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La chitarra e il linguaggio del jazz

di
Maurizio Franco

Nel quadro storico del jazz, la chitarra assume una posizione parallela a quella di buona parte del
percorso jazzistico, ponendosi in una nicchia esclusiva dalla quale uscirà solo a partire dagli anni
’70, quando acquisirà una sempre maggiore centralità in conseguenza degli aspetti timbrici legati
allo sviluppo della “dimensione elettrica” del jazz. Nonostante questo ruolo ambivalente, lo
strumento ha effettivamente accompagnato l’intera storia del jazz, essendo presente sin dagli albori
di questa musica. La chitarra, in realtà, ha avuto un ruolo determinante anche in una fondamentale
espressione folk afroamericana, cioè il Blues, in cui si integrava con il canto utilizzando sia il
plettro sia un modo di pizzicare le corde diverso rispetto a quello della tradizione musicale colta
europea. In proposito, occorre sottolineare una diversità di approccio, almeno sino all’avvento della
bossa nova, tra le tecniche esecutive “classiche” e quelle jazzistiche, basate appunto sull’uso della
penna e sull’alternanza tra densità armonica e scarna

linearità melodica. Riguardo poi alla posizione assunta dallo strumento nei primi trent’anni del ‘900
jazzistico, essa si configura soprattutto come interna al gruppo, depositaria della scansione ritmico-
armonica ereditata dal banjo. E’ infatti quest’ultimo a fare la parte del leone negli organici del New
Orleans Style, anche se già dalla seconda metà degli anni ’20 viene sostituito dalla più duttile
chitarra, soprattutto all’interno delle compagini orchestrali. Il passaggio dalle posizioni degli
accordi di derivazione folk a quelle che diventeranno la base dell’armonia della chitarra jazz, ha
come protagonista Eddie Lang, pseudonimo di Salvatore Massaro, musicista di origine italiana di
assoluta competenza strumentistica. Le storie del jazz lo indicano come il primo, grande solista
della chitarra, ma in realtà la sua importanza nel fraseggio solistico è assolutamente limitata,
nonostante i duetti con il valente chitarrista afroamericano Lonnie Johnson, oltre al determinante
sodalizio con il violinista Joe Venuti, presentino non poche parti improvvisate a nota singola.
L’importanza di Lang è invece legata al fatto di aver portato la chitarra nel cuore del gruppo come
uno strumento protagonista e non solo gregario, oltre alle intuizioni armoniche, che gli permisero di
definire le posizioni moderne degli accordi, e all’introduzione di un agile drive ritmico. In sostanza,
è proprio nell’uso complessivo della chitarra e nella sua diversa collocazione in sede espressiva che
risiede la sua importanza storica. Sarebbe troppo lungo in questa sede elencare i nomi dei chitarristi
di scuola New Orleans, anche se occorre citare almeno Arthur “Bud” Scott, pioniere del primo
jazz, e Danny Barker, anch’egli capace di passare con naturalezza dalla chitarra

al banjo. Un altro chitarrista nel quale la ricca cultura ritmica del primo jazz ebbe modo di
manifestarsi, fu Bernard Addison, nel cui curriculum figurano collaborazioni con Louis Armstrong
e Art Tatum. Nella linea di un blues jazzistico evoluto sul piano del fraseggio melodico, oltre a
Lonnie Johnson occorre indicare almeno Teddy Bunn, mentre una singolare figura di chitarrista
ritmico e organizzatore, catalizzatore di molti gruppi Dixieland, fu Eddie Condon. La realtà è che i
grandi maestri del periodo sono personalità praticamente sconosciute al pubblico odierno e noti solo
ai cultori degli stili jazzistici più lontani da noi, eppure il loro ascolto e lo studio della loro musica,
soprattutto delle formule ritmiche di accompagnamento, appare oggi attuale, molto più di quanto
non lo fosse quarant’anni fa. L’era dello Swing porterà poi la chitarra a trovare un ruolo stabile
nella big band e a volte anche nei piccoli gruppi. Si tratta della chitarra ritmica
d’accompagnamento, dove tutti i quarti di una misura vengono evidenziati con un ritmo uniforme,
fluido, che ha l’effetto di un fruscio e funge da “collante” della sezione ritmica. Il suo ruolo è
soprattutto interno al gruppo, non occorre che il suono venga avvertito nitidamente dagli ascoltatori:
anzi, paradossalmente si potrebbe affermare che del valido chitarrista ritmico si deve semmai
avvertire “l’assenza” quando non sta suonando, piuttosto che la “presenza”. Il maestro assoluto di
questo gruppo di strumentisti, l’artista dalla straordinaria souplesse ritmica, fu Freddie Green, per
oltre mezzo secolo colonna portante dell’orchestra di Count Basie, chitarrista capace di riassumere
un intero mondo espressivo.

Naturalmente non dobbiamo dimenticare altri strumentisti di primo piano del periodo, da Allan
Reuss a Dick McDonough, da Carl Kress a George Van Esp, tutti in grado di realizzare assoli
basati quasi esclusivamente su trascinanti sequenze di accordi, ed anche l’ex-banjoista Fred Guy,
tante volte al fianco di Duke Ellington. Un continuatore di questa linea, a partire dagli anni ’50, è
stato ed è Marty Grosz. Argentino di nascita, ma trasferitosi per anni a Parigi, Oscar Aleman è
stato una figura leggendaria, che qualcuno ha addirittura avvicinato a Django Reinhardt. Certamente
aveva un senso del ritmo pronunciato e un fraseggio decisamente evoluto per il chitarrismo di metà
anni ’30, che fecero di lui uno dei primi, autentici solisti dello strumento. La sua relativa popolarità
è comunque dovuta alla sua presenza in Francia, il che ci ha portato ad aprire il capitolo europeo,
che nel suo insieme tratteremo più avanti, per affrontare la musica e il lascito di quello che è stato il
chitarrista per eccellenza del secolo appena trascorso: Django Reinhardt, il cui ruolo è pari a
quello rivestito da Segovia nella musica eurocolta. Virtuoso trascendentale, una sorta di Art Tatum
della chitarra, che per quanto concerne l’uso del plettro ha stabilito un vertice raggiunto, ma non
superato, da pochissimi strumentisti del jazz contemporaneo. Eppure, la sua origine zingara e il
fatto che la mano sinistra avesse una menomazione nell’anulare e nel mignolo, hanno spesso dato
origine a trattazioni leggendarie, più che musicali, sulla sua figura, raramente analizzata in maniera
globale ed in relazione all’intera scena jazzistica. Se volessimo tracciare un ritratto aforistico del
chitarrista, scomparso nel 1953 a soli quarantatre anni, potremmo inquadrarlo come il primo
esponente di quello che oggi definiamo “jazz europeo”, la cui multiculturalità di tratto è più facile

da apprezzare e comprendere nei nostri giorni di quanto non lo fosse alcuni decenni fa. Primo,
autentico solista improvvisatore della chitarra jazz, anticipatore delle concezioni ritmiche,
fraseologiche ed espressive del bebop, maestro che faceva scuola anche oltre oceano: Charlie
Christian, per esempio, trascriveva dai dischi e studiava i suoi assoli, ha vissuto un articolato
percorso espressivo che non può, nemmeno lontanamente, essere confinato soltanto nell’esperienza
di quel formidabile gruppo che fu il Quintette Du Hot Club de France (in cui suonava il violinista
Stephane Grappelli). Django, al pari di un Coleman Hawkins e, perché no, di un Miles Davis, ha
seguito gli sviluppi stilistici del jazz aderendo prima allo stile swing e passando poi alle istanze
bebop, anticipando, poco prima di morire, nuove modalità di utilizzo della chitarra elettrica (da lui
adottata dal secondo dopoguerra) attraverso la saturazione dei suoni, che gli consentiva di ottenere
sonorità fortemente “elettriche”, a cui il jazz e lo strumento in generale (per esempio con Jimi
Hendrix) giungeranno solo alla fine degli anni ’60. Il padre della chitarra elettrica nel jazz fu
Charlie Christian, un’altra pietra miliare della storia dello strumento, insieme a Django il più
influente chitarrista di sempre, capace di esercitare un influsso duraturo per oltre trent’anni di storia
jazzistica. Soltanto Pat Metheny e, in parte, Jim Hall e Wes Montgomery, hanno avuto (pur
nell’eterogeneità estetica) una capacità di incidere sullo stile chitarristico generale in maniera
paragonabile a quella del maestro zingaro e di quello afroamericano. Christian (scomparso nel 1942
a soli ventisei anni) portò il virtuosismo di Reinhardt all’interno di un contesto espressivo nel quale
il blues e la linea afroamericana del jazz lo trasformavano completamente. Fu tra i primi jazzisti ad

elaborare il passaggio dalla simmetria ritmica dello Swing all’asimmetria del Bebop, a sviluppare
un fraseggio che sfruttava le qualità del sound elettrico, rotondo, pastoso e risonante del nuovo
strumento. La sua presenza nell’orchestra di Benny Goodman e, contemporaneamente, in quel
laboratorio di idee musicali che fu il Minton’s di Harlem, contribuì a farlo conoscere e a imporlo
come un riconosciuto caposcuola della moderna chitarra jazz. L’elettrificazione dello strumento è
stato un processo relativamente lungo, partito negli anni ’20, ma giunto a compimento soltanto alla
metà del decennio successivo, con le prime incisioni dovute al chitarrista bianco George Barnes e
all’adozione dello strumento da parte di musicisti quali Eddie Durham, anche trombonista e
arrangiatore di fama, Bus Etri e Floyd Smith. Saranno comunque il bebop e l’impatto avuto da
Christian a portare la chitarra elettrica, nel corso degli anni ’40, a soppiantare quella acustica.
All’interno di questo processo ci furono vere e proprie riconversioni, come quelle di Al Casey e
Everett Barksdale e poi l’affermazione di nuove figure, direttamente legate al lascito christianiano.
Tra di loro occorre ricordare almeno Oscar Moore, partner di Nat King Cole, Tiny Grimes, che
nel trio di Art Tatum suonava una chitarra a quattro corde, e Irving Ashby, che sostituirà Moore
nel trio di Cole. Questi musicisti avevano uno stile che richiamava quello dello Swing, con frasi
brevi, basate su riffs, con un attacco deciso e ritmico, che si sviluppava in senso virtuosistico in un
chitarrista come Les Paul, per poi approdare ai chitarristi strettamente Bebop. Tra essi, Bill De
Arango era il più raffinato nelle armonizzazioni e nella costruzione di linee melodiche aeree e dalla
invidiabile souplesse. Il

numero di chitarristi che sono emersi in quel periodo occuperebbe una lunga lista; basta ricordare
Chuck Wayne, dalle frasi lunghe e articolate, Arv Garrison, che ha lasciato le sue migliori prove
nei dischi realizzati con Charlie Parker, quindi una serie di importanti musicisti diventati a loro
volta dei capiscuola: Barney Kessel, Jimmy Raney, Billy Bauer e, per la complessità e pienezza
delle armonizzazioni, Johnny Smith. Kessel era un maestro dell’arte della concatenazione degli
accordi, oltre ad essere un solista dallo swing incontenibile e dal linguaggio modellato sulla lezione
di Christian. Bauer ha invece compiuto la sua carriera defilato dalla grande scena e diventando il
sinonimo del chitarrista di “cool Jazz” in quanto partner di Lennie Tristano. In realtà il fraseggio di
Bauer è vicino alla concezione ritmica di Christian più di quanto si possa immaginare, mentre
l’atteggiamento espressivo morbido e rilassato che viene definito cool e si identifica con frasi
elaborate e basate sulla sottigliezza delle pronunce si ritrova soprattutto in Raney. Autentico
virtuoso del fraseggio a nota singola, costruiva le sue frasi con logica stringente, collegandole tra
loro con una perizia quasi “scientifica” e senza perdere in comunicativa e swing. Kessel e Raney
sono, non a caso, diventati dei punti di riferimento per molti strumentisti, anche se sul piano della
popolarità il primo otterrà una fama ben maggiore del secondo, collaborando con un gran numero di
musicisti famosi, laddove Raney si muoverà in contesti meno esposti alla visibilità del grande
pubblico. Gli anni ’50, oltre a una linea mainstream che nel tempo esprimerà esponenti di rilievo
quali Mundell Lowe, Bucky Pizzarelli, suo figlio John e, quindi, Howard Alden,

porteranno sulla scena musicisti che avranno un ruolo significativo nella storia della chitarra jazz, in
primis Tal Farlow, solista dal fraseggio vertiginoso, maestro della costruzione melodica di
derivazione boppistica, nella quale il gioco improvvisativo si sviluppa all’interno di costruzioni
segmentate, con le frasi spesso in relazione di domanda e risposta tra loro. Chitarrista di assoluta
competenza è invece Barry Galbraith, mentre più contenuto nei toni, dal suono rotondo e dallo
swing più implicito, Kenny Burrell è l’esempio classico del chitarrista di scuola Hard-Bop, dalla
forte componente blues, mentre Herb Ellis recupera elementi provenienti dalla tradizione Swing
dello strumento, soprattutto nell’accompagnamento. Ma i due musicisti destinati a raccogliere, per
importanza artistica e influenza generale sul mondo delle sei corde, l’eredità di Django e di
Christian saranno Wes Montgomery e Jim Hall. Il primo riprenderà la lezione di Christian per
proiettarla nella dimensione dell’Hard-Bop più esuberante, sviluppando anche nuove idee
espressive legate all’uso del pollice, anziché del plettro, per percuotere le corde, ed alle linee
costruite per ottave, cioè utilizzando bicordi nei quali una nota viene doppiata all’ottava superiore.
Improvvisatore radicato nel blues più profondo, solista esuberante e dotato di un’inventiva senza
limiti, Montgomery arricchirà il linguaggio della chitarra con una miriade di patterns messe a
disposizione delle future generazioni di chitarristi. Il suo primo, diretto discepolo sarà George
Benson, che prima di passare nel campo del pop jazz lascerà alcune opere importanti nel segno di
una maggior elettrificazione del suond e della rapidità del fraseggio. Ad esaltare la linea del blues,
inteso nel senso più diretto del termine, sarà invece Grant Green all’interno dei trii con organo e
batteria che costituiranno la corrente del Soul Jazz di casa Blue Note. Prima di tornare a Jim Hall,
occorre sottolineare la presenza di una vera e propria meteora della chitarra jazz: Dennis Budimir,
affermatosi nel quintetto di Chico Hamilton e poi capace di elaborare un fraseggio armonicamente
aperto e ritmicamente vicino alle concezioni del jazz di fine anni ’60. E, poi, Joe Pass, interprete di
un mainstream dalle molteplici influenze e, dagli anni ’70, autentico concertista di sola chitarra,
capace di costruire i brani con una concezione assolutamente orchestrale. Passiamo quindi a Hall,
caposcuola della chitarra contemporanea, che è invece partito dalla lezione di Charlie Christian
elaborandola all’interno di un linguaggio contemporaneo nel quale le cellule tematiche, i riffs del
maestro afroamericano, sono diventati il punto di partenza di un fraseggio complesso ritmicamente
e armonicamente. Il suo influsso è vastissimo, soprattutto su molti degli attuali maestri dello
strumento, che vedono in lui un autentico caposcuola. La sua importanza nell’ambito del trio
chitarra, contrabbasso e batteria é paragonabile a quella avuta da Bill Evans nel rivoluzionare il trio
pianistico, sviluppando quell’ampio dialogo tra i musicisti che prende il nome di interplay. Hall,
con l’originalità della sua musica, estremamente sofisticata anche sul piano timbrico, proietta la
lezione storica dello strumento nella contemporaneità. Tra gli esponenti di un raffinato mainstream
moderno c’è il canadese Ed Bickert, principale esponente dello strumento nella sua nazione
unitamente a Lenny Breau, musicista dalle linee contemporanee

che suonava una chitarra a sette corde con cui rafforzava le sonorità gravi. Nella linea
dell’informale jazzistico afroamericano, si segnala invece Sonny Sharrock, ma la vera, nuova
rivoluzione nel sound dello strumento e negli stilemi fraseologici, paragonabile a quella che segnò il
passaggio dalla chitarra acustica a quella elettrica, avverrà alla fine degli anni ’60, con il cosiddetto
jazz elettrico, ovvero il jazz-rock, il jazz funk, il jazz soul, ambito nel quale la chitarra guarderà al
suono e in parte allo stile proveniente dal nuovo mondo del rock, che aveva già prodotto un
innovatore timbrico quale Jimi Hendrix. Da quell’esperienza usciranno i grandi nomi che popolano
la scena attuale, a partire da John Abercrombie e Larry Coryell, oltre ai maestri europei dello
strumento di cui scriveremo più avanti. L’uso del distorsore e di sonorità aggressive fortemente
“elettriche”, di ritmi che esulano la classica scansione dello swing anni ’50, l’armonia ampiamente
modalizzata, i colori blues, entrano quindi in gioco e contribuiscono a definire la linea attuale dello
strumento. Anche Pat Martino, con il suo fraseggio a note puntate e lo sguardo al mondo musicale
indiano, ottiene una significativa visibilità e un posto nella storia, così come Bill Connors, versatile
strumentista capace di passare dal suono rock a quello della chitarra classica. Negli anni ’70
nascono le esperienze del free funk, con James Blood Ulmer, mentre si affermano personalità
tuttora ai vertici dello strumento, quali John Scofield e Pat Metheny. Entrambi si muovono
all’interno di un articolato universo sonoro, che evidenzia sia il legame con la tradizione storica
dello strumento, sia l’apertura verso le nuove frontiere linguistiche e l’incrocio con il mondo del

rock e del pop e sono i precursori della concezione tonale-modale applicata alla chitarra, strumento
difficile da trattare con i dettami dell’armonia costruita per “quarte”, in questo vicini al mondo
armonico di un originale quanto misconosciuto didatta e chitarrista: Mick Goodrick. Se Scofield
lascia emergere un vitalismo e una virtuosistica concezione ritmica, Metheny ha inventato un suono
che ha fatto scuola, oltre ad aver sviluppato l’idea della chitarra sintetizzata, ottenendo inedite e
modernissime sonorità. Sul piano dei suoni nuovi, anche Bill Frisell, pur nell’estrema economia di
mezzi, ha trovato dei colori originali e coinvolgenti, dalle timbriche “avvolgenti”, vere e proprie
nuvole sonore. Questi chitarristi sono, a loro modo, i più rappresentativi, insieme a John
McLaughlin, dell’ultimo trentennio di vita dello strumento, anche se non esauriscono un campo
sempre più ricco, nel quale la chitarra è diventata spesso il fulcro dei nuovi gruppi jazz.
Naturalmente non mancano valanghe di musicisti che si muovono all’interno di linguaggi
precedenti, del tutto storicizzati, come del resto avviene nel mondo jazzistico anche a livello
generale. Inutile fare i nomi di tutti i chitarristi, anche se nell’ambito fusion vanno menzionati
almeno Chris Hunter, Mike Stern, Al Di Meola, Frank Gambale (grandioso nella tecnica della
pennata), Scott Henderson e un curioso maestro della tecnica “tapping” (che consiste nello suonare
la chitarra come una tastiera di pianoforte): Stanley Jordan. Nella linea del modern mainstream
non manca la presenza femminile con Leni Stern, la giovane Sheryl Bailey e la compianta Emily
Remler, eredi della più nota esponente dello strumento: Mary Osborne. Un musicista di grande
apertura

stilistica, in grado di muoversi da protagonista anche nell’ambito delle nuove sonorità è il


sottovalutato Vic Juris, a cui possiamo affiancare, pur nella diversità linguistica, Kevin Eubanks.
Infine, tra le figure di riferimento del mainstream contemporaneo citiamo almeno Mark Whitfield
e Russell Malone. Un altro filone della chitarra che non abbiamo ancora trattato è quello legato
all’uso dello strumento con le tecniche classiche del pizzicato. I musicisti di questa linea sono legati
principalmente alla bossa nova, cioè l’incontro tra il jazz e il samba brasiliano, o alle linee più
astratte intraprese dalla musica di origine africana americana. Ricordiamo in primo luogo i
brasiliani Laurindo Almeida e Baden Powell. Il primo si è affermato nel secondo dopoguerra
grazie alle registrazioni con l’orchestra di Stan Kenton, mentre il secondo è stato un concertista di
valore assoluto nell’ambito della tradizione brasiliana intesa in senso generale. Sempre brasiliano,
ma dotato di un’apertura a 360°, è Egberto Gismonti, uno dei più interessanti musicisti
contemporanei, capace di far vivere la lezione del ‘900 classico con la musica tradizionale del suo
paese e la concezione improvvisative del jazz. Sempre al Brasile guardava uno dei pionieri della
bossa nova: Charlie Byrd. In questo comunque nutrito gruppo di chitarristi (in cui figurano anche
Bill Harris e Bola Sete) non si può dimenticare Ralph Towner, che unisce il duplice retroterra
folklorico e classico alle linee dell’improvvisazione contemporanea. Accanto alla scena americana,
quella europea è stata sempre particolarmente ricca di talenti e figure di riferimento. A parte
Django, occorre citare i musicisti che hanno seguito almeno in parte la sua linea, a cominciare da un

altro belga: René Thomas. Improvvisatore influenzato in egual modo dal chitarrista gitano e da
Charlie Parker, Thomas elaborò la linea del bebop all’interno di un universo espressivo allucinato e
di grande sostanza poetica. Sempre dal Belgio arriva Philip Catherine, una delle voci attuali dello
strumento, che si è aperto anche alla linea sonora del chitarrismo contemporaneo, mentre diretto
discendente di Reinhardt è Bireli Lagrene, anch’egli zingaro e come il suo idolo capace di
sviluppare un linguaggio che è ampiamente uscito dal puro ambito del jazz manouche, mentre tra
Django e Montgomery si muove il francese Christian Escoudé. I chitarristi francesi di livello sono
comunque un gran numero, e tra questi occorre segnalare Marc Ducret, raffinato melodista e
compositore, e il franco-vietnamita Nguyen Lê, dalle incisive sonorità elettriche. Gitano
ungherese è invece un virtuoso nella linea del grande maestro manouche: Elek Bacsik, antesignano
della prestigiosa scuola magiara della chitarra jazz, che annovera anche due personalità affermatesi
negli Stati Uniti quali Gabor Szabo, emerso nei primi anni ’60 grazie a un fraseggio aperto alle
nuove concezioni armoniche dell’epoca, e l’eclettico Attila Zoller, incline a un linguaggio
armonicamente libero quanto non esente da sottili influssi rock. Dal mondo anglosassone arrivano
invece due maestri di un evoluto mainstream jazz quali Luis Stewart e Martin Taylor, e uno dei
più intelligenti e raffinati chitarristi cool di stampo tristaniano: Dave Cliff, ma soprattutto i
musicisti dell’area più legata al rock blues maturato nella scena inglese nel corso degli anni ’60 e
venuto a contatto con gli artisti che praticavano l’improvvisazione radicale. La figura di riferimento
è John

McLaughlin, un chitarrista che per il suo atteggiamento policulturale è forse il vero erede di
Django; cresciuto nell’ambito della scena rock-blues, Mclaughlin ha poi collaborato con Miles
Davis nei primi album della svolta “elettrica” del trombettista, fondando successivamente il gruppo
jazz-rock della Mahavisnu orchestra e quel mirabile incontro con la musica dell’India denominato
Shakti. Dotato di una pennata stupefacente e di un controllo assoluto dello strumento, McLaughlin
ha saputo e sa muoversi in contesti diversi tra loro mantenendo l’energia e la personalità stilistica
che lo contraddistinguono. Un altro personaggio della scena britannica è Allan Holdsworth, autore
di armonizzazioni originali oltre che abile miscelatore di suoni, che ha militato con gruppi quali i
Soft Machine e i Lifetime di Tony Williams. Infine, un grande improvvisatore radicale, vicino al
concetto di alea, è stato Derek Bailey, nella cui musica (imitata da molti improvvisatori di oggi) si
trovava una ricerca costante dei micro ritmi e di ogni sottigliezza timbrica. Tra gli altri maestri
europei della chitarra bisogna segnalare il belga Toots Thielemans, diventato più famoso come
armonicista a bocca, poi lo svedese Rene Gustafsson, di vasta cultura strumentistica così come il
norvegese Terje Rypdal, che spazia dalle esperienze free al rock e alla composizione accademica
contemporanea e, infine, in questa linea stilisticamente ampia occorre ricordare il tedesco Wolker
Kriegel. Nella scena italiana, al di la di ogni possibile elenco esaustivo, possiamo citare
l’antesignano del jazz moderno: Cosimo Di Ceglie, quindi lo stilista per eccellenza del jazz italico,
il caposcuola della chitarra moderna, l’artista che ha sviluppato il linguaggio del

bebop al più alto livello, cioè Franco Cerri, icona e oggi decano dei chitarristi italiani. Altri nomi
storici da segnalare, più o meno vicini alla generazione di Cerri e tutti legati alla linea del
mainstream, sono Carlo Pes, Sergio Coppotelli, Alberto Pizzigoni e Bruno De Filippi (anch’egli
specialista, come Thielemans, dell’armonica a bocca), mentre nelle generazioni successive sono
emersi talenti quali Eddy Palermo, Nicola Mingo, Alessio Menconi, Pietro Condorelli,
Emanuele Basentini e Michele Calgaro. Pioniere del jazz rock in Italia è stato invece Sergio
Farina e, in tempi più recenti, si sono affermati tra gli altri Umberto Fiorentino, Battista Lena,
Domenico Caliri, laddove il linguaggio del cool jazz tristaniano ha trovato un suo singolare
esponente in Giovanni Monteforte, mentre dalla lezione di Wes Montgomery è pratito uno
straordinario interprete del contemporary mainstream: Sandro Gibellini. Un chitarrista originale
sul piano dell’armonia e della concezione del trio, aperta e dialogica, è Lanfranco Malaguti;
orientato all’incontro con la musica euro colta si è rivelato invece Augusto Mancinelli, mentre due
chitarristi di vasta competenza, in grado di muoversi in molteplici contesti, sono Riccardo Bianchi
e Luigi Tessarollo. Un linguaggio del tutto moderno e trasversale, memore del proprio retroterra
folclorico, è quello di Bebo Ferra, comunque radicato nella tradizione quanto Roberto Cecchetto,
musicista che ha saputo fondare la lezione storica con sonorità e fraseggi del tutto contemporanei.
La chitarra jazz sta dunque vivendo, in Italia come altrove, un momento di grande sviluppo, tale da
farla diventare sempre più lo strumento principe dei nostri tempi.

Maurizio Franco

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