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Cimagalli)
VOLUME I
Medusa, la gorgone dallo sguardo che impietrisce e dall’orrida chioma di serpi, era stata
posta a sbarrare le porte dell’Ade ad ogni essere vivente.
La Dea Atena, che così l’aveva trasformata da fanciulla bellissima qual era, colle inventare
uno strumento musicale costruito di canna, aulòs, per simulare il grido atroce ed
inquietante della temibile creatura. Ma, specchiandosi nelle acque del fiume, la dea
constatò con orrore che nel suonare il nuovo strumento il proprio volto si trasformava: lo
sforzo del soffiare le deformava le guance, rendendo il suo aspetto simile a quello di
Medusa stessa.
L’aulòs non andò comunque perduto; esso fu raccolto dal satiro Marsia, abitante della
Frigia. Marsia non temeva alcun incantesimo da parte di questo pericoloso strumento,
dato. Che era già un essere deforme: il satiro era infatti un incrocio tra uomo e capra. Se
l’aulòs aveva rischiato di trasformare in mostro la bellissima dea Atena, il mostro Marsia se
ne servì invece per tentare di elevarsi al rango degli dei, sfidando Apollo in una gara
musicale.
Aristotele commentò questo mito di Atena con parole che rilevano come i filosofi greci
valutassero la musica soprattutto dal punto di vista di una sua efficacia pedagogica: <<E’
ragionevole la favola che gli antichi composero sull’aulòs: dicono che Atena lo gettò via.>>
Il racconto mitico della costruzione della lyra, così come ci è tramandato dell’Inno omerico
ad Hermes, è invece di segno diverso. Hermes fanciullo, dopo aver rubato una mandria di
vacche ad Apollo, trovò una tartaruga ci giocò, ma dopo la uccise, vuotandone il guscio.
Applicò allora a tale cavità due bracci di canna, tra i quali tese sette corde: così la
tartaruga, animale privo di voce, acquistò dopo la morte la capacità di cantare.
<<L’amabile giocattolo […] sotto la sua mano diede un suono prodigioso, e il dio lo
seguiva con suo dolce canto>>. Nell’ascoltare una simile musica, apollo rimase talmente
rapito da accettare la lyra in cambio della mandria trafugata: <<Cos’è questo canto?>>
disse il dio. <<Con esso, veramente è possibile raggiungere tutte insieme tre cose: la
gioia, l’amore e il dolce sonno>>.
Paradossalmente, dunque, Atena creò proprio lo strumento che permette alle potenze
irrazionali di irrompere nella psiche umana. Lo strumento introdotto invece da Hermes, il
dio predone e ispiratore dei sogni, può stimolare l’uomo a progredire sulla via dello spirito
razionale, accompagnando con il suo suono il canto delle poesie.
Schematizzando, si può dire che i Greci concepivano il mondo musicale come gravitante
intorno a due poli opposti, che possiamo simboleggiare con i due strumenti fondamentali:
da una parte la lyra, progenitrice degli strumenti a corde, creata per unirsi alla poesia
umana e dunque al discorso, alla possibilità di istruirsi, alla razionalità; dall’altra l’aulòs,
capostipite degli strumenti a fiato e simbolo della musica che si accompagna
all’invasamento estatico, alla possessione rituale, alla sfrenatezza orgiastica.
Strettamente connesso con il frigio aulòs, era il culto dionisiaco, tipico anch’esso dell’area
frigio-lidia, ma probabilmente collegato all’antica venerazione per la Pòtnia e la Magna
Mater. Esso ammetteva anche la possibilità per l’uomo di un contatto intimo con il divino e
il cosmico attraverso l’invasamento estatico. Il culto di questo dio straniero, Dioniso, che
liberava le energie latenti e represse dell’inconscio, attecchì soprattutto negli stati sociali
più emarginati della vita pubblica.
La teoria dell’ethos pervadeva completamente la visione greca della musica: alla musica
veniva attribuito un potentissimo effetto non solo sull’animo, ma anche sul corpo umano,
sugli animali e sugli esseri inanimati.
Tenendo presente che il termine greco musiké, pur se generalmente tradotto con la parola
musica, implicava tutta l’arte ispirata dalle muse.
Attribuendo queste opinioni a Socrate e a Damone, Platone affermò perfino che <<non
s’introducono mai cambiamenti nei modi della musica senza che se ne introducono nelle
più importanti leggi dello Stato>>, e che la trasgressione in campo musicale può riuscire
ad infiltrarsi dolcemente e subdolamente nei caratteri e nelle abitudini finendo col
sovvertire ogni cosa, nella vita privata come in quella pubblica.
Il concetto platonico della musica è stato definitivo “catarsi allopatica”: una musica
appropriata può infondere una determinata virtù a chi ne è privo o a chi ne è in preda al
vizio opposto, purificandolo. Solo utilità, dunque, e non piacere; era questo il criterio che
dettava le rigide norme del filosofo ateniese, e in base al quale egli eliminava
esplicitamente della sua utopica città perfino la poesia che, suo avviso, non sarebbe stata
utile a nulla. L’unico repertorio ammesso, poi era, quello delle melodie tradizionali, quelle
che non a caso venivano dette nòmoi, cioè leggi: Platone respingeva con sdegno le
innovazioni della musica più moderna, qual era quella di Euripide e del suo amico
Timoteo.
Più aperto e permissivo era invece Aristotele, che si basava su un concetto definibile
come “catarsi omeopatia” anche un ethos negativo è accettabile perché, attraverso un
perturbamento controllato, l’animo può espellere fuori di sé le proprie negatività e ritornare
allo stato normale, come dopo una cura medica.
La profonda diffidenza che il mondo reco avvertiva nei confronti della musica pratica aveva
antiche radici: almeno fino all’età di Pitagora, era considerata come una vera musica,
degna di speculazione filosofica e di un uomo libero, solo la musica puramente teorica,
cioè la scienza acustica, in quanto fondata sul principio razionale per eccellenza: il
numero. I filosofi pitagorici ritenevano che il moto degli astri fosse regolato armonicamente
da proporzioni numeriche; poiché anche intervalli musicali erano determinati da simili
rapporti matematici, la potenza del numero coordinava in un unico insieme astri e musica.
La musica pratica non era considerata degna di essere tramandata ai posteri: quindi non
giunse mai, al contrario dei poemi epici, alla fase della redazione scritta, poiché era
fondata sulla trasmissione orale delle tecniche e dei repertori consacrati dalla tradizione.
Le musiche greche e romane, non essendo fissate per iscritto, svanirono gradualmente
con lo scomparire delle relative civiltà; un altro antico repertorio di tradizione orale, invece,
si inerpicò faticosamente lungo i secoli, riuscendo a giungere alla fase della stesura
scritta, ovvero a quello stadio che ha reso possibile la sua sopravvivenza fino ad oggi. Si
tratta di quello che comunemente viene denominato canto gregoriano, ma che sarebbe più
corretto definire monodia liturgica cristiana.
Nulla sappiamo di preciso su ciò che riguarda il canto cristiano dei primi secoli. Poiché
Cristo e i suoi apostoli erano ebrei, si può ragionevolmente supporre che la prima
comunità cristiana usasse per le sue celebrazioni un tipo di canto non troppo dissimile da
quello delle sinagoghe. La liturgia ebraica era caratterizzata dal fatto di essere
interamente cantillata: le parole venivano intonate su formule melodiche tradizionali,
costituite in genere da intervalli musicalo molto piccoli. Il ritmo era libero, modellato sul
ritmo verbale stesso; la cantillazione altro non era, in fondo, che un’amplificazione della
parola liturgica proclamata con solennità.
I cristiani, tuttavia, non attinsero esclusivamente al mondo giudaico: fin dalla prima
generazione di discepoli, la nuova religione si diffuse rapidamente in tutto il bacino del
Mediterraneo. Il greco divenne allora la lingua maggiormente usata nella liturgia.
Una grande svolta avvenne nel 313 d.C., quando Costantino e Licinio emanarono il
cosiddetto editto di Milano: con esso veniva riconosciuto il diritto alla libertà di espressione
per tutti i culti religiosi. Alla Chiesa cristiana in particolare, vennero restituiti tutti i beni e gli
edifici di culto confiscati nel corso della recente persecuzione di Diocleziano. Il passaggio
tra il IV e V secolo fu scandito dagli editti di Teodosio (380 d.C.) e di Onorio (408 d.C.) che,
ribaltando la situazione, giungevano sino ad eliminare i templi e gli atti di culto di tutte le
religioni. Nel IV secolo furono dunque poste le basi per la piena affermazione della Chiesa.
Furono adottati elementi tratti dal culto pagano e dal cerimoniale di corte dell’Imperatore,
per accrescere il fasto della liturgia e renderla degna di quella che era diventata la nuova
religione di Stato.
Parte integrante della solennità del rito ea, fin dal principio la musica.
Oltre a questa funzione di amplificazione rituale, la musica svolgeva una più umile ma
non trascurabile funzione di amplificazione fonica.
Una terza e fondamentale funzione della musica applicata al testo sacro è quella che
possiamo definire amplificazione melodica.
La lingua latina, come la lingua greca, conservava una caratteristica degli antichi idiomi
indoeuropei: gli accenti delle parole consistevano soprattutto nell’elevazione melodica
della voce, più che in una intensificazione. Di ogni parola latina soprattutto se pronunciata
con solennità da un oratore, si potrebbe allora tracciare una specie di diagramma
melodico il cui punto più alto corrisponde alla sillaba accentata.
Se queste parole venivano proclamate durante una celebrazione liturgica, il “seme”
melodico racchiuso nella lingua parlata germogliava in un vero e proprio canto.
Ovviamente questo cantus non aveva un’unica possibilità di realizzazione, e il suo grado
di melodizzazione dipendeva dallo stile richiesto nelle singole circostanze: in una veloce
antifona la melodia era semplice, e tale stile venne detto sillabico; in un canto solistico
quale l’offertorio, invece, il cantore poteva elaborare lo schema di partenza in uno stile più
ricco, denominato stile melismatico o stile fiorito.
Anche il ritmo si modellava fedelmente sulla dizione parlata del testo; i melismi poi,
essendo eseguiti generalmente da cantori solisti, venivano cantati con grande libertà.
Un altro caso riguarda invece i salmi, la cui intonazione avveniva in modo molto simili a
quello ebraico: se la voce doveva rimanere fissa su un’unica nota, le era ovviamente
impossibile seguire il profilo di ogni singola parola.
Un altro repertorio indipendente da uno stretto rapporto con il testo è quello degli inni. Gli
inni erano composizione poetiche di lode a Dio, cantate (in greco) fin dagli inizi del
cristianesimo; soprattutto per impulso di San Ambrogio, l’innodia in latino conobbe una
vastissima diffusione, assumendo forma strofica con versi regolarmente rimati e testo
facilmente comprensibile.
L’ultima importante causa per cui a regola dell’amplificazione melodica veniva trascurata
era l’obbedienza ad un criterio di ordine più generale.
La trasformazione del seminarium musices in melodie vere e proprie non avvenniva con
un processo automatizzato di esattezza matematica. Allo stesso modo in cui i semi della
medesima pianta germogliano in modo diverso a seconda del terreno e del clima in cui
fioriscono, così il testo liturgico dava luogo a tradizioni di canto diverse nelle varie regioni
d’Europa. Dal IV secolo in poi, sotto la spinta della raggiunta ufficializzazione delle Chiesa,
si avviò dunque un lento processo di coagulazione della liturgia e del canto liturgico in
vaste unità regionali.
Intorno al VI secolo, l’Europa ecclesiastica si presentava come una vasta scacchiera. Da
una parta la Chiesa d’occidente, di lingua latina con il rito vetero – romano, il rito
ambrosiano, il, rito aquileiese, il rito beneventano,il rito gallicano e il rito ispanico. Dall’altra
parte si trovavano le chiese d’oriente, frammentate in una vasta pluralità di riti e di lingue
diverse, che si avviavano ad una separazione da Roma (tra il 482 e il 518), seguita solo
nel 1054 dalla scissione definitiva tra cattolici e ortodossi.
Il VI secolo si concluse con il papato di San Gregorio Magno (590 – 604), colui dal quale il
canto gregoriano prese nome.
Tra l’VIII e il IX secolo d.C., la storia della musica voltò pagina: le innovazioni introdotte nel
periodo carolingio inaugurarono un’epoca totalmente diversa, le cui propaggini si
estendono fino ai nostri giorni.
Tutto cominciò quando i Franchi, per la loro strategia di espansione in Europa, si allearono
con il papato. Vennero intrapresi così numerosi scambi tra Roma e Aquisgrana, sede dei e
carolingi: basti pensare al soggiorno di papa Stefano III presso Pipino il Breve, alla
successiva discesa di quest’ultimo in Italia e, infine, alla celebre incoronazione di Carlo
Magno quale sovrano del Sacro Romano Impero, avvenuta a Roma nella notte di Natale
dell’anno 800 ad opera di papa Leone III.
Si cercò di trapiantare presso i Franchi il rito romano, inviando presso di essi maestri
provenienti da Roma e accogliendo nella città papale alcuni cantori franchi in qualità di
allievi; ma l’operazione fu irta di problemi come dimostrano le cronache dell’epoca.
Al di là di questi opposti resoconti, è bene naturale che il forzato inserimento del canto
romano al posto di quello gallicano non potesse che concludersi con un prodotto ibrido,
frutto di una reciproca contaminazione. Come si può pensare, che i cantori francese,
abituati al proprio repertorio da lunghi anni di studio e di pratica, potessero di punto in
bianco cancellare tutto ciò dalla propria mente per acquisire una maniera completamente
diversa, “romana”, di cantare il testi liturgici? Per di più, pare dimostrato che il canto vetero
– romano facesse abbondante di microtoni, cioè intervalli più piccoli di un semitono;
questo fatto generava un’ulteriore difficoltà per i Franchi, non abituati a confrontarsi con un
simile sistema di altezze. L’operazione si concluse con la creazione di un nuovo tipo di
canto, prodotto dalla commistione trai i due repertori, che può essere definito come franco
– romano.
Per ottenere il fine politico propostosi i sovrani carolingi imposero in tutti i territori a loro
soggetti di adottare questo nuovo canto liturgico ufficiale. La sfera del sacro è
conservatrice per antonomasia, e non lascia facilmente spazio alle innovazione; per
superare l’ostacolo, nacque un’astuta leggenda che funzionò perfettamente da ottima
strategia pubblicitaria, conferendo inoltre al nuovo prodotto franco – romano un marchio
che non fu più dimenticato: canto gregoriano.
Si narrava, dunque, che il papa Gregorio I dettasse i suoi canti ad un monaco, alternando
però tale dettature con pause molto ampie. Il monaco, incuriosito, scansò un lembo del
paravento di stoffa che lo separava dal pontefice, per sbirciare cosa questi facesse
durante i lunghi silenzi. Assistette così al prodigio: una colomba, posata sulla spalla del
papa, gli stava suggerendo all’orecchio frase dopo frase. Il messaggio è chiaro: sarebbe
strato lo stesso Spirito Santo (la colomba) ad aver ‘inventato’ il nuovo canto.
La presunta origine divina del canto gregoriano assimilò quest’ultimo al libro ispirato da
Dio per eccellenza: la Bibbia. Come i testi della Bibbia dovevano essere tramandati con
assoluta fedeltà, così il canto gregoriano doveva essere trasmesso alle generazioni future
senza alcun mutamento. Ecco formarsi allora il concetto moderno di repertorio: un CORPUS
di musiche ben definito e fissato una volta per tutte.
Ci si avviò verso il graduale tramonto della pratica improvvisata nel canto liturgico.
Mutò anche la metodologia didattica, trasformando la creatività tipica della tradizione orale
nell’apprendimento passivo di un repertorio già costituito: il concetto di ‘imparare a
memoria’ aveva definitivamente assunto il significato moderno.
Inizialmente furono i sacerdoti e i diacono, non i cantori veri e propri, a servirsi di segni
convenzionali (detti ‘neumi’ – dal greco ‘neuma’, ‘cenno’) sui libri liturgici. Infatti i testi di
loro competenza erano spessi intonati in stile di salmodia su una <<corda di recita>> fissa.
Per evitare incertezze a questo proposito, i celebranti evidenziarono tali punti con apposite
a quella della punteggiatura. Del resto, la punteggiatura stessa altro non era, inizialmente,
se non un sussidio per la lettura ad alta voce; e forse proprio da essa deriverebbe l’origine
più plausibile di questi primi segni di notazione musicale.
É giustificato scorgere un rapporto tra il potente rifiorire della parola scritta, alla fine
dell’VIII secolo, e la nascita della scrittura musicale di poco successiva. Lo sbalorditivo
consumo di pergamena documentato nell’epoca carolingia era dovuto sia all’esigenza di
ordine e chiarezza nell’impero, sia alla necessità di conservare viva la comprensione della
lingua latina, minacciata dall’avvento preponderante delle nuove lingue romanze. Allo
stesso modo, per assicurare la sopravvivenza del canto gregoriano, impedirne corruzioni e
alterazioni e mantenerlo uniforme in tutto l’impero, dal secolo X cominciarono ad essere
compilati manoscritti musicali ad uso degli stessi cantori professionisti che costituivano la
schola cantorum.
I tropi consistono nel ‘farcire’ di parole i lunghissimi melismi privi di testo che fanno parte di
alcuni canti, in modo tale che ogni nota del melisma corrisponda ad una sillaba del nuovo
testo.
Il testo aggiunto non è privo di legami con le parole del canto originario, ma ne è
un’amplificazione.
I tropi potevano consister anche nella semplice aggiunta di un nuovo melisma, oppure
nell’inserzione di nuove frasi. Le sequenze, che probabilmente erano in origine le ‘prose’
adattate ai melismi dell’Alleluia, divennero composizione completamente autonome.
I musicisti del IX secolo, dunque, non hanno inventato nulla: hanno solo incanalato anche
l’antichissima pratica di cantare a più voci nella spinta generale verso la codificazione
scritta.
Capitolo 4: La notazione neumatica e Guido d’Arezzo
Verso la fine del IX secolo sorse tuttavia l’esigenza di aggiungervi alcuni segni
supplementari. Per realizzare ciò, si impiegarono i cosiddetti neumi, tratti dai segni di
interpunzione o, forse, dagli accenti grammaticali.
Con il passare del tempo, però, anche gli esperti cantori della schola avvertirono la
necessità di annotare i canti liturgici di loro competenza, a cominciare con quelli di più rara
esecuzione. In alcuni casi, l’amanuense a cui veniva affidato questo compito doveva
inserire i neumi tra le righe di un manoscritto liturgico già compilato, che quasi mai gli
lasciava lo spazio sufficiente, fra una sillaba e l’altra, per scrivere tutti i segni necessari.
La distanza tra una riga e l’altra del testo era molto ravvicinata, il celeberrimo manoscritto
San Gallo 359 concede ai neumi uno spazio verticale di appena 9mm. Eppure, tutto ciò
non rappresentava un grande problema.
Poco importava che note di altezza diversa fossero tutte ugualmente indicate con una
virga, anche se spesso la mano dello scriba era portata a vergare un po' più in alto le note
più acute; di maggiore utilità era invece sapere se queste note dovessero essere cantate
tutte con leggerezza o qualcuna dovesse avere più peso delle altre.
Per precisare con scrupolosa esattezza tutte le particolarità del tracciato sonoro, venivano
talvolta aggiunte ai neumi alcune lettere convenzionali, dotate di vari significati. Si
aggiungeva anche indicazioni sul tipo di emissione fonatoria. I neumi assumevano perfino
una forma particolare, detta liquescenza.
Questa scrittura musicale (detta adiastematica) non è dunque uno stadio imperfetto di un
cammino che condurrà alla nostra notazione moderna: è invece un raffinatissimo sistema
di scrittura, perfettamente rispondente alle esigenze dei IX – X secolo.
Fin dai primissimi stadi della scrittura musicale neumatica, altri centri monastici assunsero
atteggiamenti diversi da quelli dell’abbazia di San Gallo. In alcuni monasteri francesi
dell’Aquitania si privilegiò un tipo di notazione che indicava con sufficiente
approssimazione anche l’altezza dei suoni; e fu questa tendenza (detta diastematica) che
finì per prendere il sopravvento.
Intorno all’anno 1000 il monaco italiano Guido d’Arezzo escogitò addirittura un metodo per
imparare a leggere all’impronta un canto nuovo, senza bisogno di alcun tramite umano.
Ma se la civiltà della memoria andrà trasformandosi in civiltà della lettura, il testo scritto
potrà sostituire il maestro; e dunque dovrà tralasciare di annotare molti particolari, per
limitarsi ad esporre con chiarezza e senza possibilità di fraintendimenti le singole note
della linea melodica. Il copista del testo cominciò così ad utilizzare solo le righe pari.
Lasciando al neumista le righe dispari. La linea a secco iniziò ad assumere spesso un
preciso ruolo di riferimento delle altezze dei suoni.
Un sistematizzazione dell’impiego del rigo musicale è dovuta all’opera del già citato Guido
d’Arezzo (991/2 ca – 1033). Egli propose di utilizzare un certo numero di linee, molto
ravvicinate tra loro; in tal modo, come nel moderno pentagramma, era possibile
posizionare le note sia sulle righe che sugli spazi intermedi tra una riga e l’altra. Così ogni
suono corrispondeva sepre e necessariamente ad un solo posto sul rigo musicale; per
ottene questo, però, c’era bisogno di stabilire esattamente a quale nota corrispondesse
ogni singola riga. Guido suggerì due metodi: segnare alcune linee con una lettera –
chiave tratta dalla notazione alfabetica, oppure colorare con inchiostro alcune delle linee a
secco.
L’adozione del rigo musicale illustrato da Guido d’Arezzo si diffuse lentamente in tutta
Europa, generando infine il rigo musicale a quattro linee (tetragramma), usato ancora oggi
per scrivere il canto gregoriano. Il pentagramma iniziò a comparire all’inizio del XIII secolo.
Anche la forma dei neumi andò alterandosi, per adattarsi all’esatta collocazione sul rigo: i
tratti generalmente sottili e sfumati dei primi tempi mutarono man mano, ingrandendosi e
squadrandosi, fino a divenire nel XII secolo la classica notazione del canto gregoriano,
detta appunto, notazione quadrata.
Di qui può sorgere una falsa immagine del medioevo. Il mondo medievale, era
interamente costellato di musica: i suoni partecipavano a pieno a tutte le attività sociali,
politiche, lavorative e ricreative.
Un’altra connotazione importantissima della musica, allora come oggi, era di fungere da
simbolo sonoro di un gruppo sociale. Dell’autorità, innanzitutto: la musica era quasi lo
stendardo fonico del monarca o dei suoi vassalli. Questa funzione simbolica di alcuni
strumenti si mantenne inalterata per secoli, penetrando perfino nel mondo teatrale.
Nell’età barocca i trombettisti percepivano compensi più alti degli altri strumentisti, proprio
in quanto erano inscindibilmente connessi con il prestigio politico e militare.
Come nell’antica Grecia, anche in epoca romanza la poesia lirica veniva composta per
essere soprattutto cantata, più che recitata o letta in silenzio.
Il più antico e vasto patrimonio di poesie in lingua volgare, le liriche dei trovatori, entra di
slancio nella storia della musica. Anche in questo caso ci si imbatte nel problema costituito
dall’origine orale del repertorio: sebbene i trovatori potessero talvolta servirsi di rotoli di
pergamena per appuntarvi i loro testi poetici, le relative intonazioni musicali erano
presumibilmente trasmesse secondo le modalità della tradizione orale. Solo tardivamente
si avvertì l’esigenza di fissare parole e musica nella poesia trobadorica in codici resistenti
all’usura del tempo. L’accuratezza di di tali manoscritti, quasi sempre riccamente miniati,
dimostra con ogni probabilità che essi furono commissionati da personaggi di alto rango,
per i quali il possesso di tali volumi equivaleva ad ostentazione di raffinatezza e di alta
competenza artistica.
I trovatori erano nella Francia meridionale nella zona di diffusione della cosiddetta lingua
d’oc, occitanica, in un periodo compreso tra la fine dell’XI e la fin del XIII secolo.
I giullari, personaggi onnipresenti nelle corti e nei villaggi medievali, erano gli eredi dei
antichi ioculatores: artisti girovaghi, spesso indigenti, essi non erano esclusivamente
musicisti e cantastorie, ma anche giocolieri o saltimbanchi. La comunità per relegandoli
agli ultimi gradini della scala sociale, li accetta senza punirli.
I menestrelli erano invece, soprattutto nella Francia del nord, giullari al servizio stabile di
un signore.
I trovatori si situano su un ben diverso piano. Il primo trovatore di cui ci sia rimasto il
nome era addirittura Guglielmo d’Aquitania, sgnore di un territorio più ampio di quello del
re di Francia.
Nelle poesie in lingua d’oc, l’amore è vissuto come dipendenza assoluta dell’amante verso
l’amata.
L’amor cortese giocava soprattutto sulla schermaglia amorosa, in un continuo balenare di
immagini spesso enigmatiche. L’amore era infatti anche misterioso, perché quasi sempre
adultero.
Varie ipotesi hanno cercato di risolvere il problema delle origini della letteratura
trobadorica. Alcuni studiosi hanno rintracciato precise corrispondenze con la musica sacra
ad essa contemporanea.
È stata avanzata allora un’ipotesi che all’inizio apparve molto azzardata, ma che ha
mantenuto ancora oggi un alto grado di attendibilità: la cosiddetta ipotesi araba. Le poesie
arabe prodotte durante il dominio islamico in Spagna presentano numerosi punti di
contatto con le liriche provenzali.
La discussione sulle origini della produzione in lingua d’oc è dunque ancora aperta. Al
contrario, è invece incontestabile la discendenza dell’arte dei trovatori di un’altra
letteratura in lingua volgare: quella dei trovieri, nella Francia del nord.
Il periodo di maggior sviluppo del repertorio trovierico si situa infatti nel XIII secolo, mentre
quello trobadorico va collocato prevalentemente nel XII secolo. Ma la più grande
differenza fra trovatori e trovieri consiste nella lingua impiegata: i trovieri non si
esprimevano in lingua d’oc, ma nella lingua d’oil, la quale darà origine al francese
moderno. I principali esponenti del mondo trovierico furono Chrétien de Troyes, il re
d’Inghilterra Riccardo I Cuor di Leone, Thibaut IV di Champagne, re di Navarra e Adam
de la Halle, noto anche come compositore di musica polifonica e autore del Jeu de Robin
et Marion.
Contenuti e forme delle composizioni trovieriche erano molto simili a quelle trobadorici;
anche i nomi dei generi poetici erano quasi sempre la traduzione in lingua d’oil delle
corrispondenti forme provenzali.
Le strutture metriche e musicali delle due produzioni non si lasciano inquadrare in schemi
troppo rigidi, poiché presentano una grande quantità di soluzioni formali diverse. Nella
tipologia più semplice e più comune usata dai trovatori, la musica di una cansò è costituita
da due soli frasi musicali. Anche i trovieri sfruttarono intensivamente il principio della
ripetizione di frasi musicali, applicando la struttura AAB ad un tipo di chanson detto
ballade ed impiegando soluzioni simili in altre chanson con refrain: il vilerai e il roundeau
Altre lingue romanze dettero origine a componimenti poetico – musicali sulla scia di quelli
dei trovatori: la Germania vide l’attività dei Minnesänger, tra cui Wolfram von Eschenbach,
Walter von der Vogelweide e Tannhäuser. Anche i minnesänger utilizzarono la forma AAB,
denominata Barform, impiegandola soprattutto nel genere del Lied, il corrispondente
tedesco della cansò provenzale.
Un repertorio composito, principalmente costituito dai canti goliardici dei clerici vagantes
scritti in latino, in antico tedsco e in francese, è contenuto nei cosiddetti Carmina Burana,
il cui nome deriva dall’abbazia di Benediktbeuren in cui fu trovato il manoscritto.
In ambito sacro, invece, otre alle laude sono rimaste abbondanti tracce di un particolare
repertorio in lingua latina: il dramma liturgico. Esso rappresenta un tipica espressione del
gusto medievale, il quale si orientava sempre più verso l’esteriorizzazione e la
visualizzazione del rito religioso.
Sulla scia di questa tendenza, venne introdotto un tropo all’introito della messa di Pasqua,
il quale proponeva uno scarno dialogo tra le pie donne che andavano al sepolcro di Gesù
e l’angelo che ne custodiva la tomba vuota: <<Quem quaeritis in sepulchro, o christicolae?
/ Jesum Nazarenum crucifixum, o caelicolae. / Non est hic, surrexit sicut praedixerat; / ite,
nuntiate quia surrexit de sepulchro.>>. Le prime fonti di questo tropo risalgono al X secolo;
ma già nello stesso secolo si assistette ad uno sviluppo drammaturgico del breve dialogo,
che venne ampliato alle proporzioni di un piccolo dramma, detto Visitatio Sepuchri e
testimoniato da copiosissime fonti provenienti da molte regioni europee.
Con il passare dei secoli, la Visitatio Sepulchri andò articolandosi in un numero crescente
di scene popolate da personaggi sempre più numerosi, dando luogo in tal modo a
numerosissime tipologie di Ludi paschales.
Verso la fine del XII secolo, tuttavia, era indispensabile arrivare a stabilire con esattezza la
durata delle note: ogni cantore doveva inserirsi nel movimento delle altre voci in un
incastro perfetto, come in uno di quegli orologi meccanici che proprio in quell’epoca
iniziavano ad essere collocati sulle torri civiche e campanarie.
L’abnorme prolungamento imposto alle note del canto gregoriano affidate al tenor era
possibile, però, solo se esse erano portatrici di una sillaba di testo; invece, quando nel
gregoriano originario la voce si slanciava in veloci e lunghi melismi su un’unica sillaba, una
simile operazione avrebbe significato snaturare del tutto l’idea stessa del melisma. Il tenor
usava allora un doppio criterio: quando il canto gregoriano era in stile abbastanza
sillabico, esso teneva lungamente fissa ogni nota; nel momento in cui il gregoriano
presentava un melisma, il tenor ingranava una marcia più veloce. Se il tenor svolgeva
normalmente una semplice funzione di bordone, nei punti corrispondenti ai melismi esso
dialogava fittamente con il duplum, e le due voci effettuavano un vero e proprio
contrappunto in stile discanto. Queste particolari sezioni dell’organum sono dette
clausole.
Qui si inserisce l’opera di Perotinus. Le clausole erano, chiaramente, la parte dell’organum
che più poteva spronare l’abilità tecnica di un compositore: si trattava di gestire voci
diverse che andassero in armonia tra loro.
Si è detto che all’epoca di Perotinus vennero composte numerose clausole da inserire nei
vecchi organa: i manoscritti che ci permettono di ricostruire il Magnus Liber hanno
addirittura molte clausole alternative che possono essere collocate nello stesso punto del
medesimo organum. Questo tipo di composizioi, però, aveva una caratteristica che, a
lungo andare, fu considerata un limite: la mancanza di un testo. Si è detto che la clausola
corrisponde al punto in cui il tenor incontra un melisma, cioè molte note sulla stessa
sillaba. Il testo dell’intera clausola consiste dunque solo nella sillaba stessa. Poiché in
francese il termine ‘parola’ viene detto mot, la clausola tropata assunse il nome di motteto.
Il mottetto del Duecento e del Tecento divenne ben presto una composizione autonoma,
eseguibile al di fuori del contesto liturgico, i cui testi trattavano frequentemente argomenti
profani. La sua caratteristica più importante è quella di essere politestuale.
Oltre ad essere differenziate nel testo, le voci del mottetto si distinguevano anche perché
scorrevano con velocità diverse. In genere, difatti, il tenor era disposto a note molto
lunghe; sopra di esso il motetus o duplum presentava un andamento più veloce, mentre il
triplum procedeva con un ritmo ancora più serrato.
Poco dopo la metà del Duecento, ancora nell’ambito di quella che oggi viene definita ars
antiqua, fu applicato per la prima volta un principio su cui si baserà la semiografia
musicale successiva: l’equivalenza tra segno scritto e significato sonoro. Fino ad allora,
infatti, nella notazione modale, lo stesso segno poteva avere molteplici significati a
seconda del contesti all’interno del quale fosse posto.
A partire dal trattato Ars cantus mensurabilis di Francone di Colonia, che scrisse il suo
volume tra il 1260 e il 1280 i diversi valori delle note iniziarono ad essere espressi da
figure differenti, inaugurando quella che sarà chiamata musica mensurale, ovvero musica
misurabile.
Intorno all’anno 1300 nel pensiero musicale francese si verificò un grande mutamento, che
la moderna musicologia ha denominato per l’appunto ars nova: nella pratica musicale
venne ‘alta’ venne introdotta la suddivisione binaria alla pari con quella ternaria. In
aggiunta a ciò, una nuova figura musicale venne ad affiancarsi a quelle preesistenti;
poiché era di valore ancora più piccolo della semibreves venne detta minima.
Contro le innovazioni dell’ars nova, tuttavia, si scatenò intorno al 1320 una violentissima
polemica che coinvolse le maggiori personalità dell’epoca, provocando addirittura
l’intervento del papa Giovanni XXII.
I teorici trecenteschi propugnatori della nuova concezione del ritmo – primo fra tutti
Johannes de Muris – sostenevano che la musica poteva essere suscettibile di progresso
e che non aveva affatto raggiunto una stabilità definitiva e immutabile.
Philippe de Vitry (1291 – 1361), diplomatico e vescovo, era considerato dai
contemporanei il massimo musicista e poeta francese. Intorno al 1322 – 23 gli
insegnamenti di Vitry vennero raccolti in un trattato dal titolo così sintomatico da essere
assunto, nel nostro secolo, come emblema della musica del Trecento: Ars Nova.
Anche Guillame de Machaut (1300 ca. – 1377), un ecclesiastico che fu al servizio di
varie corti europee, aveva acquistato notevole fama sia come poeta sia come
compositore. Egli pure scrisse numerosi mottetti, ma la sua notorietà è legata soprattutto
alle composizioni profane in fracese, alcune delle quali sono inserite in due poemi scritti
dallo stesso Machaut: Remède de fortune (1342 ca) e Voir dit (1360 – 63).
Sia nelle composizioni di Vitry che in quelle di Machault è evidente la tensione verso
l’autonomia della forma musicale rispetto al testo. Entrambi gli autori, infatti, fecero ampio
uso di un artificio che ebbe grande diffusione fino al Quattrocento: l’isoritmia.
Fino ad allora la forma musicale era stata determinata essenzialmente dal rapporto con la
parola: nel canto gregoriano, il testo liturgico suggeriva sia la linea melodica che il ritmo; la
stessa polifonia, come abbiamo visto, era stata considerata come un’ulteriore
amplificazione del gregoriano, il quale era sempre posto al, tenor quasi come le
fondamenta di un edificio. Con l’ars nova tutto cambiava: la forma musicale iniziava a
mutare le sue leggi dal calcolo razionale, sganciandosi dal rapporto con la parola e
cercando la strada per una propria autonomia.
Il più agguerrito difensore dell’ars antiqua fu Jacobus di Liegi, nel trattato Speculum
musicae (1330 ca.). Con un pizzico di ironia, egli si accinse a dimostrare come l’apparente
‘progresso’ dell’ars nova era in realtà solo un’illusione. Innanzitutto, l’aver introdotto valori
più piccoli cambiava solo l’aspetto grafico di una composizione, non la sua sostanza. Il
cambiamento si limitava all’impiego della minima al posto della semibrevis, della
semibrevis al posto della brevis e così via: nulla di più, dunque, che una specie di
inflazione dei valori musicali. Inoltre, l’alternativa posta dall’ars nova solo tra suddivisione
binaria e suddivisione ternaria giungeva addirittura ad impoverire la ricchezza ritmica di cui
già disponevano gli antichi. Un teorico dell’ars antiqua successivo a Francone, Petrus de
Cruce, aveva infatti contemplato la possibilità di usare anche cinque o sette semibreves
per una brevis, fino a nove: questa libertà non sarebbe stata più possibile con il nuovo
sistema di notazione.
Oltre a queste constatazioni tecniche, ve ne erano altre due di carattere più generale.
La prima, sempre ad opera di Jacobus, era di natura estetica: è preferibile aumentare le
complicazioni e spingere la musica verso una maggiore cerebralità o, piuttosto, cercacare
di accostarsi alla semplicità della natura?
Il Duecento musicale italiano sembra, allo stato attuale della conoscenza, orientato
prevalentemente verso la pratica non scritta he privilegiava la dulcedo dell’espressione
poetica rispetto alla subtilias contrappuntistica, coltivata invece dai compositori d’oltralpe.
Sono rimaste numerose testimonianze di un particolare repertorio sacro extraliturgico di
tradizione prevalentemente orale: le laude. Esse erano canti devozionali in volgare,
monodici, di struttura strofica, eseguiti prevalentemente in occasione di processioni,
riunioni di devoti e simili. La fonte musicale più importante è il cosiddetto Laudario di
Cortona, che sembra risalire prima del 1297 ed è tuttora conservato nella cittadina
toscana. Un’altra fonte imprescindibile è il codice Magliabechiano di Firenze, anch’esso
posseduto da una confraternita, ma assai più sontuoso e decorato del precedente, nonché
di datazione più tarda (prima metà del XIV secolo).
Alla diffusione delle laude nell’Italia centrale duecentesca non fu estranea la dirompente
penetrazione della spiritualità francescana. Lo stesso Cantico delle creature di san
Francesco d’Assisi, che risale proprio all’inizio del XIII secolo, può essere considerato
quasi come un progenitore delle laude duecentesche.
Tra gli esponenti dell’ars nova italiana figurano Marchetto da Padova e Jacopo da
Bologna. Marchetto scrisse, in collaborazione con il filosofo domenicano Sifante da
Ferrara, due trattati sulla notazione: il Lucidarium del 1309 – 18 e il Pomerium del 1321 –
26. Il sistema italiano di notazione sistemizzato da Marchetto, pur se indipendente da
quello dell’ars nova francese, ammetteva anch’esso tanto la suddivisione ternaria quanto
quella binaria. Poiché la scansione binaria era considerata tipica della musica italiana e
quella ternaria era ritenuta caratteristica dello stile francese, poteva accadere che
nell’ambito di un’unica composizione le parti con suddivisione binaria usassero la
notazione italiana, mentre quelle con suddivisione ternaria fossero notate secondo le
teorie di Vitry e de Muris.
Il madrigale del Trecento era una composizione generalmente a due voci, d’impianto
strofico. Esso era infatti costituito generalmente da due o più terzine di endecasillabi,
intonate tutte sulla stessa musica (A), come le strofe di una moderna canzone. Alla fine
della serie di strofe, il componimento veniva chiuso da una coppia di endecasillabi a rima
baciata detta ritornello, che era cantata su una musica (B) diversa da quella delle strofe.
Questa forma fu chiamata in Italia madrigale proprio perché era, per antonomasia, il
genere musicale in lingua madre.
Quando il soggetto dei madrigali descriveva invece scene di caccia esso assumeva una
forma molto particolare, che veniva definita per l’appunto caccia. Sempre all’interno dello
stesso impianto strofico, la musica imitava l’inseguimento di una preda da parte di cani e
cacciatori: una voce intonava la melodia per prima, quasi fuggendo in avanti; dopo
qualche istante, mentre essa continuava la sua corsa, partiva anche la seconda voce.
Questo artificio che si chiama canone, è conosciuto in moltissime civiltà, anche in quelle
senza scrittura. Nella caccia trecentesca era spesso presente anche una terza voce,
indipendente dalle prime due ed eseguita da uno strumento.
Si tratta di una teoria del medio proporzionale: prendendo un segmento (A), lo si può
divider in due parti diseguali in modo che la parte maggiore (B) sia esattamente il medio
proporzionale dell’intero segmento e la parte minore ( C ), giacché la stessa relazione
numerica deve legare B sia all’intero segmento A che alla rimanente parte C. Dunque,
dato questo segmento, dove A=B+C, si verifica che A:B=B:C.
Diciamo allora che B, medio proporzionale, è la sezione aurea dell’intero segmento (cioè
di A).
I musicisti si servirono di questo artificio fin dai tempi dell’ars nova, con Guillame de
Machaut e altri. Ma fu proprio nel Quattrocento – ad opera di Guillame Dufay – che la
sezione aurea fu utilizzata intensivamente come principio generatore della forma a tutti i
livelli: vi sono composizione di Dufay in cui è pienamente realizzata la possibilità di creare
una struttura di sezioni auree sempre più piccole, ad incastro come le matrioske.
Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, si ha un’assimilazione dei sistemi di
notazione francese ed italiano, tale fenomeno è dovuto ad una serie di avvenimenti.
Innanzitutto va segnalato che nel q738 la sede papale tornò a Roma, spostando in modo
sensibile il baricentro politico – religioso della Chiesa. In secondo luogo, i compositori
iniziavano a diventare veri e propri professionisti, che si spostavano fra le varie corti
europee per arricchire il proprio bagaglio tecnico e culturale, nonché per cercare impieghi
retribuiti in modo sempre più cospicuo.
Filippotto da Caserta, un compositore campano vissuto a cavallo dell’anno 1400, fu
probabilmente attivo sia alla corte papale di Avignone, sia alla corte aragonese di Napoli,
sia alla corte di Giangaleazzo Visconti a Milano; nessuna meraviglia, dunque, che egli
fosse un esponente di primo piano della cosiddetta ars subtilior, il nuovo stile coniugava
elementi italiani e francesi ottenendo risultati di estrema complessità e raffinatezza.
La ricchezza che fin dal XIV secolo, grazie soprattutto ai traffici commerciali e alla
produzione tessile, si stava accumulando nella regione fiamminga permise di costruire
grandi cattedrali, e di istituire presso di esse gruppi stabili di cantori professionisti.
Gilles Binchois (1400 ca. – 1460), che fu per quasi tutta la sua vita alla corte
Borgognona.
Josquin Desprez (1440 ca. – 1521), anche egli probabilmente allievo di Ockeghem,
ripercorse strade molto simili a quelle di Dufay, frequentando le corti più importanti della
penisola. Giovanissimo, giunse a Milano, presso il duca Galeazzo Maria Sforza; dopo che
questi fu assassinato, nel 1746, Josquin fu al servizio del fratello di costui, il cardinale
Ascanio Sforza. Dopo un breve periodo trascorso in Francia, i suoi contatti con la corte
ferrarese gli fruttarono una nomina a maestro di cappella a Ferrara e uno stipendio che il
più alto mai pagato ad un musicista di quella istituzione. Infine, anche egli torno al nord,
dove fu al servizio di Luigi XII di Francia. Il posto lasciato vacante da Josquin a Ferrara fu
occupato per breve tempo da un altro fiammingo, Jacob Obrecht (1440 ca. – 1505), che
precedentemente aveva passato quasi tutta la vita nella zona delle Fiandre. Strettamente
legato alla corte dei Medici, a Firenze, fu invece Heinrich Isaac (1450 ca.– 1517).
La quarta generazione, che abbraccia la prima metà del XVI secolo e sarà determinante
per lo sviluppo della musica cinquecentesca italiana, comprende Adrian Willaert (1490
ca. – 1562) e Cipriano de Rore (1515/16 – 1565), ambedue attivi soprattutto a Venezia;
ad essi possiamo aggiungere i francesi Philippe Verdelot (1470/80 – prima del 1552) e
Jacques Arcadelt (1505 ca. – 1568) che gravitavano invece tra Firenze e Roma.
La quinta generazione, che si colloca nella seconda metà del Cinquecento, ha come
esponenti principali Orlando di Lasso (1532 – 1594), che fu maestro di cappella nella
basilica di San Giovanni in Laterano a Roma e che successivamente occupò la stessa
carica alla corte di Monaco di Baviera, Philippe de Monte (1521 – 1603), anch’egli
vissuto prima in Italia e poi nei paesi tedeschi e Giaches de Wert (1535 – 96) il quale,
dopo aver lavorato in varie città della penisola (Napoli, Ferrara, Parma e Milano), fu
nominato compositore di corte e maestro di cappella a Mantova.
Le estreme propaggini fiamminghe si estendono con un’ultima, sesta generazione,
rappresentata da Jan Sweelinck (1562 – 1621).
Il genere musicale del mottetto stava subendo una notevole evoluzione. Nato nel
Duecento come composizione liturgica, nel periodo dell’ars nova esso divenne
prevalentemente il passatempo musicale di un’élite di intellettuali che frequentavano
l’Università di Parigi. Nel XV secolo si ebbe la graduale trasformazione del mottetto in
composizione destinata a cerimonie pubbliche, civili e religiose; andò dunque
scomparendo la politestualità, e la lingua prevalentemente usata divenne quella più
ufficiale e solenne: il latino.
Il medioevo era stato affascinato dall’idea della varietà: il mottetto del Trecento era
l’insieme sfaccettato di più voci, affidate a cantori e strumenti insieme, con test diversi, su
melodie differenti che procedevano a velocità diseguali tra di loro, e che tuttavia
concorrevano a formare un’insieme armonico.
Anche in questo caso, la spinta propulsiva sembrerebbe provenire dalla Francia: nella
seconda metà del Trecento, il matematico, astronomo, economista e letterato Nicola
Oresme, tradusse inFrancese la Politica di Aristotele.
Avere la presenza di ‘voci’ diverse nelle famiglie strumentali le rendeva simili a piccoli cori,
e le assimilava così alla musica vocale; divenne consueto, allora, eseguire le musiche
polifoniche sostituendo le voci umane con gruppi di strumenti.
L’accostarsi delle classi alte alla musica strumentale determinò la produzione di una ricca
letteratura di composizioni didattiche e di trattati che insegnavanno ai dilettanti come
suonare correttamente i vari strumenti.
L’ultima tappa del percorso di trasformazione della chanson sempre nella seconda metà
del Cinquecento, sarà a sua volta il trampolino di lancio per la creazione delle principali
forme di musica strumentale del periodo barocco.
Punto di partenza per la produzione a doppio coro tipica della basilica marciana possono
essere considerati i salmi di Adrian Willaert, pubblicati aVenezia nel 1550, seguiti da
mottetti e altre composizioni di Andrea Gabrieli e, soprattutto, dalle Sacrae Symphonie
(1597) e dalle Symphonie Sacrae (1615) di Giovanni Gabrieli, che impiegano ampi
organici corali e strumenti.
Il Fiammingo Adrian Willaert, maestro di cappella dal 1527, può essere considerato come
capostipite della cosiddetta scuola veneziana; nel 1563 gli successe un altro fiammingo
della quarta generazione; il suo allievo Cipriano de Rore. Un altro allievo di Willaert, quel
Gioseffo Zarlino (1517 – 1590) che resterà nella storia soprattutto come teorico, ricoprì la
carica dal 1565 fino alla morte.
La celebre data del 31 ottobre 1517, giorno in cui Lutero affisse le sue 95 tesi dottrinali alla
porta della chiesa del castello di Wittemberg, segna una tappa importante anche la storia
della musica.
Dalle opinioni teologicamente eversive del monaco tedesco scaturiva un’impostazione di
taglio del tutto nuovo. Innanzitutto, poiché veniva sancito il diritto, per il credente, di
accedere al libero esame della Bibbia, questa doveva essere redatta in lingua volgare,
comprensibile, anche alle persone non colte. Lutero, dunque, tradusse la Bibbia in
tedesco.
La partecipazione attiva dei fedeli al culto doveva poi realizzarsi anche attraverso il canto:
Lutero, appassionato di musica ed eccellente suonatore di liuto e di flauto, considerava
infatti la musica, sacra e profana, come un mezzo potente perché gli uomini potessero
elevarsi fino a Dio. Secondo Lutero, il rapporto testo-musica doveva essere il più stretto
possibile, ricalcando quasi quel processo di amplificazione del testo che, come si è visto,
aveva caratterizzato il gregoriano: l’accentuazione, il profilo melodico e l’andamento
generale dovevano scaturire dalla pronuncia stessa della lingua tedesca. Questi canti
religiosi in tedesco vennero spesso armonizzati a quattro voci, dando luogo alla nascita di
un genere che sarà detto corale protestante.
Lutero si batté con tenacia anche perché la musica continuasse a far parte del programma
educativo nelle scuole fin dai primi gradi dell’istruzione: <<è assolutamente necessario
conservare la musica nella scuola>>.
Infine, ciò su cui soprattutto il Concilio di Trento insistette fu la comprensibilità delle parole:
gli intrecci polifonici andavano semplificati, in modo da rispettare come priorità assoluta la
corretta e chiara dizione del testo liturgico.
Scrivere polifonia rispettando la comprensibilità del testo divenne quel periodo uno dei
modi di realizzare una messa, a fianco dello stile tradizionale.
Il Palestrina stesso, in una lettera del 2 febbraio 1568 al duca di mantova Guglielmo
Gonzaga, gli domandò come la desiderasse: corta , lunga, o composta in modo che si
potessero capire le parole.
Il Palestrina fu un musicista particolarmente sensibile ai dettami della Controriforma.
Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525 ca. – 1594) fece parte in varie riprese, di tutte e
quattro le principali cappelle romane. Egli probabilmente nacque a Palestrina, vicino
Roma; a Roma fu accolto tra i pueri cantores della Cappella di Santa Maria Maggiore,
cantando sotto la guida di due musicisti francesi, Rubein Mallapert e Firmin Lebel. Nel
1544 Giovani Pierluigi fu assunto dalla cattedrale di Palestrina con mansioni di maestro di
cappella; in questa città si sposò ed ebbe alcuni figli. Nel 1550, un avvenimento favorevole
segnò una svolta fondamentale nella sua carriera: fu proprio il vescovo di Palestrina,
Giovanni Maria Del Monte, ad essere eletto papa con il nome di Giulio III.
Nel 1551 fu nominato maestro della Cappella Giulia e nel 1554 potè pubblicare il suo
primok libro di messe, dedicato al pontefice in persona.
Alterne vicende condussero il Palestrina ad operare anche nella Cappella Sistina, in quella
di Santa Maria Maggiore, nonché ad insegnare al Seminario Romano, ad essere
saltuariamente al servizio del cardinale Ippolito II d’Este, per ritornare infine a ricoprire la
carica di maestro della Cappella Giulia, carica che occupò dal 1571 fino alla morte. Nel
frattempo il consolidarsi della sua fama lo portò ad essere contattato sia dall’Imperatore
Massimiliano II, sia del duca Guglielmo Gonzaga di Mantova.
Il Palestrina non poteva esimersi dal conoscere bene lo stile dei compositori di area
fiamminga e francese, impiegando tutte le tipologie allora in uso per la costruzione delle
messe: dalla forma ormai antiquata della messa su cantus firmus, in cui tenor giaceva
immobilizzato in note lunghe, alla messa parodia.
Egli proseguì su quella strada che abbiamo definito ‘dalla varietà all’unità’, non solo dal
punto di vista contrappuntistico, ma anche dal punto di vista delle dissonanze. Gli urti
dissonanti vennero affrontati dal Palestrina con estrema cautela, quasi fossero qualcosa
di troppo pungente per essere usato con libertà. Anche ogni altro particolare nella
condotta delle voci tendeva a smussare qualsiasi tipo di asprezza, facendone scaturire
uno stile estremamente levigato, morbido, rispettoso della corretta accentuazione della
parola ma totalmente indifferente al loro contenuto.
Lo stile ‘alla Palestrina’ divenne allora lo stile ‘ecclesiastico’ per eccellenza, resistendo
quasi immutato per secoli, pressoché impermeabile alle novità musicali sperimentate nei
repertori profani.
Intorno agli anni ‘20 – ‘30 del Cinquecento, queste esigenze ancora frammentarie
ricevettero uno slancio decisivo dalle teorie di un celebre letterato: Pietro Bembo. Questi
non fu importante solo per aver propugnato la via del petrarchismo, ma per aver introdotto,
soprattutto nel secondo libro delle Prose della volgar lingua (1525), un nuovo criterio si
intendere la poesia.
Bembo puntò l’attenzione sul fatto che, in poesia, la sonorità e il ritmo delle parole hanno
una diretta ripercussione sul significato stesso: una parola non intercambiabile con un suo
sinonimo, perché esso determinerebbe una mutazione di sono e quindi un cambiamento
nel senso stesso della frase. Per chiarire il concetto, egli propose un esempio concreto. Il
Decameron di Boccaccio inizia con una frase in cui il suono dei vocaboli e il ritmo degli
accenti creano un potente effetto di ‘gravità’.
Aver considerato la parola più sotto l’aspetto fonetico che sotto quello semantico portava
con sé un’altra conseguenza; per sfruttare le proprietà sonore della parola, il poeta
doveva servirsene con la più grande libertà, senza soggiacere a schemi troppo rigidi di
rime, metri, accenti e strofe; in questo, Bembo contrapponeva la varietà delle soluzioni
adottate da Petrarca alla fissità di struttura delle terzine dantesche.
Allora, il legame con la musica non poteva incanalarsi con naturalezza in forme fisse
quale, ad esempio, la frottola; questa era infatti una forma strofica, in cui più di un verso
sera sottoposto alla stessa frase musicale; le parole non potevano avere quindi un
rapporto univoco ed esclusivo con la propria musica. Il nuovo tipo di poesia aveva bisogno
di una veste musicale duttile che assecondasse la musicalità di ogni singola parola
accogliendola ed esaltandola; niente strofe e ritornelli, dunque, ma una forma prefissata,
che con un termine tedesco moderno potremmo definire durchkompiniert.
Questa forma ‘informale’ di cui si sentiva il bisogno esisteva già, pur senza avere ancora
assunto il nome con cui divenne celebre dal 1530 in poi: era il madrigale.
A Firenze negli anni ‘20 del XVI secolo, si stava sperimentando una nuova forma
polifonica, soprattutto ad opera del musicista francese Philippe Verdelot (1470/80 –
prima del 1552), maestro di cappella del Duomo e del Battistero. Egli mise in musica
alcuni testi, molti dei quali erano scritti da letterati gravitanti intorno al circolo filo –
repubblicano, fondamentalmente ostile ai Medici, che si riuniva agli Orti Oricellari
probabilmente su commissione dei poeti stesi.
La caratteristica di maggiore importanza era però l’assoluta omogeneità e parificata e
parificazione tra le voci.
Nel 1539 furono pubblicati a Venezia quattro libri di madrigali di un autore di origine
fiamminga o francese, Jacques Arcadelt (1505 – 1568), i quali si guadagnarono subito la
predilezione degli acquirenti: negli anni ‘40 si assistette ad una serie martellante di stampe
e ristampo di madrigali di Verdelot e di Arcadelt.
Una volta approdato a Venezia, il madrigale subì una notevole evoluzione: la sua
appropriazione da parte di Willaert e soprattutto da Cipriano de Rore vi inserì una
massiccia infusione di contrappunto fiammingo. In linea con queste tendenze, il Primo
libro dei madrigali cromatici di Cipriano de Rore (Venezia 1544) inaugurò un termine che
verrà usato in una duplice accezione: i madrigali di Rore erano cromatici perché usavano
le crome, ossia note di valore molto veloce che infittivano il movimento delle voci; ma ben
presto il termine ‘cromatico’ passò ad indicare un nuovo stile armonico, che faceva largo
uso di note alterate e di brusche modulazioni che ‘colorivano’ (cromatizzavano)il percorso
armonico.
Tra i maggiori autori troviamo, a fianco dei fiamminghi della cosiddetta quinta generazione,
come Orlando di Lasso, Philippe da Monte e Giaches de Wert, anche numerosi
compositori italiani, interessati di nuovo alla musica scritta, dopo la parentesi
quattrocentesca in cui si erano dedicati prevalentemente ai repertori di tradizione orale. I
principali autori italiani di madrigali furono Giovanni Pierluigi da Palestrina, Luzzasco
Luzzaschi (1545 – 1607), Luca Marenzio (1554 – 1599) e Carlo Gesualdo principe di
Venosa (1560 ca. – 1613). Infine, troviamo Claudio Monteverdi, che traghetterà
definitivamente il madrigale rinascimentale fin sulle sponde dell’epoca barocca.
Nacquero i cosiddetti madrigli dialogici o drammatici, in certi casi detti anche ‘commedie
madrigalesche’: una serie di madrigali in stile molto semplice e di contenuto spesso
scherzoso, i cui testi erano collegati fra loro da una fitta trama unificante. Il primo esepio fu
creato da un nobiluomo mantovano vissuto per lunghi anni a Firenze, Alessandro
Striggio (1535 ca. – 1597), con Il cicalamento delle donne al bucato (1567). Il
compositore più importante è però Orazio Vecchi (1550 – 1605), modenese, la cui opera
più nota è L’Ampifarnaso comedia harmonica (1597), seguito da Adriano Banchieri (1568
– 1634), bolognese con La pazzia senile (1598), la Saviezza giovenile (1628) e altre
composizioni.