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Storia dei sistemi di pensiero - Sofia Mazziero

La pianta fra mito e natura: forme e


metamorfosi in Ovidio e Goethe

«In nova fert animus mutatas1 dicere formas


corpora: di, coeptis – nam vos mutastis et illa –
adspirate meis primaque ab origine mundi
ad mea perpetuum deducite tempora carmen!»2

È con questi esametri che prende avvio la celebre opera di Publio Ovidio
Nasone, grazie ai quali l’autore esplicita l’oggetto del suo poema epico-mitologico: la
metamorfosi, la trasformazione di un essere vivente da una natura ad un’altra. Tutti i
racconti sono storie di mutazioni e cambiamenti e ciascuno, pur autonomo e concluso in
sé, si lega agli altri realizzando un’entità unica, un mosaico tenuto insieme
dall’inesauribile piacere del narrare. Il proemio, non a caso, delinea l’opera come un
perpetuum carmen, un canto ininterrotto che prende le mosse dalle antichissime origini
del mondo per giungere all’età augustea, comprendendo in sé sia tematiche mitiche che
vicende storiche.
Come si cambiano vita e natura? Come si attraversano le specie? Sono questi gli
interrogativi su cui riflette Ovidio proponendo il tema della metamorfosi, filo
conduttore e motivo unificante di quella che l’autore interpreta come una vera e propria
enciclopedia del mito e del mondo: dalla prima trasformazione, quella del caos
primigenio in universo ordinato, all’ultima, quella di Cesare in astro del cielo. Nella
fattispecie, la presenza e l’importanza del mondo vegetale nell’opera di Ovidio è
ampiamente riscontrabile non solo negli episodi narrativi direttamente connessi alle
trasformazioni in piante, ma anche nell’accuratezza con la quale l’elemento
paesaggistico è reso, cornice fondamentale nella quasi totalità delle vicende descritte.
Volendo essere più precisi, le metamorfosi vegetali riscontrabili nel poema sono circa

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Il verbo deriva dalla forma indoeuropea *meit/*mei che significa letteralmente “dare in cambio”, forma
che si pone all’origine di molte parole collegate al meccanismo dei doni e degli scambi. L’aggettivo
mutuus, derivato dalla stessa radice, ha il valore di “reciproco”.
2
Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 1-4. «Il mio intento è quello di raccontare i mutamenti di forme in
corpi nuovi: dèi, dal momento che anche questa è opera vostra, favorite la mia impresa e tessete un carme
continuo dall’origine dell’universo fino a tempi recenti». Da notare che all’inizio del poema Ovidio non si
lasci ispirare dalle Muse, secondo quanto avveniva solitamente, ma a tutti gli dèi: a loro chiede di essere
favorevoli alla sua impresa poetica.

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dodici e, data la sua mole3, sembrerebbero poche; in realtà, le storie raccontate sono
forse tra le più indimenticabili e strettamente connesse all’universo mitologico.
Attraverso, infatti, alcuni dei miti più noti, Ovidio ha voluto tramandare ai posteri
l’origine di piante e fiori, ma anche i loro antichi nomi, fornendo, in tal modo,
insegnamenti realistici.
Se le metamorfosi costituiscono il tema unificante dell’opera, l’argomento
centrale del poema è senza dubbio l’amore, non più collocato nella quotidianità della
Roma augustea, bensì nell’universo del mito. Spesso dei ed eroi sono coinvolti in storie
infelici, unioni impossibili, vicende surreali e patetiche che sono all’origine delle loro
trasformazioni: essi sono rappresentati come figure terrene, dominate dagli stessi
sentimenti degli uomini, con animi agitati da amori e gelosie, rancori e desideri di
vendetta. Una metamorfosi richiesta – anche se sotto costrizione – e rifunzionalizzata
dallo stesso dio autore del sopruso, si riscontra nel I Libro (vv. 452-567): si tratta di uno
dei miti più celebri, quello di Apollo e Dafne. Dopo aver deriso Cupido, questi per
vendicarsi colpisce Apollo con la sua freccia d’oro, facendolo innamorare della ninfa
Dafne che, d’altro canto, viene colpita da quella di piombo che la induce a detestare il
dio. Per evitare di essere sopraffatta da Apollo, la ninfa chiede a suo padre, il fiume
Peneo, di trasformarla in una pianta di alloro: infatti, il nome Daphne è il nome greco
del Laurus nobilis4. Con questo mito si spiega anche il legame creatosi tra Apollo e la
pianta: nei versi che raccontano la metamorfosi si leggono le parole che il dio pronuncia
e in cui dichiara che avrà alloro tra i capelli, sulla cetra e la faretra; l’alloro sarà la
pianta con cui verrà adornato il capo dei condottieri vittoriosi del Lazio e sarà posta a
guardia delle porte di Augusto. La narrazione ha note malinconiche, la storia d’amore è
infelice e dolorosa tanto per la ninfa, disposta a rinunciare alla sua natura per sottrarsi
alle profferte del dio, quanto per Apollo stesso, frustrato e dominato dalla sua passione
inappagata.

«Cui deus: "At quoniam coniunx mea non potes esse,


arbor eris certe" dixit "mea; semper habebunt
te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae;
tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum
vox canet et visent longas Capitolia pompas.
3
Il poema si compone di XV libri contenenti 246 storie aventi ad oggetto le metamorfosi.
4
L’alloro era considerato l’emblema della sapienza per la sua solarità, il profumo, la perenne presenza di
foglie e le molte proprietà medicinali.

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Postibus Augustis eadem fidissima custos


ante fores stabis mediamque tuebere quercum;
utque meum intonsis caput est iuvenale capillis,
tu quoque perpetuos semper gere frondis honores"»5

Ovidio mette quindi in versi le varie fasi della trasformazione, il passaggio dalla vita
alla pianta, cui il dio assegnerà un futuro di gloria: è nella metamorfosi che gli dèi,
uomo e natura manifestano la compenetrazione tra dato sensibile e modello ideale. Tutta
la mitologia di Ovidio, frutto di «strabilianti bugie di antichi poeti», si sviluppa nel
solco di questa contiguità nella quale «regno minerale, flora, fauna, vicenda
antropomorfa e filamento si integrano scambievolmente» 6 : è nel segno del continuum,
dell’osmosi di tutti gli elementi che si individua la profonda affinità tra Ovidio e
Goethe. La stessa metamorfosi che trasfigura nel poeta latino eroi in astri e stelle, ninfe
in fiori ed alberi, violenti in pietre, si riverbera nella gnoseologia in Goethe «che è
visione d’impulso formativo interiore, dell’elemento plastico e mobile che anima la
forma e ne guida lo sviluppo»7 e che coglie l’oggetto stesso attraverso la mediazione dei
sensi e del corpo.
Amore e forme sono protagonisti indiscussi anche di un altro dei più straordinari
episodi delle Metamorfosi, quello che vede protagonisti Eco e Narciso (vv. 339-510) 8.
Di lui si era invaghito la ninfa Eco, ma Narciso era solo perdutamente innamorato della
propria immagine tanto da lasciarsi morire per questo amore impossibile. È quando le
sorelle vanno per compiere i riti funebri che al posto del suo corpo rinvengono un fiore,
giallo nel mezzo e con petali bianchi. Simile, dunque, il destino dei protagonisti,
ingannati dall’error e dall’illusione e con un riflesso che domina la vita di entrambi: la
ninfa, colpevole di essersi servita della sua loquacità per proteggere l’ira di Giunone,
viene condannata a ripetere solamente le ultime tre parole dei discorsi pronunciati da
altri, emettendo una sola voce riflessa; Narciso, ingannato dalla propria immagine, vive
e agisce in perenne solitudine, del tutto avulso da ogni rapporto con gli altri.
5
Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 556-564: «Il dio: Se è vero, le disse, che non posso più averti per
sposa, sarai, se non altro, il mio albero: ti porterò sempre addosso, alloro, dentro i capelli, sulla cetra e la
faretra. Ai condottieri del Lazio farai compagnia nel Trionfo intonato da un coro festoso, e cortei
interminabili vedrà il Campidoglio. Davanti alle porte di Augusto monterai fedelissima guardia,
proteggendo la quercia nel mezzo; e come io non mi taglio i capelli, e la mia è la testa di un giovane,
anche tu porterai l’ornamento di foglie perpetue».
6
Giacomelli, Forma e metamorfosi. Corpo, arte e natura fra Goethe, Nietzsche e Klee, p. 238.
7
Ibidem, p.138.
8
I miti di Eco e Narciso erano già conosciuti nell’antichità (cfr. Conone e Pausania), ma il merito di
Ovidio è stato quello di averli fusi attraverso la tecnica alessandrina dell’èkphrasis.

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Racconta di una doppia metamorfosi il mito contenuto nel Libro IV (vv. 190-270), in
cui si descrivono le trasformazioni di Leucotoe e Clizia. Quest’ultima era una delle
giovani amate dal dio Sole: ingelosita dalle attenzioni che la divinità riversa nei
confronti di Leucotoe, decide di raccontare al padre, il re Orcamo, che il dio si è
introdotto nella sua stanza seducendola. Il re, adirato, ordina di seppellire la figlia viva
in una buca profonda. Il Sole, non potendo salvarla, decide di cospargere il luogo della
sepoltura con un nettare profumato e da quella terra nasce la pianta di incenso che si
eleva fino al cielo, consentendo ai due innamorati di potersi riunire. Non a caso, nella
simbologia religiosa, questa resina rappresenta il tramite per mettere in contatto l’uomo
e Dio. Clizia, a sua volta, viene trasformata dal dio in girasole perché ella, sentendosi in
colpa per la morte di Leucotoe e non riuscendo ad accettare il ripudio del proprio amato,
decide di passare i propri giorni a terra, senza mangiare né bere, intenta solo a seguire il
percorso del Sole. Impietosito dall’atteggiamento della ninfa che si sta consumando
d’amore per lui, il dio decide, dunque, di trasformarla nel fiore che è sempre rivolto
verso il Sole.
Amore e metamorfosi si intreccino scambievolmente anche nel mito di Filemone e
Bauci9, uniti fin dalla giovinezza e abituati a vivere in povertà e che, nonostante l’umiltà
che caratterizza la loro vita, sono sempre pronti ad accogliere e ad onorare gli ospiti
offrendo loro il meglio che la loro condizione possa consentire. Gli stessi Giove e
Mercurio, presentatisi alla loro porta sotto mentite spoglie, hanno modo di verificare la
bontà e la rettitudine dei due anziani, tanto è vero che Giove, per ricompensarli, decide
di esaudire un loro desiderio: di essere sacerdoti e guardiani del suo tempio e, inoltre, di
lasciare la vita terrena insieme, così come insieme hanno trascorso la maggior parte
della loro vita. Accade così che arrivati al momento della morte, i loro corpi diventano
due tronchi che Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta gli abitanti della Tinia possono
ancora vedere vicini; Filemone viene trasformato in una quercia e Bauci in un tiglio che
diventa il simbolo dell’amore coniugale. La quercia, dal canto suo, rappresenta una
delle piante a cui Ovidio fa riferimento con una certa frequenza, probabilmente perché
associata già al tempo dei greci a Zeus in quanto, con le sue lunghe radici, si riteneva
potesse arrivare fino agli inferi e con i suoi alti rami fino al cielo. Essa era ritenuta nel

9
Ovidio, Metamorfosi, Libro VIII, vv. 611-724.

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mondo classico10, l'icona della forza e del vigore fisico e morale per l'imponenza del suo
tronco e per la bellezza delle sue fronde: si narra, infatti, che uno dei più antichi oracoli
fosse una quercia sacra a Zeus che si trovava a Didona. Non sembra una casualità,
dunque, che Goethe, per comporre le sue opere, amasse recarsi proprio nei pressi di una
grande quercia situata nel cuore dei boschi che sovrastavano Weimar, da lui considerato
luogo privilegiato di ispirazione e consolazione11.
Nel Libro X, Ovidio descrive ben quattro metamorfosi e la prima spiega perché
il cipresso venga da sempre considerato l’albero del lutto 12. Ciparisso è un giovane
amato da Apollo, affezionato ad un cervo, considerato sacro dalle ninfe. Un giorno per
errore lo uccide con un giavellotto e dalla disperazione chiede ad Apollo di trasformarlo
così che il suo pianto duri in eterno. Il desiderio di Cipresso in questo modo viene
soddisfatto completamente: egli porterà per sempre il lutto, per sé e per quelli che si
avvicineranno a lui. Non diverso il destino metamorfico di Giacinto (Libro X, vv. 162-
219) che, durante una gara di lancio del disco, viene colpito per errore da Apollo.
Secondo il mito originale è Zefiro che, per gelosia, devia il disco e fa sì che questo
colpisca Giacinto. In ogni caso, nonostante Apollo cerchi di salvare il giovane con le
sue conoscenze mediche, non riesce nel suo intento e Giacinto muore dissanguato.
Subito dopo la sua morte, si trasforma in fiore dalla forma simile a quella del giglio, ma
dal colore purpureo. Al mito di Giacinto, che si ritiene abbia origini addirittura pre-
greche, si sottende un significato molto profondo: la morte e la rinascita della natura in
primavera.
Colpe divine, dunque, ma anche colpe umane, dolori intrecciati e funesti, come
quello di Mirra, uno dei miti che per pathos e penetrazione psicologica si può dire che
costituisca un’importante rappresentazione della poetica di Ovidio è il mito di Mirra
(Libro X, vv. 298-502). Quest’ultima è una principessa che, con l’inganno, viene indotta

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Era costume dei romani utilizzare le foglie di quercia per intrecciare le corone civiche da porre sul capo
di cittadini particolarmente valorosi, i quali si erano distinti per virtù e coraggio in difesa della patria. La
corona civica fu, del resto, uno dei riconoscimenti attribuiti dal senatus al giovane Ottaviano nella famosa
seduta del 16 gennaio 31 a.C, come raccontato nelle Res gestae divi Augusti, 34, 2: «Quo pro merito meo
senatus consulto Augustus appellatus sum et laureis postes aedium mearum vestiti publice coronaque
civica super ianuam meam fixa est et clupeus aureus in curia Iulia positus, quem mihi senatum
populumque Romanum dare virtutis clementiaeque iustitiae et pietatis causa testatum est per eius clupei
inscriptionem».
11
Goethe morì nella città di Weimar nel 1832 e la comunità locale stabilì che tale albero fosse per sempre
legato al suo nome e, per questo, ricordato nei secoli come "la quercia di Goethe" (cfr. Giuseppe
Cacciatore, La quercia di Goethe. Note di viaggio dalla Germania, Rubbettino, 1998).
12
Ovidio, Metamorfosi, Libro X, vv. 106-141.

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a congiungersi al padre, scoprendo poco dopo di essere incinta; ciò la induce a scappare
e a giungere nella terra di Saba. Dal momento che si ritiene indegna sia del mondo dei
vivi che dei morti, invoca gli dei per esserne bandita. Mentre è in lacrime, avviene la
sua metamorfosi e si trasforma in un albero che stilla gocce aromatiche. Di grande
effetto è la descrizione della trasformazione operata da Ovidio:

«Quae, quamquam amisit veteres cum corpore sensus,


flet tamen, et tepidae manant ex arbore guttae.
est honor et lacrimis, stillataque cortice murra
nomen erile tenet nulloque tacebitur aevo»13.

Da questi versi si comprende immediatamente che il nome della principessa venga dato,
oltre che all’albero, alla resina, che nell’antichità ha sempre avuto un alto valore anche
religioso: non a caso veniva utilizzata anche nei riti di imbalsamazione praticati
nell’antico Egitto. Il mito però, differentemente da quanto potremmo aspettarci, non
termina con la metamorfosi di Mirra 14 perché, nonostante la trasformazione, la sua
gravidanza prosegue: giunto il momento del parto, l’albero è scosso da forti dolori fino
a quando Giunone Lucina, impietosita, decide di aprire una fenditura nel tronco da cui
fuoriesce un bambino bellissimo, Adone.

«At male conceptus sub robore creverat infans


quaerebatque viam, qua se genetrice relicta
exsereret; media gravidus tumet arbore venter.
tendit onus matrem; neque habent sua verba dolores,
nec Lucina potest parientis voce vocari.
nitenti tamen est similis curvataque crebros
dat gemitus arbor lacrimisque cadentibus umet.
constitit ad ramos mitis Lucina dolentes
admovitque manus et verba puerpera dixit:
arbor agit rimas et fissa cortice vivum
reddit onus, vagitque puer; quem mollibus herbis
naides inpositum lacrimis unxere parentis»15.

13
Ovidio, Metamorfosi, Libro X, vv. 499-502: «Pur avendo perso il corpo e la sensibilità di prima,
piange, e tiepide gocce stillano dalla corteccia. Anche le lacrime possono essere onorate, e la mirra che
stilla dal tronco mantiene il nome di mirra e sarà pronunciato in eterno».
14
La resina di mirra è una gommaresina ricavata dalla corteccia di un arbusto diffuso in Somalia, Etiopia
e nella penisola arabica. Famosa fin dall’antichità per le sue proprietà antibatteriche, viene inserita nel
rituale cristiano entrando a far parte della simbologia religiosa, come testimoniato dai doni dei Magi a
Gesù. Essi onorarono la duplice natura divina e umana del Bambino, offrendogli l’oro (quale re), la mirra
(come uomo) e l’incenso (al dio).

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Adone incontrerà l’immortale Venere che si innamorerà di lui e che cercherà di tenerlo
lontano dai pericoli, finché sarà costretta a tramutarlo in un fiore dello stesso colore del
sangue, ma dalla vita breve perché troppo fragile a causa della sua leggerezza tanto che
il vento ne disperde i petali. Il fiore, infatti, deve il suo nome al vento: si tratta
dell’anemone, il cui termine greco anemos significa vento. Anche il mito di Adone,
come quello di Giacinto, simboleggia la morte e la rinascita della natura.
Da questa breve analisi compiuta circa la metamorfosi delle piante in Ovidio si
comprendere facilmente quale fosse il pensiero dell’autore sui rapporti esistenti fra i
diversi regni: umano, animale, vegetale, minerale e astrale. Con i miti narrati nelle sue
Metamorfosi, Ovidio cerca di spiegare le origini e l’esistenza dei diversi esseri viventi
ed il perché di determinati fenomeni naturali, facendo in tal modo trasparire la sua
visione olistica. Il passaggio dal regno umano a quello vegetale, così come la
trasformazione in un astro o fiume è possibile per l’essere umano grazie all’esistenza di
un continuum fra i diversi mondi, uniti in uno scambievole rapporto di fratellanza che
consente il passaggio da una natura all’altra. Non a caso, nel proemio che è stato
precedentemente citato utilizza le espressioni ‘forma’ e ‘corpo’ esattamente come
sinonimi16; lo stesso avviene nel Libro XV, come sapientemente illustrato dal
Giacomelli, in cui Ovidio mette in bocca a Pitagora in maniera indifferente le parole
‘figurae’ e ‘corpora’17.
È questa stessa visione che è possibile rinvenire anche in Goethe: più
precisamente, l’inscindibile connubio presente in Ovidio fra mondo umano, naturale e
divino trova terreno fertile nella visione che Goethe ha dell’esistenza di tutte le cose.
Anche per lui non può esistere la dualità fra anima e corpo, spirito e materia, ideale e
reale, ma, anzi, esiste una ‘scambievole reciprocità’ 18. Parlando, infatti,

15
Ovidio, Metamorfosi, Libro X, vv. 503-514: «Ma intanto sotto il legno la mal concepita creatura era
cresciuta, e cercava per dove liberarsi della madre e venire alla luce. Il gravido ventre è rigonfio nel
mezzo dell’albero: la madre è tesa dal peso, ma le doglie non possono esser dette a parole, né Lucina può
essere invocata dalla voce della partoriente. Tuttavia sembra sotto travaglio, l’albero, e curvato geme di
continuo ed è tutto imperlato di lacrime. La buona Lucina si ferma accanto ai rami dolenti, avvicina le
mani, pronuncia la formula del parto. La corteccia dell’albero si fessura, e dalla fessura viene alla luce un
essere vivo. Il piccolo vagisce, le Naiadi lo depongono sulla tenera erba e lo ungono con le lacrime della
madre».
16
Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. 1-4: «In nova fert animos mutatas dicere formas corpora».
17
Ovidio, Metamorfosi, Libro XV, v. 167: «Lo spirito vaga […] e s’infila in qualsiasi corpo, e dagli
animali passa nei corpi umani e da noi negli animali, e mai si consuma».
18
Goethe J. W., La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, p. 158.

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dell’osservazione dei fenomeni naturali afferma: «e così il particolare ci porta sempre


all’universale, l’universale al particolare»19.
E’ da credere che l’autore tedesco ben conoscesse l’opera ovidiana, dalla quale
aveva appreso un modo gioioso di conoscere i miti. Non a caso, infatti, al termine del
suo carteggio Viaggio in Italia, per trasmettere al lettore la profonda malinconia
scaturita dalla consapevolezza di dover abbandonare Roma, riprendeva il noto passo
tratto dai Tristia di Ovidio riportando il testo latino: «Cum repeto noctem!». Scriveva
con grande dispiacere: «Dopo alcuni giorni trascorsi per distrarmi, ma con un certo
dolore, feci ancora una volta il giro di Roma, in compagnia di alcuni amici ed una volta
tutto solo. [...] E come potevo evitare che, in tali istanti, non mi tornasse alla memoria
l’elegia di Ovidio, il quale, esiliato anch’egli, doveva abbandonare Roma in quella notte
di luna?»20
Il suo stato d’animo si immedesima perfettamente in quello di Ovidio durante le ore del
commiato per la perdita dell’amata moglie Fabia, quando l’editto dell’imperator
Augusto lo condannava irrevocabilmente alla relegatio a Tomi.
A differenza di Ovidio, però, il terreno su cui si muove Goethe non è quello del
mito, ma quello della ricerca scientifica. Non a caso l’autore critica fortemente il
metodo di classificazione degli esseri viventi del XVIII secolo, basato su una
concezione creazionistica e meccanicistica della natura, il cui massimo esponente nel
campo della botanica è da individuare in Linneo 21. Si trattava, a detta di Goethe, di una
classificazione troppo sistematica che escludeva qualsiasi forma di cambiamento, che
considerava ogni elemento con caratteristiche statiche e non dinamiche e che pertanto,
negava la presenza di una forza interna di metamorfosi. In effetti, tale concezione si
basa sulla convinzione che ogni forma vivente derivi dalla forza creatrice di Dio e che il
suo sviluppo o crescita si debba ad una concatenazione di cause ed effetti già stabilita al
momento della nascita. Di conseguenza, nell’ambito delle sue ricerche lo scienziato può
solo limitarsi a classificare l’odine naturale già prestabilito.
Goethe, al contrario, sostiene che la realtà non sia costituita da elementi divisi e
separati tra loro, bensì da un tutto unitario; egli rinnega quella schematicità cui ricorrono

19
Ibidem, p.158.

20
Goethe J. W., Viaggio in Italia, 490.
21
Lo scienziato svedese Linneo considerava l’organismo degli esseri viventi, in virtù della sua assoluta
perfezione, un meccanismo che presupporrebbe una costituzione divina.

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molti scienziati del suo tempo, la quale non tiene conto della varietà e della dinamicità
dei fenomeni naturali. Se la materia è il prodotto della forza e del movimento, la natura
è, d’altro canto, una totalità dinamica ed in continuo divenire che crea costantemente
forme22 nuove, «che ci afferra nel vortice della sua danza e ci trascina finché, stanchi,
non ci sciogliamo tra le sue braccia» 23 e che, nonostante la sua mutevolezza, conserva la
sua unità. La natura è quindi, riprendendo il naturalismo spinoziano, unità di materia e
di spirito.
A proposito di piante, erroneamente – scrive Goethe – le riteniamo morte a
causa della loro fissità, inoperose a causa del loro stato di quiete, eppure, la maggior
parte dei mutamenti che si producono nell’atmosfera dipendono da una forza
tacitamente emanata da esse24. È grazie ad un viaggio in Italia compiuto nel 1786,
durante il quale ebbe occasione di osservare e analizzare una grande varietà di piante –
celebre la frase pronunciata in quell’occasione «in materia di piante sento che ho ancora
molto da imparare»25 – che matura in Goethe quell’ipotesi secondo la quale «tutte le
forme delle piante si possano far derivare da una pianta sola […]. Soltanto con
l’ammettere questo sarebbe possibile stabilire veramente i generi e le specie, cosa che a
me pare sia stata fatta finora in modo molto arbitrario» 26. Egli arriva, dunque, ad
affermare l’esistenza della cosiddetta Urpflanze, ossia la pianta originaria e primitiva
che assurge ad unico ‘modello’ da cui è poi possibile far discendere generi e specie.
Pertanto, dalla varietà e molteplicità delle piante di cui è spettatore nel suo viaggio
arriva ad affermare l’esistenza di una unità, di un modello, appunto, grazie al quale è
possibile «stabilire veramente i generi e le specie». Lo stesso Goethe precisa al lettore:
«come potrei altrimenti riconoscere che questa o quella forma è una pianta se non
fossero tutte modellate sulla base di un unico modello?»27
L’autore arriva addirittura ad ipotizzare che questa teoria potrà assurgere al rango di
legge generale, che potrà essere applicata per individuare le specie di qualunque essere
vivente, non a caso scrive: «con questo modello e con la sua chiave si potranno

22
Con ‘forma’ Goethe intende la configurazione, la struttura, la geometria dell’elemento e la pianta è
l’esemplare che spiega perfettamente questo concetto: essa è legge di sviluppo e consente comprendere il
meccanismo attraverso cui la forma si crea.
23
Goethe J. W., La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, p.152.
24
Goethe J. W., Viaggio in Italia, p.13.
25
Ibidem, p.15.
26
Goethe J. W., Viaggio in Italia, p. 493.
27
Ibidem, p. 739

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inventare piante all’infinito, che saranno conseguenti, vale a dire che, anche senza
esistere nella realtà, potrebbero tuttavia esistere; che non saranno ombre o parvenze
pittoriche o poetiche, ma avranno una verità e una necessità interiori. La stessa legge si
potrà applicare a tutti gli esseri viventi»28.
C’è un altro aspetto che bisogna considerare e che fa sì che si possa affermare
che Goethe abbia, in qualche modo, anticipato le teorie sull’evoluzione di Charles
Darwin. L’autore difatti, con la teoria della pianta originaria, sviluppa un concetto
secondo il quale i diversi generi e specie di piante siano dovuti non a cause esterne
(come l’ambiente e i diversi stimoli che da esso derivano) – come sostenuto invece da
Darwin – ma da una forza interna che spinge la pianta ad adattarsi all’ambiente e a dar
vita ad un organismo armonioso con la realtà circostante. L’Urpflanze di Goethe
potrebbe essere paragonata, in qualche modo, all’idea di Platone, che costituisce
anch’essa l’archetipo o il modello cui fanno capo tutte le manifestazioni degli oggetti;
volendo chiarire ancor di più il concetto si può dire che tutte le manifestazioni del reale
sono accomunate tra loro perché derivanti da un’unica ‘Idea’. La pianta originaria,
dunque, rappresenterebbe quella pianta ideale che costituisce l’essenza presente in ogni
forma reale. Goethe è anche convinto che, tra la grande varietà di vegetazione, sia
possibile individuare concretamente la pianta originaria, che suppone si identifichi nella
genziana.
Nonostante lo sviluppo di questa teoria, egli finisce con l’impiegare sempre
meno il termine da lui coniato Urpflanze; ciononostante rimane la funzione
metodologica per cui è stato creato. Goethe è, in effetti, alla ricerca di un modello che
permetta di descrivere quegli aspetti sempre presenti nello sviluppo della pianta. Ecco
perché può dirsi che il modello rappresenta la base o la legge da cui partire per poter
spiegare i diversi fenomeni naturali. Quando Goethe, però, affronta il problema ‘forma-
metamorfosi’, che costituisce il perno delle sue successive teorie, decide di abbandonare
l’Uperflanze perché ha bisogno di una chiave di lettura diversa che gli consenta di
spiegare il determinarsi del collegamento tra il modello e la rappresentazione reale, tra
l’ideale e il sensibile. Per l’autore questo avviene attraverso la foglia, che la definisce
come «il vero Proteo, che sa celare e manifestare in sé tutte le forme» 29. È la foglia che
si trasforma nei sei gradi di sviluppo della pianta, è la foglia avere capacità di
28
Goethe J. W., Viaggio in Italia, p. 493.
29
Ibidem, p. 859

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metamorfosi perché «tutto nella pianta è assimilabile alla foglia»: gli stessi petali
possono essere considerati foglie colorate. Nella pianta è, inoltre, presente un
movimento di dilatazione e contrazione che ne determina la diversità e che esprime il
fenomeno della polarità, ossia di quel movimento ascendente (Steigerung) che permette
il ricongiungimento della fase finale e iniziale della sua evoluzione.
Il problema del rapporto tra forma e natura, fortemente ispirato al pensiero di
Goethe ed al suo tentativo di «fondare una dottrina, che a noi piace chiamare
Morfologia», troverà una interessante declinazione in Germania sul finire dell’800. Sarà
proprio Paul Klee a riprendere la teoria goethiana dell’ Urphänomen: «una foglia è parte
del tutto. Se l’albero è organismo, la foglia è organo» 30, che richiama perfettamente
l’affermazione di Goethe: «ciò che chiami essere vivente è talmente inseparabile dal
tutto che le sue stesse parti possono essere adoperate come misura del tutto»31.

EDIZIONI DI RIFERIMENTO

Publio Ovidio Nasone, Le metamorfosi, a cura di Pietro Bernardini Marzolla, Einaudi,


2015.

Goethe J. W., La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, a
cura di S. Zecchi, Guanda, Milano 1983.

Goethe J. W.,Viaggio in Italia, in Opere, Firenze, Sansoni, 1963, vol. I-II.

BIBLIOGRAFIA:

Alberto Giacomelli, Forma e metamorfosi. Corpo, arte e natura fra Goethe, Nietzsche e
Klee, in Scenari, 11, 2019.

30
Giacomelli, Forma e metamorfosi. Corpo, arte e natura fra Goethe, Nietzsche e Klee, p. 234.
31
Goethe J. W.,”Introduzione all’oggetto”, in Metamorfosi delle piante, p. 43.

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