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CONSERVATORIO DI MUSICA “SANTA CECILIA” ROMA

DIPLOMA ACCADEMICO DI PRIMO LIVELLO


CHITARRA JAZZ

La chitarra, strumento nomade

Candidato: Relatore:

Francesco Dimiziani Chiar.mo Prof. M° Fabio Zeppetella

Matricola: 6000TR

Anno accademico 2022-2023

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INTRODUZIONE

Quando, anni fa, mi sono avvicinato alla musica, inizialmente avevo scelto
di suonare il basso, ma è stato un amico di famiglia, chitarrista, a
suggerirmi di iniziare con la chitarra per avere un approccio più completo
alla musica, e da quel momento affrontando la chitarra ho avuto sempre un
rapporto “problematico” con lo strumento, una ricerca che appartiene a tutti
i musicisti, ma che sulla chitarra ancora più spesso, a mio giudizio, si
avvicina ad una ricerca spirituale ed apre ad un lavoro su di sé per tutta la
vita.

La chitarra, seppur semplice da suonare di primo acchito, non fa sconti, se


sei insicuro ti restituirà un suono insicuro. Lo stesso accordo sulla chitarra
può essere suonato in innumerevoli posizioni, innumerevoli tecniche della
mano destra, ma al di là del visibile, la chitarra non suonerà mai nella stessa
maniera. Confrontarsi con la chitarra richiede lo sforzo di capire chi sei, le
tue origini e chi vuoi essere.

Il Jazz agisce allo stesso modo. Quando all’inizio di questo percorso


triennale mi sono avvicinato al jazz, non più da semplice ascoltatore ma da
musicista, ho sentito come una connessione con le ansie e le ricerche della
moltitudine di chitarristi che mi aveva preceduto: la chitarra al confronto
con la potenza dei sassofoni e delle trombe, capaci con una sola nota lunga
di impattare più di mille note suonate da una chitarra, la chitarra e il senso
di inferiorità nel comping rispetto al pianoforte, così ricco armonicamente,
ma soprattutto chiaro e potente.

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La lezione che ho appreso da quei chitarristi è stata la “resilienza” (termine
purtroppo abusato al giorno d’oggi), la capacità di essere sé stessi e spiccare
nonostante tutto. Ma soprattutto quello che ho sentito dai grandi della
chitarra è stata l’esaltazione di quelle che per me erano apparenti difficoltà
dello strumento, e ascoltandoli sapevo chi erano, da dove venivano e cosa
volevano essere.

Da Django Reinhardt, gitano intriso della sua cultura nomade millenaria,


che ha rivoluzionato un genere nato dall’altra parte del mondo,
reinventando la sua tecnica, passando per Wes Montgomery e George
Benson, afroamericani forti del blues, della potenza delle loro radici (le
ottave suonate da Wes rievocano subito le sonorità dello slide e non
impallidiscono di fronte ad un fiato), per arrivare a due chitarristi a mio
giudizio fondamentali per la chitarra del futuro, John Scofield e Bill Frisell,
tutti loro sono stati capaci di rispondere alle tante domande della chitarra,
comprendendone il ruolo trasversale che altri strumenti non hanno.

La chitarra jazz di oggi è debitrice della musica rock: la mancanza di una


forte radice, presente nella prima parte del novecento, ha assottigliato via
via la distanza fino a convergere, a partire dagli anni ’70, divenendo matrice
comune di moltissimi chitarristi jazz, i quali formatisi sui dischi rock hanno
portato tecniche, suoni e approcci fino ad allora assenti nella chitarra jazz.

Questa rivoluzione non ha però fermato la ricerca, e anzi si è ampliata la


sostanza spugnosa dell’approccio alla chitarra jazz, dal rapporto con
l’avanguardia e l’elettronica, alla ricerca di stili e tradizioni lontane
dall’Occidente (la chitarra africana, il choro o l’influenza di altri strumenti a
corda dal resto del mondo), fino a una riscoperta e rielaborazione della
polifonia.

Capace di spaziare dalla grande tradizione folk americana all’avanguardia,


dall’esperienza del rock e dell’elettronica all’intimità del suono acustico, e

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di tenere insieme tutte le lezioni dei grandi del Jazz, la chitarra, figlia dei
più antichi strumenti creati dall’uomo, può e deve essere custode delle
tradizioni e allo stesso tempo dirompente e anarchica, proprio perché priva
di un unico denominatore. La chitarra è uno strumento nomade.

Lo scopo di questa tesi è dunque quello di esaminare e rintracciare gli


elementi e le variabili che hanno reso la chitarra una piccola anomalia nella
musica jazz, con un percorso che si discosta dalle direzioni e dalla storia
intrapresa da altri strumenti cardini del jazz, come la tromba, il sax, la
batteria e il pianoforte.

Quegli elementi che hanno reso la chitarra un duttile contenitore di


tradizione e innovazione, uno strumento che per storia e caratteristiche
riesce a farsi voce di popoli e individualità, unendosi perfettamente alla
filosofia sottesa del Jazz, una musica viva, una lingua in evoluzione senza
confini spaziali e culturali.

Se per gli strumenti a fiato si può osservare, infatti, come lo sviluppo della
loro dimensione solistica determini e coincida con lo sviluppo stesso della
musica jazz, o, se consideriamo il pianoforte, possiamo trovare un rapporto
conflittuale ma al contempo dialogico e consequenziale con la musica
classica, la chitarra, invece, si affaccia al jazz in maniera disunita, senza una
tradizione comune appartenente a tutti i chitarristi e, dato il ruolo a volte da
outsider, senza potersi identificare completamente con i paradigmi del
linguaggio jazz, nonostante, come un attore nascosto, ne abbia influenzato
spesso le evoluzioni.

Ogni chitarrista jazz sarà quindi a suo modo un pioniere dello strumento,
costruendo una tradizione in fieri, una “non-tradizione audiotattile” per
eccellenza.

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Per comprendere appieno questa differenza basti pensare alla chitarra nei
primi anni del Novecento: uno strumento cordofono pizzicato suonato
principalmente in piccole formazioni o da solo per motivazioni acustiche di
volume, con una letteratura musicale scarna in confronto alla maggioranza
degli strumenti della musica classica, che però, grazie alla comodità di
trasporto e d’uso, viene utilizzato in svariati contesti di musica popolare nel
mondo, tra i quali il nascente Blues.

Il Jazz, superate le sue fasi embrionali, ancora influenzate fortemente dalla


musica classica e dal Blues (fase in cui abbiamo in realtà una grande
presenza della chitarra nell’accompagnamento), si struttura intorno ai fiati
come solisti, i quali determineranno il suono e il fraseggio del bebop, che è
ancora oggi la vera base del linguaggio jazz, e al pianoforte e la batteria
come accompagnatori.

Dunque nel periodo in cui si va a costruire il suono del Jazz, che tutti
riconosciamo oggi, la presenza della chitarra è marginale, tuttavia non è
solo l’esclusione dai grandi processi ed evoluzioni della musica jazz ad
influenzare la storia e il suono della chitarra jazz (infatti come vedremo il
bebop e la chitarra jazz condividono un grande padre come Charlie
Christian) quanto il rapporto “problematico” che i chitarristi avranno con lo
strumento.

Il chitarrista è per natura questionante, si deve confrontare con uno


strumento senza una codificazione univoca, uno strumento spesso in balia
delle sue geometrie e al contempo fortemente libero nell’interpretazione,
cosa che ha portato i chitarristi nel corso di un secolo a dover reinterpretare
la storia della musica, rielaborarla su di uno strumento facile ma spigoloso,
incerto del suo ruolo tra polifonia e monodia.

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Nel corso della tesi farò quindi un excursus sulla storia della chitarra, prima
del Jazz, nel Jazz, fino a giungere allo stato dell’arte attuale, esaminandone
le diverse modalità d’uso, l’evoluzione, le contaminazioni, le prospettive.

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INDICE

INTRODUZIONE................................................................................................................2

1. Storia della Chitarra.....................................................................................................8

1.1. I primi cordofoni..................................................................................................8

1.2. I Liuti..................................................................................................................11

1.3. La chitarra barocca.............................................................................................15

1.4. La chitarra classica.............................................................................................15

1.5. La chitarra nell’Ottocento..................................................................................17

1.6. La chitarra folk...................................................................................................18

1.7. IL Blues..............................................................................................................19

2. La chitarra jazz...........................................................................................................22

2.1. Eddie Lang.........................................................................................................22

2.2. Django Reinhardt...............................................................................................25

2.3. Charlie Christian................................................................................................28

2.4. Barney Kessel e Wes Montgomery....................................................................31

3. La seconda rivoluzione silenziosa..............................................................................36

3.1. Jim Hall..............................................................................................................36

4. La terza rivoluzione: Il Rock.....................................................................................41

4.1. Gli Anni ’70: la sperimentazione.......................................................................43

4.2. John Scofield......................................................................................................45

4.3. Bill Frisell..........................................................................................................48

5. Conclusioni: La chitarra jazz oggi.............................................................................50

RINGRAZIAMENTI.........................................................................................................53

SITOGRAFIA....................................................................................................................54

DISCOGRAFIA.................................................................................................................55

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1. Storia della Chitarra

Un’analisi dell’evoluzione dello strumento non può prescindere


dall’osservazione dei vari strumenti cordofoni pizzicati diffusi nel mondo,
poiché le tecniche e gli stili che ritroviamo oggi nella chitarra sono un
connubio di più strumenti che rendono la chitarra un sistema, usando il
linguaggio dell’informatica, “open source”, personalizzabile dunque dal
musicista.

1.1. I primi cordofoni

I cordofoni sono i primi strumenti musicali realizzati dall’uomo: già nella


preistoria i nostri progenitori avevano inventato il cosiddetto “arco
terrestre”, ossia una specie di arco da caccia formato da un bastone elastico
e da una corda tesa alle sue estremità (dotato in un secondo momento anche
di una cassa armonica, che poteva essere ricavata da noci di cocco svuotate,
zucche tagliate a metà e così via) e il “salterio di canna”, che si ricavava
dalle canne di bambù, dalle quali venivano staccate delle sottili strisce di
scorza.

In principio quindi la musica nasce da una corda pizzicata, l’uomo


codificherà la musica a partire da questa corda, uno strumento che in
qualche modo viene prima di una qualsiasi “razionalizzazione” della
musica.

Col passare del tempo i popoli del passato affinarono la tecnica per
realizzare cordofoni sempre più evoluti, ideando anche degli strumenti utili
ad aumentare l’intensità del suono prodotto, come nel caso dei risuonatori.

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Molti popoli conoscevano e apprezzavano gli strumenti a corde: dagli egizi,
che insieme ai popoli ebraici, ai popoli della Mesopotamia, ai greci e ai
romani usavano soprattutto arpe, cetre e lire, ai popoli asiatici, che invece
usavano altri tipi di cordofoni, quali il k’in a sette corde, il p’ip’a a quattro
corde (entrambi di origine cinese), la vina indiana e il sarangì a quattro
corde indiano.

La p’ip’a, uno strumento di origine cinese, è uno dei primi esempi di liuto,
ha quattro corde ed è generalmente accordata in La-Re-Mi-La. Inizialmente
veniva suonata con un plettro e successivamente venne sviluppata la tecnica
con le dita, molto simile all’attuale approccio della chitarra classica, con
tecniche di “strumming” simili al rasgeado.

P’ip’a – Strumento a 4 corde di origine cinese

Il guqin o k’in appare molto simile all’odierna lap steel, è una tavola con
sette corde accordata in do, re, fa, sol, la, do (ottava), re (ottava) e viene
suonata pizzicando con una mano le corde e con l’altra toccando lievemente

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per riprodurre degli armonici, oppure glissando le dita creando l’effetto
dello slide.

Guqin o k’in – Strumento a sette corde

Lap steel

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Ascoltando questi due strumenti è interessante osservare come la loro
accordatura riesca da sola a codificare un immaginario sonoro, a
rappresentare una specifica cultura musicale. L’accordatura di questi
strumenti è un mondo a sé stante ma anche un ponte, una possibilità che
non hanno altri strumenti canonizzati dall’occidente.

La tastiera del pianoforte è univoca, certamente può essere alterata agendo


sulle corde, ma di per sé la sua libertà razionalizzata non può uscire da
determinati spazi. Il pianoforte ‘traduce’ altri linguaggi musicali inserendoli
nella musicalità occidentale (un esempio interessante può essere la musica
di Tigran Hamasyan, che inevitabilmente trasla la musica armena
all’interno del sistema musicale occidentale), la chitarra invece grazie
all’accordatura può modificare l’intero approccio allo strumento, e, pur
rimanendo all’interno della stessa tonalità, lo stesso accordo con
accordature differenti produrrà un suono diverso.

1.2. I Liuti

Attorno al Medioevo, la diffusione dei vari strumenti della famiglia dei liuti
ha cristallizzato i suoni di svariate culture musicali popolari.

In Africa abbiamo la kora, un’arpa-liuto pizzicata con tecniche simili a


quelle del flamenco. La kora ha varie accordature che accompagnano, come
nella musica indiana, determinati momenti della vita delle comunità, queste
accordature corrispondono alla scala lidia, maggiore, minore e blues.
Inizialmente le corde erano in pelle mentre ora sono più spesso in nylon, ma
è caratteristico il suono spezzato e, come da tradizione musicale africana,

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l’assenza di vere progressioni armoniche e invece un approccio più
“modale”, influenzato evidentemente dallo stretto legame con la kora e le
sue caratteristiche simili ad un’arpa. Questi elementi compaiono infatti
anche nella contemporanea chitarra africana pizzicata o plettrata spesso
stoppando il suono con il palmo, usando corde di nylon (il chitarrista Jazz
Lionel Loueke usa spesso chitarre acustiche con corde in nylon) e con l’uso
di accordature aperte. Ali Farka Tourè, chitarrista maliano, usa
un’accordatura Sol – La – Re – Sol – Si – Mi, che permette di spaziare nei
modi derivati da Sol maggiore, mantenendo un drone in Sol. Nell’africa
occidentale spesso viene usata un’accordatura open D, Re-La-Re-Fa#-La-
Re.

Un’altra tecnica infine è quella di cambiare la quarta corda del Re e mettere


una corda della stessa grandezza del Mi cantino, accordandola un’ottava
sopra il Re dell’accordatura standard, e spesso tale accordatura è suonata in
duo con una chitarra in Open D.

Il liuto arriva in Europa dall’Oriente raggiungendo, specialmente nel XVI


secolo, una diffusione e una versatilità d’impiego simili a quelle che avrà il
pianoforte nell’Ottocento. Il liuto deve la sua grande popolarità alla
possibilità di eseguire composizioni polifoniche semplici o complesse e per
accompagnare il canto o la danza. Questa versatilità, insieme alla comodità
d’uso e trasporto, gli vale il successo sia presso le corti europee che nelle
rappresentazioni di strada.

La musica per liuto veniva scritta su intavolatura, un sistema per cordofoni


a pizzico e con tastiera, in uso ancora oggi per la chitarra, dove venivano
rappresentati con dei righi le corde dello strumento e con dei numeri i tasti
da pigiare. Questo sistema, che può esclusivamente indicare l’altezza del
suono e non la sua durata, permetteva l’esecuzione dei brani anche a chi
non conosceva la musica.

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L’intavolatura per liuto, declinata poi anche per la chitarra, ebbe quindi una
diffusione a livello popolare parallela allo sviluppo del repertorio su
pentagramma, usato dai compositori più colti, tant’è che ancora oggi viene
utilizzato il sistema dell’intavolatura (chiamate spesso “tab”, dall’inglese)
ed è spesso la modalità con cui si impara a suonare la chitarra.

Questa netta divisione tra repertorio colto e popolare, addirittura corrisposta


da due differenti modalità di scrittura, è un elemento fondamentale per la
comprensione del percorso intrapreso successivamente dalla chitarra,
poiché ha permesso di rafforzare il rapporto dello strumento con le
tradizioni popolari, favorendo al contempo una libertà molto spesso lontana
dagli ambienti accademici.

In seguito all’affermazione del liuto in Europa nascono altri strumenti che


ne riprendono le caratteristiche, come la vihuela in Spagna, (Paese
fondamentale per la storia della chitarra, perfetto esempio del “melting
pot”) e la chitarra barocca, da cui deriverà la chitarra classica.

Vihuela

Il percorso della vihuela e della chitarra in Spagna e le origini del flamenco


sono un interessante prodromo di ciò che avverrà nel Novecento con la

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musica jazz: la tradizione del flamenco, che assumerà una forma più
definita intorno al XVIII secolo, ha le sue origini nell’Andalusia del XV
secolo, epoca in cui la Spagna accoglieva numerosi popoli: cristiani, arabi,
molti in fuga dalle persecuzioni come gitani ed ebrei.

Tra le tradizioni musicali che hanno ispirato il flamenco troviamo infatti i


canti monocordi islamici come il cante jondo, l’influenza delle melodie
salmodiche e del sistema musicale ebraico, dei modi frigio e ionico ispirati
dal canto bizantino e degli antichi sistemi musicali indiani e dei canti
popolari mozarabici da cui hanno avuto origine le zambre (dall’arabo
“festa”) e le jarchas, il tutto influenzato dalla cultura gitana e quindi dalle
tradizioni e riti di un popolo nomade, custode di una musica non
accademica, piuttosto legata alla danza e alle feste popolari.

A questa miscela tra Europa, Asia e nord Africa si aggiunge lo scambio con
le nascenti colonie americane della Spagna, dove si esportò la vihuela (che
si declinò in varie forme, come per esempio la chitarra messicana) e da cui
si importarono danze e ritmi caraibici che coloriranno il suono delle danze
che formeranno il flamenco. La chitarra eredita quindi una forte
componente ritmica, ma soprattutto inizia a viaggiare oltreoceano
incontrando diverse culture, spesso ai margini, o come sarà per gli schiavi
africani, soggiogate, disegnando un’“epica dei reietti”.

Con l’affermarsi della tradizione del flamenco nel ‘700, si verifica anche un
primo scontro nel mondo della chitarra, tra chitarristi classici e chitarristi
flamenco, con i primi che accusavano il flamenco di non avere regole, e,
viceversa, con i chitarristi flamenco che accusavano il mondo della chitarra
classica di essere eccessivamente intellettuale e di non comprendere il
carattere “nervoso” spagnolo.

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Nel frattempo infatti, mentre in Andalusia era in corso questo grande
cantiere musicale dal forte carattere popolare, nel resto d’Europa, in
particolare in Italia, si assiste alla nascita della chitarra barocca, della
moderna chitarra classica, e soprattutto allo sviluppo in due fasi del
repertorio colto della chitarra.

1.3. La chitarra barocca

La chitarra barocca eredita le tecniche del liuto e della vihuela e fino al


Seicento ha un notevole successo, costruendo la prima vera e propria
letteratura musicale per chitarra, che si definì intorno al contrappunto tipico
del periodo. Verso la fine del Seicento però, e per gran parte del Settecento,
l’attenzione verso la chitarra si dissolve e con essa si offuscano per lungo
tempo la consapevolezza tecnica e lo sviluppo di un repertorio dello
strumento.

Alla fine del settecento furono i liutai napoletani i primi a produrre chitarre
a sei corde, e ben presto l’arte della liuteria chitarristica raggiunge un
altissimo grado di raffinatezza e la chitarra si diffonde anche in Spagna,
soprattutto in Andalusia: a Malaga e Siviglia.

1.4. La chitarra classica

In parallelo allo sviluppo di quello strumento che, da un punto di vista


organologico, chiamiamo oggi “chitarra moderna”, si ha la prima grande
fioritura della cultura chitarristica nella musica europea e la nascita di un
consistente repertorio originale per la chitarra. Il periodo compreso tra gli
ultimi anni del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento è ricordato come
quello dei grandi “chitarristi-compositori”.

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Questi furono i primi a portare la chitarra, da strumento quasi
esclusivamente popolare, al ruolo di strumento da concerto. La tecnica si
sviluppò enormemente, e la funzione di semplice accompagnamento lasciò
il posto, in alcuni autori, a notevoli vette di virtuosismo.

Sostanzialmente in quest’arco di tempo si struttura tutto il repertorio colto


della chitarra, con autori come Ferdinando Carulli, Mauro Giuliani,
Francesco Molino e Matteo Carcassi, in Italia, e Fernando Sor e Dionisio
Aguado in Spagna. Questi autori saranno fondamentali sia come
compositori per chitarra, sia come didatti, infatti a loro va attribuita la prima
vera e propria delineazione dei principi fondamentali della tecnica musicale
e strumentale sulla chitarra.

Fra i metodi che hanno segnato maggiormente lo sviluppo della tecnica


chitarristica vanno citati il Méthode op.27 di Carulli, il Nuevo método para
guitarra di Aguado, il Metodo di Giuliani in particolare per la raccolta delle
120 formule di arpeggi per la mano destra, e il Méthode pour la guitare di
Sor, che si distingue per l'approfondimento di tematiche teorico/musicali
riguardanti lo strumento e il suono che esso produce. Questi metodi sono
ancora oggi alla base dello studio della chitarra classica nei Conservatori e
rappresentano una tradizione colta slegata dalle tradizioni popolari prese in
esame.

Questo periodo d’oro della chitarra porterà anche ad un consistente


repertorio da camera, tra gli autori più rappresentativi in tale campo
troviamo l'italiano Filippo Gragnani, oltre ai più noti Carulli, Molino,
Giuliani e Sor. Oltre al duo di chitarre, e talvolta al trio, le formazioni più
tipiche sono violino e chitarra, flauto e chitarra, pianoforte e chitarra; in
Gragnani si osservano formazioni di estensioni inedite, che arrivano a
comprendere anche sei interpreti (flauto, clarinetto, violino, 2 chitarre,
violoncello).

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Nello stesso periodo si tenta anche di comporre concerti per chitarra e
orchestra, operazione che chiaramente incontrava però dei problemi di
orchestrazione, dovuti alla scarsa potenza sonora della chitarra.

1.5. La chitarra nell’Ottocento

Con l’avvicendarsi dei grandi compositori dell’Ottocento intorno alla


sinfonia e all’Opera, assistiamo ad un progressivo declino della cultura
chitarristica, che sopravvive in ambiti più ristretti ad opera di pochi
compositori. La figura dominante, per fama, all'interno di questo panorama
è certamente quella dello spagnolo Francisco Tàrrega. La sua opera è di
importanza capitale: al di là dei discussi meriti nello sviluppo della tecnica,
egli con la sua "scuola" mantenne viva la tradizione chitarristica spagnola, e
molti dei suoi allievi, come Emilio Pujol, Miguel Llobet e Daniel Fortea,
saranno dopo di lui figure centrali del panorama chitarristico mondiale.

Tàrrega fu inoltre importante per aver fatto le prime trascrizioni per


chitarra, dando linfa al repertorio chitarristico, trascrivendo spesso
composizioni pianistiche.

Appare però evidente da questa panoramica come il ruolo della chitarra


nell’ambito della musica colta sia minoritario alla fine dell’Ottocento, e
fatta eccezione per alcuni caratteri dalla musica spagnola, non sia stato
capace di veicolare appieno le tradizioni che abbiamo analizzato
precedentemente. Benché ora dotato di una letteratura musicale infatti, la
chitarra non riesce a trovare nella musica classica il ruolo che ha nelle
musiche popolari e questo porterà le successive generazioni di chitarristi a
dividersi tra i chitarristi classici e non, con una forte differenza tecnica e di
approccio allo strumento, al contrario del mondo pianistico che avrà anche

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nel corso del Novecento un rapporto coerente con la grande e
imprescindibile cultura classica e romantica.

1.6. La chitarra folk

Verso la fine dell’Ottocento grazie al liutaio tedesco Cristian Frederick


Martin trasferitosi a New York abbiamo la prima cosiddetta chitarra “folk”,
una chitarra con corde in acciaio o bronzo, che diventò subito popolare
negli Stati Uniti e che favorì lo sviluppo del repertorio folk americano e del
country, oltre ad essere lo strumento principe del blues. Come per il
flamenco, anche negli Stati Uniti nel corso dell’Ottocento possiamo vedere
come la chitarra sia diventata il centro gravitazionale di una fusione di più
culture popolari.

La musica folk americana è infatti l’unione delle varie tradizioni musicali


popolari del nord Europa e via via ha ricevuto l’influsso degli altri popoli
che emigravano nel Nuovo Mondo. La chitarra per le sue caratteristiche
simili a tanti altri strumenti delle tradizioni europee e del mondo, e per la
sua comodità e facilità aveva larga diffusione nelle feste e nella definizione
delle canzoni popolari, ed anche da queste tradizioni e occasioni prese il via
l’improvvisazione Jazz, poiché in questi eventi erano tipiche le digressioni
musicali improvvisate da piccole formazioni con chitarra, violino e
contrabbasso.

Arrivati dunque all’inizio del Novecento, come detto nell’introduzione, ci


ritroviamo di fronte uno strumento incerto sul suo ruolo.

Abbiamo visto la diffusione nelle musiche popolari e un progressivo


congiungimento delle tecniche dei numerosi strumenti a corde pizzicate
intorno alla chitarra, ma anche un ruolo minoritario nella musica colta.

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Abbiamo dunque uno strumento anarchico, nomade e soprattutto non
univoco; altrettanto anarchica è l’America del periodo, una terra piena di
potenzialità e al contempo di problemi, che segna nei suoi confini
geografici una rivoluzione nel tempo, pronta a stravolgere gli equilibri
millenari dell’Occidente europeo.

È qui che si affaccia, intorno alla chitarra, il Blues.

1.7. IL Blues

Il Blues come tante altre musiche popolari non ha un inizio definito, ma


sappiamo identificarlo all’interno della comunità afroamericana,
un’evoluzione dei canti di lavoro nelle piantagioni e degli spiritual, canti
religiosi delle comunità afroamericane. Essendo una comunità composta da
tutti ex-schiavi, la maggior parte di loro non aveva alcuna istruzione
musicale, e questo favorì lo sviluppo di una musica ibrida, tra le
caratteristiche della musica africana e del canto islamico, già evolutesi in
secoli di trasmissione orale lontani dall’Africa, e con l’influenza
dell’armonia europea, ereditando l’attrazione tonale delle cadenze, pur
mantenendo una circolarità lontana dallo sviluppo tipico delle composizioni
europee.

Molte delle caratteristiche del blues, a cominciare dalla struttura antifonale


e dall'uso delle blue notes, possono essere fatte risalire infatti alla musica
africana. Sylviane Diouf ha individuato molti tratti, tra cui l'uso di melismi
e la pesante intonazione nasale, che fanno pensare a parentele con la musica
dell'Africa centrale e occidentale. L'etnomusicologo Gerhard Kubik,
professore all'Università di Magonza, in Germania, e autore di uno dei più
completi trattati sulle origini africane del blues (Africa and the Blues), è

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stato forse il primo ad attribuire certi elementi del blues alla musica
islamica dell'Africa Centrale e Occidentale:

Gli strumenti a corda (i preferiti dagli schiavi provenienti dalle regioni


islamiche) erano generalmente tollerati dai padroni che li consideravano
simili agli strumenti europei come il violino. Per questo motivo gli schiavi
che riuscivano a procurarsi un banjo avevano più possibilità di suonare in
pubblico. Questa musica solista degli schiavi aveva alcune caratteristiche
dello stile di canzone arabo-islamica che era stata presente per secoli
nell'Africa centro-occidentale".

Kubik fa inoltre notare che la tecnica, tipica del Mississippi e ricordata dal
bluesman W. C. Handy nella sua autobiografia, di suonare la chitarra
usando la lama di un coltello, ha corrispettivi in Africa. Anche il diddley
bow, uno strumento casalingo fatto da una singola corda tesa su un'asse di
legno, che viene pizzicata modulando il suono tramite uno slide fatto di
vetro e che si incontrava spesso nell'America meridionale agli inizi del
Novecento, era di derivazione africana. Nello specifico questa tecnica
derivava dalle Hawaii, che portò alla diffusione delle cosiddette “hawaii
guitar”, a loro volta evoluzione delle chitarre spagnole importate
nell’Ottocento.

Hawaii guitar

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Il Blues dunque si lega agli strumenti a corda, specialmente alla chitarra,
strumento fertile poiché scevro da tradizioni e immediato nell’uso, oltre a
poter convogliare meglio le sonorità di una musica non intellettuale, e non
necessariamente tonale.

W.C. Handy, nominatosi “padre del blues”, raccontò appunto di un incontro


folgorante con un chitarrista blues per strada e compreso il potenziale della
sonorità e della struttura armonica del blues, ripropose il genere con la sua
orchestra, e diede il via alle grandi orchestre blues.

Questo però costrinse a relegare la chitarra a strumento ritmico, o a toglierla


del tutto in favore del pianoforte. La chitarra ancora una volta per le sue
caratteristiche acustiche è costretta ad un ruolo minoritario, più intimo.

Parzialmente questo gap verrà colmato dalla registrazione: con il successo


del blues, poterono essere registrati molti rappresentanti del cosiddetto
“Delta Blues”, ma comunque non poterono uscire dai canoni di una musica
“da camera”, e fino alla nascita della chitarra elettrica, la chitarra, che aveva
permesso la nascita del genere, non trovò lo spazio adeguato nella musica
del periodo.

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2. La chitarra jazz

2.1. Eddie Lang

A cavallo tra il Blues e il Jazz troviamo Eddie Lang, padre della chitarra
jazz, figura innovativa, che rappresenta un esempio perfetto dell’approccio
pioneristico che i chitarristi di ogni generazione hanno dovuto adottare per
fronteggiare la storia del proprio strumento:

Eddie Lang, pseudonimo di Salvatore Massaro, fu un chitarrista americano


di origini italiane. Suo padre infatti era un liutaio italiano e questa vicinanza
con la liuteria e la musica italiana, e gli studi iniziali di violino, tra cui
probabilmente lo studio del solfeggio, permisero a Eddie Lang, di avere un
background notevole in rapporto ai chitarristi dell’epoca. Egli infatti riuscì a
dare un’identità alla chitarra solista, e diede un impulso allo sviluppo
dell’armonia sulla chitarra. Inoltre fu un eccellente chitarrista blues e
registrò con lo pseudonimo di Blind Willie Dunn dischi di blues.

Ascoltando il suo linguaggio sia nel jazz ché nel blues è percepibile la
fusione che stanno adottando i chitarristi da questo momento in poi. Il blues
è la vera radice comune di tutti i chitarristi adesso, ed è pressoché così
ancora oggi. Eddie Lang apporta con originalità alcuni approcci vagamente
“classicheggianti”, ma il suo linguaggio è intriso di blues, come per
esempio la tecnica del bending, ossia la tensione di una corda per alterarla
di semitoni o toni, tecnica tipica del blues e del rock che verrà usata meno
nel jazz proprio per la tendenza a tentare di replicare maggiormente il

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linguaggio dei fiati e del pianoforte, salvo poi trovare spazio nei chitarristi
più moderni e influenzati dal rock.

Ecco qui un esempio dell’uso del bending da parte di Eddie Lang nel brano
di sua composizione “perfect” del 1927, con una struttura tipicamente jazz,
con concatenazioni di 2-5 e turnaround:

Perfect – Eddie Lang – 1927

Eddie Lang costruì le basi del chitarrismo jazz, sia nel fraseggio, essendo le
sue le prime registrazioni di un solo di chitarra, sia nell’accompagnamento,
che nel chord melody, alternando accordi e frasi su una corda, aprendo
le porte al mondo della chitarra solo, la dimensione ancora oggi più
affascinante della chitarra jazz, nella quale è possibile percepire le
innumerevoli capacità sonore della chitarra, molto più di quanto possibile in
un contesto di gruppo.

Ascoltando i brani in chitarra solo di Eddie Lang si possono percepire tutte


le innovazioni apportate dal chitarrista italoamericano, e le influenze nel
suo stile.

Eddie Lang suonava principalmente con il plettro, con una tecnica


decisamente avanzata e sorprendente per la precisione in confronto agli altri
chitarristi dell’epoca. Ma a sorprendere è soprattutto la conoscenza
dell’armonia e del manico della chitarra, l’uso di armonici naturali e
artificiali e gli elementi di musica classica.

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L’introduzione che esegue in chitarra solo nel brano “April kisses” è in
questo senso eccezionale, alcuni passaggi sembrano replicare un tremolo
con il plettro, alternando accordi e armonici, intrecciando elementi che in
parte rimarranno inediti in molti chitarristi successivi. Eddie Lang è dunque
un pioniere, che ha aperto le porte alla chitarra jazz, ma rimane ancora oggi
un caso a sé, da studiare e analizzare proprio per la commistione di
elementi, spesso ancora grezzi, di culture lontanissime.

È importante sottolineare come prima di Eddie Lang la chitarra non fosse


ancora lo strumento cordofono più utilizzato nel jazz e nelle registrazioni di
musica pop dell’epoca, dove si preferiva l’uso del banjo, del mandolino e
dell’ukulele.

Eddie Lang morì prima dell’invenzione della chitarra elettrica, ma nella sua
breve carriera provò ad innovare sfruttando alcune tecniche di
microfonazione per catturare il più possibile alcuni colori della chitarra che
non uscivano fuori dall’accompagnamento ritmico con la microfonazione
classica.

Eddie Lang fu fondamentale per tutta la generazione di chitarristi


successiva, specialmente per Django Reinhardt, che deve ad Eddie Lang sia
l’approccio ritmico, sia chiaramente l’aver aperto le strade alla chitarra
solista. Importanti in questo senso furono i dischi di Lang insieme al
violinista e amico, anch’egli italoamericano, Venuti, che anticiperanno di
dieci anni la collaborazione tra Django e Grappelli.

In contemporanea ad Eddie Lang abbiamo il chitarrista Lonnie Johnson, il


quale fu più vicino al blues per certi versi, ma che esprime insieme ad Eddie
Lang una completezza delle direzioni che assumerà la chitarra jazz. Johnson
non fu altrettanto innovativo come Eddie Lang nella chitarra solo, ma molte
delle soluzioni adottate da Johnson ebbero più successo dell’approccio di
Lang nella chitarra jazz. Se Lang ispirandosi al piano utilizzava larghi

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intervalli e, data la sua conoscenza eccezionale del manico e dell’armonia,
forme di accordi differenti e rivolti, Johnson si concentrava più sull’aspetto
ritmico e sulle geometrie della chitarra.

Ascoltando i brani suonati in duo insieme dei due chitarristi è percepibile


questa differenza, anche di background, lo stile di Lang è più sobrio e
misurato, mentre Johnson sembra già arrivare alla potenza di Wes
Montgomery, con l’uso degli accordi nel solo per rafforzare un’idea ritmica
o per ottenere più potenza, e negli assoli si declina tutta la sua anima blues,
con una pennata più pesante (pennata che Lang usa più
nell’accompagnamento, in cui era imbattibile all’epoca).

Il loro disco del ‘29 Guitar Blues è un fenomeno unico, si percepisce la


libertà dello strumento e le anime che lo compongono, un incontro folle tra
Africa, Italia e la cultura nordeuropea declinata nel country (interessanti a
posteriori ascoltando oggi gli echi bluegrass in “Hot fingers”).

2.2. Django Reinhardt

A prendere lo scettro della chitarra in seguito a questa rivoluzione fu


l’inimitabile Django Reinhardt, considerato uno dei più grandi chitarristi di
tutti i tempi.

Django nacque in Belgio, da una famiglia di etnia sinti, e dopo un lungo


girovagare tra Europa e Nord Africa si stabilì a Parigi con la famiglia. La
sua cultura gitana fu fondamentale per la sua formazione musicale, poiché,
come abbiamo visto con il flamenco, la cultura musicale gitana ruota
attorno alla musica di gruppo, all’improvvisazione in piccole formazioni e
soprattutto agli strumenti a corda.

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A diciotto anni Django aveva già intrapreso una carriera da apprezzato
banjoista, ma in un incidente perse l’uso della gamba destra e parte della
mano sinistra a seguito di un incendio della sua roulotte. Django non poteva
più usare anulare e mignolo e dovette abbandonare il banjo e passare alla
chitarra poiché era meno pesante e ruvida. Django fu quindi costretto ad
elaborare una tecnica per fronteggiare alla sua menomazione. A seguito del
passaggio alla chitarra, Django creò un gruppo insieme al violinista
Stephane Grappelli di soli strumenti a corda, Le Quintette du Hot Club de
France che s’impose come il primo importante gruppo jazz non americano.

Anche Django come Eddie Lang aveva una conoscenza approfondita della
musica classica, ma è affascinante notare come l’elaborazione del
linguaggio classico in Django ancora più che in Eddie Lang sia slegata dalla
chitarra classica: Django conosce l’armonia, suona sugli accordi con la
qualità formale di Bach, ma con il plettro e senza l’approccio polifonico e la
tecnica della mano destra tipica della chitarra classica. I chitarristi quindi
reinterpretano, imitano la musica classica, ma non sono debitori ad una
reale tradizione chitarristica. Django inoltre non sapeva né leggere le parole
né la musica.

Lo stile di Django era sicuramente debitore dell’approccio ritmico di Eddie


Lang che Django ripropose accentuandolo, nella cosiddetta “pompe”,
rafforzando lo swing sul due e sul quattro in maniera veloce e pesante,
approccio che si è poi cristallizzato ed è ancora alla base della pulsazione
del manouche o gipsy jazz.

Django a causa della sua menomazione poteva usare solo determinate


forme di accordi e quindi faceva spesso sostituzioni armoniche che
caratterizzano il suono del manouche.

Le influenze classiche e gitane resero il suo linguaggio unico, l’uso di


arpeggi e ornamentazioni lo rendeva un linguaggio sofisticato e maturo

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rispetto all’aggressività del linguaggio jazz americano dell’epoca. Django
inseriva spesso la scala minore melodica e armonica e la diminuita, che
davano un tocco mediterraneo e esotico al suo linguaggio.

La tecnica di plettrata di Django, che sicuramente muove i passi da quella


raggiunta da Eddie Lang colpisce per la capacità espressiva, per la velocità
e la precisione che poteva raggiungere, e fu fondamentale per disegnare il
suono della chitarra solista jazz e in generale della chitarra, visto lo
sviluppo di una tecnica simile a quello che viene definito “economy
picking”.

Negli ultimi anni della sua vita Django si avvicinò al nascente linguaggio
bebop e tramite un pickup iniziò a suonare per la prima volta elettrificato,
e le registrazioni del periodo sono una testimonianza interessantissima della
capacità pionieristica di un chitarrista come Django capace di riadattare il
suo stile alla nuova dimensione elettrica della chitarra, oltreché di una
qualità straordinaria che ci mostra un musicista al suo apice espressivo.

Il linguaggio di Django in questo periodo certamente si rifà ai fiati del


bebop, e questo ne influenza alcune variazioni, ma anche da un esame
strettamente chitarristico possiamo notare come il confronto con
l’elettrificazione lo porti ad addolcire la sua plettrata, è un suono molto più
legato, il ritmo non essendo più scandito dalle frasi nel suo stile gipsy ora è
molto più legato ad un displacement ritmico, a spazi, risultandone in una
libertà espressiva che la chitarra difficilmente aveva potuto incontrare.

Un esempio di questo cambiamento si può ascoltare nella sua registrazione


di “honeysuckle rose” con la band di Duke Ellington e confrontandola con
la sua precedente registrazione con Grappelli.

Django ripropone alcune frasi in maniera similare in entrambe le


registrazioni, ma l’impatto sonoro è completamente differente: i suoi

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bending melodici e malinconici sulla chitarra acustica hanno ora un sapore
molto più blues, in entrambe le registrazioni esegue una parte suonando per
ottave, anche qui nella versione in elettrico è disarmante il cambio della
pasta sonora, che non è legato solo al supporto elettrico, ma all’approccio
differente che usa Django. Il suono per certi versi è sorprendente quanto sia
vicino al suono che avrà Wes Montgomery quasi dieci anni dopo.

È la dimostrazione di come il chitarrista sia ‘educato’ per natura dello


strumento a reinventarsi, proprio perché non esiste un codice, è il musicista
a creare la tecnica in fieri.

Da sottolineare il fatto che le registrazioni in elettrico siano con sotto una


big band, cosa impensabile prima dell’elettrificazione.

In contemporanea all’esperienza, a tratti unica, di Django in Europa, negli


Stati Uniti l’uso della chitarra elettrica sta già avendo un pioniere che si
inserisce insieme a Django e Eddie Lang tra i padri della chitarra jazz:
Charlie Christian.

2.3. Charlie Christian

Charlie nasce in Texas nel 1916 in una famiglia di musicisti. Charlie


Christian cresce quindi assorbendo la musica blues che è ovunque negli
Stati del sud dell’epoca. All’epoca suonava con un microfono tra le
ginocchia per amplificare il suono della sua chitarra acustica. Al contrario
di Django che si districa all’interno della cultura gitana, abituata alle
piccole formazioni con chitarre, banjo e strumenti ad arco, Charlie Christian
sente da subito l’esigenza di una maggiore potenza di suono.

Due incontri cambiano la sua vita, e la storia della musica.

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Nel 1932 conosce il grande sassofonista Lester Young, ha modo di suonare
con lui in diverse jam session e di studiarne lo stile fluido e lirico, un
approccio che ritroviamo poi nelle improvvisazioni chitarristiche di Charlie:
linee melodiche lunghe e complesse che proseguono oltre i cambi di
accordo, note ribattute e frasi ripetute come ostinati. Ritmicamente,
melodicamente e anche nel timbro, la chitarra di Christian prende
ispirazione dai fiati.

Nel 1939, Christian suona regolarmente nelle orchestre che si esibiscono


nel suo stato. È conosciuto per la sua abilità tecnica, la velocità e la capacità
di creare frasi musicali innovative ed è molto ricercato: pagato 2 dollari e
mezzo a serata, il doppio degli altri musicisti locali.

Viene così individuato dal talent scout John Hammond che lo raccomanda a
suo cognato Benny Goodman, il quale inizialmente non rimane convinto da
Charlie Christian. Successivamente Hammond prova di nuovo a far
schioccare la scintilla dai due: durante un concerto di Goodman in un locale
Hammond fa salire Charlie sul palco. Benny Goodman decide quindi di
chiamare un vecchio brano, Rose Room, sperando di cogliere impreparato il
chitarrista. Charlie Christian però attacca la sua gibson ES 150 e sorprende
Benny Goodman con un solo lunghissimo, tirando il brano per 48 minuti.
Purtroppo solo 3 anni dopo una tubercolosi stroncherà la sua carriera, ma in
pochi anni Charlie Christian riesce a scrivere la storia della chitarra.

Lo stile di Christian è evidentemente debitore di Lonnie Johnson e Eddie


Lang. Ma soprattutto dal primo prende la foga blues, un piglio aggressivo
nonostante il supporto della chitarra elettrica. Qui si nota subito infatti come
l’equivocità dello studio della chitarra generi due direzioni differenti in
Christian e Django. Se il secondo consolidandosi sull’acustica porta
sull’elettrica un suono più morbido, Christian è molto più aggressivo
sull’elettrica.

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Il suono è blues nelle intenzioni, nell’approccio, è chiaro ormai che la
tradizione blues sia il vero vocabolario comune dei chitarristi, però Charlie
Christian sta tentando di riportare sulla chitarra il suono dei fiati, e questo si
sente in due aspetti: Charlie lavora sulla plettrata e sul legato per articolare
come un fiato, cosa che finora non aveva fatto parte dello studio dei
chitarristi che abbiamo osservato. Django ha una plettrata che rimarrà legata
al mondo della chitarra manouche e che a tratti sembra prendere
dall’approccio del flamenco, sicuramente ereditata dalla musica gitana e
dallo stile del banjo. Eddie Lang era altrettanto “classicheggiante” e
acustico nel suono, uno stile che gli permetteva un controllo totale, tanto da
replicare i trilli della musica classica, ma con un suono meno fluido.

L’altro aspetto, non da poco, è l’assenza dei bending: Charlie Christian è


non a caso considerato uno dei padri del bebop. Egli si ritrova a suonare con
tutti i musicisti che di lì a poco avrebbero stravolto il jazz. E per questo
motivo il suo linguaggio si incrocia con il loro, parliamo di una ristretta
comunità di musicisti che sta elaborando insieme una rivoluzione musicale
e quindi implicitamente stabiliscono uno standard, e lo fanno intorno ai
fiati. Charlie quindi difficilmente suonerà bending o frasi eccessivamente
chitarristiche, e questo diventerà il linguaggio preponderante della chitarra
jazz per moltissimi anni.

Nel suono però Charlie Christian innova impercettibilmente: il linguaggio


jazz che si avvicina sempre più al bebop si costruisce in lunghe jam
notturne. È rapido e impulsivo. È sporco. E così come Charlie Parker sul
sassofono, anche Charlie Christian tira fuori un suono grezzo ma sincero.

La differenza rispetto all’ascolto degli altri chitarristi che abbiamo


analizzato è evidente. Sia Eddie Lang ché Django a modo loro sono
caratterizzati da una pulizia formale, nonostante specialmente in Django la
necessità di tirare fuori il suono si traduca in una plettrata scandita e

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pesante. Il loro stile però è formato da cellule ben precise, gli arpeggi e le
scale di Django sono pattern riconoscibili e ancora oggi vengono eseguiti
nella stessa maniera. Ma soprattutto è evidente che per esprimere un’idea
melodica chiara siano costretti dal suono della chitarra a ricercare maggiore
chiarezza possibile. La chitarra al contrario dei fiati non può tenere note
lunghe, così come un colpo forte sulla chitarra non potrà mai raggiungere
l’intensità di un colpo deciso di fiato su un sassofono.

Charlie Christian, in parte aiutato dall’elettrificazione, restituisce un suono


più blues, più grezzo. Rispetto a Lang e Reinhardt è più lontano dalla
musica classica e grazie a questo riesce a dare corpo all’anima della
chitarra.

La chitarra elettrificandosi non perde il suo suono acustico, anzi, la ricerca


che da qui in poi faranno molti chitarristi riuscirà a valorizzare ancora di più
le sfumature della chitarra. Il chitarrista gioca con le possibilità
dell’amplificazione per restituire quelle sensazioni, vibrazioni, quel contatto
viscerale con le corde che normalmente può più facilmente percepire solo
lui.

Da qui partirà una ricerca su come suonare rispetto ai pickup, anche la


plettrata avrà sempre più variazioni, il suono diventa ancora più sincero.

In questo senso la chitarra ha una forte capacità di catturare le emozioni.

L’eredità di Charlie Christian verrà raccolta principalmente da due


fenomenali chitarristi, Barney Kessel e Wes Montgomery, i quali
determineranno definitivamente il suono della chitarra jazz fino agli anni
70, rimanendo ancora oggi fondamentali per la formazione dei chitarristi
jazz.

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2.4. Barney Kessel e Wes Montgomery

Kessel nasce nel 1923 e Wes nel 1924 ed entrambi si formano sulla chitarra
ascoltando Charlie Christian.

Barney Kessel si appassiona alla chitarra sin da piccolo ma crescendo in


una famiglia povera è costretto a studiare da solo e a comprarsi la sua prima
chitarra vendendo giornali. Inizia a suonare in giro e a quattordici anni è già
un musicista completo, tanto che nel 39 a soli sedici anni il suo nome è così
noto che lo stesso Charlie Christian andrà a sentirlo e suonerà con lui in una
storica jam session.

Barney Kessel per sopravvivere inizialmente affiancherà allo studio della


chitarra piccoli lavori come il lavapiatti, e ben presto si riuscirà a farsi un
nome tale da essere uno dei musicisti più ricercati del periodo e diventerà
uno storico sessionman.

Barney Kessel grazie alle nuove possibilità dell’amplificazione elettrica


riuscì a liberare definitivamente la chitarra da un ruolo solo ritmico e
ampliò le possibilità armoniche della chitarra, diventando un maestro del
chord melody e arricchendo le possibilità della chitarra usando inversioni,
valorizzando le scelte melodiche e l’uso delle voci negli accordi.

Oggi l’approccio dei chitarristi è fortemente orientato in questo senso, e si


può dire che ci siano due approcci principali che derivano proprio
dall’intenzione e la scelta nell’uso degli accordi sulla chitarra. Se per
esempio esistono ancora chitarristi che sfruttano simmetrie negli accordi
cercando principalmente la pasta sonora e ritmica della plettrata, come per
esempio fa Peter Bernstein, con un vocabolario di accordi ricchissimo e con
l’uso di armonie quartali, ma sfruttato in un’ottica molto spesso ritmica
prescindendo spesso da una rigorosa logica armonica, la ricchezza
dell’armonia di cui fu pioniere Kessel ha portato oggi molti chitarristi ad un

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uso accorto degli accordi, e allo sviluppo di altre tecniche per suonarli.
Mike Moreno ed altri chitarristi contemporanei per esempio non suonano
gli accordi plettrandoli ma pizzicano contemporaneamente l’accordo con la
tecnica dell’hybrid picking, con l’uso di plettro e dita, ricreando una
sensazione pianistica dell’accordo con la contemporaneità delle voci.

Con Barney Kessel assistiamo quindi a una progressiva conquista delle


scene da parte della chitarra: Barney Kessel è uno studioso indefesso, si
diceva studiasse 16 ore al giorno, e infatti dopo essersi formato nel jazz
nelle strade, coltivò personalmente studi di chitarra classica e
orchestrazione. Ancora una volta il chitarrista si dimostra pioniere, alla
ricerca di nuove modalità, di una soluzione ai limiti della chitarra. Barney
Kessel riesce sia a mostrare la potenza del guitar trio, sia a farsi spazio in
grandi formazioni o per esempio negli anni 50 con il trio di Oscar Peterson.
Proprio in quartetto con Oscar Peterson assistiamo a momenti in cui Oscar e
Barney si alternano, a dimostrazione dello status della chitarra di strumento
armonico.

Nell’album Oscar Peterson Quartet del 1954 per esempio eseguono una
bellissima versione di Body and Soul in cui si dividono la A e la B tra
pianoforte e chitarra e assistiamo ad un livello di raffinatezza del chord
melody che si confronta a viso aperto con il pianoforte di Oscar Peterson.
Sul solo di contrabbasso le loro voci si incastrano alla perfezione.

Come detto, contemporaneamente a Barney Kesell, abbiamo un altro


gigante della chitarra jazz: Wes Montgomery, forse il chitarrista che più di
tutti è riuscito a segnare la chitarra jazz, stabilendone definitivamente il
raggio d’azione e la potenza. Wes Montgomery andrebbe analizzato prima
di tutto come musicista, in quanto prescinde dal mondo della chitarra,
diventando uno dei musicisti più espressivi della musica jazz.

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Cresciuto con i due fratelli Buddy e Monk che inizieranno presto a suonare
uno il piano e l'altro il contrabbasso, all'età di 19 anni ha la "folgorazione"
ascoltando un brano di Charlie Christian.

Da quel momento la chitarra diventa la sua ossessione: compra un


amplificatore e una chitarra e inizia a studiare da solo quelle linee
melodiche copiate dai dischi di Christian.

Nel frattempo si sposa, ha dei figli, lavora come saldatore in una piccola
officina di Indianapolis, ma tornato a casa dal lavoro passa intere notti con
la chitarra in mano. Si dice che fu a seguito delle lamentele dei vicini che
smetterà di usare il plettro e inizierà a suonare con il pollice dando vita al
suo caratteristico suono caldo e ovattato, il suono “alla Wes” che tantissimi
chitarristi cercheranno di imitare.

Wes Montgomery appoggiava la mano destra con le dita aperte, sulla parte
anteriore della chitarra e sul bordo del battipenna proprio dietro il pickup al
manico. Il pollice pizzicava le corde con un colpo rilassato proveniente
dalla seconda articolazione. La punta del pollice era inclinata all’altezza
della prima articolazione con una piega all’indietro. Montgomery
prediligeva i colpi verso il basso, ma riproduceva linee lunghe e complesse
con colpi alternati, quando lo desiderava.

Il fraseggio di Wes, come già quello di Charlie Christian e Barney Kessel,


si rifaceva al suono dei fiati del bebop, ma lui studiò molto anche Django
Reinhardt e in più la sua indole blues lo caratterizzò portandolo ad un
fraseggio personalissimo e comunque fortemente chitarristico.

Come Django anche Wes usava principalmente indice, medio e anulare


della mano sinistra in pieno stile blues e suonava frasi costruite in
orizzontale sul manico della chitarra.

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Wes poi sviluppò appieno la tecnica delle ottave sulla chitarra che avevamo
già visto comparire marginalmente in altri chitarristi. Wes affina la tecnica
rendendola un marchio di fabbrica, ma soprattutto uno strumento espressivo
geniale, infatti era capace di sviluppare anche frasi relativamente complesse
per la tecnica che richiede l’uso delle ottave, con una precisione e uno
swing che rendevano quei momenti il fulcro dei suoi soli, laddove Barney
Kessell per esempio sfrutta maggiormente accordi e inversioni.

È importante sottolineare, da questo punto di vista, come, per quanto sia


possibile arricchire l’armonia sulla chitarra, molte soluzioni come quella di
Wes (ma anche il comping colorato e dolce di Ed Bickert più avanti) e dei
chitarristi più moderni, dimostrano che l’uso di accordi con poche note,
essenziali, sia spesso più efficace sulla chitarra.

Wes suonava le ottave pizzicandole contemporaneamente. Oltre all’uso


delle ottave però, Wes approfondì anche la sua tecnica accordale nei soli.

Rispetto a Barney Kessel, come detto, si concentrò meno sulla ricchezza


degli accordi e sulle inversioni, ma tramite la cosiddetta tecnica dei block
chords mutuata dal piano, eseguiva veloci passaggi dalla forte connotazione
ritmica. Seguiva le note degli accordi e armonizzava le note fuori con
accordi diminuiti sfruttando le geometrie della chitarra.

Montgomery era altrettanto abile nel riarmonizzare e rigenerare una


melodia (il tema) con il suo approccio basato sui block chords, aggiungendo
spesso voicing insoliti e decisamente peculiari per la struttura armonica. Un
esempio ci viene fornito dalle sue sorprendenti performance in standard
come “I’ve Grown Accustomed To Her Face” ma anche nel brano di Wes
titolato “Mi Cosa”.

È interessante notare come la costruzione formale dei soli di Wes sia


diventata parte del ‘vocabolario’ di moltissimi chitarristi.

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3. La seconda rivoluzione silenziosa

La chitarra jazz con Wes Montgomery e Barney Kessel è ormai delineata e


dagli anni ‘50 la chitarra è sempre più predominante. Si è creato un jazz
chitarristico attorno al bebop forte e tagliente e i chitarristi sono riusciti
sempre di più ad inseguire la potenza del fraseggio dei fiati.

“Manca” ancora qualcosa però, è come se alcune premesse nel suono della
chitarra non abbiano trovato ancora il dovuto spazio. C’è un suono,
ancestrale, forse mai esistito realmente, che però è in quelle corde e a tirarlo
fuori sarà Jim Hall.

3.1. Jim Hall

Jim Hall nasce nel 1930 e forse leggermente più in sordina rispetto a tanti
altri nomi che abbiamo analizzato e non, si farà strada nella chitarra jazz
con un approccio quasi cameristico, leggero, incantato. Jim Hall è un
“ingegnere del suono”, un incantatore che libera il suono della chitarra dalle
costrizioni tecniche dello strumento e restituisce l’intimità del contatto con
le corde, con la cassa armonica. Egli si rivela un musicista fondamentale
poiché arricchisce il linguaggio jazzistico: i discorsi di Jim Hall non
suonano mai come un’unione di frasi, ma sono fluidi, pensati, elaborati
come può fare uno scrittore postmoderno, è come se stesse dicendo tutto per
la prima volta, messaggero di un mondo vergine.

Jim Hall nasce in una famiglia di musicisti, la madre una pianista, il nonno
un violinista e lo zio chitarrista, cosa che lo porta ad avvicinarsi alla musica
sin da piccolo. All’età di dieci anni riceve come regalo di Natale una

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chitarra e decide di dedicarsi con impegno allo strumento. Anche Jim Hall
fu influenzato da Charlie Christian, a tredici anni ascoltando Solo Flight
rimane folgorato e inizia a militare in diverse formazioni suonando nello
stile di Charlie Christian. Finite le scuole superiori però si iscrive al
conservatorio, il Cleveland Institute of Music, dove studia teoria e chitarra
classica.

È proprio questo elemento a distinguerlo dagli altri chitarristi finora


analizzati. Anche i chitarristi che avevano approfondito lo studio della
musica classica come Kessel, non avevano studiato chitarra classica. Questi
studi influenzeranno l’approccio di Jim Hall alla chitarra jazz.

Jim Hall pensa anche in maniera polifonica, ma soprattutto è attento al


tocco, al suono acustico dello strumento. Ha una concezione precisa della
melodia e dello spazio che spesso sfrutterà come in una suite classica. Jim
supera in qualche modo la paura giustificata di perdere potenza del suono,
ed egli stesso continuerà per tutta la vita una ricerca del suono anche con
sintetizzatori ed effetti.

Egli quindi sin da subito può unire due anime, quella jazz-blues della
chitarra di Charlie Christian e dei fiati bebop che lo ispireranno, ma anche
un’anima quasi inedita fino a quel momento, quella della chitarra classica,
uno strumento a suo modo “incompleto”, che non aveva trovato un reale
posto all’interno della musica classica. C’è quindi l’influenza di quel
mondo della chitarra classica, intimo, molto influenzato dalle sonorità
spagnole a loro volta sintesi di svariate culture dell’Europa, del medio
oriente e del Nord Africa.

Attraverso la chitarra di Jim Hall respiriamo nel jazz questa sintesi di


culture che si rincontrano, che si fondono, con il piglio di un musicista colto
che si affaccerà anche all’avanguardia. Sono aspetti che potrebbero
sembrare peculiarità uniche di un musicista coltissimo, ma che in realtà

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indicano delle direzioni, poiché finalmente si riesce a percepire il potenziale
inespresso che c’è nel suono della chitarra.

Le idee musicali di Jim Hall passano proprio attraverso la chitarra, l’unico


strumento a quel punto che possa incarnare tutte quelle anime.

Un esempio interessantissimo è il disco Western Suite registrato con il


sassofonista Jimmy Giuffré e con il trombonista Bob Brookmeyer. L’idea di
Giuffré era quella di creare un trio che non avesse nessuna ritmica a tenere
il tempo metronomico e dove l’improvvisazione e l’interplay fossero il
motore trainante di questo nuovo esperimento. Ne esce fuori un disco
sognante, molto più vicino alla musica contemporanea che al jazz, nel quale
Jim Hall si trova a confrontarsi con una formazione insolita per un
chitarrista del periodo, ma soprattutto affina le sue qualità
nell’arrangiamento, nella scelta dei voicing, in quello stile chitarristico
pieno di spazi e respiri gestiti bene.

La rivoluzione di Jim Hall come già detto è proprio questa, riuscire a creare
spazio con la chitarra, e non è una cosa da poco. Spesso il chitarrista per
fronteggiare la poca resa sonora della chitarra deve riempire gli spazi,
infatti abbiamo visto una già consolidata tradizione anche di soli in block
chords ritmici e pieni di corpo, con Jim Hall abbiamo accordi sospesi, come
pennellate su un dipinto, pieni di colori e capaci di restare.

Il suono di Jim Hall riesce ad essere moderno, pur essendo principalmente


acustico, proprio perché più di altri è stato capace di restituire quel suono
vero, che era rimasto bloccato dai problemi dell’amplificazione: è un suono
vero, come è vera la materia del suo fraseggio.

Non è un caso quindi che due tra i più grandi chitarristi della loro
generazione, Pat Metheny e Bill Frisell furono suoi allievi. È proprio dalla

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sua ricerca che provengono le principali intuizioni sperimentali della
chitarra jazz di oggi.

Jim Hall non è chiaramente l’unico, la musica si nutre della molteplicità,


ma spesso la ricerca in ambito chitarristico di nuove sonorità sembra
derivare dalle intuizioni di Jim Hall.

Ascoltando i dischi in duo con Bill Evans, Undercurrent e Intermodulation,


o per esempio il disco live At north sea jazz festival in duo con il
trombonista Bob Brookmeyer si ha come la sensazione che lo strumento sia
arrivato al suo apice. Volendo usare una metafora, la perfezione nella
musica e soprattutto nel jazz è l’atto di spogliarsi, di sincerità con sé stessi e
quindi con il pubblico e come un novello San Francesco, Jim Hall privo dei
suoi vestiti parla con la chitarra.

Siamo dunque arrivati ad una cristallizzazione di quella che è la chitarra


jazz detta “tradizionale”, siamo passati attraverso le radici del blues di
Eddie Lang, la cultura gitana ed europea di Django, del bebop di Charlie
Christian, e quindi di Barney Kessel e Wes Montgomery. Abbiamo visto
come i chitarristi hanno approcciato il materiale del loro tempo in maniera
differente, ciascuno figlio della propria tradizione. Abbiamo visto Django e
Barney Kessel rievocare il linguaggio della musica classica e invece Jim
Hall esplorare il linguaggio della Chitarra classica.

Abbiamo visto i chitarristi confrontarsi con il problema dell’amplificazione,


esplorare le possibilità sonore delle nuove tecnologie. Chiaramente gli
interpreti di questi cambiamenti, di queste personali ricerche sono
tantissimi, non ho nominato chitarristi straordinari come Joe Pass, Pat
Martino, George Benson, Grant Green o Ed Bickert, che a modo loro hanno
anche loro dato tantissimo alla conoscenza del manico e delle corde della
chitarra.

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In questa ideale e arbitraria suddivisione cronologica fa però l’ingresso un
fattore che sarà determinante per la chitarra jazz e per la chitarra in generale
dalla fine degli anni sessanta in poi, e che in varie misure investirà anche
alcuni dei chitarristi già analizzati.

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4. La terza rivoluzione: Il Rock

C’è indiscutibilmente una chitarra prima e dopo il rock, molto più rispetto
al percorso della chitarra jazz, se non nell’influenza che quest’ultima ha
avuto sullo sviluppo della chitarra rock. Il rock infatti è la prima vera e
propria musica non territoriale costruita quasi interamente sulla chitarra. Ed
è proprio grazie al rock che la chitarra si farà molto più spazio all’interno
del jazz, fino ad assumere il ruolo primario che ha spesso oggi.

È il 1968 quando esce Miles in the Sky di Miles Davis, album in cui si
possono rintracciare i primi elementi della trasformazione che avverrà con
In a silent way e Bitches Brew e in qualche modo con la nascita della fusion
o jazz-rock. In Miles in the sky alla chitarra elettrica c’è George Benson,
chitarrista eccezionale a cavallo tra Wes Montgomery e la chitarra “black”
che verrà dopo e che deve tutto a lui. Nei suoi soli riconosciamo ancora
forte lo stile proprio di Wes, se non si conoscesse quanto avvenuto dopo si
potrebbe dire che tutto sommato, a parte gli arrangiamenti e l’approccio non
più swing, che la chitarra non abbia subito grossi cambiamenti.

Bastano due anni e nel ’70 esce Bitches Brew, alla chitarra c’è un inglese,
John Mclaughlin. Ora è tutto differente: il suono della chitarra di Mc
Laughlin è acuto, distorto, una plettrata violenta segna piccole incursioni
sonore, non è un elemento ritmico, sembra di ascoltare i fiati del free. Nella
traccia “John Mclaughlin” si inserisce con brevi frasi distorte in cui esegue
bending e vibrati, sembra completamente un altro strumento. Si sente il
blues, tantissimo, ma come filtrato da un nuovo mondo. La chitarra è piena
di riverbero e come detto prende molto più spazio, riecheggia, crea un
tappeto sonoro.

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Quanto ascoltiamo in Bitches Brew però sorprende solo perché compare in
un disco a nome di Miles Davis, maestro del jazz che solo dieci anni prima
era a suonare con John Coltrane. Quel suono per la chitarra è ormai
consolidato da quasi 10 anni. Si può prendere un qualsiasi disco degli anni
sessanta fuori dal jazz per scovare quei suoni. Acuti, taglienti, distorti, con
le chitarre che eseguono frasi violente, bending e una plettrata decisa. Una
tradizione di chitarristi senza una grande cultura chitarristica, cresciuti con
il blues e il primo rock’nroll sta segnando la musica e un’intera
generazione.

Sono grezzi e semplici, basta ascoltare i dischi dei Rolling stones, dei
Beatles, dei Cream o di Jimi Hendrix: rispetto alla tecnica, alla conoscenza
del manico raggiunta dai maestri della chitarra jazz sin qui analizzati, questi
chitarristi sembrerebbero non avere niente. Ma hanno un suono che
affascina, un suono inedito nella storia della musica. Scombina le carte,
poiché è effettivamente qualcosa mai ascoltata prima, un’energia ancestrale
che evolve dal blues. Ed è affascinante notare come l’approccio che hanno i
chitarristi rock negli anni sessanta ricalchi un po’ i primi passi della chitarra
jazz. Alcuni hanno sì studiato un po’ di jazz, ma sono giovanissimi e privi
di veri riferimenti, e esplorano. E forse il rock nasce grazie a questa natura
nomade della chitarra, nessun altro strumento si concede così a uomini
senza radici.

Prendiamo a caso tra i vari Purple Haze: Jimi Hendrix sta “inventando”, ciò
che fa non esisteva realmente nella chitarra prima, tutto ciò che veramente
si può rintracciare è la traccia del blues, anarchica per definizione, e un po’
di geometrie sul manico. Il “solo” dopo qualche frase si regge tutto su una
nota tesa in bending con violenza e plettrata a ripetizione, un suono
dirompente che nessuna chitarra avrebbe potuto fare prima. Jimi Hendrix
suona una stratocaster, una chitarra solid body, senza alcuna cassa

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armonica. La sua voce è l’amplificatore, la distorsione generata dagli
amplificatori rotti diventa il suo strumento.

Voodoo Child inizia con un riff con il wah, un pedale che azionato attiva e
toglie un filtro sul suono della chitarra, e poi parte il brano con un suono
violento di chitarra, poche note, picchiate, con una potenza inaudita e poi un
solo che regge sempre su poche note in bending ripetute velocemente, ogni
tanto filtrate dal wah: la chitarra ora sovrasta ogni cosa, è il suono
principale che esce dai dischi, la batteria e il basso lavorano in sottofondo.
È quasi difficile descrivere un suono così dirompente, soprattutto rendere
l’innovazione che rappresentava in quel momento. Più avanti nel solo Jimi
inizia a passare il plettro trasversalmente sulle corde su e giù per il manico.
La chitarra nel rock sostituisce realmente i fiati del jazz: c’è come un
legame fuori dal tempo tra l’ultimo Coltrane e Jimi Hendrix.

Quest’approccio naive dei nuovi chitarristi si traduce anche nei voicing, un


po’ del blues, un po’ del country, del pop. La chitarra a questo punto prende
tutto, senza limiti. Per capire come viene rielaborato l’uso dei voicing da
chitarristi come Jimi Hendrix basta ascoltare John Scofield: nel suo brano
Holidays, una sorta di canzone jazz-rock, si sentono evidentemente i
voicing di Jimi Hendrix. Sono semplici, immediati, impensabili prima
dell’elettrificazione del rock.

4.1. Gli Anni ’70: la sperimentazione

Negli anni ’70 con la nascita del cosiddetto Progressive Rock, l’operazione
del rock si incrocia con il passato, si mescola: i chitarristi di questa nuova
generazione hanno una conoscenza tanto del rock degli anni sessanta,
quanto della chitarra jazz e della chitarra classica. Nei dischi dei Genesis e
degli Yes troviamo tutti questi elementi, per la prima volta insieme in uno
stesso chitarrista. È come se nel viaggio che abbiamo percorso dai primi

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strumenti a corda fino a questo momento per la prima volta queste tracce
nomadi della chitarra si incontrassero. Steve Howe, chitarrista degli Yes, è
un ottimo esempio di questa nuovo sincretismo, egli studia sin da piccolo la
chitarra jazz, studia lo stesso Charlie Christian, ma anche la chitarra
classica, il flamenco e poi il blues e il rock’n roll. Fragile degli Yes inizia
proprio con un’introduzione di chitarra classica, e poi esplode in un rock
con soli fortemente influenzati dalla tradizione jazz.

In generale l’esplosione mondiale della chitarra, porta con sé tutte quelle


innovazioni e tradizioni che erano rimaste spesso relegate a esperienze
territoriali o di alcuni chitarristi: il flamenco, la musica latina con Santana,
la chitarra bossa nova, il jazz, il rock, la chitarra classica. È come se d’un
tratto l’uomo avesse esplorato un pianeta lontano, che era sempre stato lì,
sotto ai suoi occhi. Ma soprattutto la chitarra proprio per questa natura
sincretica e allo stesso tempo equidistante da ogni radice, unisce tutto senza
preoccuparsi di un’autorità musicale.

La sperimentazione negli anni settanta viaggia nel solco della chitarra e


dialoga fortemente con il jazz. Per esempio Robert Fripp porterà avanti
un’esplorazione matematica della chitarra e svilupperà un’accordatura per
quinte in una sorta di avanguardia jazz. La chitarra sembra poter dare voce
a paesaggi che sembravano muti.

La musica ‘americana’, il bluegrass, attraverso la rivoluzione della chitarra


acquisiscono un immaginario sonoro, quello del deserto. La chitarra diventa
uno strumento lirico, sonoro, ma al contempo ritmico. Si sviluppa il suono
della moderna musica africana rielaborando su economiche chitarre
elettriche il suono degli strumenti a corda che avevamo analizzato all’inizio.

La tecnica si affina anche grazie alla tecnologia: la resa e la pulizia che si


può raggiungere con la moderna amplificazione dà vita ad una generazione
di chitarristi fortemente tecnici, che in qualche modo danno vita in fieri a

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questa tecnica chitarristica. L’uso del mignolo e la stessa posizione della
mano cambia e il suono e il modo di suonare la chitarra si sviluppano
intorno agli effetti, alla leva, agli amplificatori.

Questo si riflette nel jazz in una generazione di chitarristi nati a cavallo di


tutti questi mondi, una generazione di ‘viaggiatori dimensionali’ che
influenzerà a tal punto il jazz da avere un culmine chitarristico che supererà
in influenza e produzione tutti gli altri strumenti del jazz. È la generazione
di John Scofield, Bill Frisell, Pat Metheny, John Abercrombie e Mike Stern.
Questi chitarristi conoscono la tradizione, sono cresciuti nel rock e nel
progressive, si nutrono della loro tradizione americana, e stanno cercando
nella sperimentazione.

Nello specifico, John Scofield e Bill Frisell sono in qualche modo gli alfieri
della chitarra jazz contemporanea, gli ideali prosecutori di quel viaggio
iniziato con Eddie Lang, e che soprattutto partendo da quella che è stata la
rivoluzione di Jim Hall, hanno saputo aggiornare il linguaggio della chitarra
jazz a seguito dello stravolgimento del rock.

4.2. John Scofield

John Scofield nasce nel ’51 e sin da ragazzo inizia a suonare la chitarra in
ambito R&B e soul, avvicinandosi dopo al jazz. La sua infatti è una delle
prime generazioni cresciuta già in un’era “post-jazz” e il suo inconfondibile
stile nel jazz infatti rispecchia questa nuova natura dei chitarristi. Come
Frisell, Metheny e Stern anche lui studia a Berklee.

Nel ’69 quindi si avvicina al jazz e alla nascente scena jazz rock, e il suo
debutto vero e proprio lo ha con la band di Billy Cobham George Duke,
musicista a cavallo tra jazz, funk e fusion, che lavorò anche con Frank
Zappa.

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Il successo arriva però negli anni ottanta collaborando nei dischi jazz-funk
dell’ultimo Miles Davis, dove trova la definizione del suo stile e dopo
questa esperienza porterà avanti la sua prolifica carriera, sia in dischi da
leader in cui esplora sia il jazz classico, sia la sua personale commistione tra
jazz e soul.

La caratteristica del suo suono è la prova del cambio paradigmatico della


chitarra jazz che stava già avvenendo dall’esperienza di John Mclaughlin:
Scofield, anche nei dischi più intimi e acustici, usa quasi sempre
l’overdrive, un effetto che riproduce la tipica ‘distorsione’ prodotta dagli
amplificatori rotti e che era la caratteristica del suono che abbiamo trovato
anche in Jimi Hendrix, ma in generale rappresenta il suono della chitarra
rock. Scofield lo sfrutta per tirare fuori un suono potente, pieno di alte,
attraverso il quale si avvicina molto di più ai fiati, ma soprattutto crea un
ponte credibile e funzionale tra il rock e il jazz, e lo fa senza sacrificare il
linguaggio jazzistico, né necessariamente tradendo l’anima swing del jazz.
Ed è proprio in questo che lo stile di Scofield risulta innovativo.

Se la generazione di chitarristi precedente tende a farsi prendere dal rock al


punto da costruire un linguaggio fusion a sé stante da quello jazzistico,
Scofield riesce a rievocare alla perfezione la tradizione, che è vivace, si
sente nel suo fraseggio.

Dall’altra parte però la condisce di bending e vibrato, di un fraseggio


ritmico che strizza l’occhiolino al funk, ma in realtà è come se si
avvicinasse di più a certo solismo dei sassofonisti alla Parker, con soluzioni
inedite per la chitarra jazz.

Allo stesso tempo però Scofield è in piena sintonia con la chitarra jazz di
Wes Montgomery, e per esempio l’uso che fa delle ottave è una versione
aggiornata dell’approccio di Wes, salvo poi magari inserire voicing che
sembrano uscire da una canzone di Jimi Hendrix. Quello che porta la

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chitarra jazz con Scofield a dominare dagli anni Ottanta in poi il mondo del
jazz è proprio questa capacità di essere un ponte, una summa del
Novecento, sostenuta poi negli anni da una ricerca nelle radici country e
blues dell’America che dona alla musica di Scofield una liricità unica.

Interessanti per comprendere il nuovo percorso della chitarra jazz intrapreso


con questa generazione di chitarristi sono i dischi in collaborazione fatti tra
di loro, come “I can see your house from here” insieme a Pat Metheny e i
dischi del gruppo Bass Desires di Marc Johnson insieme a Bill Frisell. In
questo periodo di trasformazione della chitarra infatti si costruiscono
talmente tante strade ché a volte sembra di ascoltare strumenti differenti
nell’interplay tra questi chitarristi. In parte sostenuti dall’effettistica, in
parte dalle formazioni differenti di ciascuno di loro, in questi dischi
vediamo mondi che si incontrano attraverso la chitarra.

L’esigenza di creare un nuovo spazio della chitarra jazz si traduce anche


nell’anima compositiva di questi chitarristi. Sono vari i dischi in cui
Scofield propone sue composizioni, scrivendo anche molti contrafact di
standard con la riedizione del suo stile. Dischi come “A gogo” in
collaborazione con il gruppo jazz-funk martin medeski wood per esempio
hanno influenzato un intero modo di approcciare al jazz, nel bene e nel
male, aggiornandolo nel nuovo millennio. Scofield nel disco come in altri
contesti non si pone problemi nell’alternare il linguaggio jazzistico a un
linguaggio puramente blues come quello di Stevie Ray Vaughan, e questo
ha influenzato tutte le generazioni successive. Che siano più vicini alla
tradizione o più sperimentali, la lezione di Scofield è stata interiorizzata al
punto da essere rielaborata, da essere celata anche nei musicisti più lontani
da quell’approccio. Per esempio Adam Rogers, che ha studiato proprio con
Scofield, è un chitarrista jazz moderno, che spazia da progetti più
sperimentali a un approccio ‘tradizionale’, ma approccia al blues con
l’intenzione di Scofield e si percepisce come il solco Wes – Benson –

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Scofield sia diventato uno standard nella formazione jazz-blues dei
chitarristi moderni.

4.3. Bill Frisell

Siamo arrivati dunque a Bill Frisell, forse il chitarrista più importante di


questa generazione, colui che ha aggiornato la lezione di Jim Hall e l’ha
trasportata nel nuovo millennio, mostrandoci tutte le vie, anche più
improbabili che si potevano seguire studiando Jim Hall. Come il suo
Maestro, Bill Frisell è difficile da catalogare all’interno di un genere solo,
nonostante in qualche modo riesca a interpretare perfettamente l’anima del
jazz, ma la sua ricerca sulla chitarra nasce proprio da un approccio quasi
storico e antropologico, che si ripercuote nei numerosi stili che
caratterizzano il suo suono.

Nella musica di Frisell riconosciamo uno studio approfondito del jazz e


soprattutto del jazz delle origini, con un lavoro come quello di Jim Hall che
va alla radice, all’essenziale dei grandi standard, facendone uscire la forza
delle melodie. Lo stile di Frisell è però anche vastamente intriso di quelle
sonorità definite “americana”, a cui appartengono il bluegrass, il country e
in generale quel folk americano delle origini che ha molto in comune con il
jazz delle origini. Bill Frisell infatti grazie alle possibilità della chitarra,
come una macchina del tempo la sfrutta per rievocare quei suoni che
sembrano appartenere da sempre alla storia dell’america, e li fa passare
attraverso un approccio sperimentale al manico della chitarra: c’è una
costruzione di soli e accompagnamento che riprende dalla chitarra classica
come Jim Hall, ma c’è anche lo sperimentalismo sia con effetti sia con
tecniche disparate, in alcuni live usa addirittura un bottleneck per fare slide
guitar, senza perdere quella poetica dell’essenziale ereditata da Jim Hall.

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Tutto ciò ha portato Frisell ad ottenere un suono riconoscibilissimo: la
caratteristica principale del suono di Frisell sta nel leggero ‘vibrato’ in ogni
accordo o nota suonata facendo vibrare o ondeggiare il manico della
chitarra. L’altra caratteristica principale del suo stile è un’orchestrazione
minimalista che gioca molto sugli intervalli. Rispetto ai block chords e ad
accordi complessi, Frisell preferisce tinteggiare l’armonia con seste o
seconde, o in generale con accordi semplici, di solito sfruttando massimo
tre note e usando molto spesso corde a vuoto e armonici. Questo rende sia
l’accompagnamento che il chord solo molto più pieno, sfruttando le
caratteristiche della chitarra. Questa tendenza è stata accolta anche dalle
nuove generazioni di chitarristi che pur discostandosi dallo stile minimalista
di Frisell, tendono molto più spesso a far uso di poche note nei voicing, a
giocare sugli intervalli o a spezzettare l’accordo, come fa spesso Lage Lund
che ha costruito molto del suo fraseggio a note singole da una decostruzione
dell’accordo.

L’uso degli effetti di Bill Frisell è un altro aspetto da non sottovalutare e


che ha fatto scuola nella chitarra jazz contemporanea. Se durante gli anni
’80 durante il “boom” della chitarra jazz si è fatto largo uso di alcuni effetti,
come overdrive, chorus e delay, a superare la prova del tempo è stato più di
tutti forse l’approccio di Frisell, ancora una volta nel solco di Jim Hall.
Frisell nel corso della sua carriera ha sperimentato moltissimi suoni, sin dal
suo disco d’esordio in chitarra solo “In Line” spicca il suo approccio
nell’uso di riverbero, delay e pedale del volume per creare un effetto simile
all’effetto di uno strumento ad arco, ma anche nei momenti più sperimentali
non ha mai ceduto al valore del suono acustico dello strumento e questo ha
portato ad un dialogo continuo tra la chitarra, come strumento acustico, e la
sua amplificazione e gli effetti. Questo fa sì che nei dischi di Frisell
permanga quel legame con il passato e la tradizione che è il faro nel
proseguire il percorso della chitarra jazz.

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5. Conclusioni: La chitarra jazz oggi

La chitarra jazz dopo gli anni ’80 si è sviluppata nel solco di quella
generazione di chitarristi, di cui facevano parte Scofield e Frisell, e
parallelamente si è consolidata una scuola di chitarra fusion, in dialogo
costante con il rock e il metal, da cui sono usciti molti chitarristi con una
grande tecnica ma che si stavano allontanando sempre più dal linguaggio
jazz.

Il mondo della chitarra jazz ha quindi risentito di queste influenze, e, in


generale, le generazioni di chitarristi jazz e affini successive hanno portato
ad uno sviluppo di un fraseggio sempre più articolato, veloce e tecnico.

Tra i chitarristi più importanti in questo senso troviamo Kurt Rosenwinkel,


chitarrista capace però di contenere anche le anime della tradizione jazz,
pur attraverso una tecnica molto più complessa e articolata dei suoi
predecessori.

Sul solco tracciato da Frisell e Scofield, come dicevo, si sono mossi i


chitarristi più disparati, a prescindere dalle loro affinità musicali. Vari
chitarristi per esempio hanno affrontato un lavoro sulla polifonia nella
chitarra jazz ricostruendo in qualche modo uno standard e riattualizzando
certi principi della chitarra classica.

Tra questi abbiamo Gilad Hekselman e Julian Lage, entrambi influenzati


dalla ricerca di Frisell.

Un aspetto interessante è l’influenza che l’approccio compositivo di Frisell


ha avuto sui chitarristi più moderni, come lo stesso Julian Lage: c’è

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un’urgenza nel mondo della chitarra di costruire un repertorio, uno
“standard” prettamente chitarristico, e questo ha fatto sì che la loro ricerca
si indirizzasse in un’ottica meno improvvisativa, allontanandosi in qualche
modo dal jazz.

Dall’altra parte la libertà e la ricerca nella musica folk americana, portata


avanti da Frisell e Scofield, ha influito in parte sul fiorire di esperienze
chitarristiche da ogni parte del mondo nell’indirizzo delle musiche
tradizionali locali.

L’esempio più interessante è rappresentato da Lionel Loueke, chitarrista del


Benin, che ha unito il jazz con la musica africana, ma soprattutto con la
chitarra africana, che rappresenta una sorta di rielaborazione degli stili nati
sugli strumenti a corda dei vari paesi africani.

Lionel Loueke fa uso principalmente di corde in nylon e ha un suono


caratteristico che ultimamente viene utilizzato anche da altri chitarristi,
tentando di imitare quella pronuncia unica della musica e della chitarra
africana.

Per esempio Reinier Baas, chitarrista olandese, e uno dei nomi più
importanti nella ricerca di nuovi approcci nella chitarra jazz, nei dischi di
Simone Graziano con il gruppo Frontal, propone una rivisitazione del suono
della chitarra africana, che si inserisce perfettamente nella musica
poliritmica ed esotica del progetto, e sfrutta questa poliedricità della chitarra
per creare paesaggi, soprattutto suggestioni.

Reinier Baas porta avanti inoltre uno stile unico che sfrutta le corde a vuoto
anche nel fraseggio e che mutua il suo approccio ritmico, nel comping,
dalla chitarra punk e new wave, arricchendo il suo jazz avanguardistico con
questa violenta anomalia all’interno del jazz.

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Gli esempi potrebbero essere tantissimi altri, ma il fulcro di questo viaggio
nella storia della chitarra jazz è comprendere come la chitarra sia uno
strumento nomade, una scheggia senza radici, e al contempo con radici
ovunque.

Come il Jazz, non può avere una dimensione cristallizzata, se ne può


insegnare la storia, si può trasmettere l’esperienza dei grandi chitarristi che
ci hanno preceduto, ma non può avere una forma stabilita, e per questo
ringrazio il Maestro Fabio Zeppetella per avermi fornito i mezzi per portare
avanti questa ricerca da solo, non dimenticando mai quella tradizione che ci
insegna proprio ad osare, a creare sempre, sfruttando i limiti del proprio
strumento per trovare nuove strade.

Per me il percorso è ancora molto lungo, ma ora posso affrontarlo con il


sorriso, con la sensazione di far parte di un viaggio infinito, quello della
chitarra, uno strumento nomade.

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RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare innanzitutto i miei genitori per avermi fatto appassionare


alla musica sin da piccolo, e per avermi sostenuto sempre, anche nei
momenti più difficili di questa mia personale ricerca.

Ringrazio tutti i Maestri con cui ho studiato, e specialmente il Maestro


Fabio Zeppetella, per avermi dato fiducia nelle mie capacità, e per le lezioni
che mi accompagneranno, al di là di questo percorso di studi, per tutto il
mio viaggio nella Musica.

Ringrazio infine i miei fratelli e i miei amici, senza i quali probabilmente


non sarei stato capace di affrontare le mie paure e credere nelle mie
passioni.

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SITOGRAFIA

https://it.wikipedia.org/

www.musicoff.com

www.laviadellachitarrajazz.com

www.guitarclubmagazine.com

www.guitarprof.it

www.percorsimusicali.eu

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DISCOGRAFIA

Eddie Lang, Lonnie Johnson, 1967, “Blue Guitars”

Eddie Lang, 1927, “Presenting Eddie Lang”

Django Reinhardt with Duke Ellington and his Orchestra, 10 novembre 1946,
Civic Opera House, Chicago

The Oscar Peterson quartet, 1955, “The Oscar Peterson quartet”

Jimmy Giuffre, 1958, “Western Suite”

Jim Hall, Bob Brookmeyer, 1979, “Live at the north sea jazz festival”

Bill Evans, Jim Hall, 1966, “Intermodulation”

Miles Davis, 1968, “Miles in the sky”

Miles Davis, 1969, “Bitches Brew”

Jimi Hendrix, 1967, “Are you experienced”

John Scofield, 1998, “A go go”

Bill Frisell, 1983, “In Line”

Marc Johnson, 1986, “Bass desires”

Bill Frisell, 2001, “Bill Frisell (with Dave Holland and Elvin Jones)

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