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Candidato: Relatore:
Matricola: 6000TR
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INTRODUZIONE
Quando, anni fa, mi sono avvicinato alla musica, inizialmente avevo scelto
di suonare il basso, ma è stato un amico di famiglia, chitarrista, a
suggerirmi di iniziare con la chitarra per avere un approccio più completo
alla musica, e da quel momento affrontando la chitarra ho avuto sempre un
rapporto “problematico” con lo strumento, una ricerca che appartiene a tutti
i musicisti, ma che sulla chitarra ancora più spesso, a mio giudizio, si
avvicina ad una ricerca spirituale ed apre ad un lavoro su di sé per tutta la
vita.
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La lezione che ho appreso da quei chitarristi è stata la “resilienza” (termine
purtroppo abusato al giorno d’oggi), la capacità di essere sé stessi e spiccare
nonostante tutto. Ma soprattutto quello che ho sentito dai grandi della
chitarra è stata l’esaltazione di quelle che per me erano apparenti difficoltà
dello strumento, e ascoltandoli sapevo chi erano, da dove venivano e cosa
volevano essere.
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di tenere insieme tutte le lezioni dei grandi del Jazz, la chitarra, figlia dei
più antichi strumenti creati dall’uomo, può e deve essere custode delle
tradizioni e allo stesso tempo dirompente e anarchica, proprio perché priva
di un unico denominatore. La chitarra è uno strumento nomade.
Se per gli strumenti a fiato si può osservare, infatti, come lo sviluppo della
loro dimensione solistica determini e coincida con lo sviluppo stesso della
musica jazz, o, se consideriamo il pianoforte, possiamo trovare un rapporto
conflittuale ma al contempo dialogico e consequenziale con la musica
classica, la chitarra, invece, si affaccia al jazz in maniera disunita, senza una
tradizione comune appartenente a tutti i chitarristi e, dato il ruolo a volte da
outsider, senza potersi identificare completamente con i paradigmi del
linguaggio jazz, nonostante, come un attore nascosto, ne abbia influenzato
spesso le evoluzioni.
Ogni chitarrista jazz sarà quindi a suo modo un pioniere dello strumento,
costruendo una tradizione in fieri, una “non-tradizione audiotattile” per
eccellenza.
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Per comprendere appieno questa differenza basti pensare alla chitarra nei
primi anni del Novecento: uno strumento cordofono pizzicato suonato
principalmente in piccole formazioni o da solo per motivazioni acustiche di
volume, con una letteratura musicale scarna in confronto alla maggioranza
degli strumenti della musica classica, che però, grazie alla comodità di
trasporto e d’uso, viene utilizzato in svariati contesti di musica popolare nel
mondo, tra i quali il nascente Blues.
Dunque nel periodo in cui si va a costruire il suono del Jazz, che tutti
riconosciamo oggi, la presenza della chitarra è marginale, tuttavia non è
solo l’esclusione dai grandi processi ed evoluzioni della musica jazz ad
influenzare la storia e il suono della chitarra jazz (infatti come vedremo il
bebop e la chitarra jazz condividono un grande padre come Charlie
Christian) quanto il rapporto “problematico” che i chitarristi avranno con lo
strumento.
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Nel corso della tesi farò quindi un excursus sulla storia della chitarra, prima
del Jazz, nel Jazz, fino a giungere allo stato dell’arte attuale, esaminandone
le diverse modalità d’uso, l’evoluzione, le contaminazioni, le prospettive.
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INDICE
INTRODUZIONE................................................................................................................2
1.2. I Liuti..................................................................................................................11
1.7. IL Blues..............................................................................................................19
2. La chitarra jazz...........................................................................................................22
RINGRAZIAMENTI.........................................................................................................53
SITOGRAFIA....................................................................................................................54
DISCOGRAFIA.................................................................................................................55
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1. Storia della Chitarra
Col passare del tempo i popoli del passato affinarono la tecnica per
realizzare cordofoni sempre più evoluti, ideando anche degli strumenti utili
ad aumentare l’intensità del suono prodotto, come nel caso dei risuonatori.
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Molti popoli conoscevano e apprezzavano gli strumenti a corde: dagli egizi,
che insieme ai popoli ebraici, ai popoli della Mesopotamia, ai greci e ai
romani usavano soprattutto arpe, cetre e lire, ai popoli asiatici, che invece
usavano altri tipi di cordofoni, quali il k’in a sette corde, il p’ip’a a quattro
corde (entrambi di origine cinese), la vina indiana e il sarangì a quattro
corde indiano.
La p’ip’a, uno strumento di origine cinese, è uno dei primi esempi di liuto,
ha quattro corde ed è generalmente accordata in La-Re-Mi-La. Inizialmente
veniva suonata con un plettro e successivamente venne sviluppata la tecnica
con le dita, molto simile all’attuale approccio della chitarra classica, con
tecniche di “strumming” simili al rasgeado.
Il guqin o k’in appare molto simile all’odierna lap steel, è una tavola con
sette corde accordata in do, re, fa, sol, la, do (ottava), re (ottava) e viene
suonata pizzicando con una mano le corde e con l’altra toccando lievemente
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per riprodurre degli armonici, oppure glissando le dita creando l’effetto
dello slide.
Lap steel
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Ascoltando questi due strumenti è interessante osservare come la loro
accordatura riesca da sola a codificare un immaginario sonoro, a
rappresentare una specifica cultura musicale. L’accordatura di questi
strumenti è un mondo a sé stante ma anche un ponte, una possibilità che
non hanno altri strumenti canonizzati dall’occidente.
1.2. I Liuti
Attorno al Medioevo, la diffusione dei vari strumenti della famiglia dei liuti
ha cristallizzato i suoni di svariate culture musicali popolari.
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l’assenza di vere progressioni armoniche e invece un approccio più
“modale”, influenzato evidentemente dallo stretto legame con la kora e le
sue caratteristiche simili ad un’arpa. Questi elementi compaiono infatti
anche nella contemporanea chitarra africana pizzicata o plettrata spesso
stoppando il suono con il palmo, usando corde di nylon (il chitarrista Jazz
Lionel Loueke usa spesso chitarre acustiche con corde in nylon) e con l’uso
di accordature aperte. Ali Farka Tourè, chitarrista maliano, usa
un’accordatura Sol – La – Re – Sol – Si – Mi, che permette di spaziare nei
modi derivati da Sol maggiore, mantenendo un drone in Sol. Nell’africa
occidentale spesso viene usata un’accordatura open D, Re-La-Re-Fa#-La-
Re.
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L’intavolatura per liuto, declinata poi anche per la chitarra, ebbe quindi una
diffusione a livello popolare parallela allo sviluppo del repertorio su
pentagramma, usato dai compositori più colti, tant’è che ancora oggi viene
utilizzato il sistema dell’intavolatura (chiamate spesso “tab”, dall’inglese)
ed è spesso la modalità con cui si impara a suonare la chitarra.
Vihuela
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musica jazz: la tradizione del flamenco, che assumerà una forma più
definita intorno al XVIII secolo, ha le sue origini nell’Andalusia del XV
secolo, epoca in cui la Spagna accoglieva numerosi popoli: cristiani, arabi,
molti in fuga dalle persecuzioni come gitani ed ebrei.
A questa miscela tra Europa, Asia e nord Africa si aggiunge lo scambio con
le nascenti colonie americane della Spagna, dove si esportò la vihuela (che
si declinò in varie forme, come per esempio la chitarra messicana) e da cui
si importarono danze e ritmi caraibici che coloriranno il suono delle danze
che formeranno il flamenco. La chitarra eredita quindi una forte
componente ritmica, ma soprattutto inizia a viaggiare oltreoceano
incontrando diverse culture, spesso ai margini, o come sarà per gli schiavi
africani, soggiogate, disegnando un’“epica dei reietti”.
Con l’affermarsi della tradizione del flamenco nel ‘700, si verifica anche un
primo scontro nel mondo della chitarra, tra chitarristi classici e chitarristi
flamenco, con i primi che accusavano il flamenco di non avere regole, e,
viceversa, con i chitarristi flamenco che accusavano il mondo della chitarra
classica di essere eccessivamente intellettuale e di non comprendere il
carattere “nervoso” spagnolo.
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Nel frattempo infatti, mentre in Andalusia era in corso questo grande
cantiere musicale dal forte carattere popolare, nel resto d’Europa, in
particolare in Italia, si assiste alla nascita della chitarra barocca, della
moderna chitarra classica, e soprattutto allo sviluppo in due fasi del
repertorio colto della chitarra.
Alla fine del settecento furono i liutai napoletani i primi a produrre chitarre
a sei corde, e ben presto l’arte della liuteria chitarristica raggiunge un
altissimo grado di raffinatezza e la chitarra si diffonde anche in Spagna,
soprattutto in Andalusia: a Malaga e Siviglia.
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Questi furono i primi a portare la chitarra, da strumento quasi
esclusivamente popolare, al ruolo di strumento da concerto. La tecnica si
sviluppò enormemente, e la funzione di semplice accompagnamento lasciò
il posto, in alcuni autori, a notevoli vette di virtuosismo.
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Nello stesso periodo si tenta anche di comporre concerti per chitarra e
orchestra, operazione che chiaramente incontrava però dei problemi di
orchestrazione, dovuti alla scarsa potenza sonora della chitarra.
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nel corso del Novecento un rapporto coerente con la grande e
imprescindibile cultura classica e romantica.
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Abbiamo dunque uno strumento anarchico, nomade e soprattutto non
univoco; altrettanto anarchica è l’America del periodo, una terra piena di
potenzialità e al contempo di problemi, che segna nei suoi confini
geografici una rivoluzione nel tempo, pronta a stravolgere gli equilibri
millenari dell’Occidente europeo.
1.7. IL Blues
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stato forse il primo ad attribuire certi elementi del blues alla musica
islamica dell'Africa Centrale e Occidentale:
Kubik fa inoltre notare che la tecnica, tipica del Mississippi e ricordata dal
bluesman W. C. Handy nella sua autobiografia, di suonare la chitarra
usando la lama di un coltello, ha corrispettivi in Africa. Anche il diddley
bow, uno strumento casalingo fatto da una singola corda tesa su un'asse di
legno, che viene pizzicata modulando il suono tramite uno slide fatto di
vetro e che si incontrava spesso nell'America meridionale agli inizi del
Novecento, era di derivazione africana. Nello specifico questa tecnica
derivava dalle Hawaii, che portò alla diffusione delle cosiddette “hawaii
guitar”, a loro volta evoluzione delle chitarre spagnole importate
nell’Ottocento.
Hawaii guitar
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Il Blues dunque si lega agli strumenti a corda, specialmente alla chitarra,
strumento fertile poiché scevro da tradizioni e immediato nell’uso, oltre a
poter convogliare meglio le sonorità di una musica non intellettuale, e non
necessariamente tonale.
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2. La chitarra jazz
A cavallo tra il Blues e il Jazz troviamo Eddie Lang, padre della chitarra
jazz, figura innovativa, che rappresenta un esempio perfetto dell’approccio
pioneristico che i chitarristi di ogni generazione hanno dovuto adottare per
fronteggiare la storia del proprio strumento:
Ascoltando il suo linguaggio sia nel jazz ché nel blues è percepibile la
fusione che stanno adottando i chitarristi da questo momento in poi. Il blues
è la vera radice comune di tutti i chitarristi adesso, ed è pressoché così
ancora oggi. Eddie Lang apporta con originalità alcuni approcci vagamente
“classicheggianti”, ma il suo linguaggio è intriso di blues, come per
esempio la tecnica del bending, ossia la tensione di una corda per alterarla
di semitoni o toni, tecnica tipica del blues e del rock che verrà usata meno
nel jazz proprio per la tendenza a tentare di replicare maggiormente il
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linguaggio dei fiati e del pianoforte, salvo poi trovare spazio nei chitarristi
più moderni e influenzati dal rock.
Ecco qui un esempio dell’uso del bending da parte di Eddie Lang nel brano
di sua composizione “perfect” del 1927, con una struttura tipicamente jazz,
con concatenazioni di 2-5 e turnaround:
Eddie Lang costruì le basi del chitarrismo jazz, sia nel fraseggio, essendo le
sue le prime registrazioni di un solo di chitarra, sia nell’accompagnamento,
che nel chord melody, alternando accordi e frasi su una corda, aprendo
le porte al mondo della chitarra solo, la dimensione ancora oggi più
affascinante della chitarra jazz, nella quale è possibile percepire le
innumerevoli capacità sonore della chitarra, molto più di quanto possibile in
un contesto di gruppo.
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L’introduzione che esegue in chitarra solo nel brano “April kisses” è in
questo senso eccezionale, alcuni passaggi sembrano replicare un tremolo
con il plettro, alternando accordi e armonici, intrecciando elementi che in
parte rimarranno inediti in molti chitarristi successivi. Eddie Lang è dunque
un pioniere, che ha aperto le porte alla chitarra jazz, ma rimane ancora oggi
un caso a sé, da studiare e analizzare proprio per la commistione di
elementi, spesso ancora grezzi, di culture lontanissime.
Eddie Lang morì prima dell’invenzione della chitarra elettrica, ma nella sua
breve carriera provò ad innovare sfruttando alcune tecniche di
microfonazione per catturare il più possibile alcuni colori della chitarra che
non uscivano fuori dall’accompagnamento ritmico con la microfonazione
classica.
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intervalli e, data la sua conoscenza eccezionale del manico e dell’armonia,
forme di accordi differenti e rivolti, Johnson si concentrava più sull’aspetto
ritmico e sulle geometrie della chitarra.
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A diciotto anni Django aveva già intrapreso una carriera da apprezzato
banjoista, ma in un incidente perse l’uso della gamba destra e parte della
mano sinistra a seguito di un incendio della sua roulotte. Django non poteva
più usare anulare e mignolo e dovette abbandonare il banjo e passare alla
chitarra poiché era meno pesante e ruvida. Django fu quindi costretto ad
elaborare una tecnica per fronteggiare alla sua menomazione. A seguito del
passaggio alla chitarra, Django creò un gruppo insieme al violinista
Stephane Grappelli di soli strumenti a corda, Le Quintette du Hot Club de
France che s’impose come il primo importante gruppo jazz non americano.
Anche Django come Eddie Lang aveva una conoscenza approfondita della
musica classica, ma è affascinante notare come l’elaborazione del
linguaggio classico in Django ancora più che in Eddie Lang sia slegata dalla
chitarra classica: Django conosce l’armonia, suona sugli accordi con la
qualità formale di Bach, ma con il plettro e senza l’approccio polifonico e la
tecnica della mano destra tipica della chitarra classica. I chitarristi quindi
reinterpretano, imitano la musica classica, ma non sono debitori ad una
reale tradizione chitarristica. Django inoltre non sapeva né leggere le parole
né la musica.
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rispetto all’aggressività del linguaggio jazz americano dell’epoca. Django
inseriva spesso la scala minore melodica e armonica e la diminuita, che
davano un tocco mediterraneo e esotico al suo linguaggio.
Negli ultimi anni della sua vita Django si avvicinò al nascente linguaggio
bebop e tramite un pickup iniziò a suonare per la prima volta elettrificato,
e le registrazioni del periodo sono una testimonianza interessantissima della
capacità pionieristica di un chitarrista come Django capace di riadattare il
suo stile alla nuova dimensione elettrica della chitarra, oltreché di una
qualità straordinaria che ci mostra un musicista al suo apice espressivo.
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bending melodici e malinconici sulla chitarra acustica hanno ora un sapore
molto più blues, in entrambe le registrazioni esegue una parte suonando per
ottave, anche qui nella versione in elettrico è disarmante il cambio della
pasta sonora, che non è legato solo al supporto elettrico, ma all’approccio
differente che usa Django. Il suono per certi versi è sorprendente quanto sia
vicino al suono che avrà Wes Montgomery quasi dieci anni dopo.
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Nel 1932 conosce il grande sassofonista Lester Young, ha modo di suonare
con lui in diverse jam session e di studiarne lo stile fluido e lirico, un
approccio che ritroviamo poi nelle improvvisazioni chitarristiche di Charlie:
linee melodiche lunghe e complesse che proseguono oltre i cambi di
accordo, note ribattute e frasi ripetute come ostinati. Ritmicamente,
melodicamente e anche nel timbro, la chitarra di Christian prende
ispirazione dai fiati.
Viene così individuato dal talent scout John Hammond che lo raccomanda a
suo cognato Benny Goodman, il quale inizialmente non rimane convinto da
Charlie Christian. Successivamente Hammond prova di nuovo a far
schioccare la scintilla dai due: durante un concerto di Goodman in un locale
Hammond fa salire Charlie sul palco. Benny Goodman decide quindi di
chiamare un vecchio brano, Rose Room, sperando di cogliere impreparato il
chitarrista. Charlie Christian però attacca la sua gibson ES 150 e sorprende
Benny Goodman con un solo lunghissimo, tirando il brano per 48 minuti.
Purtroppo solo 3 anni dopo una tubercolosi stroncherà la sua carriera, ma in
pochi anni Charlie Christian riesce a scrivere la storia della chitarra.
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Il suono è blues nelle intenzioni, nell’approccio, è chiaro ormai che la
tradizione blues sia il vero vocabolario comune dei chitarristi, però Charlie
Christian sta tentando di riportare sulla chitarra il suono dei fiati, e questo si
sente in due aspetti: Charlie lavora sulla plettrata e sul legato per articolare
come un fiato, cosa che finora non aveva fatto parte dello studio dei
chitarristi che abbiamo osservato. Django ha una plettrata che rimarrà legata
al mondo della chitarra manouche e che a tratti sembra prendere
dall’approccio del flamenco, sicuramente ereditata dalla musica gitana e
dallo stile del banjo. Eddie Lang era altrettanto “classicheggiante” e
acustico nel suono, uno stile che gli permetteva un controllo totale, tanto da
replicare i trilli della musica classica, ma con un suono meno fluido.
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pesante. Il loro stile però è formato da cellule ben precise, gli arpeggi e le
scale di Django sono pattern riconoscibili e ancora oggi vengono eseguiti
nella stessa maniera. Ma soprattutto è evidente che per esprimere un’idea
melodica chiara siano costretti dal suono della chitarra a ricercare maggiore
chiarezza possibile. La chitarra al contrario dei fiati non può tenere note
lunghe, così come un colpo forte sulla chitarra non potrà mai raggiungere
l’intensità di un colpo deciso di fiato su un sassofono.
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2.4. Barney Kessel e Wes Montgomery
Kessel nasce nel 1923 e Wes nel 1924 ed entrambi si formano sulla chitarra
ascoltando Charlie Christian.
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uso accorto degli accordi, e allo sviluppo di altre tecniche per suonarli.
Mike Moreno ed altri chitarristi contemporanei per esempio non suonano
gli accordi plettrandoli ma pizzicano contemporaneamente l’accordo con la
tecnica dell’hybrid picking, con l’uso di plettro e dita, ricreando una
sensazione pianistica dell’accordo con la contemporaneità delle voci.
Nell’album Oscar Peterson Quartet del 1954 per esempio eseguono una
bellissima versione di Body and Soul in cui si dividono la A e la B tra
pianoforte e chitarra e assistiamo ad un livello di raffinatezza del chord
melody che si confronta a viso aperto con il pianoforte di Oscar Peterson.
Sul solo di contrabbasso le loro voci si incastrano alla perfezione.
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Cresciuto con i due fratelli Buddy e Monk che inizieranno presto a suonare
uno il piano e l'altro il contrabbasso, all'età di 19 anni ha la "folgorazione"
ascoltando un brano di Charlie Christian.
Nel frattempo si sposa, ha dei figli, lavora come saldatore in una piccola
officina di Indianapolis, ma tornato a casa dal lavoro passa intere notti con
la chitarra in mano. Si dice che fu a seguito delle lamentele dei vicini che
smetterà di usare il plettro e inizierà a suonare con il pollice dando vita al
suo caratteristico suono caldo e ovattato, il suono “alla Wes” che tantissimi
chitarristi cercheranno di imitare.
Wes Montgomery appoggiava la mano destra con le dita aperte, sulla parte
anteriore della chitarra e sul bordo del battipenna proprio dietro il pickup al
manico. Il pollice pizzicava le corde con un colpo rilassato proveniente
dalla seconda articolazione. La punta del pollice era inclinata all’altezza
della prima articolazione con una piega all’indietro. Montgomery
prediligeva i colpi verso il basso, ma riproduceva linee lunghe e complesse
con colpi alternati, quando lo desiderava.
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Wes poi sviluppò appieno la tecnica delle ottave sulla chitarra che avevamo
già visto comparire marginalmente in altri chitarristi. Wes affina la tecnica
rendendola un marchio di fabbrica, ma soprattutto uno strumento espressivo
geniale, infatti era capace di sviluppare anche frasi relativamente complesse
per la tecnica che richiede l’uso delle ottave, con una precisione e uno
swing che rendevano quei momenti il fulcro dei suoi soli, laddove Barney
Kessell per esempio sfrutta maggiormente accordi e inversioni.
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3. La seconda rivoluzione silenziosa
“Manca” ancora qualcosa però, è come se alcune premesse nel suono della
chitarra non abbiano trovato ancora il dovuto spazio. C’è un suono,
ancestrale, forse mai esistito realmente, che però è in quelle corde e a tirarlo
fuori sarà Jim Hall.
Jim Hall nasce nel 1930 e forse leggermente più in sordina rispetto a tanti
altri nomi che abbiamo analizzato e non, si farà strada nella chitarra jazz
con un approccio quasi cameristico, leggero, incantato. Jim Hall è un
“ingegnere del suono”, un incantatore che libera il suono della chitarra dalle
costrizioni tecniche dello strumento e restituisce l’intimità del contatto con
le corde, con la cassa armonica. Egli si rivela un musicista fondamentale
poiché arricchisce il linguaggio jazzistico: i discorsi di Jim Hall non
suonano mai come un’unione di frasi, ma sono fluidi, pensati, elaborati
come può fare uno scrittore postmoderno, è come se stesse dicendo tutto per
la prima volta, messaggero di un mondo vergine.
Jim Hall nasce in una famiglia di musicisti, la madre una pianista, il nonno
un violinista e lo zio chitarrista, cosa che lo porta ad avvicinarsi alla musica
sin da piccolo. All’età di dieci anni riceve come regalo di Natale una
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chitarra e decide di dedicarsi con impegno allo strumento. Anche Jim Hall
fu influenzato da Charlie Christian, a tredici anni ascoltando Solo Flight
rimane folgorato e inizia a militare in diverse formazioni suonando nello
stile di Charlie Christian. Finite le scuole superiori però si iscrive al
conservatorio, il Cleveland Institute of Music, dove studia teoria e chitarra
classica.
Egli quindi sin da subito può unire due anime, quella jazz-blues della
chitarra di Charlie Christian e dei fiati bebop che lo ispireranno, ma anche
un’anima quasi inedita fino a quel momento, quella della chitarra classica,
uno strumento a suo modo “incompleto”, che non aveva trovato un reale
posto all’interno della musica classica. C’è quindi l’influenza di quel
mondo della chitarra classica, intimo, molto influenzato dalle sonorità
spagnole a loro volta sintesi di svariate culture dell’Europa, del medio
oriente e del Nord Africa.
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indicano delle direzioni, poiché finalmente si riesce a percepire il potenziale
inespresso che c’è nel suono della chitarra.
La rivoluzione di Jim Hall come già detto è proprio questa, riuscire a creare
spazio con la chitarra, e non è una cosa da poco. Spesso il chitarrista per
fronteggiare la poca resa sonora della chitarra deve riempire gli spazi,
infatti abbiamo visto una già consolidata tradizione anche di soli in block
chords ritmici e pieni di corpo, con Jim Hall abbiamo accordi sospesi, come
pennellate su un dipinto, pieni di colori e capaci di restare.
Non è un caso quindi che due tra i più grandi chitarristi della loro
generazione, Pat Metheny e Bill Frisell furono suoi allievi. È proprio dalla
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sua ricerca che provengono le principali intuizioni sperimentali della
chitarra jazz di oggi.
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In questa ideale e arbitraria suddivisione cronologica fa però l’ingresso un
fattore che sarà determinante per la chitarra jazz e per la chitarra in generale
dalla fine degli anni sessanta in poi, e che in varie misure investirà anche
alcuni dei chitarristi già analizzati.
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4. La terza rivoluzione: Il Rock
C’è indiscutibilmente una chitarra prima e dopo il rock, molto più rispetto
al percorso della chitarra jazz, se non nell’influenza che quest’ultima ha
avuto sullo sviluppo della chitarra rock. Il rock infatti è la prima vera e
propria musica non territoriale costruita quasi interamente sulla chitarra. Ed
è proprio grazie al rock che la chitarra si farà molto più spazio all’interno
del jazz, fino ad assumere il ruolo primario che ha spesso oggi.
È il 1968 quando esce Miles in the Sky di Miles Davis, album in cui si
possono rintracciare i primi elementi della trasformazione che avverrà con
In a silent way e Bitches Brew e in qualche modo con la nascita della fusion
o jazz-rock. In Miles in the sky alla chitarra elettrica c’è George Benson,
chitarrista eccezionale a cavallo tra Wes Montgomery e la chitarra “black”
che verrà dopo e che deve tutto a lui. Nei suoi soli riconosciamo ancora
forte lo stile proprio di Wes, se non si conoscesse quanto avvenuto dopo si
potrebbe dire che tutto sommato, a parte gli arrangiamenti e l’approccio non
più swing, che la chitarra non abbia subito grossi cambiamenti.
Bastano due anni e nel ’70 esce Bitches Brew, alla chitarra c’è un inglese,
John Mclaughlin. Ora è tutto differente: il suono della chitarra di Mc
Laughlin è acuto, distorto, una plettrata violenta segna piccole incursioni
sonore, non è un elemento ritmico, sembra di ascoltare i fiati del free. Nella
traccia “John Mclaughlin” si inserisce con brevi frasi distorte in cui esegue
bending e vibrati, sembra completamente un altro strumento. Si sente il
blues, tantissimo, ma come filtrato da un nuovo mondo. La chitarra è piena
di riverbero e come detto prende molto più spazio, riecheggia, crea un
tappeto sonoro.
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Quanto ascoltiamo in Bitches Brew però sorprende solo perché compare in
un disco a nome di Miles Davis, maestro del jazz che solo dieci anni prima
era a suonare con John Coltrane. Quel suono per la chitarra è ormai
consolidato da quasi 10 anni. Si può prendere un qualsiasi disco degli anni
sessanta fuori dal jazz per scovare quei suoni. Acuti, taglienti, distorti, con
le chitarre che eseguono frasi violente, bending e una plettrata decisa. Una
tradizione di chitarristi senza una grande cultura chitarristica, cresciuti con
il blues e il primo rock’nroll sta segnando la musica e un’intera
generazione.
Sono grezzi e semplici, basta ascoltare i dischi dei Rolling stones, dei
Beatles, dei Cream o di Jimi Hendrix: rispetto alla tecnica, alla conoscenza
del manico raggiunta dai maestri della chitarra jazz sin qui analizzati, questi
chitarristi sembrerebbero non avere niente. Ma hanno un suono che
affascina, un suono inedito nella storia della musica. Scombina le carte,
poiché è effettivamente qualcosa mai ascoltata prima, un’energia ancestrale
che evolve dal blues. Ed è affascinante notare come l’approccio che hanno i
chitarristi rock negli anni sessanta ricalchi un po’ i primi passi della chitarra
jazz. Alcuni hanno sì studiato un po’ di jazz, ma sono giovanissimi e privi
di veri riferimenti, e esplorano. E forse il rock nasce grazie a questa natura
nomade della chitarra, nessun altro strumento si concede così a uomini
senza radici.
Prendiamo a caso tra i vari Purple Haze: Jimi Hendrix sta “inventando”, ciò
che fa non esisteva realmente nella chitarra prima, tutto ciò che veramente
si può rintracciare è la traccia del blues, anarchica per definizione, e un po’
di geometrie sul manico. Il “solo” dopo qualche frase si regge tutto su una
nota tesa in bending con violenza e plettrata a ripetizione, un suono
dirompente che nessuna chitarra avrebbe potuto fare prima. Jimi Hendrix
suona una stratocaster, una chitarra solid body, senza alcuna cassa
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armonica. La sua voce è l’amplificatore, la distorsione generata dagli
amplificatori rotti diventa il suo strumento.
Voodoo Child inizia con un riff con il wah, un pedale che azionato attiva e
toglie un filtro sul suono della chitarra, e poi parte il brano con un suono
violento di chitarra, poche note, picchiate, con una potenza inaudita e poi un
solo che regge sempre su poche note in bending ripetute velocemente, ogni
tanto filtrate dal wah: la chitarra ora sovrasta ogni cosa, è il suono
principale che esce dai dischi, la batteria e il basso lavorano in sottofondo.
È quasi difficile descrivere un suono così dirompente, soprattutto rendere
l’innovazione che rappresentava in quel momento. Più avanti nel solo Jimi
inizia a passare il plettro trasversalmente sulle corde su e giù per il manico.
La chitarra nel rock sostituisce realmente i fiati del jazz: c’è come un
legame fuori dal tempo tra l’ultimo Coltrane e Jimi Hendrix.
Negli anni ’70 con la nascita del cosiddetto Progressive Rock, l’operazione
del rock si incrocia con il passato, si mescola: i chitarristi di questa nuova
generazione hanno una conoscenza tanto del rock degli anni sessanta,
quanto della chitarra jazz e della chitarra classica. Nei dischi dei Genesis e
degli Yes troviamo tutti questi elementi, per la prima volta insieme in uno
stesso chitarrista. È come se nel viaggio che abbiamo percorso dai primi
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strumenti a corda fino a questo momento per la prima volta queste tracce
nomadi della chitarra si incontrassero. Steve Howe, chitarrista degli Yes, è
un ottimo esempio di questa nuovo sincretismo, egli studia sin da piccolo la
chitarra jazz, studia lo stesso Charlie Christian, ma anche la chitarra
classica, il flamenco e poi il blues e il rock’n roll. Fragile degli Yes inizia
proprio con un’introduzione di chitarra classica, e poi esplode in un rock
con soli fortemente influenzati dalla tradizione jazz.
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questa tecnica chitarristica. L’uso del mignolo e la stessa posizione della
mano cambia e il suono e il modo di suonare la chitarra si sviluppano
intorno agli effetti, alla leva, agli amplificatori.
Nello specifico, John Scofield e Bill Frisell sono in qualche modo gli alfieri
della chitarra jazz contemporanea, gli ideali prosecutori di quel viaggio
iniziato con Eddie Lang, e che soprattutto partendo da quella che è stata la
rivoluzione di Jim Hall, hanno saputo aggiornare il linguaggio della chitarra
jazz a seguito dello stravolgimento del rock.
John Scofield nasce nel ’51 e sin da ragazzo inizia a suonare la chitarra in
ambito R&B e soul, avvicinandosi dopo al jazz. La sua infatti è una delle
prime generazioni cresciuta già in un’era “post-jazz” e il suo inconfondibile
stile nel jazz infatti rispecchia questa nuova natura dei chitarristi. Come
Frisell, Metheny e Stern anche lui studia a Berklee.
Nel ’69 quindi si avvicina al jazz e alla nascente scena jazz rock, e il suo
debutto vero e proprio lo ha con la band di Billy Cobham George Duke,
musicista a cavallo tra jazz, funk e fusion, che lavorò anche con Frank
Zappa.
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Il successo arriva però negli anni ottanta collaborando nei dischi jazz-funk
dell’ultimo Miles Davis, dove trova la definizione del suo stile e dopo
questa esperienza porterà avanti la sua prolifica carriera, sia in dischi da
leader in cui esplora sia il jazz classico, sia la sua personale commistione tra
jazz e soul.
Allo stesso tempo però Scofield è in piena sintonia con la chitarra jazz di
Wes Montgomery, e per esempio l’uso che fa delle ottave è una versione
aggiornata dell’approccio di Wes, salvo poi magari inserire voicing che
sembrano uscire da una canzone di Jimi Hendrix. Quello che porta la
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chitarra jazz con Scofield a dominare dagli anni Ottanta in poi il mondo del
jazz è proprio questa capacità di essere un ponte, una summa del
Novecento, sostenuta poi negli anni da una ricerca nelle radici country e
blues dell’America che dona alla musica di Scofield una liricità unica.
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Scofield sia diventato uno standard nella formazione jazz-blues dei
chitarristi moderni.
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Tutto ciò ha portato Frisell ad ottenere un suono riconoscibilissimo: la
caratteristica principale del suono di Frisell sta nel leggero ‘vibrato’ in ogni
accordo o nota suonata facendo vibrare o ondeggiare il manico della
chitarra. L’altra caratteristica principale del suo stile è un’orchestrazione
minimalista che gioca molto sugli intervalli. Rispetto ai block chords e ad
accordi complessi, Frisell preferisce tinteggiare l’armonia con seste o
seconde, o in generale con accordi semplici, di solito sfruttando massimo
tre note e usando molto spesso corde a vuoto e armonici. Questo rende sia
l’accompagnamento che il chord solo molto più pieno, sfruttando le
caratteristiche della chitarra. Questa tendenza è stata accolta anche dalle
nuove generazioni di chitarristi che pur discostandosi dallo stile minimalista
di Frisell, tendono molto più spesso a far uso di poche note nei voicing, a
giocare sugli intervalli o a spezzettare l’accordo, come fa spesso Lage Lund
che ha costruito molto del suo fraseggio a note singole da una decostruzione
dell’accordo.
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5. Conclusioni: La chitarra jazz oggi
La chitarra jazz dopo gli anni ’80 si è sviluppata nel solco di quella
generazione di chitarristi, di cui facevano parte Scofield e Frisell, e
parallelamente si è consolidata una scuola di chitarra fusion, in dialogo
costante con il rock e il metal, da cui sono usciti molti chitarristi con una
grande tecnica ma che si stavano allontanando sempre più dal linguaggio
jazz.
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un’urgenza nel mondo della chitarra di costruire un repertorio, uno
“standard” prettamente chitarristico, e questo ha fatto sì che la loro ricerca
si indirizzasse in un’ottica meno improvvisativa, allontanandosi in qualche
modo dal jazz.
Per esempio Reinier Baas, chitarrista olandese, e uno dei nomi più
importanti nella ricerca di nuovi approcci nella chitarra jazz, nei dischi di
Simone Graziano con il gruppo Frontal, propone una rivisitazione del suono
della chitarra africana, che si inserisce perfettamente nella musica
poliritmica ed esotica del progetto, e sfrutta questa poliedricità della chitarra
per creare paesaggi, soprattutto suggestioni.
Reinier Baas porta avanti inoltre uno stile unico che sfrutta le corde a vuoto
anche nel fraseggio e che mutua il suo approccio ritmico, nel comping,
dalla chitarra punk e new wave, arricchendo il suo jazz avanguardistico con
questa violenta anomalia all’interno del jazz.
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Gli esempi potrebbero essere tantissimi altri, ma il fulcro di questo viaggio
nella storia della chitarra jazz è comprendere come la chitarra sia uno
strumento nomade, una scheggia senza radici, e al contempo con radici
ovunque.
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RINGRAZIAMENTI
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SITOGRAFIA
https://it.wikipedia.org/
www.musicoff.com
www.laviadellachitarrajazz.com
www.guitarclubmagazine.com
www.guitarprof.it
www.percorsimusicali.eu
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DISCOGRAFIA
Django Reinhardt with Duke Ellington and his Orchestra, 10 novembre 1946,
Civic Opera House, Chicago
Jim Hall, Bob Brookmeyer, 1979, “Live at the north sea jazz festival”
Bill Frisell, 2001, “Bill Frisell (with Dave Holland and Elvin Jones)
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