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Il clarinetto e il linguaggio del jazz

di
Maurizio Franco

Uno degli strumenti a fiato più utilizzati nel jazz è il clarinetto, che nel suo percorso jazzistico
occupa una posto di assoluto rilievo sino ai primi anni ’40, subisce successivamente una fase di
popolarità calante durata sino agli anni ’80 (anche se dagli anni ’60 è cresciuto l’interesse per il
clarinetto basso), quindi recupera una significativa visibilità nell’ambito contemporaneo grazie
anche allo sviluppo della scena europea del jazz, nella quale si rivelano congeniali le sua qualità di
strumento in grado di muoversi in molteplici e differenti territori espressivi, sia di natura “colta”, sia
“popolare” e “folclorica”. Del resto, questo strumento cilindrico ad ancia semplice, che fa parte
della famiglia dei “legni”, ha origini antichissime, tanto che un suo lontano antenato: il mmt
(memet) era già conosciuto in Egitto 2700 anni fa. La diffusione di strumenti analoghi, semplici o a
canna doppia, ha poi interessato molti paesi, spaziando dal Nord Africa e dall’area mediterranea

all’Est e Nord Europa ed all’Asia minore. Il parente più prossimo del moderno clarinetto è lo
chalumeau, termine con il quale si identifica ancora oggi il registro grave dello strumento, mentre
quello acuto viene denominato, per affinità con i suoni più alti della tromba barocca, clarino.
Questo spiega perché, gergalmente, si usi ancora oggi abbreviare in questo modo il nome del
clarinetto anche se il termine si riferisce invece ad uno strumento di ottone non ad ancia. Il
clarinetto si sviluppa dal punto di vista organologico a partire dal ‘700 e compie un percorso di
perfezionamento meccanico che giunge sin quasi alla metà dell’800 e gli consente un’estensione
che può raggiungere le quattro ottave (e anche più, come nel clarinetto basso), molto più ampia di
quella del sassofono e di qualsiasi altro strumento a fiato. Il suo utilizzo nel jazz è stato
principalmente introdotto dai musicisti creoli, eredi della grande tradizione francese per i “legni”,
quindi il clarinetto (intendendo quasi unicamente quello soprano in Sib) era parte integrante della
vita musicale di New Orleans e partecipava da protagonista alla nascita di un genere che proprio
nella città sul delta del Mississippi ha trovato la sua prima definizione stilistica nell’ambito del
contesto di gruppo. Il suo ruolo nel collettivo polifonico del New Orleans Style e del Dixieland è
infatti perfettamente adeguato alle caratteristiche dello strumento, di cui sfrutta l’agilità sul piano
del fraseggio e la varietà e morbidezza del timbro per armonizzare i contrasti sonori tra tromba (o
cornetta) e trombone. Una caratteristica, quella di smussare gli angoli sonori, che risiede nella stessa
natura del clarinetto ed è stata ampiamente utilizzata anche in ambito accademico. Dunque,

nell’intreccio contrappuntistico tipico della front line dei gruppi di quei primi stili jazzistici, lo
strumento esegue frasi di ornamentazione che conferiscono una particolare ricchezza alle linee
polifoniche e contribuiscono a rendere più morbido e leggero il sound generale. Frasi costruite
soprattutto su un gioco arpeggiato che diventerà la base della tecnica sassofonistica nel jazz. La
scuola clarinettistica neworleansiana è quindi particolarmente numerosa, ed ovviamente creole
oriented, almeno nella sua fase più arcaica, come testimoniano anche i nomi dei musicisti: George
Baquet, Alphonse Picou, Sidney Bechet (di cui scriveremo più avanti), a cui si affiancano quelli
di Lorenzo e Luis Tio (di origine messicana). Picou è diventato celebre per il suo assolo di
clarinetto nel pezzo High Society, entrato nella storia e diventato quasi un “obbligato”, una parte
integrante del pezzo a cui ben pochi evitano di riferirsi. Tra i clarinettisti bianchi del primo
Dixieland occorre citare anche Larry Shields, della Original Dixieland Jazz Band, il quintetto
guidato dal cornettista Nick La Rocca che nel 1917 registrò i primi brani di jazz apparsi su disco. La
grande triade del clarinetto di New Orleans è però rappresentata dalle figure di Johnny Dodds,
Jimmie Noone e Sidney Bechet. Dodds, che ha legato il suo nome alla Creole Jazz Band di King
Oliver ed agli Hot Five ed Hot Seven di Louis Armstrong, aveva un vibrato arcaico ed una
predilezione per il registro basso dello strumento da cui traeva una sonorità fortemente “vocale”.
Noone, al contrario, aveva una tecnica sciolta, pre-Swing, ed una delicatezza di tratto che gli
venivano anche dagli studi con il clarinettista classico Franz Schoepp, maestro pure di Benny

Goodman e Buster Bailey. Ascoltato da un ammirato Ravel, Noone ispirò persino alcune
composizioni del grande compositore francese. Infine, Bechet, che pur non avendo lasciato un
significativo corpus di incisioni sul clarinetto (passando alla storia più come primo specialista
assoluto del sax soprano), possedeva una grande cura per il suono, che rivestiva di un lento, ampio
vibrato. Fu lui a suscitare l’entusiasmo del direttore d’orchestra Ernst Ansermet, che nel 1919
scrisse meraviglie sul suo (allora nuovo, inascoltato) modo di suonare recensendo sulla Revue
Romande un concerto di una orchestra negra (quella di Will Marion Cook). Un esponente del
revival del primo jazz avvenuto negli anni ’40, fu George Lewis, la cui ampia visibilità lo fece
diventare un modello per i continuatori di quello stile, mentre un più moderno esponente del
clarinetto di New Orleans è stato Albert Nicholas, musicista dalla tecnica eccellente e dal fraseggio
agile. Altri strumentisti affermatisi negli anni ’20 sono stati Omar Simeon, prediletto da Jelly Roll
Morton e pedina importante delle incisioni dei Red Hot Peppers, poi l’eccelso Barney Bigard,
colonna dell’orchestra di Duke Ellington (che nel 1936 scrisse per lui Clarinet Lament). La fluidità
del suo linguaggio si univa ad un senso melodico pronunciato e ad una eccezionale gamma
dinamica, che dominava dal pianissimo sino al più intenso fortissimo. Tra gli esponenti del
Dixieland degli anni ’20 occorre quindi ricordare Leon Roppolo dei New Orleans Rhythm King,
poi Frank Teschemaker, partner di Bix Beiderbecke e maestro dello stile Chicago, un musicista
introspettivo e tra i primi a sviluppare realmente l’improvvisazione (non l’estemporizzazione, cioè

l’elaborazione personale di melodie già esistenti); quindi Jimmy Dorsey, dalla notevole tecnica,
che diventerà un famoso band leader negli anni ’30, Buster Bailey, che eccelleva nel registro acuto,
mentre una figura a se è rappresentata da Pee Wee Russell, maestro del registro basso e
decisamente moderno nella sua concezione solistica, basata su linee frammentate, lontane dalla
linearità espositiva degli strumentisti anni ’30. Fu proprio quel decennio ad imporre grandi figure di
solisti-band leader, come il già citato Dorsey, poi Benny Goodman, Artie Shaw e Woody
Herman. Nella big band jazzistica dell’Era dello Swing il clarinetto non ha una parte fissa nella
sezione delle ance, costituita da due sax contralti, due sax tenori ed un sax baritono, ed il suo ruolo è
invece più solistico o legato a particolari impasti sonori, quelli che realizzavano solo i grandi
compositori, come per esempio Ellington, nella cui musica lo strumento ha avuto un sempre una
posizione preminente. Non dimentichiamoci che, invece, nelle big band degli anni ’20, più ridotte
nell’organico, per i sassofonisti c’era l’obbligo di suonare anche il clarinetto (utilizzando talvolta
anche quello basso, il cosiddetto clarone), ed uno degli impasti sonori più efficaci in quell’epoca di
primo sviluppo della grande orchestra jazz era quello del trio di clarinetti, proveniente dalla musica
di varietà, dal vaudeville e dal circo, che Don Redman mise a punto nell’orchestra di Fletcher
Henderson e Duke Ellington utilizzo più volte, come nel tema del celeberrimo The Mooche. Il
polistrumentismo degli specialisti degli strumenti ad ancia, che verrà recuperato dai musicisti degli
anni ’70, ci dimostra quanto il clarinetto abbia inizialmente influenzato anche le tecniche

sassofonistiche. Lo Swing, inteso come stile jazzistico, fu il regno di Goodman, che non solo
guidava la big band jazz più popolare del periodo, ma si imponeva come clarinettista di altissimo
livello, cesellatore di linee melodiche dal suono penetrante, in cui la padronanza del registro acuto
era sopraffina. Goodman rimane ancora oggi un esempio di perfetto abbinamento tra fantasia e
tecnica strumentistica, ed anche uno dei primi jazzisti a cimentarsi con passione, ed in maniera
originale, non ortodossa, nell’esecuzione di pagine della musica eurocolta, dalla Première Rapsodie
di Debussy al Concerto per clarinetto e orchestra di Copland, a quello di Mozart sino al
meraviglioso Contrasti, un trio che lui stesso commissionò a Bartok ed eseguì insieme al
compositore ed al violinista Joseph Szigeti. Alternativa a Goodman, non sempre valutato come
merita, è però un altro grande band leader dell’epoca: Artie Shaw. Perfezionista dall’intonazione
mirabile e dal sound curato in ogni particolare, bello come quello di un violino, è stato un musicista
dall’innato senso melodico e formale, che svettava con autorevolezza davanti alla sua orchestra.
Herman era invece un clarinettista ritmicamente meno lineare, più sfaccettato, che guardava già al
jazz post-swing, mentre la lezione di Goodman è in parte avvertibile in Edmond Hall e nel
clarinettista di Ellington Jimmy Hamilton. L’avvento dello stile Bebop, intorno alla metà degli
anni ’40, segnerà l’inizio del declino del clarinetto, considerato troppo levigato e poco
espressionista per il nuovo stile; non a caso, sarà soprattutto la dimensione più astratta del jazz
moderno, quella californiana od il mondo del cool tristaniano, a dare spazio agli specialisti dello

strumento, anche se non mancheranno figure di autentici bopper. Tra questi ultimi occorre segnalare
un musicista di eccelse doti quale Buddy De Franco, improvvisatore di assoluta creatività che
suonava in maniera quasi “scientifica” le frasi del nuovo stile, mentre Tony Scott era
maggiormente legato all’espressività parkeriana e possedeva il sound più intenso e forte dell’intera
storia dello strumento nel jazz. Bill Smith era invece clarinettista ed arrangiatore nell’ottetto di
Dave Brubeck, fortemente ispirato dalla musica cameristica del ‘900, John La Porta era allievo di
Tristano e sviluppava un linguaggio di assoluta astrazione melodica, dalla sonorità chiarissima,
quasi flautistica, ed infine Jimmy Giuffre, che raggiunse la notorietà con il successo del brano
Four Brothers, hit dell’orchestra di Herman, è peculiare per il suo costante utilizzo del registro
chalumeau dello strumento. Gli anni ’50 segnano un calo quantitativo nella presenza di nuovi
clarinettisti, anche se alcuni sassofonisti, per esempio: Phil Woods, Art Pepper e Roland Kirk
(come fu prima di loro per Lester Young) lo hanno utilizzato, ed anche il flautista Sam Most lo ha
abbinato al proprio strumento principale. Tra i nuovi clarinettisti che si fanno strada negli anni ’60
e ’70 troviamo Alvin Batiste, ultimo esponente della tradizione clarinettistica di New Orleans, con
una grande esperienza in campi stilistici diversi; esperienza che verrà ampliata e diverrà un punto
fermo per il futuro dello strumento per opera di Perry Robinson, padrone di molteplici possibilità
espressive, dalle più arcaiche al rock, che apriranno la strada alla contemporanea poetica della
sintesi tra diversi mondi sonori che in lui si tingeva di una veemente energia. Sempre in quegli anni

’70 si afferma la figura del più completo polistrumentista degli ultimi decenni: Anthony Braxton,
che suona praticamente tutti i clarinetti, ma privilegia quelli meno utilizzati nel jazz, soprattutto di
registro grave, alla ricerca di sonorità inusuali e di nuove concezioni estetiche, legate a quelle della
contemporanea musica eurocolta. Sempre negli anni ‘60 emergono però figure di clarinettisti che
perseguono la classicità di un mainstream capace di rivolgersi al passato senza però disconoscere le
nuove linee poetiche. Si tratta di Kenny Davern e Bob Wilber, mentre in una dimensione di ampia
modernità si muove Eddie Daniels, forse il più completo clarinettista di tutti i tempi, e non solo per
quanto concerne il jazz. La sua padronanza dello strumento, dal suono alle dinamiche ed
all’articolazione delle frasi è assoluta, impressionante anche quando si confronta con pagine della
musica europea, al punto che rimane un punto di riferimento strumentistico simile a quello che
Wynton Marsalis occupa tra i trombettisti contemporanei. Tra gli altri clarinettisti del periodo, un
posto particolare spetta, nell’ambito dei linguaggi più aperti e radicali, al texano John Carter, che
abbinava lo strumento al sassofono. Dagli anni ’80 si assiste però alla rinascita dello strumento, che
avrà forse in Europa i suoi migliori esponenti, nel segno di un cambio sostanziale nel linguaggio del
jazz e della creazione di nuovi punti di riferimento espressivi. Nell’ambito della scena attuale si
segnalano le sonorità latin jazz di Paquito D’Rivera, il mainstream di Ken Peplowski, il modern
mainstream di Chris Speed e Victor Goines, il più radicale linguaggio di Marty Elrich, la fusione
tra klezmer ed elementi jazzistici in David Krakauer, anche se il più apprezzato tra gli attuali

clarinettisti sembra essere Don Byron, nonostante sia più compositore che strumentista in senso
stretto. Nell’ambito europeo la storia dello strumento vive di riflesso a quella americana per diversi
decenni, prima di staccarsi con grande originalità dai modelli d’oltreoceano. Volendo indicare solo
alcuni nomi, ricordiamo che con Django Reinhardt suonava, negli anni ’40, Hubert Rostaing,
dall’impostazione classica, mentre l’autentico virtuoso del vecchio continente, già moderno nello
stile nei primi anni ’40, era Stan Hasselgard, l’unico clarinettista che Goodman volle al suo fianco.
Altri nomi di rilievo sono quelli dell’inglese Tony Coe, del francese Michel Portal, assoluto
padrone anche delle tecniche della musica eurocolta del secondo ‘900, e del tedesco Rolf Khün,
strumentista eccezionale, ma arrivato sulla scena nel momento di massima impopolarità del
clarinetto. In questo contesto, l’Italia si è distinta in passato e si distingue ancora di più oggi. Il
“Benny Goodmsn” italiano, per linguaggio e controllo dello strumento, è stato Henghel Gualdi, ma
non sono mancati altri esponenti dello Swing e del New Orleans Jazz, tra cui il raffinato Bruno
Longhi e Gianni Sanjust, la cui eredità è raccolta da Alfredo Ferrario, strumentista accurato e dal
fraseggio elegante. Lo strumentista più completo è però Gianluigi Trovesi, che utilizza diversi
clarinetti, compresi il contralto e quello basso, ed il cui modo di suonare è diventato influente nella
scena continentale del jazz. La sua capacità di portare i colori della musica folclorica e quelli del
mondo eurocolto, soprattutto rinascimentale e barocco, nell’ambito della sua originale poetica
jazzistica fanno di lui un personaggio di primo piano a livello internazionale. Del resto, uno dei

motivi della riscoperta, anzi del rilancio del clarinetto, risiede proprio in quella duttilità di cui
scrivevamo all’inizio, quella capacità di adattarsi ad ogni situazione sfruttando le non poche risorse
di cui lo strumento dispone. Così, non stupisce che proprio in un paese dalla ricca storia musicale
come l’Italia siano fioriti clarinettisti di assoluto valore internazionale: da Gabriele Mirabassi, che
mantiene un forte legame con la sua formazione classica, a Guido Bombardieri, esponente di
spicco del modern mainstream, sino ad Achille Succi, che si muove in contesti linguistici
prettamente europei, ed al versatile Mauro Negri, musicista senza apparenti limiti che non perde
mai di vista il jazz, nemmeno quando si esprime in ambiti aperti, anche di improvvisazione totale.
Per quanto riguarda gli altri strumenti della famiglia dei clarinetti, nel jazz hanno quasi tutto avuto
un ruolo marginale, tranne il clarinetto basso, chiamato anche clarone, che già si suonava negli anni
’20 ed ebbe per molti anni la sua unica, grande voce solistica in Harry Carney, colonna
dell’orchestra di Ellington. Un fatto curioso, visto che con oltre quattro ottave di estensione lo
strumento consente di ottenere una vasta gamma sonora, non soltanto di esplorare il registro grave.
Sarà la scena jazzistica dei secondi anni ’50 e poi quella europea a valorizzarlo, in primo luogo
attraverso l’opera del suo maggiore specialista: Eric Dolphy. Questo improvviso interesse nascerà
proprio nel momento di maggior calo d’interesse per il clarinetto soprano, trovando nel
polistrumentista afroamericano l’artista in grado di porre in evidenza le sue potenzialità in un
territorio ampio, che entrava nel cuore delle nuove linee espressive del jazz anni ’60, soprattutto dal

punto di vista della dimensione timbrica. La sua realizzazione in solo del celebre evergreen God
Bless The Child è diventata testo di studio anche per gli specialisti accademici di uno strumento di
cui Dolphy ha scoperto le innumerevoli possibilità, soprattutto suonando nei gruppi di Charles
Mingus. La sua lezione favorisce l’affermazione di altri strumentisti come, nell’ambito
dell’informale jazzistico, Ken McIntyre, mentre a fine anni ’60 giungerà a notorietà Bennie
Maupin, partner di Miles Davis nelle prime esperienze di Jazz Rock. Poi, svilupperà l’uso dello
strumento, proiettandolo nella contemporaneità, il sassofonista David Murray, capofila di un non
nutrito gruppo di esponenti della scena americana del jazz. Lo strumento avrà però maggior presa
in terra d’Europa, a cominciare dall’Inghilterra grazie all’opera di John Surman, magistrale nel
fondere il jazz con il della sua terra, proponendo una policulturalità di tratto che si ritrova, in forme
diversissime, anche in due musicisti francesi: il già citato Portal e Luis Sclavis, esponente di spicco
della scena più avanzata del jazz contemporaneo. In Olanda lo strumento avrà un suo protagonista
in Willem Breuker, in Germania in Gunther Hampel, entrambi legati ad un radicalismo stilistico
tipicamente europeo, mentre ancora in Italia troviamo i già citati Trovesi e Succi, mentre in
Svizzera spicca la figura di un virtuoso dal linguaggio articolato quale Claudio Puntin. Molti altri
sono i nomi che potrebbero essere fatti, ma l’importante è avere un’idea chiara della storia della
famiglia dei clarinetti nel jazz, per comprendere quanto versatili siano questi strumenti e come, in
una scena musicale sempre più multiculturale e senza un preciso centro, essi possono giocare una

carta significativa grazie alle loro non comuni possibilità espressive.

Maurizio franco

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