, was wir gewollt
mit unsern göttlichen Compositionen [...]» – SCHUMANN, Concertouverturen für Orchester, in
NZfM 10/47, 1839, p. 187.

152
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

Quanto poi alla difficile questione, riguardo fino a che punto la musica strumentale pos-
sa arrivare alla rappresentazione di pensieri e di avvenimenti, in molti guardano troppo
inquieti alla cosa. Si sbaglia di certo quando si crede che i compositori si mettano da-
vanti carta e penna col misero intento di esprimere, di descrivere, di dipingere questo o
quello. Tuttavia, non si sottovalutino gli influssi casuali e le impressioni dall’esterno.
Inconsciamente, accanto alla fantasia musicale continua spesso ad agire un’idea [...]. 46

Le idee che muovono la musica devono annidarsi sia nella relazione dialettica
dell’opera d’arte con la sua stessa tradizione estetica che in quella con gli eventi che
ne circondano la produzione. Così, un ragionamento sulla forma e sul contenuto
dell’opera si svincola dalla concezione che le vorrebbe nettamente separate. In merito
alle qualità dei titoli formali “Sonate” e “Fantasie”, ci è utile rilevare l’indirizzo este-
tico di Schumann all’alba della pubblicazione del brano. Nel 1839, egli esortava i
compositori a volgersi verso le forme lunghe: «si viri verso generi superiori, verso la
sonata, verso il concerto, o se ne creino di più grandi». 47 Allo stesso tempo, però, in-
timava di non rimanere incollati alla tradizione. In merito alla sonata:
ma per il resto sembra che la forma abbia percorso il suo ciclo vitale e sì questo è
nell’ordine delle cose e non dovremmo ripetere per secoli l’uguale ed essere accorti an-
che verso il nuovo. Dunque si scrivano sonate, o fantasie (ciò che garba come nome),
solo non ci si dimentichi della musica. 48

Per lo Schumann secondo il quale il tempo della sonata era concluso, le manifesta-
zioni coeve di quel genere rischiavano di fermarsi a imitazioni poco riuscite. I com-
positori avrebbero dovuto abbandonare il filisteismo e abbracciare nuovi orizzonti.
Ecco un altro passo in linea con l’invito a chiamare ciò che si compone “sonata” o
“fantasia”, come se fossero interscambiabili:
Noi siamo abituati, in base al nome che una cosa porta, a richiuderla in se stessa; ripo-
niamo determinate aspettative in una “fantasia”, altre in una “sonata”. Per i talenti di se-
condo rango è sufficiente padroneggiare la forma tradizionale, a quelli di primo rango
consentiamo che l’allarghino. 49

46
«Was überhaupt die schwierige Frage, wieweit die Instrumentalmusik in Darstellung von
Gedanken und Begebenheiten gehen dürfe, anlangt, so sehen hier viele zu ängstlich. Man irrt sich
gewiß, wenn man glaubt, die Componisten legten sich Feder und Papier in der elenden Absicht
zurecht, dies oder jenes auszudrücken, zu schildern, zu malen. Doch schlage man zufällige Einflü-
sse und Eindrücke von außen nicht zu gering an. Unbewußt neben der musikalischen Phantasie
wirkt oft eine Idee fort [...]» – SCHUMANN, Sinfonie von H. Berlioz, in GS 1, p. 84.
47
«Zu höheren Gattungen zu wenden, zur Sonate, zum Concerte, oder eigene grössere zu schaffen»
– SCHUMANN, Etuden für das Pianoforte, in NZfM 10/34, 1839, p. 74.
48
«im Uebrigen aber scheint es, hat die Form ihren Lebenskreis durchlaufen und dies ist ja in der
Ordnung der Dinge und wir sollen nicht Jahrhunderte lang dasselbe wiederholen und auch auf Neu-
es bedacht sein. Also schreibe man Sonaten, oder Phantasien (was liegt am namen), nur vergesse
man dabei die Musik nicht» – SCHUMANN, Sonaten für das Clavier, in NZfM 10/34, 1839, p. 134.
49
«Wir sind gewohnt, nach dem Namen, den eine Sache trägt, auf diese selbst zu schließen; wir
machen andere Ansprüche an eine “Phantasie”, andere an eine „Sonate“. Bei Talenten zweiten
Ranges genügt es, daß sie die hergebrachte Form beherrschen: bei denen ersten Ranges billigen wir,
daß sie sie erweitern» – SCHUMANN, Sinfonie von H. Berlioz cit., p. 70.

153
NICOLA DE ROSA

Schumann continua con la chiosa secondo cui solo al genio è permesso di produrre
liberamente. Ci interessa, però, il fatto che l’impulso riformatore, in risposta alla vo-
luminosa eredità della Wiener Klassik, non appaia meramente demolitore. Il proposi-
to di decostruzione della forma a partire dalla rigidità del suo nome è da leggere
nell’ottica dell’ibridazione. L’allargamento della forma forza il lettore oltre la sua sta-
tica identificazione e muove verso il domandare critico riguardante la sua concezione.
Ad esempio, la fantasia potrebbe tendere verso una struttura interrotta e la sonata ver-
so una struttura in continuum. Tuttavia, resta arduo compiere il superamento della
tradizione, perché l’embrione della riforma nasce dall’autorità da oltrepassare. Bee-
thoven scrive due Sonata quasi una fantasia, op. 27 n. 1 e 2. Solo una forma nuova
capace di connettere l’allora e l’avvenire a partire dall’ora avrebbe potuto sovvertire
la forma vecchia.

☆☆

Il primo movimento della Fantasie si apre in sforzando con l’armonia di sopratoni-


ca incastrata su un pedale di dominante. Sin dall’inizio si rivela questa qualità costitu-
tiva del brano: ciò che nella dialettica tonale di per sé tende alla distensione, qui è de-
stinato a vorticare rimanendo in tensione perpetuamente. Quel pedale di dominante
non risolverà mai in maniera esplicita, se non alla fine del brano e per mezzo di un
‘fattore esterno’. La sequenza di semicrome la–sol–fa al basso preannuncia l’origine
della frase a1 (bb. 2-5), che di lì a poco si staglierà in ottave al canto, aprendo il primo
gruppo tematico (bb. 1-33): 50

Questa frase discendente è seguita dalla sua controparte ascendente che termina
sulla settima di dominante. Già al secondo periodo, a1 si sposta di un tono in avanti e
a2 (bb. 14-17) che le consegue prosegue anch’essa in moto discendente:

La melodia asseconda l’illusione del basso di star portando a sol maggiore. Una
volta che il basso affonda sul sol, però, capiamo dalla settima di essere ancora
nell’area di dominante. Ecco che a1 riappare contratta in valori e a2 si estende verso il

50
Il lettore perdonerà qualche licenza grafica utile a evidenziare, nei prossimi esempi musicali, la
genesi monomotivica del primo movimento della Fantasie.

154
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

basso in intervalli (bb. 19ss.). La musica porta in ritardando verso un’imminente mo-
dulazione, preannuciata dal la♭. Qui, si ha la straniante riproposizione del primo tema
in mi♭ maggiore (bb. 28ss.). Essa restituisce quasi l’impressione che la musica sia
tornata indietro invece che proseguire in avanti, che l’esposizione stia cominciando di
nuovo,51 oppure che inizi una sorta di transizione che attinge dal primo tema. È curio-
so notare come la riesposizione del motivo condensi lo sviluppo che esso stesso fin lì
ha subito: è forte com’era a b. 2 ed è contratto come poi era divenuto a b. 19.
In realtà, proseguendo nell’ascolto, capiamo che il fa al basso si prefigurava già
come sottodominante del do minore con cui inizia la vera transizione t (bb. 33-41).
Dunque il vortice di semicrome alla sinistra si interrompe alternandosi con un inciso
sincopato alla destra. Questo è connesso a ciò che è già stato (osserveremo come lo
sia anche a ciò che ancora dev’essere), nella misura in cui ricalca l’inciso in levare di
a2:

La transizione, passando per sol minore, porta al secondo tema in re minore. Con-
frontando il materiale col primo gruppo, si nota subito quanto il secondo (bb. 41-81)
conservi ancora la figurazione di semicrome all’armonia. Alla melodia, invece, la fra-
se b1 (bb. 41-44) mantiene il moto discendente per gradi congiunti e b2 (bb. 45-47) si
estende anch’essa verso il basso in intervalli. È difficile negare un’analogia con lo
sviluppo che a1 e a2 subiscono a bb. 19ss.:

51
«One has the distinct impression that the exposition, after a false start, is beginning again, this
time firmly in E♭ major» – LINDA CORRELL ROESNER, Schumann’s “Parallel” Forms, in «19th-
Century Music» 14/3, 1991, p. 274.

155
NICOLA DE ROSA

Nella proposta di materiali così interconnessi, tra il primo e il secondo gruppo,


l’esposizione della Fantasie elude la chiara logica oppositiva su cui si fonda la dialet-
tica della forma-sonata; senza di essa, il suo discorso sfugge al ‘senso’. Da b. 49 in
poi, il vortice di semicrome all’armonia, che la musica si portava dietro sin
dall’inizio, lascia il posto alle sestine di crome e, alla melodia, il secondo tema inizia
a mimetizzarsi. Ricordano la sua forma invertita quelle semiminime accentate, inca-
strate tra le sestine in opposizione emiòlia, ad esempio a b. 54. Così, come accadeva
per il primo, il secondo tema si trasfigura per poi essere esposto nuovamente in
un’altra tonalità, in questo caso fa maggiore (bb. 61ss.). Capiamo che la bivalenza to-
nale eretta intorno alla distanza di terza minore, do-mi♭ per il primo gruppo, re-fa per
il secondo, è appunto prerogativa di entrambi i gruppi tematici. 52 Tuttavia, quando il
secondo tema riappare in fa maggiore, è come se fosse un altro tema, con una lirica
nuova, perché ormai il vortice di semicrome all’armonia ha fatto posto alle crome per
terze il cui moto sincopato evoca un’eloquenza da ballata romantica.
A b. 73, il secondo tema si disintegra in una progressione in ritardando, essa porta
al breve Adagio (bb. 76-81), che si può pensare come una sorta di coda dal tono quasi
recitativo. Ora, a b. 82, inizia la sezione di solito classificata come il brevissimo svi-
luppo del primo movimento (bb. 82-97). Tuttavia, se consideriamo il tipo di elabora-
zione monomotivica perseguita dal brano fin qui, la stessa idea di uno sviluppo a sé
stante risulta quasi inservibile. La cosa certa è che le ottave sincopate a b. 82 sono
anch’esse legate all’inciso a bb. 14-15 e pure il frammento lirico a bb. 90-91 è una
reminiscenza del materiale tematito. Questa sezione, più che le sembianze di uno svi-
luppo, sembra assumere quelle di un’altra transizione. Essa ci rivela che l’unico crite-
rio strutturale del brano è quello di una sconnessa coazione a ripetere. Infatti, la tran-
sizione in vero non transita, non conduce in avanti, bensì all’indietro, è retroattiva.
Quando tutto sembra portare a una cadenza sulla dominante di sol minore, a b. 97, il
basso affonda sul re, ma il si e il sol non risolvono sul la e sul fa♯. La dominante di
do maggiore ci rispedisce allo spazio sonoro del primo gruppo tematico. La Fantasie
sta ricominciando da capo.
Si ha quella che definiremmo ripresa (bb. 97-296),53 senza che lo sviluppo sia mai
iniziato o, meglio, non abbia mai avuto modo di terminare. La ripresa non ritorna pe-
rò all’inizio del brano, ma parte dalla forma contratta e sottovoce di a1. Sembra esser-
ci nuovo materiale nell’episodio transitorio (bb. 105ss.) che divide la prima e la se-
conda esposizione del tema. Stavolta, a1 viene riproposta (bb. 119ss.) a gran voce e
nella forma iniziale, seguita da a2 estesa verso il basso in intervalli. Intanto, il pedale
di tonica ha rimpiazzato quello di dominante.
È questo il momento in cui la musica si dissolve nei cromatismi discendenti che
portano al celebre intermezzo Im Legendenton in do minore (bb. 129-224). La sua
52
«The juxtaposition of keys removed by a minor third (here, C/ E♭) emerges as a fundamental fea-
ture of thematic presentation in the movement as a whole» – JOHN DAVERIO, Schumann’s “Im
Legendenton” and Friedrich Schlegel’s “Arabeske”, «19th-Century Music» 11/2, 1987, p. 156.
53
Si consideri la circoscrizione della ripresa, tra b. 97 e b. 296, indipendentemente da Im Legenden-
ton che ad essa si interpone.

156
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

straniante introduzione, che invece è in sol, è il “c’era una volta” 54 che contribuisce a
porre la musica, come tutte le leggende che si rispettino, lontana nel tempo e nello
spazio. Con la promessa di ritornare sulla questione, accenniamo al fatto che, oltre ad
appellarsi alla prospettiva di distanziamento appena descritta, quest’intermezzo di-
verge perché, nella sua forma rondò, appare nettamente più organico, più razionale ri-
spetto a ciò che lo circonda. Ad ogni modo, seppur in un contesto che diverge, la fra-
se l (bb. 140-144) ricalca quella che era la transizione dal primo al secondo tema, che
non a caso, almeno inizialmente, era in do minore:

Più volte, l è esposto in modo più o meno inalterato, ma con una corazza sonora
sempre più vigorosa. La musica raggiunge un climax a b. 156 e di lì in poi il tema si
alterna a due episodi più rapsodici, che intervengono tra bb. 156-173 e bb. 181-204. Il
secondo di questi, ancora una volta, ci rassicura sull’interconnesione motivica di Im
Legendenton con il materiale dell’esposizione, poiché ne rievoca il ricorsivo moto di-
scendente per gradi congiunti. Quando l riappare, in maniera simile alla prima volta,
conduce a un climax a b. 212. Im Legendenton giunge al termine quando una breve
coda finale sembra alludere di nuovo al materiale dell’esposizione, riproponendone
stavolta il moto discendente per gradi disgiunti. Quando alla coda segue la riappari-
zione del primo tema (bb. 225ss.), ci accorgiamo che Im Legendenton era posto,
nell’ossatura del primo movimento della Fantasie, come un elemento di spaccatura
nella ripresa,55 che in effetti ricomincia da dove si era interrotta.
Dunque la ripresa ripropone a gran voce il primo tema nella sua forma in mi♭
maggiore. Quella che era la transizione dell’esposizione qui si accorcia e si conclude
sulla dominante di do minore. Ecco che il secondo tema stavolta è esposto in questa
tonalità e di conseguenza la sua riesposizione a distanza di terza minore ora sarà in
mi♭ maggiore. Se nell’esposizione abbiamo osservato il rifiuto della contrapposizione
dialettica tra il primo e il secondo gruppo dal punto di vista della conservazione del
materiale melodico, nella ripresa si rincara la dose, poiché il secondo tema si mantie-
ne indubbiamente più vicino anche allo spazio armonico del primo. Ora approdiamo a
un punto cruciale del movimento. Dopo la riesposizione del secondo tema in mi♭
54
«Is it too fanciful to hear these measures as a musical analogue for the kind of conventional open-
ing gambit in literary narrative (“Once upon a time, long ago…”) [...]?» – MARSTON, “Im
Legendenton” cit., p. 238.
55
«“Im Legendenton” has been intentionally placed to disturb what would otherwise have been an
absolutely symmetrical form: exposition –“Im Legendenton” – recapitulation. It is rather positioned
between the two tonal elements of the first theme group in the recapitulation, C/E♭» – DAVERIO,
Schumann’s “Im Legendenton” cit., p. 158.

157
NICOLA DE ROSA

maggiore, la musica procede esattamente come nell’esposizione. Ritroviamo quella


che abbiamo riconosciuto come una sorta di coda in recitativo e anche il presunto svi-
luppo che ci sembrava più una transizione retroattiva. Difatti, dopo di essa, la musica
ancora una volta ricomincia da capo. Il primo tema riappare, come se la ripresa tenes-
se fede alla sua funzione davvero fino in fondo, ripetendo finanche se stessa e pla-
smando così la mise en abyme di una musica dal ricorso potenzialmente infinito. Se
Schumann davvero riesce a imperniare un’opera a matrioska nei confini della carta
stampata, l’unico modo per interromperla è calare dall’alto, nel corso della musica,
un evento estrinseco ad essa.
La musica potrebbe continuare all’infinito, se non fosse per il sopraggiungere di
una coda (bb. 296-309) in cui spicca la frase γ, costruita sulle note del lied n. 6 dal ci-
clo di Beethoven An die ferne Geliebte op. 98. Considerando che solo qui Schumann
concede, al vacillare della sua musica, la cadenza perfetta su un do mai realmente af-
fermato sin dal pedale di dominante all’inizio, il tema di Beethoven finisce per porsi
sia come esito che come principio armonico del brano. In più, scopriamo che γ veniva
preparata dai suoi accenni fugaci, come quelli a bb. 156-157 o a bb. 49-50. Da una
parte, è chiaro che il tema di Beethoven concretamente sia antecedente a tutto il resto,
dall’altra, sembra sgorgare dall’evoluzione motivica del brano. Se si raffronta poi col
materiale del primo e del secondo tema, paradossalmente iniziamo a dubitare di ciò
che funge da materiale primario, di ciò che viene prima e di ciò che viene dopo:

Daverio osservava che «forse la rete motivica di Schumann è plasmata per dare
l’impressione generale che tutto sia connesso a tutto il resto, sia avanti che indietro
nel tempo». 56 Allora, il tema di Beethoven si pone anche come esito e come principio
melodico del brano. Quando in An die ferne Geliebte la musica giunge a «Nimm sie
hin denn, diese Lieder», il canto dell’amante si proietta nella lontananza, l’amata si
presta all’ascolto e, come in un asterismo, si realizza la configurazione spaziale che

56
«Perhaps Schumann’s motivic network was fashioned to produce the general impression that eve-
rything is related to everything else, both forward and backward in time» – Ivi, p. 161.

158
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

lacera il vuoto tra i due. 57 Nella sua origine armonica, la tonalità C in notazione tede-
sca, e in quella melodica, un tema dal chiaro potenziale semantizzabile, il primo mo-
vimento della Fantasie si dissolve invocando un’amata lontana che inizia per “C”.
Nella Stichvorlage, anche il terzo movimento si chiudeva con l’avvento del tema di
Beethoven.58 Schumann alla fine cambierà idea, ma un appunto di Raro saggiamente
sentenziava che «la prima concezione è sempre la più naturale e la migliore.
L’intelletto sbaglia, il sentimento no». 59
☆☆☆

Come un monumento che piange e allo stesso tempo celebra un parricidio, il primo
movimento della Fantasie vorrebbe utilizzare Beethoven proprio per conquistarne
l’eredità. Le ambiguità che esso ci pone sollecitano il problema critico che vede nel
frammentismo, da una parte, il carattere essenziale dell’architettura schumanniana e,
dall’altra, il fattore compromettente per la dialettica strutturale delle forme lunghe.
Tuttavia, il fatto che il brano si qualifichi in un difetto di forma lo compromette quan-
to un quadro di Klee può essere compromesso dal suo infantilismo. Rostagno osserva
che, a fine anni Trenta, nelle forme lunghe di Schumann «l’attimo, il particolare, il
momento, la parte, il frammento è valido per sé, non come funzione del tutto destina-
ta a realizzare un obiettivo finale».60 Piuttosto, la nozione di obiettivo, melodico o
armonico, sembra svincolata dalla sua strutturazione in una temporalità lineare, che
rinchiuda la musica nella prospettiva di un sistema compiuto:
In Schumann tutto un sapiente lavoro melodico, armonico e ritmico, giunge a questo ri-
sultato semplice e sobrio, deterritorializzare il ritornello. Produrre un ritornello deterri-
torializzato, come meta finale della musica, lasciarlo andare libero nel Cosmo, è più im-
portante che costruire un nuovo sistema. [...] Resta il fatto che non si è mai certi di essere
abbastanza forti, poiché non si ha alcun sistema, si hanno soltanto linee e movimenti. 61

Nella musica disorganica del romantico che non è mai certo di essere abbastanza
forte, che abita il suo territorio, ma percependolo come perduto, una ripartizione in
concatenamenti riconducibili precisamente a quel modello organico che è la forma-
sonata – l’intero che si compie per contrapposizione dell’idea con la sua negazione –
risulta inservibile, poiché viene a mancare la sua chiara logica oppositiva. La dialetti-
ca stabilità-instabilità, realizzata sul piano armonico in distensione-tensione e su quel-

57
«The poem unfolds the topos of lament transformed into song, which the male lover sends into
the distance to overcome what separates him from his beloved. But only in the last song of Beetho-
ven’s cycle, as the sun sets over a blue lake, will the beloved sing these songs. Only then, their
“Liebesklang” has the effect of actioindistans: the spiritual communion of hearts bridging the gap
between their physically distant “bodies”» – BERTHOLD HOECKNER, Schumann and Romantic Dis-
tance, «Journal of the American Musicological Society» 50/1, 1997, pp. 114.
58
Cfr. WALKER, Schumann, Liszt and the C Major Fantasie cit., p. 160.
59
«Die erste Konception ist immer die natürlichste und beste. Der Verstand irrt, das Gefühl nicht» –
SCHUMANN, Aus Meisters Raros, Florestans und Eusebius’ Denk- und Dichtbüchlein cit., p. 25.
60
ROSTAGNO, Schumann e «la fine del periodo artistico goethiano» cit., p. 29.
61
DELEUZE - GUATTARI, 1837. Sul ritornello cit., pp. 487-488.

159
NICOLA DE ROSA

lo melodico in esposizione-sviluppo, è licenziata da una instabilità-instabilità per la


quale la musica sembra precipitare perpetuamente a vuoto, come nell’esperienza
dell’inconscio descritta da Lacan: «la forma essenziale in cui ci appare inizialmente
l’inconscio come fenomeno è la discontinuità-discontinuità in cui qualcosa si manife-
sta come un vacillamento». 62 Se delle idee si aggirano in questo precipitare della mu-
sica, in ogni caso, il loro senso non può essere letterale. Jankélévitch osservava che
«la musica si muove su un piano del tutto diverso da quello dei significati intenziona-
li, [...] senza la visione retrospettiva del cammino percorso, il puro ascolto non note-
rebbe lo schema della sonata». 63 Le parole e la sintassi sono mezzi della coscienza,
laddove, come nel sogno, nelle fantasie mnestiche, l’inconscio ci parla per figurazio-
ni. Se la parola appartiene alla storia della psiche, l’immagine e il suono appartengo-
no invece alla sua pre-storia.64 In questo senso, il linguaggio è la censura
dell’inconscio al degré zéro e il suo uso sovversivo implica un risarcimento. Il bam-
bino gioca con le forme della lingua e accosta le parole senza badare al senso. Da
adulto questa libertà gli viene censurata, gli sono permesse solo combinazioni sensa-
te. Emerge così l’investimento nel piegare le limitazioni della lingua manipolandone
la forma e il contenuto, costruendone schemi esoterici, il non-più-bambino «trova il
suo diletto nel fascino inerente a ciò che la ragione proibisce».65
Nella Fantasie che vuole realizzare ciò che proibisce la forma, lo spazio melodico
è un’unica radice che si estende come un rizoma e quello armonico è la tesa corteccia
che potrebbe non distendersi mai, se non per l’intervento di fenomeni esterni, perni
asimmetrici che sopraggiungono quando meno li si aspetta, ad aprire e allo stesso
tempo colmare le faglie di un territorio destrutturato. Ecco dunque l’avvento di Im
Legendenton come fenomeno che spacca e s’intercala nella ripresa e quello di An die
ferne Geliebte come evento che risulta principio della musica e ne decreta anche
l’esito. Abbiamo osservato come quel posizionamento di Im Legendenton produca un
certo effetto di distanziamento. Im Legendenton sopraggiunge da fuori, da lontano,
«chiaramente interrompe un processo in moto, solo per ‘parlare’ in un modo che è
nettamente diversificato da quello della musica circostante». 66 Per una voce che si
propone di narrare in tono di leggenda, la distanza è prerogativa fondamentale del ter-
ritorio che separa il poeta da chi ascolta la sua storia.67 Eppure, da una prospettiva co-
sì lontana, Im Legendenton sembra comunque raccontare episodi vicini, attraverso le

62
JACQUES LACAN, Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Torino, Einau-
di, 2003, p. 26.
63
JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile cit., p. 16.
64
«La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione
della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta» –
FREUD, L’inconscio, in Opere, vol. 8 cit., p. 85.
65
ID., Il motto di spirito cit., p. 113.
66
«It clearly interrupts an ongoing process, only to “speak” in a manner that is sharply differentiat-
ed from that of the surrounding music» – DAVERIO, Nineteenth-Century Music cit., p. 29.
67
«Music is compared [...] with a literary genre [...] characterized above all by great discursive dis-
tances between a narrator's voice and the actions recounted. [...] Discursive space must be taken as
one necessary mark of narrativity» – ABBATE, Unsung Voices cit., p. 26.

160
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

continue allusioni ai frammenti dell’esposizione. A differenza di essa, però,


l’intermezzo appare nettamente più organico, più razionale. Quest’osservazione ci ri-
conduce a Dichterliebe. Marston osserva come in Ein Jüngling liebt ein Mädchen la
voce del poeta necessiti di distanziarsi dal dolore della sua storia:

Il lied n. 11 è il primo – difatti è l’unico – lied nel ciclo a sganciarsi dal mondo dell’“io”
e del “tu” del poeta e della sua amata perduta. Per essere chiari, l’alte Geschichte a cui il
poeta si riferisce nel lied n. 11 racconta la sua stessa storia, ma è il modo del suo raccon-
tare che è nuovo e rilevante. È raccontata come una storia universale, senza tempo, che
offre al poeta l’occasione di porre il suo stesso dolore in una prospettiva più generale,
finanche più razionale. 68

La leggenda sembra dunque raccontare una storia dell’io, ma da una prospettiva


meno emotiva e più razionale, meno individuale e più universale, che si compie nel
momento stesso in cui quest’io si riconosce nel poeta. Alla fine della Recherche (o
dovremmo dire all’inizio), il narratore-personaggio si riconosce nel narratore-
scrittore. Marcel diventa scrittore. Dalla sua penna sgorga l’energia del percorso
mnestico che mantiene i suoi ricordi attaccati allo spazio della realtà, ma proprio
staccandoli dal sé e attaccandoli alla carta. Il poeta nasce quando l’io distanzia la sua
storia da sé e inizia a raccontarla, ergendosi al di sopra o, quantomeno, prendendo pa-
rola al posto di chi lo ascolta:

La cocente privazione fu forse ciò che indusse uno dei singoli a svincolarsi dalla massa
e a trasporsi nel ruolo del padre. Chi fece questo fu il primo poeta epico, e il passaggio
si compì nella sua fantasia. [...] Il poeta va in giro e racconta alla massa le azioni
dell’eroe da lui inventato. Quest’eroe non è in sostanza altri che lui stesso. 69

In questo senso, se il procedere del primo movimento della Fantasie è il romanzo,


Im Legendenton che si interpone dentro di esso ne è la sua epica. Da una prospettiva
diversa, si direbbe che entrambe le parti veicolano un desiderio di condensare i ricor-
di e buttarli fuori dal sé, per poi rinchiuderli in un’enorme bara e immergere il tutto,
come recita un’altra lirica da Dichterliebe, negli antri di un’acqua profonda:
Die sollen den Sarg forttragen,
Und senken in’s Meer hinab;
Denn solchem großen Sarge
Gebührt ein großes Grab.
Wißt ihr warum der Sarg wohl

68
«Song 11 is the first – in fact it is the only – song in the cycle to break away from the world of “I”
and “you” of the poet and his lost beloved. To be sure, the alte Geschichte which the poet relates in
Song 11 tells his own story, but it is the manner of its telling which is new and significant. It is told
as a timeless, universal tale, one which offers the poet the chance to put his own misery in a more
general, even rational perspective» – NICHOLAS MARSTON, Schumann’s Monument to Beethoven,
«19th-Century Music» 14/3, 1991, p. 255.
69
FREUD, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, vol. 9 cit., pp. 322-323.

161
NICOLA DE ROSA

So groß und schwer mag sein?


Ich legt auch meine Liebe
Und meinen Schmerz hinein. 70

Su questi ultimi due versi di Die alten, bösen Lieder, il lied di Schumann non può
che intonare un ‘tema di Clara’. Dichterliebe si rivela pozzo ricolmo di archetipi che
sprofondano anche nelle acque della musica senza parole. Barthes sottolineava come
«i cicli di Lieder non raccontano una storia d’amore, ma solo un viaggio: [...] un di-
venire senza finalità: il tutto, in quanto può, in un solo colpo e all’infinito, ricomin-
ciare».71 Anche il primo movimento della Fantasie è un perpetuo vacillare intorno a
Clara, ferne Geliebte da cui tutta la musica sgorga e a cui tutta la musica termina, che
può sopraggiungere come allontanarsi di nuovo e che, in ogni caso, una ferita incon-
scia macchia come perduta. In questo senso, come osserva Cavallo, la musica davve-
ro «sembra isomorfa al movimento stesso della pulsione: percorso che ha per finalità
il circuito intorno al posto vuoto dell’oggetto “perduto”, percorso destinato inevita-
bilmente a ripetersi»,72 e perciò si pone in stretta relazione – più che con una logica
degli stati d’animo, delle forme del sentimento di Susanne Langer 73 – con la dinamica
del corpo e del desiderio descritta da Barthes:

Il corpo schumanniano conosce (qui, almeno) solo biforcazioni; non si costruisce, diverge
incessantemente, secondo un accumulo di intermezzi [...]. Il testo musicale non segue (per
contrasti e amplificazioni) ma esplode: è un big-bang continuo. Non si tratta di battere i
pugni contro la porta, come si pensa faccia il destino. Piuttosto, è necessario che batta
all’interno del corpo, contro la tempia, nel sesso, nel ventre, contro la pelle interna, in tut-
to quell’emotivo sensuale che si chiama, per metonimia e anche per antifrasi, il «cuore». 74

Nel battito che dal corpo muove la Fantasie, penetra furiosamente la storia stessa
delle dediche perdute, dei titoli e delle triangolazioni astrali scomparse e delle sezioni
di musica espunte. Le rovine del suo racconto possono ricostruirsi nel lettore – egli
prosegue la catena di identificazione che aveva portato l’io a riconoscersi nel poeta.
Mosso a indagare i nessi tra fenomeni sonori che sfuggono a una dialettica lineare – e
in ciò rivelano la loro trama inconscia – egli giunge, non a sproposito, all’ipotesi che i
fenomeni nel caos reiterino instancabilmente una sola idea. Ancora Jankélévitch:
«quando si sviluppano dei significati ciò che è stato detto non va più ripetuto; in mu-

70
«La bara dovrebbero portar via | e affondarla giù nel mare, | perché una bara così grande | merita una
grande tomba. | Sapete perché una bara così | dev’esser grande e pesante? | Lì dentro persino il mio amo-
re | e il mio dolore ci pongo» – HEINE, Die alten, bösen Lieder, in Buch der Lieder cit., p. 171.
71
BARTHES, Il canto romantico, in L’ovvio e l’ottuso cit., p. 279.
72
MICHELE CAVALLO, L’inconscio musicale. Riflessioni intorno a Robert Schumann, in Robert
Schumann. Dall’Italia cit., p. 155.
73
«Because the forms of human feeling are much more congruent with musical forms than with the
forms of language, music can reveal the nature of feelings with a detail and truth that language can-
not approch» – SUSANNE K. LANGER, Philosophy in a New Key. A Study in the Symbolism of Rea-
son, Rite and Art, New York, New American Library, 1959, p. 191.
74
BARTHES, Rasch, in L’ovvio e l’ottuso cit., p. 289.

162
SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN

sica e in poesia invece ciò che è stato detto è ancora da dire [...]. Tacere [...] sarebbe
come rifiutare di scrivere un poema sull’amore perché il soggetto è già stato tratta-
to». 75 Come le stelle proseguono e finiscono in un solo bagliore originale, quei feno-
meni sonori anelano e scaturiscono da un solo fuoco: non l’estremo puntiforme di un
tempo lineare che non è, ma il fuoco di un tempo che inizia ad essere nel momento in
cui la sua linearità deflagra. Se l’astrologo, pur dal suo angolo del mondo, continua a
narrare un divenire delle cose architettato nelle triangolazioni immaginarie dei suoi
asterismi, il poeta trasfigura l’universale, ergo il compiuto, il mondo che lui vorrebbe,
nella misteriosa ponderazione dei suoi frammenti. Entrambi i visionari spodestano
una realtà intollerabile, in cui si proietta una dinamica del desiderio senza censure, in
cui si può uccidere un padre (Wieck-Beethoven) sposandone l’eredità più sfarzosa
(Clara-Musica).

75
JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile cit., p. 21.

163
164
Walter Aveta - Oscar Corpo - Paola Nastasi

TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI*

Nel 1979 l’Unicef volle patrocinare la realizzazione di un lungometraggio di anima-


zione nella ricorrenza del ventesimo anniversario della Giornata internazionale del
fanciullo.1 Si decise così di produrre dieci cortometraggi, ciascuno in relazione ad
uno dei dieci articoli della Carta del fanciullo, e ogni corto venne affidato ad uno o
più disegnatori provenienti da dieci paesi differenti, nell’ordine: Fernando Ruiz
(Messico), Klaus e Katia Georgi (Germania), Eugene Fedorenko (Canada), Seppo
Suo-Anttila (Finlandia), Roman Kacianof (Russia), Katalin Macskàssy (Ungheria),
Manfredo Manfredi (Italia), Johan Hagelback (Svezia), Jerzy e Alina Kotowski (Po-
lonia), John Halas (Inghilterra). Per la colonna sonora furono scelti cinque composi-
tori italiani, a ciascuno dei quali venne richiesto il commento sonoro di due brani:
Nino Rota (1911-1979), Ennio Morricone (1928-), Franco Evangelisti (1926-1980),
Egisto Macchi (1928-1992) e Luis Bacalov (1933-2017), che in realtà era nato in Ar-
gentina, ma all’epoca era molto attivo in Italia, tanto da averne conseguito la cittadi-
nanza.2
Com’è facile immaginare, i dieci cortometraggi di cui si compone Ten to Survive
sono molto differenti l’uno dall’altro, e la pellicola nel suo insieme risulta essere
estremamente eterogenea e frammentaria. Si veda in proposito il severo giudizio di
Sergio Miceli, il musicologo che più assiduamente ha seguito le imprese di Morrico-
ne:
[…] nella realizzazione venne a mancare del tutto il rapporto di collaborazione fra auto-
ri e compositori, indispensabile nel cinema d’animazione a partire dalla genesi del lavo-
ro. Inevitabilmente discontinuo nella qualità del disegno e dell’animazione e altrettanto
se non di più nelle soluzioni musicali. 3

*Un ringraziamento alla prof. Daniela Tortora che ci ha dato l’opportunità di conoscere e di studiare
con interesse e con passione il film d’animazione Ten to survive.
1
Venne redatta a Ginevra nel 1923 da parte della Società delle Nazioni - l’antecedente di ciò che
oggi è l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’ONU - la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo” in
seguito ai disastrosi avvenimenti della Prima Guerra Mondiale. Tale carta fu revisionata e poi ap-
provata dall’ONU nel 1959. I diritti dei bambini nel mondo sono riassunti in dieci articoli che nega-
no ad ogni Stato discriminazioni razziali, di genere, religiose e di altro tipo, mentre impongono ad
ogni Stato di farsi garante della migliore formazione fisica e culturale dei bambini. Purtroppo tali
articoli ancora oggi non fanno parte né dei diritti sanciti all’interno delle legislazioni dei singoli Sta-
ti, né tantomeno del Diritto internazionale, e fungono esclusivamente da monito sul piano morale.
2
Cfr. l’Appendice in calce allo scritto con le note biografiche sui disegnatori e i compositori (non
siamo riusciti a rintracciare notizie inerenti a Eugene Fedorenko e Johann Hagelback). Va detto
inoltre che, tenuto conto dello scopo umanitario del progetto, i compositori lavorarono per
l’allestimento del film senza percepire alcun compenso.
3
SERGIO MICELI, Musica per film, Storia, Estetica, Analisi, Tipologie, Lucca-Milano, Libreria Mu-
sicale Italiana-Ricordi, 2009, p. 955.

165
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

Ciononostante, siamo convinti che la difformità strutturale di Ten to Survive non


inficiasse a suo tempo il conseguimento dell’obbiettivo umanitario e che, tra l’altro,
ne costituisse il tratto distintivo originario, vale a dire che la messa a punto
dell’impresa fosse stata sin da subito pensata da ideatori e produttori come la realiz-
zazione di un insieme composito di immagini e di commenti sonori, una molteplicità
di voci, in senso lato, per dare voce all’infanzia e ai suoi diritti trascurati o dimentica-
ti proprio grazie al numero cospicuo e assai diversificato di disegnatori e musicisti
provenienti da varie parti del mondo. Altro è poi il discorso inerente ai singoli corti e
alle modalità di collaborazione fra i disegnatori e i compositori rispetto a ciascuno di
essi: in tal caso possiamo senz’altro concordare con Miceli nell’affermare che una
maggiore accuratezza nella definizione del rapporto fra immagini e suoni avrebbe
certamente giovato alla qualità intrinseca dei dieci piccoli film d’animazione.
Diversamente da quanto sostenuto da Miceli,4 sappiamo che per la messa a punto
dell’intero progetto di sonorizzazione del film fosse stato interpellato in primis Fran-
co Evangelisti, malgrado egli fosse da sempre ideologicamente contrario alla pratica
della musica applicata, vale a dire alla soggezione della musica (d’arte) nei confronti
delle prescrizioni di un regista e/o di un produttore ai fini della realizzazione di un
manufatto commerciale. Soltanto il solido movente umanitario riuscì ad avere la me-
glio sui suoi convincimenti e, soprattutto, a indurlo all’impresa dopo il lunghissimo
periodo di silenzio compositivo trascorso a partire dall’opera Die Schachtel degli anni
1962-63. Questo leggiamo nelle Note biografiche del compositore redatte nel 1980,
nei mesi immediatamente successivi alla sua scomparsa:

1978 Fa parte della commissione italiana per la musica dell’UNICEF (United Nations
Children’s Fund): organizzazione che lo invita insieme a Luis Bacalov, Egisto Macchi,
Ennio Morricone e Nino Rota a scrivere la musica per un film d’animazione da realizza-
re per l’Anno internazionale del bambino. Scartata la possibilità di farlo con il Gruppo
di Improvvisazione Nuova Consonanza torna a comporre, elaborando il progetto elet-
tronico di Campi Integrati per strumenti convenzionali. […]
1979 In aprile registrazione delle due versioni di Campi integrati destinati all’UNICEF
[…] Dal 22 al 27 novembre partecipa a Firenze a un convegno dell’UNICEF intitolato
“Firenze Cinema – Cinema for UNICEF”. Scopo del meeting: «ottenere un impegno
pubblico di tutti i responsabili per gli audiovisivi per un futuro delle comunicazioni me-
diante immagine e suono, nello spirito del 1979, Anno Internazionale del Bambino». 5

Vale la pena di rileggere in proposito anche il commento redatto ‘a caldo’ da Clau-


dio Annibaldi, un musicologo generazionalmente e ideologicamente vicino al compo-
sitore romano:

4
Ibidem.
5
Appendice seconda. Franco Evangelisti – Note biografiche, a cura di Irmela Evangelisti
Heimbächer, in di Franco Evangelisti e di alcuni nodi storici del tempo, Roma, Nuova Consonanza
editore, 1980, pp. 129-145: 134-135.

166
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

Questo […] ci pone anche in vista di una straordinaria novità nella produzione di Fran-
co: l’incontro della sua musica («assoluta, se mai altre») con la dimensione del compor-
re eteronomo, funzionale, a metraggio. La soluzione ch’egli ha dato del problema non
manca di finezza. […] Così il «campo di possibilità» dell’ultimo lavoro di Franco cela
anche la possibilità di mimare – sotto specie di «aleatorio al massimo li-vello di sintesi»
- il dispositivo tipico della musica commerciale: il congegno finalizzato all’utilizzazione
massima di un minimo materiale di base. Possiamo pensare che Franco non si rendesse
conto di questo? Di stare rischiando, con l’immagine delle sue cose migliori, la base
stessa del credito di cui aveva goduto negli ultimi sedici anni? Direi di no. Tornava a
comporre nei termini più svantaggiosi che potesse prevedere: con mezzi convenzionali
assoggettati per giunta a esigenze di un’eteronomia tirannica. Però glielo chiedeva una
grande istituzione umanitaria; avrebbe cooperato a un progetto filantropico di portata in-
ternazionale; la rinuncia ai diritti d’autore da lui proposta, e poi fatta propria anche dagli
altri musicisti interpellati per il film, avrebbe tolto ogni equivoco al senso della sua pre-
stazione. Non c’è dubbio che questo bastasse a fargli superare qualsiasi remora. Perché
Franco aveva un senso vivissimo del dovere sociale […] Quando si sentiva «precettato
dalla collettività» era pertanto capace di slanci solidaristici assolutamente rari. 6

Ten to Survive fu proiettato in anteprima nel corso della XXXIX edizione del Fe-
stival di Cannes, fuori concorso, il 21 maggio 1979. La congiuntura sfavorevole alla
presentazione della pellicola fu la comparsa a Cannes in un’annata particolarmente
florida per la cinematografia internazionale: al festival di quell’anno venivano pre-
sentati, tra gli altri, Manhattan di Woody Allen, Apocalypse Now di Francis Ford
Coppola e Prova d’orchestra di Federico Fellini. Ten to Survive venne quasi del tutto
ignorato dalla stampa e dalla critica cinematografica. Successivamente la pellicola
venne trasmessa dalla RAI Radiotelevisione italiana in una sola circostanza e, tra
l’altro, suddiviso in due parti nei pomeriggi del 26 e del 27 dicembre del 1979 (lo
stesso anno del Festival). Ed è questa la ragione per la quale abbiamo avuto a dispo-
sizione per il nostro studio un’unica fonte video, registrata su cassetta e risalente per
l’appunto alla trasmissione televisiva targata RAI del ‘79. Per quanto concerne la co-
lonna sonora del film, va invece segnalata la pubblicazione del disco da parte della
etichetta WEA, su licenza CAM, nel 1983, ancora una volta con una pessima distri-
buzione. La copertina del long playing fu disegnata da Manfredo Manfredi, uno dei
disegnatori più quotati della pellicola. 7

6
CLAUDIO ANNIBALDI, Intorno a Franco Evangelisti, in di Franco Evangelisti cit. pp. 67-103: 93-94.
7
Sull’intera vicenda del lungometraggio UNICEF, cfr. VALERIO D’ANGELO, Ten to Survive, in
Franco Evangelisti: verso un nuovo mondo sonoro, a cura di Eleonora Ludovici e Daniela Tortora,
«le Arti del Suono» II/4, 2010, pp. 155-162.

167
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

Figura 1: Ten to survive, music score for a picture produced


by Arnaldo Farina e Giancarlo Zagni, Milano WEA, 1983:
copertina e retro del disco con la colonna sonora del film di animazione.

Il lungometraggio è strutturato in dieci episodi e ognuno si riferisce ad un differen-


te articolo della Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo (ONU, New York,
novembre 1959), il cui Preambolo scorre silenziosamente nei fotogrammi iniziali del
film congiuntamente ai titoli di testa:

Considerato che, nello Statuto, i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato la loro
fede nei diritti fondamentali dell’uomo e nella dignità e nel valore della persona umana,
e che essi si sono dichiarati decisi a favorire il progresso sociale e a instaurare migliori
condizioni di vita in una maggiore libertà;
Considerato che, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo le Nazioni Unite
hanno proclamato che tutti possono godere di tutti i diritti e di tutte le libertà che vi sono
enunciate senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opi-
nione politica o di ogni altra opinione, d’origine nazionale o sociale, di condizioni eco-
nomiche, di nascita o di ogni altra condizione;
Considerato che il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha biso-
gno di una particolare protezione e di cure speciali, compresa una adeguata protezione
giuridica, sia prima che dopo la nascita;
Considerato che la necessità di tale particolare protezione è stata la Dichiarazione del
1924 sui diritti del fanciullo ed è stata riconosciuta nella Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo come anche negli statuti degli Istituti specializzati e delle Organizza-
zioni internazionali che si dedicano al benessere dell’infanzia;
Considerato che l’umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di se stessa.
L’ASSEMBLEA GENERALE Proclama la presente Dichiarazione dei Diritti del Fan-
ciullo affinché esso abbia una infanzia felice e possa godere, nell’interesse suo e di tutta
la società, dei diritti e delle libertà che vi sono enunciati; invita genitori, gli uomini e le
donne in quanto singoli, come anche le organizzazioni non governative, le autorità loca-
li e i governi nazionali a riconoscere questi diritti e a fare in modo di assicurare il rispet-
to per mezzo di provvedimenti legislativi e di altre misure da adottarsi gradualmente in
applicazione dei seguenti princìpi. [vedi infra]

168
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

Il filo conduttore della pellicola è costituito dal decalogo dei diritti enunciato
all’interno di detta Dichiarazione, i cui dieci principi vengono letti disgiuntamente
dalla voce fuori campo di Marcello Mastroianni prima dell’avvio del corto cui fanno
riferimento ed è per questo che li abbiamo trascritti in cima al commento critico su
ciascuno di essi. Ad esaltare il contenuto e il valore simbolico di tutti gli articoli fa da
sfondo alla lettura il battito incessante di un cuore. Nella tavola seguente compaiono i
titoli dei singoli film di animazione facenti parte di Ten to Survive con i rispettivi au-
tori e dei disegni animati e della colonna sonora:
1. FERNANDO RUIZ / NINO ROTA, Tutti i bambini (Messico)
2. KLAUS E KATIA GEORGI / LUIS BACALOV, Temino per imparare (Germania)
3. EUGENE FEDORENKO / FRANCO EVANGELISTI, Un nome e una cittadinanza (Canada)
4. SEPPO SUO-ANTTILA / ENNIO MORRICONE, Bambini del mondo (Finlandia)
5. ROMAN KACIANOF / NINO ROTA, Handicap (Russia)
6. KATALIN MACSKÀSSY / EGISTO MACCHI, Il bambino ha bisogno d’amore (Ungheria)
7. MANFREDO MANFREDI / ENNIO MORRICONE, Grande violino, piccolo bambino (Italia)
8. JOHAN HAGELBACK / EGISTO MACCHI, Storia di un uovo (Svezia)
9. JERZY E ALINA KOTOWSKI / FRANCO EVANGELISTI, Diritto all’infanzia (Polonia)
10. JOHN HALAS / LUIS BACALOV, Storia del diavolo cacciato via (Inghilterra)

Tavola: Gli autori di Ten to survive

Principio primo: il fanciullo deve godere di tutti i diritti enunciati nella presente Dichia-
razione. Questi diritti debbono essere riconosciuti a tutti i fanciulli senza eccezione al-
cuna, e senza distinzione e discriminazione fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lin-
gua, la religione o opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, le
condizioni economiche, la nascita, o ogni altra condizione, sia che si riferisca al fanciul-
lo stesso o alla sua famiglia.

L’autore delle immagini di Tutti i bambini è Fernando Ruiz, la colonna sonora è af-
fidata alla invenzione compositiva di Nino Rota. Proprio in riferimento a questo pri-
mo corto di Ten to Survive, è presente all’interno del Fondo Rota della Fondazione
Giorgio Cini di Venezia una cartellina contenente sette fogli, sui primi quattro dei
quali compare una segmentazione del cartone per immagini con il relativo minutag-
gio:
I. «cosmo - stelle - nebulosa (carrello)/ terra (come emblema luminoso)/ fiori […]»
II. «mali della vita dei bambini […]»
III. «forze ostili all’infanzia […]»
IV. «battaglia bruchi apine»8

8
I fogli contenuti all’interno della cartellina intestata «UNICEF (per i cartoni animati da sonorizza-
re)», ANR RC 152 (Fondo Rota, Istituto della Musica della Fondazione Giorgio Cini di Venezia)
sono stati trascritti e commentati in DANIELA TORTORA, Voce bianca, candore e altre cose: Rota e il
mondo dell’infanzia, in L’altro Novecento di Nino Rota, a cura di Daniela Tortora, Napoli, Conser-
vatorio di musica S. Pietro a Majella, 2014, pp. 73-91: 88-90.

169
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

Si tratta di un cartone disegnato secondo i canoni estetici dell’epoca; i contorni so-


no ben delineati e i colori alquanto accesi, con immagini semplici ma efficaci e scor-
revoli. Un contadino si prende cura della sua terra con l’aiuto di alcune api che si
schierano in difesa dei fiori lottando addirittura contro i bruchi, grossi e aggressivi. I
fiori, dopo essere stati curati dall’uomo, si trasformano in bambini di tutte le etnie del
mondo e si uniscono in un abbraccio fraterno. La colonna sonora di Rota è un brano
orchestrale il cui tema principale, dal carattere sereno e disteso, circola attraverso vari
strumenti a fiato mentre l’accompagnamento è affidato agli archi.

Esempio 1: Trascrizione degli autori del tema principale di Tutti i bambini (Nino Rota).

La voce principale spetta ai fagotti nel momento in cui i bruchi divorano le foglie
dei fiori, ma vengono prontamente cacciati dalle api, mentre la musica descrive
l’azione con un aumento progressivo di tensione e una conseguente risoluzione. La
colonna sonora presenta una strumentazione assai varia. Il compositore ha deciso di
utilizzare soprattutto legni e ottoni per descrivere le varie fasi del racconto, mentre gli
archi fanno da sfondo. A nostro parere l’utilizzo dei legni si combina molto bene con
il contenuto espressivo delle immagini e soprattutto con i movimenti dei personaggi,
sia dell’ape (da notare sono infatti i gesti del clarinetto quando compare l’insetto), sia
del giardiniere. L’uso dei legni serve inoltre a dare l’idea del paesaggio in cui è situa-
ta l’azione, un’ambientazione campestre, fatta perlopiù di prati e di fiori. L’uso dei
fagotti per dare l’idea dei grossi e grassi bruchi è assolutamente geniale e merita di
essere segnalato, così come l’utilizzo degli archi nel registro grave per esprimere il
senso di affanno. Interessante è anche il ricorso allo squillo della tromba, nel momen-
to in cui l’ape chiama a raccolta le sue compagne per attaccare i bruchi: è un tipico
caso di suono diegetico, cioè di una musica utilizzata all’interno del racconto per es-
sere ascoltata dai personaggi in scena. Alcuni rapidi gesti dei legni vengono poi uti-
lizzati a scopo descrittivo, ad esempio per indicare le gocce della pioggia, e anche qui
la musica si adatta benissimo al clima generale del cartone. Vengono infine impiegati
gli archi per il piacevolissimo tema che si ascolta in concomitanza con la scena in cui
i fiori si trasformano in bambini. Stavolta i fiati si limitano ad accompagnare e gli ar-
chi giocano il ruolo della parte principale secondo una distribuzione strategica degli
interventi strumentali che Rota ha sapientemente saputo dosare nel corso del cartone,
evitando di mettere in campo da subito tutte le risorse a sua disposizione.

170
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

Principio secondo: il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di


possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, in modo da essere
in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spiri-
tuale e sociale in condizioni di libertà e di dignità. Nell’adozione delle leggi rivolte a tal
fine la considerazione determinante deve essere del fanciullo.

I disegnatori di Temino per imparare sono Klaus e Katia Georgi; Luis Bacalov è
l’autore delle musiche. I disegni sono in questo caso molto particolari: è come se li
vedessimo prender vita lentamente grazie al loro progressivo costruirsi nel corso del
tempo. La qualità delle immagini è molto fine per essere inserita in un corto
d’animazione; gli elementi rappresentati sono difficili da definire con precisione ad
un primo sguardo e non vi sono colori ad eccezione di una leggera ombreggiatura. Il
video intende mostrare l’evoluzione di un bambino a partire dall’immagine di un
neonato che dorme all’interno di una sfera (simbolo del ventre materno), fino ad arri-
vare ad individui ben formati e istruiti. Oltre a questo, vi sono solo due interruzioni
nel discorso filmico-musicale, entrambe di tipo drammatico: si tratta di due ‘attacchi’
da parte del mondo esterno ai bambini, ove guerra, morte e dolore affiorano attraver-
so le immagini e la relativa sonorizzazione a tinte forti e cupe, anche se in entrambi i
casi alcune mani adulte sopraggiungono a proteggere gli infanti affinché essi possano
continuare il loro percorso di crescita. Ad accompagnare i primi disegni c’è un sotto-
fondo orchestrale in cui spicca la presenza di un assolo del flauto. Quando si vedono
le immagini dei neonati che piangono ritorna il tema introduttivo del flauto, affidato
questa volta al clarinetto. È il momento del pasto, compaiono i biberon e possiamo
ascoltare per la prima e unica volta all’interno del film una citazione da un brano di
repertorio: è il famoso motivo popolare francese Ah, vous-dirai je maman, utilizzato
anche da Mozart nelle sue 12 variazioni K. 265/300e [Es. 2].

Esempio 2: Tema dalle 12 variazioni K. 265 di Wolfgang Amadeus Mozart.

171
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

Questo motivo compare e scompare, affidato ogni volta a uno strumento diverso
(la prima volta è assegnato al flauto con l’accompagnamento dei pizzicati degli ar-
chi).
Le immagini dei bambini che dormono sono sottolineate da una musica tranquilla
con dinamica in piano e timbri chiari. Appena sorge il sole il clarinetto esegue un
breve motivo seguito ancora da reminiscenze orchestrali della citazione di cui s’è det-
to in precedenza. I bambini ora giocano e si divertono, dondolandosi su un’altalena;
mentre si trovano all’aria aperta, appaiono di nuovo le immagini violente di cui sopra
e la musica lo sottolinea con rulli di timpano e ottoni in “fortissimo”. Dopo questa ul-
teriore intrusione, viene presentato ancora il tema iniziale affidato dapprima all’oboe
e poi al fagotto. I bambini leggono i loro libri seduti sotto gli alberi e spetta agli archi
sospingere la melodia principale: lo studio rende liberi e vittoriosi come la trionfante
conclusione in cui spicca lo squillo delle trombe.

Principio terzo: il fanciullo ha diritto, sin dalla nascita, a un nome e una nazionalità.

Il terzo cartone ha come autori il disegnatore canadese Eugene Fedorenko e il


compositore Franco Evangelisti. Un nome e una cittadinanza è stato premiato agli
Academy awards nel 1980 con un Oscar al miglior cortometraggio d’animazione; più
in particolare, va detto che ha avuto tanto successo per via delle suggestive immagini
molto stilizzate, in assenza quasi totale di prospettiva e profondità, con colori spenti e
fondali spesso bianchi. Quello in questione è l’unico fra i cartoni animati di Ten to
Survive in cui vi siano anche delle immagini reali, e non solo dei disegni. Infatti ha
inizio e termina con due uomini che giocano e fanno dei versi insieme ad un bebè
all’interno di uno studio di registrazione. Il cartone animato raffigura un bambino non
voluto e abbandonato dapprima dinnanzi alla porta di un ufficio, in seguito più volte
nei pressi di altri edifici, in un’odissea che lo condurrà a precipitare in una discarica
nella quale sarà accolto da due clochard che lo intratterranno giocando con lui sino a
trasformarsi nei due veri uomini dell’inizio. È opportuno tener conto anche della par-
ticolarità e della qualità dei rumori: gli effetti sonori sono stati realizzati vocalmente.
Il brano che costituisce la colonna sonora è Campi Integrati n. 2 di Franco Evange-
listi. Di particolare interesse è il fatto che il compositore avesse smesso di scrivere
musica da circa sedici anni per dedicarsi esclusivamente all’improvvisazione e alle
sue ricerche di natura teorica, e che fosse tornato alla scrittura proprio in quella circo-
stanza per ragioni di ordine eminentemente etico. Il brano è in forma aperta, ciò si-
gnifica che è composto da più parti assemblabili a piacere da parte degli esecutori in
un numero notevole di disposizioni differenti. Si veda quanto è custodito all’interno
del Fondo Evangelisti (il manoscritto autografo della partitura e tutte le carte di lavo-
razione del progetto), in particolare quanto a suo tempo catalogato da Annibaldi sotto
la dicitura “Scheda 14”:

172
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

CAMPI INTEGRATI / VERSIONE UNICEF / 1979 / Con la piena coscienza che il proble-
ma resta politico / Franco Evangelisti
1v (pennarello viola) 6r (pennarello arancione)
I VERSIONE II VERSIONE
per: Fl. Cl. Fg. Tb. Cr. Tbr. per: V, Vla, Vc, Vla², Cb
1 Serie [di] W [ood] B [locks] 1 Celesta
“ [di] T [emple] B [locks] Camp [anelli a] T [astiera]
2 “ [di] Guiro 2 Vibrafono
“ [di] C [asse?] C [hiare?] Serie [di] piatti
3 Pf preparato 3 Arpa 9

Il sistema di Evangelisti prevede 12 altezze, l’intera scala cromatica, e 6 sole dura-


te differenti. Inoltre la partitura è scritta per un limite massimo di 9 strumenti.

Esempio 3: Partitura/schema di Campi integrati n. 2 di Franco Evangelisti.

Trattandosi di un’opera aleatoria (come osservato da Annibaldi, Evangelisti rico-


mincia a scrivere esattamente dal punto in cui aveva interrotto la sua esperienza com-
positiva agli inizi degli anni Sessanta),10 gli esecutori sono chiamati a scegliere una
delle possibili configurazioni indicate dall’autore. La musica caotica esprime con
molta schiettezza ciò che si vede nei disegni, il destino incerto e confuso di un bam-
bino abbandonato ripetutamente: si tratta a nostro parere di uno dei corti della pellico-
la maggiormente riusciti proprio per il rapporto felice che si è instaurato, in maniera
del tutto accidentale, fra le immagini e il commento sonoro.
9
In ANNIBALDI, Intorno a Franco Evangelisti cit., pp. 79-80. Si fa presente che il Fondo Evangeli-
sti è attualmente custodito all’interno dell’Archivio della Fondazione Isabella Scelsi di Roma.
10
Ibidem.

173
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

Principio quarto: il fanciullo deve beneficiare della sicurezza sociale. Deve poter cresce-
re e svilupparsi in modo sano. A tal fine devono essere assicurate, a lui e alla madre, le
cure mediche e le protezioni sociali adeguate, specialmente nel periodo precedente e se-
guente alla nascita. Il fanciullo ha diritto ad una alimentazione, ad un alloggio, a svaghi
e a cure mediche adeguate.

Bambini del mondo ha come autori Seppo Suo-Anttila per quanto riguarda i dise-
gni animati ed Ennio Morricone per la colonna sonora. Per ciò che concerne l’estetica
delle immagini, possiamo affermare che in questo caso ci si è basati sull’utilizzo di
figure bidimensionali simili a dei ritagli di carta che si muovono su sfondi fissi,
creando un ritmo molto particolare nel loro succedersi. La sovrapposizione di queste
immagini, che scorrono liberamente rispetto ai fondali, si lega alla musica mediante
lo stesso principio costruttivo per cui differenti elementi ritmico-melodici vengono a
sovrapporsi e creare sfondi sonori densi e ipnotici. Abbiamo provato a individuare
una qualche traccia narrativa, ma la trama è volutamente vaga e inafferrabile. È pos-
sibile comunque cogliere una linea generale di svolgimento che segue i vari punti
enunciati dal principio in oggetto: la sicurezza sociale, l’accudimento, la protezione e
le cure mediche. Nel video vengono mostrate varie situazioni in cui le madri ricevono
soccorso da parte della comunità circostante. Nella scena iniziale vi è una donna che,
stremata dalla fatica, cade nel trasportare dell’acqua in un vaso e viene prontamente
soccorsa da un uomo. In altri momenti le mani che corrono in aiuto sono disegnate in
modo da trasformarsi in uccelli che volano verso le donne. La colonna sonora di Mor-
ricone è un brano affidato alle sole voci del Coro di Voci Bianche dell’Arcum diretto
da Paolo Lucci e composto da 24 tracce: 15 frammenti melodici, 2 armonici e i re-
stanti 7 sono basati su semplici effetti sonori. Ogni melodia è basata su una porzione
di scala ascendente o discendente, diatonica e non. Ogni scala fa riferimento ad una
regione differente del mondo e dei suoi continenti (Europa, Giappone, Africa, Sud
America, etc.), e in base alla lingua parlata di detti luoghi viene tradotto il testo unico
onnipresente: «noi siamo i bambini del mondo» [Es. 4].

174
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

Esempio 4: Manoscritto originale di Bambini del mondo


(in ENNIO MORRICONE, Bambini del mondo, cd, Roma, Musica e oltre s.r.l., 2017).

Le differenti tracce furono registrate separatamente per poi essere sovrapposte e


montate dall’autore stesso. Questa operazione ‘di laboratorio’ crea un effetto molto
particolare per cui si mescolano suoni e parole diversi per generare un’unica lumino-
sa voce infantile ove spiccano soprattutto il motivo del Giappone, con le sincopi, e
quello europeo. L’idea musicale che si trova alla base del processo compositivo è
quella di costruire un crescendo dinamico e di dissonanze, partendo da un punto di
quiete, per poi farvi ritorno alla fine della composizione. La scelta del coro di sole
voci bianche crea un effetto molto particolare nel rapporto sinergico che si instaura
con le immagini: guardando il cartone pare quasi che i bambini protagonisti dei dise-
gni si animino davvero per essere essi stessi a cantare. Il canto è quasi uno sfondo,
cioè non serve tanto a descrivere e dettagliare meglio le immagini, come accade nella
più parte dei cartoni, quanto, piuttosto, a creare l’ambiente sonoro per l’intera narra-
zione.

Principio quinto: il fanciullo che si trova in una situazione di minoranza fisica, mentale
o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui esso
abbisogna per il suo stato o la sua condizione.
175
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

Gli autori di Handicap sono Roman Kacianof e Nino Rota e certo in questo caso
«non può non sorprendere che “alla fine della sua grande bellissima giornata”
l’esperienza musicale di Rota vada a compiersi saldandosi nuovamente al mondo
dell’infanzia» (com’è noto, il contributo di Rota a Ten to Survive costituisce l’ultimo
atto prima della sua scomparsa nell’aprile del 1979).11 I disegni di Kacianof, così co-
me quelli del cortometraggio di Fernando Ruiz, entrambi musicati da Rota, ricordano
nello stile la maggior parte dei cartoni animati dell’epoca, con colori molto vivaci, li-
nee curve e tratti semplici, proprio alla maniera delle animazioni per i bambini. Il cor-
to racconta il cambio di atteggiamento di un bambino strafottente, dispettoso e in cer-
ca di attenzioni dopo l’incontro con una bimba non vedente, e può essere suddiviso in
tre parti. Nella prima ci vengono presentati il protagonista biondino e le sue monelle-
rie: in un parco fa irritare il giardiniere e nasconde due gomitoli di lana a una donna
anziana intenta a lavorare a maglia su di una panchina. Tutta la sequenza è molto gio-
cosa e allegra nonostante in scena siano rappresentati piccoli disastri, e ciò al fine di
illustrare il comportamento irritante del bambino in modo ingenuo: in realtà non è
cattivo, vuole solo giocare e divertirsi. Nella seconda parte il protagonista incontra la
bambina non vedente, e si intuisce che lei non sarà come tutte le altre vittime dei suoi
tranelli. Dal momento in cui si rende conto dei problemi che affliggono la piccola, il
ragazzino si pente di ciò che voleva farle (nasconderle il bastone) e la salva proprio
nel momento in cui sta per precipitare in un burrone. Nella terza parte i due bambini
hanno ormai stretto amicizia, il biondino cerca di rimediare agli errori commessi in
precedenza, e alla fine dona un fiore alla sua nuova amica del cuore.
Il commento sonoro ha un carattere stilisticamente riconoscibile grazie all’utilizzo
dell’orchestra in modo descrittivo e piuttosto lineare nei confronti dell’andamento
della storia. L’apertura è affidata all’oboe. Successivamente gli archi conferiscono al
racconto una tinta serena e gioiosa, con la descrizione musicale di un paesaggio in cui
abbiamo la natura in primo piano. Entrano poi il fagotto e le percussioni che servono
a far virare l’atmosfera in senso piuttosto umoristico in concomitanza con l’ingresso
dell’anziano giardiniere sbraitante nei confronti del bambino.

Esempio 5: Trascrizione degli autori di un motivo dalla colonna sonora di Handicap (Nino Rota).

È ancora una volta il clarinetto a dare un tocco grazioso e familiare


all’inquadratura dell’anziana signora che lavora a maglia, e l’ingresso successivo de-
gli archi, con lo stesso tema, serve a descrivere la birbanteria del bambino che le na-
sconde i gomitoli di lana. In buona sostanza la musica aderisce alla scena e dà un toc-

11
Si tratta di una citazione da Giovanni Testori che compare in TORTORA, Voce bianca, candore e
altre cose: Rota e il mondo dell’infanzia cit., p. 88.

176
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

co di ingenuità ai gesti del bambino e agli ingressi successivi dei personaggi. Serve,
dapprima, a descrivere la voglia di farsi notare del bambino mediante l’utilizzo dei
fiati e delle percussioni che danno quasi l’idea di un gioco circense; successivamente
si acquieta, avvolta da un velo sottile di malinconia, quando il bambino si accorge di
non essere riuscito a portarsi al centro delle attenzioni dell’anziana signora. La musi-
ca non è presente per qualche istante quando il bambino si nasconde dietro un albero
per spiare la bambina seduta, segno che qui si vuole accentuare il senso di attesa per
lo spettatore che non capisce bene cosa stia per accadere. Il successivo utilizzo delle
percussioni e del flauto nel registro grave contiene una certa idea di tristezza e di soli-
tudine, e a questo si fa ricorso per descrivere la condizione della bambina non veden-
te in maniera davvero calzante, poiché il tema, connesso con la strumentazione utiliz-
zata per esporlo, conferisce una tinta intimistica e malinconica all’insieme.
Come già accaduto precedentemente, l’attacco degli archi enfatizza ancora di più il
carattere espressivo del tema.

Esempio 6: Trascrizione degli autori di un tema dalla colonna sonora di Handicap (Nino Rota).

Toccante è la melodia successiva del corno che entra non appena la bambina non
vedente sfiora il viso del ragazzino con le mani, ricostruendone per sé un’immagine
solo mentale. Quest’ultimo tema è molto delicato e si accosta piuttosto bene alle im-
magini del cartone, suggerendo il bisogno di solidarietà e di comprensione. Ritorna il
tema della signora anziana quando la rivediamo e, a seguire, quello precedente della
bambina, ma stavolta con un incedere più veloce e una strumentazione diversa che
contribuiscono allo scioglimento del nodo della vicenda con l’affermazione della to-
nalità di impianto.
Principio sesto: il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno
di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la
responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale
e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separa-
to dalla madre. La società e i poteri pubblici hanno il dovere di aver cura particolare dei
fanciulli senza famiglia o di quelli che non hanno sufficienti mezzi di sussistenza. È de-
siderabile che alle famiglie numerose siano concessi sussidi statali o altre provvidenze
per il mantenimento dei figli.

177
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

Il bambino ha bisogno d’amore della disegnatrice ungherese Katalin Macskàssy


reca le musiche applicate alle immagini di Egisto Macchi. I disegni sono anche qui
molto stilizzati; vi sono raffigurate esclusivamente figure di donna col proprio bam-
bino in grembo e molte sono rappresentate in pose che ricordano icone e immagini
sacre, mentre altre sono talmente stilizzate e semplificate al punto da sembrare dise-
gnate dai bambini. La musica di Egisto Macchi è stata forse ispirata proprio da questo
riferimento al sacro, in quanto il suo primo brano, che è la seconda composizione co-
rale del film, evoca all’ascolto l’intonazione di melodie religiose. Nella seconda parte
del corto i bambini sono ormai abbastanza grandi da mangiare autonomamente e da
istruirsi, e quindi sono sempre più frequentemente disegnati da soli. Anche la musica
cambia registro, divenendo più incalzante e perdendo parte di quel carattere solenne
che ne definiva il tratto peculiare iniziale. Nel finale sono raffigurate scene di guerra
e la musica lo sottolinea con un rullante che esegue un ritmo militare; poco alla volta
il suono svanisce, unitamente alle immagini belliche che si trasformano in simboli di
pace con i bambini che tornano a giocare felici. La musica fa da sfondo a tutto questo
e impiega fondamentalmente un coro di voci miste. La scelta di non adoperare voci
bianche è forse qui dovuta alla volontà da parte dell’autore di non leggere la situazio-
ne dal punto di vista dei bambini, ma da quello degli adulti. Laddove i disegni cam-
biano e si fanno più infantili, anche la musica muta carattere mediante l’utilizzo di
scale cromatiche discendenti, e questo suggerisce l’idea di un qualche mutamento di
clima. Tale sensazione viene successivamente enfatizzata mediante crescendo dina-
mici in combinazione con immagini poco serene, che alludono ai problemi morali e
materiali che ostacolano una crescita sana e felice. Il coro suggerisce una certa idea di
felicità quando viene mostrato un piccolo che addenta un pezzo di pane, ed è chiaro
che il bambino ha anche avuto la possibilità di istruirsi. L’intensità dinamica cresce
abbastanza rapidamente quando viene mostrato un bambino soldato e successivamen-
te un altro recluso: la musica qui indica la differenza di condizione fra alcuni infanti e
altri mediante l’utilizzo di sonorità alquanto liete e dinamiche molto fievoli, dappri-
ma, e poi attraverso sonorità piuttosto aspre e dinamiche particolarmente incisive.
Anche l’impiego dei cromatismi serve a indicare la condizione di vita disumana di al-
cuni bambini. Il video si conclude con un lieto fine e il ritorno di sonorità liete con un
passaggio ritmato nel momento in cui vengono mostrati dei fiori, dei bambini felici
con i propri genitori e successivamente altri piccoli intenti a giocare al giro giro ton-
do.

Principio settimo: il fanciullo ha diritto a una educazione che, almeno a livello elemen-
tare, deve essere gratuita e obbligatoria. Egli ha diritto a godere di un’educazione che
contribuisca alla sua cultura generale e gli consenta, in una situazione di eguaglianza di
possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale e il suo senso di re-
sponsabilità morale e sociale, e di divenire un membro utile alla società. Il superiore in-
teresse del fanciullo deve essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua
educazione e del suo orientamento; tale responsabilità incombe in primo luogo sui pro-
pri genitori. Il fanciullo deve avere tutte le possibilità di dedicarsi a giochi e attività ri-
creative che devono essere orientate a fini educativi; la società e i poteri pubblici devo-
no fare ogni sforzo per favorire la realizzazione di tale diritto.

178
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

I disegni animati di Manfredo Manfredi, con tratti e colori molto leggeri, e il com-
mento sonoro affidato a Ennio Morricone esprimono al meglio la delicatezza, la pu-
rezza e l’innocenza dell’infanzia. Grande violino, piccolo bambino può essere suddi-
viso in tre parti: nella prima vengono mostrati alcuni bambini sorridenti con i propri
genitori, che poco alla volta crescono fino a giungere al momento della colazione
prima di andare a scuola. Nella seconda parte, a scuola, si vedono crescere i bambini,
e, con loro, cambiare le immagini sui loro libri. Alla fine di questa sequenza l’autore
si sofferma sui contenuti di un libro raffiguranti un albero con una forma molto parti-
colare, assimilabile proprio a quella di un enorme violino. I bambini, ormai abbastan-
za cresciuti, giungono ai piedi del tronco dell’albero per ammirare la grandezza della
natura. Infine, nell’ultima parte, i piccoli tornano a casa ricchi e irrobustiti dal sapere
che hanno acquisito. Il brano di Morricone è molto lirico: a un violino solista è affi-
data la melodia principale nelle prime due parti, mentre l’accompagnamento e il resto
delle voci secondarie sono assegnati agli archi. Nell’ultima parte invece vi è una voce
bianca solista, a cui è affidata la linea melodica principale con l’aggiunta, tra l’altro,
delle percussioni. Il tema, che rimane lo stesso per tutta la durata del brano, è molto
romantico e struggente, una tipica melodia nello stile delle colonne sonore del Mae-
stro romano. Questo brano è veramente in totale sinergia con i disegni di Manfredi al
punto da assorbire totalmente qualsivoglia commento: basti dire che risulta davvero
difficile, se non impossibile, non emozionarsi di fronte alla bellezza di tale musica e
alla suggestione dei disegni!
La colonna sonora ha inizio con bassi profondi che trasportano lo spettatore sin da
subito in un’atmosfera intensa. Attacca poco dopo il protagonista sonoro, il violino
solista, che dà un’idea di tenerezza così viscerale che lo spettatore riesce a sentirsi
parte integrante della storia narrata. Il violino viene utilizzato come strumento narran-
te, oseremmo dire quasi ‘parlante’, poiché descrive magnificamente la crescita del
bambino con i genitori, raccontando episodi della sua vita quotidiana, e quindi il pro-
cesso di scolarizzazione e di educazione. Ciò che viene mostrato con grande chiarez-
za, ed è questo forse il punto più importante di tutto il racconto, è il processo di istru-
zione e di crescita del bambino, un momento musicale molto tenero che potrebbe es-
sere in contrasto con quello più faticoso dello studio e dell’applicazione. Ciò, secon-
do il nostro parere, è dovuto alla precisa scelta da parte di Ennio Morricone di realiz-
zare una musica che non esprima il punto di vista dei personaggi, ma che piuttosto si
incentri su quello del pubblico adulto. Un altro momento molto interessante è quello
in cui attacca la voce bianca solista in sostituzione di quella del violino. Con questa
operazione, nella sequenza in questione, l’autore sposta il punto di vista della musica
dall’esterno del racconto verso l’interno del giovanissimo personaggio.
Principio ottavo: in tutte le circostanze, il fanciullo deve essere fra i primi a ricevere
protezione e soccorso.

Johan Hagelback ed Egisto Macchi sono gli autori rispettivamente delle immagini
e della musica di Storia di un uovo. I disegni sono quelli tipici della cultura
d’animazione svedese, ricchi di uno speciale intrinseco umorismo. Le immagini sono

179
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

molto chiare, e ricordano i tratti dei cartoni animati per la prima infanzia. Il corto
d’animazione mette in scena un uomo col suo uovo, che rappresenta il bambino. I due
devono affrontare diversi ostacoli, il freddo e le intemperie, un incendio, un tuffo in
acqua da una notevole altezza, un enorme pesce carnivoro, diversi animali minacciosi
in un bosco e un incidente stradale. In ognuna delle situazioni l’uomo dà la preceden-
za al soccorso dell’uovo, o al bambino che dir si voglia, cercando di metterlo in salvo
prima di se stesso. E allo stesso modo si comportano anche le altre persone adulte
coinvolte nell’incidente. Nel finale l’uovo si schiude, e da esso fuoriesce una versione
più piccola del protagonista, con a sua volta un uovo a sua misura da proteggere. La
colonna sonora di questo video è caratterizzata da una melodia ricorrente, inizialmen-
te affidata ad un violoncello.

Esempio 7: Trascrizione degli autori del tema principale di Storia di un uovo (Egisto Macchi).

La musica esprime fin dalla prima scena, caratterizzata dall’apparente tranquillità


del primo mattino, un sentimento di tensione che anticipa le situazioni minacciose cui
siamo in procinto di assistere. Quando il protagonista esce di casa, portando in una
carrozzina il suo uovo, compare l’ipnotico motivo principale. Successivamente
l’uomo si scontra con un sasso e perde l’uovo: questo momento è sottolineato da un
forte colpo di timpani e dal rumore della carrozzina che perde una rotella. Il protago-
nista recupera l’uovo e lo ripara dal vento mentre il tema principale passa dagli stru-
menti più gravi dell’orchestra a quelli più acuti. Si rifugia in una casa, ma un fulmine
la colpisce provocando un incendio. L’azione di questa sequenza è evidenziata da al-
cune note acute tenute dai violini. Successivamente la minaccia del pesce è eviden-
ziata da uno oscuro sfondo sonoro su cui si appoggia, ancora una volta, il tema prin-
cipale. Scampato il pericolo, il protagonista si trova in una foresta dove compaiono,
non più nascosti dagli alberi, animali minacciosi, e la musica accompagna la scena
creando uno stato tensivo tipico del film dell’orrore o del thriller. Nelle ultime scene
un rullante produce un effetto di suspense nel momento in cui il protagonista cade nel
vuoto, dapprima, e l’uovo viene scaraventato per aria nell’incidente stradale, poi. Du-
rante il momento della rottura del guscio si ascoltano le ultime schegge del tema
principale.
Principio nono: il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudel-
tà o di sfruttamento. Egli non deve essere sottoposto a nessuna forma di tratta. Il fanciullo
non deve essere inserito nell’attività produttiva prima di aver raggiunto un’età minima adat-
ta. In nessun caso deve essere costretto o autorizzato ad assumere un’occupazione o un im-
piego che nuocciano alla sua salute o che ostacolino il suo sviluppo fisico, mentale, o morale.

180
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

Gli autori sono in questo caso Jerzy e Alina Kotowski per quanto riguarda il carto-
ne animato e Franco Evangelisti per ciò che concerne il commento sonoro. Il titolo
del corto è Diritto all’infanzia. Vi vengono rappresentati due gruppi differenti di
bambini, uno stanco, triste e sfruttato, è disegnato senza colori, al lavoro in una fab-
brica, mentre l’altro gruppo, gioioso e sorridente, disegnato ovviamente a colori, è in
strada lì vicino a giocare con palle altrettanto colorate. I disegni degli artisti polacchi
sono stati ideati proprio per evidenziare in modo marcato questo contrasto, infatti ol-
tre ai colori vi sono differenze anche nei tratti del disegno: più spigolosi
nell’ambiente dei bambini sfruttati dal lavoro minorile e più arrotondati all’esterno,
dove vi è l’altro gruppo intento a giocare. Le due visioni distinte vengono alternate
finché una palla non rompe una delle finestre dello stabilimento, cosicché i due grup-
pi si incontrano e quello sfruttato si unisce all’esterno al gioco degli altri bambini,
mentre i macchinari e gli attrezzi della fabbrica poco alla volta si arrestano e si spen-
gono. Il commento sonoro di Evangelisti è un’ulteriore riconfigurazione di Campi In-
tegrati n. 2. Questa volta però, come previsto dalla partitura, viene utilizzata una dif-
ferente combinazione timbrica. Stridenti, assordanti e dissonanti gli archi accompa-
gnano i bambini costretti al lavoro, mentre le percussioni, giocose e divertenti, perlo-
più metallofoni, quasi fossero i giocattoli della prima infanzia, sono naturalmente as-
sociate ai bambini che giocano.
La tecnica di accostamento della musica alle immagini adoperata dal compositore è
molto chiara anche ad uno spettatore meno attento. Nell’ultima scena, in cui i due
gruppi giocano assieme, e tutti i bambini sono colorati cosicché entrambi i gruppi si
mischiano e confondono l’uno con l’altro, vi sono in maniera prevedibile le sole per-
cussioni. Invece, nell’industria abbandonata, le macchine che rallentano il loro moto
fino a fermarsi sono seguite dagli archi che pure poco alla volta si spengono nel si-
lenzio. 12 È importante ricordare che, oltre alle due versioni di Campi integrati n. 2
che compaiono nei due corti di Ten to Survive, rispettivamente quello canadese e
quello polacco, 13 sia stata elaborata e successivamente eseguita una terza versione del
brano, nella primavera del 1979, nel corso di un concerto tenutosi sul lago di Brac-
ciano, ad Anguillara Sabbazia (Roma). Il concerto, sotto la direzione di Luca Pfaff,
venne registrato e trasmesso nell’ambito del programma televisivo Che musica è a
cura di Teo Usuelli in quello stesso anno e, successivamente, nel 1998 pubblicato in
un disco dell’etichetta berlinese RZ. 14

Principio decimo: il fanciullo deve essere protetto contro le pratiche che possono portare
alla discriminazione razziale, alla discriminazione religiosa e ad ogni altra forma di di-

12
Nella Scheda 15 redatta da Annibaldi a partire dai materiali contenuti nella cartellina intestata
Campi integrati n. 2 del Fondo Evangelisti cit., si legge il seguente appunto ms. di altra mano (non
dell’autore): «M1 Risveglio 45” – M2 Fabbrica 65” – M3 Giocare (Giardino) 37” – M4 Fabbrica
60-62” – M5 Giardino 24” – M6 Pallone Fabbrica 50” – M7 Giocano insieme 25” (30” dissolve-
re)», ANNIBALDI, Intorno a Franco Evangelisti cit., p. 80.
13
Ibidem.
14
Cfr. D’ANGELO, Ten to Survive cit.; inoltre DANIELA TORTORA, Il congedo televisivo di Franco
Evangelisti, «Musica/Realtà» XXXVIII/112, marzo 2017, pp. 103-123.

181
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

scriminazione. Deve essere educato in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di


amicizia fra i popoli, di pace e di fratellanza universale, e nella consapevolezza che deve
consacrare le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei propri simili.

Il cortometraggio che chiude il film s’intitola Storia del diavolo cacciato via ed è
affidato ai disegni di John Halas e alle musiche di Luis Bacalov. I disegni presentano
contorni molto semplici e così come abbiamo accostato il primo e il quinto cortome-
traggio al cinema d’animazione coevo, anche i disegni di Halas seguono gli stilemi
standard dell’epoca (si pensi, ad esempio, ai grandi successi targati Walt Disney).
Inoltre, è da notare la tecnica adoperata per colorare le immagini con i tratti voluta-
mente molto evidenti, l’impiego della scala dei grigi nella prima parte del corto e del
colore nella seconda, quando compare la fatina. Con questa tecnica l’artista inglese
intreccia molto brillantemente il modo in cui racconta la storia con la trama stessa.
Nelle prime scene vi sono due bambini, uno bianco e uno di colore, che giocano in-
sieme ma combinano tanti piccoli pasticci e spingono i rispettivi genitori e le due fa-
miglie al litigio. Improvvisamente appare la fatina che dà colore alla scena e caccia
via il diavolo calmando la lite. Gli adulti, vedendo i due piccoli giocare e andare
d’accordo fra loro, recuperano la pace. Coscienti e forti dell’esperienza vissuta, i due
fanciulli giungono nei pressi di una scuola, e qui vi sono altri bambini delle due di-
verse etnie separati da una staccionata; i protagonisti la abbattono, distruggendo sim-
bolicamente le barriere che dividono l’umanità tutta. Nell’ultima scena vi è una gran-
de festa in cui i bambini e gli uomini delle varie etnie del mondo manifestano
l’amicizia fra tutti i popoli e la fraternità universale.
Il commento sonoro di Bacalov inizia con un breve accenno al tema della festa
conclusiva. Anche questo brano fa ricorso a sonorità che riportano alla mente la mu-
sica jazz: nelle prime scene vi è solo il pianoforte con un ritmo swing, interrotto dalle
brusche sfuriate dei genitori, sottolineate da glissando acutissimi degli strumenti a
fiato e da affondi minacciosi e gravi delle percussioni. Il corto e la musica sembrano
poi terminare nel momento della pace ritrovata fra le due famiglie. Nella seconda par-
te del cartone animato la musica sottolinea in modo trionfale, con ritmi energici degli
ottoni, il momento in cui viene abbattuta la staccionata per consentire la libera circo-
lazione da una parte all’altra dei bambini. Infine, tutti i bambini entrano nella scuola e
ne escono adulti, ormai consapevoli e maturi. Nell’ultima scena si transita dalle sono-
rità ritmiche del lavoro ad un brano danzabile e gioioso che rappresenta la festa e il
sentimento di fraternità che unisce gli uomini. Il brano possiede un carattere celebra-
tivo e festante, con un utilizzo della strumentazione di tipo bandistico per le immagini
che ritraggono una sorta di festa di paese con giostre e attrazioni di vario tipo. La par-
ticolarità sta nel fatto che detto tema è diegetico, cioè viene suonato all’interno della
storia e tutti i personaggi lo possono ascoltare.

182
TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

Esempio 8: Trascrizione degli autori del tema della festa (Luis Bacalov).

Quest’ultimo episodio rappresenta la logica conclusione delle immagini mostrate


nel corto e, al tempo stesso, il naturale lieto fine di Ten to Survive: dopo aver indugia-
to nel corso del racconto sulle varie problematiche legate al mondo dell’infanzia, il
lungometraggio si chiude con grande gioia e spensieratezza. Siamo convinti che val-
ga sicuramente la pena di recuperare questi dieci piccoli film di animazione, questi
dieci corti che nel loro insieme filmico ci appaiono come una collana di dieci perle
vere da sottrarre al dimenticatoio e da riportare alla luce dei tempi moderni per una
più adeguata conoscenza dei manufatti d’arte del secondo Novecento.

Il film d’animazione Ten to Survive merita senz’altro di ‘sopravvivere’ grazie al


valore artistico intrinseco della pellicola e al nobile fine umanitario che a suo tempo
si era prefisso di conseguire. Di fatto non esistono altri lungometraggi che possano
vantare la partecipazione riunita di tanti disegnatori altrettanto affermati e, ancor più,
di compositori della statura di Nino Rota, Ennio Morricone, Franco Evangelisti, Egi-
sto Macchi e Luis Bacalov. Nonostante il carattere della pellicola sia essenzialmente
eterogeneo e frammentario – lo ribadiamo ‒, avvertiamo la necessità di sollecitare
una rivalutazione dell’impresa nel suo insieme poiché, malgrado la difformità di stili,
linguaggi e concezioni artistiche, tutti e quindici gli autori di questo ambizioso lun-
gometraggio sono riusciti a far leva su ciò che tocca e commuove la nostra sensibilità,
vale a dire sulla causa umanitaria dell’infanzia non adeguatamente protetta, ancora
oggi a distanza di oltre quattro decenni. Non potremmo esprimerci meglio del filoso-
fo tedesco Immanuel Kant in proposito, nel ricordare che «la solidarietà del genere
umano non è solo un segno bello e nobile, ma una necessità pressante, un ‘essere o
non essere’, una questione di vita o di morte».

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WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

APPENDICE

I disegnatori

KLAUS GEORGI è nato ad Halle sul Saale nel 1925. Dai 21 ai 27 anni ha studiato all’Institute for Ar-
tistic Design di Burg Giebichenstein ed è diventato un graphic designer freelance. Appartiene alla
generazione fondatrice del DEFA Studio for Animation Films di Dresda ed è stato uno dei principa-
li animatori del gruppo dal 1954 al 1989. Georgi ha diretto principalmente cartoni animati, con la
sola eccezione per l’animazione delle marionette. La sua opera comprende quasi 70 titoli.

JOHN HALAS (1912 - 1995) è stato un disegnatore ungherese. Si è trasferito in Gran Bretagna nel
1936, dove nel 1940, assieme a sua moglie Joy Batchelor, ha fondato lo Studio Halas and Batchelor.
Lo Studio si concentrò dapprima su film di propaganda antifascista, poi, finita la guerra, pose
l’attenzione su produzioni sia divulgative che di intrattenimento. Ma il salto di qualità venne com-
piuto producendo La fattoria degli animali, adattamento del celebre romanzo di George Orwell. Il
film vide la luce nel 1954 ed è il primo lungometraggio d’animazione britannico.

ROMAN KACIANOF nacque nel 1921 a Smolensk. A Soyuzmultfilm ha studiato animazione. In se-
guito ha lavorato come animatore, assistente alla regia e scenografo per registi e animatori tra i qua-
li Dmitry Babichenko, Valentina e Zinaida Brumberg, Lev Atamanov, Ivan Ivanov-Vano e Vladi-
mir Polkovnikov (che considerava il suo mentore). Nel 1958 Kachanov ha diretto il suo primo film
in collaborazione con Anatoly Karanovich, The Old Man and the Crane. Nel 1959 ha scritto la sce-
neggiatura di Nazim Hikmet in Love Cloud, che ha ricevuto premi ai festival di Annecy, Oberhausen
e Bucarest. Grazie all’esperienza maturata con questi due film, si è potuto dedicare totalmente alla
direzione. I film di Kachanov, The Mitten, Crocodile Gena e The Mystery of the Third Planet, sono
diventati i classici della cinematografia russa.

JERZY KOTOWSKI (1925 - 1979) è stato un cameraman e un regista di film d’animazione. Ha studia-
to alla facoltà di cinema e televisione dell’Accademia delle Arti Musicali di Praga. Dopo aver com-
pletato gli studi, nel 1952 è entrato a far parte dello Studio cinematografico delle marionette a Łódź.
Ha diretto il Dipartimento pedagogico della State University for Film, Television and Theatre negli
anni Sessanta. Nel 1967 e nel 1968 è stato vicepreside del Dipartimento di direzione e vicerettore
fino al 1971; ha mantenuto la carica di rettore dell’Università dal 1971 al 1972. In 21 anni Kotowski
ha realizzato ben 36 film d’animazione.

KATALIN MACSKÁSSY (1942 - 2008) è stata una regista cinematografica ungherese, vincitrice del
premio Béla Balázs. Ha studiato al College of Theatre and Film fra il 1966 e il 1971. È stata poi se-
gretaria di colorazione, disegno, montaggio e pubbliche relazioni del Pannonia Film Studio. Nel
1971 ha realizzato il suo primo film al Béla Balázs Studio. La sua produzione conta diversi disegni
e testi per bambini, film di animazione sociologica, psicologica e politica, fiabe, serie TV, film edu-
cativi, documentari e spot pubblicitari.

MANFREDO MANFREDI è nato a Palermo nel 1934. Ha studiato a Roma, alla Facoltà di architettura e
si è diplomato in Scenografia all’Accademia di Belle Arti nel 1958. Ha cominciato a lavorare come
scenografo nel 1960, in qualità di assistente di Piero Filippone nel film Antinea, l’amante della città
sepolta. Ha dato vita ai disegni per la sigla del Carosello. Nel 1963 ha iniziato a lavorare
nell’animazione e ha ricevuto riconoscimenti tra cui il Nastro d’argento al miglior cortometraggio
nel 1968 per Su sambene non est abba. Nel 1975 con Uva salamanna ha vinto il premio film ragaz-
zi al Festival cinematografico internazionale di Mosca e nel 1977 è stato nominato all’Oscar per il
miglior cortometraggio d’animazione con Dedalo.

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TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI

FERNANDO RUIZ ha studiato regia all’Università Ibero-Americana (1957-1961). Il suo primo corto-
metraggio animato sperimentale, intitolato The Musician, ha vinto il primo posto nella categoria
cortometraggi animati al Festival di Guadalajara, Jalisco. Il suo primo lavoro di animazione è stato
realizzato nel 1958, per il film El Duende y Yo con Tin-Tan, dove sono mescolate animazione e
azione reale. Nel 1961 gli viene assegnata una borsa di studio dal Dipartimento di Stato per specia-
lizzarsi in animazione all’UCLA e nello stesso anno entra negli Studi di Walt Disney, partecipando
in seguito al film La spada nella roccia (1963). Dopo il ritorno in Messico ha fondato la sua com-
pagnia di cartoni animati, Anim-Art. Ad oggi le produzioni della compagnia vantano oltre 500 ma-
nufatti. Ha anche realizzato il primo lungometraggio d’animazione in America Latina, I tre saggi
(1976).

SEPPO SUO-ANTTILA (1921-2009) è stato l’animatore finlandese meglio conosciuto all’estero, in


particolare dopo aver vinto un premio al Festival di Mamaia con Impressio (1967). Quest’ultima era
una storia drammatica in bianco e nero con bottiglie animate. Le sue opere successive includono la
serie per bambini The Courtyard (1968-70), Impressio II (1973) e il tradizionale racconto The
Death-Tamer (1981).

I musicisti

LUIS BACALOV (San Martìn, 30 agosto 1933 - Roma, 15 novembre 2017). Ha iniziato lo studio del
pianoforte in Argentina con Enrique Barenboim. Nel 1960 ha iniziato a comporre musiche per il ci-
nema sotto lo pseudonimo di Luis Enriquez. Degni di nota sono alcuni film di cui ha composto le
colonne sonore: Il Vangelo secondo Matteo (1964), Django e Quién sabe? (1966), A ciascuno il suo
(1967), L’amica (1969), Cuori solitari (1970), Milano calibro 9 (1972). Successivamente ha colla-
borato con Federico Fellini per le musiche del film La città delle donne (1980), dopo la morte im-
provvisa di Nino Rota. Nel 1996 ha vinto il Premio Oscar, in seguito diviso, per le musiche del film
Il postino (1994). Bacalov ha collaborato con: Pier Paolo Pasolini, Damiano Damiani, Ettore Scola,
Fernando Di Leo, Gianni Serra, Franco Giraldi e anche con Francesco Rosi nel 1997 per La tregua.
Parte della colonna sonora scritta da Bacalov per il western all’italiana Il Grande Duello (1972) è
stata utilizzata da Quentin Tarantino nel film Kill Bill (2003-2004) e in questo stesso film ci sono
musiche di Ennio Morricone, con il quale ha collaborato. Alcuni brani composti da Bacalov sono
stati usati da Tarantino nel suo film di ambientazione western Django Unchained (2012). Il 25 ago-
sto 2015, a vent’anni dall’Oscar, Bacalov ha tenuto uno spettacolo a Pollara, nelle Isole Eolie, dove
ha presentato in anteprima Poetry Soundtrack, in onore di importantissimi registi: da Pasolini a Fel-
lini, da Troisi a Tarantino. Il recital ha riproposto le composizioni eseguite in una veste minimale,
così come erano nate. Dopo aver lottato invano contro la leucemia, è scomparso nel novembre del
2017.

FRANCO EVANGELISTI (Roma, 21 gennaio 1926 - 28 gennaio 1980). Nel 1948 ha iniziato lo studio
della musica con Daniele Paris a Roma e poi con Harald Genzmer alla Musikhochschule di Fribur-
go in Bresgovia. Dal 1952 al 1960 ha frequentato i Ferienkurse per la Nuova Musica a Darmstadt,
dove ha conosciuto Werner Meyer-Eppler dell’Università di Bonn. Da subito restìo all’idea compo-
sitiva tipica della musica dodecafonica, ha cominciato a pensare che fosse necessario andare oltre il
modus operandi compositivo inseguito fino a quel momento, gettando le fondamenta per quella che
verrà successivamente chiamata “improvvisazione libera” e iniziando a interessarsi alla musica elet-
tronica. Nel 1958 con Karlheinz Stockhausen e Luigi Nono ha inaugurato lo Studio Sperimentale
della Radio polacca di Varsavia. Nel 1960 ha promosso la prima Settimana Internazionale Nuova
Musica di Palermo. Nello stesso anno ha fondato a Roma l’Associazione Nuova Consonanza, che
ha come obiettivo la diffusione della musica contemporanea in Italia. Più tardi è nato l’omonimo
Gruppo di improvvisazione che ha permesso a Evangelisti di mettere in pratica le sue teorie. Col
tempo si è fatta sempre più intensa l’attività che lo ha visto impegnato in conferenze e seminari sul-

185
WALTER AVETA - OSCAR CORPO - PAOLA NASTASI

la Nuova Musica, e la composizione per lui ha lasciato sempre più spazio alla ricerca e agli appro-
fondimenti teorici e all’improvvisazione. Alla fine del 1979 ha terminato il libro Dal silenzio a un
nuovo mondo sonoro. È morto a Roma a soli 54 anni.

EGISTO MACCHI (Grosseto, 4 agosto 1928 - Montpellier, 8 agosto 1992). Ha studiato a Roma com-
posizione, pianoforte, violino e canto e ha avuto come maestri Roman Vlad e Hermann Scherchen.
Dalla fine degli anni Cinquanta si è occupato di organizzazione musicale, collaborando con Franco
Evangelisti, Domenico Guaccero, Daniele Paris. È stato, insieme ad Evangelisti, tra i fondatori
dell’Associazione Nuova Consonanza di cui ha rivestito la carica di Presidente dal 1980 al 1982 e
nel 1989. Il compositore toscano è stato al centro dell’organizzazione delle Settimane Internazionali
Nuova Musica di Palermo (1959-1968). Nel 1967 è diventato uno dei membri del Gruppo di Im-
provvisazione Nuova Consonanza. Ha dedicato l’ultimo periodo della sua vita alla composizione di
Apocalypsis altera (conclusa nel 1988). Nel novembre del 1991 ha terminato la trascrizione per se-
dici strumenti e quattro sintetizzatori de La Bohème che, insieme a quella della Tosca, con lo stesso
organico, trascritta da Ennio Morricone, ha lo scopo di attuare un mutamento radicale nella circola-
zione del melodramma. È morto a Montpellier nell’estate del 1992.

ENNIO MORRICONE (Roma, 10 novembre 1928). Ha studiato al Conservatorio di Santa Cecilia di


Roma, dove si è diplomato in tromba e successivamente in composizione con Goffredo Petrassi.
Dal 1946 ad oggi ha composto più di 100 brani di musica colta contemporanea. È socio
dell’associazione Nuova Consonanza impegnata in Italia nella diffusione e produzione della musica
contemporanea. Morricone è stato anche membro del Gruppo di Improvvisazione Nuova Conso-
nanza. Ciò che gli ha conferito la fama mondiale come compositore, però, sono state le musiche
composte per il genere del western all’italiana. Ha collaborato con registi come Sergio Leone, Duc-
cio Tessari, Tonino Valeri e Sergio Corbucci, con film come la Trilogia del dollaro (1964-1965-
1966), Una pistola per Ringo (1965), La resa dei conti (1966), Il grande silenzio (1968), Il merce-
nario (1968), Il mio nome è Nessuno (1973) e la Trilogia del tempo (1968-1971-1984). Per la varie-
tà dei generi compositivi usati e per la sua versatilità, è sicuramente uno dei più prolifici e influenti
compositori di colonne sonore di tutti i tempi. Ha scritto le musiche per più di 500 film e serie TV,
tra cui più di 60 film vincitori di premi. A partire dagli anni Settanta Morricone è diventato noto an-
che nel cinema hollywoodiano, poiché ha composto musiche per registi del calibro di John Carpen-
ter, Brian De Palma, Barry Levinson, Mike Nichols e Quentin Tarantino. Nel 2007 Morricone ha
ricevuto il premio Oscar alla carriera; nel 2016 il suo secondo Oscar e il Golden Globe per il film di
Tarantino, The Hateful Eight (2015).

NINO ROTA (Milano, 3 dicembre 1911 - Roma, 10 aprile 1979). Ha studiato presso il Conservatorio
Giuseppe Verdi di Milano e all’Accademia di Santa Cecilia a Roma con Ildebrando Pizzetti ed Al-
fredo Casella. Fin dalla più tenera età è stato un compositore molto prolifico. Nonostante abbia con-
tinuato a scrivere per tutta la vita musica d’arte di tutti i generi (opere, musica sinfonica e cameristi-
ca, musica sacra e didattica), la sua maggior fama la si deve alla musica per film. La prima colonna
sonora da lui realizzata è stata per il lungometraggio Treno popolare di Raffaello Matarazzo nel
1933. Ma i maggiori successi si debbono alle collaborazioni con grandi registi come Luchino Vi-
sconti, Franco Zeffirelli, Francis Ford Coppola e soprattutto Federico Fellini. Per Visconti ha com-
posto le musiche di Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il Gattopardo (1963); per Zeffirelli la colonna
sonora di Romeo e Giulietta (1968). Ha collabora con Coppola per la trilogia de Il Padrino (1972-
1974-1990) e con le musiche del secondo lungometraggio si è aggiudicato il Premio Oscar alla co-
lonna sonora. Durante la trentennale collaborazione con l’amico Federico Fellini ha realizzato le co-
lonne sonore di numerosi film, fra i quali ricordiamo La Dolce Vita (1960), 8½ (1963), Amarcord
(1973) e Il Casanova di Federico Fellini (1976). Poco dopo la registrazione della colonna sonora
del film di Fellini Prova d’orchestra (1979), in seguito a una crisi cardiaca, a soli 67 anni, è scom-
parso uno dei compositori più influenti di tutta la Storia del cinema.

186
NOTE D’ARCHIVIO
____________________________________________________________________

Tommasina Boccia

L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA


SAN PIETRO A MAJELLA DI NAPOLI ESISTE!

Introduzione

La scelta del titolo di un contributo condiziona sempre il taglio e lo stile che si dà a


un lavoro. Proprio per questo, dopo tanti interventi sul patrimonio archivistico
dell’Istituto si è pensato, per il primo numero dei «Quaderni del San Pietro a Majel-
la», a un titolo che contenesse una frase esclamativa: l’archivio storico esiste!
Vent’anni sono trascorsi da quando, grazie anche alla stretta collaborazione con la
Soprintendenza archivistica e bibliografica per la Campania, si è dato avvio alla va-
sta operazione che ha portato, prima al censimento di gran parte del materiale archi-
vistico storico e, poi, via via alla schedatura, al riordinamento e al restauro parziale di
alcuni fondi e unità archivistiche. 1 Tutti questi interventi hanno consentito anche di
aprire alla consultazione ‒ dal 2004 ‒ i fondi riordinati e di arrivare, nel volgere di al-
cuni anni, all’istituzione della sezione separata dell’archivio storico, 2 stabilita con de-
termina commissariale del 9 dicembre 2014.
Ma cos’è un archivio storico? Può sembrare una domanda banale, e per molti forse
lo è, ma nella sua semplicità fornisce lo spunto per rispondere a un’affermazione che
per troppi anni è riecheggiata tra le mura del San Pietro a Majella, e ahimè in altri en-
ti con patrimoni archivistici fondamentali per la nostra storia, vale a dire che
“l’archivio non esiste”. Questa asserzione è in larga misura determinata, nella mag-
gior parte dei casi, dalla percezione molto vaga e spesso travisata che si ha di un ar-
chivio. Attualissima, anche se datata, è l’amara constatazione di Eugenio Casanova il

1
Sono stati oggetto di restauro l’intero archivio del Real Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana
e la serie dei Libri Maggiori del Real Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini. Suc-
cessivamente grazie alla sponsorizzazione del Distretto Rotaract 2100 si è restaurato, dello stesso
conservatorio, il magnifico Liber Capitolorum del 1583, e successivamente, con il contributo
dell’Associazione Maggio della Musica è stato possibile restaurare due preziosi documenti del Real
Conservatorio di Santa Maria di Loreto, e precisamente il volume Introito ed Esito dal 1544 al
1549 (trattasi del documento più antico custodito nell’archivio storico) e il Libro del Patrimonio ri-
salente al 1790.
2
Si confronti in particolare l’articolo 69 del DPR 445/2000 Testo unico delle disposizioni legislati-
ve e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, e giova ricordare l’articolo 10,
comma 2°, del Titolo I del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 recante il Codice dei beni
culturali e del paesaggio che, a proposito delle fonti documentarie, enuncia che sono beni culturali
«gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, non-
ché di ogni altro ente ed istituto pubblico».

187
TOMMASINA BOCCIA

quale novantadue anni fa scriveva «rari sono, in Italia e altrove, coloro i quali sappia-
no che cosa sia un archivio; rarissimi coloro i quali discernano a che veramente ser-
va». 3 Per fare un po’ di chiarezza, è utile riportare, quasi integralmente, il paragrafo
dedicato alla definizione e alla normativa prevista per gli archivi storici di un ente
pubblico, parte di un rigoroso e puntuale documento tecnico della Soprintendenza ar-
chivistica per il Piemonte e la Valle d’Aosta:
L’archivio storico è costituito dai documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta
anni (art. 30 c.4 D.Lgs 42/2004). I documenti selezionati per la conservazione perma-
nente devono essere ordinati (art. 30 c.4 D.Lgs 42/2004), rispettando i criteri delineati
nelle fasi corrente e di deposito, ma tenendo conto che, dopo tutti i successivi scarti, tale
parte dell’archivio deve ormai assumere uno stato definitivo, e devono essere trasferiti,
contestualmente agli strumenti che ne garantiscono l’accesso (protocolli, repertori, ru-
briche, schedari, elenchi, ecc.), nell’apposita separata sezione di archivio (art. 69 DPR
445/2000). Le delicate operazioni di sistemazione definitiva della parte storica
dell’archivio (che nella letteratura professionale va sotto il nome di "riordinamento")
vanno affidate a personale, eventualmente anche esterno all’Ente, dotato di adeguata
professionalità specifica (diploma di archivistica, paleografia e diplomatica rilasciato
dalle omonime Scuole istituite presso 17 Archivi di Stato, o titolo equipollente). […]
L’archivio storico deve inoltre essere inventariato (art. 30, c.4 D.Lgs 42/2004), cioè do-
tato di uno strumento di descrizione complessiva che, affiancando gli strumenti originari
di gestione (protocolli, repertori, ecc.), ne faciliti l’accesso ai fini giuridico-
amministrativi (mai del tutto esauriti) e di ricerca scientifica, e ne consenta la tutela an-
che patrimoniale. […] Gli archivi storici sono liberamente consultabili, salvi i limiti di
riservatezza previsti dalla legge (artt. 122-123 D.Lgs 42/2004). […] Sull’archivio stori-
co, che deve essere correttamente conservato, ed è inalienabile come le altre parti
dell’archivio (art. 54, cc.1-2 D.Lgs 42/2004), si esercita la medesima vigilanza della
Soprintendenza archivistica, già citata per l’archivio nelle sue prime fasi di vita (art. 18
D.Lgs 42/2004). Nell’esercizio di tale vigilanza, saranno date le eventuali autorizzazioni
a interventi di restauro, a trasferimenti di sede e più in generale le necessarie prescrizio-
ni per la tutela del patrimonio archivistico. Al fine di garantirne la sicurezza, assicurarne
la conservazione o impedirne il deterioramento, la Soprintendenza ha facoltà di imporre
la custodia coattiva dell’archivio storico dell’Ente presso un pubblico istituto (art. 43
D.Lgs 42/2004). 4

Dunque, nel pieno rispetto della legislazione vigente, le operazioni archivistiche ad


oggi attuate hanno consentito di effettuare la selezione della documentazione per la
conservazione permanente prodotta dall’Istituto sino al 1960 circa e di procedere al
riordinamento dei fondi degli antichi conservatori, dell’archivio del San Pietro a Ma-

3
EUGENIO CASANOVA, Archivistica, Siena, Lazzeri, 1928, Prefazione, p. IV. Il testo integrale è di-
sponibile anche all’indirizzo <http://archivi.beniculturali.it/Biblioteca/EuCa/totalCasanova.pdf> (ul-
tima consultazione 23 febbraio 2020).
4
SOPRINTENDENZA ARCHIVISTICA PER IL PIEMONTE E LA VALLE D’AOSTA, Obblighi di legge
dell’ente pubblico riguardo al proprio archivio, Torino, 2005, il testo integrale è disponibile
all’indirizzo <http://www.archivi.beniculturali.it/archivi_old/sage/testi/obblighi-legge-ente-pubblico.pdf> (ul-
tima consultazione 17 febbraio 2020).

188
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

jella del periodo preunitario (dall’anno della sua fondazione 1807 5 al 1860), dei sub-
fondi novecenteschi Archivio didattico e Archivio Amministrativo,6 e alla schedatura
parziale della documentazione del periodo postunitario.7

Nota storico-istituzionale

La storia del conservatorio napoletano è la storia di quattro istituzioni indipendenti:


una storia di cinque secoli, iniziata nella seconda metà del Cinquecento con la nascita
dei conservatori di Santa Maria di Loreto, di Sant’Onofrio a Capuana e di Santa Ma-
ria della Pietà dei Turchini, modelli applicativi dei vari istituti di assistenza e benefi-
cenza sorti a Napoli per accogliere l’infanzia abbandonata, trasformatisi nell’arco del
Seicento e del Settecento in istituzioni che sarebbero divenute i più importanti luoghi
per la formazione musicale in Europa.8 Enti i quali, a seguito di fusioni e passaggi,
avrebbero dato origine al Real conservatorio di musica, dichiarato reale nel giugno

5
Cfr. (N.° 174) Decreto, con cui il conservatorio di musica stabilito in Napoli viene dichiarato con-
servatorio Reale, Napoli 30 giugno, «Bullettino delle Leggi del Regno di Napoli» I, 1807, p. 20. Per
completezza bisogna ricordare che già a partire dal 1806 furono emanati provvedimenti legislativi
per la riorganizzazione del conservatorio, in particolare si confronti il real decreto del 21 novembre
1806 (N° 251) Decreto, con cui sono nominati membri del ramo musicale del Real Conservatorio i
signori Giovanni Paisiello come presidente, Fedele Finaroli, e Giacomo Tritto e il real decreto del
5 febbraio 1807 (N° 31) per la Giubilazione accordata a taluni individui del conservatorio di Musi-
ca, di seguito citati integralmente.
6
Per la ricostruzione di questi due fondi si rimanda a TOMMASINA BOCCIA, L’archivio storico del
Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli: i fondi Amministrativo e Didattico, in Mu-
sica e musicisti a Napoli nel primo Novecento. Atti del convegno internazionale (Napoli 21-23
maggio 2009) a cura di Pier Paolo De Martino – Daniela Margoni Tortora, Napoli, Istituto italiano
per gli studi filosofici, 2012, pp. 505-516.
7
Per un quadro d’insieme sull’archivio, sugli interventi di riordinamento e sulla ricostruzione delle
vicende storico-istituzionali si confronti anche: TOMMASINA BOCCIA – CONCETTA DAMIANI,
L’archivio storico, in Il Conservatorio di San Pietro a Majella, Napoli, Electa Napoli, 2008, pp. 9-22.
8
Per la storia degli antichi conservatori si legga: SALVATORE DI GIACOMO, I quattro antichi Con-
servatorii di musica di Napoli. Il Conservatorio di S. Onofrio a Capuana e quello di S. M. della
Pietà dei Turchini, [Palermo], Remo Sandron, 1924; IDEM, I quattro antichi Conservatorii di musi-
ca di Napoli. Il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo e quello di S. M. di Loreto, [Palermo],
Remo Sandron, 1928; ROSSELLA DEL PRETE, La trasformazione di un istituto benefico-assistenziale
in scuola di musica: una lettura dei libri contabili del conservatorio di S. Maria di Loreto in Napoli
(1586-1703), in Francesco Florimo e l’Ottocento musicale. Atti del Convegno (Morcone 19-21
aprile 1990), a cura di Rosa Cafiero – Marina Marino, 2 voll., Reggio Calabria, Jason, 1999, II, pp.
671-715; IDEM, Un’azienda musicale a Napoli tra Cinquecento e Settecento: il Conservatorio della
Pietà dei Turchini, ‹‹Storia Economica›› 3, 1999, pp.413-464; IDEM, Legati, patronati e maritaggi
del Conservatorio della Pietà dei Turchini di Napoli in età moderna, «Rivista di Storia Finanzia-
ria», Luglio-Dicembre 2001, Napoli, Arte Tipografica, pp. 7-32; TOMMASINA BOCCIA, Non solo no-
te: il riordinamento dell’archivio del Real Conservatorio di Santa Maria di Loreto, in Domenico
Cimarosa: un ‘napoletano’ in Europa. Atti del Convegno Internazionale (Aversa, 25-27 Ottobre
2001), a cura di Paologiovanni Maione – Marta Columbro, 2 voll., Lucca, LIM, 2004, II: Le fonti,
pp. 643-651.

189
TOMMASINA BOCCIA

1807 9 con decreto di Giuseppe Napoleone. Una storia complessa, dunque, intricata e
articolata, che affonda le sue radici nella Napoli del Cinquecento, per poi svilupparsi
ed evolversi, affrontando cambi di dominazione e di governi, rivoluzioni epocali e
sociali, stravolgimenti istituzionali e organizzativi.
Per grandi linee l’unione dei tre conservatori si attuò in momenti diversi e con mo-
dalità differenti: nel febbraio del 1797 ha luogo il trasferimento del Conservatorio di
Santa Maria di Loreto nella sede del Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana; tale
passaggio accompagna il vero e proprio accorpamento dei due istituti, in virtù del
quale Santa Maria di Loreto accoglie i figlioli e incamera il patrimonio del
Sant’Onofrio. Tra il 1806 e il 1807, poi, è ufficializzata, con appositi provvedimenti,
la fusione del Conservatorio di Loreto con quello della Pietà dei Turchini.10
Il reale conservatorio, quindi, nel 1808 trova collocazione nell’edificio dell’ex
monastero di San Sebastiano, sede del conservatorio sino al 1826:

Il Signor Ministro del Culto con sua del 27 febbraio p.° p.° mi partecipa un Real decreto
in virtù del quale i locali del soppresso Monistero di S. Sebastiano è destinato per si-
tuarvi il Real Conservatorio di Musica, e la Chiesa della Pietà de’ Torchini è posta a di-
sposizione del Ministero della Guerra. Nel darvi parte di una tale Sovrana decretazione
per vostra intelligenza, vi prevengo e per uopo aspettare che dall’Amministrazione de’
Demanii si effettui la consegna del detto Monistero non ancora evacuato dalle religiose,
e che sia destinata dal Ministero della Guerra la persona che dovrà prendere possesso
della Chiesa della Pietà; atto per altro che non potrà farsi che dopo la translazione del
Conservatorio nel nuovo locale accordatogli da S.M. 11

Nel 1826, a seguito dell’avvenuta concessione dei locali di San Sebastiano ai Padri
Gesuiti, si attua un nuovo trasferimento dell’istituzione in quella che è l’attuale sede e
a cui si deve la trasformazione della denominazione in Conservatorio di Musica San
Pietro a Majella. 12
Nel corso del decennio francese l’impostazione delle attività di governo
dell’istituto subisce diverse modifiche, in primis viene stabilito che il conservatorio

9
Cfr. (N.° 174) Decreto, con cui il conservatorio di musica… cit.
10
Cfr. (N. 31) Decreto, con cui attesa l’unione dei due conservatori di musica in un sol corpo, ed il
nuovo sistema di economia adottato, vengono giubilati con soldo alcuni individui addetti ai mede-
simi (Napoli 5 Febbraio), in Bullettino delle leggi del Regno di Napoli Anno 1807, tomo I, Napoli,
Stamperia Simoniana, n. 3, p. 18.
11
Archivio storico del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli [d’ora in poi CMS
NA as], San Pietro a Majella preunitario, Ministeriali, «2 marzo 1808 per il locale di S. Sebastiano
accordato al Conservatorio», busta 1, fascicolo 10/bis.
12
Con real decreto del 15 settembre 1826 fu concesso ai Padri Gesuiti il locale di San Sebastiano,
mentre al conservatorio fu assegnato il monastero di San Pietro a Majella. L’articolo 5 disponeva
«Al Collegio musicale, che si trovava stabilito nel locale di S. Sebastiano da cedersi ai Padri Gesuiti
assegniamo l’altro di San Pietro a Maiella, già sgombrato dalle truppe. Lo stesso Collegio riceverà,
giusta gli ordini da noi comunicati al nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari interni, il cor-
rispondente compenso per la rendita, che si ritraeva dai giardini interni e da alcuni casamenti annes-
se al locale di S. Sebastiano, e per quella parte di locale di Pietro a Maiella che trovasi affittata per
uso di locanda di cui il collegio di musica dee indennizzarsi il R. albergo dei Poveri».

190
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

si uniformi alla legge del 30 maggio 1807.13 A seguito di tale disposizione, la dire-
zione musicale istituita nel 1806 e affidata alla terna composta da Giovanni Paisiello,
quale presidente, Fedele Fenaroli e Giacomo Tritto,14 viene abolita nel 1809, con la
precisa prescrizione che l’organizzazione educativo-didattica fosse di competenza
del rettore, mentre l’amministrazione generale venne attribuita ad una commissione
amministrativa, formata da due membri, nominati dal re, e dal rettore. A seguito del-
la restaurazione borbonica, si introdusse, al fianco del direttore tecnico, un rettore
ecclesiastico, cui spettava la cura dell’educazione morale e religiosa degli alunni, e
una commissione di tre governatori, preposta alla gestione delle funzioni ammini-
strative e alla vigilanza del rispetto dei regolamenti. Bisogna evidenziare che Ferdi-
nando I, con il decreto dell’ 11 settembre 1816, 15 aveva auspicato una riforma del
Conservatorio, che nei fatti non arriverà prima del 1856 quando, con decreto del 21
luglio, 16 fu stabilito che un Governo, composto da tre soggetti di nomina regia, do-
veva curare l’alta tutela del collegio, mentre a un direttore della musica, sempre di
nomina regia, veniva «conferita la soprintendenza di tutte le specialità
dell’ammaestramento musicale degli alunni»; il decreto inoltre promulgò il Regola-
mento del Real Collegio di Musica, un poderoso testo composto da 164 articoli sud-
divisi in sei titoli: Governo ed amministrazione del Collegio, Disciplina e religione,
Insegnamento musicale, Insegnamento letterario, Scuola esterna gratuita, Stipen-
di.17
Con il Governo unitario, negli anni tra il 1870 e il 1873, grande attenzione viene
posta all’istruzione musicale. Sono gli anni in cui è convocata a Firenze, dal ministro
della Pubblica Istruzione Cesare Correnti, la prima Commissione del settore, presie-
duta da Giuseppe Verdi e costituita da direttori e docenti di vari conservatori «per
studiare i mezzi onde procurare un indirizzo fermo e concorde all’insegnamento mu-
sicale in Italia e restituire alle sue gloriose tradizioni il Collegio di Napoli». 18 Nella

13
Cfr. (N.° 14) Legge per lo stabilimento dei collegi nella capitale, e nelle provincie del Regno. Dei
30 Maggio, in Collezione delle leggi de’ decreti e di altri atti riguardante la pubblica istruzione
promulgati nel giù Reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, vol. I. dal 1806 al 1820, Napoli Stampe-
rie e cartiere del Fibreno, 1861, pp. 34-42.
14
Cfr. (N° 251) Real decreto del 21 novembre 1806 Decreto, con cui sono nominati membri del
ramo musicale del Real Conservatorio i signori Giovanni Paisiello come presidente, Fedele Fina-
roli, e Giacomo Tritto, «Bullettino delle leggi del Regno di Napoli» Anno 1806 Seconda Edizione in
Napoli nella Stamperia reale e Stamperia della Segreteria di Stato 1813, p. 428.
15
Cfr. (N° 482) Decreto portante una riforma di sistema nel real collegio di musica Capodimonte,
11 settembre 1816, in Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Seme-
stre II Da Luglio a tutto Dicembre, seconda edizione, Napoli nella Stamperia Reale 1821, pp. 238-
240.
16
Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e re-
golamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Decreto di Ferdinando II, 21 Luglio
1856».
17
Ibidem, «Regolamento del Real Collegio di Musica».
18
Membri della commissione nelle fasi iniziali furono, oltre a Verdi e al ministro Correnti, Luigi
Ferdinando Casamorata, direttore del liceo musicale di Firenze, Alberto Mazzuccato, docente di
composizione del conservatorio di Milano, Paolo Serrao, docente di composizione del conservatorio

191
TOMMASINA BOCCIA

sostanza i lavori della Commissione condussero a un’indicazione di massima rivolta a


tutti gli istituti, al fine di adottare come modello di ordinamento il conservatorio di
Milano; un risultato, in definitiva, modesto. Anche il secondo obiettivo, finalizzato al
rilancio del conservatorio napoletano, non fu raggiunto, negli stessi anni nell’istituto,
dopo la morte nel 1870 di Mercadante, si accese una lotta per ricoprire la carica di di-
rettore, lotta che vide prevalere Lauro Rossi.19 Di fatto, il conservatorio napoletano,
dopo l’unità nazionale, inizia un percorso caratterizzato, per un verso, dalla faticosa
adesione alla normativa nazionale per quanto concerne l’organizzazione amministra-
tiva e la programmazione didattica e, per un altro, dalla tenace difesa della sua speci-
ficità di ente autonomo, così come enunciato all’articolo 1 dello Statuto approvato
con regio decreto dell’11 novembre 1888: «Il Real Collegio è ordinato, in conformità
della sua istituzione, conservando la sua natura di ente morale autonomo in quanto sia
conciliabile col presente Statuto, all’insegnamento della musica vocale e strumentale
non che agli studi letterarii adatti a compiere l’istruzione degli alunni d’ambo i ses-
si»20 e riconfermato all’articolo 1 dello Statuto del 1890: «Il Regio Conservatorio di
Musica di Napoli è un ente autonomo, posto sotto la dipendenza del Ministero della
Pubblica Istruzione ed ordinato all’insegnamento della musica nelle varie sue manife-
stazioni […]». 21
Difficili furono le situazioni che caratterizzarono la storia dell’Istituto tra la fine
dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, una storia cadenzata da una serie

di Napoli. Sull’argomento si legga: ANTONIO CAROCCIA, L’istruzione musicale nei conservatori


dell’Ottocento tra regolamenti e riforme degli studi. I modelli di Milano e Napoli, in
L’insegnamento dei Conservatorî, la composizione e la vita musicale nell’Europa dell’Ottocento.
Atti del Convegno internazionale di studi (Milano, Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”, 28-
30 novembre 2008), a cura di Licia Sirch – Maria Grazia Sità – Marina Vaccarini, Lucca, LIM,
2012 (Strumenti della ricerca musicale, 19), pp. 207-327 e Sulla riforma degli Istituti musicali. Re-
lazione al Ministro della Pubblica Istruzione, «Supplemento straordinario» alla «Gazzetta musicale
di Milano», XXVI/22-25, 1871.
19
Rossi immediatamente lavorò a un progetto di riforma del conservatorio e a un nuovo statuto, i
continui ostacoli frapposti al suo impegno lo convinsero a dimettersi da direttore del Collegio.
Sull’argomento si confronti: LAURO ROSSI, Riforma della istruzione musicale, Stabilimento Tipo-
grafico del Cav. Gennaro de Angelis, Napoli, 1877 (il contenuto dell’opuscolo venne pubblicato an-
che in apertura del n. 6 del 17 marzo 1877 del periodico napoletano «La Musica»), MARINA MARI-
NO, Lauro Rossi ed un suo mancato progetto di riforma del conservatorio di musica “San Pietro a
Majella di Napoli (1877) attraverso le pagine del periodico “La Musica”, in Francesco Florimo e
l’Ottocento musicale cit., II, pp. 861-874 e ANTONIO CAROCCIA, La corrispondenza salvata. Lettere
di Lauro Rossi a Francesco Florimo, Porto S. Elpidio, Le Marche della musica, 2008: XL-XLVII.
20
CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e regola-
menti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Real Collegio di Musica di Napoli Sta-
tuto e ruolo normale approvato con R. Decreto del dì 11 Novembre 1888 N. 5819», bisogna eviden-
ziare che vari furono i provvedimenti miranti alla riorganizzazione e alla non facile “statalizzazio-
ne” del conservatorio napoletano a partire dallo Statuto e regolamento approvati con regio decreto
di Vittorio Emanuele II del 14 gennaio 1872, modificati già nel 1873, e successivamente nel 1879,
nel 1880 e nel 1881.
21
Ibidem, «Statuto del Regio Conservatorio di Musica di Napoli approvato con R. Decreto del 30
Marzo 1890 N. 7243 (Serie 3ª) a cominciare dall’anno scolastico 1890-91».

192
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

di ispezioni e inchieste ministeriali: nel 1892 l’ispezione Pellicani, nel 1899


l’ispezione Testoni, nel 1901 l’inchiesta Saredo, nel 1904 l’inchiesta D’Ancora, nel
1904 l’inchiesta Fiorini – Scotoni, nel 1913 l’ispezione Salvagnini.22 Le varie in-
chieste fornirono elementi che portarono all’emanazione della legge del 6 luglio
1912, Approvazione dei ruoli organici degli Istituti di belle arti e di musica,23 che
mise ordine nella intricata gestione del personale degli istituti governativi, fino ad al-
lora regolamentata da provvedimenti disorganici.
Interessanti informazioni sulle complicate vicende amministrative e istituzionali
che interessarono l’istituto in questi anni ci vengono fornite dalla relazione, pubblica-
ta nel 1914, del regio commissario Salvagnini, di cui si riportano alcuni passaggi sa-
lienti:
trascinato l’istituto sull’orlo del fallimento. Ritornato il Conservatorio nelle mani dello
Stato, mediante l’opera energica di un Regio Commissario (De Bellis), e poi di un Re-
gio Delegato (Rendina) fu riformato lo statuto con Regio Decreto 11 novembre 1888.
Tale statuto affidava il governo del Conservatorio ad un consiglio composto di tutte le
alte cariche cittadine, il sindaco, il presidente del consiglio provinciale, il rettore
dell’università, il presidente della reale accademia e quello dell’istituto di belle arti,
l’avvocato erariale e finalmente il direttore del Conservatorio ed uno dei professori,
eletto dal comitato tecnico. Era evidente che un tale consiglio, ideato con una incredibi-
le mancanza di senso pratico, non avrebbe mai potuto, non che funzionare, neppure
giungere ad essere nominato. E così fu. Tanto che due anni dopo, nel 1890, fu approvato
un nuovo statuto – quello vigente – che affidava l’amministrazione del Conservatorio ad
un governatore ad honorem, assistito da un segretario generale. Si credette di aver rime-
diato nel modo migliore ai guai secolari dello sfortunato istituto; ma trascorso appena
un anno dal nuovo ordinamento, ecco che il Ministero vi compie una ispezione e questa
rivela un vuoto di cassa di circa 35 mila lire. 24

Inoltre, altra grave carenza evidenziata dal commissario è la mancata adozione di


un regolamento generale, attribuita dallo stesso a una precipua volontà dell’Istituto:
Lo statuto vigente, all’art. 29, prescrive l’esistenza di un Regolamento; ma dal 30 marzo
1890 in poi il Ministero non riuscì ad ottenere che il Conservatorio ottemperasse a tale
prescrizione.
Uno schema fu proposto nel 1894 dal direttore tecnico Maestro Platania, ma non venne
approvato; si temporeggiò e si attese la nomina del successore per compilarlo d’intesa
con lui ma si lasciò passare anche la nuova direzione senza dare un Regolamento al
Conservatorio. E così, 23 anni dopo l’approvazione dello statuto, si attendeva ancora la

22
Per un approfondimento sulle ispezioni ministeriali si confronti BOCCIA, L’archivio storico del
Conservatorio… cit.
23
Cfr. N.734 Legge 6 Luglio 1912, che approva i ruoli organici degli Istituti di belle arti e di musi-
ca, in Raccolta Ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, volume terzo, anno 1912, Ro-
ma, Tipografia delle Mantellate, 1912, pp. 2708-2738.
24
Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e re-
golamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Relazione del Regio Commissario
Alberto Salvagnini Ispettore Centrale Amministrativo nel Ministero della Pubblica Istruzione, Na-
poli Stabilimento Tipografico Francesco Lubrano», pp. 31-32.

193
TOMMASINA BOCCIA

presentazione del Regolamento; ed è questa una grave irregolarità più volte rilevata
nell’andamento del Conservatorio. 25

Sempre Salvagnini sottolinea come fosse di fondamentale importanza l’adozione


del regolamento, secondo quanto enunciato all’art. 29 dello Statuto:

Saranno determinati da un Regolamento da approvarsi dal Ministero dell’Istruzione


Pubblica:

1. Le attribuzioni e i doveri di ciascun insegnante, impiegato o inserviente del Regio


Conservatorio.
2. Il numero degli alunni da assegnarsi a ciascuna classe di studi.
3. Il limite massimo ed il minimo di età per l’ammissione degli alunni.
4. I corsi ed i programmi di studi.
5. L’orario delle lezioni e le ferie scolastiche.
6. Le norme per gli esami e per le esercitazioni.

E quant’altro possa occorrere al buon andamento artistico ed economico del Regio Con-
servatorio. 26

Dopo la promulgazione della già citata legge sulla Approvazione dei ruoli organici
degli Istituti di belle arti e di musica (6 luglio 1912),27 nel 1918 veniva ratificato il
regolamento generale degli istituti di belle arti, di musica e di arte drammatica.28
Dunque alla mancanza di un regolamento sopperì la normalizzazione dei dettami
normativi nazionali. L’ispezione e i provvedimenti del commissario, con la direzione
artistica di Cilea, contribuirono notevolmente al miglioramento del sistema ammini-
strativo e didattico così come alla pianificazione e alla messa in opera di interventi
per l’edificio, che versava in «uno stato preoccupante di disordine, di fatiscenza, di
incompiutezza e di incuria». 29 Lo stesso Salvagnini nella presentazione dichiarava:

Il Regio commissario e il Direttore artistico si accinsero all’opera con fervore, alacrità e


fermezza, ciascuno nel proprio campo, pur guidati da un comune programma, e in breve
apparvero i risultati concreti del concorde lavoro nel rapido riattamento dei locali, nella
adozione di nuovi e più rigorosi metodi di amministrazione e di disciplina artistica, nella

25
Ivi, pp. 35-36.
26
Ibidem, «Statuto del Regio Conservatorio di Musica di Napoli approvato con R. Decreto del 30
Marzo 1890 N. 7243 (Serie 3ª) a cominciare dall’anno scolastico 1890-91», p. 11
27
Cfr. N.734 Legge 6 Luglio 1912, che approva i ruoli organici degli Istituti di belle arti e di musi-
ca… cit.
28
Cfr. N. 1852 Decreto Luogotenenziale 5 maggio 1918, che approva il regolamento generale per
l’applicazione della legge 6 luglio 1912, n. 734, negli istituti di belle arti, di musica e di arte
drammatica, in Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia, volume quinto, anno
1918, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1918, pp. 3650-3722.
29
Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e re-
golamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Il Regio Conservatorio di Musica
San Pietro a Majella Relazione del Regio Commissario Alberto Salvagnini…» cit., p. 3.

194
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

compilazione di regolamenti e di ordinanze, nel risveglio dell’attività artistica


dell’istituto, che ritornava a contatto con la vita mediante pubbliche manifestazioni ac-
colte con grande favore. 30

I provvedimenti legislativi del 1912 e del 1918 dettarono norme precise, in partico-
lare, con la legge 734 furono emanate le prime disposizioni comuni su: nomine, rap-
porti tra il personale docente e non docente, retribuzioni e sanzioni per i docenti; 31 in-
vece le norme relative al numero degli allievi e gli orari di servizio furono disciplina-
te con il regolamento generale del 1918.32 Il regolamento è stato per i Conservatori,
senza dubbio, il riferimento normativo più importante per quasi tutto il Novecento. Il
documento attribuiva un ruolo monocratico alla figura del direttore, il quale aveva
competenza sull’andamento didattico, amministrativo e disciplinare.
Negli anni del ventennio furono apportate profonde innovazioni,33 a partire dalla
riforma Gentile, attuata con il regio decreto del 31 dicembre 1923, 34 che introdusse
alcune novità sostanziali: tra queste, la vigilanza del Ministero della pubblica istru-
zione, la conferma del direttore a capo del governo che doveva però essere affiancato,
nello svolgimento delle sue funzioni, dal Consiglio di amministrazione e dal Consi-
glio dei professori. Gli anni successivi videro un intenso dibattitto sulla concezione
dei conservatori e sulle relative finalità.35 Con il regio decreto n. 1945 dell’11 dicem-
bre 1930 36 furono approvati i nuovi programmi, che unificarono per la prima volta a
livello nazionale la normativa in materia di esami. Nel 1935 il R.D.L. 2 dicembre, n.
2081, 37 in linea con l’autoritarismo del regime attuò un poderoso accentramento delle

30
Ibidem.
31
Il personale docente venne distinto in titolari, aggiunti, incaricati di discipline speciale e di classi
aggiunte a quelle normali e principali.
32
Cfr. N. 1852 Decreto Luogotenenziale 5 maggio 1918, che approva il regolamento generale per
l’applicazione della legge 6 luglio 1912… cit.
33
Per la ricostruzione dell’adozione dei dettami normativi emanati dal 1923 al 1934 nel conservato-
rio napoletano si rimanda alla documentazione collocata in CM NA as, Archivio Amministrativo,
«Ammissioni – Radiazioni – Programmi dal 1926 al 1932 Esami di Licenza Normale e Superiore»,
cassetta 4 A 2, fascicolo 1.
34
Cfr. Regio Decreto 31.12.1923, n. 3123 Ordinamento dell’istruzione artistica, in Raccolta delle
Leggi e dei decreti del Regno d’Italia, Volume Undicesimo, anno 1923, Roma, Libreria dello Stato,
1924, pp. 9716-9740.
35
Per una rigorosa ricostruzione, non solo storica sui provvedimenti legislativi in materia di disci-
plina giuridica dei conservatori di musica leggasi NAUSICAA SPIRITO, Disciplina giuridica dei Con-
servatori di musica. Istituti di Alta Formazione Artistica e Musicale, Torino, G. Giappichelli Edito-
re, 2012 (Diritto dell’economia, 23).
36
Cfr. Regio Decreto 11 dicembre 1930, n.1945. Norme per l’ordinamento dell’istruzione musicale
ed approvazione dei nuovi programmi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 16 marzo 1931, n. 62,
consultabile all’indirizzo <http://www.rsu.unito.it/Tutto_Contratto/ccnl_snur/rd19301945.htm.>
(ultima consultazione 28 marzo 2020).
37
Cfr. Regio Decreto Legge 2 dicembre 1935, n. 2081. Aggiornamento della legislazione relativa
all’istruzione artistica e alla tutela del patrimonio artistico ed archeologico pubblicato nella Gaz-
zetta Ufficiale 1 dicembre 1935, n. 290, consultabile all’indirizzo <http://www.rsu.unito.it/Tutto
_Contratto/ccnl_snur/rdl19352081.htm> (ultima consultazione 28 marzo 2020).

195
TOMMASINA BOCCIA

funzioni sia centrali che periferiche, e in tale direzione anche le mansioni del direttore
furono quasi del tutto attribuite al novello Ministero per l’educazione nazionale. Si
può pertanto concludere che con il provvedimento del 1930, dedicato a Norme per
l’ordinamento dell’istruzione musicale ed approvazione dei nuovi programmi
d’esame, è stato avviato un processo di rinnovamento dell’apparato didattico che po-
trà dirsi pienamente realizzato soltanto con la completa e attesa attuazione della ri-
forma dell’Alta Formazione Artistica e Musicale così come prospettata dalla legge n.
508 del 1999,38 che ha inquadrato i conservatori nell’ambito degli “istituti di alta cul-
tura”, sebbene li collochi, poi, in un’ambigua struttura amministrativa duale: ma que-
sta è un’altra storia.
L’articolazione dell’Archivio storico
Riordinare un archivio vuol dire ricostruire la storia istituzionale del soggetto pro-
duttore, che nel caso del conservatorio San Pietro a Majella è una storia, come più
volte ribadito, quasi labirintica, evolutasi in cinque secoli, la cui trama sottile è per-
corsa ‒ e scandita ‒ da intrecci, da passaggi, da cambiamenti e fusioni; la storia di
quattro soggetti produttori, ognuno con la propria amministrazione e organizzazione,
ma uniti dalla comune vocazione per la formazione musicale.
Altro aspetto non secondario, per il riordinamento, è la storia specifica
dell’archivio, anche questa per il conservatorio napoletano tortuosa, fatta di traslochi,
di eventi disastrosi e di cattiva conservazione dovuta o a precisi intenti di non lasciare
testimonianze o a incuria.
Per citare solo alcuni emblematici avvenimenti che ne hanno segnato la vita, pos-
siamo ricordare la disposizione adottata dai Governatori del conservatorio di Santa
Maria di Loreto che durante la pestilenza del 1656 fecero bruciare i documenti per-
ché, come si legge in una Relazione dei governatori del 1748, «le carte e scritture che
sempre si sono stimate materia più atta a ricevere le parti pestilenziali, per cauteal
della comun salute furono tutte condannate al fuoco», 39 oppure per arrivare a tempi
più vicini, alcuni passaggi della preziosa relazione del regio commissario Salvagnini,
il quale con precisione si sofferma sullo stato di abbandono degli archivi rilevato du-
rante il suo incarico ministeriale e su alcune iniziative intraprese. In particolare, nel
paragrafo sui Lavori compiuti ed in corso di esecuzione, nella sezione in cui descrive
gli interventi eseguiti per gli uffici amministrativi, egli sottolinea come si fosse pro-
ceduto alla separazione dell’archivio amministrativo dall’archivio tecnico e illustra
quanto fatto per l’archivio patrimoniale:40

38
Legge 21 dicembre 1999, n.508 Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 4 gennaio 2000 n.2 Riforma
delle Accademie di belle arti, dell’Accademia nazionale di danza, dell’Accademia nazionale di arte
drammatica, degli Istituti superiori per le industrie artistiche, dei Conservatori di musica e degli
Istituti musicali pareggiati, consultabile all’indirizzo <http://www.miur.it/0006Menu_C/0012 Do-
cume/0098Normat/1128Riform_cf4.htm.> ( ultima consultazione 28 marzo 2020).
39
Cfr. CM NA as, Real conservatorio di Santa Maria di Loreto, Governo del conservatorio, «Rela-
zione dei governatori», 1748.
40
Con questa definizione venivano indicati i soli volumi e registri degli antichi conservatori.

196
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

All’archivio patrimoniale che, come si è detto era stato ammassato in una specie di sot-
toscala, sono state destinate tre stanzette del mezzanino, opportunamente fornite di scaf-
fali, per modo che le antiche carte tanto necessario per lo studio delle questioni legali at-
tinenti al patrimonio siano distinte secondo la loro provenienza.
Avremo dunque in vari reparti le carte del Conservatorio di S. Maria di Loreto, di S.
Onofrio a Capuana, della Pietà dei Turchini, del R. Collegio di S. Sebastiano, e final-
mente del Conservatorio di San Pietro a Majella. Nel piano degli uffici amministrativi
resterà soltanto l’archivio vivo, che dev’essere sempre a portata di mano.
Quello della parte tecnica troverà posto in una grande stanza, in prossimità dell’ufficio
del segretario addetto alla Direzione. 41

Altre notizie sono state tratte dalla lettura dei verbali del Consiglio di amministra-
zione dal 1920 al 1928, in cui più volte vengono discussi punti relativi alla tenuta
dell’archivio amministrativo e dell’archivio antico. Per esempio, dal verbale della
tornata del 20 dicembre 1921 42 si evince che l’archivio versava in uno «stato di di-
sordine» e che il riordinamento fu affidato a due impiegati che lo completarono nel
1923. 43 Si trascrive parte del verbale della delibera adottata nella tornata del 17 di-
cembre 1923, essenziale anche per capire quanto determinante fu, per la salvaguardia
della documentazione, l’operato di Salvatore Di Giacomo:

Ha la parola il comm. Di Giacomo, il quale dice che, avendo visitato l’Archivio Antico
patrimoniale dell’Ente, ha constatato che il medesimo trovasi in un locale umidissimo,
ciò arreca danni grave danno ai libri e ai registri antichi che vi sono depositati distrug-
gendone le scritture; il che sarebbe di grave responsabilità per gli amministratori se non
si provvedesse a tempo. Il Sig. Direttore M° Cilea dichiara che egli sin dall’anno passa-
to ha prospettato al Consiglio tale situazione in occasione del riordinamento
dell’archivio amministrativo corrente. Anzi a tale riguardo, poiché questo è stato già
eseguito, propone che in vista del trasloco del predetto archivio antico, di fare eseguire
il riordinamento di esso da due impiegati del Conservatorio con lavoro straordinario.
Il Consiglio, considerata la gravità delle cose, e compreso la necessità del trasloco
dell’archivio antico, ne delibera l’attuazione in altro locale esistente al 2° piano del
Conservatorio, con l’incarico agli impiegati Lupo e Di Molfetta per il riordinamento
[…] pregando il comm. Di Giacomo di guidare il lavoro con criteri adeguati alla natura
dei libri riguardanti gli antichi Conservatori, dai quali proviene il nostro attuale. 44

41
Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e re-
golamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Relazione del Regio Commissario
Alberto Salvagnini…» cit., p. 23.
42
CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella postunitario, Amministrazione, «Libro dei verba-
li del Consiglio di Amministrazione», p. 150.
43
Ivi, p. 356.
44
Ivi, pp. 418-419. Sembra opportuno ricordare che Salvatore Di Giacomo fu nominato consigliere
del Consiglio di Amministrazione del Conservatorio nella tornata del 9 novembre 1923. L’incarico
di guidare le operazioni di riordinamento gli consentì di poter lavorare ai volumi riservati ai quattro
antichi conservatori pubblicati nel 1924 e nel 1928, lavoro minuzioso e attento testimoniato dalla
sigla con matita blu SDG segnata su alcuni documenti d’archivio.

197
TOMMASINA BOCCIA

Dieci anni dopo furono deliberati i lavori per l’allestimento dell’archivio antico si-
tuato nei locali dell’antico guardaroba. 45
Le tortuose vicende dell’archivio storico sono state affrontate in maniera definitiva
solo alla fine degli anni Novanta, con dei primi interventi parziali della Soprintenden-
za Archivistica per la Campania sulla sola documentazione che era stata collocata
nella Biblioteca dell’Istituto. Grazie, poi, a un progetto della stessa Soprintendenza,
avviato nel settembre del 2000, a successivi progetti attuati dall’Istituto e a finanzia-
menti del Ministero per i beni e le attività culturali, si è potuti arrivare al quasi totale
censimento, 46 al riordinamento e alla definitiva collocazione nei locali allestiti al se-
condo piano dell’edificio, all’apertura alla consultazione nel 2004 e, come prima ri-
cordato, all’istituzione della separata sezione d’archivio, nel 2014.
Le iniziali e delicate operazioni di ricostruzione storico-istituzionale e archivistica,
effettuate contestualmente al censimento, e di schedatura, hanno consentito di deli-
neare la struttura dell’insieme documentale. L’archivio è stato strutturato in due se-
zioni: la prima, denominata Antichi Conservatori, è composta dagli archivi aggregati
del Real Conservatorio di Santa Maria di Loreto (1537-1807), del Real Conservato-
rio di Sant’Onofrio a Capuana (1578-1797) e del Real Conservatorio di Santa Maria
della Pietà de’ Turchini (1583-1807); 47 la seconda sezione, denominata Conservato-
rio di musica San Pietro a Majella, conserva, invece, la documentazione prodotta
dall’Istituto dal 1807 al 1960 circa, ed è stata articolata in due parti: la prima è costi-
tuita dai documenti del periodo preunitario (1807-1860); la seconda custodisce la do-
cumentazione del periodo postunitario dal 1861 al 1960 ca.,48 che comprende anche i
subfondi novecenteschi Archivio amministrativo e Archivio Didattico.49
Si riporta la rappresentazione complessiva dell’archivio storico, in gergo archivi-
stico struttura logica o albero logico, composta da sezioni, fondi, partizioni, serie e
sottoserie, 50 per la sezione Conservatorio di musica San Pietro a Majella fino al livel-
lo serie
45
Ivi, p. 557.
46
Il ‘quasi’ è d’obbligo, perché ancora sono da analizzare documenti collocati nella Biblioteca
dell’Istituto.
47
I documenti dei tre archivi aggregati sono stati riordinati rispettando il criterio di disposizione
delle serie nell’ordine originario, attraverso la rilevazione della numerazione coeva che le singole
unità presentavano. Laddove non si è riscontrato un ordine originario, le serie sono state ricostruite
attraverso lo studio dell’assetto amministrativo dei tre antichi conservatori che, come tutte le istitu-
zioni assistenziali, avevano figure preposte per l’amministrazione – il regio delegato, i governatori,
il razionale-segretario, il maestro di casa – e figure deputate alla gestione assistenziale e didattica: il
rettore, il vicerettore, il prefetto, i maestri di scuola, di cappella e di strumento. La struttura organiz-
zativa interna degli archivi dei tre antichi conservatori è stata articolata in serie e sottoserie.
48
La data del 1960 è relativa alla selezione della documentazione effettuata agli inizi degli 2000,
data dell’avvio delle operazioni di censimento, in applicazione della legislazione archivistica che
prevede, come è noto, che la sezione separata d’archivio è costituita dalle pratiche esaurite da oltre
un quarantennio).
49
Si confronti BOCCIA, L’archivio storico… cit.
50
Per la sezione Antichi conservatori e per la sezione Conservatorio di musica San Pietro a Majella
l’articolazione è riportata a livello serie, per il subfondo Archivio amministrativo è stata inserita an-

198
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

Archivio storico Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli

Sezione Antichi Conservatori

Fondo Real conservatorio di Santa Maria di Loreto 51 (1537-1807)

Governo del conservatorio


Patrimonio
Contabilità
Alunni e convittori
Legato Battimelo
Culto
Scritture di Giuseppe e Giovanni di Nardino
Padri Somaschi
Libri delle Musiche

Fondo Real Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini 52 (1583-1807)

Governo del conservatorio


Patrimonio
Contabilità
Alunni e convittori
Assistenza e beneficenza
Culto
Contenzioso
Confraternita de’ Bianchi
Cappella di Sant’Anna

Fondo Real conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana ((1578-1797)

Governo del conservatorio


Patrimonio
Contabilità
Alunni e convittori
Affari contenziosi
Culto

che una breve descrizione di alcune serie. Le date tra parentesi a livello fondo degli antichi conser-
vatori si riferiscono alla data dell’istituzione e alla data della chiusura).
51
La serie Scritture di Giuseppe e Giovanni di Nardino è in realtà un archivio aggregato, in quanto
custodisce le scritture contabili dei ricchi commercianti di tessuti di Nardino, che nella prima metà
del Seicento lasciarono al conservatorio una cospicua eredità.
52
Le ultime due serie sono da considerarsi degli archivi aggregati, costituiti da documenti di due
istituzioni con una propria storia e una propria amministrazione.

199
TOMMASINA BOCCIA

Sezione Conservatorio di musica San Pietro a Majella

Parte I Periodo preunitario (1807-1864 ca.)

Serie 1 Amministrazione dei beni degli antichi conservatori


Serie 2 Amministrazione del Real collegio di musica
Serie 3 Patrimonio
Serie 4 Contenzioso
Serie 5 Contabilità dei beni degli antichi conservatori
Serie 6 Contabilità del Real collegio di musica
Serie 7 Attività didattica
Serie 8 Personale
Serie 9 Archivio musicale e biblioteca

Parte II Periodo postunitario (1861 ca -1960 ca.)

Serie 1 Amministrazione
Serie 2 Patrimonio
Serie 3 Contenzioso
Serie 4 Contabilità
Serie 5 Attività didattica
Serie 6 Personale
Serie 7 Archivio musicale e biblioteca

Subfondo

Archivio Amministrativo (1890 1960ca.)

Titolo I Presidente, Consiglio di Amministrazione, Statuto


Titolo 2 Vigilanza
Titolo 3 Manifestazione d’arte e di scuola
Titolo 4 Scuola;
Titolo 5 Biblioteca
Titolo 6 Museo – Chiesa San Pietro a Majella Arredi Sacri – Pinacoteca – Celebra-
zioni Martucciane
Titolo 7 Canto corale
Titolo 8 Premi
Titolo 9 Personale;
Titolo 10 Concorsi
Titolo 11 Convitto
Titolo 12 Proprietà Immobiliare (edificio del Conservatorio)
Titolo 13 Proprietà immobiliari (Proprietà Urbane)
Titolo 14 Proprietà immobiliare. Vendite ed espropri
Titolo 15 Proprietà mobiliare
Titolo 16 Uffici
Titolo 17 Contabilità
Titolo 18 Consulenza legale
Titolo 19 Servizio tecnico
Titolo 20 Pratiche varie
Titolo Sezione Reggio Calabria
Titolo Agimus

200
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

Subfondo

Archivio Didattico (1890-1960 ca.)

Serie Deliberazioni
Serie Fascicoli alunni (composta da sei sottoserie: Alunni interni, Privatisti, Sezione stacca-
ta Salerno, Sezione staccata Martuscelli, sezione staccata Reggio Calabria e infine
sottoserie Vecchio programma, contenente le pratiche degli alunni che terminarono
gli studi negli anni Trenta con i programmi precedenti a quelli approvati dal Regio
Decreto 11 dicembre 1930 n. 1945 53).
Serie Registri degli alunni, poi Registri matricole istituiti sotto la direzione del Direttore
Francesco Cilea dall’anno scolastico 1915 -1916
Serie Registri degli esami e delle ammissioni
Serie Partiture, serie di registri di particolare interesse, anche questa voluta da Cilea a par-
tire dell’anno scolastico 1913-1914, per la registrazione dei corsi principali, dei corsi
complementari e dei corsi di Lettere maschili e femminili, delle diverse classi di in-
segnamento, dei nominativi dei professori, degli alunni e dei relativi voti di profitto
Serie Registri dei Professori
Serie Contabilità
Serie Domande di ammissione per canto corale, corso di avviamento al teatro lirico per
cantanti, corso per danza classica
Serie Attestati e diplomi
Serie Fascicoli medie disciplinari

Conclusione
L’Archivio è memoria, memoria documentale; se condivisa essa diviene storia,
tradizione, patrimonio culturale. La dicitura Archivio storico del conservatorio di mu-
sica San Pietro a Majella suona suggestiva e ricca di implicazioni, perché sembra
coniugare termini che rinviano a contesti tra loro assai differenti, quasi opposti. Mette
insieme infatti un elemento percepito come giovane, dinamico, artistico, piacevol-
mente chiassoso, e uno invece, nella considerazione dei più, avvertito come vecchio,
polveroso, estraneo, malinconicamente silenzioso. Al contrario, questa percezione
duale deve trasformarsi in un’unica certezza: l’archivio è la nostra memoria, è la no-
stra cultura, è la nostra tradizione, è uno spazio vivo e funzionale, dove poter leggere,
conoscere, analizzare, capire la “storia” di un’istituzione somma di tante storie, pic-
cole e grandi.

53
Cfr. Regio Decreto 11 dicembre 1930, n. 1945. Norme per l’ordinamento dell’istruzione musicale... cit.

201
TOMMASINA BOCCIA

L’Archivio storico deve e dovrà essere per sempre il testimone non più muto, come
per ragioni contingenti a lungo è stato, della Scuola musicale napoletana. E facendo
mie le parole del commissario Salvagnini, concludo:

e i lettori benevoli di queste pagine vorranno tener conto del buon volere e
dell’affetto che le hanno inspirate all’autore, lieto e orgoglioso di aver potuto
dedicare la sua attività al più grande istituto musicale d’Italia e animato da in-
crollabile fede nel glorioso avvenire che ad esso è serbato. Con profondo osse-
quio. 54

54
Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e re-
golamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Relazione del Regio Commissario
Alberto Salvagnini…» cit.

202
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

APPENDICE

Questa parte del contributo è dedicata alla riproduzione di alcuni documenti dell’Archivio storico
del Conservatorio di musica San Pietro a Majella, selezionati come campione esemplificativo del
consistente patrimonio archivistico dell’Istituto.

Figura 1: Particolare del Libro del Patrimonio, 1790.


(Real conservatorio di Santa Maria di Loreto)

Figura 2: Notizie di Regole da Conservatorio di Loreto; e notizie dello stato di loro osservanza,
col riscontro delle regole del Real Convitto di San Ferdinando, 1777.
(Real conservatorio di Santa Maria di Loreto)

203
TOMMASINA BOCCIA

Figura 3: Regole e Statuti del Real conservatorio della Pietà de’ Torchini, 1746.
(Real conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini)

Figura 4: Notamento degli alunni ammessi ed espulsi, 22 giugno 1781.


(Real conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini)

204
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

Figura 5: Fede del vicerettore Fiorillo dei figlioli usciti, Napoli 9 ottobre del 1796.
(Real conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini)

Figura 6: Registro degli alunni e convittori dal 1751 al 1770.


(Real conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana)

205
TOMMASINA BOCCIA

Figura 7: Particolare della serie dei Libri maggiori del Real collegio di musica
degli anni dal 1813 al 1824.
(Conservatorio San Pietro a Majella – preunitario)

Figura 8: Regolamento delle scuole del 1848 e Regolamento della scuola esterna gratuita
del Real collegio di musica del 1818 e modificato nel 1848.
(Conservatorio San Pietro a Majella – preunitario)

206
L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

Figura 9: Tabella dell’organico dei professori a partire dall’anno 1849 del regolamento del 1848.
(Conservatorio San Pietro a Majella – preunitario)

Figura 10: Registro annuale dell’anno scolastico 1895-1896, particolare dei corsi di canto e pianoforte.
(Conservatorio San Pietro a Majella – postunitario)

207
TOMMASINA BOCCIA

Figura 11: Partitura degli anni scolastici 1923-24 e 1924-25.


Particolare della classe del Maestro Raffaele Caravaglios.
(Conservatorio San Pietro a Majella – postunitario)

208
RECENSIONI
____________________________________________________________________

Serenata and festa teatrale in 18th Century Europe, edited by Iskrena Yordanova –
Paologiovanni Maione, Wien, Hollitzer Verlag, 2018 (Specula spectacula 5 / Cader-
nos de Queluz 1), 550 pp.

I primi due volumi dei Cadernos de Queluz nascono dall’intensa attività di ricerca e
produzione del Divino Sospiro - Centro de Estudos Musicals Setecentistas de Portu-
gal. Come esplicita la denominazione scopo di tale Centro è quello di studiare, e dif-
fondere, la produzione e l’attività musicale portoghese sviluppatesi nel corso del
XVII secolo: estremamente fiorente ma oggi poco nota. Il progetto che il Divino So-
spiro sta realizzando negli ultimi anni è volto al restauro di molte delle Serenate scrit-
te nel ‘700 per il palazzo reale di Queluz, costruito nel 1747 e usato come residenza
estiva della Real Casa di Braganza, divenuto cuore della vita musicale portoghese
dopo il crollo del Teatro nel corso del terremoto del 1755. A tale forma è dedicato il
primo dei due volumi editi – Serenata and Festa Teatrale in 18th century Europe –
che, in una pregevole stampa su bella carta forte avorio ed elegante rilegatura tutta te-
la rossa e titoli in oro al dorso e alla copertina, raccoglie ben sedici saggi suddivisi in
tre sezioni che ne delineano gli aspetti musicali e sociali nei diversi contesti cortigiani
di regni e città europei.
Ciò che emerge in modo inequivocabile è l’estrema difficoltà di poter dare una de-
finizione univoca di questa forma e dei tanti sinonimi che a essa sono associati: Festa
Teatrale, Dramma Lirico, Festa Musicale, Festa Pastorale per Musica, Dramma per
Musica. La funzione encomiastico/celebrativa è spesso obiettivo primario di tali
composizioni, condizionandone in modo sostanziale il contenuto, l’organico,
l’apparato scenico, la struttura stessa e rendendo, quindi, ardua la descrizione di una
“forma tipo”. Gli elementi costitutivi, di volta in volta diversamente modulati e ag-
gregati in un unico atto a volte suddiviso in due parti, sono le voci soliste, gli stru-
menti, l’apparato scenico, il coro, il ballo: ciò portava alla compartecipazione di mol-
tissime professionalità spesso provenienti da aree geografiche diverse.
I pregevoli contributi del volume offrono un’ampia panoramica delle pratiche diffu-
se nelle corti, case patrizie o anche luoghi religiosi con le molteplici diversità che
connotavano i vari spettacoli. Eppure, da una lettura attenta, si riescono a ricavare
delle caratteristiche riferibili a tutte le Serenate e Feste Teatrali ovunque esse abbia-
no trovato accoglienza. L’elemento di comunanza più evidente è la funzione enco-
miastico/celebrativa che ne determina due caratteristiche: il soggetto per lo più mito-
logico, storico o epico volto a esaltare i pregi del destinatario e, al tempo stesso, lo
strettissimo legame del brano con l’ambiente in cui, e per cui, era stato scritto. Molte
delle allegorie, dei riferimenti, delle metafore risulterebbero del tutto incomprensibili
se la Serenata non venisse contestualizzata; e a tal proposito si evince anche che tali
elementi erano più o meno esplicitati a seconda che lo spettacolo venisse dato in for-
ma privata, per una élite colta, o destinato a un pubblico vasto ed eterogeneo. La rap-
presentazione poteva, quindi, avvenire in saloni o teatri, in giardini o luoghi pubblici

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RECENSIONI

all’aperto a conferma dell’adattabilità della forma. Come apprendiamo dai saggi, ri-
spettivamente di Giulia Giovani e Teresa Chirico, si manifestò anche come composi-
zione di ispirazione popolare o di destinazione religiosa: la prima si diffuse in Tosca-
na, con la denominazione di Serenata rustico/civile, e inneggiava al ritorno della pri-
mavera, tòpos della cultura popolare, contrapponendo a un personaggio nobile un
contadino caratterizzati dall’uso di un diverso linguaggio; la seconda, Serenata-
Oratorio, fiorita a Roma presso la corte del cardinale Pietro Ottoboni veniva allestita
in occasione della festa di San Lorenzo e aperta al popolo con un organico considere-
vole e uno sfarzoso allestimento scenico.
Per tutto quanto fin qui asserito risulta evidente come le Serenate fossero delle
composizioni difficilmente replicabili in quanto nate per una specifica occasione o ri-
correnza, con precisi riferimenti al personaggio o all’evento per cui erano state con-
cepite. Anche rispetto a tale caratteristica, però, il saggio di Andrea Chegai dimostra
come la Serenata sembra sfuggire a qualsiasi tentativo di tipizzazione: L’Isola disabi-
tata di Pietro Metastasio, composta nel 1753 per la Corte spagnola, ebbe numerose
riprese negli anni successivi in altre città, anche italiane. La difficile riutilizzazione di
questo tipo di composizioni è certo all’origine della esigua quantità di partiture in no-
stro possesso: molte delle trattazioni si avvalgono di cronache dell’epoca o esamina-
no i contenuti del solo testo che, a differenza della musica, andava a stampa. Nel sag-
gio di Paologiovanni Maione, invece troviamo una interessantissima analisi della
condotta musicale de La marina risplendente, data a Napoli nel 1745 per le nozze
della sorella di Carlo di Borbone con il Delfino di Francia, che viene considerata nel
suo rapporto con il testo. L’autore, inoltre, attraverso la lettura di cronache del tempo,
poi riportate in Appendice, fornisce al lettore una interessante e accattivante descri-
zione della vita del tempo.
Questo volume offre una panoramica scientificamente rigorosa e storiograficamente
aggiornata non solo della Serenata, e delle forme a essa affini, ma anche della realtà
culturale, sociale e artistica del periodo in cui essa si affermò.

Renata Maione

Diplomacy and the aristocracy as patrons of music and theatre in the Europe of the
ancient régime, edited by Iskrena Yordanova – Francesco Cotticelli, Wien, Hollitzer
Verlag, 2019 (Specula spectacula 7 / Cadernos de Queluz 2), 528 pp.

Il secondo volume è suddiviso in più sezioni, che mettono a fuoco, da diversi punti di
vista, il rapporto tra diplomazia, aristocrazia, mecenatismo e sviluppo culturale
nell’ancien régime; in tal modo, utilizzando importanti fonti indirette come le rela-
zioni diplomatiche e applicando efficacemente il metodo dell’interdisciplinarietà, è
possibile ricostruire la geografia europea dello spettacolo tra Sei e Settecento,
un’epoca in cui lentamente il sistema teatrale prova a realizzare una propria autono-
mia dall’intervento protettivo di principi e casati.
Il sistema del protezionismo è delineato da Helen Geyer («…und mit der Protek-

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RECENSIONI

tion […] wird er, so hoffe ich, allen Beistand finden». Meccanismi e protezionismo:
«viaggiatori» stranieri…), che sottolinea l’importanza degli scambi europei favoriti
dal diffondersi della consuetudine del grand tour, realizzato spesso grazie all’aiuto di
attenti mecenati, spesso destinatari di dediche nelle composizioni musicali. Parimenti
la politica si fa promotrice della diaspora degli artisti, come nel caso del conte Daun
che porta a Barcellona i membri della cappella reale di Napoli.
Proprio il rapporto tra potere e il viaggio è oggetto della speculazione di Francesco
Cotticelli («Cacciarsi per tutto». Considerazioni sull’«invenzione viaggiante» e gli
spazi del potere), che illustra il sistema attraverso la figura di Calzabigi, emblema
dell’artista che si barcamena per ottenere incarichi. Il librettista e i suoi pari, infatti,
intessono «una fittissima trama di percorsi, carriere, episodi in cui ai caratteri unitari
dei generi e delle formule, alle finalità encomiastiche e alla ricerca di consensi politi-
ci interni ed esterni si uniscono e si sovrappongono i motivi suggeriti da contingenze
specifiche, da spinte creative individuali e da interazioni con le arti e la cultura di
aree differenti» (p. 16), sempre in ossequio al potere aristocratico.
Il volume prosegue con l’osservazione dell’importanza del grand tour nelle capita-
li europee della cultura: caso esemplare è il viaggio del granduca Pavel Petrovich
Romanov (Anna Giust, When Music Suits Diplomacy: The Grand Tour of Pavel Pe-
trovich Romanov, 1781–1782), che percorre l’Europa formalmente in incognito, ma
in realtà ben riconosciuto, per tessere alleanze politiche.
I rapporti tra potere spagnolo e teatro sono ricostruiti attraverso la figura di Vita-
liano Borromeo che nella Milano di secondo Seicento si pone quale concreto media-
tore tra la politica e la vita teatrale, grazie anche ai suoi rapporti con musicisti e can-
tanti in tutta Europa (Roberta Carpani, Patriziato, corti e impresariato teatrale in Ita-
lia nella seconda metà del XVII secolo: il caso di Milano) in un periodo in cui si so-
vrappongono vecchi e nuovi moduli di gestione della res spettacolare, tra mecenati-
smo e nascita del professionismo.
Parallelamente si indaga sugli scambi culturali che avvengono a Roma grazie al
cardinale Ottoboni, concreta figura di committente oltre che abile diplomatico (Tere-
sa Chirico, Il cardinale Pietro Ottoboni, la diplomazia e la musica (1689–1721), e
sul mecenatismo asburgico nel diciassettesimo secolo attraverso il ruolo del castrato
Domenico Dal Pane, poi compositore, per tutta la vita al servizio di teste coronate
(Maria Paola Del Duca, Al suo Augustissimo Servitio Nobili e coronate Teste Patrone
dei madrigali del musico di camera Domenico Dal Pane). Sempre l’intervento degli
ambasciatori spagnoli a Roma è ricostruito attraverso l’attività dei cardinali Acquavi-
va d’Aragona, che nei propri palazzi solennizzano eventi spagnoli, romani e napole-
tani con feste, cerimonie, accademie, che utilizzano in particola modo il genere della
cantata encomiastica (Roberto Ricci, I cardinali Francesco e Troiano Acquaviva
d’Aragona nella cultura di corte del Settecento romano).
Notevole attenzione viene mostrata alle strategie diplomatiche che si sviluppano
nel Palatinato, sottolineando l’importanza delle donne reali, che per matrimoni emi-
grano nelle corti europee. In particolare, si riflette sui matrimoni di spagnoli e au-
striaci con nobildonne tedesche come le sorelle Neuburg, che assumono un posto di
rilievo nella gestione delle vite culturali nelle nuove nazioni in cui giungono (Giulio
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RECENSIONI

Sodano, Le figlie del Palatinato: rigenerazione del sangue e trasferimenti culturali


tra le corti europee). Nella stessa regione opera Giovanni Guglielmo Neuburg, gran-
de mecenate e amante della musica, che ha contatti in tutta Europa per assoldare can-
tanti che poi diventeranno suoi emissari presso le corti straniere, come Steffani, il
cantante Pellegrini o il castrato Tosi (Valentina Anzani, Dal Reno alla penisola iberi-
ca: i «musici» spia dell’elettore Palatino Giovanni Guglielmo (1690–1716) durante
la Guerra di Successione Spagnola).
La vita culturale della capitale lusitana è ricostruita attraverso l’epistolario diplo-
matico di Zignoni, corrispondente imperiale, inviate da Lisbona all’imperatore
d’Austria (Giuseppina Raggi, Lisbona nello specchio di Vienna: le lettere di Giusep-
pe Zignoni per una nuova visione sul teatro e sull’opera italiana in Portogallo). An-
cora, attraverso una documentazione inedita si descrive il sistema impresariale porto-
ghese, con caratteristiche spiccatamente elitarie e aristocratiche (José Camões -Bruno
Henriques, The Noblemen’s Balcony: a Perspective on Theatre Subscription).
L’attività degli emissari spagnoli a Napoli è ricostruita grazie alla descrizione dei
complessi festeggiamenti per la vagheggiata nascita e il battesimo dell’erede napole-
tano, figlio di re Carlo e di Amalia di Sassonia (Paologiovanni Maione, «Fece spicca-
re la magnificenza del suo Padrone»: le feste ispaniche per la nascita dell’erede al
trono di Napoli (1748). Analogamente, le feste per il matrimonio di Ferdinando IV e
Maria Carolina nel 1768 sono lo spunto per l’organizzazione di una complessa serata
nella casa di Aróstegui, ministro plenipotenziario di Carlo III e mecenate a tutto ton-
do (Paola De Simone-Nicolò Maccavino, Alfonso Clemente de Aróstegui: musica, ar-
te e mecenatismo nella Napoli borbonica di Carlo III e Ferdinando IV), dove spicca
la messinscena della serenata Il giudizio di Apollo di Sala.
Non manca nel volume una riflessione sulla genesi del famoso Saggio sopra
l’opera in musica di Algarotti, poliedrica figura di musicista e intellettuale (Giovanni
Polin, Note sul processo creativo del Saggio sopra l’opera in musica di Francesco
Algarotti: una testimonianza di cultura europea).

Francesca Seller

Musica, Arte e Grande Guerra. Atti del convegno nazionale di studi (Avellino, Con-
servatorio di Musica “Domenico Cimarosa”, 3-4 ottobre 2018), a cura di Antonio Ca-
roccia e Tiziana Grande, Avellino, Il Cimarosa, 2018, pp. 242.

Il tema, doloroso e complesso della Grande Guerra riceve un interessante e significa-


tivo contributo grazie alla recente pubblicazione Musica, arte e Grande Guerra, a cu-
ra di Antonio Caroccia e Tiziana Grande. Un volume ponderoso dalla bella veste ti-
pografica che raccoglie gli atti di un convegno promosso e realizzato dal Conservato-
rio “Domenico Cimarosa” di Avellino il 3 e 4 ottobre 2018; un’iniziativa che ha me-
ritato, per il suo indubbio valore culturale, la Medaglia di Rappresentanza della Pre-
sidenza della Repubblica Italiana.

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RECENSIONI

La Prima guerra mondiale viene così rivista e raccontata dai nostri studiosi attra-
verso la disamina del contributo apportato in quegli anni dagli artisti, in special modo
meridionali. I vari articoli, soffermandosi ora su personaggi, ora su particolari aspetti,
riescono a ben argomentare anche il contesto storico sociale, nonché le pesanti rica-
dute che il conflitto ebbe sulla compagine culturale, consegnandoci dunque un affre-
sco quanto mai suggestivo ed emblematico dove l’arte si conferma veicolo privilegia-
to della grande comunicazione sociale.
Numerosi gli interventi che riguardano la musica, in particolare quella popolare,
così ben descritta da Emilio Jona (Il meridione nel canto popolare della Grande
Guerra), e da Giovanni Vacca (“Canzone ‘e surdate”: immaginario collettivo e posi-
zionamento sociale della canzone napoletana nella Prima guerra mondiale). Da essi
ben si evince come la canzone seppe fornire un contributo fondamentale a supporto
della causa e dei militi, dando voce a una narrazione sentimentale, seppure realistica,
descrivendo fatti, situazioni, sentimenti di chi era partito per il fronte e di chi, invece,
restava nell’attesa della fine o di un rientro. Ancora una volta la musica, con inni,
marce e canzoni, riuscì a diffondere in maniera capillare tante informazioni andando
ben oltre una funzione di puro intrattenimento al punto tale che, proprio attraverso la
canzone, quella scritta per il fronte, l’Italia post-unitaria divisa in tanti regionalismi,
trovò «la sua prima reale unificazione», privilegiando l’italiano. Ciò nondimeno, Na-
poli mantenne viva la produzione di canzoni rigorosamente dialettali, senza tradire
quei caratteri stilistici dettati da una secolare tradizione, ampliando la sfera dei suoi
contenuti alle vicende contemporanee.
L’industria della canzone napoletana trovò, infatti, un forte incentivo al fine di of-
frire sostegno, con spirito nazionale, a quanti partecipavano all’industria bellica. Mol-
to interessanti risultano, a tal proposito, gli esempi forniti dalle Piedigrotte di guerra,
raccolte di album editi dalla Bideri del fondo Dell’Angelo, custodito presso la Biblio-
teca del Conservatorio di Avellino, attentamente analizzate nel bel saggio di Tiziana
Grande; brani esemplari scritti per il concorso canoro che si sviluppava proprio du-
rante la Festa di Piedigrotta. Fra questi (l’articolo riporta in appendice ben 415 titoli
di diversa tipologia) spicca La leggenda del Piave di E.A. Mario, canzone vincitrice
della Piedigrotta del 1918.
Poeta, musicista, sia pure autodidatta, Giovanni Ermete Gaeta (in arte E. A. Mario)
grazie all’accurata disamina di Antonio Caroccia (“Si vide il Piave rigonfiar le spon-
de!”: E. A. Mario e la canzone patriottica), si conferma personaggio di grande spes-
sore. Animato da un forte sentimento di amor patrio, dedicò una gran parte della sua
vasta produzione al tema bellico, descrivendo in maniera empatica, con versi e musi-
ca, le varie fasi del conflitto; così come ben nota l’autore del contributo in esame:
«attraverso le canzoni patriottiche riuscì a esprimere il sentimento autentico e sincero
di un intero paese».
Tra le tante importanti memorie musicali che questo libro ci rivela, spicca anche
quella fornita dalla doppia collezione di canzoni napoletane e vignette francesi, cu-
stodite da Diego Landi nel piccolo borgo siciliano di Ciampino descritte nell’articolo
di Consuelo Giglio e Patrizia Maniscalco (Tra Napoli e Parigi: Canzoni e caricature
della Grande Guerra in una collezione siciliana), diviso in base alle rispettive com-
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RECENSIONI

petenze. L’interessante narrazione porta alla ribalta una cospicua e rara collezione di
canti di guerra composta da fogli volanti per mandolino solo, che ben attestano
l’importanza e la diffusione di uno strumento che assurgerà a simbolo musicale di
quel conflitto bellico. Mentre le vignette di Abel Faivre e Jean-Louis Forain «gettano
un ponte verso Parigi, mostrando altri aspetti e altro sentire di guerra», riuscendo in
maniera satirica, e dunque con maggiore potenza, a stigmatizzare gli orrori della
guerra con tratti decisi e significativi con i quali i due artisti non tralasciano di regi-
strare, nelle espressioni dei volti, la cattiveria del nemico, il dolore e lo sgomento sof-
ferto dai civili.
Anita Pesce (La grande Guerra in tre minuti, Il 78 giri nel periodo della Prima
guerra mondiale) analizza invece una campionatura della produzione discografica
napoletana dell’allora nascente Phonotype Record riferita al particolare momento sto-
rico, tracciando, con esempi significativi, la parabola cronologica della guerra. Nono-
stante le esigenze di mercato con il mantenimento di varie tipologie di repertorio, il
disco a 78 giri fornirà il suo contributo diffondendo anche all’estero, specie nei paesi
che accoglievano comunità d’immigrati italiani, canzoni e “scene dal vero” con fina-
lità patriottiche.
Non poteva mancare, in quest’ampia ricostruzione, il considerare l’importante ap-
porto fornito dalle bande. E così il saggio di Luigi Izzo (Il suono del cannone: le
bande musicali e la Grande Guerra) ne analizza la portata e la funzione, ponendo in
luce le diverse problematiche sorte fin dai primi anni dell’Unità d’Italia in merito alla
composizione degli organici, al repertorio, alla sentita necessità di attivare dei veri e
propri progetti di riforma, ritenuti quanto mai necessari alla luce delle nuove esigenze
fonico espressive.
Giuseppe Camerlingo (La nuova musica e l’antica: Napoli 1911-1920) offre
un’interessante visione sugli effetti della generale crisi che colpì il mondo artistico e
culturale, soffermandosi in particolare sul dibattito sorto fra antico e moderno che
portò infine effetti oltremodo positivi anche nel mondo accademico musicale napole-
tano. Ciò grazie innanzitutto agli sforzi compiuti in tal senso da Alberto Fano, per un
breve periodo alla guida del Conservatorio di San Pietro a Majella, e
dall’Associazione Alessandro Scarlatti, fondata nel 1918-19 da Emilia Gubitosi.
Fiorella Taglialatela in Echi di guerra tra voci di quartiere: Raffaele Viviani e la
Grande Guerra, osserva l’utilizzo del tema bellico nella produzione edita ma anche
inedita del grande Raffaele Viviani, rivelando come, anche in questo caso, l’autore
riesca a uscire dal solito cliché della napoletanità di genere.
Con il contributo di Marco Pizzo (Il Fondo Guerra e i pittori-soldato nel Museo
Centrale del Risorgimento di Roma) entriamo più nel merito delle arti figurative. In
esso si pone in rilievo come, seguendo l’ottica generale del Nazionalismo, la Prima
guerra mondiale venisse vista in continuità con i moti risorgimentali. Vengono così
descritte e analizzate le opere di diversi pittori che furono testimoni diretti del grande
conflitto combattendo nelle forze armate, artisti che quindi riportarono i vari soggetti
in maniera quanto mai veritiera e sentita.
Lo studio di Gaia Salvatori (La Grande Guerra fra pittura e illustrazione: la “Bat-
taglia di Bligny” in posa) analizza invece l’iconografia della Battaglia di Bligny at-
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RECENSIONI

traverso la pittura e l’illustrazione condotta dall’artista napoletano Ugo Matania. Di


questo ne contestualizza ampiamente l’opera, descrivendo i procedimenti base della
sua costruzione artistica, comparando infine questo particolare soggetto con la restan-
te produzione del pittore attinente al medesimo filone.
Anche l’apporto del cinema viene ben documentato negli ultimi due articoli di Ma-
riangela Palmieri (Il racconto della Grande Guerra nel cinema italiano del Novecen-
to) e di Roberto Calabretto (Carosello napoletano tra realismo e quadri allegorici). Il
primo offrendo uno spaccato storico generale sulla trattazione del tema della Grande
Guerra, rivela una serie di ritardi nella registrazione documentaristica e un lento ma
inesorabile disinteresse verso contenuti non sempre appetibili. Pur se un certo recupe-
ro si concretizzerà, a fini propagandistici, durante il fascismo, la storia del primo con-
flitto mondiale vedrà un più lucido inquadramento nel film di Monicelli, La grande
Guerra, affresco dolce amaro che, attraverso toni talvolta irriverenti, ci consegna una
narrazione appassionante e quanto mai umana. Carosello Napoletano ci offre invece
l’esito di una sperimentazione ben riuscita. Film di Ettore Giannini, tratto da uno
spettacolo teatrale dello stesso regista, offre una visione d’opera totalizzante in cui
tutte le componenti artistiche dello spettacolo diventato parte attiva e integrante della
narrazione cinematografica. L’unione dei generi in quello che, a ragione, potremmo
definire uno dei primi musical italiani, dà vita a un racconto allegorico scandito dalle
canzoni popolari che descrivono gli accadimenti storici ed anche quelli bellici con
una poetica nuova, e soprattutto, priva della retorica usuale.

Chiara Macor

ALESSANDRO PONTREMOLI, La danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio,


Bari-Roma, Editori Laterza, 2018 (Biblioteca Universale Laterza, 679), pp. 179.

Il volume La danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio di Alessandro


Pontremoli, Professore ordinario di Storia della Danza presso l’Università degli Studi
di Torino (Editori Laterza, 2018), dischiude al lettore il non semplice panorama della
danza internazionale degli ultimi tre decenni, tracciandone una visione sintetica e
complessa al contempo. Complessa perché sottolinea, per ciascun argomento trattato,
riferimenti teorici importanti finalizzati a condurre il discorso sulla danza come arte e
come pratica, alla luce di nuove visioni che ancora combattono la sclerotizzazione
del tradizionale approccio a quest’arte. Allo stesso tempo Pontremoli sa essere dove-
rosamente sintetico, perché avvolge in una panoramica a volo d’uccello la complessa
realtà della danza contemporanea su fronti materiali e immateriali, accompagnando
per mano il lettore – come un filo di Arianna – all’uscita del ‘labirinto danzante’ dei
nostri giorni, laddove talvolta finanche performer e tecnici del settore si muovono con
difficoltà tra categorizzazioni e definizioni.
L’introduzione si apre con Ted Shawn in epigrafe, ovvero con il richiamo a «libe-
rare la mente da tutti i fraintendimenti sul significato dell’arte», perché «l’arte è espe-
rienza… e solo nella danza si fa un’esperienza così generosa della realtà dell’arte»; è
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dunque proprio la parola esperienza a condurre idealmente chi si appresta alla lettura
di questo testo.
Si parte da concetti esperienziali quali la centralità dello sguardo dell’osservatore e
del corpo danzante, in una prima necessaria differenziazione tra chi fruisce
dell’esperienza e di chi la osserva, dedicando particolare attenzione alle tendenze so-
ciali che si contrappongono ai modelli di spettacolo borghese e agli esperimenti di
nicchia.
Più di un richiamo è fatto alla crisi della critica, che non appare più padrona di
«spazio espressivo» ed è, in questo, interessante la scelta lessicale, poiché riconduce
all’idea spaziale e dunque fisica: un ambito di osservazione della danza quale arte di-
voratrice di spazi. A questo proposito l’Autore non manca di esprimere giudizi espli-
citi sugli strumenti della critica e questo appare un interessante spunto di riflessione
che dovrebbe generare, nella comunità del settore, un più ampio dibattito sullo stato e
sulle prospettive di chi scrive di danza, ovvero i cosiddetti osservatori ‘privilegiati’
che hanno il compito di dare voce immediata alla fugacità del prodotto coreico e
spesso ne condizionano (a torto o a ragione) i percorsi e la ricezione.
I processi culturali di cui la danza è espressione sono richiamati con riferimenti
teorici puntuali e continui nelle note a piè di pagina, procedendo da rapide compara-
zioni storiche che partono dal Rinascimento e attraversano i secoli, dai canoni del
balletto romantico al classicismo della danse d’école, alla modernità e post modernità
del Novecento, fino alla liquida società attuale, non mancando di ricercare l’impegno
politico e/o il disagio sociale che emergono da ciascun corpo in scena. Una scena che
muta, che si de-struttura e si ri-compone in spazi non convenzionali, che arrivano a
rompere le certezze del teatro borghese e traducono la molteplicità di visioni e inter-
pretazioni.
Il giudizio critico nei confronti delle Istituzioni italiane e la mancanza di fondi (da
cui derivano anche ‘forme sostenibili’ della messa in scena contemporanea, quali
l’assolo) è parte integrante di questo viaggio ideale. Il lettore non avvezzo
all’argomento si potrà meravigliare della complessità di questo mondo; di contro, il
professionista che, a causa di un training per lo più solo pratico, trova difficoltà ad
ascrivere in un percorso storicamente e sociologicamente organico ciò che vive sulla
scena o in sala prove sarà aiutato da questa lettura a intendere razionalmente lo sfac-
cettato panorama che si affaccia al nuovo millennio.
La metafora geografica dei «tre paesaggi estetici» – quello «museale», la «terra di
mezzo» e il «terzo paesaggio» – esemplifica i diversi stati della danza oggettivandoli
in una prospettiva ancora una volta spaziale, oltre che temporale: dalla conservazione
del balletto classico e del suo repertorio alla permanenza dei linguaggi moderni dotati
di paradigmi riconoscibili fino alle sperimentazioni di artisti ‘eccentrici’ che si muo-
vono al di fuori degli schemi. Questa topografia delle pratiche trova riscontro in una
topografia della ricerca (cosa per lo più nota solo agli accademici di settore e che, in-
vece, sarebbe opportuno divulgare anche tra i tecnici del mestiere, in maniera più o
meno stemperata) con lo sviluppo dei cosiddetti studi culturali, ovvero quelle nuove
visioni che, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, hanno prodotto gli Studi di
danza sulla scia dei Dance studies di area anglosassone, basati sulla teoria critica e
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RECENSIONI

sullo studio delle opere (e dei loro processi di funzionamento) in relazione alle ideo-
logie e ai rispettivi e specifici contesti culturali. L’analisi dei nuovi modi di studiare il
corpo danzante, sottolinea Pontremoli, nasce dunque dal connubio tra visione e giudi-
zio critico, ancor più amplificando l’aspetto poietico, che diventa indispensabile per
la crescita del pubblico. Fare significa entrare nell’esperienza dei corpi e appropriarsi
dell’incorporazione dei concetti attraverso il movimento.
Molto interessante il paradosso, più volte sottolineato nel testo, della nostra socie-
tà: una quotidianità intrisa di spettacolarizzazione del sé attraverso i social media ma,
in sostanza, espressione di un tempo «lontano dal teatro e dalle sue forme», così co-
me appare contraddittoria la sproporzione tra i fruitori di corsi pratici di danza/ballo
rispetto al pubblico che va a teatro (fruitore vs osservatore). Il nuovo e costante me-
dium della tecnologia, invasivo e pervasivo, riporta grande attenzione alla corporeità
e alle nuove indagini sul corpo, che inaugurano il Novecento e si sviluppano oggi
lungo direttrici polimorfe.
Le parole chiave danza-cultura-società si articolano nel trinomio identità-potere-
memoria, per inquadrare con lente di ingrandimento il corpo danzante che si muove
all’interno delle estetiche coreiche del presente. Il concetto non univoco di autoriali-
tà trova nel corpo del danzatore una memoria storica che fa di esso un archivio in
movimento e mette in discussione le tradizionali pratiche di conservazio-
ne/archiviazione e trasmissione della memoria.
L’Autore risponde ad alcune domande che egli stesso si pone, da studioso e osser-
vatore ma anche da figlio del proprio tempo, non mancando di completare il quadro
soffermandosi sul sistema di formazione, storicizzando le prassi pedagogiche e po-
nendo attenzione alle visioni di genere, sui modelli di maschile e femminile/omo ed
etero e alla progressiva trasformazione del corpo da una «visione estetizzante» a
quella di un «corpo efficiente», sempre in una stretta connessione tra formazione e
contesti socio culturali.
Il capitolo dedicato alla danza di comunità avvia la conclusione del volume lungo
le coordinate di realtà-mimesi-spazio-scena-fruizione-osservazione ben chiariti fin
dal principio; esso appare come un terreno di indagine privilegiato proprio perché vi
si palesa la sostanza del cambiamento della messa in azione del prodotto coreico.
Questo si riconduce qui a una estetica relazionale, come sottolinea Pontremoli ri-
chiamando Bourriaud (2010) e portando quale esempio, sul concetto di pratica, il la-
voro di Virgilio Sieni, coreografo tra i più importanti nel panorama nazionale ed eu-
ropeo. L’Autore lo definisce «poeta del gesto», ma anche «portatore di nuove eco-
nomie», scegliendo di «proporre azioni etiche in forme estetiche, finalizzate a risana-
re patologie della relazione con la costruzione di quella che egli stesso definisce una
“comunità del gesto”». Concetti su cui riflettere, per comprendere a pieno il significa-
to della performance danzata oggi e inquadrarla nella sua dimensione più corretta, in
relazione non solo al singolo ma alla comunità intera, laddove l’isolamento mediatico
ci rende cittadini di un mondo virtuale che molto poco ha a che fare con il concetto di
comunità vissuta.
A conclusione di questa ricca sintesi di evoluzioni, teorie, studi, ricerche, creazio-
ni, personalità della coreografia, l’attenzione posta sulla Drammaturgia della danza,
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RECENSIONI

attraverso il percorso del fenomeno e la figura del dramaturg di danza - nella sua
evoluzione indipendente rispetto a quella del dramaturg teatrale (compresa
l’evoluzione di questa figura in ambito lavorativo rispetto al coreografo stesso) - cen-
tra l’attenzione del discorso ancora una volta sul corpo, una analisi imprescindibile
per la speculazione sulla danza contemporanea, quale «sistema di significati costruiti
socialmente e culturalmente».
Le oltre centosettanta pagine che racchiudono più di un secolo di cambiamenti e
trasformazioni del ‘sistema danza’ potrebbero non essere per tutti una lettura di im-
mediata intellegibilità, poiché presuppongono un sostrato di conoscenze specifiche;
tuttavia il volume appare prezioso strumento di guida (specie nei percorsi universita-
ri) lungo il sentiero percorso dal corpo e dai mille risvolti socioculturali di cui la dan-
za si rende portatrice spesso misconosciuta.

Maria Venuso

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