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Il Pentamerone è considerato come il primo prototipo del genere fiabesco in un'epoca in cui ancora il
racconto per bambini non esisteva, se non altro non al di fuori della tradizione orale. La narrazione
dedicata all'infanzia non era neppure comteplata, in un certo senso fu Basile a crearla attingendo a un
ampio patrimonio di miti e leggende offerto dalla letteratura classica greca e latina. In questi cinquanta
racconti ritroviamo l'embrione di fiabe entrate poi di diritto nell'immaginario popolare, come Cenerentola
(qui “La gatta Cenerentola"), Raperonzolo (che in origine si chiamava "Petrosinella") e La bella
addormentata nel bosco (qui Sole, Luna e Talia)
I racconti derivano da una stessa cornice narrativa che costituisce il punto iniziale e l'approdo finale
dell'intera narrazione. La fiaba di partenza, da cui derivano le altre quarantanove scandite nell'arco di
cinque giornate, racconta della principessa Lucrezia detta Zoza che non riesce più a ridere. Il padre diventa
pazzo per strapparla dalla sua malinconia, ma non riesce nell'impresa. Un giorno però Zoza all'improvviso
scoppia in una fragorosa risata quando vede una vecchia cadere. L'anziana donna si vendica della risata di
Zoza lanciando un sortilegio: la principessa non potrà sposare l'amato principe Tadeo che è stato
condannato a un sonno perenne e si risveglierà solo quando una fanciulla avrà riempito un'intera anfora di
lacrime. Zoza tenta l'impresa, ma sfinita si addormenta e allora una schiava si sostituisce a lei riuscendo
così a sposare il principe. Per vendicarsi la principessa instilla nella donna il desiderio irrefrenabile di
ascoltare delle fiabe e manda delle terribili vecchie a narrarle delle novelle per cinque giorni.
L'ultimo giorno, Zoza si sostituisce alla novellatrice di turno per raccontare la propria storia,
permettendo così all'amato principe Tadeo di svelare l'inganno.
La particolarità dei racconti di Giambattista Basile è la loro costruzione che oggi
definiremmo multimediale: erano fiabe concepite per essere recitate e quindi accostate ad
altri mezzi espressivi come la musica o le immagini. Le parole che venivano utilizzate nelle
fiabe traevano origine tanto dai proverbi popolari quanto dalla tradizione letteraria colta,
creando così una commistione di linguaggi unica nel suo genere. Le fiabe del Pentamerone
comunque nascevano per essere fruite in una lettura collettiva, diventando una sorta di
spettacolo: dovevano quindi essere recitate, teatralizzate, drammatizzate in una sorta di
momento ludico. Venivano insomma fruite da un pubblico cortigiano che trovava in questi
racconti un divertimento simile a quello che noi oggi attribuiamo alle
moderne serie televisive.

testo chiave della favolistica europea, che vede numerose pubblicazioni anche nel XVIII secolo per poi
essere dimenticato fino alla riscoperta di Benedetto Croce [E] [I] che, traducendolo in italiano, cercò di
farne apprezzare il contenuto artistico. II titolo della raccolta di fiabe è dovuto alla sua struttura, l'avvio
della narrazione è dato già nell'introduzione dove viene narrata la fiaba della principessa Zoza e del
principe Taddeo; la loro storia, fungendo da cornice, dà inizio al racconto di altre quarantanove fiabe per
poi concludersi con la cinquantesima che segna la fine anche della fiaba introduttiva. Ci troviamo di fronte
ad un sofisti.
La fiaba introduttiva, dunque, è cornice da cui si dipanano i racconti. La principessa Zoza, protagonista del
racconto, nonostante abbia lacrimato per tre giorni in un 'anfora per risvegliare un principe vittima di una
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maledizione, si vede sfuggire il proprio obiettivo a causa di una schiava che approfitta del sonno
improvviso della principessa per rubarle l'anfora, terminando la lacrimazione e sposando il principe. Zoza
tuttavia, aiutata da tre fate, suscita nella schiava il desiderio di ascoltare "Cunt?" (fiabe): ecco che si dà
inizio al viaggio nel mondo delle fiabe la cui narrazione è affidata a dieci novellatrici che, in cinque giorni,
racconteranno a turno, per arrivare al lieto fine della storia di Zoza. Ciascuna delle cinque
giornate si apre con la descrizione di vari giochi con i quali la compagnia delle novellatrici si
intrattiene nelle prime ore del mattino, ogni “Cunto” è preceduto da un'introduzione morale e si
chiude con un proverbio, alla fine delle singole giornate (esclusa la quinta), due persone della
corte recitano un'egloga (un poema). Le egogle si presentano come satire morali in dialogo,
nelle quali si discute su temi cari al Basile. Una tale disposizione sembra rimandare direttamente
al più celebre Decameron del Boccaccio,, seguendo i racconti con attenzione, si può scorgere
come la cornice e le novelle siano state concepite come se l'autore tenesse presenti sia la
perfezione del modello del Boccaccio, per ciò che concerne la struttura esterna dell'opera, sia la
irrequieta visione del mondo della contemporanea civiltà barocca per ciò che riguarda i motivi, i
sentimenti, il linguaggio che animano i personaggi del Pentamerone.
Nelle pagine del Pentamerone il magico si collega con la realtà e la cultura dell'epoca. L'antica
tradizione orale viene rielaborata dando vita ad un nuovo modello di fiaba, la fiaba vista tra la
realtà ed il sogno. I personaggi del Pentamerone vivono in un contesto caratterizzato allo stesso
momento dall'elemento meraviglioso e da quello realistico. Ad esempio le donne che raccontano
le fiabe non sono belle fanciulle, ma anziane con molti difetti fisici. Questo per avvicinare le
narratrici al lettore, infatti esse hanno nomi molto semplici, largamente diffusi a Napoli in quel
secolo. L'innovazione di queste fiabe consiste nel seguire la tradizione popolare aggiungendo
alla narrazione ironia e scherzo, cercando nel popolo l'elemento strano, goffo e assurdo che
nelle fiabe diventano elementi comici. I protagonisti sono:: Esseri umani -Esseri dai poteri magici
- Animali-Cose inanimate
Non esistono “buoni” o “cattivi" perché tutti i protagonisti presentano i pregi ed i difetti tipici degli
esseri umani. Nella piramide dei racconti sono presenti: Lo sciocco - Il savio - L'ingenuo -Il pigro
-l furbo Per le donne lo scrittore evidenzia tutti gli aspetti tipici dello stereotipo femminile:La
curiosità -I pettegolezzo -La malizia -L'amore materno
Gli animali in queste fiabe vivono in parità di condizioni rispetto all'uomo, anzi in alcune
occasioni in stato di superiorità. Alcuni animali protagonisti sono: Lo scarafaggio ("Scarafone") l
topo ("Sorece") Il grillo Come in tutte le fiabe del '600 anche quelle del Basile presentano una
morale. In realtà nel Pentamerone ci sono veri e propri proverbi posti a conclusione della fiaba,
anche se non è stato sempre possibile per l'autore condensare in un solo proverbio le storie
presentate, questo perché i protagonisti nella fiaba hanno vissuto molteplici emozioni e
sentimenti: Amore -Rabbia -invidia -Vendetta -Capriccio Ecco di seguito i proverbi o le morali
più rappresentative delle sue fiabe: [1] Nave da buon pilota governata, è strano caso che si
rompa a scoglio (1,4) Pazzo è chi contrasta con le stelle (1,6) Nessun male fu mai senza il
castigo (11,2) L'uomo savio domina le stelle ("L'ommo sapio dommena le stelle" - V,6) Tarda il
castigo, ma non ti fidare! Viene una volta e tutte fa pagare! (V,8)

Con questi proverbi il Basile ha cercato di raccogliere tutti aspetti caratteriali che ha presentato nelle sue
fiabe. Ad una lettura attenta sembra quasi che il proverbio sia un'unità narrativa autonoma o un perfetto
equivalente della fiaba appena letta. Queste morali ben rappresentano la concezione della realtà secondo
Basile, che nell'opera è vista secondo due concezioni opposte, due morali: una positiva ed ottimistica che
invita ad essere buoni, visto che la crudeltà riceve il giusto castigo, e una fatalistica che affida tutto alla
fortuna. Ad esempio nell'opera, in alcune fiabe, viene messo in evidenza il senso dell'impotenza dell'uomo
con morali del tipo "propone l'uomo ma dispone Dio" oppure tutta la forza di cui l'uomo stesso è capace e
quindi troviamo morali come quella già citata "L'uomo savio domina le stelle".
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LO CUNTO DE LI CUNTI RIFLESSIONI

In base alla sintesi tracciata verrebbe di riflesso cercare di incasellare la vicenda nello schema di Propp ed è
un’operazione fattibile, sebbene la sovrapposizione tra alcuni dei modelli di personaggi delineati da Propp e
i nostri avvenga per antitesi. Si individuano nitidamente tutte le otto figure dell’antagonista, del mandante,
dell’aiutante, del donatore, dell’eroe, del falso eroe, della principessa e del padre di lei.28 Vediamo quindi
come questi ruoli siano in prevalenza occupati dalle donne del racconto e questo in ogni caso non stupisce
poiché i personaggi femminili sono presenti in maggior numero nell’apertura del nostro libro. L’antagonista
è rappresentato dalla negra che sottrae a Zoza con la furbizia la brocca contenente le preziose lacrime.
Infatti essa la spia per tutto il tempo e attende pazientemente che la principessa si addormenti per «farela
restare co navranca de mosche ’n mano». Quindi si evince che c’è proprio l’intenzione di danneggiare il
prossimo, prendendosene i meriti, non si tratta semplicemente di ottenere un beneficio per sè e se ne avrà
conferma quando Zoza si trasferirà davanti alla reggia dell’amato e scatenerà le invidie della schiava. Con
questo comportamento la schiava assume allo stesso tempo anche il ruolo del falso eroe, poiché si prende i
meriti che invece appartengono all’eroe. È a questo punto che notiamo che il tradizionale schema di Propp
deve essere applicato con maggiore flessibilità perché ci aspetteremmo che l’eroe fosse un uomo, invece
l’eroe è Zoza. Seguendo questa linea di pensiero ci sono pochi dubbi che la vecchia che scaglia la
maledizione sulla ragazza-eroina sia il mandante, il personaggio che esplicita la mancanza e determina
l’allontanamento dell’eroe. Anche in relazione alle fate non stona l’attribuzione della funzione dell’aiutante
e del donatore, in quanto offrono conforto a Zoza e le forniscono gli oggetti magici. In questa enumerazione
sono stati volutamente taciuti due ruoli, quello della principessa/premio e quello del padre di lei. 29 Infatti
per quanto riguarda la prima figura non è Tadeo a rendersi degno di lei nel corso della storia, ma è esso
stesso ad essere il premio inseguito dall’eroe, o meglio, dall’eroina Zoza, ostacolata dalla schiava, falsa
eroina che vuole sposare il principe. Il padre di lei è un personaggio altrettanto evanescente, ne viene
omesso anche il nome e si sa soltanto che è il re di Vallepelosa, una contrada immaginaria il cui nome ci
prepara alla «scena voscareccia» che la vecchia, Sollevandosi le vesti, mostrerà alla figlia del re.30 Di norma
il padre dovrebbe essere colui che fornisce gli incarichi all’eroe, identificando il falso eroe e celebrando il
matrimonio, ma le uniche azioni che esso compie sono volte a rendere meno ombrosa la figlia. Egli «non
aveva auto spireto che st’uneca figlia» e per aggradarla chiamò inutilmente i più svariati professionisti del
divertimento, acrobati, giocolieri mascherati, cantanti e ginnasti, i quali sono tutti uomini che si mettono a
disposizione, invano, delle volontà della ragazza. Parliamo ora del principe dormiente, nome di cui sia Mario
Petrini che Pasquale Guaragnella ricordano l’affinità semantica con Peruonto e Antuono, che stanno per
«stolto, sciocco ». Quindi il Cunto inizia con un principe sciocco vittima di una maledizione. Tadeo, figlio di
re, finisce per diventare schiavo di una schiava, che divenuta sua moglie lo plasma a proprio piacimento
affinché assecondi i suoi capricci. Si può pensare che questa condotta fosse motivata dalla volontà di
tutelare il figlio che la donna portava in grembo poiché preoccupato per la sua discendenza

DECAMERONE E PENTAMERONE

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Boccaccio. Da quest’ultimo, in particolare, Basile trae la struttura del libro, concepito come un racconto
collettivo, in cui si alternano nella narrazione dieci anziane donne, che raccontano una fiaba ciascuna al
giorno, per cinque giorni. È per questo che il libro è anche conosciuto con il titolo di Pentamerone. Come
nel Decameron, ogni cunto è introdotto da una rubrica, in cui si riassumono le vicende principali della
narrazione, nonché da una morale, che anticipa il contenuto assiologico della fiaba. Dal punto di vista
strutturale, la differenza principale tra la novella decameronica e il cunto pentameronico ( 50 racconti
narrati nell'arco di cinque giornate è questa la struttura del Pentamerone, l'opera di
Giambattista Basile che trova appunto nel numero 5 la sua chiave di lettura
programmatica.) consiste nella conclusione di quest’ultimo, sempre rappresentato da un proverbio di
origine popolare, che funge da vero e proprio sipario di scena della vicenda rappresentata. Con il
capolavoro boccacciano, il Cunto condivide anche il carattere della modernità: affiora il tema dell’individuo,
della sua emancipazione rispetto ai vincoli dell’ordine medievale, la formazione della soggettività e, in
senso psicologico, dell’individuazione, dell’affrancamento del soggetto dagli schemi predisposti ed imposti
dall’ordine sociale.

La particolarità dei racconti di Giambattista Basile è la loro costruzione che oggi definiremmo multimediale:
erano fiabe concepite per essere recitate e quindi accostate ad altri mezzi espressivi come la musica o le
immagini. Le parole che venivano utilizzate nelle fiabe traevano origine tanto dai proverbi popolari quanto
dalla tradizione letteraria colta, creando così una commistione di linguaggi unica nel suo genere. Le fiabe
del Pentamerone comunque nascevano per essere fruite in una lettura collettiva, diventando una sorta di
spettacolo: dovevano quindi essere recitate, teatralizzate, drammatizzate in una sorta di momento ludico.
Venivano insomma fruite da un pubblico cortigiano che trovava in questi racconti un divertimento simile a
quello che noi oggi attribuiamo alle moderne serie televisive.

Spesso il Pentamerone viene definito simile - oppure erroneamente accostato - al Decamerone di


Boccaccio. Si tratta in verità di due opere ben diverse, scopriamo perché.
Il modello di Giambattista Basile fu senza dubbio Boccaccio, ma l’autore napoletano di discostò all’opera del
Certaldese. Entrambi i racconti sono divisi in giornate e partono da un’unica cornice narrativa, tuttavia
mentre il Decamerone ci presenta lo scenario della peste che contestualizza la narrazione,
il Pentamerone invece già ci immerge in un racconto dallo scenario fantastico che a sua volta genererà gli
altri racconti.

Sotto certi aspetti possiamo leggere il Pentamerone come il rovesciamento del Decameron di Boccaccio.
Basile sembra a tratti farsi beffe del suo modello: la principessa Zoza è la tipica lettrice (dedicataria)
boccaccesca malinconica e innamorata portata al parossismo, mentre le novellatrici delle fiabe sono delle
vecchie volgari e orripilanti ben diverse dalla lieta brigata di giovani narratori del Decameron. Basile
correttamente legge, emancipandola da 10 del Decameron come la novella di Gualtieri e non come quella
di Griselda. Se dunque la X 10 è la novella di Gualtieri, del suo rifiuto a prendere moglie e del suo folle
piano, Le tre cetra sono la fiaba di Cenzullo e del suo «crapiccio de femmena prena»

Giambattista Basile si basa sul racconto fiabesco, che va oltre la tradizione letteraria del Boccaccio. L’autore
napoletano gioca sulla parodia, sul rovesciamento, sull’iperbole e soprattutto segue uno schema preciso
che getterà le basi per la costruzione letteraria della fiaba: il conflitto, l’allontanamento (viaggio), il ritorno e
il finale. Il finale, nei racconti del Pentamerone, comporta sempre una metamorfosi, un cambiamento di
status rispetto alla condizione iniziale; mentre nel Decameron questo non si verifica, anzi, molte novelle si
concludono proprio con lo scioglimento della situazione Di partenza.
La differenza è data anche dal pubblico cui il racconto di Basile era destinato: non colto, ma popolare.

In conclusione possiamo dire che, nonostante le due raccolte di novelle traggano ispirazione dalla
tradizione orientale de Le mille e una notte, i loro sviluppi sono molto diversi. Boccaccio sfrutta il racconto
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per dominare la realtà e affermare il trionfo dell’uomo su una situazione catastrofica, come l’epidemia di
peste; Basile invece attinge a piene mani dal regno della fantasia per mostrarci come nel mondo vi sia una
componente di imprevisto e di assurdo che gli uomini non possono in alcun modo dominare o contrastare,
se non arrendendosi all’inevitabilità del cambiamento e quindi della metamorfosi.

LUCIA/ZOZA

Se prendiamo in esame la fiaba Le tre cetra (V 9), narrata da Ciommetella, Sembra insinuarsi il dubbio che
Lucia e Zoza siano in realtà due aspetti di una stessa figura «opposte e complentari come le immagini del
giorno e della notte che, inseguendosi, incorniciano le cinque giornate». 41 Paragone confermato
dall’opposizione cromatica tra bianco e nero. Infatti, nella penultima fiaba della quinta giornata, è presente
una schiava nera che con l’inganno sottrae il futuro marito ad una fata. Come avviene nel contesto della
cornice narrativa, anche qui viene più volte sottolineato il contrasto tra il candore della sposa desiderata dal
principe, e la pelle scura della schiava usurpatrice, la quale porta lo stesso nome, Lucia, nome presente
anche nel ballo citato più volte all’interno del Cunto, il ballo della Lucia canazza, molto popolare a Napoli tra
Cinque e Seicento. Si noti che la relazione tra il ballo e la schiava ci viene ribadita dallo stesso autore, prima
in apertura della terza giornata «chiodenno li balli co Lucia canazza, per dare gusto a la schiava» e poi nella
Scompetura «Lucia fece veramente da Lucia, cernennose tutta». Giorgetiello si identificherebbe quindi,
secondo Cortini, con il Cunto che sta nascendo, infatti il bambino verrà al mondo alla fine di esso.

Lucia è tuttavia molto di più, è anche capace di «ciernere», cioè di usare il setaccio, o di divenire, lei stessa
un setaccio per il quale passano le sorti alterne di Zoza e del principe. D’altronde la celebre immagine
contenuta nelle Tre cetra della candida mano della fata «afferrata co chelle sproccola negre» della schiava,
che pare «no schiecco de cristallo co le cornice d’ebano» è già preannunciata dall’errore di Lucia, che
inconsapevole, vedendo nell’acqua l’immagine riflessa della fata, è convinta scorgere se stessa. Come
sottolinea Allasia e prima ancora Nigro, si intravede una sorta di falsificazione del mito di Narciso,
attraverso una donna che si lascia stordire dall’errore ottico e dalla mutevolezza e liquidità della fonte.
Basile sotto questo profilo ripropone l’alternanza cangiante dei colori, ne Lo turzo d’oro, dove Parmetella
che desidera vedere il suo amante, uno schiavo nero, scopre «l’ebano tornato avolio, lo caviale latte e natte
e lo carvone cauce vergene»

CROMATISMO

La rilevanza cromatica del bianco e del nero governa la narrazione sin dall’inizio. Sono il rosso, il bianco e il
nero, i colori a suscitare il desiderio amoroso di Milluccio, ne Lo cuorvo (V 9) che aspira ad avere una moglie
«cossì ianca e rossa comme a chella preta, e che avesse li capille e le ciglia cossì negre come so’ le penne de
chisto cuorvo». Nelle Tre cetra sembra mancare uno dei colori topici, il nero ma bisognerebbe focalizzarsi di
più sulla dinamica dell’incidente in seguito al quale Cenzullo si taglia un dito sulla ricotta. È necessaria
maggiore attenzione non tanto perché sembra esserci una trasposizione comica di materiali più nobili come
il marmo e la neve, ma perché l’episodio avviene a causa del trambusto provocato da alcune gazze, che con
tutta probabilità sono bianche e nere e quindi la triade cromatica si trova al completo.

FINESTRA

Il motivo-cardine della finestra grazie alla quale Zoza si affaccia non solo sul panorama circostante ma sulla
vita, ritorna nella Vastolla di Peruonto, che è una delle tante controfigure di Zoza. Vastolla è come Zoza una
vittima di una sua naturale malinconia intrinseca e anch’essa non aveva mai riso e ride, inaspettatamente,
per le acrobazie sulla fascina magica di uno sciocco, per l’appunto Peruonto. 49 Vastolla dopo essersi
affacciata alla finestra viene ingravidata da Peruonto con la sua maledizione, mentre nel racconto-cornice,
l’unica a rimanere incinta è Lucia. Possiamo dire quindi che Zoza si affaccia e osserva la vita da lontano, ma
non si cala giù dalla finestra per viverla in prima persona, sebbene si affacci due volte, prima per osservare
la fontana d’olio regalatale dal padre e la seconda, con una consapevolezza diversa, per contemplare
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almeno le mura del palazzo del principe Lucia non esce dal palazzo si serve della mediazione di Tadeo per
portare verso di sè, prima i doni fatati esposti da Zoza, e poi le novellatrici, che sono simbolo, seppur
abbassato, della civile tradizione dell’oralità, intesa come l’insieme di saperi da sfruttare nel vivere sociale.
La presenza centrale della finestra, collegandoci al versante fiabesco, ci porta a pensare a modelli estranei
al Cunto, primo fra tutti Biancaneve, che nella versione dei Grimm, condivide con il Cunto il triplice
cromatismo di cui si è parlato. Il nero dell’ebano, nella fiaba ricordata, è quello della cornice della finestra,
dalla quale la regina madre sospira pensando al suo desiderio di maternità. Questi tre colori li troviamo
ripetuti dalla matrigna, con scherno, nell’epitaffio funebre, che come è universalmente noto, recita:
«Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l’ebano». Il motivo della finestra integra così quello
della cornice e dello specchio. Dalle due finestre le due donne, Zoza e Lucia, rivaleggiano tramite un gioco di
astuzie e di inganni dall’interno dei loro palazzi. Invece la Lucia schiava delle Tre cetra e la fata, erano
protagoniste di un duello di brutalità e magia, sulla falsariga di quello che vede contrapposte «sette
femmene de mala vita» alla fata della Mortella.

LA GRAVIDANZA

Ogni cosa all’interno del Cunto sembra figliare, a partire dalla struttura stessa del racconto, che si moltiplica
e si riverbera in altri racconti, che hanno tutti avvio dalla gravidanza di Lucia. Pertanto, anche solo da un
punto di vista meramente numerico questa presenza non può essere trascurata. Infatti, in un totale di
quarantanove racconti, poiché dal nostro computo escludiamo l’ultimo, in quanto naturale prosecuzione
della cornice, quelli che presentano una o più gravidanze sono ventuno, numero che cresce in maniera
esponenziale se teniamo conto della quantità di nascite all’interno di ognuno di questi conti. Durante la
prima giornata troviamo disseminati molti elementi che fanno riferimento alla sfera della gravidanza e della
fertilità, come la presenza di una chioccia seguita dai pulcini, che con la nascita di essi avrebbe dovuto
anche fare nascere il guadagno della famiglia di Vardiello. Vardiello, come Antuono da Marigliano del primo
racconto, Lo cunto dell’Uerco, è descritto come un inetto ed entrambe le madri di questi personaggi
rimpiangono di averli messi al mondo, pertanto è comprensibile come siano taciuti ulteriori riferimenti alle
gravidanze. Ciò avviene anche ne La gatta cennerentola, in cui vi sono figlie di precedenti nozze e non vi è
spazio per ulteriori nascite. Altri riferimenti indiretti che non comportano una gravidanza decisiva ai fini. del
racconto ma mostrano come questo tema sia sentito da Basile li troviamo nella fiaba immediatamente
successiva, la quinta, in cui si dice che Porziella sputava come «femmena prena», e nel settimo racconto, in
cui l’uccisione del drago viene paragonata ad un parto, in quanto implica molti sforzi e «chi non asseconna
non figlia». Più flebili sono invece le allusioni ne La vecchia scorticata, in cui nel realizzare alcuni paragoni,
troviamo citati elementi appartenenti al mondo animale appartenenti alla sfera in esame, come la placenta
di bufala o una vitelluccia lattante. Nel nono racconto, La cerva fatata, si ha una gravidanza fortemente
voluta e concretizzatasi attraverso circostanze magiche. Iannone è un re che voleva «’ntorzare la panza a la
mogliere» e come nella Mortella, che analizzeremo a parte a breve, l’utilizzo di un lessico appartenente
all’agricoltura e il paragone con il regno vegetale non si ferma qui, poiché poco dopo viene detto che non
riusciva in nessun modo a «’ncriare na sporchia». le ultime due giornate perché all’interno del tema
comune che è quello della gravidanza, notiamo elementi che sono peculiari di questi cunti e non
riscontriamo nelle altre tre giornate. Primo fra tutti è il tema della gravidanza ottenuta mediante uno
stupro, che tuttavia all’interno del Cunto non viene visto come qualcosa di esecrabile. Inoltre, dall’analisi
dei 50 racconti, si nota che vi è una progressiva riduzione delle gravidanze abnormi e caratterizzate da
elementi magici, a mano a mano che ci si avvicina alla fine della narrazione e al parto di Lucia. Questo fa
pensare che le narratrici abbiano anche la funzione di levatrici. Anche quando non avvengono gravidanze
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concretamente all’interno dei racconti, troviamo enfatizzato il suo valore centrale, ad esempio in La pietra
del Gallo è sottolineato come le persone siano «sciute da no pertuso». In questo senso, il parto sarebbe il
primo elemento di eguaglianza e ricordare che tutti provengono da quel determinato «pertuso» è un modo
per ridimensionare l’arroganza e la presunzione altrui. la favola di Porziella si differenzia da quelle viste in
precedenza perché la gravidanza è ottenuta attraverso una violenza carnale e chi se ne rende responsabile
è un re. Infatti, tale monarca, poiché le sue proprietà erano state usurpate da una maga, aveva coltivato un
odio profondo verso il genere femminile e usava stuprare le donne alla sua portata e poi Ucciderle, ma per
una serie di Vicissitudini Porziella venne solo violentata e poi imprigionata, dando alla luce il figlio che solo
alla fine del racconto il re riconoscerà come «vruoccolo de chella pianta». In tale favola vediamo un
elemento ricorrente all’interno della dimensione temporale del Cunto, ossia che quasi sempre al primo
congiungimento fisico le protagoniste restano incinte. In Porziella è presente l’elemento magico più
marcato di questa intera giornata, ossia il fatto che la moglie del re che violenta Porziella, ha un misterioso
collegamento con un drago, di cui è sorella, non vengono descritte queste oscure dinamiche ma è detto che
«nascette a no stisso partoro con la regina L’approfittarsi della donna che abbiamo visto in Porziella ricorre
anche nell’ultimo racconto della quarta giornata, anche se la descrizione del fatto è meno cruenta. Il fatto si
sviluppa mentre Cinziella dorme ignara e il marito, travestito da mercante, ne coglie i «frutti d’amore» e lei
se ne accorgerà soltanto al risveglio, quando ormai sarà già incinta di due maschi. Questa metafora è
presente anche in Sole, Luna e Talia, nella quinta giornata, in cui abbiamo Talia che dorme da un tempo
imprecisato a causa di una lisca di lino fatata finitale sotto un’unghia e durante il suo sonno un re «couze li
frutte d’ammore» della principessa inconsapevole, la quale dopo nove mesi «scarricaie».

Nella Mortella abbiamo di nuovo una coppia che sogna un figlio e non riesce ad ottenerlo e viste le
peculiarità di questo racconto abbiamo preferito analizzarlo in maniera separata. Non mancano come negli
altri la frustrazione e il desiderio, che sono talmente forti che marito e moglie dicono a se stessi che
sarebbero in grado di accontentarsi di qualsiasi essere vivente. È a questo punto che si verifica la gravidanza
fuori dal comune, poiché la moglie del contadino partorisce una frasca di mortella, che sembrerebbe giusta
conseguenza del mestiere del marito, in quanto poco prima era stato detto che non avevano «sporchie»,
ossia «germogli» di figli. Viene rimarcato che la donna partorisce «’ncapo de nove mise» e una volta nata la
mortella, nella quale alberga una fata come si scoprirà dopo l’evolversi dell’intreccio, la stessa durata
temporale verrà ricordata alla medesima fata con disprezzo. Infatti, le donne poco raccomandabili che
cercheranno di ostacolarla e di fare a pezzi la mortella, la minacceranno con la frase «non sia nata de nove
mise, si tu ne la vaie» e ancora, con scherno, verrà biasimata la nascita della giovane, paragonandola
all’atto della defecazione, e con scherno le verrà rivolta la seguente frase: «oh che meglio non t’avesse
cacato mammeta». La prima nascita vegetale della mortella dal ventre di una donna è la trasposizione di un
rito che ha come scopo principale quello di stimolare ed invocare la fertilità della terra. 61 Oltre a questo
aspetto, sembrerebbe inoltre che Basile sia consapevole di attuare una variante di un mito classico. Il
desiderio di maternità non è solo la premessa materiale alla nascita della mortella ma è anche ciò che offre
la spinta decisiva alla storia. Infatti, l’oggetto del desiderio resta sempre la mortella, ma il soggetto muta.
Inizialmente questo soggetto era la donna che si pensava sterile, in un secondo luogo sarà il turno del
principe. Tuttavia, per fare sì che la natura segua il suo corso, non Basta il desiderio, servono anche la
costanza e la passione, che vediamo quando il principe si prenderà cura della mortella innaffiandola
puntualmente. Solo dopo questa prova di pazienza mista all’amore, avviene la seconda nascita della fiaba in
esame, che si presenta attuando il passagio dal vegetale all’umano, dalla frasca alla donna, dalla mortella
alla Venere della mortella. Non appena entra in scena la nostra Venere, come viene definita da Ventura la
fata nata dalla pianta, riappaiono i due temi della fertilità e del desiderio. Il tema della fertilità si trova
strettamente collegato a quello del ciclo naturale che si ripete, il ramo di mortella dà origine ad una donna
che è simbolo personificato dell’amore e della vita e nemmeno la morte materiale può fermarlo. Come una
fenice, la fata è in grado di rinascere dalle sue proprie membra dilaniate, al pari del mito egizio di Osiride, la
fata viene uccisa e straziata, ma un servitore fedele del principe, nei panni di una nuova Iside, ne ricompone
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le membra. Bisogna anche sottolineare che il sotterrare con cura ed annaffiare la terra ove riposa il defunto
ha un valore apotropaico, che mira ad allontanare le influenze malefiche che potrebbero arrecare nel suo
viaggio di ritorno dall’aldilà, Nella Mortella questo rito raggiunge il suo scopo e la fata, tornata a
germogliare dai rimasugli rimasti nel vaso, ritorna alla vita, analogamente al fenomeno di risveglio della
natura che avviene ogni primavera. Questa seconda nascita traduce il bisogno atavico del proseguo della
specie e completa il rito invocante la fertilità la cui esemplificazione avevamo trovato nella nascita vegetale.
In tal senso possiamo affermare che le due nascite sono facce di una stessa medaglia e non possono
sussistere l’una senza l’altra. La fertilità della terra infatti non avrebbe senso senza la fertilità dei suoi
abitanti. Non deve quindi sembrare un evento strano che dalla mortella consacrata a Venere nasca il
«coccopinto di Venere», perché con questo secondo parto non si dimostra altro che la continuità
inconfutabile del ciclo vitale

LE FATE

assieme a maghi, orchi e altri personaggi che alterano la catena dei fatti con i loro poteri fuori dal comune.
All’interno dell’opera una delle prime fate (I 2) è descritta nei termini di una bellezza assoluta, come
abbiamo già visto. il principe, che si trova al buio nel proprio letto, non appena la sente arrivare percepisce
la levigatezza e la leggerezza del suo corpo e quando fa accendere la luce la descrive con i termini di
paragone delle bellezze dei miti, assimilandola a Venere, Elena, Creusa e Fiorella con i termini convenzionali
della lirica d’amore. Altrettanto bella è l’ultima fata (V 9) del Cunto anch’essa ottenuta attraverso prove
tormentose. Le fate avviano alla bellezza anche se non sono necessariamente belle. Sono personaggi che
incrociano il cammino di altri, che di solito reagiscono con gentilezza o indifferenza. Un caso analogo si ha
quando alcune fate passano sotto l’albero da cui pendeva la vecchia che si è fatta amare dal re con
l’inganno. L’anziana colta in trappola è stata gettata dalla finestra e ciò provoca un attacco di riso senza
precedenti nelle fate, che ringraziarla la fanno ringiovanire. Cicella (III 10), che viene riempita di doni da tre
fate per la sua modestia e quello della lucertola fatata (I 8). Quest’ultima ottiene da una famiglia povera la
più piccola delle figlie, Renzolla, e la fa vivere nell’agio e sposare un re. Tuttavia le trasforma il viso in quello
di una capra per la sua irriconoscenza, anche se poi la farà tornare graziosa dopo che questa si è scusata.
Queste fate non sono creature evanescenti ma figure in carne e ossa soggette agli stessi pericoli delle
fanciulle comuni. Un esempio ce lo abbiamo quando Cienzo (I 7) scende nel otterraneo di una casa
diroccata e trova dei ladroni che stanno per violentare una fata. E ancora le fate commerciano come altri
personaggi, infatti sarà da tre di loro che Nardiello (III 5) acquisterà i tre animali magici fautori della sua
fortuna. Le fate sono inoltre soggette agli stessi sentimenti della altre protagoniste e provano gli stessi
desideri, come la fata della Mortella, ormai nota al lettore. Spesso vediamo le fate in gruppi di loro simili,
come le fate che rivelano a Lilla (II 8) che è stata ingravidata da un petalo di rosa mentre giocavano tutte
quante insieme. il passaggio che porta tuttavia dalle fate al mondo sotterraneo è illustrato al meglio nella
vicenda di Cicella (III 10), la quale quando si affaccia sull’orlo di un grande precipizio e perde il suo cesto,
vede un orco che la invita a scendere per riprendersi il suo cesto ma alla fine della discesa l’orco non
compare più e vi saranno solo tre bellissime fate che riempiono la ragazza di doni. Vediamo quindi il
passaggio tangibile a quel mondo finora relegato alla dimensione dell’incertezza e la bruttezza dell’orco è
solo l’ultimo ostacolo prima di passare nel mondo della gioia. Questo alternarsi di luce ed ombra farà sì che
in un altro racconto l’orca che Marchetta (IV 6) incontra in un bosco sia anche la fata che le dona l’anello
con il quale evita la morte e sposa il re (IV 6), perché nel Cunto le figure non sono mai piatte e spesso figure
diverse sono in grado di assolvere la stessa funzione morfologica

LA MATRIGNA

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In tutte le fiabe in cui troviamo questa figura vediamo che essa o viene presentata immediatamente, o si
narra di lei alla morte della prima moglie dell’uomo, normalmente un re, un principe o comunque un
personaggio benestante. Il nuovo matrimonio del vedovo introduce in casa l’antieroe, la matrigna, che si
oppone alla protagonista. A loro volta le figlie della matrigna sono personaggi cattivi o false eroine. La
matrigna come nella maggior parte delle fiabe rappresenta la figura femminile negativa perché, essendo
normalmente la madre una figura buona, l'inconscio collettivo fatica ad elaborare l’idea di una madre
malvagia ed è più facile che lo sia una figura che entra solo in un secondo momento. A questo si aggiunge il
fatto che nel Cunto la figura paterna non sempre è in grado di affermarsi Nella Gatta cennerentola abbiamo
addirittura due matrigne e la vera madre è una figura incolore a cui non si accenna poiché già morta. La
prima matrigna è una figura che nega la felicità e la serenità della bambina, che in quel momento ottiene le
attenzioni materne dalla sua maestra. Tuttavia quando, con la violenza già illustrata in precedenza, la
maestra diventa la nuova matrigna, la protagonista perde quelle attenzioni materne, le quali vengono
sostituite da sfruttamenti mediante lavori umilianti. Le matrigne rappresentano gli atteggiamenti negativi
della madre che in un’opera come il Cunto non sarebbero ammissibili

L’orca

Oltre ai volti indescrivibili delle fate nella dimensione dell’abisso, nel suo lato più terribile, troviamo anche
quelli degli orchi, che si accampano nella letteratura europea moderna da questo testo in poi. Spesso questi
personaggi si trovano ai «crocevia degli intrecci e regolano i destini dei viaggiatori». Il loro abitare nei luoghi
della separatezza, come boschi, montagne o orti chiusi è rivelazione dei loro legami con i mondi del
vegetale, dell’animale e delle materie. A causa di questa collocazione al limite del bestiale questi orchi
agiscono nei termini insondabili e violenti di altri mondi. Il mondo di queste figure è più complesso di
quanto si immagini poiché l’autore ci lascia intuire che vi sia qualcosa simile ad una comunità, l’«orcheria» ,
anche se non possiamo parlare di una società organizzata poiché essi abitano in luoghi isolati e distanti tra
di loro. Vi sono vere e proprie famiglie di orchi, con orchettini e orchesse. Vediamo quindi «un’orca
maledetta» che trasforma un principe (II 5) che non ha voluto soddisfare le sue «sfrenate voglie» e un’altra
che costringe il principe di Terra Longa (II 9) a trasformarsi in uno schiavo nero e a vivere in una grotta. O
ancora il caso di Nardo Aniello, catturato un’altra orca viene sottoposto a impossibili fatiche che riuscirà ad
evitare aiutato dalla figlia dell’orca, scavando un passaggio nell’orto che lo conduce fino alla grotta di
Pozzuoli, sulla strada dell’Averno 97, a riprova di questa loro collocazione nelle zone di confine tra più
mondi. Questa è anche la sola orca descritta con gli stessi termini animali, vegetali e della materia utilizzati
per gli orchi. La descrizione espressionistica che ne viene fornita parla infatti di una creatura che «aveva i
capelli come una scopa di rami secchi, (…); la fronte era di pietra di Genova, (…); gli occhi erano comete che
predicevano tremori di gambe, vermi nel cuore (…), portava il terrore nella faccia, lo spavento nello
sguardo, il frastuono nei passi, la diarrea nelle parole. La bocca era zannuta come quella di un porco,
grande come quella di uno scorfano, spalancata come quella di chi soffre di convulsioni, bavosa come
quella di una mula» le orche talvolta siano vittime di questa brutalità che si ritorce loro contro. Come l’orca
di Petrosinella (II 2) che sorprende una donna incinta a rubare nel suo orto e si fa promettere la bambina
che sta per nascere e una volta ottenuta la imprigionerà in una torre. Questa stessa orca trasformatasi in un
asino verrà mangiata da un lupo, subendo anch’essa il ciclo della natura. Le orche talvolta sono anche
ingenue, in quanto creature primitive e incorrotte. Un episodio in cui questo aspetto emerge con chiarezza
è quello in cui l’orca è a letto con il marito e discorre con lui sul fatto che il loro grasso è il rimedio adatto a
sanare le ferite dell’innamorato di Nella. Quest’ultima bussa alla porta e pur sapendo del pericolo l’orca la
riceve ugualmente, seppur con l’intenzione di mangiarla. A causa di questa sua leggerezza, che dimostra

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come le orche pur essendo capaci di grandi violenze non hanno la scaltrezza delle altre figuri femminili del
Cunto, finiranno per essere uccisi per l’estrazione del grasso.

LA VECCHIA

Le vecchie nell’opera sono il più delle volte caratterizzate da poteri magici e la loro funzione può
sovrapporsi a quella della fata in quanto spesso offrono doni fatati ai personaggi che conquistano la loro
benevolenza. Vi sono vecchie assimilabili alle «janare», fattucchiere del folklore campano che praticavano
Pozioni, malefici e inducevano aborti, avendo la particolarità che di giorno sembravano persone normali e
non destavano sospetti. Se teniamo conto che queste figure realizzavano riti abortivi possiamo vedere le
dieci vecchie narratrici sotto quest’ottica perché sarebbero impegnate con i loro racconti in un sortilegio
abortivo per punire la schiava e liberare Tadeo da una prole illegittima98. Le vecchie della cornice narrativa
agirebbero quindi come «farmaciste» per soddisfare le voglie narrative della moglie di Tadeo. La vecchia,
anche quando è dipinta senza tratti magici, ha carattere ambivalente. Talvolta ha aspetti positivi e realizza
doni che aiutano il protagonista, come ne Le tre cetra ma rappresenta anche quella sessualità infeconda e
lussuriosa, come ne La vecchia scorticata in cui un’anziana vuole a tutti i costi congiungersi con il principe.
Tali personaggi malgrado il potere delle loro bestemmie non incutono timore negli altri personaggi, specie
nelle fanciulle, con le quali hanno un conflitto generazionale, e spesso sono oggetto di scherno e finiscono,
come abbiamo visto, per suscitare il riso.

il Pentamerone senza le donne non avrebbe ragione di esistere poiché sono esse il motore della raccolta.
Basile rappresenta nella maggior parte dei casi personaggi femminili con caratteristiche peculiari e meno
rassicuranti di ciò che ci si aspetterebbe da una fiaba, ma non per questo meno avvincenti.

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LA PULCE (I/5°)

RIASSUNTO

Il re di Altomonte fu pizzicato da una pulce, ma anziché ucciderla, la nutrì fino a farla diventare enorme.
Quando la fece scuoiare, emise un bando: chiunque indovinasse di che animale fosse la pelle, avrebbe
sposato sua figlia. Dopo molti tentativi falliti, un orco indovinò e ottenne la mano della principessa. Lei,
disperata, pregò il padre di non costringerla a sposare l'orco, ma lui insistette. Una vecchia con sette figli
venne in suo aiuto e con i loro poteri riuscirono a ingannare l'orco e salvarla. Alla fine, il re pentito sposò
sua figlia a un nobile e arricchì la famiglia che l'aveva aiutata, riconoscendo il suo errore nell'aver messo in
pericolo la figlia per un capriccio.

FIABA

C' era una volta il re di Altomonte che fu pizzicato da una pulce: l'acchiappò con gran destrezza e la trovò
tanto bella che non volle eseguire la sentenza sul letto dell'unghia. E allora mise in una caraffa la pulce, che
ogni giorno andava a nutrire col sangue del suo braccio. Questa pulce aveva una tale tendenza a crescere
che in capo a sette mesi le si dovette cambiare posto, e alla fine era diventata grossa come un castrato. Di
fronte a questo fenomeno, il re la fece scuoiare, e conciata la pelle emanò un bando: chi avesse capito di
che animale era quella pelle avrebbe ottenuto la mano di sua figlia. Appena il manifesto fu pubblicato
cominciò ad arrivare gentea frotte, venivano dal culo del mondo per sottoporsi a questo esame e tentare la
fortuna: chi diceva che era la pelle di un Gatto mammone, chi di un Lupo cerviero, chi di Coccodrillo, chi di
un animale e chi di un altro, ma tutti erano lontani mille miglia dalla soluzione, e nessuno centrava il
bersaglio. Alla fine arrivò un orco a questa prova di anatomia, un orco che era l'essere più deforme del
mondo, e nel vederlo anche al giovane eroe più audoce del monto sarebbero venuti il tremito, la cacarella, i
vermi e la pelle d'oca. E questo orco appena arrivò si mise a girare intorno alla pelle e ad annusare, poi fece
centro dicendo: - Questa pelle è dell'arcifanfano delle pulci. Vedendo che l'orco aveva dato la risposta
esatta, il re, per non mancare alla parola data, mandò a chiamare sua figlia Porziella, che non vedevi altro
che bianco latte e rosso sangue, e la vedevi fiorire sotto i tuoi occhi, diritta come un fuso, da quanto era
bella. Il re le disse: - Figlia mia, tu sai del bando che ho emanato, e sai chi sono io, alla fine non posso
rimangiarmi la promessa, anche se mi si spezza il cuore: chi avrebbe mai potuto immaginare che il premio
sarebbe toccato a un orco? ma siccome non si muove foglia che Dio non voglia, bisogna credere che la
celebrazione di questo matrimonio sia avvenuta in cielo, per poi succedere quaggiù sotto. Insomma, abbi
pazienza, e se sei una figlia benedetta, non contrariare il tuo babbo, e il cuore mi dice che ti contenterai,
perché tante volte in una giara di pietra grezza ci si trovano tesori. Sentendo questa crudele decisione,
Porziella vide tutto buio, il viso le diventò giallognolo, le caddero le labbra, le gambe le tremavano, e mancò
poco che facesse volare il falcone dell'anima all'inseguimento della quaglia del dolore. Alla fine si sciolse in
pianto e facendo esplodere la sua voce disse al padre: - Quale danno mai ho fatto al tuo nome, da meritare
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questa pena, quali parole cattive ti ho rivolto, che mi consegnati nelle mani di questo bruto? O disgraziata
Porziella, come una donnola deliberatamente mandata in gola al rospo! O misera pecorella generata da un
lupo mannnaro! Questo è l'affetto che nutri per il tuo sangue? Questa è la prova d'amore per me che
chiamavi Bambolina dell'anima mia? In questo modo ti scrosti dal cuore colei che ha il tuo stesso sangue?
Così elimini dalla tua vista quella che era la pupilla dei tuoi occhi? O padre, padre crudele. tu non devi
essere nato da una creatura umana, le orche marine ti hanno dato il loro sangue, le gatte selvatiche ti
hanno dato il latte. Ma perché ti paragono agli animali del mare o della terra? tutti gli animali amano le loro
creature, tu solo, snaturato, sei schifato dalla tua discendenza, sei l'unico a provar disgusto per una figlia!
Quanto sarebbe stato meglio se la mamma mi avesse strangolata, se la culla fosse stata il mio letto di
morte, se la poppa della balia fosse stata una vescica piena di veleno, se le fasce fossero state nodi scorsoi,
se il bubbolo che mi fu appeso al collo fosse stato una macina! Sempre meglio che farmi arrivare a questo
giorno sciagurato, dove mi dovrò vedere carezzata dalla mano di questa Arpia, abbracciata da due stinchi
d'Orso, baciata da un paio di zanne di porco. Voleva parlare ancora, quando esplose la collera del re: -
Trattieni l'acido e l'amaro, perché lo zucchero costa caro! rallenta, perché i brocchieri sono di pioppo!
chiudi la bocca, ché te ne escono schifezze! sta' zitta, non fiatare, perché morsichi troppo, linguacciuta e
biforcuta! Quello che faccio io è ben fatto, non insegnare al padre come si fanno i figli, abbozzala e ficcati la
lingua nel didietro, e non irritarmi al punto che esploda, che se ti metto le mani addosso non ti resta
nemmeno una ciocca di capelli, e ti tocca masticare il pavimento con i denti! ma guarda questo fiato del
mio culo che vuol fare l'uomo, e dettare legge a suo padre! Ma da quando in qua una con la bocca che
puzza ancora di latte ha da ridire sulle mie decisioni? presto, prendi la sua mano, e parti immediatamente
verso casa tua , perché non voglio vedermi davanti questa faccia sfrontata e presuntuosa nemmeno per un
altro quarto d'ora. La povera Porziella, che vide a che punto era arrivata, con la faccia di un condannato a
morte, gli occhi di un indemoniato, la bocca di chi ha preso la purga, il cuore di chi sta fra l'incudine e il
martello, prese per mano l'orco, che senza altra scorta o corteo la trascinò in un bosco, dove gli alberi
facevano riparo al prato, perché il sole non lo scoprisse, i fiumi si lamentavano, che dovendo camminare nel
buio battevano contro le pietre, e gli animali selvatici godevano della libertà senza nemmeno pagare una
multa, e si muovevano al sicuro per quelle macchie, dove nessuo mai arrivava, a meno che non avesse
sbagliato strada. Nel posto nero come una ciminiera accesa, spaventoso come la bocca dell'inferno, c'era la
casa dell'orco, tutta tappezzata e adornata di ossa degli uomini che lui aveva divorato. Chi è cristiano
consideri ora il tremolio, il tuffo al cuore, la paura, lo spavento, il flusso di vermi intestinali e il corpo sciolto
della povera figliola: non le era rimasta una sola goccia di sangue addosso. Ma questo non era ancora nulla,
uno spicciolo di latta dato in resto a una moneta d'oro, dato che le toccarono ceci come antipasto e come
dolce fave col guscio, perché l'orco, andato a caccia, tornò a casa ben carico di quarti di morti, dicendo: -
Ora non ti potrai lamentare, moglie mia, che non provveda a te: eccoti una buona provvista di
companatico, piglia e abbuffati, e voglimi bene, perché può cascare il cielo, ma io non ti farò mancare il
nutrimento. La povera Porziella, sputando come una donna incinta, girò la faccia dall'altra parte. L'orco,
vedendo questa mossa, disse: - Questo vuol dire gettare le perle ai porci, ma non importa, sta' un po' calma
fino a domattina, che sono stato invitato a una caccia di porci selvatici, e te ne porterò un paio, così faremo
una bella festa di nozze con i parenti, per consumare l'unione con più piacere. Dopo aver detto queste
parole, s'inoltrò nel bosco, e mentre lei continuava a piangere alla finestra, passò davanti alla casa una
vecchiarella che, sentendosi sbiancare dalla fame, le chiese se poteva darle uno spuntino. La povera
giovane le rispose: - O mia buona donna, Dio sa con che cuore ve lo darei, ma sono prigioniera di questo
Belzebù, che non mi porta a casa altro che quarti di uomini e pezzi di morti ammazzati, che non so come
possa avere lo stomaco per vedere queste schifezze, e passo la vita peggiore che mai sia toccata a un'anima
battezzata. E dire che sono figlia di un re, e sono cresciuta a pappardelle, e sono sempre stata
nell'abbondanza... E dicendo queste parole si mise a piangere come una bambina alla quale hanno rubato
la merenda, al punto che la vecchia si sentì intenerire il cuore, e le disse: - Cresci, bella figliola mia, non
distruggere questa bellezza a forza di piangere, che hai trovato la tua fortuna, sono qua per servirti di tutto

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punto. Sentimi bene: io ho sette figli maschi che a vederli ti sembrano sette cerri, sette giganti, Maso,
Nardo, Cola, Micco, Petrullo, Ascadeo e Ceccone, che hanno più virtù della rosa marina. In particolare Maso
ogni volta che mette l'orecchio in terra ascolta e sente tutto quello che succede per un raggio di trenta
miglia. Nardo, ogni volta che sputa, fa un mare di sapone. Cola fa un campo di rasoli affilati ogni volta che
getta in terra un ferretto. Micco fa un fitto bosco ogni volta che getta un legnetto. Petrullo tutte le volte che
getta in terra uno schizzo d'acqua fa un fiume terribile. Ascadeo fa sorgere una torre altissima ogni volta
che tira un sasso. Ora vedi, con l'aiuto di loro, che sono tutti gentili, tutti amorosi e avranno compassione
per il tuo stato, voglio vedere di levarti dalle grinfie di questo orco, perché questo bel boccone succulento
non deve andare in bocca a questo bruto. - Ma non ci potrebbe essere un tempo migliore di questo, -
rispose Porziella - dato che quell'anima nera di mio marito è uscito, e non tornerà prima di stasera, e
avremo tutto il tempo per svignarcela e tagliare la corda. - Stasera non si può fare, - rispose la vecchia, -
perchè abito un po' lontano. Basta: domattina io e i miei figli saremo qui tutti insieme per levarti da questo
patimento. Dop aver detto questo se ne andò, e a Porziella si allargò il cuore tanto che dormì tutta la notte.
Ecco che appena gli uccelli cantarono Evviva il sole, arriva la vecchia con i sette figli, e dopo aver fatto
mettere Porziella in mezzo a loro si avviarono verso la città. Ma non si erano allontanati di mezzo miglio
quando piazzando l'orecchio a terra Maso gridò: - Allerta! olà! a noi! il nemico! L'orco è già tornato a casa, e
non avendo trovato questa figliola, ora sta arrivando qui da noi con la coppola sottobraccio. Appena ebbe
sentito queste parole, Nardo sputò in terra e fece un mare di sapone: arrivato l'orco, e vista questa
saponata, corse a casa, e preso un sacco di crusca, prese a strofinarsela sui piedi, tanto e tanto che ce la
fece a superare l'ostacolo. Ma maso rimise l'orecchio in terra, e disse: - Tocca a te, compagno, sta
arrivando. E Nicola gettato il ferretto in terra fece germogliare un campo di rasoi. Ma l'orco, che si vide
sbarrato il passo, corse di nuovo a casa, e si vestì di ferro da capo a piedi, così tornò e superò anche questo
ostacolo. Ma Maso, piazzato ancora una volta l'orecchio a terra, gridò: - All'armi! All'armi! All'armi! fra poco
lo vedi, perché l'orco sata arrivando di gran carriera, che vola! E Micco, lesto lesto, col legnetto fece
crescere un bosco così terribile, che era una cosa difficile da penetrare. Ma appena l'orco arrivò a questo
brutto posto, impugnò un coltellaccio che gli pendeva dal fianco, e cominciò a fare crollare di qua un
pioppo, di là un cerro, a far precipitare un corniolo da una parte e un zzzsorbo peloso dall'altra. Tanto che in
un batter d'occhio, o al massimo in due o tre, aveva atterrato tutto il bosco, e si era liberato da quel
viluppo. Maso, che teneva l'orecchio sempre pronto, tornò a levare la voce: - Noi stiamo qui a cincischiare,
e invece l'orco ha messo le ali, e ora lo vedi alle nostre spalle. Petrullo, sentendo queste parole, prese una
sorsata d'acqua da un fontanella che pisciava goccia a goccia da una conchiglia di pietra, e spruzzatola in
terra, apparve un fiume immenso. Vedendo quest'altro ostacolo, l'orco, che non ce la faceva a bucare quel
che loro riuscivano a tappare, si spogliò tutto nudo e a nuoto, con i vestiti in capo, passò dall'altra parte,
Maso, che metteva l'orecchio a tutti i buchi, sentì il calpestio dei calcagni dell'orco, e disse: - Questo nostro
affare puzza di marcio, e l'orco sta già battendo i tacchi, fosse il cielo a dirtelo al posto mio, e allora stiamo
in campana e facciamo fronte a questo uragano, sennò siamo fritti. - Non dubitate, - disse Ascadeo, - che
ora gliela faccio vedere io a questo brutto miserabile. E dicendo questo, lanciò un sanno e fece apparire una
torre, dove si affrettarono a infilarsi tutti e sbarrarono la porta. Ma quando l'orco arrivò, vedendo che si
erano messi in salvo, corse a casa, trovò una scala da vendemmiatore, se la caricò sulle spalle e corse alla
torre. Maso, che stava con l'orecchio teso, sentì da lontano l'orco che arrivava, e disse: - Ora siamo giunti al
moccolo della candela delle nostre speranze: l'ultimo riparo delle nostre vite è Ceccone, perché ora torna
l'orco, ed è terribilmente infuriato. Ohimè! come mi batte il cuore e che brutta giornata prevedo! - Ma sei
proprio un cacasotto! - rispose Ceccone - lascia fare a Menechiello, e vedi se non centro il bersaglio con le
mie pallottole. Non aveva ancora finito di dire queste parole, quando l'orco appoggiò la scala, e cominciò ad
arrampicarsi, ma Ceccone prese la mira e centrandolo in un occhio lo fece cadere a terra come una pera
cotta. Allora sortì dalla torre, e con lo stesso coltellaccio che gli pendeva dal fianco, gli tagliò il collo, come
se fosse di cacioricotta. E con grande allegria lo portarono dal re, che andando in sollucchero per aver
riavuto la figlia, perché si era pentito cento volte di averla data a un orco, in pochi giorni le trovò un bel

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marito, e fece ricchi i sette figli e la mamma, che avevano liberato la figlia da una vita tanto infelice, senza
smettere di dichiararsi mille volte colpevole nei confronti di Porziella. Perché l'aveva messa in pericolo
tanto grande per un capriccio insensato, senza pensare quale erore commette chi cerca

ANALISI

Il racconto è una favola morale. La pulce è l'idea fissa, balzana che ti conduce a cercare cose impossibili, a
nutrire speranze su ciò che ti arrovella e che in definitiva diventa un tuo parassita.

Il re di Altomonte rappresenta un'autorità arrogante che sacrifica persino la propria figlia per mantenere il
suo potere. Il Basile evidenzia il tono, arrogante e fortemente lesivo della dignità dell'interlocutrice, che
tiene il re nei confronti della figlia. Ogni opposizione della figlia al suo progetto deve essere considerata
vana e inutile, dato che essa esiste in quanto sua coreggia.

Nel racconto si fa riferimento al numero sette, che simboleggia la compiutezza di un ciclo. Il numero sette
esprime di solito la compiutezza di un'azione. Col numero sette di solito si conclude un ciclo, un percorso.
Comunque i sette figli della vecchia sembrano personaggi dotati di tecnica, più che di magia, ma molto
spesso nelle antiche culture le due cose, tecnica e magia, si confondono

Per una sensata interpretazione metterei l'accento sul parassitismo che il re-padre consente. E' questa la
chiave per comprendere il racconto del Basile. Se il re consente che il parassitismo, la pulce, prosperi, la
società civile va a scatafascio e vengono premiati e vivono meglio le persone subdole, doppie, le persone
che hanno capito come funziona il mondo e ne approfittano. Il re avvilisce la figlia per mantenere questo
stato di cose che comunque gli permette di tenere un certo ordine.. la realtà storica della Napoli del primo
seicento. Il vice re ha raccolto presso Napoli tutti i nobili del regno concedendo loro delle prebende, delle
concessioni per raccogliere tasse e gabelle(fra cui quella sulla prostituzione) e, cosa rilevantissima, ha
consentito che essi, i nobili, non siano soggetti o siano poco soggetti alle tasse: questo comportamento è
paragonabile ad allevare una pulce, un parassita, col proprio sangue.

ad un esame attento il comportamento di questo orco può essere ricondotto ad una trasfigurazione in
negativo del dio greco-romano Bacco-Dioniso o meglio di un suo seguace, il Papposileno compagni delle
Menadi e delle Baccanti e quest'ultime, in qualche mito greco(Penteo, Orfeo) sono assassine e cannibali.
Indizi che portano a questa associazione sono le seguenti:

Il Basile in effetti menziona ceci e fave secche come metafora rispettivamente dell'antipasto e del dolce di
un banchetto di tipo cannibalico, probabilmente per il fatto che si danno a mangiare secchi. Il vero
banchetto, dice l'orco a Porziella, sarà consumato dopo che avrà ucciso in una battuta di caccia un porco
selvatico. Dopo l'abbattimento del porco, lo macellerà e lo porterà nella tavola imbandita presso cui si
troveranno tutti i parenti per festeggiare il nuovo legame.

E' possibile che egli sia anche nella significazione moderna un licantropo che sta fuori la notte. Infatti nel
cunto Porziella, quando accetta l'aiuto della vecchia, era sicura che il marito-orco quella sera non dovesse
rincasare. La licantropia dell'orco a sua volta è possibilmente connessa con certi riti segreti e demonici
attorno all'albero di noce di Benevento, frequentato dalle streghe. La pulce fa capolino nel racconto

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probabilmente per via del fatto che ci sono pulci sia della vite, sia delle leguminose. Non affrontare il
problema delle pulci e anzi farle progredire è da insensati.

LA CERVA FATATA (I/9°)

C'era una volta un certo re di Pergola Lunga, chiamato Iannone, il quale, desiderando grandemente dei figli,
faceva sempre pregare gli dei perché facessero gonfiare la pancia a sua moglie e, affinché si muovessero
per esaudire questo suo desiderio, era tanto caritatevole con i pellegrini che gli dava quanto di meglio si
trovava nel suo tesoro: ma siccome a un certo punto vide che le cose andavano per le lunghe e non c'era
verso che gli spuntasse nemmeno un germoglio, chiuse la porta a chiave e tirava di balestra a chi vi si
avvicinava.

E così, quando ebbe a passare da quelle parti un sapiente dalla lunga barba che ignorava il cambiamento di
registro del re, o che, essendone a conoscenza, intendeva porvi rimedio, recatosi da Iannone lo pregò di
ospitarlo nella sua casa. E il re, con un brutto cipiglio e modi scorbutici, gli disse: "Se non hai altra candela
che questa, puoi andare a letto al buio! è finito il tempo che Berta filava! ormai i gattini hanno gli occhi
aperti! e mamma non c'è più!"
E siccome il vecchio domandava la causa di questo cambiamento, gli rispose: "Io, per il desiderio di avere
figli, ho dato i miei denari a chi andava e a chi veniva, di qua e di là, buttando dalla finestra del mio; alla
fine, avendo visto che ci rimettevo la barba, ho ritratto la mano e levato il rasoio". "Se è solo per questo",
disse quel vecchio, "acquietati, che te la faccio rimanere subito incinta, ci scommetto le mie orecchie". "Se
farai quel che dici," disse il re, "avrai metà del mio regno, parola d'onore". E quello disse: "Allora, ascoltami
bene, se vuoi cogliere nel segno: fai prendere il cuore di un drago marino, e fallo cucinare da una fanciulla
vergine, che, appena sentirà l'odore di quella pignatta, anche lei si troverà la pancia piena; e quando questo
cuore sarà cotto, dallo da mangiare alla regina, che vedrai subito ingrossare, come se fosse di nove mesi".
"Come può succedere questa cosa?", replicò il re, "mi pare, per dirtela tutta, piuttosto dura da digerire".
"Non ti meravigliare," disse il vecchio, "ché se leggi la favola, vedrai che a Giunone quando passò su un
certo fiore nei campi Olani si gonfiò la pancia e figliò". "Se è così", disse allora il re, "che si trovi questo
cuore di drago senza metter tempo in mezzo. In fondo non ci perdo nulla". E così, mandati in mare cento
pescatori, prepararono tanti arpioni, chiusarani, paragranfi, buole, nasse, lenze e cime e tanto girarono e si
rigirarono che alla fine fu preso un drago, e levatogli il cuore lo portarono al re, che lo diede da cucinare a
una bella damigella. La quale, dopo essersi chiusa in una stanza, non fece in tempo a mettere al fuoco il
cuore e a farne uscire il fumo che non solo lei, bella cuoca, rimase incinta, ma tutti i mobili di casa
s'ingravidarono e in pochi giorni figliarono, tanto che il letto fece un lettino, il forziere uno scrigno, le sedie
delle seggioline, la tavola un tavolino e il vaso da notte un vasino smaltato così bello che a vederlo era una
delizia.

Quando il cuore fu cotto, appena la regina l'assaggiò si sentì gonfiare la pancia e in quattro giorni lei e la
damigella contemporaneamente fecero due bei maschioni, così simili fra loro che non si potevano

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distinguere uno dall'altro.
Questi bambini crebbero insieme con tanto affetto che non si separavano mai, ed era così totale l'amore
che sentivano uno per l'altro che la regina cominciò a essere un po' gelosa, perché suo figlio mostrava più
affetto per il figlio di una serva che per lei, e non sapeva come levarsi questo steccolo dall'occhio.
(Rileviamo alcune analogie tra la fiaba di Fonzo e Canneloro e la storia quella biblica di Isacco e Ismaele:
1. il motivo iniziale della sterilità della regina e di Sara;
2. due bambini che crescono insieme presso il re e presso Abramo;
3. la gelosia della regina che implica l'allontanamento di Ismaele/Candeloro, figlio della sua
serva/damigella;
4. l'esule Ismaele/Candeloro trova il suo popolo/regno.)

Ora capitò che un giorno, volendo il principe andare a caccia col suo compagno, fece accendere un fuoco
nel camino della sua stanza e cominciò a fondere il piombo per fare le pallottole, ma mancandogli non so
che, andò a cercarlo di persona. Arrivando proprio allora la regina per vedere che cosa faceva suo figlio, e
avendo trovato da solo Candeloro, il figlio della damigella, pensò di levarlo dal mondo e gli tirò una
pallottoliera rovente sulla faccia, per la qual cosa abbassandosi lo prese su un ciglio e gli fece una brutta
ferita; e stava già per colpirlo una seconda volta quando arrivò Fonzo, suo figlio, e lei, fingendo di essere
venuta a vedere come stava, dopo due moine se ne andò. Ma Candeloro, calcandosi un cappello sulla
fronte, non fece sospettare a Fonzo nulla di questo fatto, e non mosse un muscolo, nonostante si sentisse
bruciare dal dolore; e, quando ebbe finito di fare palle come uno scarabeo, chiese al principe il permesso di
partire. Ma siccome Fonzo si meravigliò di questa nuova decisione, gliene chiese il motivo. E quello rispose:
"Non chiedermi altro, Fonzo mio: ti deve bastare sapere che sono costretto a partire; e il Cielo sa come,
partendo da te, che sei il mio cuore, l'anima mi si divide dal petto, lo spirito mi fugge dal corpo, il sangue mi
svuota le vene. Ma siccome non si può fare altrimenti, abbi cura di te e non ti scordar di me". E cxosì, dopo
aver pianto mentre si abbracciavano abbracciati stretti stretti, Candeloro si avviò verso la sua camera, dove,
presa un'armatura e una spada, che era nata da un'altra arma quando si cuoceva il cuore, si armò di tutto
punto, prese un cavallo dalla stalla e intendeva infilare il piede nella staffa, quando lo raggiunse Fonzo
piangendo, dicendogli che, se proprio lo voleva abbandonare, gli lasciasse almeno un segno del suo amore,
col quale potesse lenire la pena della sua mancanza. A queste parole Candeloro, messo mano a un pugnale
lo piantò in terra e, sgorgatane una bella fontana, disse al principe: "Questo è il miglior ricordo che ti posso
lasciare, perché dal flusso di questa fontana saprai il corso della mia vita: ché se la vedrai scorrere chiara,
saprai che il mio stato è chiaro e tranquillo; se la vedrai torbida, immaginati che starò passando un guaio e
se la troverai secca (il cielo non lo voglia) fa' conto che l'olio della mia lampada è finito e che sono arrivato a
pagare la tassa che si deve alla Natura". E dopo averlo fatto mise mano alla spada, e ferendo la terra fece
nascere un ramo di mortella, e disse: "Finché la vedrai verde, saprai che sono vivo e vegeto; se la vedrai
appassita, dovrai pensare che le mie fortune si sono ingarbugliate; e se la troverai tutta secca, potrai
recitare il Requiem aeternam dona eis domine per il tuo Candeloro»

Detto questo, si abbracciarono ancora forte forte, e poi Candeloro partì e, cammina cammina, dopo varie
cose che gli capitarono, che sarebbero troppo lunghe da raccontare, come liti con i vetturini, imbrogli dei
tavernieri, ammazzamenti di gabellieri, pericoli di brutti incontri, scioglicorpo di mariuoli, alla fine arrivò nel
reame di Acque Dolci, dove in quel tempo si teneva una bellissima giostra, e la figlia del re era promessa al
vincitore. Dove essendosi presentato Candeloro si comportò così bravamente che disarcionò tutti i cavalieri
venuti da una parte e dall'altra a cercare fama e fortuna: per la qual cosa gli fu data in sposa Fenizia, la figlia
del re, e si fece una grandissima festa

Dopo che ebbero passato qualche mese in santa pace, l'umore di Candeloro diventò melanconico, per il
desiderio d'andare a caccia, e avendolo detto al re, questi gli rispose: "Bada bene di non andartele a
cercare, genero mio! guarda che Belzebù non ci metta la coda! sta' in campana! apri bene gli occhi,
messere, perché per questi boschi c'è un orco diabolico, che ogni giorno cambia aspetto, ora appare come
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un lupo, poi come un leone, poi come un cervo, e poi come un asino, e ora è una cosa e ora un'altra e con
mille stratagemmi trascina i poveretti che lo incontrano in una grotta, dove se li mangia. Perciò, figlio mio,
non mettere a rischio la salute, che tu non ci debba lasciare la pelle!"

Candeloro, che aveva lasciato la paura nella pancia della sua mamma, senza curarsi dei consigli del suocero
andò a caccia, tanto presto che il Sole con la scopa dei suoi raggi non aveva ancora spazzato la fuliggine
della Notte. E arrivato a un bosco - dove sotto la pergola delle fronde si riuniva la congrega delle ombre per
fare monopolio e congiurare contro il Sole - l'orco, vedendolo venire, si trasformò in una bella cerva, che
Candeloro, appena la vide, cominciò a inseguire dandole la caccia, e tanto la cerva lo menò di qua e di là e
lo fece passare di sopra e di sotto che il giovane si trovò nel cuore del bosco, dove l'orco fece cadere tanta
pioggia e tanta neve che pareva che il cielo stesse precipitando. E trovatosi Candeloro davanti alla grotta
dell'orco, entrò per ripararsi, ed essendo intirizzito per il freddo, prese certi legni che trovò là dentro e,
tirato fuori dalla sua sacca l'acciarino, accese un grande fuoco.

E mentre era lì che si scaldava e si asciugava i panni, la cerva si avvicinò all'imboccatura della grotta e disse:
"O signor cavaliere, dammi il permesso, che io possa scaldarmi un pochino, perché sono intirizzita dal
freddo". Candeloro, che era cortese, disse: "Avvicinati, che tu sia la benvenuta". "Io vengo," rispose la
cerva, "ma ho paura che poi tu mi uccida". "Non dubitare," replicò Candeloro, "vieni sulla mia parola". "Se
vuoi che venga," disse ancora la cerva, "lega questi cani, che non mi facciano del male, e attacca questo
cavallo, che non mi dia un calcio". E Candeloro legò i cani e impastoiò il cavallo. E la cerva disse: "Sì, ora mi
sento più sicura: ma se non leghi la spada io non entro, per l'anima di mio nonno!" E Candeloro, che aveva
voglia di addomesticare la cerva, legò la spada, come fa il villano quando la porta in città, per paura degli
sbirri. Ma l'orco, appena vide che Candeloro era inerme, riprese la sua forma orchesca, lo afferrò e lo calò in
una fossa che era in fondo alla grotta, chiudendone poi l'imboccatura con una pietra, per mangiarselo.

Ma Fonzo, che ogni mattina e ogni sera faceva visita alla mortella e alla fontana, per sapere come stava
Candeloro, avendo trovato quella appassita e quest'altra torbida, pensò subito che il suo amico carissimo
era nei guai e, desiderando portargli soccorso, senza chiedere il permesso al padre né alla madre si mise a
cavallo, e armatosi ben bene, con due cani fatati si avviò nel vasto mondo e tanto girò e rigirò da questa e
da quella parte che arrivò ad Acque Dolci, città che trovò parata a lutto perché credevano che Candeloro
fosse morto. Fonzo non fece in tempo ad arrivare a corte che tutti, credendo che fosse lui, per la loro
grande somiglianza, corsero per farsi dare il beveraggio da Fenizia, che scapicollandosi per le scale corse giù
e abbracciò Fonzo, dicendo: "Marito mio, cuore mio, e dove sei stato tutti questi giorni?"

Fonzo da questo fatto si ammoscò, e pensando che Candeloro fosse arrivato in questo paese e che poi se
ne fosse allontanato, si propose di esaminare con accortezza la situazione, pensando di far parlare la
principessa per capire dove potesse trovarlo. E sentendole dire che per questa maledetta caccia si era
messo troppo in pericolo, soprattutto se lo avesse trovato quell'orco tanto crudele con gli esseri umani,
trasse immediatamente la conclusione che proprio in quello si fosse imbattuto il suo amico, ma,
dissimulando i suoi pensieri, quando fu notte andò a coricarsi. Fingendo di aver fatto voto a Diana di non
toccare la moglie quella notte, mise la spada sfoderata fra sé e Fenizia e aspettò con impazienza che uscisse
il Sole a dare la pillole dorate al cielo per fagli evacuare l'ombra. Allora, alzatosi dal letto, non potendolo
trattenere né le preghiere di Fenizia né l'ordine del re, volle andare a caccia.

E montato a cavallo, con i cani fatati andò nel bosco, dove, essendogli capitato per filo e per segno quel che
era successo all'amico, quando entrò nella grotta, vide le armi di Candeloro, e i cani e il cavallo legati, per la
qual cosa fu sicuro di come fossero andate le cose. E quando la cerva gli chiese di legare le armi, i cani e il
cavallo, glieli aizzò contro, e così la fecero a pezzi. Poi, cercando altre tracce dell'amico, sentì un lamento
venire dal fondo della fossa, sollevò la pietra e ne fece uscire Candeloro con tutti gli altri che l'orco teneva
sepolti vivi per ingrassarli. E dopo essersi abbracciati con una festa grande tornarono a casa, dove Fenizia,
vedendoli uguali, non sapeva scegliere fra loro il marito: ma, alzato il cappello di Candeloro, vide la ferita, e,
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riconoscendolo, lo abbracciò. E dopo essere restato per un mese Fonzo a godersela in quel paese, volle
rimpatriare e ritornare al suo nido; e per mezzo suo Candeloro scrisse alla mamma che venisse a
partecipare alle sue grandezze, come fece, e d'allora in poi non volle saperne di cani né di caccia,
ricordandosi di quel detto: amaro chi a sue spese si castiga

differenza con Garrone.

Nel film è invece lei a desiderarlo più di qualsiasi altra cosa, così tanto che solo vedere la circense incinta la
distrugge. "Perchè questo cambiamento?".

E la risposta è addirittura nella cornice de Lo Cunto de li Cunti, ossia nella vicenda che fa da pretesto al
racconto di tutte le novelle

E in questa cornice c'è la Regina Zoza, una sovrana incapace di ridere.

, Garrone ha una grandissima trovata, prende la principessa della cornice e la porta dentro la novella de La
cerva fatata incastrandola perfettamente con la stessa motivando il non riuscire a ridere ed essere
perennemente triste con il desiderio di avere un figlio.

Il Re sente da un Mercante (e non una specie di Stregone come nel film) la soluzione al suo problema: E
NON si fa accenno al fatto che anche la vergine (zitella zita) che cuocerà il cuore resterà incinta (panza
'ntorzata) solo sentendo l'odore di quella cottura. nel film si imbarca nell'impresa lui stesso come atto
d'amore (morendo).

Nascono i due figli (in 4 giorni, non in una notte) e non si fa alcuna menzione al loro aspetto. Trovo invece
che la loro caratterizzazione fisica garroniana sia potentissima. Non si fa nemmeno nessun accenno alla
scena dell'acqua, molto bella nel film e anche importante per ricordare il legame con loro "padre", il Drago
Marino. In realtà tutte le vicende del film vengono taciute, e mi riferisco a loro che giocano insieme, il
labirinto, la scena di lei che li sente parlare o la sopracitata scena dell'acqua. in pochissime righe il Basile ci
dice solo della gelosia della madre e del suo tentativo di far fuori il fratellastro.

Il fratello povero deve quindi partire, e c'è la "promessa" della fontanella: Non solo la fontana però. il
fratellastro ripete le stesse cose anche riguardo un rametto di mortella (una specie di mirto). Se sarà verde
bene, appassito malino, secco è la fine. In effetti anche nella presentazione della novella vi si faceva
riferimento. nel film, SOLO UN ELEMENTO

Nella novella l'attenzione si sposta ora TOTALMENTE sul fratellastro e su quello che gli accade. Nel film una
volta partito poi non lo rivediamo finchè non è nella grotta. nel film,. L'Orco non esiste, non esiste
Candeloro principe, non esiste nulla.

Garrone questa l'abbia completamente stravolta, si è voluta creare questa storia del sacrifico, delle vite da
perdere al posto di altre. Succede sia all'inizio, per avere la gravidanza, sia verso la fine quando lo Stregone
fa capire alla madre che per far tornare Elias (nome nel film) ci sarebbe dovuto essere un sacrificio. Ed ecco
quindi il mostro garroniano, invenzione vera e propria del regista, non solo nelle fattezze e nella
drammaturgia, ma anche nel "significato" visto che, ricorderete, il mostro è la stessa madre che si sacrifica
per il figlio.

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LA VECCHIA SCORTICATA (I/10°)

DIFFERENZE CON GARRONE

La prima e unica differenza che per adesso possiamo già constatare è Nell'incantesimo che nell'originale
quindi è opera di sette fate diverse.

anche nella pellicola capire chi sia il/la protagonista della vicenda è veramente difficile.

La novella comincia con la descrizione fisica delle due vecchie, meritevole:Il Re è semplicemente un sovrano
che si innamora della voce della ragazza (senza esplicitamente sentirla cantare) e che è affascinato dal
mistero che si cela dietro quella casa/baracca.

Il Re, come Cassel, tenta di persuadere questa Grazia ad uscir fuori. Il problema è che le due vecchie sono
anche praticamente sorde (ca le vecchie avevano ’ntompagnato l’aurecchie), non sentono nulla di quello
che dice lui dal balcone.

Poi accade qualcosa di opposto al film. Nel racconto dei Racconti Cassel è così insistente che le vecchie sono
costrette a fare qualcosa, anche il minimo, mentre nella novella sono proprio loro a voler approfittare della
situazione, ossia di questa ossessiva attenzione che il Re mostra loro Non volevano insomma perdere
l'occasione di approfittarsi di un uccello (auciello) che quasi da solo (se stisso) si era infilato dentro una
trappola (schiaffare drinto a codavattolo). il cambiamento è grande e abbiamo la conferma che Garrone ha
voluto aggiungere "umanità" alle novelle mostrando le vecchie, o almeno quella prescelta, come una
tenera donna terrorizzata dalla situazione e disperatamente prigioniera della propria bruttezza. Come
successe con L'Orco anche qua Garrone ha tolto crudeltà in favore di una caratterizzazione più complessa.

C'è poi la promessa del dito assistiamo ad una scena identica al film, ossia il dito fuori, lui che ci amoreggia
e prega poi con tutte le forze che chi sta dentro si faccia vedere.

La vecchia ormai vuole approfittare ancora di più della situazione, e, come nel film, fa una richiesta al
Re:"ch’io sia recevuta a lo lietto vuostro de notte e senza cannela, perché non me sopporta lo core d’essere
vista nuda"Fino ad adesso, a parte diverse connotazioni psicologiche (il voler fregare il Re al posto di
trovare una soluzione a qull'insistenza) la novella è identica al film.

L'inquietante scena nel flm del "rattoppo" del corpo della vecchia è descritta BREVEMENTE: Capita spesso in
Basile di trovare parti tirate moltissimo per le lunghe (ad esempio descrizioni e dialoghi) e poi in solo una
riga accadono stravolgimenti di trama istantanei. Anche questo fa parte un pò del barocco, l'abbellimento
superiore alla narrazione (o struttura)

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Nel testo originario l'unico desiderio della vecchia è capire perchè la sorella sia giovane mentre nel film si
sarebbe semplicemente accontentata di restar là anche bruttissima e vecchia. Il volersi fare scorticare
quindi non è tanto un modo per assomigliare alla sorella ma l'unico per poter entrare a corte. Anche qua
notiamo come nel film ci sia un personaggio leggermente più "umano" visto che, appunto, lei sarebbe
restata anche da brutta per amore della sorella e voglia di cambiar vita mentre nella novella è pura e sola
invidia.

Va dal barbiere, la scorticatura viene descritta COME scena molto forte, un macello di sangue, stranamente
non mostrata da Garrone, dico stranamente perchè i dettagli horror nel film non mancano

La vecchia non torna scuoiata a palazzo (ottima scena nel film) ma muore durante il supplizio, così da
rendere più forte la morale finale "L'Invidia, figlio mio, distrugge sè stessa"

Storia riassunta

Sotto la casa di un Re – come poteva ad esempio accadere nei quartieri spagnoli a Napoli – vanno ad
abitare due vecchie sorelle che erano “il riassunto delle disgrazie, il protocollo delle deformità, il libro
mastro della bruttezza” e per giunta brontolavano per ogni piccola cosa accadesse sopra di loro, come in
ogni condominio che si rispetti. Ma proprio questa loro attitudine, finisce col convincere il Re che sotto le
sue finestre abitino delle impareggiabili e nobilissime grazie, tant’è che inizia una corte serrata alle due
invisibili racchie. Queste – ben lungi dal rifiutare una simile fortuna – finiscono con lo stare al gioco,
mostrando allo spasimante, dopo un lungo assedio e dal buco della serratura, solo un dito, tra l’altro della
più vecchia delle due, lungamente levigato per farlo sembrar nuovo. È il colpo di grazia: il Re decide di
congiungersi con la proprietaria del dito, per giunta completamente al buio, al fine di rispettarne la vantata
timidezza. Ed ecco che entra in gioco la chirurgia estetica: in vista del congiungimento carnale, la vecchia si
fa tirare ed annodare dietro la schiena tutte le pelli ciondolanti – oggi lo diremmo una sorta di lifting
integrale –, si infila nel talamo e si concede al buio al suo spasimante. Ahimè, il Re, nonostante la nobiltà
d’animo e di natali, si accorge tuttavia del triste nodo e ispezionata nel sonno la sua compagna, al chiarore
di una lucerna, va su tutte le furie, chiama le guardie e la fa gettare d’un pezzo dalla finestra.

A questo punto il racconto prende, tuttavia, una piega imprevista. La vecchia lanciata dalla finestra non
stramazza al suolo, ma resta impigliata in una pianta e viene avvistata da sette fate di passaggio che,
divertite dalla vicenda la prendono in giro, ma per ripagarla, la fanno diventare per magia “giovane, bella,
ricca, nobile, virtuosa, benvoluta e fortunata”.

Il Re, stupito dalla trasformazione e ritentato dalle nuove grazie della vecchietta rinnovata, ritorna sui suoi
passi e, dopo infinite scuse e promesse, la sposa. Tutti vissero felici e contenti? Vi chiederete. Non proprio.
La sorella della vecchia, invitata al matrimonio e invidiosa della sorte dell’altra, inizia a chiederle di continuo
il segreto della sua miracolosa trasformazione, fin quando la miracolata – per togliersela di torno – le dice
che per diventare come lei deve farsi scorticare. Detto, fatto. La sorella trova un barbiere che dopo molte
insistenze si presta a scorticarla viva con un rasoio fino a provocarne la morte.

Il fine didascalico è raggiunto e il racconto può dunque terminare con il motto: «la ‘nmidia, figlio mio, se
stessa smafara» [l’invidia, figlio mio, strugge se stessa].

ANALISI

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Ne La vecchia scorticata è presente invece il tema della lussuria. Le due vecchie protagoniste vedono un
gran gnocco, che è il principe della città e cercano in tutti i modi di riuscire a conquistarlo. Con un
escamotage, una delle due sorelle riesce a catturare l’attenzione del principe, questo grazie a un
ringiovanimento che la fa apparire meravigliosa. Ovviamente si guarda bene dal svelare alla sorella il trucco
e le fa credere che è riuscita a diventare così fregna togliendosi la pelle calante e la spinge così a morire
sotto le lame del barbiere che la scortica viva.

la narrazione si concentRA in modi perentori sulla figur della vecchia. A dir più precisamente: coincide con
la femminile attitudine all'inganno e con un insaNO desiderio di apparire , la rappresentazione di un
comportamento « seniLE varrà a porre in risalto la intensità del vizio. La « vecchia » è infatti « da sempre
seguace, debole ed astuta insieme, di forze malvage »; dimensioni profonde dell'immaginario essa appare «
all'intersezione » DI una « doppia negatività »: la vecchiaia e la femminilità.

Anche se le protagoniste del cunto «La vecchia scorticata» sono entrate in quella fase della vita che quasi
confina con la morte, la morte non viene nemmeno menzionata, se non alla fine, e poi arriva non come
fatto naturale, ma come conseguenza dell’atto sciocco della sorella più giovane. L’unico segno tangibile
della loro vecchiaia ormai avanzata è il loro aspetto fisico, la cui descrizione è portata all’estremo; per il
resto, possiamo dire che le due vecchiette hanno in dono qualcosa che in maniera stereotipata viene legato
esclusivamente al mondo dei giovani: la propensione al gioco e i “grilli per la testa”. la decadenza fisica è
quasi sempre unita a quella morale. oltre alla loro bruttezza flagrante, le vecchie, come spesso capita
nell’età avanzata, vantano anche un carattere infantile e un comportamento irragionevole, che sarà
scambiato da parte del loro vicino di casa, re di Roccaforte in persona, per gentilezza dell’animo. cosa sta
alla base di questa decisione di entrare nel gioco erotico con un re? Le vecchie sono assolutamente
consapevoli della propria età, nonché della propria “brutta cera” e di conseguenza anche del fatto che non
possono competere con delle ragazze giovani. Però loro le ragazze giovani ovviamente non le prendono
nemmeno in considerazione. La loro vita è talmente misera e bassa (anche letteralmente, loro sono
“‘ncaforchiate [rintanate]”, cfr. Basile 2013: 200), che questa proposta indecente da parte del re
rappresenta per loro l’ultima possibilità di sentirsi vive, di provare qualche trattenimiento del quale hanno
un enorme ed urgente bisogno. Ne hanno necessità loro, come ne hanno i piccirilli. Vogliono vedere uno
spettacolo, anzi lo vogliono vivere. In questo modo, l’autore si pone il compito non soltanto di raccontare
un cunto, ma di raccontare la propria epoca, che sottoponeva la stessa vita (e anche la morte) a una
continua teatralizzazione. l’importanza del gioco non trova una giustificazione soltanto intrinseca, nei
giochetti erotizzati ed erotici che si scambiano alternativamente le vecchiette e il re, accompagnati da
altrettanti giochetti di parole, ma fanno parte integrale dell’opera. I giochi aprono ciascuna delle cinque
giornate e insieme ai cunti rappresentano il principale passatempo della compagnia. Eppure, il valore che i
narratori danno al gioco va oltre il semplice trattenemiento e presuppone soprattutto un impegno mentale.
Là dove c’è gioco, c’è anche la voglia di pensare, di trasgredire, di competere che alla fine può portare
soltanto ai vantaggi, come viene spiegato nell’apertura dell’ultima giornata, quando Cola Iacovo, scalco di
corte, propone lo iuoco de li iuoche, dicendo che “ [perché con questo tipo di giochi non solo si passa il
tempo, ma si risvegliano e si rendono pronti gli ingegni nel prendere decisioni e nel rispondere a quanto si
chiede]

“non è un caso che col tema della sessuofobia si incroci quello di una perversione che quasi sconfina in una
forma oscura di masochismo” perché il re non si fa intimidire dalla ripugnanza lampante della vecchia, ma
fantasioso com’è, “[diede fondo in un Mandracchio mentre credeva di stare sulla costa di Posillipo e navigò
su una barcaccia pensando di far vela con una galea fiorentina]” (basile 2013: 208). Per ora, il riso che
nasce, provocato dalla goffaggine della vecchia, dall’equivoco creato, dall’erotomania del re, ecc. è un riso
che viene destinato al pubblico “esterno”. Ma come succede con il gioco, anche il riso, come vedremo, sarà
moltiplicato e rivalorizzato all’interno dello stesso cunto. Quando la vecchietta cade in un sonno profondo,
il re accende una lucerna con la quale si accerta di quello che intimamente già sapeva. Sino a questo
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momento non c’è nessun incantesimo, nessuna magia, c’è soltanto un equivoco dalle dimensioni fatali che
nasconde, però, un’altra spia fondamentale che preannuncia la metamorfosi finale: la storia di Psiche e
amore. italo Calvino (2001: XlViii) sosteneva che il mito di Psiche e amore era dominante nelle fiabe e nei
racconti popolari italiani. in Lo Cunto de li Cunti, il Basile legge il mito in chiave barocca, ovvero alla
rovescia, rifiutando le interpretazioni tipiche delle epoche precedenti che assegnavano all’interpretazione
del mito una dominante dimensione religiosa. e poi le rimodella, cambiando a volte anche i ruoli di Psiche e
di amore e riconfermando sì che la rivelazione conseguita alla fine della ricerca dell’anima è il risveglio, ma
un risveglio in mezzo all’orrore quotidiano (Maggi 2015: 3–35). L’orrore viene crudelmente buttato dalla
finestra, ma fortunatamente salvato da un albero. FATE-RISO In questo modo, il riso alla pari del gioco che
fu all’origine dell’intero processo, inaspettatamente porterà un “guadagno” decisivo, cambiando il destino
della protagonista. Il dono delle fate consiste in una metamorfosi radicale, sia il corpo della vecchietta che il
suo status sociale,

è la novella fondamentale che giustifica tutte le altre novelle che vengono affabulate al suo interno” (Picone
2003: 299). L’incapacità di zoza di ridere è legata alla sua immaturità sessuale. Il suo umore dominante
trasmuterà grazie all’oscenità, questa volta di un’altra vecchia, che mostrerà impudicamente il proprio
sesso davanti agli occhi della ragazza. La vista dei genitali della vecchia implica la scoperta e la coscienza
intima della propria mancanza e il riso che ne consegue, arriva soprattutto come una reazione liberatoria,
segnando l’inizio di un lungo percorso verso la maturità e la sua iniziazione emotiva e sessuale. Attraverso il
gioco, la malinconia, il riso e la metamorfosi, il Basile offre la sua visione della vita e del tempo, visti non più
come qualcosa di rigido, dotato di un proprio inizio e di una propria fine definitiva, ma come qualcosa di
instabile, un processo eterno che cambia soltanto la forma e trabocca da un’immagine all’altra

RIASSUNTO ANALISI

esplora il tema del gioco, della decadenza fisica e morale, della sessuofobia e del masochismo attraverso
l'analisi del cunto "La vecchia scorticata". Le protagoniste, nonostante la loro età avanzata e la bruttezza
fisica, mostrano una propensione al gioco e un comportamento infantile. Il loro coinvolgimento in un gioco
erotico con il re rappresenta per loro un'ultima possibilità di sentirsi vive. L'articolo esplora anche il tema
della metamorfosi e del risveglio attraverso l'analisi del mito di Psiche e Amore.

Inoltre, esamina il ruolo del gioco non solo come puro divertimento ma anche come stimolo intellettuale,
un mezzo per pensare, trasgredire e competere. Questi elementi sono evidenziati nell'interazione tra le
vecchie e il re, dove i giochi erotici e le parole giocose sono parte integrante della narrazione. La storia
sottolinea l'importanza del gioco, non solo per il divertimento, ma anche per lo sviluppo mentale e
l'ingegno.

si addentra anche nel tema della sessuofobia, esplorando come questa si incroci con una forma di
perversione che quasi sconfina nel masochismo. Nonostante la repulsione iniziale del re per la vecchia, la
sua immaginazione lo porta a proseguire nel gioco erotico. Questa dinamica è vista come un risveglio in
mezzo all'orrore quotidiano, un tema che rimanda al mito di Psiche e Amore.

Infine, analizza la metamorfosi delle protagoniste, non solo nel loro aspetto fisico, ma anche nel loro status
sociale, sottolineando l'importanza del cambio di prospettiva e della trasformazione nel corso della vita.
Questo concetto viene ulteriormente esplorato attraverso la storia di Zoza, la cui incapacità di ridere è
legata alla sua immaturità sessuale e la sua metamorfosi avviene attraverso l'iniziazione emotiva e sessuale.

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CAGLIUSO (II/4°)

C'era una volta nella mia città di Napoli, un vecchio pezzente miserabile e senza un soldo, dalle tasche così
vuote, senza il minimo gonfiore al borsellino, che se ne andava in giro nudo come un pidocchio. E un giorno,
nel mentre che sentì svuotarsi i sacchi della vita, chiamò a sé Oraziello e Pippo, i suoi due figli, dicendo loro:
"Sono stato ormai citato in giudizio a pagare il mio debito con la Natura; e credetemi, se siete dei buoni
cristiani, che proverei un gran sollievo alla sola idea di essere finalmente liberato da questo inferno
d'affanni, da questo porcile di travagli, se non fosse che vi lascio in una miseria immensa quanto la chiesa di
Santa Chiara, abbandonati come straccioni sulle cinque vie di Melito, puliti come la bacinella di un barbiere,
leggeri come l'acqua e secchi come un nocciolo di prugna, senza una briciola di beni che trasporterebbe una
mosca su una zampa sola, che, manco se correste cento miglia potreste perdervi per strada uno spicciolo. E
tutto questo perché il mio destino infame e crudele mi ha condotto alla merda dei cani, e come cacca son
rimasto anch'io, tanto che ora m'abbandona persino la vita, e come mi vedi, così mi puoi descrivere, che
sempre, come sapete, ho fatto sbadigli e segni della croce, e alla fine son andato a letto senza candela.
Nonostante tutto questo, ora che sto per morire, voglio ugualmente lasciarvi un qualche segno d'amore;
perciò, a te, Oraziello, che sei il mio primogenito, voglio lasciare quel setaccio che sta appeso al muro e con
il quale ti potrai guadagnare il pane; e tu, che sei il cucciolo di casa, pigliati la gatta, e ricordatevi sempre del
vostro papà." E così dicendo, scoppiò in lacrime e poco dopo disse: "Addio che è notte!". Oraziello, dunque,
una volta sepolto il padre, si prese per sé il setaccio e cominciò a correre a destra e a manca per
guadagnarsi da vivere, tanto che, più setacciava, e i più guadagnava. Mentre Pippo, presa con sé la gatta,
cominciò a dire: "Ma tu guarda che grama eredità che mi ha lasciato mio padre! Non mi resta un centesimo
bucato per me, e ora mi tocca sfamare anche te! Che cosa dovrei farmene di questo misero lascito? Quasi
quasi sarebbe stato meglio se non mi avesse lasciato nulla!" Ma la gatta, sentendo tali lamentele, gli disse:
"Tu ti lamenti anzitempo, senza neanche immaginare lontanamente la fortuna che ti è capitata per le mani,
perché io son capace anche di farti diventare ricco, se mi ci metto!" Pippo, nel sentire una simile
dichiarazione, ringraziò sua Sua Gatteria, e, facendole tre o quattro carezze sulla schiena, prese a
raccomandarsi caldamente, tanto che la gatta, che ebbe compassione per il povero disgraziato Cagliuso, ed
ogni mattina, quando il Sole, attirato all'amo d'oro della luce, pesca le ombre della Notte, s'appostava alla
spiaggia di Chiaia o alla Pietra del Pesce, e, avvistando qualche grosso cefalo o una bella orata, con le sue
zampette afferrava le sventurate prede e andava dritta di filato a consegnarle al re, dicendo: "Il mio
padrone, Messer Cagliuso, fedele suddito di Vostra Maestà per l'eternità, vi omaggia di questo pescato con
queste precise parole: "Un piccolo dono, per un grande uomo." " Il re, tutto lusingato come accade in questi
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casi, fece una faccia allegra, e rispose alla gatta: "Dì al tuo signore che non lo conosco, ma che lo ringrazio
infinitamente." Qualche altra volta, invece, la gatta si recava in zone di caccia, nella palude o agli Astroni, e
s'appostava, aspettando che i cacciatori facessero cadere in terra le loro prede, che potevano essere, una
volta un rigogolo, altre, una cinciallegra o ancora, una capinera, e, furtivamente le catturava e dritta, volava
a portarle al re, richiamandosi ogni volta alla medesima ambasciata. E usò questo trucco così a lungo, che
una mattina il re le disse: "Io mi sento così obbligato nei confronti del tuo padron Cagliuso, che desidero
conoscerlo, per poter ricambiare tutta la gentilezza che egli ha usato verso di me." Al che, la gatta rispose:
"L'unica missione che ha nel cuore il mio padrone, è quella di impiegare la sua vita e il suo stesso sangue
per servire la Vostra Sacra Corona; pertanto, uno di questi giorni, quando il Sole avrà dato fuoco alle
stoppie dei campi dell'aria, verrà senz'altro a rendervi omaggio." Così, quando fu il momento, la gatta tornò
dal re, e gli disse: "Signore mio, Messer Cagliuso Vi porge le sue più umili scuse, ma non può venire, perché
stanotte certe cameriere disoneste sono fuggite e l'hanno lasciato in maniche di camicia." Il re, sentendo
tutto ciò, ordinò ai servi di prelevare dal suo guardaroba personale biancheria e abiti e li inviò a Cagliuso.
Non passarono due ore che il ragazzo si recò al palazzo reale, scortato dalla sua gatta; il re lo ricevette con
tutti gli onori, lo fece sedere accanto a sé, e ordinò per lui un banchetto luculliano. Ma mentre mangiava, di
tanto in tanto Cagliuso diceva alla gatta: "Micetta mia, ti raccomando quei quattro stracci, fà in modo che
non vadano perduti." E la gatta rispondeva: "Zitto, stolto, o ci scopriranno!" E il re, volendo sapere cosa
stesse succedendo, la gatta rispose che l'era venuta una voglia tremenda di limoni, così, il re mandò un
servo in giardino a prendergliene un cestino pieno. Ma dopo un pò, Cagliuso si rifaceva sotto con la stessa
musica, rampognando sugli stracci e le pezze, ed ecco che la gatta doveva affrettarsi a trovare un altra scusa
per rimediare alle fesserie di Cagliuso. Finito il lauto pasto, dopo aver mangiato e chiacchierato in
abbondanza di questo e di quello, Cagliuso si congedò, mentre quella volpe della gatta si trattenne con il re,
facendogli una bella sviolinata sulle qualità e sul valore del padrone, vantandosi dell'ingegno di quell'idiota
di Cagliuso, e sopratutto, lodandone le vaste ricchezze sparse per le campagne lombarde e romane, e
facendogli notare che una tal virtù lo rendeva degno di diventare parente di un sovrano. Il re volle sapere a
quanto ammontasse il patrimonio di Cagliuso, ma la gatta rispose che non si poteva tenere il conto dei
mobili, degli stabili e delle suppellettili di questo riccone, che non sapeva quello che aveva, ma che se il re
avesse voluto informarsi, avrebbe potuto inviare i suoi fedeli a vedere, e avrebbe avuto la prova che non
v'era al mondo ricchezza più grande. Così, il re mandò a chiamare i suoi dignitari e ordinò loro di prendere
precise informazioni sui possedimenti di Cagliuso, ed essi seguirono la gatta, la quale, con la scusa di fargli
trovare un pò di frescura per la strada, appena furono fuori dai confini del regno, quatta quatta s'affrettò a
distanziarli, ed ogni volta che incontrava qualche gregge di pecore, delle mandrie di vacche, o di altri
animali di valore, diceva a gran voce ai pastori e ai guardiani: "Ehi, voi, se ci tenete alla pellaccia, vi consiglio
di andarvene subito, perché ci sono in giro dei banditi che razziano per tutta la campagna! Perciò, se volete
salvarvi e preservare i vostri averi, dite che tutto quello che si trova qui intorno, appartiene a Messer
Cagliuso, e non vi torceranno un solo capello." Lo stesso diceva quando incontrava delle fattorie: ovunque
arrivava il corteo del re, trovava la zampogna accordata, e chiunque confermava che tutto quanto c'era nei
paraggi, apparteneva al signor Cagliuso. Così, a forza di domandare, alla fine si stancarono e tornarono dal
re, raccontando mari e monti sui possedimenti di Messer Cagliuso. A quel punto, il re promise un lauto
compenso alla gatta se avesse combinato il matrimonio, e la bestiola, uan volta fatta la spola di qua e di là,
concluse gli accordi e le nozze furono celebrate. Il re consegnò una grosse dote a Cagliuso, ed egli, dopo un
mese di baldoria, disse che desiderava portare con sé la sposa a visitare le sue terre, e, accompagnati dal re
fino al confine, se ne andò in Lombardia, dove, sotto consiglio della gatta comprò svariate terre e proprietà,
finché diventò un barone.

Così, Cagliuso, che si vide arricchire a piene mani, ringraziò a non finire la gatta, dichiarandosi suo eterno
debitore, perché riconosceva che senza il suo aiuto, non avrebbe mai conseguito fama e ricchezza. Si disse
immensamente grato a quella gatta, che con i suoi artifici era riuscita a cambiargli la vita, molto di più di
quanto avesse mai fatto l'ingegno di suo padre, e aggiunse che da quel momento essa poteva fare e disfare
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della sua vita come più le aggradava, e le diede la sua parola d'onore che se fosse morta, di lì a cent'anni,
l'avrebbe fatta imbalsamare e mettere dentro ad una gabbia d'oro, e che l'avrebbe custodita per sempre in
camera sua, per tenere per sempre vivo il suo ricordo. La gatta, di fronte a quella sparata, dopo neanche tre
giorni si finse morta e si distese per la lunga in giardino; il fatto, però, non sfuggì agli occhi della moglie di
Cagliuso, la quale gridò: "Oh, marito mio, vieni a vedere! Che disgrazia! La gatta è morta!" E Cagliuso: "Oh,
bhè, che il diavolo la porti. Meglio lei che noi!" "Ma cosa ne faremo?" replicò la moglie. "Prendila per una
zampa e buttala dalla finestra."

La gatta, sentendo tanta ingratitudine come mai si sarebbe sognata, cominciò a dire: "Bhè, sarebbe questo
il ringraziamento per tutti i pidocchi che t'ho leccato via dal collo? Sarebbero questi i tuoi mille grazie per gli
stracci che ti ho fatto buttare, che a malapena ti coprivano il culo? Questo è quanto ho guadagnato dopo
che ti ho ripulito e rivestito? Dopo che da pezzente, sbrindellato, pidocchioso, straccione e miserabile, ti ho
sfamato quando morivi di fame, e trasformato in gran signore? Si, si, ecco quel che si guadagna a fare del
bene agli asini! Vattene, e maledetto il giorno che ti ho incontrato, visto che ti sei già scordato tutto quello
che ho fatto per te! Vattene, scalzacane, che meriteresti soltanto uno sputo in un occhio per la tua
ingratitudine! Bella gabbia d'oro che mi avevi costruito, bella sepoltura che avevi programmato per me!
Vattene, sgobba tu, lavora, fatica, stenta, suda tu, adesso, per essere ringraziato in questo modo! Reietto
sia chi mette sul fuoco la pignatta per le speranze del suo prossimo. Diceva bene quel filosofo: Chi asino
nasce, asino crepa! Insomma, chi più fa, meno aspetta. Ma sono solo belle parole e pessimi fatti che
ingannano solo i matti e i saggi." E così dicendo, scappò via, e, per quanto Cagliuso, con il polmone
dell'umiltà, cercasse di farsi d'ingraziarsela, non ci fu più verso di farla ritornare sui suoi passi, ma, correndo
via senza neanche guardarsi più indietro, diceva:

"Dio ci scampi dal ricco quando è impoverito


e dal pezzente quando s'è arricchito."

ANALISI

Il racconto popolare probabilmente divideva i poveri in lavoratori che a stento riuscivano a mantenere loro
stessi e la famiglia (lavoratori assimilati a Oraziello che ha ereditato il setaccio) e fannulloni, mendicanti e
perdigiorno(persone assimilate a Pippo). La gatta fa la differenza e con il suo tramite Pippo diventa
Cagliuso, cioè quel pezzettino di caglio col quale si fermenta la farina per fare il pane. Probabilmente il
Basile aveva compreso il congegno del racconto popolare e aveva, infatti, sottolineato come Oraziello fosse
un lavoratore a cottimo, e che cioè guadagnava quanto era in grado di lavorare grazie all'arnese ereditato.
Probabilmente non ebbe il tempo di rifinire il cunto e probabilmente il primo curatore del "Cunto de li
cunti" ( la sorella Adriana o un suo incaricato) non colse la vera significazione del racconto popolare e si
adagiò sulla versione dello Straparola. Il racconto popolare originario, probabilmente, voleva dire che per
diventare persona che conta non è necessario fare grandi cose, ma piuttosto dare a credere di esserla, col
millantare virtù, beni inesistenti e prostrarsi ai potenti con regali di piccolo conto. Questa è la strada che
deve percorrere il cortigiano per arrivare in alto e sedere accanto al re. La gatta si avvicina a un demone-
mago che forza il destino dandogli una grossa spinta: un millantatore che fa dei regali interessati ai potenti
per avere un contraccambio nella occasione che conta. In effetti sono proprio i cortigiani, spesso molto
indebitati, che usano la maschera del gatto, la galanteria, che hanno modi di fare charmant, che hanno
soprattutto la parola molto convincente. Ci sarà pure qualcosa di "intoccabile", qualcosa o qualche
personaggio, come l'innominato del Manzoni, che detta legge quando il potere è traballante; e allora la
gatta fa appello a questo personaggio e millanta ai contadini, ai pastori e ai fattori che solo dichiarando che
quelle terre, quegli armenti, quelle fattorie sono di Messer Cagliuso, potranno stare sicuri che i banditi non
li deruberanno e non gli torceranno un capello. Nel racconto popolare è inoltre avvertito il sistema dei
nobili scialacquatori per mantenersi a galla, nonostante tutto: cioè sposare donne ricche che possano
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portare una dote come nel caso della figlia del re.
l'imbalsamazione era la premessa affinchè il felino di casa potesse portare fortuna, ma nel cunto del Basile
è stata posta come testimonianza del falso discorso di colui che vive da cortigiano, ma che vero cortigiano
non è, o perché non ha più i mezzi per continuare a farlo, o perché è un parvenu, una persona che si è
aggiunta da poco alla nobiltà per acquisizione di beni e titoli. Se il felino va via, ciò implica che la fortuna di
Cagliuso non poggi più su basi solide: da un momento all'altro potrà ridiventare un Pippo qualsiasi

L’ORSA (II/6°)

si racconta che c'era una volta il re di Roccaspra, che aveva per moglie la mamma della bellezza, che, nel
meglio degli anni, cadde dal cavallo della salute e si ruppe la vita. Ma, prima che si spegnesse la candela del
vivere all'asta degli anni, chiamò il marito e gli disse: "So che mi hai sempre amata con tutte le tue ciliegine;
per questo mostrami al fondiglio dei miei anni la schiuma del tuo amore, promettimi di non sposarti mai se
non trovi un'altra donna bella come sono stata bella io, altrimenti ti lascio una maledizione a tette
spremute e ti odierò fin dentro l'altro mondo". Il re, che le voleva bene da qua fino al terrazzo, sentendo
quest'ultima volontà scoppiò a piangere e a lungo non riuscì a rispondere una sola maledetta parola. Alla
fine, quando smise di lamentarsi, le disse: "Prima che io voglia saperne più di moglie mi venga la gotta, mi
colpisca la lancia catalana, sia fatto a pezzi come Storace. Bene mio, dimenticatelo, non sognare neanche
che io possa amare un'altra femmina! Tu sei stata l'inizio dei miei affetti, e tu porterai con te gli stracci dei
miei desideri". Mentre lui diceva queste parole, la povera giovane, che già rantolava, rovesciò gli occhi e
stese i piedi. Il re, quando vide che Patria era stata stappata, stappò le fontanelle degli occhi e fece uno
battitoio e uno strillatoio da fare accorrere tutta la corte, chiamando per nome quell'anima buona,
maledicendo la fortuna che gliel'aveva portata via e, strappandosi la barba, rimproverava le stelle di avergli
mandato questa disgrazia. Ma, visto che decise di fare come si dice: «dolore di gomito e dolore di moglie fa
molto male e dura poco, due: una nella fossa e l'altra sulla coscia», la Notte non era ancora uscita sulla
piazza d'armi del cielo a passare in rivista i pipistrelli, che cominciò a farsi i conti sulle dita: "Ecco che mi è
morta mia moglie e io resto vedovo e disgraziato senza altre speranze di vedere altro se non questa povera
figlia che mi ha lasciato. Per questo sarà necessario cercare di trovare qualcosa di adatto per farci un figlio
maschio. Ma dove vado a sbattere? Dove trovo una femmina che abbia le bellezze di mia moglie, se tutte le
altre sembrano mostracci al confronto? Ora, qua ti voglio! Dove ne trovi un'altra, col bastone? Dove ne
cerchi un'altra, col campanello? Se la Natura ha fatto Nardella, che sia in gloria, e poi ha rotto lo stampo?
Ohimè in che labirinto mi ha ficcato, sotto che torchio sta la promessa che le ho fatto!ma che? Non ho
neanche visto il lupo e già scappo? Cerchiamo, vediamo e comprendiamo: è possibile che non ci sia un'altra
asina per la stalla di Nardella? È possibile che per me il mondo sia finito? C'è forse penuria o carestia di
femmine? O se n'è perduto il seme?". Dicendo così fece subito pubblicare un bando e un ordine, di quelli di
mastro Iommiento, che tutte le belle femmine del mondo venissero a una prova di bellezza, perché voleva
prendere in moglie la più bella e darle in dote il regno. Sparsa la voce dappertutto, non ci fu femmina
dell'universo che non venisse a tentare la sorte, non restò bruttina, per deforme che fosse, che non si
mettesse in mezzo, perché quando si tocca quest'argomento della bellezza non c'è bubbone che non si dia
per vinta, non c'è orca marina che si arrenda: ognuna si impunta, ognuna vuole avere la meglio! E se lo
specchio le racconta la verità dà la colpa al vetro, che non la riflette com'è, e all'argento vivo, che è stato
spalmato di traverso. Ora, quando il paese fu pieno di femmine, il re le fece mettere in fila e cominciò a
camminare, come fa il Gran Turco quando entra nel Serraglio per scegliere la migliore pietra da mola per

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affilare il suo coltello damaschino; e, andando e venendo su e giù, come una scimmia che non sta mai
ferma, e covando e squadrando questa e quella, una gli sembrava storta di fronte, una di naso lungo, chi di
bocca larga, chi di labbra grosse, questa troppo alta, quella troppo bassa e malfatta, chi troppo gonfia, chi
eccessivamente gracilina; la spagnola non gli piaceva per il suo colorito gialliccio, la napoletana non gli
andava a genio per i tacchi con cui cammina, la tedesca gli sembrava fredda e gelata, la francese col
cervellino troppo leggero, la veneziana una conocchia di lino con i capelli sbiaditi. Alla fine della fine, chi per
una ragione e chi per l'altra, le mandò tutte via con una mano davanti e una mano di dietro; e, vedendo che
tante belle facce erano andate a male, deciso a ingozzarsi andò a sbattere su sua figlia, dicendo: "Perché
vado cercando Maria a Ravenna? Se Preziosa, mia figlia, è fatta con lo stesso stampo della mamma? Ho
questa bella faccia in casa e la vado cercando in culo al mondo?". E, fatto capire questo ragionamento alla
figlia, si prese una sfuriata e una strillata che il cielo te la racconti al posto mio. Il re, tutto infuriato, le disse:
"Abbassa la voce e infilati la lingua là dietro, stringiamo stasera questo nodo matrimoniale, altrimenti il
pezzo più grande di te sarà l'orecchio!". Preziosa, sentita questa decisione, si ritirò nella sua camera e
piangendo questa malasorte si strappava a ciuffi i capelli; e, mentre stava in questo triste lamento, se ne
arrivò una vecchia che di solito le portava i belletti e che, trovandola più nell'altro mondo che su questo e
sentita la ragione del suo dolore, le disse: "Stai di buonumore, figlia mia, non disperarti, perché per ogni
male c'è un rimedio, fuorché per la Morte. Ora ascoltami: quando tuo padre, che è un asino, vorrà fare da
stallone, tu infilati questo bastoncino in bocca, immediatamente diventerai un'orsa e fuggirai via, perché
lui, per la paura, ti lascerà andare e vattene difilato nel bosco, dove il cielo ti ha conservato la tua fortuna. E
quando vuoi sembrare femmina, come sei e sarai sempre, levati il bastoncino da bocca e tornerai come
prima". Preziosa abbracciò la vecchia e le fece dare una bella grembialata di farina e di fette di prosciutto e
di lardo e la mandò via (quando il Sole, come una puttana fallita, cominciò a cambiare quartiere) il re fece
venire i musicanti e, invitati tutti i signori vassalli, fece una grande festa; e quando ebbero fatto cinque o sei
ore di ballo si misero a tavola e, dopo aver mangiato oltre misura, lui se ne andò a dormire. E, chiamando la
sposa per farsi portare il quaderno su cui saldare i conti dell'amore, lei, messo il bastoncino in bocca, si
trasformò in un orso terribile e gli andò incontro. Lui, terrorizzato da questo prodigio, si arrotolò dentro i
materassi da dove non tirò fuori la testa neanche la mattina. Frattanto Preziosa se ne uscì e si avviò verso
un bosco(dove le ombre avevano stabilito un monopolio, come se potessero, allo scoccare delle
ventiquattro, dare qualche fastidio al Sole) dove restò in dolce conversazione con gli altri animali, finché
venne a caccia da quelle parti il figlio del re di Acquacorrente, che, vedendo quest'orsa, stava per morire
dalla paura. Ma, accortosi che questa bestia, accucciandosi e dimenando la coda come un cagnolino, gli
girava intorno, si fece coraggio e accarezzandola, dicendole "cuccia cuccia, miao miao, cip cip, tu tu, grunf
grunf,quanck quack", se la portò a casa, ordinando che se ne prendessero cura come si trattasse di lui
stesso e la fece mettere in un giardino accanto al palazzo reale, per poterla sempre vedere, quando volesse,
da una finestra. Allora, il principe, una volta che tutti erano usciti da casa ed era rimasto solo, si affacciò per
vedere l'orsa e vide che Preziosa, per acconciarsi i capelli, si era tolta il bastoncino di bocca e si pettinava le
sue trecce d'oro. Per questo, vedendo questa bellezza incredibile stava svenendo per lo stupore e,
gettandosi giù per le scale, corse in giardino. Ma Preziosa, accortasi dell'agguato, s'infilò il bastoncino in
bocca e tornò com'era. Il Principe, sceso giù e non trovando quello che aveva visto da sopra, restò così
stupito da quest'inganno che preso da una grande malinconia in quattro giorni cadde malato dicendo
continuamente: "Ora, orsa mia". La mamma, sentendo questo lamento, pensò che l'orsa gli avesse fatto
qualche malazione e diede ordine che fosse ammazzata. Ma i servi, che ne erano invaghiti per la
suadimestichezza, perché riusciva a farsi amare anche dalle pietre della strada, impietositisi, invece di farne
un macello la portarono nel bosco e riferirono alla regina che l'avevano fatta fuori.

Quando il principe seppe questo fece cose da non credere e, alzato dal letto, voleva fare a pezzetti i servi;
ma quando ebbe sentito da loro come era andata la faccenda si lanciò sul cavallo e tanto cercò e girò che,
trovata l'orsa, la portò di nuovo a casa e spintala in una stanza, le disse: "O bel boccone di re, che stai
rintanato in questa pelle! O candela d'amore, che stai chiusa in questa lanterna pelosa! Perché farmi questi
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cucù-seté, per vedermi consumare pelo dopo pelo? Io muoio affamato, consumato e stremato per questa
bellezza, e tu ne vedi le prove evidenti, perché io sono ridotto a un terzo come il vino bollito, non ho altro
che l'osso e la pelle, la febbre si è cucita come il filo doppio su queste vene. Perciò alza la tela di questo
cuoio puzzolente e fammi vedere l'apparato delle tue bellezze, togli togli le fronde da questa cesta e fammi
guardare questi bei frutti; alza questa cortina e fai passare gli occhi a vedere la pompa delle meraviglie! Chi
ha messo in un carcere di peli un'opera così liscia? Chi ha chiuso in uno scrigno di cuoio un tesoro così
bello? Fammi vedere questo mostro di grazia e prenditi in pagamento tutti i miei desideri, bene mio, perché
soltanto il grasso di quest'orsa può essere rimedio per i miei nervi rattrappiti!" Ma dopo aver detto e
ridetto, visto che sprecava invano le sue parole, tornò a gettarsi a letto e gli venne un così terribile
accidente che i medici pronosticarono un cattivo esito di questa faccenda. La mamma, che non aveva altro
bene al mondo, seduta accanto al letto gli disse: "Figlio mio, da dove arriva tanta rabbia? Che malinconia ti
ha afferrato? Tu sei giovane, sei amato, sei grande, sei ricco: cosa ti manca, figlio mio? Parla: il povero che si
vergogna resta a tasche vuote. Se vuoi moglie, tu sceglila e io do la caparra, tu prendi e io pago. Non vedi
che il tuo malanno è malanno mio? A te batte il polso, a me batte il cuore; tu hai la febbre nel sangue, io
l'accidente nella testa, non avendo altro sostegno della mia vecchiaia se non te. Per questo stammi allegro
per rallegrare questo cuore e non vedere rovinato questo regno, crollata questa casa e rasata questa
mamma". Il principe, a queste parole, disse: "Niente mi può consolare se non la vista dell'orsa. Per questo,
se volete vedermi sano, fatela stare in questa camera e non voglio che nessuno altro si prenda cura di me e
mi faccia il letto e cucini per me se non lei, perché senz'altro, con questo piacere, tornerò sano in quattro
pizzichi". La mamma, anche se le sembrò uno sproposito che l'orsa dovesse fare da cuoco e da cameriera e
se sospettò che il figlio stesse farneticando, tuttavia, per accontentarlo, la fece portare. E lei, arrivata al
letto del principe, alzò la zampa e toccò il polso del malato e fece spaventare la regina, convinta che da un
momento all'altro gli avrebbe strappato il naso. Ma, quando il principe disse all'orsa: "Chiappino mio, vuoi
cucinare per me e darmi da mangiare e prenderti cura di me?", lei abbassò la testa indicando che gli stava
bene. Per questo la mamma fece portare un poco di galline e accendere il fuoco in un camino nella stessa
camera e mettere a bollire l'acqua, e l'orsa, presa una gallina, la scottò, la spennò abilmente e, dopo averla
fatta a pezzi, parte ne ficcò in uno spiedo e parte ne fece un bel gratinato e il principe, che non riusciva a
mandar giù lo zucchero, finì con leccarsi anche le dita e, quando ebbe finito di ingoiare, gli diede da bere
con tanta grazia che la regina volle baciarla in fronte. Fatto questo, mentre il principe faceva un poco di
roba per gli esami dei medici, l'orsa fece subito il letto e, corsa in giardino, colse un bel mazzo di rose e di
fiori di cedro e li sparpagliò là sopra, tanto che la regina disse che quest'orsa valeva un tesoro e che il figlio
aveva un vaso da notte di ragione a volerle bene. Ma il principe, vedendo questi bei servizi, aggiunse esca al
fuoco e se prima si consumava a chili ora si sbriciolava a quintali e disse alla regina: "Mamma, signora mia,
se non do un bacio a quest'orsa, mi scappa il fiato!". La regina, che lo vedeva venir meno, disse: "Bacialo,
bacia, bella bestia mia, non me lo far vedere distrutto questo povero figlio!" E l'orsa si accostò e il principe
la prese e non si saziava di sbaciucchiarla e, mentre stavano muso a muso, non so come il bastoncino cadde
da bocca a Preziosa e tra le braccia del principe restò la più bella cosina del mondo. E lui, stringendola con
le tenaglie amorose delle braccia, le disse: "Ci sei caduto scoiattolo, non mi scappi più senza ragion veduta!"
Preziosa, aggiungendo il colore della vergogna all'aiuola della bellezza naturale, gli disse: "Sono già nelle tue
mani, ti raccomando il mio onore e poi taglia e pesa e voltami dove vuoi". E, quando la regina chiese chi
fosse questa bella ragazza e che cosa l'avesse costretta a quella vita selvaggia, lei raccontò per filo tutta la
storia delle sue disgrazie; per questo la regina, lodandola come ragazza buona e onorata, disse al figlio che
acconsentiva che diventasse sua moglie. E il principe, che non desiderava altro dalla vita, le diede subito la
sua parola e la mamma, benedicendo tutti e due, fece questa bella unione con grandi feste e luminarie e
Preziosa provava sulla bilancia del giudizio che

Chi bene fa sempre bene aspetta".

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ANALISI

Il desiderio invece è la pulsione che porta il vedovo re di Roccaspra in l’Orsa a voler sposare la figlia. Il topos
dell’incesto non è una novità, ma dobbiamo ricordarci di collocare questi eventi. Da poco c’era stata la
Controriforma, iniziata con il Concilio di Trento nel 1545, capiamo bene che ci troviamo in un periodo ben
più buio e restrittivo di quanto potesse essere il Medioevo, ma fortunatamente Basile si trova nel Regno di
Napoli, che è leggermente più tollerante per il tempo e quindi anche l’incesto poteva essere inserito nelle
narrazioni, poi è comunque un grande a parlarne quindi. Tornando alla nostra storia, perché il re vuole
sposare la figlia? Perché è la persona più simile alla moglie defunta, alla quale aveva promesso di non
risposarsi a meno che non trovasse una bellezza almeno pari alla sua. Ovviamente la povera fanciulla è
inorridita dalla proposta e riesce a mettersi in salvo grazie all’aiuto di una vecchia che la trasforma in orsa.

L’incesto è anche presente nella seconda favola della terza giornata, dove un altro re, stavolta quello di
Pretasecca, anche lui rimasto vedovo, vuole sposare Penta, la propria sorella, Queste due storie
sottolineano lo stereotipo, ancora attuale, dell’uomo incontrollabile, preso da una smania immensa di
passione che non riesce a discernere il bene e il male e la donna, che invece per sopravvivere e per non
sentirsi violata deve sacrificarsi. Sia l’Orsa che Penta compiono un sacrificio estremo, abbandonano alcuni
dei loro connotati per cercare di sottrarsi alla furia rabbiosa e insistente degli uomini. È questo ciò che le
donne hanno imparato a fare praticamente sempre ed è l’insegnamento che le donne stesse tramandavano
alle generazioni successive: la donna deve stare sempre in guardia, essere pronta anche a sommi sacrifici,
mentre l’uomo ha come unico obbiettivo il raggiungimento dei propri desideri, senza pensare alle
conseguenze che questi possono avere su altrз.

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LA GATTA CENERENTOLA (i/6°)

C'era una volta un principe vedovo, che aveva una figlia di nome Zezolla, cui teneva moltissimo; per lei
teneva una maestra, di nome Carmosina, molto esperta, che le insegnava le catenelle, il punto Venezia, le
frange e il punto a giorno, e che le mostrava tanto affetto. Il principe si era risposato da poco tempo con
una donna focosa e malvagia che ben presto aveva cominciato a odiare la figliastra. Zezolla si lamentava
spesso con la maestra per i maltrattamenti subiti dalla matrigna. Anzi la ragazza, parlando con la maestra
esprimeva il desiderio che sarebbe stato meglio se la sua mamma fosse stata proprio lei, la maestra, che
era così buona e cara con lei.
Zezolla ripeteva spesso questo suo desiderio tanto che nella testa della maestra cominciò a prendere forma
un disegno terribile. La maestra disse a Zezolla che se voleva che il suo desiderio fosse esaudito doveva far
sì che ella chiedesse alla matrigna di voler indossare un vestito di quelli vecchi che si trovavano nella grande
cassapanca. La matrigna non le avrebbe detto di no, considerato che così facendo si metteva in una
posizione subordinata. Ma non appena quella, la matrigna, si calava invitandola a tenere il coperchio; lei
Zezolla doveva calarlo con tutte le forze e incastrare la testa della matrigna così da romperle l'osso del collo.
Una volta morta la matrigna e passato il periodo del lutto stava a lei convincere il padre a sposarla. E così
avvenne.
Per il matrimonio si fece una grande festa. Mentre gli sposi si davano buon tempo, affacciatasi Zezolla a un
terrazzino di casa sua, una colombella, volata sopra un muro, le disse: "Quando ti viene voglia di qualcosa,
mandala a chiedere alla colomba delle fate nell'isola di Sardegna, la otterrai subito!".
La nuova matrigna per una settimana trattò bene Zezolla, le riservò le migliori carezze, il miglior posto a
tavola, il miglior boccone, i migliori vestiti. Ma, poi scordandosi del favore ricevuto, fece entrare in casa le
sei figlie che aveva tenute segrete e tanto fece che anche il marito(padre di Zezolla) le prendesse in grazia
scordandosi del tutto o quasi della figlia. Zezolla passò dalla camera alla cucina, dal baldacchino al focolare,
dai vestiti migliori ai vestiti vecchi della cassapanca e fu chiamata Gatta Cenerentola.
Avvenne che il principe, dovendo andare in Sardegna, domandò a tutte e sei le figliastre, una per una, che
cosa volessero che portasse loro al suo ritorno: e chi chiese vestiti da sfoggiare, chi galanterie per la testa,
chi belletti per la faccia, chi giocarelli per passare il tempo e chi una cosa e chi un'altra. Per ultimo, quasi per
burla, disse alla figlia: "E tu, che vorresti?" E lei: "Niente altro, se non che mi raccomandi alla colomba delle
fate, chiedendo che mi mandino qualcosa; e, se te lo scordi, possa tu non andare né avanti né indietro.
Tieni a mente quello che ti dico: arma tua e mano tua". Partì il principe, fece gli affari suoi in Sardegna,
comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre e Zezolla gli uscì di mente. Ma, imbarcatosi sopra a un
vascello e facendo vela, la nave non riuscì a staccarsi dal porto, e pareva che fosse ancorata a mare. Il
capitano del vascello, ch'era quasi disperato, per la stanchezza, si mise a dormire e vide in sogno una fata,
che gli disse: "Sai perché non potete staccare la nave dal porto? Perché il principe che viene con voi ha
mancato la promessa alla figlia, ricordandosi di tutte tranne che del sangue suo". Non appena si svegliò il

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capitano raccontò il sogno al principe, il quale, confuso per la sua mancanza, andò alla grotta delle fate, e,
raccomandando loro la figlia, chiese che le mandassero qualcosa. Ed ecco venir fuori della grotta una bella
giovane, la quale gli disse che ringraziava la figlia per la buona memoria e che se la godesse per amor suo.
Così dicendo gli diede un dattero, una zappa, un secchiello d'oro e una tovaglia di seta, dicendo che l'uno
era per seminare e le altre cose per coltivare la pianta. Il principe, meravigliato di questi doni, si congedò
dalla fata e si avviò alla volta del suo paese e, dato a tutte le figliastre quanto avevano chiesto, finalmente
consegnò alla figlia il dono che le faceva la fata.
Zezolla con una gioia che non la teneva nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso di coccio; lo zappava, lo
innaffiava e con la tovaglia di seta l'asciugava mattino e sera, tanto che in quattro giorni, cresciuto fino
all'altezza di una donna, ne uscì fuori una fata, dicendole: "Che desideri?". Zezolla rispose che qualche volta
desiderava di uscire di casa, ma non voleva che le sorelle lo sapessero. Replicò la fata: "Ogni volta che ti fa
piacere, vieni vicino al vaso di coccio e dì:

Dattero mio dorato,


con la zappetta d'oro t'ho zappato,
con il secchiello d'oro t'ho innaffiato,
con la tovaglia di seta t'ho asciugato:
spoglia a te e vesti a me!
E quando vorrai spogliarti, cambia l'ultimo verso, dicendo: "Spoglia a me e vesti a te!"
Venne un giorno di festa ed essendo uscite le figlie della maestra tutte agghindate, impellicciate, tutte
nastrini campanellini e collanelle, tutte fiori odori e rose, Zezolla corre subito al vaso di coccio e, dette le
parole magiche, fu agghindata come una regina e, posta su una cavalcatura con dodici paggi, andò dove
andavano le sorelle, che fecero la bava alla bocca per le bellezze di questa splendida creatura. Ma, come
volle la sorte, capitò nello stesso luogo il re, il quale, vista la straordinaria bellezza di Zezolla, ne restò subito
affatturato e disse al servitore più fedele d'informarsi chi fosse e dove stava questa bellezza. Il servitore la
seguì, ma lei, accortasi dell'inseguimento, gettò una manciata di scudi d'oro, che si era fatta dare dal
dattero a questo scopo. Quello, avvistati gli scudi, si dimenticò d'inseguirla per raccogliere i quattrini, e lei
s'infilò di slancio in casa, dove, spogliatasi come le aveva insegnato la fata, aspettò quelle bruttone delle
sorelle, che, per farle dispetto, raccontarono delle tante cose belle che avevano visto. Nel mentre, il
servitore tornò dal re e raccontò il fatto degli scudi; e quello, molto arrabbiato, gli fece capire che era un
buono a nulla e che l'avrebbe maltrattato se alla prossima festa non avesse appurato alcunchè.
Arrivò l'altra festa e , uscite le sorelle tutte apparate ed eleganti, lasciarono la disprezzata Zezolla vicino al
focolare; e lei subito corre dal dattero e, pronunciate le solite parole, ecco che uscirono un gruppo di
damigelle. Chi con lo specchio, chi con la carafella d'acqua di zucca, chi con il ferro dei riccioli, chi con il
panno del rosso, chi con il pettine, chi con le spille, chi con i vestiti, chi con il diadema e le collane e, fattala
bella come un sole, la misero su una carrozza a sei cavalli, accompagnata da staffiere e da paggi in livrea e,
arrivata nello stesso luogo dove c'era stata l'altra festa, aggiunse meraviglia al cuore delle sorelle e fuoco al
petto del re. Ma, andatosene di nuovo e andatole dietro il servo, per non farsi raggiungere gettò un pugno
di perle e gioielli e, mentre quell'uomo dabbene si fermò a raccoglierle, che non erano cose da essere
tralasciate, essa ebbe il tempo di arrivare a casa e di spogliarsi come al solito. Il servitore tornò mogio
mogio dal re, e quest'ultimo, avendo saputo com'era andata, lo minacciò di bastonature se non l'avesse
trovata. Arrivò l'altra festa e, uscite le sorelle, lei tornò dal dattero e, continuando la canzone fatata, fu
vestita superbamente e posta dentro a una carrozza d'oro, con tanti servi attorno che pareva una puttana
sorpresa al passeggio e circondata dagli sbirri. E, andata alla festa suscitò l'invidia delle sorelle. Quando se
ne andò il servo del re si cucì a filo doppio alla carrozza. Essa, vedendo che le era sempre alle costole, disse:
"Sferza, cocchiere!", ed ecco la carrozza si mise a correre con tanta furia e fu così precipitosa la corsa che le
cascò una pianella; e non si poteva vedere più bella cosa. Il servitore, che non riuscì a raggiungere la
carrozza che volava, raccolse la pianella da terra e la portò al re, raccontandogli quanto gli era successo. E

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lui, presala in mano, disse: "Se le fondamenta sono così belle, cosa sarà la casa?". Poi chiama lo scrivano,
comanda il trombettiere e fa lanciare un bando: che tutte le femmine della città vengano a una festa
pubblica e a un banchetto. E, venuto il giorno stabilito, fu organizzata una mangiata meglio che il giorno di
cuccagna! C'era tanta roba che ci poteva mangiare un esercito intero. Arrivarono tutte le femmine, e nobili
e ignobili e ricche e pezzenti e vecchie e giovani e belle e brutte e, dopo aver ben pettinato, il re, fatto il
prosit, provò la pianella a una per una a tutte le convitate, per vedere a chi andasse a capello e a pennello,
tanto che potesse conoscere dalla forma della pianella quella che andava cercando. Ma, non trovando
piede che ci andasse a sesto, stava a disperarsi. Tuttavia, dopo aver zittito tutti, disse: "Tornate domani a
fare un'altra volta penitenza con me. Ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina in casa,
comunque sia!"
Disse il principe:"Ho una figlia, ma fa sempre la guardia al focolare, perché è disgraziata e da poco e non
merita di sedere dove mangiate voi." Disse il re: "Questa sia in testa alla lista, perché così mi piace." Così
partirono e il giorno dopo tornarono tutte e, insieme con le figlie di Carmosina, la matrigna, venne Zezolla,
e il re, non appena la vide, ebbe come l'avvertimento che fosse quella che desiderava, tuttavia fece finta di
nulla. Ma, finito di mangiare, si arrivò alla prova della pianella. La pianella si lanciò da sola al piede di
Zezolla, come il ferro corre alla calamita. Vista la qual cosa il re, corse a stringerla forte tra le braccia e,
fattala sedere sotto il baldacchino, le mise la corona in testa, comandando a tutte che le facessero inchini e
riverenze, come alla loro regina. Le sorelle vedendo ciò, piene di rabbia, non avendo lo stomaco di
sopportare lo scoppio del loro core, se la filarono quatte quatte verso la casa della mamma, confessando a
loro dispetto che "è pazzo chi contrasta con le stelle".

ANALISI

Il racconto popolare ci da vere indicazioni sulla storia dell'uomo, sul suo modo di rapportarsi alla realtà, alla
natura. Nel racconto basiliano c'è l'accostamento di Zezolla o, per come viene chiamata dalla seconda
matrigna, Gatta Cenerentola, alla cortigiana. Infatti dopo essersi preparata per la seconda festa con l'aiuto
del dattero, Basile parla di Zezolla così: "Venne l’autra festa e, sciute le sore, essa tornaie a lo dattolo e,
continovanno la canzona fatata, fu vestuta soperbamente e posta drinto na carrozza d’oro, co tante
serviture atuorno che pareva pottana pigliata a lo spassiggio’ ntorniata de tammare".
Questo accostamento probabilmente il Basile si è limitato a trascrivere ciò che è stato tramandato su
questo personaggio femminile che ha delle ambiguità, che sembra, ma non è.
Nel racconto Zezolla decapita la prima matrigna per istigazione della mastra o maestra, pure lei vedova, ma
in effetti decapita la lussuria, l'effimero impersonato dalla testa recisa della matrigna. Le matrigne o vedove
risposate sono, nel folklore, indicate come donne lussuriose e vengono messe sotto le loro finestre delle
gatte: questa significazione è in sintonia con la realtà storica del Basile, cioè la Napoli del XVI e XVII secolo;
quindi le gatte lussuriose sono le vedove e le matrigne e non le fanciulle come Zezolla.

Zezolla coltivando una pianta di dattero ricorda le fanciulle recluse sette anni; infatti la pianta del dattero
fruttifica dopo circa sette anni,. E' l'iniziazione che le conferisce poteri speciali, ma nel contempo la
costringe a lasciare la festa perchè risulta come morta.. Il regalo della fata è un dattero e quello che occorre
per seminarlo e curare la pianta che nascerà., al dattero che, piantato, cresce e da frutti dopo circa 7 anni.
Ma dal racconto pare che con un rito magico i canonici sette anni possano scendere a tre giorni. Notevole
che le sorellastre di Zezolla siano sei, per cui tutte insieme le sorellastre sono sette.
Il significato più antico della perdita di una scarpa, il monosandalismo, può essere inteso come "zoppia"
dell'iniziato, derivante da menomazioni subite durante il rito di iniziazione tribale o meglio ancora nel
rituale dell'iniziazione sciamanica. Il corpo dell'iniziato doveva avere un segno del passaggio iniziatico, del
superamento della morte

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Dioniso, Giasone ed anche Persefone vengono raffigurati a volte con un solo sandalo. Nel caso di Dioniso e
Persefone il collegamento è alla loro vicenda di morte e resurrezione, alla loro connessione con la terra e
con le piante. Anche Zezolla è facilmente collegabile alla palma: infatti magicamente l'eroina diventa una
nobildonna agghindatissima con la formula "dattero...spoglia te e vesti me!".

METTERE in evidenza quel "mettere abiti vecchi", associati probabilmente al ritorno al primordiale, al caos.
Nel Basile questo "scendere giù", questa umiliazione della protagonista è solo una faccia della medaglia,
l'altra faccia è la sua sfolgorante bellezza, simile però a quella delle cortigiane, che spesso ricevevano gli
amanti nella carrozza di loro proprietà: il caos, di tipo agrario probabilmente, ritorna sotto altre forme, che
poi non sono affatto originali.

La matrigna come nella maggior parte delle fiabe rappresenta la figura femminile negativa perché, essendo
normalmente la madre una figura buona, l'inconscio collettivo fatica ad elaborare l’idea di una madre
malvagia ed è più facile che lo sia una figura che entra solo in un secondo momento. A questo si aggiunge il
fatto che nel Cunto la figura paterna non sempre è in grado di affermarsi Nella Gatta cennerentola abbiamo
addirittura due matrigne e la vera madre è una figura incolore a cui non si accenna poiché già morta. La
prima matrigna è una figura che nega la felicità e la serenità della bambina, che in quel momento ottiene le
attenzioni materne dalla sua maestra. Tuttavia quando, con la violenza già illustrata in precedenza, la
maestra diventa la nuova matrigna, la protagonista perde quelle attenzioni materne, le quali vengono
sostituite da sfruttamenti mediante lavori umilianti. Le matrigne rappresentano gli atteggiamenti negativi
della madre che in un’opera come il Cunto non sarebbero ammissibili

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SOLE LUNA TALIA (V/5°)

C'era una volta un gran signore, il quale fece venire tutti i sapienti e gl'indovini del suo regno perché le
dicessero la ventura, la sorte di sua figlia appena nata, di nome Talia. Costoro, dopo vari consulti,
conclusero che essa era esposta a gran pericolo a causa di una lisca di lino. E il re proibì che in casa sua
entrasse mai lino o canapa o altra roba simile, per evitare ogni cattivo incontro. Ora, essendo Talia
grandicella e stando alla finestra, vide passare una vecchia che filava; e, poiché non aveva mai visto né
conocchia né fuso, piacendole assai quel danzare che il fuso faceva, fu presa da curiosità e la fece venir su,
e, tolta in mano la rocca, cominciò a stendere il filo. Ma, per disgrazia, una lisca le entrò nell'unghia e subito
cadde a terra morta. La vecchia, a tanta disavventura, scappò che ancora salta a precipizio per le scale; e lo
sventurato padre, dopo averla pianto qualche giorno, collocò la morta Talia in quello stesso palazzo, che
era in un bosco, seduta su una sedia di velluto, sotto un baldacchino di broccato. Poi, serrate le porte,
abbandonò per sempre la casa, cagione di tanto suo male, per cancellare per sempre dalla memoria la
sciagura sofferta.
Dopo qualche tempo, a un re, che andava a caccia per quei luoghi, sfuggi un falcone e volò a una finestra di
quella casa; poiché il falcone non tornava al suo richiamo, il re fece picchiare alla porta, credendo che la
casa fosse abitata. Ma, dopo aver bussato invano per qualche tempo, il re, per mezzo di una scala da
vendemmiatore, volle di persona scalare la casa e vedere che cosa ci fosse dentro. Salito ed entrato, rimase
stupito, non trovando in nessun luogo persona vivente; e, in ultimo, giunse alla camera, dove stava Talia
come incantata. Il re, credendo che dormisse, la chiamò. Ma, non ritornando quella in sé, per quanto
facesse e gridasse, e, intanto, essendosi egli acceso di quelle bellezze, la portò di peso sopra un letto e ne
colse i frutti d'amore, e, lasciandola coricata, se ne tornò al suo regno, dove non si ricordò più per lungo
tempo di quel caso.
Dopo nove mesi, Talia partorì una coppia di bambini, un maschio e una femmina, due monili splendenti,
che, governati da due fate, apparse in quel palazzo, furono da esse posti alle mammelle della madre. E una
volta che i bambini, volendo succhiare, non riuscivano a trovare il capezzolo, si misero in bocca proprio quel
dito che era stato punto, e tanto lo succhiarono che ne trassero fuori la lisca. Subito parve che Talia si
svegliasse da un gran sonno; e, vedutesi quelle due gioie accanto, porse loro il petto e le tenne care quanto
la vita. Ma non sapeva rendersi conto di quel che le era accaduto, trovandosi sola sola in quel palazzo e con
due figli allato, e vedendosi portare quel che le occorreva per mangiare senza scorgere persona alcuna.
Il re, un giorno, si ricordò dell'avventura con la bella dormente, e, ritornando in quei luoghi con la scusa di
andare a caccia, venne a vederla. E, avendola ritrovata desta e con quei due bambini splendenti, ne ebbe
un piacere da stordire. A Talia raccontò allora chi egli era e come era andato il fatto; e fecero tra loro

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amicizia e lega grande, ed egli rimase parecchi giorni in sua compagnia. Poi si accommiatò con promessa di
venirla a prendere e condurla al suo regno; e, intanto, tornato a casa sua, nominava a ogni ora Talia e i figli.
Se mangiava, aveva Talia sulla bocca, e Sole e Luna (che questi erano i nomi dei bambini); se si coricava,
chiamava l'una e gli altri. La moglie del re, che già dall'indugiare il marito a caccia aveva avuto qualche
lampo di sospetto, a queste invocazioni di Talia, Luna e Sole fu presa da altro calore che di sole; e perciò,
chiamato il segretario, gli disse: "Ascolta, figlio mio: tu stai tra Scilla e Cariddi, tra lo stipite e la porta, tra la
grata e la sbarra. Se tu mi dici di chi mio marito è innamorato, ti fo ricco; e, se mi nascondi la verità, non ti
farò più trovare né morto né vivo(farò scomparire il tuo cadavere". E colui, da una parte sconvolto dalla
paura, dall'altra tirato dall'interesse, che è una fascia agli occhi dell'onore, una benda della giustizia, le disse
pane pane e vino vino.
Allora la regina mandò lo stesso segretario in nome del re a Talia, facendole dire che egli voleva rivedere i
figli; ed essa, con grande gioia, glieli inviò. Ma quel cuore di Medea, tosto che li ebbe tra le mani, ordinò al
cuoco di scannarli e farne diversi manicaretti e salse per darli a mangiare al misero padre. Il cuoco, che era
tenerino di polmone, al vedere quei due aurei pomi di bellezza, ne senti pietà, e, affidatili alla moglie perché
li nascondesse, apparecchiò due capretti in varie pietanze. Quando fu l'ora del desinare, la regina fece
portare le vivande; e, mentre il re mangiava di gran gusto, esclamando: "Com'è buono questo, per la vita di
Lanfusa!", o "Com'è saporito quest'altro, per l'anima di mio nonno!", essa incoraggiava, dicendogli:
"Mangia, che mangi del tuo".
Il re, per due o tre volte, non fece attenzione a queste parole; ma poi, udendo la musica che continuava,
rispose: "So bene che mangio del mio, perché tu non hai portato niente in questa casa". E, levatosi con
collera, se ne andò a una villa poco lontana per acquietarsi. Non ancora sazia la regina di quanto credeva di
aver fatto, mandò di nuovo il segretario a chiamare la stessa Talia, col pretesto che il re l'aspettava; ed essa
venne immediatamente, desiderosa di trovare la sua luce e non sapendo che l'attendeva il fuoco. Condotta
innanzi alla regina, costei, con un volto da Nerone, tutta inciprignita, le disse: "Sii la benvenuta, madama
Troccola! Tu sei quella fine stoffa, quella buon'erba che ti godi mio marito? Tu sei quella cagna malvagia,
che mi fa stare con tante giravolte di capo? Va', che sei giunta al purgatorio, dove ti farò scontare il danno
che mi hai fatto!". Talia cominciò a scusarsi che la colpa non era sua e che il marito aveva preso possessione
dei suoi territori mentre essa era adoppiata. Ma la regina non volle intendere scuse, e, fatto accendere in
mezzo allo stesso cortile del palazzo un gran fuoco, comandò che ve la gettassero dentro.
La misera, che si vide perduta, inginocchiatasi dinanzi a lei, la supplicò che le desse il tempo per spogliarsi
dei vestiti che aveva addosso. E la regina, non tanto per misericordia verso la sventurata quanto per
risparmiare quegli abiti ricamati d'oro e di perle, le disse: "Spogliati, che mi contento". Cominciò Talia a
spogliarsi, e a ogni pezzo di vestito che si toglieva dalla persona gettava uno strido; tanto che, essendosi già
tolta la roba, la gonna e il giubbone, quando fu a togliersi il sottanino, gettò l'ultimo strido, mentre al tempo
stesso la trascinavano a fare la cenerata per l'acqua bollente da lavare le brache a Caronte. Ma, in quel
punto, accorse il re, che, visto lo spettacolo, volle sapere tutto l'accaduto. E, avendo domandato dei figli,
udi dalla stessa moglie, che gli rinfacciava il tradimento usatole, come glieli avesse fatti mangiare.
Il re andò in preda alla disperazione. "Dunque, sono stato io stesso — gridava — lupo-mannaro delle mie
pecorelle? Oimè, e perché le vene mie non conobbero la fontana del loro stesso sangue? Ah, turca
rinnegata, e quale ferocia è stata la tua? Va', che tu raccoglierai i torsoli, e non manderò cotesta faccia di
tiranno al Colosseo per la penitenza!".
Cosi dicendo, ordinò che la regina fosse gettata nello stesso fuoco acceso per Talia, e insieme con essa il
segretario, che era stato suo collaboratore; e voleva fare il medesimo del cuoco, che credeva avesse tritato
con la coltella i figli suoi. Ma questi gli si gettò ai piedi e gli disse che i suoi figli erano vivi e vegeti, in quanto
al posto loro aveva ucciso dei capretti. Il re, che udi queste parole, restò fuori di sé e gli pareva di sognare,
né poteva credere quello che le sue orecchie sentivano. Nel frattempo, la moglie del cuoco, occorsa a
soccorrere il marito, portò Luna e Sole dinanzi al padre, il quale li riabbracciò contentissimo e con Talia
insieme formarono un quadretto di famiglia perfetta. Il re, data grossa mancia, al cuoco e fattolo

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gentiluomo suo di camera, si prese in moglie Talia, la quale godette lunga vita col marito e i figli,
conoscendo a tutta prova che: quei ch'ha ventura, il bene anche dormendo, ottiene.

ANALISI

La crudezza del racconto pretende un antecedente altrettanto crudo negli usi di antichissime popolazioni.
Talia è morta e un uomo ha con lei un rapporto sessuale. I figli, i gemelli, uno maschio, uno femmina, che
nascono da questo rapporto vengono uccisi. Se l'eroina, Talia, deve essere considerata una fanciulla nel
periodo iniziatico, nel periodo liminare, in cui è considerata spesso una "morta", allora ai figli da lei nati in
questo periodo spetta una sorte crudele

Nel caso di Talia c'è un quadro pure peggiorativo, perché l'eroina ha partorito due gemelli, di cui uno
maschio e una femmina. Nelle società di interesse etnologico i parti gemellari molto spesso sono ritenuti
straordinari e carichi di ambigua potenza. Per questo vengono ritenuti infausti e quasi sempre richiedono
particolari antidoti di tipo rituale: allontanamento dei genitori, esposizione o sopressione di uno o di tutt'e
due i gemelli, Ma Talia, più che fanciulla inizianda, sembra avere avuto la sorte di essere la "sposa" di un
dio.
Nel racconto del Basile il re che ama la principessa addormentata è sposato, probabilmente con una donna
sterile. Quì sta il dramma del racconto. La moglie legittima si vede trascurata e sopravanzata da una donna
che ha dato dei figli al marito. In molte culture la sterilità della moglie è giusto motivo di divorzio,
sicuramente il cunto del Basile risente ancora gli usi e i costumi pre-cristiani. Probabilmente la storia del
cunto è stata trasposta in ambiente aristocratico, ma ha anche dei riferimenti biblici in relazione ai rapporti
di un marito con le serve della moglie. Infatti il marito mette avanti le mani e sembra rispondere in maniera
appropriata all'esortazione della moglie: "buon appetito, che mangi del tuo". Il re risponde infatti: "So bene
che mangio del mio, perché tu non hai portato niente in questa casa". La risposta può essere interpretata in
senso lato come una deficienza di una vera regina: le vere regine, oltre a portare terre e denari e gioielli,
portano con sè anche serve, anche schiave. Se le regine non possono avere figli, allora il marito-re giace con
le sue schiave e i figli della schiava diventano figli della regina.
il Basile non dà nemmeno il nome a questi coniugi, nè lo dà al padre di Talia. Il nome, in questo cunto quasi
un riconoscimento del buon esistere, lo hanno la protagonista e i suoi due figli.
Il cunto trova una conclusione quando la regina reputa Talia una "madamma troccola" e una cagna
malvagia e cerca di levarsi di torno lei e i suoi figli. La troccola è uno strumento musicale popolare a
percussione che si usa e si usava nelle processioni religiose. Quindi la regina vuole dire che Talia è una
santa-diavola. E infatti Talia difende la sua reputazione sostenendo che non ha partecipato all'amplesso col
re perché era addormentata. Poi Talia, prima di essere bruciata, esegue uno strano rituale: per ogni capo di
abbigliamento che si toglie emette un grido. La nudità delle condannate al rogo, siano esse state streghe,
fattucchiere o prostitute, è documentato anche in qualche dipinto, ma il grido non è di facile attribuzione.
Per quanto riguarda il cannibalismo provocato(ma non portato a termine per il cuore tenero del cuoco)
dalla regina si può ipotizzare che la regina voglia castigare il re per la sua pochezza sessuale e la sua
dabenaggine, perché è riuscito a mettere incinta una "morta" socialmente (per lei era quasi una prostituta)
e non la moglie legittima.
Per quanto riguarda un tipo di amore verso persona morta, o vagamente morta dal punto di vista della
fertilità, nell'antica Grecia esistono per lo meno due antecedenti mitici. L'amore di Achille verso l'amazzone
Pentesilea appena uccisa e l'amore di Poseidone trasformatosi in cavallo per accoppiarsi con una Demetra,
esclusa dai parti, che si era trasformata in giumenta per sfuggire all'amplesso di un Titano.

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Questo tipo di amore, per colui che scrive, deve essere considerato una sorta di rituale caotico-funerario
con connessione alla "terra" che periodicamente diventa poco fertile per un certo tipo di cerealicoltura
rudimentale. Probabilmente gli antichi contadini abbandonavano per parecchi anni i campi cerealicoli che
producevano poco cereale. Questi campi, che probabilmente erano inframezzati da boschi, venivano
abbandonati e riconquistati dai boschi. Non morivano alla cerealicoltura, ma si addormentavano come la
protagonista dei racconti de "La bella nel bosco addormentato

Nella chiusa finale viene fuori il Basile maledetto, quello ricordato da Italo Calvino, quello in cui prevale la
conclusione che il disvalore è molto spesso premiato. Sempre considerando che queste chiuse siano state
scritte dallo stesso Basile e non dall'ultimo curatore, prima della stampa, del "Cunto de li cunti".

Sole, Luna e Talia è la fiaba che è alla base de La bella addormentata. La fiaba è molto simile a quella più
conosciuta, ma presenta delle caratteristiche diverse. Talia è il nome della bella addormentata che a causa
di un sortilegio, pungendosi con un fuso, cade addormentata per sempre. Un re di passaggio dal castello, si
ferma e scorge questa meravigliosa fanciulla addormentata, ma non la sveglia con un bacio. Il re la stupra.
Lei sta dormendo e pur consapevole del fatto che la fanciulla non è cosciente il re continua il suo intento.

«Ma, non revenenno pe quanto facesse e gridasse e pigliato de caudo de chelle bellezze, portatola de
pesole a no lietto ne couze li frutte d’ammore e, lassatola corcata, se ne tornaie a lo regno suio, dove non
se allecordaie pe no piezzo de chesto che l’era socciesso.»

Addirittura lui la dimentica, completamente. Fino a che non ritorna, ovviamente di passaggio da quel
castello e scopre che quello stupro ha portato ad una gravidanza che ha dato vita a due gemelli: Sole e
Luna, che hanno salvato Talia, succhiandole il dito ed estraendone la “lisca” di lino che l’aveva uccisa. Dopo
varie peripezie, perché c’è da dire che il re era anche sposato, Talia e il sovrano si sposano. Anche in questo
caso viene sottolineato il comportamento maschile come incontrollabile, totalmente privo di raziocinio. Il re
avvinto dalla bellezza di Talia, decide di stuprarla, poi va via. Ricordiamo che le narratrici, le protagoniste, le
aiutanti, le antagoniste in queste storie sono tutte donne e queste storie erano tramandate tra le donne
stesse per mettersi in guardia. Altro che lisca di lino, il pericolo più grande per una donna sono gli uomini.
Inoltre c’è da dire che a differenza della fiaba che conosciamo maggiormente in cui è il bacio del principe a
risvegliare e salvare la principessa, quindi l’uomo ha questo connotato di eroe salvifico; nella versione di
Basile non è assolutamente così. Il bacio e poi lo stupro senza il “risultato” del risveglio non sono altro che
un indice della limitazione del potere maschile sulle donne. Non è quello a salvare Talia e nulla può
l’invincibilità del membro maschile, nè la maternità, nè il parto, visto che Talia si risveglia molto dopo aver
dato alla luce i suoi figli.

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I TRE CEDRI (V/9°)

Non si può dire quanto gusto desse a tutto l'uditorio il racconto di Paola; ma, dovendo continuare
Ciommietella e avutone cenno, parlò cosi:
" Bene veramente sentenziò quell'uomo sapiente: « Non dire quanto sai, né fare quanto puoi »; perché
l'una e l'altra cosa porta pericolo che non si conosce, e rovina che non si aspetta; come udirete di una certa
schiava (parlando con riverenza della signora principessa nostra), la quale, per fare tutto il danno possibile a
una povera giovane, ne trasse tal profitto che venne a farsi essa medesima giudice del fallo suo e si diede
da se stessa la sentenza della pena che meritava". Aveva il re di Torrelunga un figlio maschio e non vedeva
l'ora di trovargli qualche buon partito e sentirsi chiamare col nome di nonno. Ma questo principe era cosi
fuori di tali pensieri e come fosse pianta selvatica rifiutava il consiglio paterno di prendere moglie e mettere
al modo dei figli, per continuare la discendenza.
Accadde, però, che un giorno, mentre ci si trovava a tavola, volendo il principe tagliare a metà una ricotta,
mentre stava a guardare le cornacchie che volavano, si fece per disattenzione una piccola ferita al dito, in
modo che, cadendo due stille di sangue sulla ricotta, ne venne una mischianza di colore cosi bella e graziosa
che gli venne capriccio di possedere una femmina cosi bianca e rossa come quella ricotta tinta del sangue
suo. Onde disse al padre: « Messere mio, se non ho una sposa di questo colore, sono distrutto! Non mai
femmina mi andò a sangue e ora ne desidero una simile al sangue mio. Perciò, se mi vuoi vivo e sano,
risolviti a darmi agio di andare pel mondo in cerca di una bellezza che si raffronti a pelo con questa ricotta.
Altrimenti, finirò il corso e me ne andrò tra le ombre ».
Al re questa risoluzione suonò strana e poco assennata, in quanto una ricerca di simile sposa gli sembrava
ardua cosa e l'avventurarsi da solo per il mondo, per trovarla, anche molto pericoloso per la stessa
incolumità. Ma poiché il principe si dimostrò caparbio nel suo prposito, l'afflitto re gli dette un gruzzolo di
scudi e due o tre servitori, e gli accordò licenza di andare.
Il principe prese a trottare per campagne e per boschi, per monti e per valli, per pianure e per pendii,
vedendo vari paesi, trattando genti diverse, e sempre con gli occhi aperti a cercare se mai trovasse la
fanciulla che desiderava. Dopo gran viaggiare, arrivò all'isola delle orche, dove, gettata l'ancora e smontato
a terra, trovò una femmina vecchia vecchia, secca secca e con la faccia brutta brutta, alla quale raccontò la
cagione che l'aveva trascinato a quei paesi.
La vecchia stupì al bel capriccio del principe e gli disse: « Figlio mio, sgombra, che se ti scorgono tre figli
miei, che sono il macello delle carni umane, non ti stimo tre calli, giacché, mezzo vivo e mezzo arrosto, ti
sarà cataletto una padella e sepoltura un ventre. Ma usa il passo della lepre, che non andrai troppo innanzi
e troverai la tua fortuna ».
Ciò udito, il principe, sconvolto, sbigottito, si mise la via tra le gambe, finché giunse a un altro paese, dove
trovò un'altra vecchia, più brutta della prima, alla quale, raccontato da cima in fondo il caso suo, anche
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quella gli disse: « Squaglia presto di qua, se non vuoi servir di merenda alle orchette, mie figliuole; ma corri,
che ti si fa notte! Un po' più innanzi troverai la fortuna tua ».
Il principe andò via e tanto camminò che trovò un'altra vecchia, seduta sopra una ruota con un paniere
infilato al braccio, pieno di ciambelline e confetti, che dava a mangiare a una frotta di asini, che poi si
mettevano a saltare sulla riva di un fiume, sparando calci a certi poveri cigni. A costei il principe, fatti mille
complimenti e lusinghe, raccontò la storia del suo pellegrinaggio; e la vecchia, confortandolo di buone
parole, gli diede una colazione da leccarsene le dita, e, quando si fu levato da tavola, gli consegnò tre cedri,
che parevano còlti allora allora dall'albero, e, insieme, un bel coltello. Nel tempo stesso, gli disse: « Puoi
tornartene in Italia, perché hai pieno il tuo fuso, e hai trovato quella che andavi cercando. Va' dunque e,
quando sarai poco lontano dal tuo regno, alla prima fontana che trovi, taglia uno di questi cedri e ne uscirà
una fata, che ti dirà: « Dammi da bere ! », e tu, lesto con l'acqua, altrimenti dileguerà come argento vivo. E,
se non sei destro né con la prima né con la seconda fata, apri bene gli occhi e sii sollecito con la terza e dalle
subito da bere, che non ti scappi, e avrai una moglie secondo il tuo cuore ».
Il principe, tutto contento, baciò cento volte quella mano pelosa e tolta licenza, parti da quei paesi. E, sceso
alla marina, navigò alla volta delle colonne d'Ercole, ed entrato nei mari nostri, dopo mille burrasche e
pericoli, prese porto a una giornata lontano dal regno suo. Qui entrò in un bellissimo boschetto, smontò da
cavallo presso una fontana, cavò il coltello dalla guaina e cominciò a tagliare il primo cedro. Ed ecco uscirne
una bellissima giovane, bianca come fior di latte e rossa come una ciocca di fragole, dicendo: « Dammi da
bere! ». Il principe rimase cosi meravigliato e a bocca aperta, cosi interdetto per la bellezza della fata, che
non fu destro a darle l'acqua; e la fata scomparve. Il principe tagliò allora il secondo cedro e gli accadde il
medesimo. Dunque, tagliò il terzo cedro ed usci una fata, dicendo come le altre due: «Dammi da bere! »; e
il principe, ratto, le porse l'acqua, ed ecco gli restò in mano una giovinetta tenera e bianca come giuncata,
bellezza fuor di misura, bianco di cui non fu mai maggior bianco, grazia che era sopragrazia della grazia:
somma, era cosi bella dal capo al piede che non si poteva vedere cosa più vaga.
II principe abbracciò la fata, dandole cento e cento baci a pizzicotti; e, dopo mille parole amorose il principe
le disse che non poteva portarla al paese di suo padre senza vestiti e compagnia da regina. Perciò la faceva
salire sui rami alti di un cerro e le chiedeva di aspettarlo, mentre tosto andava alla corte a procurarle i giusti
vestimenti.
In questo frattempo una schiava nera fu mandata dalla padrona con un'anfora a prender acqua a quella
fontana; la quale, vedendo a caso nell'onda l'immagine della fata, e credendo che fosse la propria, tutta
meravigliata cominciò a dire: « Quale vedere. Lucia sfortunata, tu cosi bella stare, e patruna mandare acqua
a pigliare; e mi sta cosa tollerare, o Lucia sfortunata! ». Cosi dicendo, spezzò l'anfora e tornò a casa.
Avendole chiesto la padrona perché avesse fatto questo guaio, rispose: « Alla fontanella andata, anfora con
pietra cozzata ». E la padrona, trangugiata questa bugia, le diede un barilotto perché andasse a riempirlo
d'acqua; la schiava, tornata colà e vista di nuovo trasparire nell'acqua quella bellezza, esclamò, con un
grosso sospiro: « Mi non stare schiava con labbra grosse, me non essere mora, me non avere grosso sedere
ondeggiante, perché dunque essere tanto bella e portare a fontana barile? ».
E, cosi dicendo, sfascia il barile e ne fece mille schegge; e poi tornò a casa dalla padrona, brontolando: «
Asino passato, barile cozzato, in terra cascato e tutto sfracellato ».
La padrona, a queste parole, non potè più stare in flemma, e, afferrato un manico di scopa, la andò
lavorando in guisa che ne risenti per molti giorni; e, preso poi un otre, le disse: « Corri, rompiti il collo,
schiava pezzente, culo sfondato, gamba dì grillo; corri, non fare la Lucia che mostra il culo(mentre danza il
ballo lascivo della "sfessania"; ndr), non fermarti per via, e riportami questo, pieno d'acqua: se no, ti
schiaccio come polpo e ti aggiusto con un carico di randellate che te ne ricorderai per sempre!».
La schiava, mentre riempiva l'otre, tornò a contemplare la bella immagine, e disse; « Stare crepata, se
acqua pigliare: volere cercare sorte e maritare a Giorgia mia: non stare bellezza questa da morire arrabbiata
e servire padrona accigliata». Cosi, tiratosi uno spillone dal capo, cominciò a pertugiare l'otre, che parve
uno spiazzo di giardino con l'acqua che spuntava a tradimento, perché fece cento fontanelle.

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A questa vista la fata prese a ridere fragorosamente; e la schiava, alzando gli occhi, si avvide del
travisamento, e, parlando tra se stessa, disse: « Tu stare causa che padrona mi bastonare! Ma non ti curare!
». E poi, ad alta voce, parlando alla fata: «Che fare loco suso, bella figliola?». E quella, cortese e
nient'affatto sospettosa, le raccontò tutta la sua storia e che aspettava il principe con i vestiti regali per
essere accompagnata alla corte del re e celebrare le nozze.
La schiava, ringalluzzita, pensò, a questo racconto, di guadagnare essa il premio con un colpo di mano, e
replicò alla fata: « Poiché aspettare marito, lasciare venir sopra, e pettinare testa e fare più bella ». E la fata
disse: « Sii la benvenuta come il primo di maggio»; e, arrampicandosi la schiava, ed essa porgendole quella
mano bianca bianca che, nell'afferrare i neri stecchi, pareva uno specchio di cristallo in cornice d'ebano,
quella sali sull'albero e, mostrando di ravviarle il capo, le conficcò uno spillone nella memoria.
Subito la fata, sentendosi trapassare, gridò: « Colomba, colomba! »; e, diventata una colombella, levò il
volo e si mise a fuggire. E la schiava si spogliò nuda, e, fatto un fagotto dei cenci e sbrendoli che portava
addosso, li scagliò un miglio lontano; ed essa, restata come la partorì sua madre, su quell'albero, pareva
una statua di bitume cristallizzato in una casa di smeraldo.
Tornato il principe con una gran cavalcata e, trovata una botte di caviale dove aveva lasciato una tinozza di
latte, rimase per un pezzo fuor di sentimento. Alla fine disse: « Chi ha fatto questo sgorbio d'inchiostro alla
carta reale, dove pensavo scrivere i giorni miei più felici? Chi ha parato a lutto quella casa biancheggiata di
fresco, dove credevo di prendere tutti i diletti miei? Chi mi fa trovare questa pietra di paragone, dove avevo
lasciato una miniera d'argento per farmi ricco e beato? ».
La schiava trottata, vedendo gli atti di meraviglia che faceva il principe, disse: « Non maravegliare, principe
mio, che stare mora per fatagione: un anno faccia bianca, un anno culo nero ». E il pover'uomo del principe,
poiché il male non aveva rimedio, fatte le corna come bue e rassegnatosi, s'ingoiò !a pillola; e, detto alla
mora di scendere, la vestì da capo a piede di abiti nuovi e l'adornò tutta. Cosi, indispettito, gonfio di bile e
col muso lungo, prese la via del paese, dove dal re e dalla regina, che erano usciti fuori a sei miglia dalla
terra, furono ricevuti con quel piacere che prova il carcerato quando gli s'intima la sentenza di morte.
Ora, mentre si preparavano feste mirabili e banchetti da stordire, venne a una finestretta della cucina una
bella colomba, a cantare:
Cuoco, cuoco della cucina, che fa il re con la saracina? Il cuoco vi fece poca attenzione; ma, poiché la
colomba tornò la seconda e la terza volta a ripetere il verso, corse a riferirlo ai banchettanti come cosa
meravigliosa. La signora, all'udire quelle parole, diede ordine di prendere subito la colomba e di farne un
ingrattinato. E il cuoco, obbediente, tanto s'adoprò che l'acchiappò, ed eseguito il comando della
cuccurognamma (probabilmente motto ingiurioso rivolto a prostituta) e scaldatala nell'acqua per
spiumarla, gettò quell'acqua e quelle penne su un albero fuori al balcone.
Non passarono tre giorni, e sorse colà un bell'albero di cedro, il quale, cresciuto in quattro e quattr'otto,
accadde che il re(trattasi del principe, che stava per diventare re), affacciandosi a una finestra che
rispondeva da quella parte, lo vide. Poichè non l'aveva visto mai, chiamato il cuoco(non era meglio se
chiamava il giardiniere? Da questa palese modificazione si apre la via al significato della fiaba secondo
Basile e/o il popolo napoletano, oppure secondo l'ultimo suo importante interprete; ndr:slg), gli domandò
quando e da chi era stato piantato. E, poiché mastro Cucchiaione(da mettere in evidenza che nel dialetto
dell'epoca era chiamato "cucchiaione" quel medicone o quella levatrice che procurava aborti, ndr) gli ebbe
narrato il fatto, venne in sospetto di un mistero; e cosi ordinò che, sotto pena della vita, quell'albero non
fosse toccato, ma anzi governato con ogni diligenza. A capo di pochi giorni, su quell'albero spuntarono tre
bellissimi cedri, simili a quelli che egli aveva avuti dall'orca; e, quando divennero maturi, il re li fece cogliere,
e, chiusosi in una camera con una grande tazza di acqua, e col coltello della vecchia, che portava sempre
appeso al lato, cominciò a tagliare. E accadde il medesimo dell'altra volta, che la prima e la seconda fata
dileguarono in un lampo; ma, mentre tagliava il terzo cedro, diede a bere alla giovane che ne era uscita e gli
rimase davanti la fata stessa che aveva lasciata sull'albero, la quale gli narrò tutto l'inganno della schiava.
il re fu preso dal giubilo, dal riso e anche dal pianto per la contentezza e strinse la fata tra le braccia, la fece

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vestire di tutto punto, e subito la condusse per mano nel mezzo della sala, dov'erano tutti i cortigiani e le
genti del paese per onorare la festa delle nozze. Il re li chiamò a uno a uno e domandò: « Chi facesse male a
questa bella signora, quale pena meriterebbe? ». E le risposte furono univoche, nel senso che si dovesse
dare una pena gravissima, se non la morte.
Chiamò, in ultimo, la sciagurata regina (la mora, divenuta regina), e, facendole la stessa domanda, quella
rispose: « Meritare abbruciare e cenere da castello gettare». E il re le disse: « Tu ti sei scritto il malanno con
la penna tua».
Cosi la fece prendere di peso e mettere viva viva sopra una gran catasta di legna, e, fattone cenere, la
sperse dall'alto del castello al vento, avverando il detto: Non vada scalzo chi semina spine.

ANALISI

la costante nel Basile è la contrapposizione del giorno alla notte, del bello e del brutto. E il Basile identifica il
campo metaforico notte-nerezza-bruttezza con quello fecale-anale come ha fatto notare Italo
Calvino(Prefazione a Il Pentamerone di G.B. Basile).
Il Basile asseconda questa simbologia. Per quanto riguarda la laidezza della schiava nera che è chiamata
"sedere sfondato" dalla sua padrona e che afferma, per confondere Cenzullo, di essere "un anno faccia
bianca e un anno deretano nero", si può dire che questa associazione deriva dall'essenza della schiavitù,
soprattutto prima della diffusione del Cristianesimo. Lo schiavo e/o la schiava sono sempre a disposizione
dei loro padroni, anche per certi capricci sessuali: da non trascurare che al tempo del Basile la prostituzione
a Napoli era legalizzata. Queste donne, di colorito scuro, provenienti dal Nordafrica o dall'Asia Minore,
probabilmente, erano malviste perché, in ultima analisi, subentravano a donne del popolo come inservienti
nelle case dei nobili o dei beneabbienti. Ma la loro negativizzazione, nel racconto popolare, è avvenuto
molto prima, a partire dal rituale iniziatico per fanciulle.

La schiava nera è il vero agente di morte della sposa o della fanciulla; la fanciulla, alle nozze, muore a una
vita e rinasce sotto altre spoglie, prima come colomba, poi come albero o pianta. Il frutto, la verginità di
queste fanciulle deve essere colta solo dallo sposo. Proprio lo sposo, spesso, ha il compito di scucire, di
aprire la vulva alla fidanzata prima di sposarla proprio come fa Cenzullo coi cedri. Questo racconto deriva
da una forte negativizzazione di un rituale antichissimo che ha lasciato qualche traccia nei nostri usi nuziali.
In "Storia comparata degli usi nuziali in Italia e presso gli altri popoli indo-europei" di Angelo De
Gubernatis(1840-1913 ) si da notizia di un uso nuziale presso gli Albanesi di Calabria: mentre la sposa vien
pettinata, mentre le vien messa la keza, specie di cuffia o berretta, mentre le si indossa la tzoga o gonnella
nuziale, le si attacca alla keza, un velo con uno spillone sormontato da colomba. In Sicilia c'era l'uso nuziale
del regalo alla sposa, da parte del fidanzato, di una "spatuzza", magari d'argento, per significare, incidere il
nuovo legame. Sono numerosi i racconti popolari in cui il protagonista infilza con uno spadino alla prima
notte di nozze quella che credeva fosse la sposa: e invece era una pupa di zucchero che Sapia Liccarda
aveva messo al posto suo.
Nel cunto del Basile affiora un motto di spirito di tipo erotico-carnascialesco tipicamente basiliano; del resto
il personaggio della "pottana-cortigiana" è menzionato più volte nello stesso Pentamerone e nel cunto
"Rosella"(IX, III giornata) la protagonista fa finta di fare la cortigiana per cercare di fare ritornare la memoria
al fidanzato che l'aveva dimenticata. Da un punto di vista diacronico il motivo della "sposa-frutto" è da
collegare alla pianta che continuamente si rinnova, muore e risorge, che cambia modalità di vita, ora è
donna, ora è animale, ora è pianta, quasi sempre drammaticamente. Ma è anche utile la connessione della
"sposa-frutto" con la luna, che spesso nelle culture agrarie è la divinità primordiale, ed è spesso considerata
un frutto, una melograna, ora è piena, ora è bianca, ora è a spicchio e talora non si vede, cioè è nera;
mentre da un punto di vista psicanalitico è interessante la connessione della schiava nera con la sposa-
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frutto nell'immagine speculare della fontana: cioè le due donne possono essere considerate le due facce di
una stessa medaglia.
Nel cunto l'acqua è salvifica: la sposa-frutto vive solo se Cenzullo le dà a bere dell'acqua. "Dare l'acqua" è il
gesto primordiale, una sorta di ierogamia cosmica. Questo gesto nel cunto-fiaba viene affidato a Cenzullo, il
figlio del re che aveva deciso di non ammogliarsi e quindi di estinguere la stirpe. A simili propositi la fiaba
ritorna a una presunta epoca primordiale in cui "vita", "morte" e "rinascita" sono visti soprattutto come
aspetti femminili; l'uomo apporta soltanto l'acqua che gli viene però dalla fonte, cioè dalle viscere della
terra e quindi dalla"Madre terra".

Cenzullo incontra la "vecchia" assisa sulla ruota(una delle epifanie della "Madre terra", anche Demetra
assume questo aspetto di vecchia nel mito e va a sedere accanto a una fonte) in un tipico scenario da
"mondo alla rovescia": asini scalciano i cigni, immagine del mondo alla rovescia in cui gli schiavi-lavoratori
godono di privilegi a scapito di padroni oziosi, inconcludenti e belli.

Nel cunto basiliano c'è quasi un cenno al "tempo di cuccagna", o meglio a un suo succedaneo, cioè la festa
del primo maggio. Infatti la fata che sta sull'albero di cerro, quando la schiava le propone di salire
sull'albero per pettinarla e prepararla alle nozze, risponde che sarebbe stata benvenuta come il "primo
maggio".

probabilmente la figura della schiava deve essere vista come un "mana" che si esprime a maggio, mese in
cui si raccolgono le fave, di cui c'è pure la specie dalla pelle più scura: cioè la coltivazione della fava, nel
campo cerealicolo, prepara il terreno alla coltivazione del grano; nel cunto basiliano e probabilmente in una
sua versione antecedente, la schiava nera prepara la fata alle nozze.
Nel cunto del Basile il discorso metaforico verte sul fatto legato alla verginità sessuale. Da un lato c'è la
sposa-frutto vergine-bellissima-bianca, dall'altro la schiava nera, dai forti attributi erotici(labbra grosse e
sedere ondeggiante), forse pure vergine, ma solo sul davanti. La schiava cerca di giustificare il suo
cambiamento adducendo una spiegazione da ricercarsi nel cambio delle stagioni: un anno viso bianco, un
anno deretano nero (ma probabilmente in origine nel racconto la metafora verteva sul cambio del seme nel
campo cerealicolo, cioè un anno a grano o a orzo, un anno a fava o lupino, oppure un anno seminata, un
anno solo arata). Ma per il narratore Basile questa spiegazione sa di furberia. A me pare che l'intervento del
Basile in questo cunto sia uno dei suoi ghirigori, uno di quei beffardi tratti che costituiscono la sua firma.
Basile mette il dito sulla piaga, gioca, sul fenomeno popolare e anche di élite della ricerca a ogni costo della
sposa vergine, e, di contro, del destino segnato di quelle ragazze di cui si veniva a sapere che avevano
concesso la verginità prima del matrimonio. Immaginare che al posto della sposa-vergine il principe ritrovi
una ragazza che è tutto l'opposto e trovare nel racconto popolare gli indizi, lo scheletro per una tale
supposizione, e metterla in evidenza, è stato un tutt'uno.
Probabilmente la fiaba originaria non presentava una "sposa vera bianca come la neve e rossa come il
sangue" e una "sposa falsa dalla pelle scura", ma semplicemente una principessa dalla pelle scura e dalla
bellezza fine, sostituita dalla sua schiava, dalla bellezza prorompente o antica, per invidia: probabilmente
questo aspetto della sostituzione adombra un cambiamento di costume, cioè il passaggio dalla poligamia
alla monogamia, attraverso una forma transitoria che prevede la moglie, come fattrice della discendenza,
con un subentro di una serva o di una schiava in caso di sua sterilità.

Rimane comunque la connessione con l'acqua,. Chi prende l'acqua si salva, chi non si umilia a prendere
l'acqua morirà. In fondo lo stato di "essere nero", in questi racconti, al di là di tutte le trasposizioni di senso,
è quello di non prendere l'acqua, solo l'acqua è salvifica, un fondamento agro-religioso.

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Poiché le fiabe del Basile erano rivolte ad un'ampio pubblico, le ritroviamo nella raccolta di
Perrault modificate e più adatte ad un pubblico infantile. Nella versione francese, che ottenne
riconoscimento universale, le stesse fiabe sono presentate con i celebri titoli: Cenerentola La bella
addormentata nel bosco Pollicino o Puccettino Il gatto con gli stivali
Altre fiabe del Basile furono successivamente fonte di ispirazione per altre raccolte di fiabe: -
Petrosinella (Raperonzolo dei fratelli Grimm -
Nella raccolta di Perrault ai personaggi viene data una diversa impostazione: mentre quelli
del Basile agiscono in maniera del tutto libera, i personaggi dei "Contes" non hanno un
grande sviluppo psicologico e possono essere tranquillamente raggruppati secondo la loro
bontà o cattiveria. Tutte le loro azioni e i loro discorsi sono sempre nel rispetto di chi leggerà
la fiaba, cioé un pubblico infantile, tuttavia anche lo scrittore francese, con l'introduzione
delle moralités

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