quando pascolavo le pecore sotto il divino Elicona, loro cominciarono a dirmi queste parole,
25 le divine Olimpie, figlie di Zeus Egioco:
"Pastori campagnoli, brutta razza, solo-pancia, noi sappiamo raccontare cose false che sembrano vere, e se vogliamo sappiamo anche cantare la verità"; così dissero le figlie del grande Zeus, lingue sciolte,
30 mi diedero uno scettro d'alloro verdeggiante, un mirabile
ramo che colsero, e mi ispirarono una poesia divina, perché cantassi le lodi delle cose future e delle passate; mi spinsero a cantare la generazione dei sempre beati, e a celebrare loro, le Muse, al principio, alla fine, sempre.
Analisi e commento
La Theogonía si apre, come già avviene nell'epica omerica, con un'invocazione
alle Moûsai. Ma quello che avrebbe potuto essere un formalismo risolvibile in un paio versi, diviene, in Hēsíodos, un proemio complesso e articolato, lungo ben 115 versi. La forma è chiaramente innodica, e nell'apertura e nella chiusa richiama alcuni degli Homḗrou hýmnoi più estesi. Ma il rapporto del poeta con le Moûsai è soggettivo, e Hēsíodos argomenta delicatamente sulla propria vocazione poetica con l'allegoria di un suo personale incontro con le dee del monte Helikṓn: «Esse una volta insegnarono a Hēsíodos un canto bello» [Haí ný poth' Hēsíodon kalḕn edídaxan aoidḗn]. All'anonimato dei poemi omerici si contrappone l'autorità del poeta, in quella che è in assoluto la prima indicazione autoreferenziale della letteratura ellenica. E Hēsíodos è il primo poeta a specificare il numero delle Moûsai e ad assegnare un nome a ciascuna di essa, in quella che è una vera e propria investitura: è infatti il pastore-Hēsíodos che incontra le Moûsai, «mentre pasceva gli armenti sul divino Helikṓn» [árnas poimaínonth' Helikonos hýpo zathéoio], trasformandosi quindi nel poeta-Hēsíodos. Nei versi successivi il poeta pone in grande evidenza la propria persona e insiste sul fatto che proprio lui sia stato scelto dalle Moûsai: «rivolsero a me per primo questo discorso», «mi diedero un ramo d'alloro fiorito», «mi ispirarono il canto divino».
Hēsíodos dà una nuova definizione all'ispirazione poetica.
Se l'aoidós tradizionale considerava sé stesso un puro tramite tra le Moûsai e gli ascoltatori, con Hēsíodos la personalità dell'autore assurge in primo piano. Il cantore omerico cantava infatti in terza persona, annullandosi dietro le imprese e le voci degli eroi, e sebbene avesse probabilmente proceduto egli stesso ad accorpare e integrare canti indipendenti per produrre poemi di ampio respiro, era considerato un tramite passivo della sua stessa materia. Di conseguenza la persona loquens risultava più sfumata, indecifrabile. Così, mentre l'epica tradizionale era oggettiva e impersonale, senza un autore dichiarato, Hēsíodos rende la poesia soggettiva e personale e le conferisce un timbro schiettamente didascalico. I temi e le funzioni del canto esiodeo richiedono la valorizzazione delle capacità e dell'esperienza del poeta, affinché i suoi poemi assumano una maggiore forza assertiva. Il cantore non è più vincolato a una nuda esposizione di materiale tradizionale: sebbene ancora legato a una tradizione di lingua e stile che è in buona parte quella omerica, Hēsíodos rilegge i miti secondo il proprio genio, alla luce delle proprie concezioni e della propria sensibilità. Nella Theogonía, i miti sono ri- definiti, ricreati. E paradossalmente fissati in una forma che diventerà a sua volta canonica. L'incontro di Hēsíodos con le Moûsai non è solo occasione di confronto con le forme tradizionali di poesia, ma anche necessità di un loro superamento etico. La fama dell'aoidós omerico dipendeva unicamente dall'abilità di «trascinare», di «incantare» l'uditorio; l'estetica era emotiva, basata sul riconoscimento e sull'approvazione di forme poetiche tradizionali, e ciò che l'aoidós cantava non era cantato perché vero, ma vero perché cantato. Questo non basta a Hēsíodos, che, al contrario, fa della verità [alḗtheia] lo statuto della sua poesia. Quando fa dire alle Moûsai «noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero» [ídmen pseúdea polla légein etýmoisin homoîa] (v. 27) Hēsíodos polemizza con la poesia epica tradizionale. Non a caso, il verso rieccheggia quello omerico in cui Odysseús, per ingannare Pēnelópē, «fingeva, dicendo molte menzogne simili al vero» [íske pseúdea pollà légōn etýmoisin homoîa] (Odýsseia v. 203). La citazione contiene una vena polemica nei confronti dell'autorità omerica: l'opinione che Hómēros fosse un mentitore era molto diffusa nell’antichità, e l'elemento polemico s'incentrava proprio sull'attendibilità dei fatti tramandati. Così, dopo aver svelato la loro abilità nel tessere menzogne, le Moûsai esiodee aggiungono: «...ma poi, quando vogliamo, sappiamo narrare anche il vero» [ídmen d', eût' ethélōmen, alēthéa gērýsasthai] (Theogonía v. 28). Ed è a questo punto che porgono a Hēsíodos un ramo d'alloro, «perché cantassi ciò che sarà e ciò che è» [hína kleíoimi tá t' essómena pró t' eónta] (Theogonía v. 32). È la verità eterna e atemporale del mito, quella che Hēsíodos sta per rivelare, una verità che stabilisce le fondamenta del mondo cosmico, umano e divino, e legittima il suo canto. L'investitura fa di Hēsíodos un tramite privilegiato fra la divinità e l'uomo: una condizione in virtù della quale egli proclama il suo primato per la missione di rivelamento cosmogonico. Il proemio si articola in due sezioni complementari, ricche di richiami e parallelismi interni. Se la prima parte tratta, come abbiamo visto, dell'incontro tra Hēsíodos e le Moûsai sul monte Helikṓn e la ridefinizione del ruolo del poeta e del significato della poesia, la seconda sezione introduce l'argomento del poema. Kallímachos ha ipotizzato che l'incontro tra Hēsíodos e le Moûsai fosse avvenuto in sogno. Ma non c'è bisogno di fornire una spiegazione razionale: con questo splendido incipit, Hēsíodos ha fornito all'intera letteratura occidentale un canone, un modello, un'idea della vocazione del poeta e dell'origine soprannaturale della poesia.