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Capitolo I: La musica nel mondo antico

Paragrafo I: Musica greca e civiltà occidentale

La musica che siamo soliti ascoltare, a quale cultura fa riferimento? Domanda complessa che può
avere solo una risposta parziale; interrogativo che in parte rimarrà senza una soddisfacente
soluzione. Ciò non è dovuto ad una particolare cattiva sorte della storia che ha cancellato i
documenti essenziali, ma a motivi più profondi. Il destino storico della musica è stato
profondamente diverso da generare non solo una storia di tipo diverso ma anche un tipo diverso di
coscienza storica.
Per la musica abbondano le notizie tramandateci dai filosofi dell'antichità, ma praticamente ci sono
rimasti solo pochi frammenti e di difficile interpretazione. Questa pressoché totale mancanza di
testimonianze storiche concrete sulla musica antica non è evidentemente frutto di un incidente
storico ma di un ben preciso atteggiamento di fronte ad essa, per cui non si riteneva che fosse
un'arte da tramandare alla posterità. Infatti è stata forse l'unica arte che per moltissimi secoli non ha
avuto un'idea di classicità, un modello reale a cui riferirsi, un modello da imitare o da cui tenersi
lontano, come è avvenuto per tutte le altre arti in occidente che hanno così creato una continuità
storica e al tempo stesso un principio dinamico di sviluppo.
Assai difficile perciò rispondere esaustivamente al primo interrogativo che ci si è posti e la risposta
più consueta che la musica affondi le sue radici nella Grecia classica, va presa con alcune cautele.
Per più di un motivo possiamo dire di essere i diretti eredi della civiltà classica. La mancanza di una
solida tradizione musicale ha permesso che la musica fosse molto più permeabile e sensibile ad altri
richiami culturali senza scossoni. Si è così potuto creare un curioso fenomeno nella storia della
musica: musicisti e teorici, dal Medioevo sino a tutto il Rinascimento e oltre, hanno continuato a
richiamarsi ad un modello teorico che tuttavia non era più conosciuto, e che era stato modificato
radicalmente dai teorici successivi senza però averne coscienza e senza potersi riferire ad una prassi
artistica di cui si era del tutto persa la traccia.
Abbiamo numerosissime testimonianze di tipo letterario, filosofico e teorico su ciò che era la
musica nel mondo antico, per cui possiamo ricostruire anche nel dettaglio la vita musicale
dell'antica Grecia. Anzitutto va ricordato che il termine mousiké non aveva lo stesso significato che
ha oggi per noi: tale termine aveva un significato più complesso e si riferiva ad un complesso di
attività artistiche che comprendevano la musica, la poesia, la danza e in parte anche la ginnastica.
Non è un caso se i pochissimi documenti musicali pervenutici dal mondo greco sono tutti posteriori
al III sec. a.C. Ciò non significa che nei secoli precedenti la musica fosse meno praticata o ritenuta
meno importante ma piuttosto che non si riteneva utile trasmetterla per iscritto.
Reperti archeologici, vasi decorati, resti di strumenti attestano che la civiltà musicale greca più
antica è debitrice di altre civiltà ancora più antiche e in particolare alle civiltà fiorite nel bacino
mesopotamico, a quella egizia e a quelle civiltà fiorite ancora più ad oriente. Tutti gli strumenti
musicali usati dai greci si trovano già sviluppati in Egitto e in Mesopotamia: arpe, cetre, flauti di
vario tipo, sistro, erano strumenti già sviluppati sin dal III millennio a.C. Ciò non toglie nulla
all'originalità della sintesi che di tali molteplicità hanno operato i greci nella loro storia, imprimendo
ad essi nuova vita attraverso una rielaborazione originale ed unitaria.

Paragrafo II: I miti musicali e le testimonianze più antiche

Rispetto alle altre civiltà antiche si può arguire che, se per questi popoli la musica era strettamente
legata al culto religioso e alla classe sacerdotale, presso i greci assunse un carattere più ricreativo e
in senso lato più laico, ed infine anche educativo. In un passo del De musica, lo Pseudo-Plutarco,
con scarso senso della cronologia, mescola miti e fatti reali, ma così facendo fornisce alcune
preziose indicazioni. Il richiamo a Chirone ci riporta ad un'epoca anteriore a quella omerica, epoca
in cui la musica doveva essere concepita come strettamente legata con altre arti quali la medicina,
gli incantesimi, la danza e la ginnastica; inoltre doveva essere considerata come un elemento
essenziale dell'educazione aristocratica.
Le testimonianze omeriche ci presentano, soprattutto nell'Odissea, la figura del musicista come
professionista della sua arte. Il tardo citaredo non pratica più un rito religioso, non compie
incantesimi, non guarisce malattie, ma canta unicamente per diletto degli ascoltatori senza alcun
altro fine. Il cantore si accompagna sulla lira, strumento tipicamente ellenico, mentre l'aulos fu
guardato sempre con un certo sospetto dai difensori della tradizione, essendo di importazione
asiatica. L'invenzione dell'aulos è attribuita a Marsia o al suo figlio ed allievo Olimpo, vissuti in un
tempo anteriore ad Orfeo, e ciò con l'intento di attribuire una priorità logica e cronologica alla
musica pura. L'aulos inoltre è legato al culto di Dionisio e ai riti orgiastici propri di una civiltà
preomerica. Orfeo invece suona la lira accompagnandosi col canto, e la tradizione vuole che
l'inventore della lira sia stato Apollo, il dio della bellezza. Alla base delle molte leggende che
riguardano la minore o maggiore antichità della lira o dell'aulos sta evidentemente il desiderio di
stabilire la priorità di una musica che si basa unicamente sulla potenza quasi magica ed incantatoria
del suono o di una musica che, accompagnandosi alla parola, si lega e si associa ad un fattore più
razionalmente controllato.
La musica occupa una posizione centrale nella cosmogonia e nella metafisica dei pitagorici
imperniate sul concetto di armonia. In tutto il cosmo regna l'armonia ed essa viene concepita
innanzitutto come unificazione dei contrari. Se il cosmo è armonia anche l'anima è armonia per i
pitagorici. Tale concetto si completa con quello di numero, concetto peraltro assai oscuro. Per i
pitagorici la natura più profonda dell'armonia e del numero è rivelata proprio dalla musica. Secondo
Filolao, filosofo di scuola pitagorica, i rapporti musicali esprimono nel modo più tangibile ed
evidente la natura dell'armonia universale e perciò i rapporti tra i suoni, esprimibili in numeri,
possono essere assunti come modello dell'armonia universale. La musica perciò è un concetto
astratto che non coincide con la musica che risuona agli orecchi. Musica, ovvero armonia, può
essere a maggior ragione lo studio teorico degli intervalli musicali o ancora la musica prodotta dagli
astri che ruotano nel cosmo secondo leggi numeriche e proporzioni armoniche: questa sarebbe la
Musica delle Sfere, concetto che avrà fortuna ancora nel Medioevo e persino nel Rinascimento e
oltre. Lo studio matematico degli intervalli musicali così come la divisione della scala nasce proprio
da questo concetto di armonia e numero.
Secondo i pitagorici anche l'animo è armonia; di qui discende un altro principio di basilare
importanza nel pensiero greco: la musica ha un grande potere sul nostro animo e tale potere si fonda
proprio sull'affinità della natura della musica con quella dell'anima. Nei testi dei pitagorici ricorre a
questo proposito frequentemente il termine catarsi (purificazione), indicando con ciò anche una
parentela tra la musica e la medicina. La musica veniva infatti considerata come la medicina per
l'anima.

Paragrafo III: L'armonia e l'ethos della musica

Secondo Damone ogni tipo di musica imita un certo tipo di carattere. Questi affermava che l'anima
è movimento e che dal momento che anche il suono è movimento, c'è una corrispondenza diretta e
un'influenza reciproca tra musica e anima. Altri trattatisti associano il carattere (ethos) della musica
al modo in cui era scritta e attribuivano ad esempio al modo frigio il carattere di sfrenatezza mentre
a quello dorico attribuivano il carattere di pacatezza e saggezza.
Dottrine anche diverse presenti nella scuola pitagorica e in Damone trovano una loro sistemazione
nella filosofia di Platone. Nei suoi dialoghi l'idea già affermata da Damone diventa centrale. Con
Platone si accentua il drammatico problema già presente nel pensiero pitagorico: la frattura radicale
tra la musica udita e quella solamente pensata. Infatti Platone sembra oscillare tra una radicale
condanna della musica e una considerazione di essa quale suprema forma di bellezza e quindi di
verità. Nella Repubblica prevale la condanna della musica: non solo non accenna ad alcuna sua
virtù educativa ma mette in luce il fatto che il suo ascolto ci allontana dalla contemplazione della
bellezza. Questa considerazione negativa della musica si trova ogniqualvolta Platone la considera
come esercizio effettivo di un'arte. Secondo Platone le musiche eventualmente accettabili sono
quelle consacrate dalla tradizione. Egli si trova infatti di fronte alla cosiddetta rivoluzione musicale
del V secolo. Di fronte ad essa il filosofo manifesta la sua più profonda avversione. Per Platone
infatti la musica è oggetto di condanna in quanto fonte di piacere, anche se potrebbe essere
cautamente accettata purché depurata dalle armonie dannose. Inoltre la musica può anche essere
considerata una scienza e, in quanto tale, oggetto non più dei sensi ma della ragione.
Nel Fedone Platone afferma per bocca di Socrate che un demone nel sogno lo incitava ad esercitarsi
alla musica e a comporre. Questa identificazione del comporre musica con il filosofare non è
casuale né contraddittoria con le precedenti posizioni. Nel Fedro la musica appare come un dono
divino di cui l'uomo può appropriarsi ma solo ad un certo livello, cioè quando raggiunge la sophia.
Ovviamente la musica di cui parla in questi passi non è la stessa di cui parla nella Repubblica.
Platone si riferisce a due concetti di musica difficilmente conciliabili: a volte si richiama alla
musica che si ode con le orecchie, a volte si riferisce ad una musica puramente intelligibile e quindi
senza apparenti legami con il mondo reale della musica. L'atteggiamento negativo di Platone è nei
confronti del primo concetto di musica e delle sue innovazioni. Infatti sarebbe un controsenso
pensare di operare mutamenti ed innovazioni in un'arte i cui principi sono stabili ed eterni come il
mondo. Conservare la tradizione significa per Platone conservare alla musica il suo valore di legge.
Di qui l'atteggiamento che può sembrare equivoco e ambivalente di Platone: se il musicista può
essere visto come un corruttore dei giovani, nello stato ideale, per altro verso, l'educazione musicale
è altamente necessaria e auspicabile, purché corretta.

Paragrafo IV: I nomoi e la rivoluzione musicale del V secolo

Lo Pseudo-Plutarco ci parla del poeta e musico Terpandro, vissuto a Sparta nel VII secolo a.C.
come inventore dei nomoi. Il termine nomos significherebbe legge, per cui si può pensare che per
metafora nella musica i nomoi fossero schemi melodici stabiliti in modo preciso per le varie
occasioni a cui le varie melodie erano state destinate.
I nomoi, secondo varie testimonianze, tra cui quella di Platone, dovevano rappresentare la tradizione
musicale più antica e più austera, non ancora corrotta dai nuovi usi e costumi.
Un proverbio della bassa antichità affermava che “la musica non udita è migliore di quella udita”.
Tale concetto aveva trovato la sua più pregnante formulazione ai tempi di Platone, ma proprio in
quei decenni era in corso un acceso dibattito al riguardo. Platone viveva in un momento storico in
cui il musicista andava acquistando sempre più preminenza nella vita sociale e alla musica non si
richiedeva più solamente una passeggera distrazione. L'eco di questa situazione lo si ritrova nelle
commedie di Aristofane, soprattutto ne Le rane. La satira di Aristofane è anche la testimonianza di
una profonda frattura che stava formandosi nella cultura musicale. Pertanto si può considerare
Platone come il maggior responsabile di questa scissione tra una musica puramente pensata e perciò
più apparentata alla matematica in quanto scienza armonica o alla filosofia, e dall'altra una musica
realmente udita ed eseguita, più apparentata perciò ai mestieri e alle professioni tecniche.
Una posizione un po' a parte occupa Aristotele. È significativo che pure lui si occupi della musica,
come già Platone, nei testi dedicati ai problemi di carattere più strettamente politico, ad indicare
come la musica fosse ritenuta uno strumento sociale ed educativo della massima importanza. Nella
Politica Aristotele, discostandosi parecchio dal pensiero platonico, enuncia la linea del suo ideale
educativo per la musica. Essa ha come fine il piacere e come tale rappresenta un ozio che era
considerato il modo più appropriato di passare il tempo per l'uomo libero e non schiavo. Ma in
questa prospettiva veniva ad accentuarsi la contrapposizione tra l'ascolto e il diletto ad esso
connesso da una parte e l'esecuzione vera e propria della musica dall'altra. Su questa
contrapposizione s'impernia tutto il discorso di Aristotele sulla musica. La conclusione è che si deve
considerare la prassi esecutiva solamente come un momento preparatorio. Perciò la pratica musicale
deve fermarsi alla soglia del virtuosismo.
Possibilista si dimostra Aristotele anche riguardo alla dottrina dell'ethos; egli tende ad ammettere
tutte le armonie: alcune inducono al dolore e al raccoglimento, altre ancora ispirano compostezza e
moderazione. La musica è imitazione e suscita sentimenti, perciò è educativa in quanto l'artista può
scegliere più opportunamente la verità da imitare ed influire così sull'animo umano. Aristotele
riprende l'antico concetto pitagorico di catarsi ma lo modifica opportunamente, perciò non vi sono
armonie o musiche dannose in assoluto dal punto di vista etico: la musica è una medicina per
l'animo proprio in quanto può imitare tutte le passioni o emozioni che ci tormentano e di cui siamo
affetti e dalle quali vogliamo purificarci. Tale liberazione avviene proprio potendo osservare la loro
iniziazione attraverso l'arte.
Il grande teorico Aristosseno, che ormai vive in età ellenistica, può considerarsi come il primo
musicologo dell'antichità. Egli si occupa di musica come specialista e la sua importanza non sta
tanto nell'aver inventato nuove teorie sulla musica, quanto nell'aver spostato il centro dell'interesse
dagli aspetti puramente intellettuali agli aspetti più concretamente sensibili e psicologici
dell'esperienza musicale. Con Aristosseno si apre ormai la strada ad una considerazione del
carattere estetico e non solo più prevalentemente etico della musica.

Paragrafo V: Musica e musicisti nella Grecia antica

È problematico immaginare la storia della musica vera e propria, quindi, alla luce delle
testimonianze più attendibili, si può ricavare una traccia molto sommaria del percorso della musica
durante quei secoli, anche se tale storia in realtà è indisgiungibile dalla storia delle teorie musicali e
della filosofia. La musica greca è inseparabile anche dalla poesia, soprattutto nel periodo più antico
della sua storia e uno dei centri della musica e della poesia lirica più antico, doveva essere l'isola di
Lesbo, la patria di due famosi poeti-musici: Terpandro e Arione.
Tra il VII e il VI secolo si fissano nella tradizione i nomoi, schemi melodici che servivano di
riferimento per composizioni con particolari destinazioni. Si narra che Alcmane di Sparta abbia
sostituito i normali nomoi con melodie suggerite dai canti degli uccelli. Verso la fine del VI secolo
sono stati gradatamente abbandonati e sostituiti delle armonie o dai modi, che meglio si adattavano
alle più ampie esigenze poetiche e musicali della poesia lirica e tragica del V secolo.
Nel IV secolo la tradizione musicale greca giunse al suo apogeo ed iniziò una lenta ma profonda
trasformazione che giunse a poco a poco a modificare lo stesso concetto su cui si reggeva la
tradizione musicale-educativa classica. Timoteo di Mileto fu l'emblema di questa fase di passaggio:
si dice che abbia elevato il numero delle corde della lira a 11 e uno dei motivi potrebbe essere
quello di offrire la possibilità al musicista di usare più di un'armonia nello stesso canto. Questa
rivoluzione avvenne in particolare nell'ambito della tragedia ed Euripide fu tra i tragediografi il più
fervente sostenitore di questa riforma. La tragedia tende con Euripide a trasformarsi, da solenne rito
civile e religioso a spettacolo, e parallelamente la musica tende a conquistarsi spazi di maggiore
autonomia. Il musicista così non si sentì più ancorato a rispettare la stessa armonia, inevitabilmente
più ardua e complessa, per tutta la durata del brano.
I romani erediteranno questo nuovo e più libero stile musicale. Dopo aver subito gli influssi della
musica degli etruschi, con la conquista della Macedonia, risentirono dell'influsso della musica
greca, il cui peso fu predominante fino al I secolo d.C.; dopodiché il loro stile musicale fu segnato
dalle nuove influenze egiziane ed orientali.
Dal II secolo a.C. molti musicisti ed esecutori greci furono a Roma ma, nonostante ciò, i romani
non attribuivano nessun particolare carattere formativo alla musica e al suo esercizio che veniva
affidato per lo più a schiavi e liberti. La musica era praticata per la sua funzione socializzante: tutte
le manifestazioni più importanti della vita pubblica e privata erano accompagnate dalla musica.
Rispetto alla musica greca, eseguita con pochi strumenti per accompagnare il canto, la musica dei
romani fu indubbiamente più colorata e vivace, ed eseguita con grandi complessi in cui doveva
essere massiccia la presenza degli strumenti a fiato: la tibia usata in coppia, la buccina, la tuba.
Per quanto riguarda la musicologia, alcuni letterati romani ripresero i temi di quella alessandrina.
Spesso questi letterati (tra cui Cicerone e Seneca) si rammaricavano della decadenza della loro
musica, che presenta mancanza di austerità e di dignità rispetto ai più raffinati modelli greci.
Indubbiamente l'atteggiamento di sospetto e spesso di ostilità dei primi cristiani nei confronti della
musica doveva avere origine anche nella corrente prassi musicale della civiltà romana.
Paragrafo VI: Notazione e teoria musicale nell'antica Grecia

Le informazioni sulla musica greca ci provengono da una serie di documenti superstiti con
notazione musicale alfabetica e dalle dissertazioni dei teorici; scritti che però pongono molti
problemi interpretativi. Tutti questi documenti sono posteriori all'epoca classica della cultura greca,
a riprova che la musica si tramandava unicamente per tradizione orale. E anche nei periodi
successivi la notazione musicale non entrò affatto nell'uso corrente ma o servì a scopi teorici,
oppure, in casi eccezionali, in quanto sussidio mnemonico per i cantori professionisti; non fu però
usata allo scopo di tramandare il patrimonio culturale, come avvenne per la letteratura.
Poiché alcuni teorici ci hanno lasciato indicazioni sulla decifrazione dei simboli musicali, siamo in
grado di ricostruire, con una certa approssimazione, l'andamento della melopea greca. La
ricostruzione, però, è tutt'altro che un fatto automatico, per motivi derivanti dalla distanza storica e
culturale. Una delle fonti più chiare di informazione sulla notazione musicale greca, l'Introduzione
alla musica di Alipio, che contiene le tavole illustrative delle due scritture musicali alfabetiche
(quella strumentale con le lettere dell'alfabeto fenicio e quella vocale con le lettere di quello attico),
è della seconda metà del IV secolo d.C. Considerazioni di questo genere potrebbero ingenerare uno
scetticismo storico.
I principali argomenti trattati dai teorici che ci permettono di ricostruire certi aspetti della musica
greca sono quelli che riguardano il ritmo, l'intonazione degli intervalli e delle scale e la loro
classificazione. Per quanto riguarda il primo argomento, soprattutto nell'epoca in cui vi era una
strettissima connessione tra poesia e musica, coincideva con la metrica testuale. Per quanto riguarda
l'aspetto acustico risale a Pitagora, ed alla sua scuola, la costruzione razionale di una scala musicale.
L'ambito base di strutturazione melodico-scalare era il tetracordo, un'entità terminologicamente
legata allo strumento nazionale per eccellenza, la lyra. Le note cardini del tetracordo erano quelle
terminali, che rimanevano fisse, mentre le due centrali potevano variare l'ampiezza intervallare fra
loro e rispetto alle note fisse.
La confusione fra armonia e tonos, che cominciò a farsi in quell'epoca, è uno dei sintomi della
decadenza della cultura musicale del periodo classico. Il concetto di armonia, in auge nei secoli VI-
IV a.C., non ha nulla a che vedere con quello moderno; indica, invece, la definizione della melopea.
Capitolo II: La monodia ecclesiastica nel primo millennio dell'epoca cristiana

Paragrafo I: La nascita della nuova tradizione cristiana

Negli anni della dissoluzione dell'Impero Romano, il nascente mondo cristiano ricevette una
tradizione confusa e contraddittoria per quanto riguarda la musica. Da una parte la musica dei
romani era strettamente legata alle feste e agli spettacoli pagani, dall'altra l'eredità greca
neoplatonica e neopitagorica aveva un peso determinante, e la sua influenza era assai forte sul
pensiero dei teorici e pensatori del tempo. La Chiesa, con la sua nuova liturgia, si ritrovò ad
affrontare il problema del tutto nuovo di un inserimento della musica nel rituale. Pertanto il modello
teorico offerto dalla tradizione greca era ormai ridotto a pura speculazione, mentre i modelli reali si
presentavano del tutto inadeguati. Il problema era quello di creare una nuova tradizione musicale
che non si presentasse come una rottura radicale con la tradizione greca perché i cristiani volevano
essere i continuatori della cultura classica ed ellenistica. Compito ora della nuova fede era di
esplicitare e portare pienamente alla luce le verità già latenti nel vecchio mondo.
In realtà non è difficile immaginare che la nuova musica cristiana avesse poco o nulla a che fare con
quella greca. Dal punto di vista teorico i modi del canto gregoriano non hanno quasi nulla a che
vedere con le armonie greche, anche se continuano a portare gli stessi nomi. Dal punto di vista
pratico l'unico modello era il canto sinagogale ebraico. La secolare tradizione ebraica di intonare la
lettura biblica, tradizione ancora viva oggi, rappresentava l'unico concreto modello per i primi
cristiani di recitazione intonata; tuttavia non vi era una notazione che precisasse e tramandasse
quest'uso, per cui anche i cristiani, nei primi secoli, dovevano rifarsi ad una tradizione, o meglio ad
una molteplicità di tradizioni, solamente orali. Già le testimonianze letterarie parlano di salmi, inni
e canti spirituali come di una prassi usuale. Allo stesso modo ricorre spesso il termine “salmodiare”,
di incerta definizione, ma che comunque si richiama alla recitazione o meglio al canto dei salmi
davidici. Pertanto questo canto di indubbia derivazione ebraica dovette subire modificazioni già nel
I secolo per adattarsi alle nuove esigenze liturgiche.
Nel grande crogiolo di popoli il canto liturgico, pur con inevitabili differenze da una regione
all'altra, dovette rappresentare un potente elemento unificatore del mondo cristiano.
Come risuonasse questo canto liturgico dei primi secoli è difficile immaginare per mancanza di
documentazione diretta. D'altra parte la notazione alfabetica greca era del tutto inadatta quale
ausilio mnemonico per i fedeli e troppo intellettualistica e indiretta per un'effettiva lettura musicale.
Si dovrà così giungere al IX secolo per avere i primi documenti che portino il segno di una sia pur
embrionale notazione musicale sotto forma semplicemente di qualche segno curvo sopra il testo, per
ricordare al cantore se la voce in quel punto doveva salire o scendere.
Il modello ebraico ha indubbiamente influenzato i primi cristiani ma già appaiono nuovi elementi,
quali i vocalizzi su l'alleluja, così come il cantilenare su nuove lingue che non erano più l'ebraico o
l'aramaico, ma il greco o il latino. Inoltre il nuovo canto piano si struttura su nuove scale che
continueranno a portare i nomi delle armonie dei greci anche se saranno radicalmente diverse da
esse.
I canti dei primi cristiani, in ebraico o in aramaico nei primissimi decenni, poi in greco e più tardi in
latino, incominciarono a formare un repertorio vero e proprio. Questo canto piano fu chiamato, con
un termine non del tutto esatto, canto Gregoriano. Anzitutto va sottolineata la differenziazione che
si è creata già sin dai primissimi decenni del cristianesimo tra una tradizione orale e una tradizione
occidentale. La scissione politica avvenuta nel 395 alla morte di Teodosio acuì la spaccatura tra la
Chiesa d'oriente e quella d'occidente, così il canto che fu chiamato Bizantino in realtà si organizzò
secondo usanze musicali diverse. In occidente, d'altra parte, esistevano varie differenziazioni locali,
come ad esempio a Milano dove il vescovo sant'Ambrogio aveva introdotto nella sua cattedrale un
canto, prendendo appunto il nome di canto Ambrosiano. Nella Gallia e nella Penisola Iberica si
svilupparono molte altre tradizioni locali con il cosiddetto canto Gallicano e con quello
impropriamente detto Mozarabico.
Paragrafo II: Il canto Gregoriano

Quello che tradizionalmente viene denominato canto Gregoriano è ormai certo che non fu
codificato da Gregorio Magno. Questo pontefice intervenne in campo liturgico cercando di
apportare migliorie e semplificazioni ma non furono opera sua le due fondamentali innovazioni
nello specifico campo musicale a lui attribuite da Giovanni Diacono: la compilazione di un
antifonario riformato e l'istituzione della schola cantorum, il corpo di cantori professionisti che
eseguivano e tramandavano il repertorio. Per arrivare al punto cruciale bisogna spostarsi avanti
all'età carolingia, quando fu imposto il canto romano innanzitutto alla Francia, quindi alle altre
regioni in cui erano in vigore tradizioni ormai consolidate.
La scrittura musicale iniziò a diffondersi proprio in quel periodo ma ci volle molto tempo prima che
sostituisse integralmente la tradizione orale. All'inizio servì per motivi puramente archivistici: a
differenza della notazione greca, la notazione del canto Gregoriano venne ad assolvere funzioni
eminentemente pratiche. I segni usati, i neumi, derivano dalla trasformazione degli accenti
dell'oratoria latina. Dapprima furono posti sul testo liturgico senza alcuna indicazione di altezza
degli intervalli (neumi in campo aperto), ed infine, col tetragramma, si arrivò ad una sempre più
precisa determinazione dell'altezza intervallare. I neumi poi sono privi di significato metrico perché
il canto Gregoriano modella il proprio andamento ritmico su quello verbale.
Contemporaneamente alla nascita del canto Gregoriano iniziano a comparire nuovi libri liturgici
cosiddetti tonari, perché classificano i brani del repertorio sacro secondo l'appartenenza ad uno
degli otto toni ecclesiastici. Come le armonie greche, i toni (o modi) originariamente non furono
semplici scale, bensì formule melodiche-tipo gravitanti attorno all'asse della corda di recita.
Di questioni modali si interessò Guido d'Arezzo. Per meglio definire i caratteri dei modi e per
facilitare e sveltire la memorizzazione delle lunghe melopee, Guido d'Arezzo ideò un sistema che
consisteva nel memorizzare l'intonazione degli intervalli rapportandoli ad uno schema di
riferimento prefissato: il cosiddetto esacordo, tratto dalle note iniziali di ognuno degli emistichi
dell'Inno a san Giovanni. Il geniale espediente didattico godette di una grandissima fortuna nei
secoli a venire.
Il repertorio Gregoriano è il risultato di un incessante processo di trasformazione di forme,
sviluppatisi all'interno di due ambiti diversi e paralleli: l'officio quotidiano e la messa. Benché
l'abitudine di riunirsi ad ore determinate per pregare fosse già praticato, fu il monachesimo a
promuoverne un particolare incremento e a stabilirne un definitivo assetto. Asse portante dell'officio
quotidiano è la salmodia, tanto nella sua versione antifonale che nella versione responsoriale. La
salmodia antifonale, anticamente, consisteva nel canto di un salmo a cori alterni. La salmodia
responsoriale, invece, consisteva nell'intercalare al canto solistico dei versetti del salmo una risposta
corale che prende appunto il nome di responsorio.
Oltre alla salmodia, un'altro genere di canto liturgico è quello degli inni. La ripetizione strofica, la
veloce scansione dei versi, fanno pensare ad una forma poetico-musicale di confine tra la
produzione colta e quella popolare. Proprio per questo la Chiesa, timorosa che potessero divenire
veicoli di eresia, mantenne, nel I millennio, nei confronti degli inni, un atteggiamento piuttosto
cauto e diffidente.
La messa, nella sua struttura liturgica quale si cristallizzò verso la fine del I millennio, è il risultato
finale di un lento procedimento di trasformazione. Anticamente era suddivisa in due cerimonie
distinte: una introduttiva ed una sacrificale. I salmi processionali presenti nei riti d'introduzione
(introito) e in quelli della liturgia sacrificale (offertorio e communio) erano eseguiti in forma
antifonale, mentre quelli relativi alla liturgia della parola (graduale e alleluja) in forma
responsoriale. In tempi successivi, a questo nucleo di salmi che mutano testo col mutare delle
festività furono aggiunti cinque canti su testi fissi: il kyrie eleison, il gloria, il credo, il sanctus e
l'agnus dei.
Paragrafo III: Evoluzione e rinnovamento del canto liturgico tra la fine del primo e l'inizio del
secondo millennio

La codificazione e l'imposizione del canto Gregoriano all'area del cristianesimo occidentale avrebbe
potuto determinare un blocco degli stimoli creativi se non fossero sorti contemporaneamente
fenomeni innovativi che riequilibrarono la situazione. Due esigenze antagonistiche si
fronteggiavano: quella della Chiesa, volta a mantenere integro il repertorio liturgico, e quella,
massimamente viva e sentita nella zona franca, intesa a stabilire un collegamento tra la tradizione
Gregoriana e le spinte innovative impresse dal desiderio di adeguarla alle diverse situazioni locali e
alle diverse occasioni cerimoniali. Il risultato fu un compromesso. Il canto Gregoriano rimase il
pilastro portante della tradizione unificata e però su di esso fu costruita una grande quantità di
varianti aggiuntive di carattere sia musicale che testuale, le quali aprirono nuove strade nel
cammino della musica con la nascita della polifonia e del dramma liturgico.
Il principio creativo che è alla base di tutte queste innovazioni è quello del tropo, che consiste
nell'aggiunta di un melisma, testuale o musicale, in un brano del repertorio liturgico. Tutte le parti
della messa, ad esclusione del credo, furono tropati e con particolare frequenza l'alleluja, che
rappresenta un caso a sé in quanto diede origine alla sequenza.
Nonostante tutti e due i tipi di tropo ricorrano contemporaneamente, quello puramente musicale
sembra essere stato attuato per primo. Già in piena epoca trobadorica la sequenza conoscerà un
momento di particolare splendore con la produzione di Adamo, in concomitanza con la prima
grande stagione polifonica sviluppatasi nell'ambito della cattedrale di Notre-Dame. A differenza
delle sequenze primitive, quelle di Adamo presentano una struttura poetica, venendo ad assumere
un carattere molto simile all'inno, con una differenza fondamentale però: mentre nell'inno le strofe
sono intonate sulla medesima melodia, la sequenza muterà invece melodia di strofa in strofa. Di
tutta la dovizia di tropi e sequenze prodotti tra la fine del I millennio e i primi secoli del II, il
Concilio di Trento ne manterrà solamente quattro: il Veni sancte spiritus, il Victimae paschali
laudes, la Lauda sion salvatorem, il Dies irae; cui fu poi aggiunto, due secoli dopo, lo Stabat mater.
All'epoca della prima fioritura di tropi e sequenze, alcune fonti trattatistiche iniziano a farci
pervenire notizie di un nuovo procedimento per arricchire e variare l'esecuzione di un testo
musicale liturgico: l'organum. In questi trattati è descritta una sovrapposizione od una
sottoposizione al testo musicale originale (vox principalis) di una seconda voce (vox organalis) che
segue la melodia nota contro nota per moto parallelo ad intervalli consonanti (quarta, quinta,
ottava). Per evitare l'intervallo di tritono le due voci possono raggiungere l'unisono o di colpo, o
passando attraverso una riduzione progressiva degli intervalli. In rari casi fra le voci si vengono a
creare scambi improvvisi di frammenti tematici a chiasmo
(vox principalis A---B
vox principalis B---A)
che dimostrano un controllo razionale del processo creativo.
Da una pratica improvvisata, nel corso di un paio di secoli, la polifonia si era trasformata in una
prassi compositiva. Due dei più importanti compositori della scuola di Notre-Dame fiorita in quel
secolo nell'ambito della cattedrale parigina sono master Leoninus e master Perotinus.
A prova di come le innovazioni musicali dell'epoca carolingia siano strettamente connesse al tropo,
il tropario di Winchester contiene il primo esempio di dramma liturgico: la Visitatio sepulchri (visita
al sepolcro) che godette di una immensa fortuna diffondendosi tosto in tutta l'Europa. Nei secoli
successivi, all'episodio del dialogo fra le pie donne e l'angelo, ne furono aggiunti altri in cui
intervengono personaggi quali Pietro, Giovanni e Maria di Magdala. Sull'esempio della Visitatio
sepulchri fu creata una serie di altri offici drammatici quali l'Officium pastorum e l'Officium stellae
(la visita dei pastori e dei magi).
C'è da chiedersi perché questi ampliamenti drammatici siano derivati dall'episodio della visita al
sepolcro e non dalla passione e la morte di Cristo, che solo molto più tardi furono oggetto di
straordinarie trasfigurazioni musicali. È comunque nell'ambito extraliturgico, nella tradizione più
tarda del planctus, che troverà sfogo la compassione per la morte di Cristo.
Oltreché agli episodi della vita di Cristo, altri temi che vennero svolti furono quelli tratti dalla vita
dei santi o da altri episodi biblici e neotestamentari. Fra i più celebri vi sono quelli contenuti in un
codice che si trova a Fleury, i quali trattano episodi della vita dei santi come quelli dedicati a san
Nicola, fra cui, in particolare, quel Getronis filium (il figlio di Getrone) in cui ad ogni personaggio è
affidata una particolare melodia. Il dramma liturgico tematicamente più ricco è comunque il Ludus
Danielis in cui ricorrono una cinquantina di melodia diverse di carattere quanto mai vario.

Paragrafo IV: L'educazione musicale e la rinascita carolingia

L'idea di educazione musicale è stata fondamentale nel mondo classico. Questo concetto si indebolì
in età alessandrina per poi scomparire quasi del tutto nella Roma imperiale. Il mondo cristiano
riprenderà il concetto di educazione musicale, ma su basi del tutto diverse. La musica è importante
strumentalmente solo nella misura in cui può diventare utile per avvicinarsi ad altri valori che sono
quelli della nuova fede. L'atteggiamento della chiesa nei confronti della musica è perciò sempre
stato ambiguo ed oscillante.
La musica, arte ereditata dal mondo pagano, è stata ritenuta dai primi padri della Chiesa uno
strumento del demonio. D'altra parte la Chiesa non poteva ignorare l'uso sempre più massiccio della
musica come parte integrante della nuova liturgia; il “nuovo canto” poteva perciò essere, se
correttamente usato, anche strumento di salvezza e di elevazione.
In questa prospettiva edificante il canto sacro assume la funzione di strumento ausiliare della
preghiera al fine di renderla più accettata dal popolo. Le verità di fede saranno così più gradite e
rese più facili all'apprendimento e il dilemma che attanagliava la Chiesa veniva risolto in via
teorica, rifacendosi ai greci e alle dottrine pitagoriche e platoniche secondo cui la vera musica
coincideva con il suo esercizio teorico e non con quello pratico. Già Boezio affermava che la vera
musica si identifica con la musica mundana, cioè la musica delle sfere.
Con il passare dei secoli la contraddizione fra teoria e prassi si acuisce, proprio nella misura in cui
la musica assume una posizione di sempre maggior rilievo nell'ambito della Chiesa. Le esigenze
della prassi musicale si facevano sempre più ampie per cui affiorò, prima sommessamente e poi ben
presto con maggiore evidenza, il problema di istruire i cantori e di stabilire dei saldi principi
esecutivi, affinché il canto liturgico conservasse le sue caratteristiche e non rischiasse di scivolare
verso forme profane.
Molti trattati di musica scritti dopo il IX secolo hanno uno scopo chiaramente pedagogico e cercano
di offrire ausili didattici ai cantori, non rinunciando, però, a pronunciare in modo più o meno
evidente la loro condanna nei confronti della musica humana, cioè della musica che si ode. Queste
posizioni, dettate da preoccupazioni a sfondo religioso più che estetico, sono di fatto poi superate
dall'interesse sempre più pressante per gli effettivi problemi tecnici della musica e per le loro
implicazioni di carattere didascalico. D'altra parte proprio il principale utente, la Chiesa, non
cessava dal pronunciare proclami contro di essa, creando così questa situazione contraddittoria.
Capitolo III: Monodia e polifonia sacra e profana nell'età feudale e nell'età
comunale

Paragrafo I: Diffusione della tradizione profana e sviluppi di quella sacra

La disgregazione dell'impero carolingio e il processo di parcellizzazione sociale e politica che


condusse all'instaurazione del feudalesimo, provocò importanti trasformazioni anche in campo
musicale. Laddove la politica dei carolingi aveva creato vincoli strettissimi tra il potere temporale e
quello spirituale, e i monasteri avevano detenuto il monopolio della cultura occidentale, il nuovo
sistema feudale determinò una nuova dinamica culturale tra l'ambito sacro e quello profano. Il
pullulare di quei nuovi centri di attività culturali e di svago, oltreché di difesa, che erano i castelli,
posero per la prima volta, nell'Europa cristiana, le basi per un'alternativa culturale laica.
Ciò non significa affatto che tra le due culture vi fossero fratture: la formazione culturale era pur
sempre la Chiesa ad impartirla, ed è appunto in quella zona di compromesso e di fusione fra certi
caratteri della melopea sacra, contenuti poetici, influssi popolari, che nasce la prima importante
tradizione poetico musicale profana: la tradizione monodica dei trovatori, dei trovieri e dei
minnesanger. D'altro canto i modelli politici e culturali della tradizione laica si infiltrarono in quella
religiosa, spostando l'asse della vita culturale dal monastero alla cattedrale. Nel passaggio, la cultura
religiosa, mentre perde la concentrazione mistica della vita monastica, assume un carattere
speculativo e razionalistico, tanto più nei grandi centri di prestigio internazionale, primo fra tutti
Parigi.
Ed è proprio a Parigi, all'epoca dell'edificazione della cattedrale di Notre-Dame, che fiorì la prima
grande scuola polifonica sacra. Ed è sempre nell'ambito della cultura ecclesiastica francese che la
polifonia iniziò ad appropriarsi di argomenti profani.
Quest'arte, che fu definita nova quando raggiunse la piena maturità all'inizio del XIV secolo, oltre
ad importanti innovazioni in campo ritmico, stava modificando, nella ristretta cerchia dei suoi
cultori, lo stesso modo di fruire e concepire la musica. I teorici dell'ars nova parlano spesso non
solo di piacere connesso all'ascolto della musica, ma di effetti che essa ha prodotto.
La natura elitaria di questa nuova arte fece sì che la tradizione monodica affidata alla diffusione
orale continuasse a svolgere un ruolo predominante nella cultura dell'epoca. Prova lampante di
questa contiguità fra i due generi è ad esempio la produzione del più importante compositore
francese dell'ars nova, Guillaume de Machaut.
In Italia l'ars nova, oltre a diffondersi in ambito cortese in certe corti principesche, si radicò pure un
po' più tardi in quello urbano e comunale.
Laddove in Francia la scuola di Notre-Dame prima, e poi il trasferimento dei papi ad Avignone
avevano determinato una prima fioritura polifonica in ambito sacro, in Italia, invece, abbiamo
testimonianze di un notevole sviluppo di espressioni monodiche devozionali, le laudi. In Italia la
particolare situazione economica e politica accelerò quel processo di graduale trapasso dalla civiltà
feudale a quella comunale, e la nascita di una borghesia urbana che, arricchitasi con le sue attività
commerciali, iniziò a sentire l'esigenza di ingentilirsi e di elevarsi culturalmente. La nuova realtà
urbana incrementò notevolmente il consumo musicale e la crescita qualitativa e quantitativa dei
musicisti portò alla creazione di confraternite o di corporazioni musicali.

Paragrafo II: La monodia profana

Dobbiamo pensare che una tradizione profana abbia affiancato nel corso dei secoli quella sacra e
che rimanga sommersa fino al periodo carolingio. È allora che iniziano a pervenirci i testi e talora
anche la musica di lamenti funebri, di canti di più o meno esplicito contenuto amoroso, fino ai più
tardi canti goliardici contenuti in un codice conservato nell'abbazia di Benediktbeuren (donde il
nome di carmina burana).
Non è strano che questa nuova tradizione prenda le mosse in area franca, in piena fioritura di
sequenze e tropi; una delle possibili spiegazioni etimologiche della parola troubadour è appunto
quella che la vorrebbe derivata da tropo. Ma le equivalenze con il canto liturgico non si limitano
alla terminologia, bensì riguardano aspetti formali e musicali importanti: l'andamento melodico, il
rapporto di libera concordanza metrica tra testo e musica. A parte queste affinità, la produzione
poetico-musicale dei trovatori e dei trovieri presenta caratteri nuovi ed esclusivi.
La maggior parte dei generi poetici sviluppati dai trovatori sono incentrati sulla tematica dell'amor
cortese: la canso, canzone d'amore; l'alba, che ha per situazione poetica fissa il risveglio degli
amanti destati all'alba da una sentinella amica; la pastorella, che ha invece per soggetto poetico
l'incontro tra un cavaliere ed una pastorella. A fianco di questi generi di carattere amoroso altri
svilupparono invece argomenti satirici, sentenziosi o politici, oppure trasportavano in lingua
romanza generi già sviluppati in lingua latina (il planch trovadorico equivale al planctus latino).
La lirica trovadorica è caratterizzata da una grande varietà di costruzioni ritmiche organizzate in
forme strofiche, e la grande quantità di varianti e anche di versioni musicali diverse per il medesimo
testo poetico ci fa pensare ad una tradizione in cui l'apporto diretto dell'esecutore-ricreatore avesse
una funzione determinante. Siamo ben lontani dal ricostruire con sicurezza la prassi esecutiva
dell'epoca, sia per la difficoltà di pervenire ad una esatta interpretazione dell'andamento ritmico, sia
per quella di stabilire quale funzione avessero gli strumenti musicali a sostegno e ad
accompagnamento della voce.
La tradizione trovadorica si sviluppò e decadde nel corso di un paio di secoli, tra il primo trovatore,
Guglielmo IX duca d'Aquitania, e Guirant Riquier, ultimo trovatore. La presenza fra i trovatori di
duchi, conti e marchesi, dimostra non solo la vastità del fenomeno, ma anche come la tradizione
trovadorica si configurasse come un movimento intellettuale. Un grave colpo le fu inferto dalla
crociata contro gli albigesi che devastò, materialmente e culturalmente, la linguadoca.
Prima di esaurirsi e di avviarsi alla decadenza la tradizione trobadorica consegnò alle regioni
settentrionali della Francia il suo canto. Veicolo di questo trapianto culturale furono innanzitutto i
giullari producendosi in una grande quantità di intrattenimenti, fra cui l'esecuzione delle canzoni
trobadoriche; grande importanza ebbero poi i matrimoni fra membri di casate aristocratiche del sud
con quelle del nord, con relativo trasferimento di trovatori al seguito.
Oltre alla diversa lingua impiegata, altri caratteri distinguevano la tradizione dei trovieri da quella
dei colleghi meridionali. A fianco dei generi equivalenti a quelli trovadorici, con la chanson de toile
ci troviamo di fronte ad una forma lirica che però recupera elementi narrativi delle più antiche
chansons de geste.
Nella seconda metà del secolo XII il canto trovadorico e troviero, dalla Francia, fu introdotto nelle
regioni tedesche. In Germania era già viva una tradizione autoctona diffusa e tramandata dai
giullari, ma l'impatto con le novità che provenivano dalla Francia diede origine a generi affini a
quelli trovadorici e trovierici quali il lied e il leich (lai). Il tema poetico sviluppato in tutti questi
generi è la Minne (l'amor cortese), da cui il nome di questi cantori, minnesanger.
In Italia, invece, la monodia extraliturguca fiorì nell'ambito del movimento dei laudesi, sulla scia di
san Francesco. Le laude rielaboravano i temi dei due cicli dell'anno liturgico in un volgare vibrante
di commossa partecipazione e ricco di immagini colorite.

Paragrafo III: Dall'ars antiqua all'ars nova

Sino al XII secolo la musica che ci è pervenuta è anonima, ma dopo appaiono le prime figure di
musicisti compositori e le loro relative raccolte di opere. Leoninus e Perotinus sono tra i primi
musicisti di cui si conosca il nome e dalle composizioni che ci sono rimaste di entrambi si può
dedurre che questi musicisti, nel secolo XII, portarono alla più alta perfezione le due fondamentali
forme di musica religiosa del tempo, l'organum e il conductus. Questi due maestri della scuola di
Notre-Dame condussero la forma dell'organum al suo massimo grado di sviluppo, aumentando il
numero delle voci da due fino a quattro e introducendo per la prima volta nella storia della musica
un tipo di notazione che indicava non solo l'andamento melodico-intervallare, ma anche quello
ritmico. Un tipo di notazione che attribuiva alle differenti combinazioni di neumi un valore ritmico
corrispondente a sei diversi modelli ritmici. L'esigenza di allungare il tenor, stimolò i maestri di
Notre-Dame a cominciare ad usare quelle tecniche di ripetizione di schemi melodici o ritmici su cui
si baserà l'isoritmia; delle voci superiori, invece, compaiono chiaramente delineati i primi esempi di
progressione melodica e i primi timidi procedimenti imitativi fra le voci.
A differenza dell'organum, il conductus non utilizzava come tenor una melodia preesistente, bensì
una originale, appositamente inventata. Caratteristica musicale del conductus è la sua natura
sillabica che ne faceva un equivalente polifonico dell'inno melodico.
Nello stesso periodo, sempre nell'ambito della liturgia cristiana, nasce anche un nuovo genere, il
mottetto. In un primo tempo tale composizione indicava semplicemente la parte sovrapposta al tenor
liturgico di una clausola, ma ben presto di arricchì di nuove voci e quindi di nuovi testi, il che dava
origine ad una polifonia testuale e musicale ricca di accentuati contrasti ritmici e fonici.
Con l'inizio del XIV secolo, in Francia dapprima, poi anche in Italia, nuove forme musicali
incominciano a comparire. Philippe de Vitry, intorno al 1320, scrisse un famoso trattato dal
significativo titolo, Ars nova, mentre un suo contemporaneo, Jacobus Leodiensis, gli contrapponeva
in una sua opera teorica, Speculum musicae, l'ars antiqua. Erano così poste le fondamenta per
quella che si può definire la prima polemica che animò il mondo musicale medioevale.
La Chiesa prese posizioni molto precise, e la famosa bolla di papa Giovanni XXII rappresenta un
documento del massimo interesse perché chiarisce le posizioni dei modernisti, enumerando i difetti
della nuova musica nel momento stesso in cui li condanna, anche se non si può dire che le
raccomandazioni del papa abbiano avuto un grande effetto sulla successiva evoluzione della storia
della musica. La bolla di papa Giovanni rimprovera alla musica moderna di “inebriare le orecchie”;
nel contempo traspare da tutto il suo discorso la diffidenza di fondo nei confronti di un'arte che
rischia continuamente di scivolare verso forme profane.
I musicisti dell'ars nova, nei ritmi più complessi e nei più complicati intrecci polifonici, avevano
iniziato a ricercare, alla fine del medioevo, una ragion d'essere della musica in quanto tale.

Paragrafo IV: L'ars nova francese

Il nocciolo della novità dell'ars nova, sul piano della notazione, con conseguenze che interessavano
poi la composizione musicale nel suo complesso, consisteva in una serie di suddivisioni ternarie o
binarie (della lunga in brevi, delle brevi in semibrevi e delle semibrevi in minime) mediante simboli
convenzionali. Le successive innovazioni degli arsnovisti rappresentano un definitivo approdo ad
un principio di notazione mensurale molto simile a quello su cui si basa il sistema moderno.
La forma polifonica maggiormente coltivata da Philippe de Vitry era il mottetto, che venne a
sostituire il conductus nella sua funzione di commento poetico-musicale dei fatti politici del tempo.
Caratteristica comune di questi mottetti è l'impiego dell'isoritmia, un principio di strutturazione
tematica delle voci realizzata combinando assieme ripetizioni di frasi melodiche con ripetizioni di
frasi ritmiche. Nell'ars nova l'isoritmia viene ad assumere una particolare importanza e complessità
coinvolgendo anche tutte le altre voci dei mottetti e dando origine a strutture melodico-ritmiche
quanto mai ingegnose.
Ma ciò che conta e che anticipa già i nuovi tempi è che la musica, nella sua pratica compositiva
colta, è sempre più pensiero musicale, sempre più architettura sonora razionale. Proprio l'isoritmia
porrà le premesse per una funzione di autentico sostegno delle voci gravi dell'ordito polifonico,
creando una strutturazione di tipo gerarchico che gli arsnovisti consegneranno ai fiamminghi.
La produzione mottettistica del più importante compositore francese di questo secolo, Guillaume de
Machaut, presenta carattere di eccezionalità anche perché buona parte di essa è su testo volgare
anziché in latino. Ciò che conta sostanzialmente, sotto il profilo musicale, è che queste forme
profane in mano a Machaut assumono una veste polifonica nuova e complessa; il canto passa al
duplum, che può essere integrato o meno con un triplum strumentale, e poggia su un tenor spesso
integrato da un contratenor, anch'essi di carattere strumentale.
La raccolta di opere poetico-musicali di Guillaume de Machaut, oltre ai generi ed alle forme
profane monodiche e polifoniche, comprende un'intera messa polifonica che presenta un'immensa
importanza storica perché è il primo esempio pervenutoci di questo genere liturgico composto
polifonicamente da un solo autore. Non sappiamo esattamente l'occasione per cui fu composta la
Messe de Notre-Dame di Machaut, anche se sono state avanzate diverse ipotesi, tra cui alcune
connesse a vicende storiche dell'epoca. È stata diverse volte sollevata dagli studiosi la questione se
la Messe contenesse o meno elementi tematici unificanti tali da poterla considerare, oltreché la
prima messa polifonica composta da un unico autore, anche il prototipo di un'organizzazione ciclica
del genere liturgico quale si incontrerà nei maestri fiamminghi.

Paragrafo V: L'ars nova italiana

Mentre per la Francia la denominazione ars nova trova la sua giustificazione nel titolo dei trattati
menzionati, l'attribuzione della medesima etichetta al Trecento italiano è una convenzione
terminologica entrata nell'uso comune per lo sviluppo cronologicamente parallelo e per certe
analogie che l'ars nova italiana presenta con quella francese. Prima di tutte l'elaborazione di un
sistema mensurale tipicamente italiano. La prima vistosa differenza dell'ars nova italiana rispetto a
quella francese è però la mancanza di un'analoga ars antiqua alle sue spalle. Sebbene maggiormente
chiari risultino certi legami annodati con l'ars nova francese in quei centri di scambi culturali
internazionali che erano le università, rimane pur sempre il fatto che l'ars nova italiana presenta
caratteri così particolari ed autonomi rispetto alla cultura francese da risultare ancora oggi un
problema storico inquietante, specialmente per quanto riguarda le sue origini.
Così come nella contemporanea tradizione francese, anche in quella italiana l'ars nova rappresentò
un fenomeno culturale ed artistico quanto mai elitario ed esclusivo in una civiltà musicale che, per
le sue funzioni più consuete e quotidiane, si serviva ancora prevalentemente della monodia.
Se da un piano culturale generale si passa a quello più particolare della forma, sono più le differenze
che separano i due movimenti paralleli di quanto non siano le affinità che intercorrono fra loro.
L'ars nova italiana fiorì in due momenti e in due luoghi distinti. In un primo periodo sono certe corti
lombarde e venete ad ospitare i compositori di questo nuovo genere di musica e la forma
maggiormente trattata è quella del madrigale. Sotto il profilo poetico, la sua forma più
standardizzata consiste in una successione di tre terzine di endecasillabi seguite ancora da una
coppia di endecasillabi, mentre l'aspetto polifonico consiste nella combinazione di due parti vocali
di cui quella acuta è piuttosto fiorita.
Dall'inserimento di episodi imitativi tra le voci del madrigale nacque la forma della caccia che,
sebbene presenti una denominazione equivalente a quella della chace francese ed un analogo
carattere imitativo, si differenzia da quella per diversi aspetti. Innanzitutto nell'ars nova italiana non
è una prassi esecutiva, bensì una forma musicale a tre voci con le due superiori che procedono a
canone e quella inferiore che funge invece da sostegno. Ma ciò che più conta è che nelle cacce
italiane il canone fra le due voci è usato per raffigurare realisticamente il contenuto testuale.
Il secondo periodo dell'ars nova italiana si svolge a Firenze. Da un ambito cortese ci ritroviamo,
così, nel cuore della civiltà comunale e sono ora gli stessi letterati e poeti a fornire i testi ai
musicisti perché li rivestano di intonazioni polifoniche.
Capitolo IV: La musica nell'Umanesimo e nel Rinascimento

Paragrafo I: l'epoca del mecenatismo e il concetto di Rinascimento

I quattro secoli di storia musicale che vanno dagli inizi del Quattrocento alla fine del Settecento
sono caratterizzati da quel complesso fenomeno sociale, economico e culturale che va sotto il nome
di mecenatismo. Nella sua accezione più elementare la parola mecenate indica colui che per amor
della cultura finanzia attività artistiche o le rende possibili col suo denaro. Ma per definire i
mecenati di quei quattro secoli quest'accezione elementare non basta. Mecenate era l'imperatore, il
re, il principe, il signore, chiunque insomma avesse autorità e dominio su un territorio più o meno
vasto. C'è poi un secondo aspetto da tenere in considerazione: il ceto nobiliare di quest'epoca aveva
del denaro una concezione diversa da quella della borghesia. Dagli aristocratici il denaro era
soprattutto usato come strumento di potere e di privilegio. Ma c'è un terzo aspetto ancor più
importante ed è quello che si riferisce al potere culturale. La corte o la casa principesca potevano
diventare un centro autentico di produzione culturale solo se avevano a disposizione e al proprio
servizio le persone delegate a produrre cultura.
Le attività musicali, e i musicisti che le praticavano, partecipavano ovviamente a questo processo.
La musica, come pratica di diletto quotidiano e persino come strumento di educazione profonda
dell'animo, ebbe una presenza continua nel mondo aristocratico. Nelle pagine di Baldesar
Castiglione, ne il Cortegiano, si delinea la figura di un cortigiano che suona o canta per il piacere. E
infatti non è difficile annoverare non solo fra i cortigiani, ma fra gli stessi principi, molti esempi di
appassionati di musica o di veri e propri musicisti.
Ma un altro aspetto storicamente assai importante è legato alla pratica del mecenatismo: nel
momento in cui il cantore viene assunto al servizio di un signore, la musica diventa una vera e
propria professione. Fino al secolo XIV i musicisti potevano infatti appartenere a due categorie ben
diverse: da una parte c'erano coloro che consideravano la musica un hobby, e d'altro lato c'erano i
musicisti pratici che in genere erano confinati agli ultimi gradini della gerarchia sociale.
Il musicista girovago di corte in corte contribuiva all'immagine di una figura socialmente
subordinata e non paragonabile in alcun a quella del poeta o del pittore. Solo a partire dall'epoca del
mecenatismo si può dire che incomincia a farsi strada l'idea che il musicista e l'esecutore esercitino
un'attività artistica e che il loro mestiere possa assurgere ad una dignità sociale pari a quella dei loro
colleghi.
Molti musicisti non di rado acquistano una vera e propria popolarità. I castrati, che già dal 1562
erano entrati a far parte del coro della cappella pontificia, erano tenuti in alta considerazione e
apprezzati per le loro doti vocali. Anche i suonatori di strumenti erano contesi tra una corte e l'altra
e godevano di notevole prestigio.
Tuttavia la libertà di scelta stilistica di cui il musicista apparentemente godeva non era affatto
assoluta. Il potenziale o reale ascoltatore delle sue opere era la nobiltà di corte o di Chiesa (a cui
egli per nascita non apparteneva) che lo assumeva alle sue dipendenze e lo retribuiva per ottenerne
opere funzionali ai suoi fini. Gli stessi contenuti espressivi dovevano appartenere alla sfera culturale
del committente e rifletterne i valori, e spesso anche esaltarli. Così i generi musicali si adeguarono
alle necessità rituali. La musica di tutta l'epoca del mecenatismo è dunque un prodotto artistico che
riflette fondamentalmente i modi di pensiero della società aristocratica di quei secoli.
Ma la pratica del mecenatismo porta con sé altre conseguenze. A partire dal XIV e soprattutto dal
XV secolo l'asse culturale comincia a spostarsi decisamente verso la sfera del potere nobiliare che
acquista il prestigio sufficiente per porsi come nuovo centro di diffusione ideologica e per delineare
un nuovo modello di ideale umano. La Chiesa non sembra inizialmente rendersi conto dell'entità di
questo scontro di poteri. Solo nel cinquecento, allo scoppio della riforma protestante e delle relative
guerre di religione, si renderà conto della sua caduta di prestigio e porrà mano a quel grande
processo di ripensamento della propria tradizione che va sotto il nome di controriforma.
La prima fase di questo lungo processo è quello che gli storici indicano col nome di Rinascimento.
La spinta propulsiva iniziale fu data da quella particolare tendenza definita con il termine di
Umanesimo, per cui si intende la riscoperta della civiltà greca e latina. L'uomo di cultura del
medioevo riteneva di porsi nella prosecuzione di una civiltà più antica; l'antichità non era perciò
rifiutata ma doveva essere vista come una tappa dello sviluppo dell'umanità. L'uomo del
Rinascimento aveva una visione totalmente diversa dello sviluppo storico: considerava il medioevo
come una frattura nello sviluppo della civiltà. Ma se questo discorso può avere una validità per
quanto riguarda le arti, molto problematico si presenta per ciò che riguarda la musica. Infatti l'idea
stessa di Umanesimo è stata del tutto estranea, sino alla fine del Cinquecento, alla musica.
Umanesimo significa acquisire una coscienza della propria storicità e questa coscienza non è mai
stata fatta propria dal mondo della musica perché per averne una, anzitutto, bisogna possedere i
documenti del proprio passato, e dal canto Gregoriano e dai primi secoli della polifonia ben pochi
sono i documenti attendibili e sicuramente decifrabili che ci sono pervenuti. Di consueto le storie
della musica seguono lo svolgimento delle storie delle arti sorelle, ma in realtà si tratta di una
periodizzazione che solo con un certo artificio si può applicare meccanicamente alla storia della
musica. Alfred Einstein, ad esempio, fa iniziare il Rinascimento nel Cinquecento prolungandolo
sino a Gluck e al classicismo viennese; d'altra parte parecchi altri storici retrodatano l'inizio del
Rinascimento all'ars nova. In effetti se l'idea di una rinascita della cultura e delle arti è strettamente
legata alla ripresa e all'imitazione del modello classico greco si può parlare di un Rinascimento
della musica solo nella seconda metà del Cinquecento, quando il nuovo spettacolo teatrale, che poi
diventerà melodramma, venne teorizzato come esempio di rinascita del teatro tragico greco. Perciò
l'epoca compresa tra l'ars nova e l'invenzione del melodramma potrebbe anche essere chiamata l'età
della polifonia, come hanno suggerito alcuni storici.

Paragrafo II: L'Europa musicale del Quattrocento

Per circa due secoli la vita musicale europea è dominata da compositori e cantori provenienti da
zone dell'Europa nord occidentale. L'area che si deve indicare comprende la zona dell'attuale
Olanda, Belgio, Lussemburgo che i vari duchi di Borgogna contribuirono a far prosperare traendone
enormi profitti, parte dei quali investirono in attività artistiche.
Per quanto riguarda le attività musicali, questo è il periodo in cui ebbe una certa fortuna la scuola
franco-fiamminga, che era soprattutto legata alle cattedrali gotiche. L'organizzazione delle cattedrali
prevedeva che per il servizio liturgico venissero selezionati pueri cantores dell'età di 8 o 9 anni, ai
quali veniva fornita un'accurata istruzione non solo nel canto ma più in generale nello studio del
contrappunto e della composizione. La presenza di un vivaio così ricco di talenti accuratamente
educati attirò subito l'attenzione di molti principi europei: fin dalla fine del XIV secolo si trovano
cantori fiamminghi alla corte di Aragona e a quella papale di Avignone.
Nella fase più splendida dell'ideologia Umanistica le corti italiane coltivarono una singolare forma
di ideale utopico che consisteva nella sperimentazione di una sorta di nuovo modello di uomo. A
questo nuovo ideale di uomo i musicisti fiamminghi dettero un contributo non secondario.
John Dunstable, il più illustre compositore inglese di quegli anni, esercitò un notevole fascino sui
musicisti della prima generazione fiamminga. La principale novità del suo stile era costituita non
solo da un melodizzare più fluido ma anche dall'uso predominante di melodie consonanti. Entrambe
queste caratteristiche avevano le loro antiche radici nella pratica del discanto inglese. Tali novità si
possono ricondurre ad alcuni principi fondamentali. La musica veniva ancora pensata in termini di
melodie sovrapposte, ma mutarono sensibilmente le forme dell'organizzazione della polifonia: alla
sovrapposizione di melodie ben differenziate, si sostituisce gradualmente una compagine
tendenzialmente omogenea. Un altro principio chiaramente emergente riguarda i rapporti fra
consonanza e dissonanza. A partire dal XV secolo il problema conobbe una soluzione sistematica e
semplice: quella del predominio della consonanza.
Fra i generi più coltivati dai musicisti franco-fiamminghi la messa divenne gradualmente quello più
illustre, mentre il mottetto politestuale scomparve a poco a poco nel corso del secolo. Ora col
termine di mottetto si cominciò ad indicare esclusivamente un brano su testo sacro in latino da
eseguire durante le celebrazioni liturgiche. Nel campo profano il genere prediletto era la chanson
che si diffuse in tutte le corti europee anche se era cantata in lingua francese.
La prima generazione dei musicisti di questa scuola ha i suoi rappresentanti più eminenti in Gilles
Binchois e in Guillaume Dufay. Il primo è soprattutto ricordato per la straordinaria fantasia
inventiva dei suoi rondeaux; il secondo acquistò fama di musicista eccellente durante i molti anni
passati in Italia al servizio dei Malatesta di Rimini, degli Estensi a Ferrara, del papa e dei duchi di
Savoia. Delle sue messe alcune sono annoverate fra i primi esempi concepiti come un tutto unitario.
Nelle sue composizioni restano tracce delle tecniche mensurali, ma queste “maniere” sono
arricchite da un contesto in cui la predominanza degli intervalli consonanti e il gusto per
l'invenzione melodica accattivante, assicurano l'emergenza di quel nuovo stile che affascinava la
società colta dell'epoca.
La generazione dei compositori successivi ebbe come schema di riferimento questo quadro
stilistico, che arricchì di nuove invenzioni di ardita complessità. I generi in cui la creatività musicale
fiamminga offrì le sue prove più ambiziose furono soprattutto la messa e il mottetto sacro. Nella
maggior parte dei casi la composizione non è concepita come invenzione ex novo, ma piuttosto
come elaborazione polifonica di materiali melodici preesistenti che vengono di solito affidati ad una
voce intermedia, anche se in certi casi può migrare nel corso della composizione fra una voce e
l'altra. In altri casi ancora l'intera composizione si basa su procedimenti a canone in cui la voce
successiva ripete sistematicamente il profilo di quella precedente. Tecniche di questo tipo
permettono ai musicisti fiamminghi di costruire composizioni di architettura poderosa.
Le opere di Josquin Desprès, l'ultimo dei grandi maestri Quattrocenteschi, completano il secolare
ciclo creativo della scuola fiamminga, introducendovi quei principi di euritmia e di misura classica
che faranno dei suoi testi un modello per tutta l'epoca seguente. Anch'egli, come Dufay, ebbe una
grande esperienza internazionale e fu al corrente di tutte le tecniche e le tradizioni stilistiche in uso
in Europa, ma nelle sue mani tali tecniche si trasformano e si rinnovano. Così avviene che il gioco
delle simmetrie e delle proporzioni assuma carattere di straordinario equilibrio e al tempo stesso il
canto diventa estremamente attento alla parola pronunciata, che non solo viene messa in evidenza
dalla trasparenza della declamazione, ma viene semanticamente sottolineata dal carattere stesso
delle melodia. In tutta l'Europa la maggioranza delle attività musicali si basava ancora su tradizioni
di canto e di esecuzione strumentale assai meno complesse, quindi devono passare molti decenni
prima che queste novità facciano veramente scuola e lascino tracce evidenti nella prassi
compositiva degli altri musicisti d'Europa.
Se volessimo descrivere il consumo musicale europeo di quei secoli troveremmo anzitutto a livello
di diffusione popolare una grande quantità di canzoni. Un genere analogo lo troviamo in Germania:
una canone o lied polifonico coltivato in ambiente borghese da ecclesiastici o da musicisti non
professionisti che di solito affidava al tenor un canto fermo di gusto popolareggiante
accompagnandolo con due o più strumenti.
Solo negli ultimi decenni del secolo cominciano a comparire nell'Italia centro settentrionale più
consistenti tracce di un'attività musicale di tipo polifonico, in particolare canti carnascialeschi,
laude e frottole.
I canti carnascialeschi sono musiche a 3 o 4 voci di stesura polifonica molto semplice. Le laude, a
loro volta, avevano dietro alle spalle una lunghissima tradizione di diffusione popolare. Ma il
genere polifonico di gran lunga più importante e ambizioso è quello della frottola. Si trattava di un
genere di composizione profana di tipo strofico per lo più a quattro parti di cui le tre inferiori erano
spesso eseguite strumentalmente e la superiore, che era la più espressiva e la più elaborata, veniva
invece sempre cantata.

Paragrafo III: La polifonia sacra del Cinquecento italiano

Il mecenatismo delle corti italiane determinò un progressivo spostamento dell'asse della cultura
musicale verso l'Italia, col risultato che Essa divenne il polo culturale più importante d'Europa
sostituendo le Fiandre. Poiché i maestri fiamminghi, all'inizio del XVI secolo, detenevano ancora il
primato della scienza e dell'arte polifonica e continuavano a godere grandissima stima in tutta
Europa, nel corso della prima metà del secolo le cappelle musicali italiane che aspiravano ad un
particolare prestigio cercavano di accaparrarsi a peso d'oro i più stimati musicisti fiamminghi.
La carriera di Josquin Després è emblematica a questo proposito. Heinrich Isaah, invece, dedicò la
sua vita artistica alla corte medicea di Firenze.
I maestri fiamminghi in Italia trovarono una cultura musicale che nell'ambito sacro non aveva
ancora espresso una propria tradizione e l'innesto della chiarezza dell'armonia italiana sulla
complessità del contrappunto fiammingo crearono una trasformazione linguistica che assumerà
caratteri differenziati. Nonostante gli scambi culturali, in certi ambienti le vicende storiche e lo stile
dei singoli influiranno in modo determinante sulla creazione di tradizioni locali fortemente
caratterizzate. Il primo di questi centri è Roma. Come i principi del Rinascimento, il papa aveva una
sua cappella musicale privata e personale che era rigorosamente a cappella, costituito
esclusivamente da cantori adulti, molti dei quali fiamminghi. Il più importante compositore di
musica sacra attivo a Roma, Giovanni Pierluigi da Palestrina, fece parte di molte di queste
prestigiose cappelle musicali. Egli ebbe una carriera interamente romana, nonostante la sua fama
non gli avesse fatto mancare occasioni e proposte da parte di corti importanti sia in Italia che
all'estero. Nei primi anni in cui Palestrina svolgeva il suo incarico, si era concluso il concilio di
Trento che si era interessato anche di questioni legate alla musica con funzione liturgica. La
discussione era stata lunga e animata, specialmente attorno ad un problema di antica data: decidere
quali espressioni musicali meglio si accordassero con le finalità devozionali che erano chiamate ad
assolvere. Naturalmente il canto gregoriano non era messo sotto inchiesta, ma necessitava
ugualmente dello sfrondamento di tutte quelle parti accessorie concresciute su di esso nel corso del
tempo e di una revisione generale adeguata al gusto dell'epoca (affidata a Giovanni Pierluigi da
Palestrina).
Molto più problematico era invece il canto polifonico, portato dai maestri fiamminghi ad un
altissimo livello di sviluppo acustico nella generale indifferenza rispetto al testo liturgico che
intonava ed alla sua sacralità; indifferente al suo spirito, in quanto in momenti penitenziali o luttuosi
le volute melismatiche e lo sfarzo sonoro contraddicevano il carattere della stessa funzione liturgica.
Sappiamo che fra i padri conciliari vi fu chi avrebbe voluto abolire tout court la polifonia, ma
prevalse infine una linea riformista: la musica polifonica, ormai radicata da secoli, sarebbe rimasta,
a condizione che fosse adeguata alle funzioni che doveva assolvere.
Collegando queste vicende storiche all'eccellenza dello stile palestriniano, fu creato nel corso del
Seicento il mito di Palestrina, salvatore della musica polifonica. D'altronde è vero che Palestrina
conciliò le esigenze riformistiche tridentine con quelle artistiche, riducendo gli artifici
contrappuntistici della scuola fiamminga ad una nuova misura che si può veramente definire
classica. In essa condusse a compiuta e perfetta realizzazione quell'ideale polifonico già intravisto
da Josquin Després, modellando innanzitutto il decorso melodico sul canto Gregoriano, quindi
ancorando saldamente il costrutto polifonico ad un andamento armonico. Ma nonostante i rigori
riformistici, si era ben lungi dal raggiungimento di una prassi esecutiva e di una norma stilistica
unificata. Le stesse composizioni di Palestrina erano soggette a tutti gli accomodamenti del caso.
Così come a Roma lo stile palestriniano aveva dato luogo ad un manierismo locale coltivato dai
successori, circostanze particolari avevano creato a Venezia, nell'ambito della cappella musicale di
san Marco, una tendenza stilistica fortemente caratterizzata ed illustrata da importanti compositori.
Il carattere particolare della musica sacra veneziana ha fatto sorgere alcuni miti connessi alle
caratteristiche acustiche e linguistiche della medesima, che solamente in tempi piuttosto recenti
sono stati sfatati. Primo fra tutti quello che connette la nascita della policoralità alla particolare
struttura architettonica della basilica di san Marco che tra l'altro non risulta essere un luogo
particolarmente adatto all'esecuzione policorale, che, comunque, nel Cinquecento fu per lo più
praticata nelle logge inferiori e non in quelle superiori.
Accordalità appena mossa da collegamenti contrappuntistici, andamento ritmico pronunciato che
prende a prestito certe formule della musica profana, spiccato gusto coloristico derivato
dall'alternanza e dalla combinazione di cori vocali e strumentali. Questi i tratti salienti della scuola
veneziana, quali possiamo riscontrare nei suoi due massimi rappresentanti, Andrea e Giovanni
Gabrieli, zio e nipote (entrambi al servizio della basilica di san Marco in qualità di organisti). Nella
tarda produzione di Giovanni la tecnica compositiva si arricchisce di nuove acquisizioni quali il
basso continuo, i cromatismi e i figurativismi della scuola madrigalistica d'avanguardia.

Paragrafo IV: Il madrigale

Le musiche or ora descritte erano composte naturalmente su testi in lingua latina. Ma nel campo
della musica profana, che era in larga parte musica cantata, il problema della lingua diventava
importante: comporre musica su testi in italiano era possibile solo a partire da una tradizione di
canto antecedente e in un caso come quello dell'ambiente musicale italiano, caratterizzato
dall'egemonia di musicisti non italiani, il problema si presentava in termini di difficile soluzione. Il
processo di avvicinamento fra musicisti fiamminghi e lingua e cultura italiana fu dunque lungo e
difficile e i primi esempi cominciano a comparire negli ultimi decenni del Quattrocento, da Josquin
Després ad Alexander Agricola. Ma è soprattutto a partire dal terzo decennio del Cinquecento che si
creano condizioni più favorevoli alla collaborazione. È probabile che dopo anni di assidui contatti il
processo di naturalizzazione dei musicisti d'oltralpe e la loro conoscenza dell'ambiente culturale
italiano avesse ormai raggiunto un grado soddisfacente di maturità.
I pregi fisici della donna (che dovevano essere sublimati dalle virtù morali) e una certa compostezza
di contegno che l'uomo era tenuto ad osservare, secondo un ideale di aureo equilibrio, furono i
contenuti poetici musicati dai madrigalisti del Cinquecento, i quali, assumendo ad archetipi quelli
del Petrarca, elessero il poeta Trecentesco ad ispiratore supremo delle loro composizioni, intonando
soprattutto i suoi versi. Il nuovo genere musicale che nacque da questo connubio musico-letterario
fu il madrigale, intendendosi con questo termine un tipo di composizione che con l'omonimo
madrigale del Trecento niente aveva in comune, né sul piano musicale, né su quello letterario.
Ora, con il termine di madrigale, si intende infatti una composizione polifonica su un testo poetico
relativamente breve che veniva musicato frase per frase, dall'inizio alla fine, senza riprese ne
ritornelli. Ma ciò che distingueva il madrigale dalle altre forme era soprattutto l'attenzione
all'illustrazione del significato delle parole.
Grazie alla sua complessità e alla sua continua sottile aderenza al testo verbale, il madrigale non era
nato come musica da concerto o da spettacolo, e in molti casi i cantori potevano essere non solo i
professionisti della cappella ma anche raffinati musicisti dilettanti.
In tale humus melodico rifiorisce la sapienza contrappuntistica dei maestri fiamminghi, la quale si
dispiegherà nuovamente nel madrigale della seconda metà del XVI secolo. E sarà ancora un di
costoro, Adrian Willaert, a promuoverne la rivalutazione entro il soave tessuto polifonico
madrigalesco. Willaert, il capostipite della scuola veneziana, vi immetterà un uso sempre più ricco
del contrappunto che, lungi dall'offuscare la parola, ne amplifica il senso e ne amplifica
l'espressività linguistica.
Verso la metà del secolo la struttura del madrigale tende ad acquistare maggiore complessità e
mobilità per un uso sempre più disinvolto dei cosiddetti cromatismi, intendendosi con questo
termine due procedimenti fondamentalmente diversi. Da un lato infatti cromatismo significa uso
diffuso delle note di colore nero. D'altra parte con lo stesso termine vengono indicate le alterazioni
tonali delle note.
Comune ai madrigali è un altro tratto stilistico tipico: quello che va sotto il nome di madrigalismo.
Con questo termine si intende l'usanza di illustrare o imitare con procedimenti musicali i significati
delle parole che venivano musicate.
Negli ultimi decenni del secolo la fortuna del madrigale lo conduce gradualmente a dilagare verso
altri generi. Così da Napoli si diffuse, ad esempio, nelle regioni nordiche d'Italia la villanella o
villanesca, cioè una strofica su testi vivaci spesso in dialetto, generalmente a tre parti omoritmiche.
A Venezia rifiorirà la nuova giustiniana che avrà carattere satirico e burlesco, e insieme vedrà la
luce la grechesca, per lo più su testi di Antonio Molino, che unisce comicamente misti di dialetto
veneziano, istriano e greco.
I più celebrati e certamente i più rilevanti rappresentanti dell'ultima produzione madrigalistica sono
tre musicisti italiani: Luca Marenzio, Gesualdo da Venosa e Claudio Monteverdi.
Luca Marenzio è il più celebrato autore di madrigali ai tempi suoi, padrone di tutte le tecniche
utilizzate in quel tempo, imitazioni fugate, canoni, stretti e moti contrari. Nei suoi madrigali diventa
dominante una logica musicale diversa da quella fiamminga e la tecnica imitativa trova in Marenzio
intima corrispondenza nei significati verbali dei testi animati anche dall'uso di sincopi e di valori
ritmici sempre differenziati.
Altrettanto potentemente declamatorio appare lo stile di Gesualdo da Venosa, l'ultimo grande
madrigalista, originario di Napoli. La parola è al centro della sua attenzione e con l'insediarsi in
ambito musicale di codesta centralità della parola, si entra nel capitolo del barocco e della sua
poetica.

Paragrafo V: Il Cinquecento europeo

Nella musica profana francese del XVI secolo c'è un genere musicale che, come il madrigale in
Italia, è assolutamente predominante: la chanson. In questo periodo il tipo di chanson che prevaleva
nella produzione internazionale era quello sapiente che trovava i suoi modelli nella produzione in
lingua francese di Josquin Després, ma fu solo verso la fine degli anni Venti che il genere della
canzone francese si impose con la forza di un vero e proprio successo su larga scala. Per più di
vent'anni Attaignant pubblicò decine di fortunate raccolte in cui spiccano soprattutto due musicisti,
Claudin de Sermisy e Clément Janequin. Entrambi furono compositori di raffinata delicatezza lirica
ma Clément Janequin divenne particolarmente famoso per le sue chansons narrative che descrivono
determinate scene o situazioni con effetti onomatopeici. Nella seconda metà del secolo la chanson
polifonica trasse molti dei suoi testi dai poeti del gruppo della Pléiade, influenzati dalla tradizione
umanistica e petrarchesca italiana; e i musicisti stessi furono sensibili a inflessioni e procedimenti
tratti dai modelli del madrigale.
Quanto alla musica sacra diffusa in Francia nel Cinquecento, si può dire che un vero e proprio stile
nazionale sottratto all'egemonia dei compositori di scuola fiamminga cominci ad emergere solo
negli ultimi anni Venti, cioè dopo la morte di Josquin Després.
Nella seconda metà del secolo, sia nel campo della chanson sia in quello della musica religiosa,
ebbe un posto particolarissimo, e anzi addirittura predominante, la figura di Orlando di Lasso. La
sua versatilità inventiva lasciò tracce importanti in tutti i generi musicali della sua epoca, in
particolare nel madrigale, nella chanson e nel lied tedesco. Nel caso di Orlando di Lasso, così anche
in quello di molti altri musicisti europei, il contatto con l'Italia fu determinante per la formazione
del suo stile, sia nel campo della musica sacra sia in quello stesso del madrigale su testo in volgare.
Il madrigale a sua volta ebbe una particolarissima fortuna in ambiente inglese. In Inghilterra si
svilupperà infatti una vera e propria scuola madrigalistica con caratteri nazionali originali. Il
madrigale si estinguerà in Inghilterra a Seicento inoltrato, cedendo il campo alla monodia
accompagnata di cui già i songs e gli ayres per voce sola con accompagnamento di strumenti, di
John Dowland, avevano fornito esempi insigni.
Quanto ai paesi di lingua tedesca si assiste a una graduale compenetrazione della tradizione
fiamminga con la tradizione locale. Nel campo della musica profana il tenorlied cade in disuso solo
dopo la metà del secolo, ma fino a quel periodo continua a venir coltivato dai maggiori compositori
operanti in Germania. Un nuovo capitolo per la storia della canzone tedesca iniziò con Orlando di
Lasso che pubblicò un centinaio di composizioni applicando al contesto di quella tradizione
procedimenti derivati dall'esperienza della chanson e del madrigale. Ma il momento decisivo per
l'identificazione e la fondazione di una tradizione musicale nazionale è costituito in Germania dal
movimento della riforma luterana. Martin Luther era ben conscio che l'uso della musica nell'ambito
della liturgia era di fondamentale importanza perché toccava da vicino non tanto i problemi
teologici quanto la devozione dei fedeli e la loro unione comunitaria. La più importante aspirazione
di Luther, nella sua ansia riformatrice, era di ricreare un canto religioso comunitario, sentito dal
popolo come qualcosa di proprio e non di imposto dal di fuori e dall'alto. A tal fine riorganizzò tutto
il cerimoniale della messa secondo le sue nuove direttive. I nuovi canti della liturgia protestante
erano semplici lieder, talora contrafacta o travestimenti spirituali di canzoni popolari profane.
Luther stesso contribuì scrivendo lui stesso nuovi testi poetici in tedesco, di cui parecchi sono in uso
ancora oggi. Nella prefazione alla sua raccolta di canti Luther esprime la sua radicata fiducia nel
potere educativo e intrinsecamente religioso del canto, purché volto a fini buoni. L'idea che alla
pratica musicale è connesso un profondo e intrinseco potere educativo fece sì che si considerasse la
musica e il canto non come una disciplina specialistica ma come una pratica collettiva tendente a
formare una concreta comunità di fedeli.

Paragrafo VI: I teorici

La teoria della musica è sempre stata, sin dalla più remota antichità, una scienza con uno sviluppo
quasi autonomo rispetto alla prassi musicale. Si è già parlato a lungo dei motivi di questa frattura
che ha le sue radici nel mondo antico ed è sopravvissuta nel mondo cristiano medievale. Pertanto
solo con il Rinascimento tale profondo dislivello tra i due piani si va colmando. Ma l'epoca di
maggiore fioritura della teoria musicale è la seconda metà del Cinquecento, durante i decenni in cui
si pongono le fondamenta dell'armonia classica e del sistema bimodale maggiore-minore, che viene
a sostituire il sistema plurimodale su cui si basava la polifonia e in cui si inventa e progetta il nuovo
spettacolo musicale che è il melodramma. Questi fenomeni sono stati oggetto di dibattito e a volte
di accanite discussioni tra i teorici, tra cui il più importante del tempo che è senza dubbio il
veneziano Gioseffo Zarlino. Nei suoi grandi trattati egli tenta di operare una sistematica
razionalizzazione della musica. Alla molteplicità dispersiva di regole, Zarlino vuole sostituire poche
regole, o meglio leggi generali, che traggano origine dalla natura stessa della musica, ponendo così
le basi della nuova scienza dell'armonia su un più logico universo bimodale (maggiore e minore)
moderno. L'idea più rivoluzionaria che sta alla base di tutta la teoria armonica di Zarlino è che
l'armonia stessa si basa sugli intervalli consonanti di terza maggiore, mentre l'intervallo minore
dipende solamente dalla disposizione della quinta nella posizione superiore (C E G) oppure in
quella inferiore (A C E). Zarlino, ponendo così le basi per una teoria accordale come
sovrapposizione di terze, ribadisce al tempo stesso la sua avversione per il genere cromatico o
peggio ancora per quello enarmonico. Egli ha intravisto non soltanto la novità tecnica rappresentata
dal nuovo linguaggio monodico che appena in quegli anni si stava timidamente affermando, ma
anche le sue più profonde implicazioni; il nuovo linguaggio si fa strumento di un discorso musicale
più ampio, di una vera e propria narrazione.
Di fronte alla linea di Zarlino, che mirava a fondare la legittimità della musica pura strumentale,
parallelamente altri teorici accentuavano i motivi di polemica nei confronti della polifonia,
drammatizzando l'annoso problema dell'incomprensibilità dei testi poetici delle composizioni a più
voci. Già Vicentino propugnava un'astratta integrazione tra musica e linguaggio, affermando che i
cromatismi e i più piccoli intervalli enarmonici servono egregiamente a piegare la musica alle più
impercettibili inflessioni del discorso poetico.
Vincenzo Galilei e i musicisti della famosa camerata fiorentina del conte Bardi, non hanno fatto
altro che sviluppare e portare alle estreme conseguenze le idee di Vicentino. Secondo Galilei infatti
l'unione di due suoni che si fanno udire contemporaneamente è un assurdo logico, ed è paragonabile
a due parole pronunciate insieme. Solo un andamento lineare, cioè quello della monodia, è
concepibile, mentre qualsiasi altra forma di armonia accordale non è neppure da prendere in
considerazione.
Capitolo V: L'età dei grandi cambiamenti stilistici

Paragrafo I: L'assolutismo e il concetto di Barocco

Nella storia della musica, generalmente s'intende con il termine Barocco un periodo delimitato
all'incirca dalla fine del secolo XVI alla metà del secolo XVII. Ma il concetto di Barocco porta con
sé problemi assai più complessi. Esiste pertanto uno spirito del tempo che possiamo designare come
Barocco?
Spesso il termine è stato usato non come categoria storica ma come una sorta di qualità stilistica
vagamente contrapposta a quella classica del periodo rinascimentale e interpretata in termini di
decadenza e di involuzione. Solo alla fine del secolo XIX incominciò ad assumere una
connotazione non negativa e soprattutto una sua specificità.
Il musicologo Curt Sachs fu tra i primi a tentarne il trapianto nella storia della musica, individuando
nell'epoca compresa all'incirca fra il secolo XVII e la prima metà del XVIII tratti stilistici unitari
sufficienti a caratterizzare positivamente questo lungo e fecondo periodo nella storia della musica.
Alla base di questa rivalutazione del Barocco sta l'idea che tale epoca non rappresenta solamente il
prolungamento o peggio il declino del Rinascimento; il Barocco va considerato invece
un'espressione artistica individuale.
In realtà ci si è ben presto accorti che l'unità stilistica del periodo che stiamo considerando è
solamente relativa; gli storici della musica, ad esempio, ne hanno individuato tre fasi denominate
come primo Barocco, pieno Barocco e tardo Barocco.
In questo periodo l'Europa intera è attraversata da una profonda crisi economica e sociale. Le stesse
classi dominanti, appartenenti alla grande nobiltà terriera, furono investite dal problema della
diminuzione delle risorse e cominciarono a metter mano a un sistema di protezioni e di difese che
aveva lo scopo di mantenere intatti i loro privilegi, senza tener conto, tuttavia, che il meccanismo si
traduceva in un circolo vizioso, ossia in un ulteriore indebolimento delle attività produttive e delle
risorse economiche.
Il risultato di queste manovre ha una conseguenza ovvia ma vistosa, cioè il sempre più accentuato
incremento dell'autoritarismo aristocratico, il quale acuisce i problemi sociali. È il periodo del
cosiddetto assolutismo monarchico, il cui esempio più famoso è quello della Francia di Luigi XIV.
Il potere di controllo e di repressione si manifesta ovviamente nella sua forma più generale e più
diretta attraverso la punizione fisica, ma per ottenere obbedienza e sottomissione l'intervento solo
punitivo non era sufficiente. L'arte del persuadere e l'arte del commuovere appaiono come strumenti
di una strategia sociale globale in cui la cultura estetica barocca sembra essere profondamente
coinvolta. E gli artisti dell'epoca sanno cogliere con straordinaria e sensibilissima intuizione lo
spirito della cultura dei loro committenti e dei loro mecenati, traducendolo in musiche che ne
riproducono fedelmente i contenuti.
Certo la situazione dell'intellettuale di corte è profondamente cambiata. Nel Quattrocento gli
intellettuali e gli artisti erano i veri protagonisti di una profonda trasformazione culturale, mentre
due secoli dopo essi sono ormai diventati strumenti del potere. In ogni caso ciò che prevale nell'arte
di quest'epoca è sempre il senso dello spettacolo, dell'artefatto che ha la funzione di persuadere e di
commuovere.
Fra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento si verifica dunque anche in musica un
complesso di eventi inediti. Gli stessi artisti ne sono consapevoli: quando Monteverdi e altri parlano
di seconda prattica, sanno perfettamente di inaugurare un'epoca nuova nella storia della musica e
individuano nella teatrale imitazione degli affetti e delle emozioni, per mezzo del canto monodico,
l'elemento caratterizzante il nuovo stile. In effetti la retorica degli affetti è indubbiamente
l'invenzione più importante e tutte le altre numerose invenzioni proprie dello stile Barocco ruotano
attorno a questa idea, cioè che la musica deve seguire una ben precisa retorica con un repertorio di
figure ben individuabili e codificabili, atte a produrre gli effetti emotivi desiderati.
Uno degli elementi che i musicisti più tenevano a sottolineare, era l'inversione radicale del rapporto
musica-poesia. Essi accusavano con veemenza la scuola polifonica di aver violentato la parola, la
quale avrebbe calpestato il senso del discorso verbale, annullando ogni possibilità di effetto sul
pubblico. Questo proiettarsi sullo spettatore diventa il fine primo della musicalità barocca. Il
discorso musicale si carica così di una forte tensione espressiva e il nuovo linguaggio armonico-
melodico si presenta come il più consono a realizzare questa ideale oratoria degli affetti.
Non si tratta evidentemente si una subordinazione della musica alla parola, ma piuttosto di una
subordinazione di parola e musica insieme a questo ideale pervasivo di tutta la civiltà artistica
barocca: esprimere o imitare gli affetti al fine di soggiogare il pubblico, per commuoverlo ed
emozionarlo.

Paragrafo II: Il canto monodico e il melodramma

La grande diffusione della polifonia e dei generi in campo profano, quali il madrigale o la villanella,
non offrono un quadro del tutto fedele ed esauriente della prassi musicale in atto. Fin dal
Quattrocento era sopravvissuta una tradizione orale che anche Baldesar Castiglione, nel Cortegiano,
dichiara di apprezzare. E sappiamo anche che nel Cinquecento era uso cantar ottave, cioè cantare le
strofe dei poemi epici, particolarmente dell'Orlando furioso, servendosi di moduli prefissati che
venivano anche usati per variazioni strumentali o come bassi ostinati sulla cui base inventare nuove
melodie. Altre testimonianze di canto a solo si trovano in occasione di rappresentazioni teatrali.
Particolarmente famose rimasero le musiche cantate nei festosi intermedi musico-teatrali che
venivano inseriti fra un atto e l'altro di commedie o tragedie. In questi casi gli esecutori erano
spesso dei cantori professionisti che arricchivano di improvvisazioni l'andamento melodico con
fioriture di note più rapide, procedimento che veniva anche detto cantare di gorgia.
Verso la fine del Cinquecento, il canto solistico si stava diffondendo con fortuna e produceva anche
una sorta di scuola di virtuosismo esecutivo: Giulio Caccini e Vittoria Archilei erano ai loro tempi
divi famosissimi e ben pagati. Non c'è dunque da stupirsi se, in piena epoca polifonica, poté nascere
e maturare l'attività di un gruppo di musicisti e di poeti come quelli che dettero vita alla famosa
camerata fiorentina, raccolta intorno al conte Bardi.
Gli esperimenti di canto monodico teatrale che venivano fatti nell'ambiente della camerata,
condussero alla nascita dei primi esempi di melodramma. La storia della camerata fiorentina si
svolse in tre fasi: la prima, che va dal 1579 al ritorno dall'esilio di Ferdinando de' Medici nel 1586,
durante la quale si assiste alla polemica contro la polifonia, promossa principalmente da Vincenzo
Galilei. Una seconda, che dal ritorno di Ferdinando giunge fin verso la fine del secolo, dominata
dalla presenza di Emilio de' Cavalieri in qualità di sovrintendente per la musica e gli spettacoli di
corte. Infine una terza fase nella casa di Jacopo Corsi, succeduto al conte de' Bardi, comprendente
gli ultimi anni del secolo sino all'apparire del seguente, in cui vedono la luce i primi esempi di vero
e proprio melodramma: la Dafne di Jacopo Peri su libretto di Ottavio Rinucci, e l'Euridice, degli
stessi in collaborazione col Caccini.
Lo stile di canto che nacque da queste esperienze viene di solito designato col termine di recitar
cantando. Si trattava di un canto che tendeva ad imitare le inflessioni della parola recitata. Questo
modo di cantare prenderà il nome di recitativo e si diffonderà successivamente in tutta Europa.
Se questa fu senz'altro l'invenzione più originale dei membri della camerata fiorentina, c'è però
anche da aggiungere che lo stile recitativo si alterna sempre per spezzare la monotonia della
declamazione, con un modo di canto elegante, derivato non già dalle espressività madrigalesche ma
piuttosto dalla vocalità semplice delle canzonette e delle villanelle. Si tratta di un canto
ritmicamente e formalmente organizzato da cui derivò in seguito quella che nel melodramma prese
il nome di aria. Gli strumenti usati erano soprattutto il clavicembalo e il chitarrone. Nella
recitazione cantata di queste prime favole in musica, la parola doveva essere ben percepibile e le
linee del canto dovevano tendere ad esprimere il senso delle parole.
Già certe esperienze di canto teatrale esistevano, cioè gli intermedi, ma in questi casi il tipo di canto
adottato era quello della polifonia madrigalesca. Con l'Euridice si ebbe invece uno spettacolo
indipendente, e cantato con uno stile che era nato espressamente per la recitazione. La novità era
rilevante, e ciò spiega anche l'aria di rivalità e di polemica che spirava fra i musicisti che si
contendevano il merito di esserne gli inventori. Il primo vero e proprio melodramma fu senz'altro
l'Euridice di Peri e Rinuccini, rappresentato il 6 ottobre del 1600 a Palazzo Pitti, a Firenze. Ma già
nel dicembre dello stesso anno uscì Euridice posta in musica in stile rappresentativo da Giulio
Caccini, allo scopo implicito di rivendicarne la paternità.

Paragrafo III: Monodia e stile concertato

Durante il corso del XVI secolo la musica vocale veniva stampata a parti separate. Questa prassi
indica qual era, secondo il pensiero musicale dell'epoca, il modo di esecuzione ideale: polifonia
pura affidata alle sole voci. In realtà gli strumenti venivano costantemente usati nela musica
cinquecentesca. Quando verso la fine del secolo si fecero i primi esperimenti di stile recitativo, l'uso
di sostenere il canto con strumenti di accompagnamento divenne necessario, ma si inscrisse in una
tradizione ormai lungamente sperimentata. Le edizioni a stampa dei primi sperimenti drammaturgici
dell'anno 1600 sono interessanti perché sono organizzate in partitura. A dire il vero questa non era
una novità assoluta: l'uso di partiture era già comparso nel corso del secolo, in questo caso però
esisteva un'ulteriore novità: le parti degli strumenti venivano indicate in modo semplificato, ossia
con la sola parte melodica del basso, nel presupposto che i suonatori sapessero aggiungere da sé gli
accordi necessari per sostenere la voce. A questo sistema grafico, che presuppone l'esistenza di una
pratica improvvisativa già diffusa, i testi d'opera aggiungevano un ulteriore artificio tecnico:
l'indicazione abbreviata dell'accordo mediante numeri che dovevano facilitare l'improvvisazione e
obbligare i diversi esecutori alla scelta di uno stesso accordo.
Anche nella tradizione sacra esistevano antecedenti: per esempio l'uso di accompagnare le voci con
l'organo durante il rito.
Per quel che riguarda la musica profana, il declino del madrigale cinquecentesco è lento e graduale,
ma il termine di madrigale passa a poco a poco a designare anche composizioni monodiche che
ereditano lo spirito declamatorio del madrigale. Lo stile di canto dei madrigali monodici del primo
Seicento è dunque assai vicino alla libertà ritmica e formale del recitar cantando. Ma il tardo
madrigale polifonico, soprattutto quello di Gesualdo da Venosa, offriva modelli di melodia che si
confacevano particolarmente al gusto per gli effetti drammatici e persino morbosi che la più
raffinata cultura di quegli anni veniva gradualmente scoprendo. Così i più arditi fra i monodisti
componevano madrigali a voce sola pieni di effetti, come si soleva dire, non ordinari, che avevano
il compito di mettere in luce la bizzarria vagamente ipocondriaca di quel particolarissimo mondo
intellettuale e la squisita riservatezza del suo gusto. Ma le soluzioni stilistiche non si esauriscono in
questi nuovi tipi di madrigale: esistono ad esempio le brevi composizioni strofiche che Caccini
chiama arie, ed esistono altri tipi di sperimentazione formale basati sull'uso di bassi ostinati, ossia di
brevi formule più volte ripetute che venivano eseguite dal basso continuo, mentre la parte vocale si
inseriva su questa base statica con sempre nuove varianti melodiche. Proprio a questi tipi di
organizzazione formale viene talvolta riferito il nome di cantata.
Nel campo della musica sacra lo stile imitativo della polifonia corale o policorale del secolo
precedente continuava a caratterizzare molta parte dei mottetti e delle messe di nuova
composizione. Il primo avvio allo stile monodico sacro fu dato dalla raccolta dei Cento concerti
ecclesiastici di Lodovico Grossi da Viadana, il cui successo era dovuto alle facilitazioni pratiche
che essa offriva agli esecutori: l'adozione del basso continuo permetteva di riassumere con lo
strumento alcune delle linee vocali; così facendo risparmia, a quelle cappelle che occasionalmente
disponessero di pochi cantori o anche di un solo cantore, la fatica di adattare testi concepiti per
complessi polifonici più ampi.
Ma negli anni immediatamente successivi compaiono anche composizioni che adottano stili
monodici più nuovi e alla moda: tutti gli artifici melodici che i musicisti profani mettevano in atto
per evidenziare gli affetti della parola. Soprattutto la scuola veneziana da Giovanni Gabrieli a
Monteverdi, nel suo gusto sontuoso per la policoralità vocale e strumentale, non disdegnò di servirsi
talora di passi solistici virtuosistici od espressivi o addirittura di composizioni interamente scritte
nel nuovo stile. Nelle chiese di Roma, dove il rigore stilistico era notoriamente più accentuato e il
culto mitico del modello palestriniano aveva ancora un'ampia accoglienza, l'ingresso di strumenti e
di aspetti di canto solistico nelle composizioni liturgiche rimase escluso dalla prassi ordinaria.
Quanto alla policoralità se ne trovano esempi nello stesso Palestrina, rinsaldando una tendenza che
avrebbe condotto a quello che venne poi chiamato lo stile colossale, che prevede l'impiego
contemporaneo di molti cori, e suscitava ricche sonorità, piene di raddoppi e di echi.
La parola concerto si riferisce al riunire più componenti sonore diverse. Concerto o stile concertato
diventano termini sintetici capaci di indicare il gusto tipicamente seicentesco per la disomogeneità o
mescolanza sonora, contrapposto a quell'ideale d'armonia che aveva invece caratterizzato il secolo
precedente.

Paragrafo IV: Claudio Monteverdi

Quando l'Orfeo venne rappresentato alla corte di Mantova nel 1607, Claudio Monteverdi aveva già
pubblicato diverse raccolte e, inoltre, aveva già formulato una sua poetica in un testo chiamato
Seconda pratica ovvero perfettione della moderna musica, trattato mai concluso e accennato dal
fratello in un secondo momento.
In questa seconda pratica Monteverdi avrebbe teorizzato una pratica contraria alla teoria del
Zarlino, quindi, per Monteverdi, l'armonia doveva essere comandata dalle parole, così come anche
teorizzavano i musicisti della camerata.
Monteverdi sarà in grado di portare questa pratica a livelli altissimi, soprattutto tramite i cinque libri
di madrigali pubblicati fra il 1587 e il 1605. Erano madrigali polifonici composti nello stile del
Cinquecento, nei quali, tuttavia, emergono tratti di forte originalità. Così nel primo libro ricorrono
inattesi momenti di danza; nel secondo e nel terzo c'è un incontro forte con la poesia del Tasso. La
ricerca delle individualità solistiche è confermata nel quarto e ancora di più nel quinto libro, su testi
del Guarini. Se nel quarto libro vengono utilizzati effetti dissonanti, quarte eccedenti o diminuite, è
nel quinto che troviamo la vera essenza del pensiero poetico di Monteverdi, secondo il quale la
musica deve porsi come manifestazione delle passioni umane.
Essendo il quinto libro uscito pochi anni prima dell'andata in scena dell'Orfeo, quest'opera si ritrova
piena di tutta l'esperienza accumulata dal musicista nel corso degli anni precedenti. Inoltre il gusto
del conte Vincenzo, suo protettore, fece sì che Monteverdi tenesse conto delle sontuose
rappresentazioni fiorentine, intermediando diverse tipologie musicali, alternando madrigali ad
andamenti strofici a cori con danze e a brani di grande virtuosismo canoro. Inoltre l'intento di
rendere davvero per tutti quest'opera, fece sì, probabilmente, che il finale venne cambiato, dando
all'Orfeo un lieto fine in grado di appassionare il pubblico.
Nel 1608 pubblica Il ballo delle ingrate, rappresentato alla corte dei Gonzaga per festeggiare le
nozze fra Francesco e l'infanta Margherita di Savoia. La storia, molto semplice, narra della richiesta
di Amore e Venere a Plutone di trarre dal regno delle ombre le donne ingrate verso chi le amò, così
da essere monito per quelle ancora vive.
Dopo quest'opera continuerà a pubblicare altre raccolte. Importante sarà il settimo libro, intitolato
Concerto, che non conterrà solo madrigali ma anche altri tipi di canti, persino a sei voci. Infatti se il
madrigale va portando le sue facoltà espressive alla voce solista, Monteverdi accentuerà la monodia
per emanciparla dai caratteri privati, spingendola verso un'accresciuta complessità sonora.
L'ottavo libro, per esempio, non conterrà più madrigali tradizionali, ma forme musicali da teatro, da
concerto e da ballo. Fra queste opere vi sono Il combattimento di Tancredi e Clorinda e il Ballo
delle ingrate.
Il primo è tratto dal passo del canto XII della Gerusalemme liberata del Tasso, in cui Tancredi e
Clorinda combattono fino alla morte di lei, cioè fino al momento in cui Tancredi scopre che
l'avversario che ha appena ucciso è la sua amata Clorinda. Ella gli chiede di battezzarla in punto di
morte e lui provvede. Un tenore racconta la vicenda mentre un soprano ed un altro tenore
rappresentato i due combattenti/amanti, il tutto accompagnato da strumenti e con l'utilizzo del basso
continuo. L'intento è quello di commuovere per effetto dei sentimenti contrastanti dei due
personaggi, nemici ma (nel momento in cui si riconoscono) innamorati.
Monteverdi compone anche musiche dedicate alla celebrazione liturgica, soprattutto nel periodo
vissuto a Venezia. La prima raccolta contiene due opere dedicate al culto mariano, composte
utilizzando la tecnica della missa parodia, ovvero la composizione di nuove musiche a partire da
temi già inventati precedentemente.
Dopo l'uscita di questa raccolta, la produzione di musica sacra crebbe, creando opere diverse, anche
dal punto di vista formale, per venire incontro alle esigenze che, di volta in volta, trovava nei suoi
committenti.
Dell'ultimo periodo della vita di Monteverdi ci rimangono due opere teatrali, Il ritorno di Ulisse in
patria e L'incoronazione di Poppea, che testimoniano un'interrotta attività in questo campo.
Il primo narra la vicenda degli ultimi passi dell'Odissea di Omero, incentrandosi sugli aspetti
psicologici dei personaggi, senza far mancare il piacere del racconto avventuroso né i quadri
realistici, buffi e grotteschi. In quest'opera è chiaro che Monteverdi ha via via lasciato le ritualità
aristocratiche dello spettacolo di corte per dedicarsi ad un pubblico più vasto, sicuramente anche per
via dell'apertura del primo teatro con ingresso a pagamento, il san Cassiano di Venezia, nel 1637.
La seconda opera, invece, viene rappresentata a Napoli, e inscena le vicende di Nerone, Poppea e
Seneca, utilizzando la Roma imperiale come metafora per trattare del costume societario di quel
periodo.

Paragrafo V: L'ambiente romano e l'oratorio

Nei primi anni del Seicento l'opera teatrale si andava diffondendo rapidamente in altre città italiane,
assumendo tratti diversi a seconda delle condizioni locali. E soprattutto a Roma, dove i caratteri
barocchi controriformistici dell'arte e dell'ideologia sociale trovavano il terreno naturale alla sua
massima effusione. Particolare cura era riservata all'aspetto spettacolare. Estendendo in profondità
lo spazio prospettico, la scena riusciva a rafforzare l'effetto delle ingegnose metafore retoriche
proposte dal libretto.
Anche la musica, all'interno del recitar cantando, cerca uno stile melodicamente accattivante,
rendendo le proprie linee più morbide e sinuose.
Ma è all'interno delle iniziative collaterali alla liturgia che la Chiesa da vita, a Roma, alla riforma
musicale più rispondente al disegno della controriforma: l'oratorio, da considerarsi il correlativo del
profano melodramma. L'oratorio, infatti, è una composizione drammatica, al pari dell'opera, con
personaggi e dialoghi diretti, dove scena e azione sono sostituite da una narrazione svolta per lo più
dalla figura dello storico, ovvero del narratore. L'articolazione dell'oratorio in due parti deriva
dall'uso di far precedere e seguire la recita del sermone dai canti. A seconda che si trattasse di laudi
polifoniche in volgare o fossero mottetti in latino, quali si intonavano in sodalizi dotti e più
riservati, diedero luogo a veri e propri svolgimenti drammatico musicali nelle due lingue. Oratorio
in volgare e oratorio in latino procedono dunque dallo sviluppo della polifonia verso uno stile
dialogico e verso la monodia accompagnata, secondo un processo conosciuto parallelamente dal
melodramma.
Il massimo autore di questo primo oratorio è Giacomo Carissimi, che lo compone in latino. Le
composizioni oratoriali di Carissimi, più che una forma incarnano la essenza rappresentativa del
nuovo genere. Il coro non vi compare come un aggregato sonoro compatto, ma passa ad acquisire
caratteri di personaggio di massa. I soli cercano di vivere in prima persona il racconto, osservando
uno scambio dialogico quanto più stretto col coro.

Paragrafo VI: Origini e primi sviluppi della musica strumentale in Italia e in Europa

La musica del XVII secolo è caratterizzata anche dalla sempre più ampia diffusione di tipi di
composizione espressamente concepiti per l'esecuzione strumentale. Nel corso del Cinquecento
queste dovettero fare i conti con un modello ideale predominante, secondo il quale la musica delle
classi colte veniva primariamente immaginata per le voci. Solo in occasione di danze, o musiche di
accompagnamento per solennità rituali, gli strumenti godevano di una funzione esplicita e di una
indipendenza dichiarata. Le prime infrazioni a queste leggi vengono legittimate e codificate dalla
scrittura. I primi strumenti che si dotarono di una grafia diversa da quella vocale furono quelli a
tastiera e a pizzico, per i quali si inventò un sistema di scrittura detto intavolatura. Le più antiche
intavolature per strumento a tastiera risalgono agli inizi del XV secolo. Fin dagli inizi, tuttavia, si
impose alla musica strumentale autonoma il problema della sua organizzazione formale, e
occorreva una sorta di architettura astratta che le organizzasse formalmente e ne giustificasse la
forma. Queste architetture sonore si appoggiano a due grandi modelli preesistenti: quello della
polifonia vocale e quello della danza. La pratica consueta della esecuzione strumentale di polifonie
vocali fornì esempi ovvi in questo campo, così, intorno alla metà del secolo XVI comparve un
genere strumentale che tendeva da vicino a organizzarsi sullo schema del mottetto. Si trattava del
ricercare. Rispetto al modello vocale, il ricercare strumentale tende nelle sue forme più mature a
limitare il numero delle sezioni, elaborando più lungamente il tema che caratterizza e introduce
ciascuna di esse; a poco a poco si avvertirà anche la necessità di rafforzare i legami tematici fra i
vari episodi. A questo punto siamo ai confini di quella che diverrà in epoche successive la forma
della fuga.
Un processo di sviluppo non diverso ebbe un'altra forma strumentale cinquecentesca: quella della
canzone o della canzone da sonar, di carattere diverso perché non legato ad austeri esempi di
polifonia sacra bensì al più disinvolto genere della chanson francese.
Altri generi si creano al di là dei modelli della polifonia vocale; in primo luogo quelli basati sulla
danza. La grande abbondanza di fonti documentarie sulla pratica sociale del ballo, e la relativa
scarsità di testi musicali scritti, sono indizi sicuri del fatto che le musiche per il ballo erano quasi
sempre eseguite da musicisti che le imparavano per tradizione orale. La comparsa di stampe
musicali contenenti danze indica come a poco a poco la moda dell'esecuzione di tali musiche si
diffondesse anche fra le classi più elevate. A questo passaggio è legato il progressivo distacco delle
musiche per danza dalla loro originaria funzione pratica. Nel genere musicale della suite, che nasce
nel Seicento, il rapporto con la danza non esiste ormai quasi più: si tratta di danze non danzate.
Suite significa successione, insieme di pezzi eseguiti uno dopo l'altro. Un posto tutto particolare
merita poi il genere musicale della toccata, che fra tutti è quello che più si allontana dal modello
della polifonia vocale e della danza, e trova soluzioni espressamente suggerite dallo strumento.
Inizialmente è costituita da una serie di accordi collegati fra loro da rapide figurazioni
virtuosistiche, per lo più a scala. Verso la fine del Cinquecento la toccata acquista ampie
proporzioni e alterna episodi liberi e virtuosistici con altri polifonici di stile imitativo.
La musica strumentale italiana è testimone di soluzioni di tutt'altro tipo, entrando in una situazione
di tipo problematica: è vero infatti che i compositori del Cinquecento avevano reso disponibile un
grande repertorio di formule per la musica strumentale, ma è anche vero che gli schemi formali
elaborati erano più rispondenti, nel loro insieme, all'ideale polifonico che non a quello monodico
che si afferma agli inizi del Seicento.
È emblematica da questo punto di vista la vicenda stilistica di un musicista come Girolamo
Frescobaldi. I titoli che figurano nelle numerose raccolte per organo e cembalo pubblicate dal
grande ferrarese sono tutti generi ampiamente noti alla tradizione cinquecentesca, ma tutti trattati
con un'inquietudine nuova a cui la musica del Cinquecento non era avvezza. Frescobaldi non si
lasciò sfuggire occasioni di viaggi e soggiorni in ambienti musicali particolarmente importanti che
gli diedero un'ampia e diretta conoscenza delle tendenze stilistiche emergenti agl'inizi del secolo.
L'esempio di Frescobaldi è indicativo proprio per la straordinaria libertà con cui egli affronta il
problema della forma strumentale.
Capitolo VI: La musica barocca tra Seicento e Settecento

Paragrafo I: L'affermazione del sistema tonale

A partire dalla seconda metà del Seicento, fino ad arrivare alla seconda metà dell'Ottocento e oltre,
la musica europea è caratterizzata da quel complesso fenomeno di organizzazione dei suoni che va
sotto il nome di tonalità. Per chiarire gradualmente i differenti aspetti del fenomeno prenderemo
innanzitutto le mosse dalla nozione di accordo. In tutto il Rinascimento l'accordo per eccellenza era
la triade, cioè la combinazione di tre suoni sovrapposti a distanza di un intervallo di terza. La
combinazione di questi tre suoni veniva pensata come un insieme di intervalli: una terza (C-E),
un'altra terza (E-G) e una quinta (C-G). L'uso del basso continuo, e soprattutto dei numeri sul basso
continuo, tende a mutare sensibilmente la situazione. Se sopra il basso C era scritta ad esempio la
cifra 5, significava che l'esecutore doveva suonare G. Ma la cifra 5 acquistò ben presto un valore
più esteso, venendo intesa sinteticamente come simbolo delle tre note che costituivano la triade.
Questo portò gradualmente il pensiero musicale degli stessi esecutori a ragionare per accordi.
Tali sequenze hanno come punti di riferimento essenziali le triadi costruite sul primo e sul quinto
grado della scala. Quando anche gli altri gradi della scala cominciarono ad acquisire funzioni
armoniche di natura analoga, si creò, allora, quel sistema organico di convenzioni che va sotto il
nome di armonia tonale. L'insieme dei gradi acquista dunque una organizzazione interna basata
sulle funzioni attribuite ai loro accordi.
Il rapporto fra melodia e armonia, che la tradizione polifonica aveva sviluppato nei secoli
precedenti, viene, entro certi limiti, rovesciato. Le melodie tonali devono rispettare le funzioni
armoniche dei gradi della scala e devono essere compatibili con quelle. Ciò porta ad una graduale
decadenza di alcuni dei molteplici modelli di scala musicale che la musica europea aveva ereditato
dalla tradizione medievale. Si affermerà così in maniera piena il sistema moderno basato
sull'opposizione fra due soli modelli di scala: la scala maggiore e la scala minore.
Ma il sistema tonale ha anche altre risorse: ogni brano può infatti aggiungere varietà al suo decorso
mediante la tecnica delle cosiddette modulazioni. Con il termine modulazione si indica il passaggio
fra una tonalità e l'altra.
La teoria formalizzerà in un secondo momento i risultati acquisiti dall'esperienza musicale, fino a
tradurli in regole didatticamente utili che verranno poi divulgate nelle scuole di composizione e che
costituiscono ancor oggi il fondamento dello studio dell'armonia. Il maggior teorico dell'armonia
settecentesca è senza dubbio Jean-Philippe Rameau, con lo studio dei principi fisici del suono che le
scoperte scientifiche avevano cominciato a mettere in luce. Nella sua riflessione la triade è un'unità
organizzata e addirittura un fenomeno naturale, perché la sua presenza caratterizza i primi suoni
armonici di una corda vibrante. Da questo punto di vista può sostenere che la disposizione delle
note nello spazio sonoro non cambia la natura dell'accordo. Da qui la teoria dei rivolti che è oggi
comunemente accettata e praticata in tutte le scuole di musica, ma che per quell'epoca costituiva
una novità.

Paragrafo II: La musica vocale di tradizione italiana

L'opera veneziana del Seicento ha una caratteristica particolare e significativa, cioè la quasi totale
assenza degli episodi corali, il che si può spiegare sia con il declino del gusto polifonico di fronte
all'irresistibile imporsi delle forme melodiche, sia con ragioni economiche. L'apertura dei teatri a
pagamento implica la costituzione di un'impresa che li gestisca, in modo che alla fine gliene venga
un utile. Essa privilegia il canto solistico e le lusinghe di un'invenzione musicale concisa e
perennemente rinnovata. Con l'inaugurazione del teatro pubblico l'opera musicale si riconosce
definitivamente coinvolta nel meccanismo e nella dialettica del mercato.
Tra gli ultimi decenni del Seicento e i primi due del secolo successivo, videro la luce le più di
sessanta opere teatrali con cui il palermitano Alessandro Scarlatti si conquistò ampia fama nell'Italia
dell'epoca. Gli strumenti formali usati da Scarlatti sono gli stessi che egli aveva ereditato dalla
tradizione, ma nelle sue mani l'antica tradizione veneziana si arricchisce di risorse nuove. Così l'aria
si stabilizza nella forma detta col da capo che doveva servire soprattutto ai cantanti castrati per
mettere in luce le loro doti vocali. Il recitativo si era ormai ridotto al recitativo secco, accompagnato
dal solo basso continuo e costruito su formule melodiche che dovevano rendere possibile una buona
comprensione dei dialoghi. Scarlatti usa anche spesso sostenere le voci con altri strumenti: si tratta
di ciò che normalmente viene chiamato recitativo accompagnato. L'uso dell'orchestra diventa
particolarmente significativo nella sinfonia introduttiva. A partire dagli inizi del Settecento il
modello prevalente diventa poi quello della cosiddetta ouverture all'italiana, che consiste in un
allegro iniziale seguito da un adagio e da un brillante movimento di danza conclusivo.
In Inghilterra, la tradizione dell'antico masque e una lunga e popolare consuetudine col teatro di
prosa con musiche di scena, ritardano l'interesse per il melodramma all'italiana, che solo dopo
Henry Purcell invaderà, nei primi anni del Settecento, la scena londinese.
Il masque era un intrattenimento teatrale della corte inglese, misto di azione recitata, di danza e
pantomima, su soggetti per lo più mitologici o allegorici tali da fornire pretesto per sontuose messe
in scena. L'invenzione melodica che Purcell dispiega nei suoi pezzi teatrali ha dietro le spalle una
lunga pratica, non solo europea, ma anche autoctona. Una fecondissima miniera di esempi era
infatti costituita dal genere inglese dei cosiddetti ayres.
Prontamente e felicemente, invece, si diffonde il melodramma italiano in alcune zone di lingua
tedesca e soprattutto in Austria.
Una storia parallela a quella del melodramma possiede un altro genere musicale diffusissimo nei
secoli XVII e XVIII: la cantata. Dal punto di vista formale la cantata non è altro che una serie di
recitativi e di arie legati da un soggetto comune. Come il madrigale del secolo precedente, la cantata
era diffusa sia a livello professionistico sia a livello amatoriale.
Dopo Roma, l'oratorio fu adottato dappertutto. Le libere strutture dell'oratorio e delle cantate di
Carissimi subirono uno sviluppo parallelo a quello che si compiva nell'opera. L'affinità di
conformazione fece sì che nel giro di alcuni decenni l'oratorio finisse per diventare una sorta di
dramma senza scena. I testi divennero sempre più simili a dei libretti d'opera e il personaggio del
narratore, o storico, fu abolito.
Abbastanza estranea a questo processo di trasformazione degli assetti stilistici rimase la messa. Già
abbiamo visto come Monteverdi coltivi ancora lo stile della musica sacra concertata, e anche come
a Roma la tradizione e il mito di Palestrina continuassero a goder ampio credito accanto a quegli
allargamenti dello stile tradizionale che erano costituiti dalle fastose messe a più cori. Questa
vocazione conservatrice continuò a prevalere nel Seicento e nel Settecento. Gli unici stili
compositivi ammessi furono quello concertato, quello policorale e soprattutto lo stile severo, detto
anche stile osservato o alla Palestrina, che venne assiduamente coltivato perché veniva considerato
particolarmente adatto alla formazione tecnica dei futuri compositori. In questo senso si può
veramente dire che l'arte del contrappunto praticata dai grandi polifonisti fiamminghi del
Quattrocento e del Cinquecento costituisca la vera e propria spina dorsale della musica europea.

Paragrafo III: La musica strumentale italiana

Le vicende della musica strumentale italiana nel corso del Seicento sono caratterizzate da
convenzioni in fase di sperimentazione e di assestamento. La stessa terminologia si fa precaria e le
definizioni di sonata e di concerto gradualmente si diffondono.
Il più evidente tratto caratteristico che distingue il concerto grosso dagli altri generi musicali è
costituito dalla contrapposizione fra due gruppi di strumenti: un gruppo più nutrito e un gruppo più
ridotto. Anche le sonorità diventano più costanti: nelle convenzioni del concerto grosso prevalgono
nettamente gli strumenti ad arco. Il predominio degli archi si era già stabilmente imposto anche in
un altro genere musicale: quello delle sinfonie che si usavano come brevi brani introduttivi allo
spettacolo d'opera. Ma il genere musicale di gran lunga più importante per la genesi del concerto
grosso fu quello della sonata.
Da questo insieme di stimoli emergono a poco a poco nuove concezioni formali. Il personaggio che
più di tutti acquisì fama di codificatore di forme e stili è senza dubbio Arcangelo Corelli, che non si
dedicò forse mai ai generi della musica vocale. Attivissimo come compositore e violinista, fu
prudentissimo nel pubblicare le sue opere. Il risultato di questa scrupolosa cura fu l'uscita di sei
raccolte, ciascuna contenente 12 brani: le prime quattro contengono sonate a tre strumenti, da chiesa
e da camera. L'opera V contiene sonate per violino e basso continuo e l'opera VI contiene 12
concerti grossi. Possiamo ritenere che i generi musicali praticati da Corelli rappresentino bene le
linee di tendenza diffuse nella sua epoca. Lo stile corelliano è il risultato di un'ormai secolare
elaborazione di tre grandi modelli di organizzazione sonora: quello della polifonia vocale, quello
della musica per danza e quello del canto solistico.
Anche la musica strumentale era impregnata di moduli melodici di derivazione vocale:
progressioni, sincopi, dissonanze, pause e ampi salti. Le forme del concerto e della sonata sembrano
sintetizzare simbolicamente i valori e le ideologie del mondo aristocratico a cui si rivolgeva.
Un tratto particolarmente caratteristico dello stile di sonata e di concerto è costituito dalla semplice
e razionalizzata distinzione dei piani tonali, organizzati per lo più sul bilanciamento fra la tonalità
d'impianto e la tonalità della dominante. Nelle composizioni in minore l'alternanza avviene più
spesso fra la tonalità minore e la sua relativa maggiore.
Dalla base di strutturazioni ormai salde si diramarono ben presto altre convenzioni formali.
Antonio Vivaldi nel 1704 fu assunto come maestro di violino all'Ospedale della Pietà e per molta
parte della sua vita egli prestò la sua opera in questo istituto. I concerti di Vivaldi presentano
rilevanti aspetti di novità: accenti, colpi d'arco, ribattute e tremoli, effetti di densità o di rarefazione
sonora, uso di una gamma di sfumature dinamiche assai più ricca di quella tradizionale. Altrettanta
inventiva nelle caratteristiche ritmiche e melodiche: egli valica i limiti della velocità media del
concerto, utilizzando tempi più veloci o più lenti di quelli in uso, così la sua musica può diventare
capace di quelle sfumature affettive che non erano ancora tali nella più austera sede del concerto.
Tali innovazioni sonore vengono inserite in uno schema formale ulteriormente semplificato; il
concerto assume definitivamente la struttura in tre tempi: allegro, adagio, allegro.

Paragrafo IV: La musica francese nell'epoca dell'assolutismo

A partire dal secolo XVII cominciano gradualmente ad emergere i primi sintomi di quella che
sarebbe diventata una vera e propria coscienza nazionale.
Nel caso della Francia questo processo si svolge nel corso del Seicento, durante il regno di Luigi
XIII e di Luigi XIV, e ciò ebbe ripercussioni importanti sulla formazione del gusto musicale
nazionale. Alle origini del gusto francese stanno due tradizioni: quella delle musiche per danza e
quella della chanson polifonica vocale. Nella seconda metà del secolo XVI si diffonde la moda di
grandiose feste di palazzo. Il ballet del court che ne deriva è un'azione basata su una trama per lo
più mitologica e su danza collettive. D'altro canto la tradizione della chanson polifonica tende a
poco a poco a confluire in un nuovo genere in cui l'intreccio polifonico veniva affidato ad uno
strumento, mentre il superius della canzone veniva eseguito da una voce solista. Agli inizi del regno
di Luigi XIV si colloca l'esecuzione dell'Orfeo di Luigi Rossi, favorito dalla presenza
dell'onnipotente cardinale Mazzarino.
Questo è il quadro generale della situazione alla quale si affaccia il quegli anni un ragazzo
fiorentino, Giovanni Battista Lulli. Il giovane riuscì ad entrare ben presto nella corte di Luigi XIV
come compositore della musica strumentale del re e per quasi vent'anni si dedicò alla composizione
di musiche creando il genere della comédie-ballet. Dal re ottenne, successivamente, un privilegio
che proibiva per legge a chiunque altro di cantare o far cantare musiche senza il suo permesso. Forte
di questo monopolio, Lully (naturalizzatosi francese) dedicò gli ultimi sedici anni dela sua vita alla
tragédie-lirique. Compose appunto sedici tragédies che costituirono per un secolo il modello
classico del teatro musicale francese. Ispirandosi al recitativo italiano, inventa, con uno
straordinario colpo di genio, un declamato che stilizza i tratti caratteristici della dizione francese in
uso sulle scene della tragedia. Caso unico nelle vicende musicali dell'epoca, le opere di Lully
rimasero in repertorio per tutto il secolo successivo.
I più illustri continuatori della tradizione francese del Seicento vengono di solito indicati in
François Couperin e in Jean-Philippe Rameau.
Siccome dalla seconda metà del Seicento il liuto venne a poco a poco soppiantato dal clavicembalo,
Couperin scrisse per questo strumento ventisette suites, riunendole in quattro libri. In questi brani,
spesso ricchi di prestiti dalla chanson popolare, Couperin porta a livelli di estrema raffinatezza sia
l'arte del ritratto psicologico e della descrizione per cenni e per allusioni, sia l'elaborazione sottile di
una quantità di abbellimenti.
La fama di Rameau fu dovuta soprattutto a due diversi aspetti della sua produzione: alla sua opera
di teorico e alle sue composizioni teatrali.

Paragrafo V: La musica in Germania dall'epoca di Heinrich Schutz all'epoca di Johann


Sebastian Bach

La Germania era divisa in più di trecento situazioni politiche, fra stati e città. A questa separazione
politica corrispondeva una profonda separazione culturale: le guerre di religione avevano tracciato
un solco fra i paesi del nord e le zone meridionali e le principali occasioni di lavoro per il musicista
avevano sede nelle cori e in alcune grandi chiese cittadine dove operavano di norma il Kantor e
l'organista.
La musica tedesca di quest'epoca, al contrario di quella francese, si sviluppa dunque sulla base di
modelli stilistici diversi: così si parla ad esempio di uno stile nord-tedesco legato alla conservazione
del corale luterano e di uno stile delle zone meridionali molto più sensibile alle innovazioni
importate dall'Italia.
Forse proprio a causa di queste carenze sul piano dell'autoidentificazione nazionale, i musicisti
tedeschi erano assai più aperti di tutti gli altri musicisti europei. Non a caso negli ultimi decenni del
Seicento essi teorizzarono l'esistenza di tre stili: quello italiano, quello francese e quello tedesco,
che si fondava sulla solidità della tecnica contrappuntistica e armonica.
Esattamente cent'anni prima di Bach, nel 1585, nasceva Heinrich Schutz. Almeno tre componenti
stilistiche caratterizzano le sue composizioni: la fedeltà alla tradizione della polifonia
cinquecentesca, il gusto per la declamazione espressiva all'italiana e l'attenzione per le innumerevoli
forme di elaborazione polifonica del corale luterano. Ma la qualità più singolare di Schutz è
costituita dalla sua straordinaria abilità nel fonderle in una superba, unitaria sintesi stilistica. Il
settore in cui la fantasia di Schutz ha campo di dispiegarsi nei suoi modi più originali è quello dello
stile concertato. Le opere di Schutz sono esempi di straordinaria fantasia inventiva, ma gli
orientamenti stilistici che in esse si manifestano riflettono tendenze ampiamente diffuse nella
Germania dell'epoca.
A un analogo processo di trasformazione sono soggette le musiche strumentali, in particolare le
composizioni per organo che in Germania costituiscono il genere di gran lunga più diffuso e
praticato. Il ricercare e la canzone sono forme ancora in uso in tutto il corso del secolo con
un'accentuata tendenza a confluire gradualmente in quello schema formale che poi verrà codificato
sotto il nome di fuga.
La musica per clavicembalo non si differenziò inizialmente in maniera sostanziale da quella per
organo. Alcuni tipi di composizione sono chiaramente destinati all'esecuzione liturgica, ma altri
conservano ancora caratteri di ambivalenza. Non ambivalenti sono invece le musiche di danza,
chiaramente ispirate alle suites francesi. Qualche anno più tardi le composizioni per clavicembalo
trovarono altri tipi di arricchimento in trascrizioni di composizioni orchestrali di recente diffusione,
come la sonata a 3 di origine italiana o l'ouverture alla francese.
Per quanto riguarda la musica vocale profana, ebbe fortuna, in tutto il corso del secolo e in ogni
zona della Germania, il genere del lied con basso continuo, perlomeno fino a quando il gusto per la
vocalità operistica all'italiana non cominciò a prevalere, agli inizi del Settecento, insieme con la
diffusione dello spettacolo d'opera, ma solo nel secolo successivo.
Paragrafo VI: Johann Sebastian Bach

Le tendenze stilistiche in atto nei paesi di lingua tedesca nella seconda metà del Seicento
costituiscono la base e la premessa della produzione musicale di Bach che dimostrò una certa
curiosità per ogni tipo di tradizione musicale. È un'eredità tipica della società di quegli anni la teoria
dei tre stili che era diffusa e operante già prima di Bach, ed egli la assume in proprio e la applica
con dignità sistematica. Ma la capacità di sintesi e di assimilazione che il musicista dimostrò in tutta
la sua carriera aveva radici significative nella sua stessa concezione di musica, che si trattava di una
sua concezione personale che aveva antecedenti nell'ambiente culturale. Da un lato infatti la musica
è dono di Dio, e non solo la musica scritta appositamente per il culto, bensì anche la musica del
mondo. In secondo luogo la musica è una dottrina, cioè un sapere immutabile del quale il musica ha
il dovere di impadronirsi.
Della sapienza compositiva facevano parte a buon diritto non solo gli strumenti tecnici ma anche gli
strumenti espressivi codificati dalla teoria degli affetti. Inseguendo dunque il supremo ideale di una
musica concepita come scienza, Bach si allontanava gradualmente dalle tendenze che nella prima
metà del secolo XVIII si venivano diffondendo in tutta Europa. Ciò spiega l'isolamento in cui egli
incominciò a poco a poco a trovarsi, e infine l'oblio in cui le sue opere caddero per più di
cinquant'anni.
Bach nacque da una famiglia che diede al suo paese una quantità incredibile di musicisti: se ne
contano circa 90 dalla seconda metà del Cinquecento fino alla prima metà del nostro secolo. Fino al
1708 ebbe incarichi di organista ad Arnstad e a Muhlhausen e arricchì il suo patrimonio di
conoscenze musicali copiando libri musicali italiani, francesi e tedeschi. A questo periodo risalgono
fughe, preludi, toccate, fra cui il Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo. All'età di
23 anni era considerato abbastanza maturo per essere assunto come organista in una corte di rilievo
come quella di Weimar e proprio nei primi anni di quel soggiorno Bach viene a contatto con i
concerti di Vivaldi che allora cominciavano a diffondersi per l'Europa e che egli trascrisse per
organo. La nomina a direttore dell'orchestra di corte implicò anche l'ordine di comporre
regolarmente cantate per il servizio liturgico. Da Weimar Bach si allontanò nel 1717 per assumere
l'incarico di maestro di cappella presso la corte di Kothen, dove sposò la sua seconda moglie Anna
Magdalena che era cantante presso quella corte. Qui nacquero buona parte delle sue composizioni
da camera ed il gruppo più noto di composizioni di quel periodo è costituito dai 6 Concerti
brandeburghesi. In essi, dunque, Bach usa la parola concerto e usa il principio del concerto, ma
tratta questo principio con la consueta irresistibile inventiva. Così in alcuni casi il gruppo dei soli è
arricchito da una timbrica fastosamente policroma basata su un uso degli strumenti a fiato di gusto e
consuetudine tedesca, mentre altrove l'orchestra è divisa in tre o più gruppi contrapposti che
richiamano l'antica prassi policorale. In ogni caso le combinazioni e gli intrecci sono assai più ricchi
che non nella tradizione del concerto all'italiana.
La raccolta di gran lunga più ambiziosa e importante è quella intitolata Wohltemperierte clavier (il
clavicembalo ben temperato, 1722) che è concepita come una dimostrazione scientifica della
possibilità di comporre nelle diverse 24 tonalità, una volta che la tastiera venga accordata col
sistema temperato basato sulla divisione dell'ottava in 12 semitoni uguali.
La validità del sistema era stata teoricamente studiata dal fisico Werkmeister nella seconda metà del
Seicento, ma la raccolta di Bach è la prima che possieda un carattere compiutamente sistematico.
Dal 1723 fino alla morte, Bach visse a Lipsia in qualità di kantor della chiesa di san Tommaso, con
compiti di insegnante. Inoltre gli spettava per tradizione la dignità di director musices, impegnato a
sorvegliare le attività musicali nelle principali chiese della città oltre che alle esecuzioni di musiche
durante le celebrazioni civili. In pratica la maggior parte del tempo Bach la doveva dedicare
all'istruzione dei ragazzi del coro e all'esecuzione delle cantate, che erano di rito ogni domenica
durante la celebrazione liturgica.
Una cantata bachiana in genere comprende un brano iniziale e quasi sempre un grandioso coro
polifonico, la cui unità generale è offerta assai spesso dalla ripetitività costante degli spunti tematici
dell'orchestra. Il testo del coro è di norma tratto dalla bibbia. Arie, duetti e terzetti sono invece
composti su testi poetici liberi, anche se obbligatoriamente attinenti alla festa celebrata. La chiusa
era di solito affidata al canto di una corale a quattro voci. In ogni caso Bach commenta
musicalmente i tesi verbali con un sottile e sempre attento ricorso alle figure della teoria degli
affetti.
Da tutt'altra tradizione derivano invece le passioni. Bach trattò la passione, che mette in musica
direttamente il testo del vangelo, interpolandolo con commenti basati su cori luterani o su arie e cori
con testo libero, componendo quella Secondo san Matteo e quella Secondo san Giovanni, che sono
le superstiti passioni bachiane fra quelle che ha scritto, e che rappresentano il culmine dell'arte sacra
di Bach. Nella Passione secondo san Matteo, il carattere spettacolare è accresciuto dagli effetti
spaziali del suono derivati dall'impiego di due orchestre e di due cori.
Fra i riti sacri protestanti in uso a Lipsia c'era anche quello della messa su testo in latino, che era
stata conservata dalla tradizione luterana. L'ordinarium della messa comprendeva di norma solo tre
brani: il kirie, il gloria, più una parte del sanctus. Ma pare che le messe che ci sono pervenute di
Bach non siano state composte per le chiese di Lipsia.
Al di là delle funzioni, spesso ingrate, di kantor, Bach ebbe tempo di coltivare a Lipsia altri interessi
e si assumere altri impegni: parliamo soprattutto della sua direzione del collegium musicum. Per le
esecuzioni del collegium, Bach compose cantate profane da eseguire in occasione di feste e
cerimonie, musiche da camera e musiche da orchestra, quasi tutte parodie da opere precedenti
proprie o di altri autori.
L'ultimo grande ciclo delle composizioni pensate a scopo didattico si apre con i primi due volumi
della raccolta intitolata Klavier ubung. Il primo contiene sei suites o partite e il secondo il Concerto
italiano e l'Ouverture alla maniera francese. Ma la raccolta più singolare è costituita dal III volume
della stessa collezione che contiene una ventina di corali per organo che rappresentano una sorta di
summa del sapere bachiano, tutti frutto della consueta straordinaria inventiva dell'autore.
Il secondo volume del Clavicembalo ber temperato e le Variazioni Goldberg completano il quadro
della produzione matura di Bach.

Paragrafo VII: La carriera internazionale di Georg Friederich Handel

I due tratti salienti della carriera compositiva di Handel, che la differenziano radicalmente da quello
del suo grande connazionale Bach, sono il suo internazionalismo e la spiccata predilezione per
l'opera teatrale. Due tratti che incisero non solo sulle sue scelte esistenziali, ma anche su quelle
creative e stilistiche.
Dopo una prima giovinezza trascorsa nella città natale di Halle dove, con l'Almira, fece il suo
esordio operistico e quello di compositore di musica sacra, con la Passione secondo san Giovanni,
si trasferì in Italia, dall'autunno del 1706 alla primavera del 1710. Il viaggio in Italia fu
un'esperienza determinante, perché cimentandosi con i principali generi musicali sacri e profani, il
compositore incideva in essi la firma della sua prepotente personalità creativa, rivelando una grande
capacità di infondere vigore drammatico a tutto ciò a cui si applicava. La teatralità del gesto italiano
rappresentò per Handel un potentissimo stimolo creativo che egli si portò dietro tutta la vita,
nonostante le successive tappe della sua carriera lo vedessero fuori dall'Italia, in Germania e
finalmente, e definitivamente, a Londra, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni.
È molto facile comprendere perché fosse particolarmente attratto dall'ambiente londinese. All'inizio
del Settecento, a Londra, si stavano decidendo le sorti del teatro dell'opera. La musica teatrale non
aveva conosciuto qui il genere specifico del teatro d'opera all'italiana, ma proprio in quel periodo
intricate trame economiche attorno ai due più importanti teatri londinesi stavano determinando il
sopravvento di questo nuovo genere sul dramma inglese ispirato al masque, e sui fallimentari
esperimenti compiuti per creare un'alternativa operistica indigena al teatro d'opera italiano. Quando
Handel esordì con il Rinaldo, riportando un clamoroso successo, consolidò ad un tempo la
supremazia dell'opera seria italiana e pose le basi di quella propria personale di operista sulle scene
londinesi, che durò un trentennio.
In superficie le opere di Handel non si diversificano dagli standard dell'epoca; la loro articolazione è
determinata dalla concatenazione tra recitativi ed arie. In più ebbe diversi tipi di cast di cui poté
disporre nel corso delle varie imprese in cui egli fu impegnato e un conto era scrivere per un cast
vocale composto da cantanti di grido, un conto era invece scrivere per un cast in cui la presenza di
una stella di prima grandezza della danza, come Maria Sallé, e la possibilità di disporre di un
piccolo coro, lo stimolava a tener conto dell'esempio dell'opera francese in misura ben maggiore
rispetto al passato. L'eccellenza di Handel operista bisogna dunque coglierla in profondità: anzitutto
nella sua capacità di variare continuamente una formula in sé statica come l'aria col da capo,
rendendola interprete di espressioni, tanto più quando comunicano emozioni; ma anche nel talento
drammaturgico e infine nella realizzazione di organismi drammatici dinamici e più complessi.
Il grande amore di Handel per il melodramma lo portò a dedicarvicisi anche quando la situazione
politica e culturale stava radicalmente mutando. Verso la fine del terzo decennio, il clamoroso
successo della Beggar's opera affermava le ragioni di un teatro musicale schiettamente inglese, a
fronte di un prodotto d'importazione qual'era l'opera seria italiana.
Ma solamente nel 1741 egli depose le armi nel teatro d'opera e da allora in poi non scrisse altro che
oratori. Sebbene Handel si fosse dedicato alla composizione di un paio di oratori in Italia, quando si
riaccostò al genere, in Inghilterra, lo riplasmò integralmente. Come nella tragedia greca, il coro,
oltre ad interpretare il ruolo collettivo delle masse, riflette il senso drammatico della vicenda con
una grandissima varietà di esiti espressivi. Handel nei suoi oratori inglesi realizza un tipo di
drammaturgia musicale molto più dinamica, valorizzando drammaticamente forme come il
recitativo accompagnato, l'arioso e l'aria in fogge meno statiche di quelle col da capo. Il soggetto
della maggior parte degli oratori handeliani è tratto dall'antico testamento ma, dietro all'evidenza, il
pubblico dell'epoca non tardava a cogliere contenuti metaforici di natura ideologica e politica,
primo fra tutti l'esaltazione del popolo inglese.
Anche nell'ambito più propriamente concertistico Handel operò scelte molto personali in una serie
di concerti per organo, concepiti per lo più come intermezzi strumentali degli oratori, e applicandosi
al concerto grosso di impianto corelliano. Ancora una volta l'Italia fungeva da potente stimolo
creativo e ancora una volta Handel rivitalizzava un genere musicale con la propria genialità,
parodiando, oltreché musica propria, temi e spunti tratti da altri compositori, quali Scarlatti e
Muffat.
Capitolo VII: La musica dall'Illuminismo al Romanticismo

Paragrafo I: Cultura, musica e società nel Settecento

Il secolo XVIII è un'epoca di grandi trasformazioni sociali e culturali. Nel 1789 scoppia la
rivoluzione francese e questi anni segnano il passaggio dalle ultime sopravvivenze dell'età feudale
alle prime manifestazioni organiche del mondo moderno.
Un processo storico di queste proporzioni non può certo riassumersi nel conflitto per l'acquisizione
del potere politico perché questa ne è solo la manifestazione emergente. Condizioni anzitutto
economiche, ma anche condizioni più connesse con i modi di ragionare, di interpretare il mondo, di
riflettere su sé stessi, sono alla base dei grandi cambiamenti.
I maggiori divulgatori delle trasformazioni di coscienza del Settecento furono i philosophes
francesi. La filosofia dei lumi ebbe in quei pensatori, da Voltaire a Diderot, il suo nerbo più
consistente. L'affermazione della razionalità, l'individuazione del valore del sentimento che non si
spiega con le categorie della ragione, si ritrova in modo esemplare nella musica. Tali elementi,
infatti, sono presenti proprio all'interno dello stesso linguaggio musicale: l'armonia e la melodia; la
prima apportatrice di razionalità, la seconda di emozioni e sentimenti. La medesima dicotomia si
ritrova nei dibattiti riguardanti il melodramma e la musica strumentale: la poesie, la parola, la trama
rappresentano in qualche modo la garanzia di un elemento chiaramente identificabile; l'elemento
musicale, invece, rappresenta il trionfo dell'irrazionale. Questi giudizi o pregiudizi non impedirono
alla musica strumentale e al melodramma di diffondersi in tutta l'Europa illuministica come il
divertimento e lo spettacolo più amato e più popolare del Settecento.
La centralità della Francia non va certo assolutizzata. Alla elaborazione della coscienza
illuministica contribuì, in misura più o meno rilevante, anche quella di Paesi, come l'Italia o la
Germania, in qui l'effettiva trasformazione si verificherà solo nel secolo successivo. Anzi proprio la
Germania, intorno agli anni Settanta, assume un ruolo non secondario di sollecitazione e di stimolo
quando da ambienti letterari e anche studenteschi nasce la violenta ribellione ideologica del
movimento Sturm und Drang (tempesta e impeto), che accentua non solo i contenuti antitirannici
del pensiero illuministico ma anche i suoi aspetti irrazionalistici, che spesso si ammantano di umori
cupi e di componenti misticheggianti. È anche da queste matrici che nascerà, qualche anno dopo, il
movimento letterario romantico. E non è neppure da assolutizzare la centralità della classe
borghese. La stessa intellettualità nobiliare fu conquistata e convinta dal nuovo pensiero
settecentesco.
Il genere musicale largamente dominante è certamente quello del melodramma italiano, d'opera
seria o comica, che era anche un curioso fenomeno di costume oltre che un importante fatto di
cultura. Una differenza si poteva riscontrare tra il teatro pubblico e quello privato di corte: il primo
era un'impresa economica, il secondo, invece, era sovvenzionato da aristocratici. A questa
differenza corrispondevano anche delle differenze nello stile delle rappresentazioni e nello stesso
tipo di repertorio. Il teatro pubblico doveva tenere dietro alla moda, ma era al tempo stesso più
pronto a sperimentare nuove proposte. Il teatro di corte tendeva a portare in scena un repertorio più
tradizionale; il livello degli spettacoli era tuttavia decisamente superiore perché non era costretto da
problemi economici di gestione. In questi ultimi, i costi erano decisamente più alti degli incassi per
cui gli impresari s'ingegnavano come potevano per cercare di coprire i frequenti deficit. Il peso
finanziario maggiore era costituito dai cantanti, perciò i direttori di teatro premevano su musicisti e
librettisti affinché diminuissero il numero dei personaggi. La voce da soprano era la preferita e ciò
favorì l'abitudine a far interpretare anche le parti maschili da soprani e soprattutto dai castrati, che
divennero, nel Settecento, i prediletti del pubblico.
L'esistenza di bambini evirati prima della pubertà risale ancora al Cinquecento, tuttavia fu nel
Settecento che il fenomeno dei castrati assunse un'importanza determinante nell'opera: essi
divennero spesso grandi divi ammiratissimi dal pubblico, offrendo un contributo fondamentale alla
creazione di quel particolare fenomeno che fu il belcantismo.
L'indisciplina proverbiale del pubblico italiano che assisteva agli spettacoli si spiegava in base alla
struttura dell'opera e al tipo di fruizione da essa introdotta. Non c'è quindi da stupirsi che ai lunghi,
spesso sciatti recitativi, il pubblico fosse distratto. E non c'è neppure da stupirsi che molti letterati
costellino la storia del melodramma di scritti polemici. Resta comunque il fatto che il melodramma
italiano riuscì a incantare e a entusiasmare tutta l'Europa.
La musica strumentale, più agile e meno costosa, non ebbe occasioni e luoghi d'ascolto
predeterminati, ma circolava in forme più mobili. La vera novità per la musica strumentale del
Settecento fu costituita dal sempre e più ampio diffondersi delle sale da concerto. Il musicista non
era stipendiato ma era pagato a prestazione con contratti di mercato e con accesso di un pubblico
vario di intenditori e amatori. Queste sale erano inoltre strutture commerciali che tendono a dar vita
ad un repertorio più specifico, cioè quello che si presta ad un ascolto fine a se stesso e non immerso
in situazioni d'uso.
Verso la fine del Settecento la concorrenza dell'impresariato nei confronti delle tradizionali
occasioni di lavoro presso una cappella nobiliare, era tale che i migliori musicisti preferirono tutti il
rischio del giorno. Si chiude a questo punto una vicenda durata quattro secoli: il mecenatismo
aristocratico aveva ormai esaurito la sua grande funzione storica.

Paragrafo II: Il teatro d'opera in Italia

Nonostante i tentativi di creare una tradizione operistica nazionale, il modello dell'opera italiana già
alla fine del Seicento si era imposto in tutt'Europa e appariva come il più gradito ad ogni ceto
sociale. Se Venezia, Napoli, Milano erano i centri più importanti del melodramma italiano, tutte le
altre città avevano i loro teatri e le loro regolari stagioni. Fuori d'Italia, Vienna era forse la capitale
di maggior prestigio, ma tutta l'Europa pullulava di teatri, che nella maggior parte dei casi
mettevano in scena opere in lingua italiana. Faceva eccezione la sola Parigi.
La cosiddetta opera seria era il melodramma di genere più nobile: le vicende che vi si raccontavano
riguardavano per lo più protagonisti eroici e altolocati, e amori infelici, vittorie e sconfitte ne
costituivano il nucleo essenziale.
La grande varietà di situazioni non deve tuttavia trarre in inganno sulla effettiva varietà dello
spettacolo. Infatti gli intrecci erano nella sostanza standardizzati: l'amore rappresenta la forza
motrice di tutti gli eventi, e il dovere morale era una forza altrettanto importante, mentre il lieto fine
era d'obbligo. D'altra parte la vicenda doveva permettere al musicista di inserire le arie nei punti
strategicamente più adatti, distribuendole in modo accorto fra i vari interpreti e fra i vari tipi di
emozioni che esse dovevano raffigurare.
La tipologia di tali sentimenti era abbastanza fissa e per questo le arie potevano essere trasferite con
pochi ritocchi da un'opera all'altra senza che la coerenza della trama dovesse eccessivamente
soffrirne.
Il racconto della vicenda era affidato invece al recitativo secco o accompagnato. Intorno al 1730 la
grande maggioranza delle arie operistiche italiane erano ormai arie col da capo. La loro struttura era
abbastanza semplice ma non perciò meno efficace: le prime due parti si adattavano a due strofe
poetiche; dopo la seconda parte veniva ripetuta la prima (era appunto questo il da capo) e qui il
cantante si esibiva con infiorettature. Dal da capo dipendeva in buona parte il successo dell'aria.
Gradualmente l'aria si fa musicalmente più complessa: la prima parte si articola in sezioni diverse,
elabora e sviluppa i suoi temi, introduce già qui passi virtuosistici prescritti dal compositore.
A questo punto il da capo si riduce ad alcune sezioni finali, e al tempo stesso il numero delle arie
tende a diminuire.
Per la sua struttura, il melodramma settecentesco era una sorta di meccanismo narrativo astratto in
cui il dramma veniva sostanzialmente sacrificato al fascino irresistibile della musica.
A questa forma il melodramma settecentesco arriva per gradi. Questo movimento di riforma ebbe
uno dei suoi punti di forza iniziali in Apostolo Zeno, il quale lanciò le sue nuove idee che avrebbero
dovuto ridurre gli abusi e ridare una maggiore dignità artistica allo spettacolo operistico. Gli ideali
propugnati da Apostolo Zeno riguardano soprattutto le caratteristiche del libretto: esso doveva
mirare ad una maggiore compattezza nelle vicende della trama.
Da una parte Zeno aveva in mente la dignità della tragedia antica, ma d'altra parte sapeva anche
adattarsi alle esigenze pratiche dello spettacolo, e Il lieto fine doveva includere anche un
insegnamento morale. La riforma proposta da Zeno acquistò una fisionomia più precisa ed ebbe
anche un incidenza maggiore con l'opera del suo successore Pietro Metastasio, indubbiamente il più
grande librettista del Settecento. La carica di poeta cesareo gli permise di lavorare incontrastato
sulla scena europea e di dettare legge a librettisti e musicisti. Le novità si possono ridurre a pochi
elementi ben precisi: riduzione del numero delle arie; diminuzione dei cambiamenti di scena;
maggiore attenzione all'intreccio per arrivare ad un'alternanza regolare di tutti i personaggi, e dei
diversi tipi di arie. Quasi tutti i musicisti del Settecento musicarono i libretti di Metastasio.
La scuola napoletana settecentesca ebbe il suo momento fondante nella seconda metà degli anni
Venti. Al gruppo dei primi napoletani partecipò anche Hasse che era stato istruito e protetto dal
vecchio Scarlatti e nell'ambiente italiano si era perfettamente integrato. Nel frattempo era esplosa,
sempre a Napoli, un nuova moda: quella dell'opera buffa o opera comica. Nel corso del secolo
precedente e nei primi venti anni del Settecento, gli esempi di commedie musicali furono assai rari.
Semmai esistevano personaggi ed episodi buffi a cui venivano riservate scene di intrattenimento nel
più nobile contesto serio. Ma nel 1709 un impresario napoletano presentò uno spettacolo in tre atti e
in dialetto. L'iniziativa trovò evidentemente il gradimento del pubblico. Si trattava comunque di un
genere non ancora considerato degno di palcoscenici di più alto livello. Anche la lingua italiana
entrò gradualmente nell'uso. Contemporaneamente si era affermata anche un'altra consuetudine,
quella dell'intermezzo breve da recitare fra un atto e l'altro di un dramma serio. Nell'opera e
nell'intermezzo buffo personaggi umili e altolocati si trovavano a confronto e non di rado erano i
secondi ad uscire beffati e derisi dalla furbizia dei primi.
Dopo i primi esempi, l'opera comica arriva a Londra, segno che le iniziali diffidenze del mondo
intellettuale cominciavano a venir meno. Anche le trame acquisirono componenti nuove: si
trasferirono, ad esempio, in paesi fantastici o esotici. Ma una tappa importante fu il trasferimento
dell'opera comica in ambiente veneziano, dove la coppia Goldoni – Galuppi seppe dare allo
spettacolo comico una consistenza nuova. Verso gli anni Sessanta il teatro francese stava coltivando
un genere particolarmente fortunato, quello della cosiddetta comédie larmoyante, basata
fondamentalmente sul personaggio della fanciulla innocente ingiustamente perseguitata. Negli
esempi più tardi di opera buffa napoletana gli elementi patetici e sentimentali vengono spesso
ampliati e potenziati. Il destino più singolare, più inatteso e più storicamente rilevante lo ebbe senza
dubbio La serva padrona di Pergolesi. Portata in Francia nel 1752, vent'anni dopo la sua
composizione, ebbe la ventura di scatenare una delle più accese interessanti discussioni che
animavano l'ambiente culturale parigino. La guerra che qualche anno prima aveva opposto i fautori
di Lulli a quelli di Rameau era un conflitto solo in minima parte di tipo generazionale. Quando
scoppiò la querelle des bouffons queste radici vennero alla luce: da una parte si schierarono i
difensori dell'opera tradizionale francese; dall'altra gli intellettuali, coloro che proiettavano
sull'opera italiana le loro ansie di rinnovamento. Nella libertà essi trovavano quella natura di cui
negavano l'esistenza nelle opere costruite su soggetti classici, storici o mitologici. Il richiamo alla
natura si inserisce su una più complessa polemica sul linguaggio.
La musica, infatti, originariamente sarebbe stata un tutt'uno con la parola. Solo con la civiltà l'uomo
avrebbe separato la ragione dal sentimento. La lingua francese, secondo Rousseau, è una lingua
totalmente sorda, priva di ogni musicalità e perciò l'opera francese è falsa e artificiosa. L'italiano,
invece, è una lingua prosodica che ha conservato ancora qualcosa dell'antica musicalità e perciò
l'opera musicale italiana suona tanto più naturale e più vera.
La querelle des bouffons si protrasse per lunghi anni, praticamente sino all'arrivo di Gluck a Parigi
nel 1773. Quando Gluck tentò l'avventura francese era nel pieno di un prestigio internazionale che
si era conquistato in dieci anni di memorabile attività di riforma nella capitale dell'impero.
A vienna l'ambiente musicale era particolarmente vivace. Alcuni personaggi dell'intellettualità
nobiliare avevano fra i loro obiettivi quello di ridare vitalità al teatro dell'opera. Furono chiamate
compagnie di opéra comique francese e Gluck ebbe l'incarico di adattare alcuni aspetti dello
spettacolo al gusto locale, poi di scrivere egli stesso le musiche per alcune di quelle
rappresentazioni. Gluck si guardava bene da identificarsi in toto con questo tipo di melodramma,
anzi continuava regolarmente a prestare la sua opera professionale all'allestimento di drammi
metastasiani. Tuttavia continuò nei suoi esperimenti con la nuova opera Alceste che, quando fu
pubblicata a stampa, egli fee precedere da una prefazione in cui spiegava le ragioni della sua
riforma: un teatro moderno esigeva una musica che fosse a stretto servizio della poesia e
dell'azione. Dunque niente arie col da capo, che interrompevano l'azione e ouverture non più
concepita come generico segnale d'inizio, ma come introduzione all'atmosfera del dramma. Per
Gluck questi principi potevano caratterizzare il dramma musicale in quanto tale. Maria Antonietta
d'Austria, poi moglie di Luigi XVI, si mostrò interessata ad esportare a Parigi l'esperienza
gluckiana. Dopo l'arrivo di Gluck, le scene francesi videro il rapido declino della loro ormai
anacronistica tradizione aulica.

Paragrafo III: La musica strumentale e le origini dello stile classico

Nel campo della musica strumentale le tendenze stilistiche nate nell'ultima fase dell'epoca barocca
continuano a prosperare fin verso la metà del XVIII secolo: basta pensare agli allievi di Corelli
ancora attivi in Europa, ai modelli ancora vitalissimi del concerto di origine vivaldiana, alla
tradizione francese di Couperin e Rameau, per non parlare di Handel e Bach. L'anno della morte di
quest'ultimo, il 1750, può essere simbolicamente preso come una sorta di terminus ad quem. Ma noi
sappiamo che già durante la vita di Bach c'era chi considerava il suo stile ormai sorpassato.
In effetti tra il 1720 e il 1740 cominciano a comparire i primi sintomi di un mutamento di
sensibilità. Per almeno due o tre decenni le tendenze più recenti convivono con quelle della
tradizione, tuttavia l'osservazione di tre importanti fenomeni stilistici può servire da guida per
l'identificazione dei punti forti del mutamento. Il primo si riferisce a una graduale e sempre più
accentuata propensione a semplificare le strutture classiche del contrappunto. In sintesi decade la
pratica del basso continuo. Il secondo importante mutamento stilistico di quest'epoca ha anch'esso a
che fare con la semplificazione del tessuto contrappuntistico. Al posto del motivo, tende a
comparire una frase in sé completa e a volte conclusa da un movimento cadenzale. Dunque alla
tecnica dell'elaborazione motivica tende a sostituirsi quella del raggruppamento di frasi. Il terzo
aspetto di rilevo del mutamento in atto in quegli anni è quello che si riferisce ala identificazione
degli elementi formali e delle loro funzioni. La più importante è la funzione cosiddetta tematica, che
è assunta da quelle frasi che caratterizzano l'affetto del brano o di una parte di esso.
La sonata solistica per strumento a tastiera è una delle forme musicali in cui questi aspetti
cominciano ad emergere con maggiore evidenza. Le più di 500 sonate di Domenico Scarlatti,
grande figlio di un padre illustre, sono forse tra i primi e più singolari esempi di questo
fortunatissimo genere musicale. Nelle sue sonate i raggruppamenti per frasi sono già chiaramente
visibili, anche se spesso irregolari, così come è visibile il venir meno degli schemi di basso continuo
e l'emergere delle funzioni formali: temi, raccordi, conclusioni, sviluppi.
Ma la moda dell'epoca andava in un'altra direzione. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si impone a
livello internazionale il cosiddetto stile galante, che indica genericamente piacevolezza, eleganza
distinzione; in musica i trattatisti settecenteschi lo collegano con l'uso degli abbellimenti, con le
raffinatezze del bel canto, con lo stile teatrale, ma non con lo stile della fuga e tanto meno con
quello della musica sacra. Al contrario delle sonate di Scarlatti, che sono in un movimento solo,
quelle di stile galante comprendono di solito più movimenti. La stesura è in ogni modo
estremamente semplificata: alla parte superiore è assegnata una linea melodica e a quella inferiore
un parte di accompagnamento. La facile scorrevolezza della sonata galante fu spesso oggetto di
critiche soprattutto dall'ambiente tedesco. C. P. E. Bach affermava che lo scopo della musica è
quello di toccare il cuore e commuovere gli affetti. In musica questa corrente si manifesta in quello
che viene chiamato Empfindsamer stil (stile sentimentale) che trova i suoi esempi nelle sonate di C.
P. E. Bach scritte per il clavicembalo e soprattutto per il clavicordo che era il suo strumento
preferito.
Oltre che negli esempi di Bach l'Empfindsamer stil ebbe diffusione nel nord della Germania. Ma al
di là del genere della sonata a solo per strumenti a tastiera, il nuovo stile settecentesco di tendenza
galante si affermò anche nel genere della sinfonia, dove un tratto stilistico importante caratterizza la
nuova maniera: l'attenzione per la sonorità orchestrale.
Intorno al 1730 l'orchestra era fondamentalmente composta da archi più due oboi, due corni e
talvolta due fagotti. A questo gruppo si aggiunsero più avanti anche altri strumenti a fiato e i
timpani. Musicisti come Vinci, Leo, Hasse, Galuppi compongono sinfonie d'opera in uno stile che è
ormai ben diverso rispetto allo stile del concerto.
Anche nel più tradizionale genere del concerto, tuttavia, i sintomi del mutamento iniziano a farsi
sentire. In Inghilterra il genere sinfonico arriva agli inizi degli anni Sessanta soprattutto per la
presenza di J. C. Bach che non solo vi acquistò fama di compositore elegantissimo, ma vi lavorò in
qualità di organizzatore presentandovi stagioni concertistiche di alto livello e di tendenze moderne.
A un livello intermedio fra lo stile alto della sinfonia e lo stile più intimo e riservato della sonata, si
colloca, infine, una vasta area di composizioni per piccoli gruppi strumentali. I generi saranno il
quartetto per archi e la sonata per pianoforte e violino. Il processo di trasformazione formale è
analogo a quello che ha luogo nella sonata per cembalo e nella sinfonia. Qui tuttavia il punto
caratteristico è determinato dal mutamento di funzioni assunto dagli strumenti. Le sonate per
pianoforte accompagnato da uno strumento ad arco scompaiono negli ultimi anni del secolo.
Quelle tendenze che la musicologia ha definito come stile Classico si affermano a poco a poco
verso la fine del Settecento, soprattutto per effetto del fascino esercitato dai grandi esempi di Haydn
e poco più tardi di Mozart.
Alla base della sintesi classica sta la quantità di modelli stilistici e di tradizioni di genere che la
civiltà musicale del Settecento seppe valorizzare: quelle più antiche del concerto, della sinfonia e
del virtuosismo strumentale, quelle più intime dei generi da camera, e soprattutto quelle
straordinariamente ricche della musica teatrale; senza contare il contatto tra tradizioni locali diverse,
ciascuna delle quali aveva elaborato risorse tecniche e strumenti espressivi particolari.
La dizione di stile Classico si applica soprattutto alle musiche strumentali. Si può affermare che la
disinvolta utilizzazione di un'ampia gamma di soluzioni tecniche tratte dai diversi modelli musicali
in circolazione, costituisca il materiale di base dello stile classico.
Un esempio significativo di questo modo di procedere è costituito dal disegno globale di una
composizione classica: in genere il primo movimento è il più ricco di tensioni e contrasti. La letizia
finale arriva con il terzo tempo. Il termine con cui si indica la struttura costruttiva dell'allegro
iniziale di una composizione di stile Classico è quello di forma sonata, che non va confusa con la
sonata. Con quest'ultimo termine si intende infatti una composizione in tre o quattro movimenti per
uno strumento a tastiera.
Il concetto iniziale della forma prevede anzitutto una suddivisione in parti. Nel caso di un brano
composto secondo gli schemi della forma sonata l'indicazione delle parti può diventare però
problematica: esiste sempre all'inizio una sezione che prende il nome di esposizione.
All'esposizione segue una successiva parte per così dire di ritorno. Se ci si attiene a questa
descrizione la forma sonata è divisa dunque in due parti. Tuttavia la parte di ritorno può essere
intesa come formata a sua volta da due sezioni la prima delle quali, detta sviluppo, riprende ed
elabora i temi dell'esposizione, e la seconda, detta ripresa, riannuncia per intero l'esposizione.
Dunque la forma sonata risulta essere tripartita.
L'ambiguità non si risolve in astratto, ma caso per caso: esistono infatti allegri di sonata o di
sinfonia in cui la drammaticità implicita nella forma è messa in particolare evidenza e altri in cui al
compositore non interessava sottolinearla. E qui emerge in tutta la sua importanza il concetto
musicale di tema. Con questo termine si indica di solito un disegno musicale che viene poi ripreso,
elaborato, sviluppato; il tema serve anche come strumento atto a definire fin dall'inizio il carattere o
l'affetto dell'intero brano.
Le stesse funzioni si conservano anche nello stile Classico, ma vengono in parte giocate
diversamente e in parte arricchite di caratteristiche nuove. Da un lato, infatti, il tema classico non è
sempre pura e semplice melodia ma è talvolta un'entità globale, una sorta di personalità sonora che
si impone per le sue caratteristiche inconfondibili, e d'altro lato il tema iniziale non è l'unico nella
composizione ma convive con altri temi con i quali si alterna. Il numero e il carattere dei temi che
compaiono nella forma sonata sono molti. In taluni casi più che di temi singoli si può parlare di
gruppi tematici, in altri casi, invece, la forma sonata gioca esplicitamente sulla caratterizzazione di
due temi contrapposti, uno dei quali ha spesso natura più aggressiva e l'altro più dolce.

Paragrafo IV: Il classicismo viennese: Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart

Per una settantina d'anni, cioè dal periodo della prima maturità di Haydn e della nascita di Mozart,
fino a quello della morte di Beethoven, Vienna è uno dei centri europei più fecondi di attività e
iniziative.
A dire il vero Haydn si stabilì nella capitale solo in tarda età, ma tale era già la sua fama negli
ambienti viennesi che la sua presenza personale non fu che il coronamento di una presenza ideale
ormai stabile e ben fondata. La sua educazione avvenne soprattutto sotto la guida del musicista
napoletano Porpora che lavorava a Vienna. Le composizioni di questo periodo riflettono abbastanza
fedelmente le tendenze di quegli anni nei due settori della musica sacra e della musica strumentale.
In questo quadro entravano i modelli italiani e viennesi. È in questa area stilistica che si collocano le
prime opere di Haydn, memori al tempo stesso dell'illustre tradizione barocca e delle tendenze più
recenti che venivano emergendo in quegli anni.
Nel 1762 Haydn rimase al servizio di Miklos, in Ungheria. I primi vent'anni che Haydn passa al
servizio del magnifico Miklos rappresentano una svolta decisiva per la musica del secolo. Nella
solitudine dei palazzi, Haydn era in realtà al centro della situazione musicale europea e non si
lasciava sfuggire l'importanza delle voci più significative della sua epoca, facendole proprie e
sottomettendole ad una elaborazione e riflessione del tutto originale.
La sessantina di sinfonie che egli compose in questi vent'anni per il servizio principesco,
rappresentano il documento più significativo delle facoltà inventive del compositore. Nascono
allora alcune opere che diventano prontamente famose e la cui circolazione è favorita dagli editori.
Altrettanto avviene nel campo del quartetto. Un altro campo ricco di aperture verso il futuro è
quello delle musiche per strumenti a tastiera: quando il fortepiano comincia ad affermare sia le sue
possibilità tecniche, sia le sue capacità di diffusione commerciale, Haydn è fra i primi a dedicargli
un'attenzione particolare.
A questo periodo appartengono anche opere sacre, alcune delle quali di grosse proporzioni e di
grosse ambizioni. La musica ecclesiastica di quest'epoca non ha uno statuto definitivo e
unanimemente accettato e la tradizione liturgica deve continuamente adattarsi alle regole e agli usi
della prassi musicale profana. Così alla schiera dei severi sostenitori, si contrappone una larga
liberalità nel concedere spazio a un gusto moderno impregnato di vena melodrammatica. In Italia
queste due tendenze contrapposte erano rappresentate dalla scuola bolognese e da quella
napoletana, che aveva ampiamente diffuso un modello più appetibile e più spontaneamente accolto:
il tema sacro veniva suddiviso in parti, ciascuna delle quali veniva musicata come aria. Una messa
di questo tipo viene infatti denominata messa-cantata. Il coro interveniva in forme omoritmiche o
anche in forme fugate. Le messe di Haydn corrispondono appunto a questa fase di trasformazione
che peraltro stava ampiamente diffondendosi nella cattolica Austria.
A una fase per certi versi analoga appartiene anche la produzione operistica haydniana. Quando
infatti al gran Miklos passò la voglia di suonare il baryton (strumento ad arco), una nuova moda
entrò a palazzo: quella delle rappresentazioni melodrammatiche. Fra il 1775 e il 1785 Haydn
dovette dedicarsi a questa grande passione, sia curando la revisione, l'adattamento e la messa in
scena di opere altrui, sia componendone egli stesso.
Verso il 1780 Haydn era uno dei musicisti più famosi d'Europa, quindi cominciano ad arrivargli
lucrose commissioni, come quella della cattedrale di Cadice che gli chiese sette adagi per orchestra.
Nel 1790 si trova finalmente libero di se stesso e si trasferisce a Vienna e a Londra per invito
dell'impresario Salomon, per cui compose le sue ultime dodici sinfonie. Agli anni Novanta
risalgono anche gli ultimi venti quartetti e le ultime quattro sonate per pianoforte. In tutte queste
opere strumentali estreme, la duttilità e la sottigliezza con cui Haydn maneggia gli strumenti della
forma classica permettono al compositore di giocare con le aspettative del pubblico.
Il panorama dei generi e degli stili musicali che Haydn conobbe in Austria intorno al 1750 agli inizi
della sua carriera, non era sostanzialmente diverso da quello che Mozart trovò intorno a sé quando
all'età di sei, sette anni, cominciò ad apprendere il mestiere di compositore sotto la guida del padre.
Da questo punto di vista Haydn e Mozart possono essere considerati come sostanzialmente
contemporanei.
Assai diversi erano invece i loro ritmi di sviluppo e i loro temperamenti. Nello stesso anno della
nascita di Mozart, suo padre Leopold aveva dato alle stampe un trattato di violino. Non gli fu
difficile dunque rendersi conto delle straordinarie doti che il piccolo figlio dimostrava di avere e,
provvide a educarle professionalmente e a sfruttarle economicamente.
Dopo alcune esibizioni a Vienna, l'intera famiglia Mozart partì per un lungo viaggio e toccò le più
importanti città dell'Europa. Niente affatto superficiali furono le esperienze musicali che Mozart
poté fare nel corso di questi viaggi. Al suo ritorno si può dire che egli possedesse per conoscenza
diretta un'idea precisa di tutto ciò che si faceva in Europa nel campo della musica strumentale,
vocale e sacra. Dopo due anni di studio riparte per un'altra lunga visita in Italia per iniziare ora una
vera e propria carriera di compositore, cercando di affermare le doti ormai professionali.
La morte dell'arcivescovo di Salisburgo, che con la sua benevolenza verso la famiglia Mozart aveva
permesso i viaggi negli anni precedenti, cambia la condizione di vita di padre e figlio. Il giovane
Mozart riceve uno stipendio da konzertmeister, ma il nuovo vescovo Colloredo non è come il suo
predecessore, ma di principi estremamente rigidi. E Mozart si ritrovò abbastanza presto a disagio
nell'affrontare le intransigenze del nuovo padrone. Nell'estate del 1773, comunque, padre e figlio si
recano ancora a Vienna e nella capitale Mozart ha la possibilità di prendere conoscenza delle prime
opere della maturità di Haydn.
Si potrebbe affermare che questo incontro porta definitivamente a compimento il suo periodo di
apprendistato. Fra il 1773 e il 1774 compone cinque sinfonie in cui l'uso delle tecniche del
linguaggio classico non lasciano dubbi su una sigla di originalità ormai inconfondibile. Le opere più
significative, quelle in cui il ventenne Mozart lascia un segno profondo, sono i tre concerti per
pianoforte e orchestra composti fra il 1776 e il 1777, e nel 1777 accade il primo incidente serio con
l'arcivescovo Colloredo al quale aveva richiesto una licenza per recarsi in Italia. La licenza non
viene concessa e Mozart, licenziandosi, parte così per un nuovo viaggio europeo che lo conduce
sino a Parigi, per dover infine tornare deluso nella città natale dove Mozart si rassegna ad accettare
dal Colloredo un nuovo incarico di organista.
Gli ultimi anni di Salisburgo sono contraddistinti da un continuo flusso di produzioni musicali.
Questo periodo creativo è coronato dalla composizione dell'Idomeneo del 1781. Nell'opera ciò che
colpisce è la densità del linguaggio.
Nel 1781 l'arcivescovo Colloredo si recò a Vienna con Mozart. Qui nei ritagli di tempo suonava e
faceva sentire le sue composizioni in case nobili. Da parte sua il Colloredo non vedeva di buon
occhio le uscite del suo dipendente. Per contro Mozart era sempre più allettato dall'idea di mettersi
in proprio e il 9 maggio dava la grande notizia. Nel giugno del 1781 mozart era ormai libero da
contratti di dipendenza.
Nella produzione mozartiana degli ultimi dieci anni ci sono segni evidenti del suo cambiamento di
status. Diminuiscono per esempio le produzioni di musica sacra. Per contro si intensifica la
produzione dei concerti per pianoforte o orchestra.
Nei primi quattro o cinque anni del suo nuovo soggiorno viennese, i suoi rapporti con l'aristocrazia
e con l'imprenditoria musicale sono buoni e fruttiferi e nel 1785 entra nella massoneria, a cui
apparteneva gran parte del mondo intellettuale viennese.
Quattro anni dopo furono rappresentate le Nozze di Figaro su un libretto italiano di Da Ponte,
rappresentate a Parigi, ma proibite a Vienna a causa delle allusioni politiche. Per qualche ragione
l'opera fu invece accolta a Praga con convinzione molto maggiore e dalla stessa Praga arrivò
all'autore una commissione. La scelta, sempre in collaborazione con il Da Ponte, cadde questa volta
su Don Giovanni. Anche in questo caso siamo difronte ad alcuni aspetti che derivano dalle
convenzioni dell'opera buffa, ma abbiamo anche a che fare con elementi narrativi non troppo
lontani da quelli a cui è avvezza l'opera seria. Su questi spezzoni della tradizione irrompe un
personaggio della forza di Don Giovanni che non trova posto né da una parte né dall'altra e che
costituisce il vero punto di coagulo di tutta la trama. L'opera si basa infatti sulla narrazione dele
vicende di un protagonista che sconvolge l'esistenza di tutti coloro che gli stanno intorno. Leporello,
il suo servitore, è trascinato, suo malgrado, in questo vortice di avventure. L'opera si apre e si
chiude con due immagini assolutamente improprie per un palcoscenico di quegli anni: l'uccisione
iniziale del commendatore padre di Donn'Anna e la sua comparsa finale in forma di fantasma
giustiziere che trascina all'inferno il proprio assassino.
Negli ultimi cinque anni della sua vita Mozart vide gradualmente declinare gli entusiasmi e le
fortune che avevano accolto la sua iniziale comparsa viennese. Ma Mozart avverte che la sua
rispondenza con l'ambiente gli offre ormai sicurezze minori. Compone però ancora Così fan tutte
per il teatro di corte e Il flauto magico per il popolare teatro viennese. Ancora una volta emerge
l'ambiguità inquietante della fantasia mozartiana, che, nel caso de Il flauto magico, si imporrà negli
anni immediatamente successivi come fonte cospicua di stimoli per l'opera romantica tedesca.

Paragrafo V: Dalla rivoluzione alla restaurazione: Ludwig Van Beethoven

Mentre Haydn e Mozart sono praticamente contemporanei per quel che riguarda il loro stile, lo
stesso non si può dire di Mozart e Beethoven, i quali, nonostante i soli 14 anni di differenza,
compongono in due stili completamente diversi fra loro, anche per il fatto che tutta la giovinezza di
Beethoven si è sviluppata durante la rivoluzione francese. È difficile però dire che la rivoluzione
francese abbia cambiato i gusti musicali dell'epoca: gli stessi inni rivoluzionari erano anzi più simili
alla musica degli anni precedenti, perché i musicisti che li scrivevano erano già operanti in Francia.
Un settore però riuscì a lasciare tracce di sé nella musica successiva, ovvero quello della musica
teatrale. La censura rivoluzionaria non era efficientissima, tant'è che il giorno della decapitazione di
Maria Antonietta venne rappresentata un'opera che ebbe numerose repliche durante il regime
monarchico. Comunque i nuovi temi parlavano di avvenimenti storici o fatti di cronaca significativi,
ma era presente anche una sicura continuità con il passato. Vennero alla luce in questi tempi opere
che esaltavano l'antichità romana o che per lieto fine c'era la liberazione degli eroi dell'opera. La
fortuna di queste opere uscì dai confini della Francia per trasformarsi in un fenomeno europeo e
addirittura mondiale.
Uno dei più attivi fu l'italiano Cherubini che, trasferitosi a Parigi verso la fine degli anni Ottanta,
divenne celebre per la sua Lodoiska, che, tra l'altro, finiva con la liberazione dell'eroina dalle mani
di un tiranno. Nelle sue opere Cherubini crea un modello drammaturgico che avrà lunghe
ripercussioni in Francia e in Europa anche nei primi dell'Ottocento. I capoluoghi musicali dell'epoca
erano indubbiamente Parigi e Vienna, la prima per la musica teatrale, la seconda per la produzione
sinfonica e cameratistica di Beethoven.
Questo è più o meno la Germania del periodo della giovinezza di Beethoven, al quale aggiungiamo
ancora quel movimento che è lo Sturm und Drang che, insieme a pensatori come Kant e a tutte le
attività letterarie e culturali in genere, portarono in Germania una rivoluzione della cultura negli
ultimi anni del secolo. Anche a livello politico le cose non erano diverse: l'imperatore iniziò una
fase di svecchiamento, seguito a ruota dal fratello Max Franz, principe di Bonn.
Proprio a Bonn, nel 1770, nacque Beethoven, da una famiglia di buone tradizioni musicali. Il
giovane ragazzo non ebbe un'infanzia serena: nonostante la precocità nell'apprendimento musicale,
si ritrovò a dover gestire economicamente la propria famiglia (non certo ricchissima) in quanto la
madre morì improvvisamente e il padre era un alcolista. La sua formazione venne seguita dal Neefe,
organista di corte, ma certamente la curiosità e gli stimoli che trovava intorno a sé, in Goethe e
Schiller e soprattutto Kant, aiutarono la sua formazione.
Da un punto di vista strettamente più politico, come gli intellettuali dell'ambiente di Bonn,
Beethoven era a favore della rivoluzione francese, ma non delle sue conseguenze. I suoi ideali
politici erano quelli di una sorta di speranza utopica o di fedeltà ideale nei confronti del regnante
buono che sostituisse il tiranno. Il segno più chiaro del salto generazionale che lo separa da Mozart
e dalla civiltà da cui Mozart proveniva, consiste proprio nella funzione morale che egli affidava alla
sua attività di musicista.
Nei primi vent'anni di vita, Beethoven vive e lavora a Bonn, ma nel 1792, forte di una certa fama e
di protezioni altolocate, si trasferisce a Vienna dove, sotto la guida di Haydn prima e di
Albrechtsberger poi, impara l'arte della composizione. Contemporaneamente si fa conoscere negli
ambienti nobiliari per la sua tecnica incredibile al pianoforte. Rimase a Vienna tutta la vita, anche
perché, nonostante cercasse un lavoro stabile, la sua posizione di libero professionista lo stimolava
a sufficienza, permettendosi di perseguire la sua missione verso l'umanità. Inoltre ebbe entrate sia
come insegnante, che a livello gratuito da parte della nobiltà imperiale. Anche i suoi concerti gli
riservavano cospicue entrate, ma dovette rinunciarvi in quanto stava pian piano diventando sordo.
L'inizio di quest'infermità fu drammatico per Beethoven, il quale non si suicidò solo per amore
dell'umanità. Secondo Wilhelm von Lenz (biografo di Beethoven) si può dividere la vita del
compositore in tre stili: un primo periodo che comprende le opere giovanili ancora legate ai modelli
settecenteschi; un secondo periodo che comprende le opere della maturità; un terzo periodo a cui
appartengono gli ultimi lavori, fra cui la Nona sinfonia e la Missa solemnis.
Per quanto riguarda il primo periodo, lo schema costruttivo è quello della forma sonata, ma le
contrapposizioni tendono ad emergere con maggior chiarezza e a delineare un primo tema
affermativo contro un secondo tema di natura più sognante. Gli ascoltatori e i critici accusarono
queste novità di stranezza e in altri casi le fecero diventare delle vere e proprie mode, come la
sonata per pianoforte in do minore, che venne riarrangiata più volte da altri musicisti.
Il secondo periodo è il momento di più intensa creatività. Nascono qui le sinfonie più famose (dalla
seconda alla sesta), le sonate, i quartetti e l'opera Fidelio. A queste opere è legata la maggior fama
di Beethoven, ma anche il suo più singolare segno di distinzione, ossia la sua capacità di
trasformare il proprio linguaggio musicale fino a condurlo a soluzioni del tutto nuove, soprattutto
perché manifestano fantasie legate alla biografia dell'autore, ma anche per l'ardimento delle
concezioni stilistiche e formali. Per esempio la Quinta sinfonia acquista il suo significato solo se
viene connesso con i dubbi che lo precedono. Tutto questo modifica le convenzioni della forma e le
stesse funzioni della musica strumentale. Verso la fine di questo periodo comincia ad emergere una
crisi nella personalità di Beethoven, con la creazione della Settima e dell'Ottava sinfonia che non
danno segnali chiari sul compositore.
Gli ultimi undici anni di vita cono caratterizzati da una sempre più accentuata solitudine non solo
dovuta alla sordità, ma anche al venir meno delle sue ragioni di entusiasmo giovanile. Non viene
meno, invece, la sua inventiva, testimoniata da opere quali la Nona sinfonia e la Missa solemnis.
Ciò che contraddistingue queste opere della maturità è il sempre più accentuato distacco dalle
convenzioni della forma sonata. Anche il carattere dell'invenzione tematica cambia: ai temi drastici
e fortemente assertivi delle opere precedenti si sostituiscono spesso brevi melodie cantabili,
semplici e ingenue. L'Inno alla gioia, su testo di Schiller, fa capire che Beethoven non ha rinunciato
a mettere in campo il motivo di fondo di tutta la sua esperienza morale.
Capitolo ottavo: La musica del primo Ottocento

Paragrafo I: La musica nell'epoca romantica

L'Illuminismo ha segnato l'inizio del processo dell'inserimento della musica fra le arti e nel mondo
della cultura. Tuttavia solo alla fine del Settecento la musica acquistò un posto di assoluta
preminenza fra le arti, ma è singolare che i primi a considerare la musica come arte privilegiata
siano stati i letterati e i poeti. Perciò le prime testimonianze di questa nuova sensibilità romantica
per la musica vanno cercate innanzitutto in scritti letterari, a cavallo fra la letteratura e la filosofia; i
musicisti ci danno tuttavia una testimonianza indiretta con la loro stessa vita e con il nuovo
significato che essi conferiscono alle loro opere.
È sintomatico come solo nel Romanticismo sia lo stesso poeta a porre la musica spesso al centro
della sua attenzione ed a considerarla come il punto di convergenza di tutte le arti.
L'indeterminatezza che spesso era stata, dagli illuministi, rimproverata come difetto e
manchevolezza alla musica strumentale, per i romantici è tale solo dal punto di vista del linguaggio
verbale; ma il linguaggio della musica appartiene ad un altro ordine perché in esso si cela
l'espressione più autentica e originaria dell'uomo.
I brevi scritti sulla musica del giovane Wackenroder rappresentano uno dei punti di riferimento più
importanti per lo sviluppo del pensiero romantico. La musica secondo Wackenroder è l'arte per
eccellenza, superiore a tutte le altre per capacità espressiva. Il sentimento in questo contesto
rappresenta l'organo di accesso privilegiato ai segreti più intimi del mondo. Il carattere in qualche
modo religioso della musica è riconosciuto da buona parte del pensiero romantico. Hoffmann,
critico musicale e musicista, definiva la musica come la più romantica di tutte le arti; con ciò dava
al Romanticismo stesso una definizione che andava ben oltre il dato storico, infatti per Hoffmann
tutta la grande musica, anche quella delle epoche passate, era romantica, perché essa ha per oggetto
l'infinito.
È singolare come accanto agli scritti pieno di mistico entusiasmo di un Hoffmann, troviamo i primi
studi specialistici e storici nel senso moderno del termine. Infatti una moderna storiografia risale
proprio agli inizi dell'Ottocento, e si doveva arrivare al Romanticismo, con il suo nuovo interesse
per il passato più o meno remoto, sepolto nei manoscritti e negli archivi, perché nascesse il
desiderio di riascoltare, di giudicare, di riscoprire il patrimonio musicale dimenticato. Si scrivono
all'inizio dell'Ottocento le prime biografie dei grandi del passato appena riscoperti: Forkel scrive la
prima biografia di Bach, Jahn la prima monografia di Mozart. Ma ciò che importa è sottolineare la
novità di questi studi le cui premesse si devono cercare proprio nel nuovo senso dell'individualità
dell'opera del musicista, e del rispetto storico che lo studioso deve tributare a personalità ed opere,
in quanto espressione e testimonianza della genialità dell'artista.
Così come nella pittura nasce il gusto per i paesaggi orridi, così in musica, soprattutto nel primo
Romanticismo, nasce il gusto per l'irregolarità delle forme e per ciò che non è soggetto ad alcuna
costrizione formale. Queste trasformazioni sono frutto di un profondo processo di trasformazione
del mondo che modifica anche la vita interiore dell'uomo. Alla base di tale processo sta il graduale
passaggio del potere economico dalle mani dell'aristocrazia terriera alle mani di quelle della classe
media. È questa la cosiddetta rivoluzione industriale che, traendo profitto dalle scoperte scientifiche
che si sviluppano a partire dal secolo XVII, le applica alla produzione di beni. A conclusione di
questa fase la borghesia si sarà impadronita anche del potere politico. A questo punto il mondo avrà
cambiato volto: da un assetto feudale sarà passato all'organizzazione moderna che ancor oggi ben
conosciamo.
Anche la gestione della cultura passa dalle mani del ceto aristocratico a quelle del ceto
imprenditoriale e borghese. In questo passaggio di mano le attività artistiche si trasformano
profondamente; i loro contenuti ora rispondono a sistemi di valore tipici della nuova classe.
Diventa assai fiorente negli ambienti della borghesia benestante la pratica amatoriale del far musica
in casa. A partire dagli inizi dell'Ottocento la hausmusik che si svolge nei salotti della nuova società,
diventa una sorta di status symbol in tutta Europa. Ma la pratica amatoriale e domestica si crea a
poco a poco un suo gusto musicale e addirittura un vero e proprio genere compositivo: quello che
viene definito salonmusik (in Italia, romanza da salotto).
A questo punto la differenza fra la musica di maggiori ambizioni estetiche e la salonmusik non è
tanto e non solo di carattere tecnico, ma è soprattutto di natura culturale. Il suo scopo non è quello
di elaborare nuovi percorsi culturali o di mettere in crisi le certezze acquisite.
Ma la diffusione delle esperienze musicali a livelli sociali diversi segue anche altre strade:
soprattutto nell'Europa del nord si diffusero ampiamente associazioni e gruppi di amatori che
coltivavano la musica cantando in coro. I primi cori erano esclusivamente maschili, poi nacquero
anche quelli femminili o misti. In Germania e in Austria il genere musicale del lied corale ebbe una
letteratura ricchissimi a cui diedero contributi musicali artisti come Schubert, Schumann e Brahms.
Dalla considerazione di tutto questo insieme di fenomeni una conseguenza di fondo emerge
prepotentemente: la tradizione musicale delle classi colte tende a frazionarsi. Nell'Ottocento i limiti
concessi all'originalità personale diventano più estesi. Ciò non accade solo in musica o in campo
artistico: questa molteplicità è un dato strutturale di tutte le attività culturali.
La situazione stessa del musicista si fa problematica. L'immagine di Mozart che preferisce le
avventure del libero professionista ai vincoli di dipendenza, manifesta in modo concreto ciò che i
poeti e i filosofi delle prime cerchie romantiche teorizzavano in termini ideologici: l'opera d'arte
non ha obblighi con nessuno, essa è totalmente nelle mani dell'artista che la crea.
A questa profonda fede nella propria missione di rivelatori, si contrappone, tuttavia, una perdita
netta di sicurezza sociale. Si può dire che il musicista debba ora confrontarsi con un meccanismo
per lui nuovo e imprevisto: il meccanismo del mercato musicale. E questo, lungi dall'assicurargli
assoluta libertà, lo vincola invece a tenere conto di gusti, esigenze, richieste assai più differenziate,
più sfuggenti e spesso anche meno qualificate di quelle della vecchia aristocrazia.
Il pessimismo romantico ha qui le sue radici: il senso della solitudine e dell'inutilità della vita, la
malinconia, lo spleen che emana da molte affascinanti composizioni dell'epoca, è direttamente
connesso con la penosa situazione di frustrazione a cui l'artista è condannato da un contesto sociale
che afferma di seguire ideali di progresso e di riscatto morale, ma che in realtà è semplicemente
tesa alla impietosa ricerca del vantaggio privato.
La natura di questa problematica libertà del musicista ha evidenti ripercussioni anche nel campo
delle convenzioni formali sulle quali si strutturano i vari generi musicali. Egli può confermarli o
modificarli; in altri termini la forma musicale è lo strumento specifico della comunicazione con i
suoi destinatari.
Naturalmente tale dialogo si manifesta in modi diversi a seconda dei contesti. Ad esempio nel caso
della salonmusik era assolutamente necessario rendere subito riconoscibile e godibile il senso della
composizione.
Il campo della produzione cameratistica si prestò immediatamente ad una serie di sperimentazioni
più ardite. Le piccole forme della musica da camera rappresentano in questo senso una sorta di
mondo privilegiato fatto di intuizioni fulminee, di rivelazioni imprevedibili, di insondabili
profondità. Un altro aspetto formale importante del linguaggio ottocentesco è costituito dalla sua
capacità di integrare procedimenti costruttivi nuovi per l'epoca, ma desunti dal ripristino di forme
del passato. Così moduli armonici o contrappuntistici di tradizione barocca acquistano quasi il
valore di simboli di nobiltà antica. Un ulteriore e forse ancor più decisivo aspetto della concezione
formale del XIX secolo tocca in un certo senso il fondo del problema, perché si lega alla revisione
del concetto stesso di forma.
Da qui si sviluppa una nuova concezione estetica che diventa sempre più consapevole nel corso dei
primi decenni del secolo, secondo la quale la forma musicale deve subordinarsi alle intenzioni
espressive e comunicative del musicista e non viceversa: il musicista crea la sua personale forma e
la impone al pubblico.
Questa accentuata personalizzazione della forma crea un capovolgimento di prospettiva storica
rispetto al passato. Laddove nelle epoche precedenti l'individualità del singolo creatore spiccava
sullo sfondo di un linguaggio comune, ora invece condiziona direttamente l'evoluzione del
linguaggio musicale in sempre più rapida trasformazione, creando l'illusione prospettica di un
processo evolutivo rettilineo e progressivo.

Paragrafo II: Le grandi figure del romanticismo in Austria e Germania: Franz Schubert e
Robert Schumann

Le considerazioni fatte nel precedente paragrafo sui rapporti tra musica e Romanticismo, valgono in
modo particolarissimo e precipuo per l'area austrotedesca: poiché il movimento romantico sorse e si
sviluppò dapprima in quell'area è ovvio che la musica vi subì influssi quanto mai profondi ed
immediati. Nei primi tre decenni del secolo fu ancora Vienna a mantenere la preminenza artistica in
campo musicale, derivata soprattutto dalla presenza di Beethoven e di Franz Schubert.
Dopo la morte, Schubert (Vienna 1797 – 1828) divenne una delle figure emblematiche della Vienna
degli anni della restaurazione. Con la vita musicale ufficiale della capitale asburgica, tuttavia i
rapporti di Schubert furono assai problematici. Dopo aver definitivamente abbandonato nel 1818 il
posto di maestro di scuola accanto al padre, egli dipese dall'aiuto e dall'ospitalità di una ristretta
cerchia di amici; d'altra parte non ebbe alcun rapporto con gli ambienti aristocratici che protessero
Beethoven, quindi alcuni dei capolavori di Schubert divennero famosi dopo la sua morte o furono
scoperti postumi.
Di un catalogo vastissimo Schubert diede alle stampe solo un centinaio di opere: notevole
diffusione ebbero i lieder. Da genere sostanzialmente minore, il lied si trasforma in breve
frammento lirico, capace di racchiudere in sé una mobilissima drammaturgia ed illuminazioni
intensissime. La natura stessa del lied schubertiano rende sterile ogni tentativo di classificazione
formale: di volta in volta l'incontro fra un testo poetico e la musica che lo trasfigura, in un certo
senso appropriandosene, avviene in modi diversi. Soluzioni di fresca semplicità e intuizioni di
arditissima originalità formale, si incontrano tra i primi come tra gli ultimi capolavori di Schubert
per canto e pianoforte.
Su testo di Goethe è il primo capolavoro di Schubert, Gretchen am Spinnrade (Margherita
all'arcolaio, 1814), e certamente i famosi versi del Faust esercitarono una suggestione determinante
per la definizione di uno dei princìpi del lied schubertiano: la musica infatti crea una fondamentale
unità di tono, accogliendo e trasfigurando il nucleo poetico della canzone di Margherita.
Nel mondo del lied schubertiano si potrà sottolineare il rilievo che vi assume l'immagine del
viandante. La figura del viandante appare in infinite situazioni diverse, e un viandante è il
protagonista in ognuno dei due cicli di lieder di Schubert, entrambi su testo di Muller, La bella
mugnaia (1823) e Il viaggio d'inverno (1827). Nel primo l'approdo mortale della delusione amorosa
del giovane mugnaio è raggiunto da pagine dove predomina la raffinatissima semplicità di forme
strofiche; nell'altro il desolato vagare in un gelido, ostile paesaggio invernale si lega a scelte
stilistiche più complesse e si conclude su un interrogatorio in un vuoto al di là della disperazione.
Secondo una felice immagine di Adorno la figura del viandante può servire da chiave anche per
comprendere l'originalità del rapporto di Schubert con le grandi forme classiche. Riconoscendo
nella musica di Schubert un carattere di paesaggio, Adorno la paragonava al paesaggio
infinitamente mutevole che si schiude agli occhi del viandante.
Delle forme classiche Schubert conserva soltanto lo schema esteriore, piegandolo a nuovi significati
dove la compiuta bellezza di molte idee melodiche non si presta ad uno sviluppo vero e proprio e
comporta infatti una logica nuova.
Ad una matura e coerente definizione della propria originalissima logica formale Schubert non
giunse, nelle grandi forme, con la stessa rapidità ed immediatezza rivelata nel lied. Ma nella
produzione strumentale di Schubert si può considerare il 1820 come il momento di una svolta, della
conquista della piena maturità, se si riconosce nel Tempo di quartetto in do minore l'inizio di una
fase nuova. Ad essa appartengono tre quartetti e molta musica pianistica.
Dopo la morte di Schubert, grande rilievo avrà la musica per pianoforte a quattro mani, che riscatta
un genere considerato minore, legato ad una dimensione domestica.
Nella produzione sacra spiccano le due grandi messe D.678 e D.950. Per il teatro Schubert compose
musiche di scena per L'arpa magica e Rosamunde.
Robert Schumann fu per qualche tempo diviso tra vocazione musicale e quella di scrittore. Ma in
Schumann non è mai in discussione la vera e propria autonomia della musica, sebbene la sua opera
sia fitta di riferimenti che tuttavia non vogliono essere troppo vincolanti.
A Jean Paul e a Hoffmann la fantasia di Schumann vece più volte ricorso, e al loro mondo si
riconducono personaggi della sua musica o dei suoi scritti critici: per esempio l'invenzione del
Davidsbundler (affiliati alla lega di Davide) con cui condivideva i programmi estetici e la lotta
contro la gretta meschinità e il gusto ottuso dei “Filistei”.
Suggestioni di Hoffmann e Jean Paul sono evidenti nell'idea di Schumann di sdoppiarsi nelle
personalità opposte e complementari di Florestano ed Eusebio, e il loro dualismo è al centro dei
Davidsbundlertanze (danze degli affiliati alla lega di Davide), 18 pezzi caratteristici, firmati di volta
in volta da Eusebio (malinconicamente introverso) o da Florestano (appassionato, pronto ad
espressioni di lacerante dolore o di estroso umorismo), o da entrambi.
In Schumann esiste un'idea centrale per la costruzione dei motivi melodici, chiamata motto, che non
ha a nulla in comune con un tema oggetto di variazioni, ma è uno spunto d'avvio per percorsi
fantastici ogni volta diversi. Qualcosa di simile era avvenuto nel Carneval: in queste “piccole scene
su quattro note”, del 1833-35, un nucleo motivico di quattro note funge da spunto generatore per un
ciclo di 21 brevi pezzi. Hoffmaniana è l'idea di porre sotto il segno del carnevale la fantasmagoria
dei brevi pezzi, fino al loro riunirsi nello slancio della conclusiva Marcia dei Davidsbundler contro
i Filistei.
Il ciclo di pezzi caratteristici di diverse dimensioni predomina nella produzione pianistica cui è
dedicata in modo pressoché esclusivo la prima fase dell'attività di Schumann: nel decennio 1829-39
culmina in lui la ricerca romantica di un'alternativa di vasto respiro alla forma sonata
nell'organizzazione ciclica.
Con l'intenzione di divenire anche pianista, aveva studiato con Wieck ma un incidente alla mano
destra stroncò ogni possibilità di intraprendere la carriera di virtuoso. Diversamente da altri
protagonisti della sua generazione, Schumann non sembra far nascere la geniale originalità della sua
scrittura pianistica da un rapporto diretto con la tastiera: determinante risulta piuttosto la costante
riflessione sul contrappunto bachiano. Nella straordinaria fioritura pianistica, gli studi sinfonici sono
in forma di variazioni su un tema che rielabora l'idea del barone von Fricken e costituiscono uno dei
testi fondamentali nella storia della variazione ottocentesca. Inoltre Schumann si accostò alla
sonata, nella piena consapevolezza della problematica inattualità di questa forma, ma sentendo la
necessità di un impegnativo confronto con la storia. È tipica del pensiero di Schumann la rete di
relazioni interne che caratterizza l'ampio primo tempo con l'intreccio di allusioni, anticipazioni e
rimandi. Polo opposto e complementare all'appassionata inquietudine del primo tempo è l'intensità
lirica del terzo, dove il ricorrere in luce sempre nuova delle due idee principali sembra schiudere
orizzonti di indefinita vastità.
Il matrimonio con Clara segna una svolta nella produzione, così come nella vita di Schumann. Un
grave peggioramento delle condizioni psichiche del compositore lo condusse ad un tentativo di
suicidio e al ricovero nel 1854 in una casa di cura per malattie mentali.
Dopo il matrimonio con Clara, Schumann sembra pianificare la conquista di diversi generi illustri
rivelando una volontà di allargamento di esperienze e prospettive, l'esigenza di approfondire la
propria dottrina compositiva e la riflessione sulla storia. Del 1841 è la prima delle quattro sinfonie,
cui seguì subito quella in Re minore nel 1851 e pubblicata nel 1853. Del 1845-46 è invece la
sinfonia in Do maggiore e il 1846 è l'anno del mirabile Concerto per pianoforte e orchestra. Del
1850 è la sinfonia in Mi bemolle maggiore.

Paragrafo III: La musica strumentale in Francia

In Francia lo spettacolo teatrale, con la sua organizzazione impresariale e con le sue esigenze
commerciali, era in buona parte legato ai limiti culturali di una borghesia imprenditoriale
spregiudicata e spesso cinica. Esistevano tuttavia anche larghe fasce di pubblico che avevano
esigenze di pensiero più profonde e che attribuivano alla musica e all'arte funzioni meno frivole. I
modelli musicali di questa minoranza colta avevano le loro matrici originarie particolarmente in
Beethoven e nella sua capacità di distanziarsi dagli interessi di quelli che Schumann definiva col
nome di “Filistei”.
Nella seconda metà del Settecento, Parigi era stata uno dei centri europei più attivi nella
divulgazione dei nuovi esempi di musica strumentale; le sue numerose sale da concerto avevano
ospitato gli esempi più stimolanti dela produzione sinfonica e cameratistica di Mozart e Haydn.
Pertanto la capitale francese continuava ad essere un centro di attrazione culturale primario in tutta
l'Europa, e molti musicisti illustri vi operarono e vi abitarono in quegli anni. Ad esempio Niccolò
Paganini si esibì a Parigi in diverse occasioni. Nonostante la cultura musicale italiana, la sua figura
appartiene alla cultura europea, alla quale impose con violenza la categoria mitica del virtuosismo
trascendentale. Una categoria che influì non solamente sul piano sociologico, trasformando il
concerto in un rito spettacolare, ma anche su quello più propriamente musicale e linguistico,
aprendo la strada alla sperimentazione di tecniche strumentali ed espressive inedite. La ricerca
musicologica ha riportato alla luce una messe di lavori cameratistici; è tuttavia l'aspetto virtuosistico
che incise sulla coscienza romantica. Prova ne sia l'interesse che diversi grandi compositori –
pianisti rivolsero a quella summa dell'arte paganiniana che sono i 24 Capricci di cui elaborarono
trascrizioni pianistiche sempre all'insegna del più arduo virtuosismo.
All'epoca delle esibizioni parigine di Paganini, all'inizio degli anni Trenta del XIX secolo, la
capitale francese era divenuta il centro del pianismo internazionale. Il pubblico medio, come già per
le grandi ugole dell'Opéra, stimolato da questa moltitudine di virtuosi, seguiva con passione
agonistica le loro esecuzioni, facendo poi confronti e classifiche. E i pianisti, come veri e propri
atleti, si tenevano in costante allenamento con tecniche ed esercizi che sviluppavano una
sbalorditiva agilità. A questi atleti, che mettevano a dura prova la resistenza di corde e tastiere, case
produttrici di pianoforti, fornivano strumenti perfezionati che rendevano possibile la pratica di
tecniche esecutive nuove.
Inoltre, proprio le esibizioni di Paganini avevano rappresentato un ulteriore stimolo all'esercizio del
virtuosismo. Primo fra tutti Liszt, la cui rivelazione del virtuosismo di Paganini mise addosso un
fuoco tale da spronarlo immediatamente al cimento con una Grande fantasia di bravura sulla
campanella, vero e proprio fuoco d'artificio di virtuosismo pianistico. Un virtuosismo che se nella
dimensione più esteriore significa appunto atletismo ed esibizionismo, in quella più schiettamente
musicale significa invece sperimentalismo sonoro. Sicché, se da un lato la carriera pianistica di
Liszt appartiene alla storia del costume in quanto anticipa quel fenomeno così caratteristico dei
nostri tempi che è il coinvolgimento delirante di un pubblico, nell'ambito della storia dell'arte
esecutiva apre un capitolo nuovo, in quanto Liszt riusciva ad infondere alle opere musicali una
carica comunicativa particolare: riusciva a trasformare la musica in autentico linguaggio, che non
sortiva solamente esiti spettacolari ma, con la partecipazione di tutto il corpo all'esecuzione, creava
una straordinaria varietà di tocco. Una varietà che riusciva a trasporre sulla tastiera, per mimesi
timbrica, le sonorità e la volumetria sonora di un'intera orchestra, donde un'intensa attività di
trascrizione di opere sinfoniche del passato prossimo e del presente, di lieder noti e famosi come
quelli di Schubert, la cui esecuzione in concerto svolgeva tra l'altro un'importante funzione di
divulgazione culturale. Il pianoforte di Liszt divenne insomma un prodigioso strumento che poteva
virtualmente riassumere tutta la produzione del presente e del passato.
Non si è parlato qui di Chopin, perché, sebbene fosse un grandissimo pianista, oltreché sommo
compositore, le sue doti esecutive erano di natura totalmente diversa da quelle coltivate dagli atleti
della tastiera. Doti che consistevano in un mirabilmente sciolto e leggero tocco, straordinariamente
sensibile. Chopin si formò a Varsavia, ricevendo una fortissima impronta dal clima della capitale
polacca, da sempre esposta alle mire espansionistiche della Russia. In patria aveva iniziato una
carriera esecutiva e compositiva nell'ambito dei generi pianistici che andavano per la maggiore
all'epoca: due concerti con l'orchestra sullo sfondo, variazioni su temi celebri per pianoforte ed
orchestra, cimentandosi anche nella sonata e nella composizione cameratistica.
Quando fissò la residenza a Parigi, la sua carriera di pianista e compositore subì una svolta brusca e
radicale. Anziché gettarsi nell'affollatissimo agone pianistico, si inserì nel milieu dell'aristocrazia
internazionale, sostentandosi principalmente con le lezioni private. Al riparo dei condizionamenti
del gusto imperante poté così concentrarsi con esclusività e continuità sulla ricerca attorno alla
sonorità ed al linguaggio pianistico e sui generi prediletti: polacche e mazurche, notturni ed
improvvisi, generi appartenenti alla sfera dell'intrattenimento salottiero o della romanza
sentimentale. Generi tutti che il genio chopiniano riplasma con sofisticatissime soluzioni
armoniche: la polacca diventa così un'appassionata trasfigurazione della danza cerimoniale di un
tempo; il notturno, sull'esempio di John Field, inventore del genere, un momento di intima
confessione. L'arte di Chopin è frutto di un sofferto travaglio creativo e quest'ultimo aspetto lo si
può cogliere particolarmente nei generi più complessi come le ballate, le sonate e gli scherzi della
stagione matura, nei quali Chopin si ricollega alle strutture formali tradizionali reinterpretandole in
termini di assoluta originalità.
I due universi pianistici di Liszt e Chopin, così diversi ed antitetici, per vie di comunicazione
anch'esse opposte, tracceranno due profondissimi solchi nella cultura musicale francese non solo
ottocentesca, ma anche novecentesca.
Capitolo IX: L'opera in Francia e in Italia

Paragrafo I: L'opera in Francia nell'Ottocento

Quando Richelieu e poi Luigi XIV avvertirono la necessità di promuovere una cultura di stato,
avevano già posto le premesse strutturali e ideologiche da cui muoverà l'opera francese, quali
vedremo ancora mantenersi in epoca romantica.
Dal punto di vista amministrativo l'attività teatrale si risolve nella riduzione della cultura operistica
a Parigi; l'opera francese dell'Ottocento finirà così per rappresentare l'elemento sociale della
borghesia, dell'industria, del commercio e della finanza, più dell'opera italiana e di quella tedesca,
coeve. L'opéra resta investita da un carattere istituzionale che la fa essere emanazione diretta della
società dominante. Sotto l'aspetto formale si manifesta, fin dall'epoca della tragèdie-lyrique lulliana,
una costituzione sincretica che mira a riunire azione drammatica, parola, danza, musica vocale e
strumentale, ai fini di uno spettacolo armonicamente composito, la cui impalcatura persisterà nel
teatro della rivoluzione e in quello napoleonico, a prescindere dalle nuove tematiche che essi
continueranno a reclamare.
Di riflesso acquisterà nell'Ottocento rappresentatività sociale l'altra faccia dell'opera francese, il
genere dell'opéra-comique. Tale genere aveva tratto origine da quel teatro popolare de la foire (della
fiera); nell'Ottocento esso giungerà ad affiancarsi all'opéra, acquisendo pari considerazione artistica,
e distinguendosi da essa solamente per il ridotto apparato esecutivo, l'assunzione di modi espressivi
più leggeri ma capaci anche di sopportare il patetico o addirittura il tragico.
Così ecco penetrare nell'opéra-comique, con Médée (Medea, 1797) di Luigi Cherubini, un soggetto
che per l'ambientazione classicista e per l'austerità del mito sarebbe parso consono alla tragédie-
lyrique. I temi tipici del romanticismo europeo investono opéra e opéra-comique, liberando il primo
dal suo tradizionale sussiego e temperando la leggerezza spesso superficiale del secondo con assunti
seriosi e patetici. Si aggiunga la tematica libertaria, resa familiare dall'esperienza rivoluzionaria.
Tutti motivi che si ritrovano nelle due opere che forse segnano più profondamente il momento di
passaggio dall'epoca della restaurazione a quella di Luigi Filippo: La muta dei portici di Daniel-
François-Eprit Auber e Guillaume Tell, di Gioachino Rossini. In queste opere il confluire dei nuovi
caratteri romantici dentro una struttura di fondo di tradizione ufficiale, derivata ancora dalla
tragédie-lyrique, sta per risolversi in una disposizione ben calcolata di effetti di teatrale evidenza
cementata da una materia storica; questo complesso scenico-teatrale da vita all'opéra-historique,
meglio nota come grand-opéra.
Essa consiste nell'adozione dei motivi del romanticismo senza che ciò implicasse un'adesione reale
ai suoi ideali estetici e morali. A misura che il grand-opéra assumeva i criteri dell'impresa teatrale,
l'opéra-comique si affermava insinuandosi in quelle zone della pubblica sensibilità che il primo
lasciava scoperte. Era sul versante dell'opèra-comique, comunque, che le istanze romantiche
potevano trovare autentica espansione; nell'ambito del grand-opéra esse erano invece accolte, quali
mere occasioni di accadimenti teatrali d'esteriore successo spettacolare. L'ulteriore ascesa
economica conosciuta dalla Francia durante il secondo impero si accompagnò al diffondersi di una
sensibilità e di un gusto particolari: la poetica romantica traduceva questo gusto nei termini di una
liricità corrente, oppure li riduceva alle ragioni del gioco e della satira. Ciò darà origine, da un lato,
al genere dell'opéra-lyrique, dall'altro a quello dell'opéra-bouffe, ovvero dell'operetta.
L'opéra-lyrique nasce dunque dallo spirito dell'opéra-comique, distinguendosene per l'abolizione
frequente del parlato, per i contenuti drammatici più impegnativi e per lo stile più complesso.
L'opéra-lyrique si collocò pertanto in una posizione intermedia fra grand-opéra e opéra-comique,
attirando nella propria orbita questa e quella. Il motivo esotico, caro al romanticismo, si traduce in
un colore locale volto a suscitare un clima musicale partecipe del sentimento dominante. Più
intensamente di altri mira a simile identificazione Bizet, soprattutto in Carmen (1875). Su libretto di
Meilhac e Halévy, l'opera mette in scena la semplice storia di un onesto giovane, Don José, portato
alla rovina dal fascino perverso di una donna che alla fine egli uccide. La Carmen a tutta prima non
piacque al pubblico benpensante che frequentava le sale dell'opéra-comique, e già la mancanza di
lieto fine doveva creare disagio e sconcerto tra gli spettatori, poco inclini a mutare le loro categorie
di ascolto. Carmen costituì un punto di riferimento intellettuale e musicale per la successiva
generazione. L'opéra-comique sembrava sino ad allora destinata ad accogliere sentimenti
superficiali; Bizet riuscì ad abbattere tali frontiere in virtù del suo prepotente realismo.
Al prodotto nobile dell'opéra-comique fa riscontro il sottoprodotto di questa, costituito dall'operetta.
Illustrata principalmente da Jaques Offenbach, in uno stile di indole estemporanea e di grande
immediatezza melodica ritmica, è memore di un ideale classico derivato dalle origini tedesche
dell'autore, che conferisce particolare icasticità alle sue immagini musicali.

Paragrafo II: Gioacchino Rossini e l'opera italiana agli inizi dell'Ottocento

I diciannove anni, dal 1810 al 1829, della folgorante carriera teatrale di Rossini coincidono con la
fine delle guerre napoleoniche e con l'età della restaurazione, e segnano una svolta nelle vicende del
melodramma italiano nei suoi rapporti con l'Europa. Il carattere internazionale esclusivo che si era
mantenuto nel secolo XVIII conosce una profonda trasformazione. Non mancano certo a Rossini i
trionfi in tutta Europa. In termini molto generali si può dire che il culto per il melodramma, che già
nel XVIII secolo aveva dominato la vita musicale italiana, diventa più esclusivo nel secolo XIX.
Nel periodo che precede e accompagna la carriera di Rossini la situazione dell'opera italiana si
presenta singolarmente varia e articolata. Fino all'avvento di Rossini non emergono personalità di
primo piano. Si stavano del resto trasformando profondamente i caratteri stessi dei generi dell'opera
italiana e il loro significato. Si stava capovolgendo la situazione della seconda metà del Settecento
che aveva visto la crescente vitalità dell'opera buffa accogliere contenuti patetici e nutrire di linfa
vitale la formalizzata tradizione seria.
La molteplicità di stimoli di rinnovamento che caratterizzava l'opera italiana tra la fine del
Settecento e i primi anni dell'Ottocento è avvertita con consapevole ricettività da Rossini.
La sua produzione seria è quantitativamente superiore rispetto al resto e abbraccia un arco
cronologico più ampio con maggiore continuità; la produzione buffa occupa una posizione
privilegiata nella prima fase della carriera di Rossini e dopo aver toccato i culmini del Barbiere di
Siviglia e di Cenerentola, si interrompe quasi completamente fino all'isolato Le comte Ory.
La cambiale di matrimonio fu l'inizio della carriera teatrale di Rossini. L'esordio fu seguito da
un'intensissima esplosione creativa con nove opere nuove, rappresentate tra l'ottobre 1811 e il
dicembre 1813; seguirono subito il primo capolavoro serio Tancredi e il primo capolavoro buffo
L'italiana in Algeri che rapidamente conquistarono una reputazione internazionale. Nel 1815 fu
chiamato a Napoli come direttore artistico e musicale dei teatri napoletani e come compositore. In
tale posizione, dal 1815 al 1822, Rossini si impose come incontrastato dominatore delle scene
liriche italiane con diciannove opere. A sedi diverse furono destinate, invece, La gazza ladra,
Matilde, ed i capolavori buffi più famosi, Il barbiere di Siviglia e La cenerentola.
L'implacabile precisione del ritmo, e l'insistita ripetizione, sono componenti essenziali del
vocabolario comico rossiniano, e appaiono determinanti nello scatenare il celebre effetto del
crescendo. La costanza con cui si ripresentano alcuni lineamenti tipici del comico rossiniano non
impedisce a ciascuna delle opere buffe del pesarese di avere i propri specifici caratteri. Nel
Barbiere, il perfetto meccanismo teatrale della commedia di Beaumarchais, che aveva già attirato
altri compositori, viene esaltato sotto il segno di un travolgente vitalismo. Nella Cenerentola si
inserisce nel gioco vorticoso e travolgente degli ingranaggi comici rossiniani, la dolcezza della
figura della protagonista con i suoi accenti di tenera malinconia.
Più lungo e più articolato è il percorso del Rossini serio, denso di complesse ambiguità. Gli inizi si
collocano sotto il segno di un ideale di bellezza neoclassico: a questo gusto va certamente
ricondotto il primo capolavoro, Tancredi. Già in questa partitura si riconoscono, in nuce, soluzioni
formali che Rossini avrebbe in seguito sviluppato nella complessa articolazione dei pezzi d'insieme.
Dopo il debutto, gli anni napoletani propongono un consapevole, anche se non lineare,
approfondimento della ricerca del genere serio: le tappe essenziali le si può riconoscere in Otello,
Armida, Ermione e Zelmira. Sarebbe tuttavia semplicistico ricondurre il Rossini napoletano
esclusivamente nell'alveo di una bellezza astratta, di un controllato gusto neoclassico: il carattere di
ciascuna delle opere citate è nettamente individuato. Rossini non mette in discussione l'esistenza
delle forme chiuse, le rinnova invece dall'interno. In modo diverso, di opera in opera, gli aspetti più
avanzati della sua ricerca instaurano un peculiare equilibrio con scelte più tradizionali, evitando
generalmente le soluzioni estreme. Non mancano tuttavia, negli anni napoletani, momenti più
radicali.
La febbrile intensità della produzione degli anni napoletani è seguita da una sosta e dai trionfali
viaggi a Parigi e a Londra e nell'estate 1824 Rossini si stabilì a Parigi assumendo la direzione del
Théatre Italien. Lavorare in Francia significava per Rossini comporre con tempi assai meno
precipitosi di quelli imposti dalla vita teatrale italiana, e poter approfondire direzioni di ricerca che
non avevano trovato buona accoglienza in Italia. Il naturale coronamento di questa ricerca fu
Guillaume Tell. L'ultimo capolavoro teatrale di Rossini ebbe un ruolo storico molto significativo in
Francia e in modo diverso in Italia. L'opera che segna il massimo avvicinamento di Rossini al
melodramma romantico fu anche il suo congedo dalle scene.

Paragrafo III: La drammaturgia musicale di Giuseppe Verdi

La figura dominante nella cultura musicale italiana del XIX secolo fu senza dubbio quella di
Giuseppe Verdi. Al contrario di tanti artisti dell'Ottocento che manifestavano disagio e persino
disprezzo nei confronti del mondo borghese che li circondava, Verdi dimostrò sempre una sorta di
condivisione spontanea per le idee e i valori della società in cui viveva. Il sintomo più significativo
di questa convergenza è offerto dalla identificazione dei contenuti drammatici delle sue primissime
opere, come le tensioni e le speranze patriottiche del Risorgimento.
Ridurre tuttavia la complessità del suo teatro giovanile all'unica dimensione del patriottismo è
francamente arbitrario. In effetti le ragioni stesse della sua adesione spontanea alle idee e ai valori
della sua società non sono esclusivamente politiche. La borghesia e il mondo intellettuale italiano
stavano attraversando allora, con decenni di ritardo rispetto alla Francia e all'Inghilterra, un periodo
di profonda trasformazione.
In tutta la storia europea esiste sempre una fase di trasformazione in cui lo scontro di poteri fra le
classi sociali diventa anche lo scontro fra ideologie e sistemi morali. Ma in Italia ciò non era ancora
avvenuto, e gl'ideali avevano ancora una carica propulsiva capace di scuotere fortemente la
coscienza di un artista come Verdi che infatti ne fece oggetto di narrazioni epiche. La sua sapienza
di drammaturgo consiste nell'aver saputo incarnare tali ideali in personaggi vivi e frementi, e la sua
genialità di grande autore tragico consiste nel non aver mai dato per certa la loro vittoria.
La sua carriera cominciò relativamente tardi (nel 1839) con la rappresentazione alla Scala di Milano
di Oberto conte di san Bonifacio, che gli diede sufficiente credito da spingere l'impresario Merelli a
legarlo al suo teatro. Il Nabucco ebbe un successo tale da assicurare al suo autore immediata fama
nazionale. Successivamente Ernani presenta l'altro grande tema della drammaturgia giovanile
verdiana: quello delle vicende familiari e amorose. Nel corso degli anni Quaranta, Verdi alterna
opere a sfondo corale e patriottico con drammi personali e familiari. I due racconti che ricorrono più
frequentemente in tutti questi drammi si aggirano attorno alle tematiche del potere, della famiglia e
dell'amore. Le narrazioni più delicate da trattare erano quelle che avevano a che fare col potere,
ciononostante l'invincibile tendenza di Verdi era quella di mettere in scena ricatti, repressioni,
ingiustizie, che il filtro della censura riusciva a mascherare, ma non a mutare nella sostanza.
Accanto all'area dei conflitti di potere c'è l'altrettanto ricca costellazione dei conflitti familiari, della
quale emerge una figura originalissima del teatro verdiano: quella del padre che difende
strenuamente l'onore insidiato della propria figlia o si impegna in tremende battaglie contro le
ribellioni dei figli maschi. Infine quella dell'amore fra i giovani.
I rapporti di Verdi con i librettisti che gli dovevano fornire il testo letterario da musicare sono
significativi della sua concezione del teatro musicale: egli chiedeva rapidità e concisione.
Anche le forme musicali accolgono ampiamente l'esperienza de melodramma precedente
rinnovandola tuttavia in alcuni aspetti essenziali. L'unità musicale non è ormai più data dalla
schematica successione di recitativi e arie, ma non è neppure del tutto libera. Nella concezione
verdiana l'unità musicale comprende di solito un'intera azione, basata sulla presenza dominante di
un personaggio. Tale narrazione comprendeva almeno quattro fasi: una serie di recitativi iniziali,
una prima aria, una parte libera con interventi dei personaggi e infine un secondo intervento del o
della protagonista.
A partire da Ernani Verdi codifica anche le relazioni fra i il tipo di voce e il tipo di ruolo: soprano e
tenore costituivano in genere la coppia eroica dei protagonisti amorosi; alla voce di basso e baritono
erano invece riservate di norma le funzioni antagonistiche. Verdi costruiva i personaggi anche in
funzione alla voce dei cantanti che poteva reclutare.
I primi anni di carriera si conclusero con tre opere comparse agli inizi degli anni Cinquanta,
Rigoletto, Il trovatore e La traviata. Il primo narra le vicende di un deforme buffone di corte a cui il
suo principe insidia la bella e ingenua figlia; nel tentativo di vendicare l'insulto, Rigoletto provoca
per errore la morte della fanciulla credendo di far assassinare il seduttore. Nella Traviata Verdi
spezza una lancia a favore del libero amore, presentando in termini appassionatamente positivi il
personaggio di Violetta Valery, a cui la morale corrente proibisce di vivere assieme all'uomo che
ama.
Verdi in questo periodo comincia a comporre in tempi più ampi. Dopo un ballo in maschera del
1859, assume anche un atteggiamento più critico nei confronti dell'ambiente italiano. Così per quasi
trent'anni le nuove opere che Verdi compose non ebbero la loro prima rappresentazione nei teatri
italiani. Anche le figure dei protagonisti diventano ora più sfaccettate: gli aspetti positivi e negativi
tendono a non incarnarsi più in personaggi opposti, ma diventano oggetto di più sottili meditazioni.
Lo spirito analitico di Verdi si fa più penetrante ma non muta i fondamenti del suo pensiero morale.
L'ideale irraggiungibile di una società capace di assicurare giustizia e piena dignità a tutti i suoi
membri, costituisce ancora la molla segreta della sua fantasia di drammaturgo anche se profondi
cambiamenti sono intervenuti intanto nella società dell'epoca. Via via che passano gli anni la
borghesia italiana perde gli originari caratteri di classe emergente, e a poco a poco anche in Italia
comincia a scavarsi un solco fra gli interessi degli intellettuali e gli interessi dei detentori del potere.
Verdi, che conosceva bene l'ambiente internazionale, era certamente sensibile alle necessità di
aggiornamento della cultura italiana. Ciò che egli non poteva fare era invece di perdere i positivi e
profondi legami che lo univano organicamente a quel pubblico. Una conferma del suo legame con
ideali positivi del primo Romanticismo italiano si ebbe nel 1874 con la composizione della Messa
da requiem che gli fu ispirata appunto dalla morte di Alessandro Manzoni.

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