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La chitarra, strumento nomade

Introduzione
Quando da ragazzo ho deciso di cominciare a suonare inizialmente avevo
scelto il basso, ma il padre di un mio amico, chitarrista, mi consigliò la
chitarra per partire, per avere un approccio alla musica completo, e da quel
momento affrontando la chitarra ho avuto sempre un rapporto
“problematico” con lo strumento, una ricerca che appartiene a tutti i
musicisti, ma che sulla chitarra ancora più spesso, a mio giudizio, si avvicina
ad una ricerca spirituale ed apre ad un lavoro su di sé per tutta la vita. La
chitarra, seppur semplice da suonare di primo acchito, non fa sconti, se sei
insicuro ti restituirà un suono insicuro. Lo stesso accordo sulla chitarra può
essere suonato in innumerevoli posizioni, innumerevoli tecniche della
mano destra, ma aldilà del visibile, la chitarra non suonerà mai nella stessa
maniera a seconda di chi la suona. Confrontarsi con la chitarra richiede
quindi di capire chi si è, le proprie origini, e cosa si vuole essere. Il jazz
agisce nella stessa maniera. Quando all’inizio di questo percorso triennale
mi sono approcciato al jazz da musicista, e non più da ascoltatore, ho
sentito come una connessione con le ansie e le ricerche della moltitudine di
chitarristi che mi avevano preceduto. La chitarra che si confrontava con la
potenza dei sassofoni e delle trombe che con una sola nota lunga potevano
impattare più di mille suonate da una chitarra. La chitarra e il senso di
inferiorità nel comping verso il pianoforte, così ricco armonicamente, ma
soprattutto chiaro e potente. La lezione che ho imparato da quei chitarristi
è stata la “resilienza” (termine purtroppo abusato al giorno d’oggi), la
capacità di essere sé stessi e spiccare nonostante tutto. Ma soprattutto
quello che ho sentito dai grandi della chitarra è stata l’esaltazione di quelle
che per me erano apparenti difficoltà dello strumento, e ascoltandoli
sapevo chi erano, da dove venivano e cosa volevano essere. Tutto ciò da
Django Reinhart, un gitano intriso della sua cultura nomade millenaria, che
ha rivoluzionato un genere nato dall’altra parte del mondo, reinventando la
sua tecnica, passando per Wes Montgomery e George Benson,
afroamericani forti del blues, della potenza delle loro radici (le ottave
suonate da Wes rievocano subito la sonorità dello slide e non
impallidiscono di fronte ad un fiato), per arrivare a due chitarristi a mio
giudizio fondamentali per la chitarra del futuro, John Scofield e Bill Frisell.
Loro due, come i loro predecessori, sono stati capaci di rispondere alle
tante domande della chitarra, comprendendo il ruolo trasversale di questo
strumento che altri non hanno. Nel loro stile riesce ad esserci la grande
tradizione folk americana, l’avanguardia, l’esperienza del rock, l’elettronica
e l’intimità del suono acustico e insieme tutte le lezioni dei grandi della
chitarra jazz. La chitarra, figlia dei più antichi strumenti creati dall’uomo,
può e deve essere custode delle tradizioni e allo stesso tempo dirompente
e anarchica, proprio perché priva di un unico denominatore comune. La
chitarra è uno strumento nomade.

Lo scopo di questa tesi è quindi quello di esaminare e rintracciare gli


elementi e le variabili che hanno reso la chitarra una piccola anomalia nella
musica jazz, con un percorso che si discosta dalle direzioni e dalla storia
intrapresa da altri strumenti cardine del jazz, come possono essere la
tromba, il sax, la batteria e il pianoforte. Questi elementi hanno reso la
chitarra un duttile contenitore di tradizione e innovazione, uno strumento
che per storia e caratteristiche riesce a farsi voce di popoli e individualità,
unendosi perfettamente alla filosofia sottesa del Jazz, una musica viva, una
lingua in evoluzione senza confini spaziali e culturali.

Se per gli strumenti a fiato si può osservare infatti come lo sviluppo della
loro dimensione solistica coincida e determini lo sviluppo stesso della
musica jazz, e con il pianoforte invece ci sia un rapporto conflittuale ma al
contempo dialogico e consequenziale con la musica classica, la chitarra si
affaccia al jazz in maniera disunita, senza una tradizione comune
appartenente a tutti i chitarristi e, dato il ruolo a volte da outsider, senza
potersi identificare completamente con i paradigmi del linguaggio jazz,
nonostante come un attore nascosto ne abbia influenzato spesso le
evoluzioni. Ogni chitarrista jazz sarà quindi a suo modo pioniere dello
strumento, costruendo una tradizione in fieri, una non-tradizione
“audiotattile” per eccellenza.

Per comprendere questa differenza della chitarra basta fotografarne la


condizione nei primi del Novecento: uno strumento cordofono pizzicato
suonato principalmente in piccole formazioni o da solo per motivazioni
acustiche di volume, con una letteratura musicale scarna in confronto alla
grande maggioranza degli strumenti della musica classica, che però grazie
alla comodità nel trasporto e alla facilità nel suonarlo ha già un grande uso
in svariate musiche popolari nel mondo, tra cui il nascente blues.

Il jazz, superate le sue fasi embrionali ancora influenzate fortemente da


musica classica e blues (fase in cui abbiamo in realtà una grande presenza
della chitarra nell’accompagnamento), si struttura intorno ai fiati come
solisti, i quali determineranno il suono e il fraseggio del bebop che è ancora
oggi la vera base del linguaggio jazz, e al pianoforte e la batteria come
accompagnatori. Nel periodo in cui si va a costruire il suono del jazz che
tutti riconosciamo oggi, la presenza della chitarra è quindi leggermente più
marginale. Non è però in sé solo una esclusione dai grandi processi ed
evoluzioni della musica jazz ad influenzare la storia e il suono della chitarra
jazz, e infatti come vedremo il bebop e la chitarra jazz condividono un
grande padre come Charlie Christian, quanto il rapporto “problematico”
che i chitarristi avranno nell’approccio allo strumento.

il chitarrista è per natura questionante, si deve confrontare con uno


strumento senza una codificazione univoca, uno strumento spesso in balia
delle sue geometrie e al contempo fortemente libero nell’interpretazione,
che ha portato i chitarristi nel corso di un secolo a dover reinterpretare la
storia della musica, rielaborarla su di uno strumento facile ma spigoloso,
incerto del suo ruolo tra polifonia e monodia.

Come avremo modo di vedere la chitarra jazz oggi è debitrice della musica
rock: la mancanza di una forte radice che si aveva nella prima parte del
novecento si è assottigliata fino a convergere nella matrice comune di
moltissimi chitarristi jazz a partire dagli anni 70, i quali formatisi sui dischi
rock hanno portato tecniche, suoni e approcci fino ad allora assenti nella
chitarra jazz. Questa rivoluzione non ha però fermato la ricerca dei
chitarristi, e anzi si è ampliata la sostanza spugnosa dell’approccio alla
chitarra jazz, dal rapporto con l’avanguardia e l’elettronica, alla ricerca di
stili e tradizioni lontane dall’Occidente (la chitarra africana, il choro o
l’influenza di altri strumenti a corda dal globo), fino a una riscoperta e
rielaborazione della polifonia.
Nel corso della tesi analizzeremo dunque la storia della chitarra prima del
jazz e nel jazz, esaminandone le modalità d’uso, fino a giungere allo stato
dell’arte attuale della chitarra jazz.

STORIA DELLA CHITARRA

Il percorso della chitarra che vogliamo analizzare non può prescindere


dall’osservazione dei vari strumenti cordofoni pizzicati che troviamo nel
mondo, infatti le tecniche e gli stili che ritroviamo oggi nella chitarra sono
un connubio di più strumenti che rendono la chitarra un sistema, usando il
linguaggio dell’informatica, “open source”, personalizzabile dunque dal
musicista.

I cordofoni sono i primi strumenti musicali realizzati dall’uomo: già nella


preistoria i nostri progenitori avevano inventato il cosiddetto “arco
terrestre”, ossia una specie di arco da caccia formato da un bastone
elastico e da una corda tesa alle sue estremità (dotato in un secondo
momento anche di una cassa armonica, che poteva essere ricavata da noci
di cocco svuotate, zucche tagliate a metà e così via), e il “salterio di canna”,
che si ricavava dalle canne di bambù, dalle quali venivano staccate delle
sottili strisce di scorza. In principio quindi la musica nasce da una corda
pizzicata, l’uomo codificherà la musica a partire da questa corda, uno
strumento che in qualche modo viene prima di una qualsiasi
“razionalizzazione” della musica.
Col passare del tempo i popoli del passato affinarono la tecnica per
realizzare cordofoni sempre più evoluti, ideando anche degli strumenti utili
ad aumentare l’intensità del suono prodotto, come nel caso dei risuonatori.
Molti erano i popoli che conoscevano e apprezzavano gli strumenti a corde:
dagli egizi, che insieme ai popoli ebraici, a quelli della Mesopotamia, ai
greci e ai romani usavano soprattutto arpe, cetre e lire, ai popoli asiatici,
che invece usavano altri tipi di cordofoni, quali il k’in a sette corde, il P’ip’a
a quattro corde (entrambi di origine cinese), la vina indiana e il sarangì a
quattro corde indiano.

Il Guqin o K’in appare molto simile all’odierna lapsteel, è una tavola con
sette corde accordata in do, re, fa, sol, la, do (ottava), re (ottava) e viene
suonata pizzicando con una mano le corde e con l’altra o toccando
lievemente per riprodurre degli armonici oppure glissando le dita creando
l’effetto dello slide.
La P’ip’a è sempre uno strumento di origine cinese ed è uno dei primi
esempi di liuto. Ha quattro corde ed è generalmente accordata in La-Re-Mi-
La. Inizialmente veniva suonata con un plettro e successivamente venne
sviluppata la tecnica con le dita molto simile all’attuale approccio della
chitarra classica, con tecniche di “strumming” simili al rasgeado.

P’ip’a
Il Guqin La moderna lap steel

Ascoltando già solo questi due strumenti è interessante osservare come la


loro accordatura riesca da sola a codificare un immaginario sonoro, a
rappresentare una specifica cultura musicale. L’accordatura di questi
strumenti e quindi della chitarra è un ponte, un mondo a sé stante, una
possibilità che non hanno altri strumenti canonizzati dall’occidente: la
tastiera del pianoforte è univoca, certamente può essere alterata agendo
sulle corde, ma di per sé la sua libertà razionalizzata non può uscire da
determinati spazi. Il pianoforte ‘traduce’ altri linguaggi musicali inserendoli
nella musicalità occidentale (un esempio interessante può essere la musica
di Tigran Hamasyan, che inevitabilmente trasla la musica armena all’interno
del sistema musicale occidentale), la chitarra grazie all’accordatura può
modificare l’intero approccio sullo strumento, e anche rimanendo
all’interno della tonalità lo stesso accordo con accordature differenti avrà
un altro suono.

L’avvento di vari strumenti della famiglia dei liuti nel mondo attorno al
Medioevo ha cristallizzato i suoni di svariate culture musicali popolari.
In Africa abbiamo la Kora, un’arpa-liuto pizzicata con tecniche simili a
quelle del flamenco. La kora ha varie accordature che seguono come nella
musica indiana determinate occasioni della comunità, queste accordature
corrispondono alla scala lidia, maggiore, minore e blues. Inizialmente le
corde erano in pelle mentre ora sono più spesso in nylon, ma è
caratteristico il suono spezzato e, come da tradizione musicale africana,
l’assenza di vere progressioni armoniche e invece un approccio più
“modale”, influenzato evidentemente dallo stretto legame con la Kora e le
sue caratteristiche simili ad un’arpa. Questi elementi compaiono infatti
anche nella contemporanea chitarra africana pizzicata o plettrata spesso
stoppando il suono con il palmo, usando corde di nylon (il chitarrista jazz
Lionel Loueke spesso usa chitarre acustiche con corde in nylon), e con l’uso
di accordature aperte:
Ali Farka Tourè, chitarrista maliano, usava un’accordatura Sol – La – Re –
Sol – Si – Mi, che permette di spaziare nei modi derivati da Sol maggiore
mantenendo un drone in Sol
Nell’africa occidentale spesso viene usata un’accordatura open D, Re-La-Re-
Fa#-La-Re
Un’altra tecnica infine è quella di cambiare la quarta corda del Re e mettere
una corda della stessa grandezza del Mi cantino accordandola un’ottava
sopra il Re dell’accordatura standard, e spesso tale accordatura è suonata
in duo con una chitarra in Open D.

In Europa il liuto arriva dall’Oriente raggiungendo specialmente nel XVI


secolo una diffusione e una versatilità d’impiego simili a quelle che avrà il
pianoforte nell’Ottocento. Il Liuto ebbe grande popolarità per la possibilità
di eseguire composizioni polifoniche semplici o complesse e per
accompagnare il canto o la danza. Questa versatilità insieme alla comodità
d’uso e trasporto gli valsero il successo nelle corti nobiliari e nelle
rappresentazioni di strada. La musica per Liuto veniva scritta su
intavolatura, sistema per cordofoni a pizzico e con tastiera in uso ancora
oggi per la chitarra dove vengono rappresentati con dei righi le corde dello
strumento e con dei numeri i tasti da pigiare. Questo sistema che può
esclusivamente indicare l’altezza del suono e non la sua durata permetteva
l’esecuzione dei brani anche a chi non conosceva la musica. L’intavolatura
per liuto che si declinò poi anche per la chitarra ebbe quindi una diffusione
a livello popolare parallela allo sviluppo del repertorio su pentagramma
usato dai compositori più colti, tant’è che ancora oggi viene usato il sistema
dell’intavolatura (chiamate spesso “tab” dall’inglese) e spesso è l’approccio
con cui viene imparata a suonare la chitarra. Questa netta divisione tra
repertorio colto e popolare, addirittura corrisposta da due differenti
modalità di scrittura, è un elemento fondamentale per la comprensione del
percorso assunto successivamente dalla chitarra, rafforzando il rapporto
con le proprie tradizioni popolari dei chitarristi e favorendo al contempo
una libertà molto spesso lontana dagli ambienti accademici.

In seguito all’affermazione del liuto in Europa nascono altri strumenti che


ne riprendono le caratteristiche, come la vihuela in Spagna, paese
fondamentale per la storia della chitarra ed esempio perfetto del “melting
pot” di cui si è fatta voce, e la chitarra barocca, da cui deriverà la chitarra
classica.
Il percorso della vihuela e della chitarra in Spagna e le origini del flamenco
sono un interessante prodromo di ciò che avverrà nel Novecento con la
musica jazz: la tradizione del flamenco, che assumerà una forma più
definita intorno al XVIII secolo, ha le sue origini nell’Andalusia del XV
secolo, epoca in cui la Spagna accoglieva numerosi popoli, molti in fuga
dalle persecuzioni, come gitani ed ebrei, ed i cristiani e gli arabi. Tra le
tradizioni musicali che hanno ispirato il flamenco troviamo infatti i canti
monocordi islamici come il “cante jondo”, l’influenza delle melodie
salmodiche e del sistema musicale ebraico, dei modi frigio e ionico ispirati
dal canto bizantino e degli antichi sistemi musicali indiani e dei canti
popolari mozarabici da cui hanno avuto origine le zambre (dall’arabo
“festa”) e le jarchas, il tutto influenzato dalla cultura gitana e quindi dalle
tradizioni e occasioni di un popolo nomade, custode di una musica non
accademica e più legata alla danza e alle feste popolari.
Ad aggiungersi a questa miscela tra Europa, Asia e nord Africa fu lo scambio
con le nascenti colonie americane della Spagna, la quale esportò la vihuela
(che si declinò in varie forme, come per esempio la chitarra messicana), e
importò invece danze e ritmi caraibici che colorirono ancora di più il suono
di quelle danze che formeranno il flamenco. La chitarra eredita quindi una
forte componente ritmica, ma soprattutto inizia a viaggiare oltreoceano
incontrando diverse culture, spesso emarginate, o come sarà per gli schiavi
africani, soggiogate, disegnando un’Epica dei reietti.
Con l’affermarsi della tradizione del flamenco nel ‘700, si verifica anche un
primo scontro nel mondo della chitarra, tra chitarristi classici e chitarristi
flamenco, con i primi che accusavano il flamenco di non avere regole, e
viceversa con i chitarristi flamenco che accusavano il mondo della chitarra
classica per essere eccessivamente intellettuale e di non comprendere il
carattere “nervoso” spagnolo.
Nel frattempo infatti mentre in Andalusia era in corso questo grande
cantiere musicale dal forte carattere popolare, nel resto d’Europa, in
particolare in Italia, possiamo assistere alla nascita dalla chitarra barocca
della moderna chitarra classica, e soprattutto allo sviluppo in due fasi del
repertorio colto della chitarra.
La chitarra barocca eredita le tecniche del liuto e della vihuela e fino al
Seicento ebbe un notevole successo, costruendo la prima vera e propria
letteratura musicale per chitarra, che si definì intorno al contrappunto
tipico del periodo. Verso la fine del Seicento però e per gran parte del
Settecento l’attenzione verso la chitarra si dissolse e con essa si offuscarono
per lungo tempo la consapevolezza tecnica e lo sviluppo di un repertorio
dello strumento.
Alla fine del settecento furono i liutai napoletani i primi a produrre chitarre
a sei corde, e ben presto l’arte della liuteria chitarristica raggiunse un
altissimo grado di raffinatezza e la chitarra si diffuse anche in Spagna,
soprattutto a Malaga e Siviglia, sempre in Andalusia.
In parallelo allo sviluppo di quello strumento che - da un punto di vista
organologico - chiamiamo oggi “chitarra moderna”, si ha la prima grande
fioritura della cultura chitarristica nella musica Europea e la nascita di un
consistente repertorio originale per la chitarra. Il periodo compreso tra gli
ultimi anni del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento è ricordato come
quello dei grandi “chitarristi-compositori”.
Questi personaggi furono i primi a portare la chitarra, da strumento quasi
esclusivamente popolare, al ruolo di strumento da concerto. La tecnica si
sviluppò enormemente, e la funzione di semplice accompagnamento lasciò
il posto, in alcuni autori, a notevoli vette di virtuosismo.
Sostanzialmente in quest’arco di tempo si struttura tutto il repertorio colto
della chitarra, con autori come Ferdinando Carulli, Mauro Giuliani,
Francesco Molino e Matteo Carcassi in Italia, e in Spagna Fernando Sor e
Dionisio Aguado. Questi autori saranno fondamentali sia come compositori
per chitarra, sia come didatti, infatti a loro va attribuita la prima vera e
propria delineazione dei principi fondamentali della tecnica musicale e
strumentale sulla chitarra. Fra i metodi che hanno segnato maggiormente
lo sviluppo della tecnica chitarristica vanno citati il Méthode op.27 di
Carulli, il Nuevométodo para guitarra di Aguado, il Metodo di Giuliani in
particolare per la raccolta delle 120 formule di arpeggi per la mano destra,
e il Méthode pour la Guitare di Sor, che si distingue per l'approfondimento
di tematiche teorico/musicali riguardanti lo strumento e il suono che esso
produce. Questi metodi sono ancora oggi alla base dello studio della
chitarra classica nei Conservatori e rappresentano una tradizione colta
slegata dalle tradizioni popolari che abbiamo preso in esame.
Questo periodo d’oro della chitarra porterà anche ad un consistente
repertorio da camera e tra gli autori più rappresentativi in tale campo vi fu
l'italiano Filippo Gragnani, oltre ai più noti Carulli, Molino, Giuliani e Sor.
Oltre al duo di chitarre, e talvolta al trio, le formazioni più tipiche sono
violino e chitarra, flauto e chitarra, pianoforte e chitarra; in Gragnani si
osservano formazioni di estensioni inedite, che arrivano a comprendere
anche sei interpreti (flauto, clarinetto, violino, 2 chitarre, violoncello).
In ultimo si tentò in questo periodo di comporre concerti per chitarra e
orchestra, operazione che chiaramente incontrava dei problemi di
orchestrazione dovuti alla scarsa potenza sonora della chitarra.
Con l’avvicendarsi dei grandi compositori dell’Ottocento intorno alla
sinfonia e all’Opera assistiamo infatti ad un progressivo declino della
cultura chitarristica, che sopravvisse in ambiti più ristretti ad opera di pochi
compositori. La figura dominante, per fama, all'interno di questo panorama
fu certamente quella dello spagnolo Francisco Tárrega. La sua opera fu di
importanza capitale: al di là dei discussi meriti nello sviluppo della tecnica,
egli con la sua "scuola" mantenne viva la tradizione chitarristica spagnola, e
molti dei suoi allievi, come Emilio Pujol, Miguel Llobet e Daniel Fortea,
saranno dopo di lui figure centrali del panorama chitarristico mondiale.
Tarrega fu inoltre importante per aver fatto le prime trascrizioni per
chitarra, dando linfa al repertorio chitarristico, trascrivendo spesso
composizioni pianistiche.
Appare però evidente da questa panoramica come il ruolo della chitarra
nell’ambito della musica colta fosse minoritario alla fine dell’Ottocento, e
fatta eccezione per alcuni caratteri dalla musica spagnola, non fosse stato
capace di veicolare appieno le tradizioni che abbiamo analizzato
precedentemente. Benché ora dotato di una letteratura musicale infatti, la
chitarra non riesce a trovare nella musica classica il ruolo che ha nelle
musiche popolari e questo porterà le successive generazioni di chitarristi a
dividersi tra i chitarristi classici e non, con una forte differenza tecnica e di
approccio allo strumento, al contrario del mondo pianistico che avrà anche
nel corso del Novecento un rapporto coerente con la grande e
imprescindibile cultura classica e romantica.

Verso la fine dell’Ottocento grazie al liutaio tedesco Cristian Frederick


Martin trasferitosi a New York abbiamo la prime cosiddetta chitarra “folk”,
una chitarra con corde in acciaio o bronzo, che diventò subito popolare
negli Stati Uniti e che favorì lo sviluppo del repertorio folk americano e del
country, oltre ad essere lo strumento principe del blues. Come per il
flamenco, anche negli Stati Uniti nel corso dell’Ottocento possiamo vedere
come la chitarra sia diventata il centro gravitazionale di una fusione di più
culture popolari.
La musica folk americana è infatti l’unione delle varie tradizioni musicali
popolari del nord Europa e via via ha ricevuto l’influsso degli altri popoli che
emigravano nel Nuovo Mondo. La chitarra per le sue caratteristiche simili a
tanti altri strumenti delle tradizioni europee e del mondo, e per la sua
comodità e facilità aveva larga diffusione nelle feste e nella definizione
delle canzoni popolari, ed anche da queste tradizioni e occasioni prese il via
l’improvvisazione jazz, poiché in questi eventi erano tipiche le digressioni
musicali improvvisate da piccole formazioni con chitarra, violino e
contrabbasso.

Arrivati dunque all’inizio del Novecento, come era stato detto


nell’introduzione, ci ritroviamo di fronte uno strumento incerto sul suo
ruolo.
Abbiamo visto la diffusione nelle musiche popolari e un progressivo
congiungimento delle tecniche dei numerosi strumenti a corde pizzicate
intorno alla chitarra, ma anche un ruolo minoritario nella musica colta.
Abbiamo dunque uno strumento anarchico, nomade e soprattutto non
univoco. Altrettanto anarchica è l’America del periodo, una terra piena di
potenzialità e al contempo problemi, che segna nei suoi confini geografici
una rivoluzione nel tempo, pronta a stravolgere gli equilibri millenari
dell’Occidente europeo.
E’ qui che si affaccia intorno alla chitarra il Blues.
Il Blues come tante altre musiche popolari non ha un inizio definito, ma
sappiamo identificarlo all’interno della comunità afroamericana,
un’evoluzione dei canti di lavoro nelle piantagioni e degli spiritual, canti
religiosi delle comunità afroamericane. Essendo una comunità composta da
tutti ex-schiavi, la maggior parte di loro non aveva alcuna istruzione
musicale, e questo favorì lo sviluppo di una musica ibrida, tra le
caratteristiche della musica africana e del canto islamico, già evolutesi in
secoli di trasmissione orale lontani dall’Africa, e con l’influenza dell’armonia
europea, ereditando l’attrazione tonale delle cadenze, pur mantenendo
una circolarità lontana dallo sviluppo tipico delle composizioni europee.
Molte delle caratteristiche del blues, a cominciare dalla struttura antifonale
e dall'uso delle blue notes, possono essere fatte risalire infatti alla musica
africana. Sylviane Diouf ha individuato molti tratti, tra cui l'uso di melismi e
la pesante intonazione nasale, che fanno pensare a parentele con la musica
dell'Africa centrale e occidentale. L'etnomusicologo Gerhard Kubik,
professore all'Università di Magonza, in Germania, e autore di uno dei più
completi trattati sulle origini africane del blues (Africa and the Blues), è
stato forse il primo ad attribuire certi elementi del blues alla musica
islamica dell'Africa Centrale e Occidentale:
"Gli strumenti a corda (i preferiti dagli schiavi provenienti dalle regioni
islamiche) erano generalmente tollerati dai padroni che li consideravano
simili agli strumenti europei come il violino. Per questo motivo gli schiavi
che riuscivano a procurarsi un banjo avevano più possibilità di suonare in
pubblico. Questa musica solista degli schiavi aveva alcune caratteristiche
dello stile di canzone arabo-islamica che era stata presente per secoli
nell'Africa centro-occidentale".
Kubik fa inoltre notare che la tecnica, tipica del Mississippi e ricordata dal
bluesman W. C. Handy nella sua autobiografia, di suonare la chitarra
usando la lama di un coltello, ha corrispettivi in Africa. Anche il diddley
bow, uno strumento casalingo fatto da una singola corda tesa su un'asse di
legno, che viene pizzicata modulando il suono tramite uno slide fatto di
vetro e che si incontrava spesso nell'America meridionale agli inizi del
Novecento, era di derivazione africana. Nello specifico questa tecnica
derivava dalle Hawaii, che portò alla diffusione delle cosiddette “hawaii
guitar”, a loro volta evoluzione delle chitarre spagnole importate
nell’Ottocento.

Il blues dunque si lega agli strumenti a corda, specialmente alla chitarra,


strumento fertile poiché scevro da tradizioni e immediato nell’uso, oltre a
poter convogliare meglio le sonorità di una musica non intellettuale, e non
necessariamente tonale.

W.C. Handy, nominatosi “padre del blues”, raccontò appunto di un incontro


folgorante con un chitarrista blues per strada e compreso il potenziale della
sonorità e della struttura armonica del blues, ripropose il genere con la sua
orchestra, e diede il via alle grandi orchestre blues.
Questo però costrinse a relegare la chitarra a strumento ritmico, o a
toglierla del tutto in favore del pianoforte. La chitarra ancora una volta per
le sue caratteristiche acustiche è costretta ad un ruolo minoritario, più
intimo.
Parzialmente questo gap verrà ovviato dalla registrazione: con il successo
del blues, poterono essere registrati molti rappresentanti del cosiddetto
“Delta Blues”, ma comunque non poterono uscire dai canoni di una musica
“da camera”, e fino alla nascita della chitarra elettrica, la chitarra, che
aveva permesso la nascita del genere, non trovò lo spazio adeguato nella
musica del periodo.

A cavallo tra il blues e il jazz troviamo Eddie Lang, padre della chitarra jazz,
figura innovativa, che rappresenta un esempio perfetto dell’approccio
pioneristico che i chitarristi di ogni generazione hanno dovuto adottare per
fronteggiare la storia del proprio strumento:
Eddie Lang, pseudonimo di Salvatore Massaro, fu un chitarrista americano
di origini italiane. Suo padre infatti era un liutaio italiano e questa vicinanza
con la liuteria e la musica italiana, e gli studi iniziali di violino,tra cui
probabilmente lo studio del solfeggio, permisero a Eddie Lang, di avere un
background notevole in rapporto ai chitarristi dell’epoca. Egli infatti riuscì a
dare un’identità alla chitarra solista, e diede un impulso allo sviluppo
dell’armonia sulla chitarra. Inoltre fu un eccellente chitarrista blues e
registrò con lo pseudonimo di Blind Willie Dunn dischi di blues.
Ascoltando il suo linguaggio sia nel jazz ché nel blues è percepibile la
fusione che stanno adottando i chitarristi da questo momento in poi. Il
blues è la vera radice comune di tutti i chitarristi adesso, ed è pressoché
così ancora oggi. Eddie Lang apporta con originalità alcuni approcci
vagamente “classicheggianti”, ma il suo linguaggio è intriso di blues, come
per esempio la tecnica del bending, ossia la tensione di una corda per
alterarla di semitoni o toni, tecnica tipica del blues e del rock che verrà
usata meno nel jazz proprio per la tendenza a tentare di replicare
maggiormente il linguaggio dei fiati e del pianoforte, salvo poi trovare
spazio nei chitarristi più moderni e influenzati dal rock.
Ecco qui un esempio dell’uso del bending da parte di Eddie Lang nel brano
di sua composizione “perfect” del 1927, con una struttura tipicamente jazz,
con concatenazioni di 2-5 e turnaround:

Eddie Lang costruì le basi del chitarrismo jazz sia nel fraseggio, essendo le
sue
le prime registrazioni di un solo di chitarra, sia nell’accompagnamento, sia
nel chord melody, alternando accordi e frasi su una corda, aprendo le
porte al mondo della chitarra solo, la dimensione ancora oggi più
affascinante della chitarra jazz, nella quale è possibile percepire le
innumerevoli capacità sonore della chitarra, molto più rispetto ad un
contesto di gruppo.

Ascoltando i brani in chitarra solo di Eddie Lang si possono percepire tutte


le innovazioni apportate dal chitarrista italoamericano, e le influenze nel
suo stile.
Eddie Lang suonava principalmente con il plettro, con una tecnica
decisamente avanzata e sorprendente per la precisione in confronto agli
altri chitarristi dell’epoca, ma a sorprendere è soprattutto la conoscenza
dell’armonia e del manico della chitarra, l’uso di armonici naturali e
artificiali e gli elementi di musica classica:
L’introduzione che esegue in chitarra solo nel brano “april kisses” è in
questo senso eccezionale, alcuni passaggi sembrano replicare un tremolo
con il plettro, alternando accordi e armonici, intrecciando elementi che in
parte rimarranno inediti in molti chitarristi successivi. Eddie Lang è dunque
un pioniere, che ha aperto le porte alla chitarra jazz, ma rimane ancora oggi
un caso a sé, da studiare e analizzare proprio per la commistione di
elementi, spesso ancora grezzi, di culture lontanissime.
E’ importante sottolineare come prima di Eddie Lang la chitarra non fosse
ancora lo strumento cordofono più utilizzato nel jazz e nelle registrazioni di
musica pop dell’epoca, dove si preferiva l’uso del banjo, del mandolino e
dell’ukulele.
Eddie Lang morì prima dell’invenzione della chitarra elettrica, ma nella sua
breve carriera provò ad innovare sfruttando alcune tecniche di
microfonazione per catturare il più possibile alcuni colori della chitarra che
non uscivano fuori dall’accompagnamento ritmico con la microfonazione
classica.

Eddie Lang fu fondamentale per tutta la generazione di chitarristi


successiva, specialmente per Django Reinhardt, che deve ad Eddie Lang sia
l’approccio ritmico, sia chiaramente l’aver aperto le strade alla chitarra
solista. Importanti in questo senso furono i dischi di Lang insieme al
violinista e amico, anch’egli italoamericano, Venuti, che anticiperanno di
dieci anni la collaborazione tra Django e Grappelli.

In contemporanea ad Eddie Lang abbiamo il chitarrista Lonnie Johnson, il


quale fu più vicino al blues per certi versi, ma che esprime insieme ad Eddie
Lang una completezza delle direzioni che assumerà la chitarra jazz. Johnson
non fu altrettanto innovativo come Eddie Lang nella chitarra solo, ma molte
delle soluzioni adottate da Johnson ebbero più successo dell’approccio di
Lang nella chitarra jazz. Se Lang ispirandosi al piano utilizzava larghi
intervalli e, data la sua conoscenza eccezionale del manico e dell’armonia,
forme di accordi differenti e rivolti, Johnson si concentrava più sull’aspetto
ritmico e sulle geometrie della chitarra.
Ascoltando i brani suonati in duo insieme dei due chitarristi è percepibile
questa differenza, anche di background, lo stile di Lang è più sobrio e
misurato, mentre Johnson sembra già arrivare alla potenza di Wes
Montgomery, con l’uso degli accordi nel solo per rafforzare un’idea ritmica
o per ottenere più potenza, e negli assoli si declina tutta la sua anima blues,
con una pennata più pesante (pennata che Lang usa più
nell’accompagnamento, in cui era imbattibile all’epoca).
Il loro disco del ‘29 Guitar Blues è un fenomeno unico, si percepisce la
libertà dello strumento e le anime che lo compongono, un incontro folle tra
Africa, Italia e la cultura nordeuropea declinata nel country (interessanti a
posteriori ascoltando oggi gli echi bluegrass in “hot fingers”).

A prendere lo scettro della chitarra in seguito a questa rivoluzione fu


l’inimitabile Django Reinhardt, considerato uno dei più grandi chitarristi di
tutti i tempi:
Django nacque in Belgio da una famiglia di etnia sinti e dopo un lungo
girovagare tra Europa e Nord Africa si stabilì a Parigi con la famiglia. La sua
cultura gitana fu fondamentale per la sua formazione musicale, poiché
come avevamo visto con il flamenco, la cultura musicale gitana ruota
attorno alla musica di gruppo, all’improvvisazione in piccole formazioni e
soprattutto agli strumenti a corda.
A diciotto anni Django aveva già intrapreso una carriera da apprezzato
banjoista, ma in un incidente perse l’uso della gamba destra e parte della
mano sinistra a seguito di un incendio della sua roulotte. Django non
poteva più usare anulare e mignolo e dovette abbandonare il banjo e
passare alla chitarra poiché era meno pesante e ruvida. Django fu quindi
costretto ad elaborare una tecnica per fronteggiare alla sua menomazione.
A seguito del passaggio alla chitarra, Django creò un gruppo insieme al
violinista Stephane Grappelli di soli strumenti a corda, Le Quintette du Hot
Club de France che s’impose come il primo importante gruppo jazz non
americano.

Anche Django come Eddie Lang aveva una conoscenza approfondita della
musica classica, ma è affascinante notare come l’elaborazione del
linguaggio classico in Django ancora più che in Eddie Lang sia slegata dalla
chitarra classica: Django conosce l’armonia, suona sugli accordi con la
qualità formale di Bach, ma con il plettro e senza l’approccio polifonico e la
tecnica della mano destra tipica della chitarra classica. I chitarristi quindi
reinterpretano, imitano la musica classica, ma non sono debitori ad una
reale tradizione chitarristica.
Django inoltre non sapeva né leggere le parole né la musica.
Lo stile di Django era sicuramente debitore dell’approccio ritmico di Eddie
Lang che Django ripropose accentuandolo, nella cosiddetta “pompe”,
rafforzando lo swing sul due e sul quattro in maniera veloce e pesante,
approccio che si è poi cristallizzato ed è ancora alla base della pulsazione
del manouche o gipsy jazz.
Django a causa della sua menomazione poteva usare solo determinate
forme di accordi e quindi faceva spesso sostituzioni armoniche che
caratterizzano il suono del manouche.
Le influenze classiche e gitane resero il suo linguaggio unico, l’uso di
arpeggi e ornamentazioni lo rendeva un linguaggio sofisticato e maturo
rispetto all’aggressività del linguaggio jazz americano dell’epoca. Django
inseriva spesso la scala minore melodica e armonica e la diminuita, che
davano un tocco mediterraneo e esotico al suo linguaggio.
La tecnica di plettrata di Django, che sicuramente muove i passi da quella
raggiunta da Eddie Lang colpisce per la capacità espressiva, per la velocità e
la precisione che poteva raggiungere, e fu fondamentale per disegnare il
suono della chitarra solista jazz e in generale della chitarra, visto lo sviluppo
di una tecnica simile a quello che viene definito “economy picking”.
Negli ultimi anni della sua vita Django si avvicinò al nascente linguaggio
bebop e tramite un pickup iniziò a suonare per la prima volta elettrificato,
e le registrazioni del periodo sono una testimonianza interessantissima
della capacità pionieristica di un chitarrista come Django capace di
riadattare il suo stile alla nuova dimensione elettrica della chitarra, oltreché
di una qualità straordinaria che ci mostra un musicista al suo apice
espressivo.
Il linguaggio di Django in questo periodo certamente si rifà ai fiati del
bebop, e questo ne influenza alcune variazioni, ma anche da un esame
strettamente chitarristico possiamo notare come il confronto con
l’elettrificazione lo porti ad addolcire la sua plettrata, è un suono molto più
legato, il ritmo non essendo più scandito dalle frasi nel suo stile gipsy ora è
molto più legato ad un displacement ritmico, a spazi, risultandone in una
libertà espressiva che la chitarra difficilmente aveva potuto incontrare.

Un esempio di questo cambiamento si può ascoltare nella sua registrazione


di “honeysuckle rose” con la band di Duke Ellington e confrontandola con la
sua precedente registrazione con Grappelli.
Django ripropone alcune frasi in maniera similare in entrambe le
registrazioni, ma l’impatto sonoro è completamente differente:
i suoi bending melodici e malinconici sulla chitarra acustica hanno ora un
sapore molto più blues, in entrambe le registrazioni esegue una parte
suonando per ottave, anche qui nella versione in elettrico è disarmante il
cambio della pasta sonora, che non è legato solo al supporto elettrico, ma
all’approccio differente che usa Django. Il suono per certi versi è
sorprendente quanto sia vicino al suono che avrà Wes Montgomery quasi
dieci anni dopo.
E’ la dimostrazione di come il chitarrista sia ‘educato’ per natura dello
strumento a reinventarsi, proprio perché non esiste un codice, è il
musicista a creare la tecnica in fieri.
Da sottolineare il fatto che le registrazioni in elettrico siano con sotto una
big band, cosa impensabile prima dell’elettrificazione.

In contemporanea all’esperienza, a tratti unica, di Django in Europa, negli


Stati Uniti l’uso della chitarra elettrica sta già avendo un pioniere che si
inserisce insieme a Django e Eddie Lang tra i padri della chitarra jazz:
Charlie Christian.
Charlie nasce in Texas nel 1916 in una famiglia di musicisti. Charlie Christian
cresce quindi assorbendo la musica blues che è ovunque negli Stati del sud
dell’epoca. All’epoca suonava con un microfono tra le ginocchia per
amplificare il suono della sua chitarra acustica. Al contrario di Django che si
districa all’interno della cultura gitana, abituata alle piccole formazioni con
chitarre, banjo e strumenti ad arco, Charlie Christian sente da subito
l’esigenza di una maggiore potenza di suono.
Due incontri cambiano la sua vita, e la storia della musica.
Nel 1932 conosce il grande sassofonista Lester Young, ha modo di suonare
con lui in diverse jam session e di studiarne lo stile fluido e lirico, un
approccio che ritroviamo poi nelle improvvisazioni chitarristiche di Charlie:
linee melodiche lunghe e complesse che proseguono oltre i cambi di
accordo, note ribattute e frasi ripetute come ostinati. Ritmicamente,
melodicamente e anche nel timbro, la chitarra di Christian prende
ispirazione dai fiati.
Nel 1939, Christian suona regolarmente nelle orchestre che si esibiscono
nel suo stato. È conosciuto per la sua abilità tecnica, la velocità e la capacità
di creare frasi musicali innovative ed è molto ricercato: pagato 2 dollari e
mezzo a serata, il doppio degli altri musicisti locali.
Viene così individuato dal talent scout John Hammond che lo raccomanda a
suo cognato Benny Goodman, il quale inizialmente non rimane convinto da
Charlie Christian. Successivamente Hammond prova di nuovo a far
schioccare la scintilla dai due: durante un concerto di Goodman in un locale
Hammond fa salire Charlie sul palco. Benny Goodman decide quindi di
chiamare un vecchio brano, Rose Room, sperando di cogliere impreparato il
chitarrista. Charlie Christian però attacca la sua gibson ES 150 e sorprende
Benny Goodman con un solo lunghissimo, tirando il brano per 48 minuti.
Purtroppo solo 3 anni dopo una tubercolosi stroncherà la sua carriera, ma
in pochi anni Charlie Christian riesce a scrivere la storia della chitarra.

Lo stile di Christian è evidentemente debitore di Lonnie Johnson e Eddie


Lang. Ma soprattutto dal primo prende la foga blues, un piglio aggressivo
nonostante il supporto della chitarra elettrica. Qui si nota subito infatti
come l’equivocità dello studio della chitarra generi due direzioni differenti
in Christian e Django. Se il secondo consolidandosi sull’acustica porta
sull’elettrica un suono più morbido, Christian è molto più aggressivo
sull’elettrica.
Il suono è blues nelle intenzioni, nell’approccio, è chiaro ormai che la
tradizione blues sia il vero vocabolario comune dei chitarristi, però Charlie
Christian sta tentando di riportare sulla chitarra il suono dei fiati, e questo
si sente in due aspetti: Charlie lavora sulla plettrata e sul legato per
articolare come un fiato, cosa che finora non aveva fatto parte dello studio
dei chitarristi che abbiamo osservato. Django ha una plettrata che rimarrà
legata al mondo della chitarra manouche e che a tratti sembra prendere
dall’approccio del flamenco, sicuramente ereditata dalla musica gitana e
dallo stile del banjo. Eddie Lang era altrettanto “classicheggiante” e
acustico nel suono, uno stile che gli permetteva un controllo totale, tanto
da replicare i trilli della musica classica, ma con un suono meno fluido.
L’altro aspetto non da poco è l’assenza dei bending: Charlie Christian è non
a caso considerato uno dei padri del bebop. Egli si ritrova a suonare con
tutti i musicisti che di lì a poco avrebbero stravolto il jazz. E per questo
motivo il suo linguaggio si incrocia con il loro, parliamo di una ristretta
comunità di musicisti che sta elaborando insieme una rivoluzione musicale
e quindi implicitamente stabiliscono uno standard, e lo fanno intorno ai
fiati. Charlie quindi difficilmente suonerà bending o frasi eccessivamente
chitarristiche, e questo diventerà il linguaggio preponderante della chitarra
jazz per moltissimi anni.

Nel suono però Charlie Christian innova impercettibilmente: il linguaggio


jazz che si avvicina sempre più al bebop si costruisce in lunghe jam
notturne. E’ rapido e impulsivo. E’ sporco. E così come Charlie Parker sul
sassofono, anche Charlie Christian tira fuori un suono grezzo ma sincero. La
differenza rispetto all’ascolto degli altri chitarristi che abbiamo analizzato è
evidente. Sia Eddie Lang ché Django a modo loro sono caratterizzati da una
pulizia formale, nonostante specialmente in Django la necessità di tirare
fuori il suono si traduca in una plettrata scandita e pesante. Il loro stile però
è formato da cellule ben precise, gli arpeggi e le scale di Django sono
pattern riconoscibili e ancora oggi vengono eseguiti nella stessa maniera.
Ma soprattutto è evidente che per esprimere un’idea melodica chiara siano
costretti dal suono della chitarra a ricercare maggiore chiarezza possibile.
La chitarra al contrario dei fiati non può tenere note lunghe, così come un
colpo forte sulla chitarra non potrà mai raggiungere l’intensità di un colpo
deciso di fiato su un sassofono.
Charlie Christian in parte aiutato dall’elettrificazione, restituisce un suono
più blues, più grezzo. Charlie Christian rispetto a Lang e Reinhardt è più
lontano dalla musica classica e grazie a questo riesce a dare corpo all’anima
della chitarra.
La chitarra elettrificandosi non perde il suo suono acustico, anzi, la ricerca
che da qui in poi faranno molti chitarristi riuscirà a valorizzare ancora di più
le sfumature della chitarra. Il chitarrista gioca con le possibilità
dell’amplificazione per restituire quelle sensazioni, vibrazioni, quel contatto
viscerale con le corde che normalmente può più facilmente percepire solo
lui.
Da qui partirà una ricerca su come suonare rispetto ai pickup, anche la
plettrata avrà sempre più variazioni, il suono diventa ancora più sincero.
In questo senso la chitarra ha una forte capacità di cattura delle emozioni.
L’eredità di Charlie Christian verrà raccolta principalmente da due
fenomenali chitarristi, Barney Kessel e Wes Montgomery, i quali
determineranno definitivamente il suono della chitarra jazz fino agli anni 70
e rimangono ancora oggi fondamentali per la formazione dei chitarristi jazz.
Kessel nasce nel 23 e Wes nel 24 ed entrambi si formano sulla chitarra
ascoltando Charlie Christian.
Barney Kessel si appassiona alla chitarra sin da piccolo ma crescendo in una
famiglia povera è costretto a studiare da solo e a comprarsi la sua prima
chitarra vendendo giornali. Inizia a suonare in giro e a quattordici anni è già
un musicista completo, tanto che nel 39 a soli sedici anni il suo nome è così
noto che lo stesso Charlie Christian andrà a sentirlo e suonerà con lui in una
storica jam session.
Barney Kessel per sopravvivere inizialmente affiancherà allo studio della
chitarra piccoli lavori come il lavapiatti, e ben presto si riuscirà a farsi un
nome tale da essere uno dei musicisti più ricercati del periodo e diventerà
uno storico sessionman.
Barney Kessel grazie alle nuove possibilità dell’amplificazione elettrica riuscì
a liberare definitivamente la chitarra da un ruolo solo ritmico e ampliò le
possibilità armoniche della chitarra, diventando un maestro del chord
melody e arricchendo le possibilità della chitarra usando inversioni,
valorizzando le scelte melodiche e l’uso delle voci negli accordi.
Oggi l’approccio dei chitarristi è fortemente orientato in questo senso, e si
può dire che ci siano due approcci principali che derivano proprio
dall’intenzione e la scelta nell’uso degli accordi sulla chitarra. Se per
esempio esistono ancora chitarristi che sfruttano simmetrie negli accordi
cercando principalmente la pasta sonora e ritmica della plettrata, come per
esempio fa Peter Bernstein, con un vocabolario di accordi ricchissimo e con
l’uso di armonie quartali, ma sfruttato in un’ottica molto spesso ritmica
prescindendo spesso da una rigorosa logica armonica, la ricchezza
dell’armonia di cui fu pioniere Kessel ha portato oggi molti chitarristi ad un
uso accorto degli accordi, e allo sviluppo di altre tecniche per suonarli. Mike
Moreno ed altri chitarristi contemporanei per esempio non suonano gli
accordi plettrandoli ma pizzicano contemporaneamente l’accordo con la
tecnica dell’hybrid picking, con l’uso di plettro e dita, ricreando una
sensazione pianistica dell’accordo con la contemporaneità delle voci.
Con Barney Kessel assistiamo quindi a una progressiva conquista delle
scene da parte della chitarra: Barney Kessel è uno studioso indefesso, si
diceva studiasse 16 ore al giorno, e infatti dopo essersi formato nel jazz
nelle strade, coltivò personalmente studi di chitarra classica e
orchestrazione. Ancora una volta il chitarrista si dimostra pioniere, alla
ricerca di nuove modalità, di una soluzione ai limiti della chitarra. Barney
Kessel riesce sia a mostrare la potenza del guitar trio, sia a farsi spazio in
grandi formazioni o per esempio negli anni 50 con il trio di Oscar Peterson.
Proprio in quartetto con Oscar Peterson assistiamo a momenti in cui Oscar
e Barney si alternano, a dimostrazione dello status della chitarra di
strumento armonico. Nell’album Oscar Peterson Quartet del 1954 per
esempio eseguono una bellissima versione di Body and Soul in cui si
dividono la A e la B tra pianoforte e chitarra e assistiamo ad un livello di
raffinatezza del chord melody che si confronta a viso aperto con il
pianoforte di Oscar Peterson. Sul solo di contrabbasso le loro voci si
incastrano alla perfezione.
Come detto, in contemporanea a Barney Kesell abbiamo un altro gigante
della chitarra jazz Wes Montgomery, forse il chitarrista che più di tutti è
riuscito a segnare la chitarra jazz, stabilendone definitivamente il raggio
d’azione e la potenza. Wes Montgomery andrebbe analizzato prima di tutto
come musicista, in quanto prescinde dal mondo della chitarra, diventando
uno dei musicisti più espressivi della musica Jazz.
Cresciuto con i due fratelli Buddy e Monk che inizieranno presto a suonare
uno il piano e l'altro il contrabbasso, all'età di 19 anni ha la "folgorazione"
ascoltando un brano di Charlie Christian.
Da quel momento la chitarra diventa la sua ossessione: compra un
amplificatore e una chitarra e inizia a studiare da solo quelle linee
melodiche copiate dai dischi di Christian.
Nel frattempo si sposa, ha dei figli, lavora come saldatore in una piccola
officina di Indianapolis, ma tornato a casa dal lavoro passa intere notti con
la chitarra in mano. Si dice che fu a seguito delle lamentele dei vicini che
smetterà di usare il plettro e inizierà a suonare con il pollice dando vita al
suo caratteristico suono caldo e ovattato, il suono “alla Wes” che tantissimi
chitarristi cercheranno di imitare.
Wes Montgomery appoggiava la mano destra con le dita aperte, sulla parte
anteriore della chitarra e sul bordo del battipenna proprio dietro il pickup al
manico. Il pollice pizzicava le corde con un colpo rilassato proveniente dalla
seconda articolazione. La punta del pollice era inclinata all’altezza della
prima articolazione con una piega all’indietro. Montgomery prediligeva i
colpi verso il basso, ma riproduceva linee lunghe e complesse con colpi
alternati, quando lo desiderava.
Il fraseggio di Wes come già quello di Charlie Christian e Barney Kessel si
rifaceva al suono dei fiati del bebop, ma lui studiò molto anche Django
Reinhardt e in più la sua indole blues lo caratterizzò portandolo ad un
fraseggio personalissimo e comunque fortemente chitarristico.
Come Django anche Wes usava principalmente indice, medio e anulare
della mano sinistra in pieno stile blues e suonava frasi costruite in
orizzontale sul manico della chitarra.
Wes poi sviluppò appieno la tecnica delle ottave sulla chitarra che avevamo
già visto comparire marginalmente in altri chitarristi. Wes affina la tecnica
rendendola un marchio di fabbrica, ma soprattutto uno strumento
espressivo geniale, infatti era capace di sviluppare anche frasi
relativamente complesse per la tecnica che richiede l’uso delle ottave, con
una precisione e uno swing che rendevano quei momenti il fulcro dei suoi
soli, laddove Barney Kessell per esempio sfrutta maggiormente accordi e
inversioni.
E’ fondamentale analizzare da questo punto di vista come per quanto sia
possibile arricchire l’armonia sulla chitarra, molte soluzioni come quella di
Wes ma anche il comping colorato e dolce di Ed Bickert più avanti e anche
per molti chitarristi moderni, l’uso di accordi con poche note, essenziali, sia
spesso più efficace sulla chitarra.
Wes suonava le ottave pizzicandole contemporaneamente.
Oltre all’uso delle ottave però, Wes approfondì anche la sua tecnica
accordale nei soli. Rispetto a Barney Kessel come detto si concentrò meno
sulla ricchezza degli accordi e sulle inversioni, ma tramite la cosiddetta
tecnica dei block chords mutuata dal piano, eseguiva veloci passaggi dalla
forte connotazione ritmica. Seguiva le note degli accordi e armonizzava le
note fuori con accordi diminuiti sfruttando le geometrie della chitarra.
Montgomery era altrettanto abile nel riarmonizzare e rigenerare una
melodia (il tema) con il suo approccio basato sui block chords, aggiungendo
spesso voicing insoliti e decisamente peculiari per la struttura armonica. Un
esempio ci viene fornito dalle sue sorprendenti performance in standard
come I’ve Grown Accustomed To Her Face ma anche nel brano di Wes
titolato Mi Cosa.
E’ interessante notare come la costruzione formale dei soli di Wes sia
diventata parte del ‘vocabolario’ di moltissimi chitarristi.
La seconda rivoluzione silenziosa
La chitarra jazz con Wes Montgomery e Barney Kessel è ormai delineata e
dagli anni 50 la chitarra è sempre più predominante. Si è creato un jazz
chitarristico attorno al bebop forte e tagliente e i chitarristi sono riusciti
sempre di più ad inseguire la potenza del fraseggio dei fiati.

“Manca” ancora qualcosa però, è come se alcune premesse che avevamo


trovato nel suono della chitarra non abbiano trovato ancora il dovuto
spazio. C’è un suono, ancestrale, forse mai esistito realmente, che però è in
quelle corde e a tirarlo fuori sarà Jim Hall.

Jim Hall nasce nel 1930 e forse leggermente più in sordina rispetto a tanti
altri nomi che abbiamo analizzato e non, si farà strada nella chitarra jazz
con un approccio quasi cameristico, leggero, incantato. Jim Hall è un
“ingegnere del suono”, un incantatore che libera il suono della chitarra
dalle costrizioni tecniche dello strumento e restituisce l’intimità del
contatto con le corde, con la cassa armonica.

Jim Hall si rivela un musicista fondamentale poiché arricchisce il linguaggio


jazzistico: i discorsi di Jim Hall non suonano mai come un’unione di frasi,
ma sono fluidi, pensati, elaborati come può fare uno scrittore
postmoderno, è come se stesse dicendo tutto per la prima volta,
messaggero di un mondo vergine.

Jim Hall nasce in una famiglia di musicisti, la madre una pianista, il nonno
un violinista e lo zio chitarrista, cosa che lo porta ad avvicinarsi alla musica
sin da piccolo. All’età di dieci anni riceve come regalo di Natale una chitarra
e decide di dedicarsi con impegno allo strumento.
Anche Jim Hall fu influenzato da Charlie Christian, a tredici anni ascoltando
Solo Flight rimane folgorato e inizia a militare in diverse formazioni
suonando nello stile di Charlie Christian.

Finite le scuole superiori però si iscrive al conservatorio, il Cleveland


Institute of Music dove studia teoria e chitarra classica.
E’ proprio questo elemento a distinguerlo dagli altri chitarristi che abbiamo
finora analizzato. Anche i chitarristi che avevano approfondito lo studio
della musica classica come Kessel, non avevano studiato chitarra classica.

Questi studi influenzeranno l’approccio di Jim Hall alla chitarra jazz. Jim Hall
pensa anche in maniera polifonica, ma soprattutto è attento al tocco, al
suono acustico dello strumento. Ha una concezione precisa della melodia e
dello spazio che spesso sfrutterà come in una suite classica. Jim supera in
qualche modo la paura giustificata di perdere potenza del suono, ed egli
stesso continuerà per tutta la vita una ricerca del suono anche con
sintetizzatori ed effetti.

Jim quindi sin da subito può unire due anime, una quella jazz-blues della
chitarra di Charlie Christian e dei fiati bebop che lo ispireranno, ma anche
un’anima quasi inedita fino a quel momento, quella della chitarra classica,
uno strumento come avevamo visto a suo modo “incompleto”, che non
aveva trovato un reale posto all’interno della musica classica. C’è quindi
l’influenza di quel mondo della chitarra classica, intimo, molto influenzato
dalle sonorità spagnole a loro volta sintesi di svariate culture dell’Europa,
del medio oriente e del Nord Africa.

Attraverso la chitarra di Jim Hall respiriamo nel jazz questa sintesi di culture
che si rincontrano, che si fondono, con il piglio di un musicista colto che si
affaccerà anche all’avanguardia. Sono aspetti che potrebbero sembrare
peculiarità uniche di un musicista coltissimo, ma che in realtà ci indicano
delle direzioni sulla chitarra, poiché finalmente si riesce a percepire il
potenziale inespresso che c’è nel suono della chitarra. Le idee musicali di
Jim Hall passano proprio attraverso la chitarra, l’unico strumento a quel
punto che possa incarnare tutte quelle anime.

Un esempio interessantissimo è il disco Western Suite registrato con il


sassofonista Jimmy Giuffrè e con il trombonista Bob Brookmeyer. L’idea di
Giuffre era quella di creare un trio che non avesse nessuna ritmica a tenere
il tempo metronomico e dove l’improvvisazione e l’interplay fossero il
motore trainante di questo nuovo esperimento.
Ne esce fuori un disco sognante, molto più vicino alla musica
contemporanea che al jazz, nel quale Jim Hall si trova a confrontarsi con
una formazione insolita per un chitarrista del periodo, ma soprattutto affina
le sue qualità nell’arrangiamento, nella scelta dei voicing, in quello stile
chitarristico di cui parlavamo pieno di spazi e respiri gestiti bene. La
rivoluzione di Jim Hall come abbiamo già detto è proprio questa, riuscire a
creare spazio con la chitarra, e non è una cosa da poco. Spesso il chitarrista
per fronteggiare la poca resa sonora della chitarra deve riempire gli spazi e
infatti avevamo visto una già consolidata tradizione anche di soli in block
chords ritmici e pieni di corpo. Con Jim Hall abbiamo accordi sospesi,
sfruttati come una pennellata su un dipinto, pieni di colori e capaci di
restare.

Il suono di Jim Hall riesce ad essere moderno pur essendo principalmente


acustico, proprio perché più di altri è stato capace di restituire quel suono
acustico che era rimasto bloccato dai problemi dell’amplificazione: è un
suono vero, come è vera la materia del suo fraseggio.
Non è un caso quindi che due tra i più grandi chitarristi della loro
generazione, Pat Metheny e Bill Frisell furono suoi allievi. E’ proprio dalla
sua ricerca che provengono le principali intuizioni sperimentali della
chitarra jazz di oggi. Jim Hall non è chiaramente l’unico, la musica si nutre
della molteplicità, ma spesso la ricerca in ambito chitarristico di nuove
sonorità sembra derivare dalle intuizioni di Jim Hall.

Ascoltando i dischi in duo con Bill Evans, Undercurrent e Intermodulation, o


per esempio il disco live at north sea jazz festival in duo con il trombonista
Bob Brookmeyer abbiamo come la sensazione che lo strumento sia arrivato
al suo apice. Volendo usare una metafora, la perfezione nella musica e
soprattutto nel jazz è l’atto di spogliarsi, di sincerità con sé stessi e quindi
con il pubblico e come un novello San Francesco, Jim Hall privo dei suoi
vestiti parla con la chitarra.

Siamo dunque arrivati ad una cristallizzazione di quella che è la chitarra jazz


detta “tradizionale”, siamo passati attraverso le radici del blues di Eddie
Lang, la cultura gitana ed europea di Django, del bebop di Charlie Christian,
e quindi di Barney Kessel e Wes Montgomery. Abbiamo visto come i
chitarristi hanno approcciato il materiale del loro tempo in maniera
differente, ciascuno figlio della propria tradizione. Abbiamo visto Django e
Barney Kessel rievocare il linguaggio della musica classica e invece Jim Hall
esplorare il linguaggio della Chitarra classica. Abbiamo visto i chitarristi
confrontarsi con il problema dell’amplificazione, esplorare le possibilità
sonore delle nuove tecnologie. Chiaramente gli interpreti di questi
cambiamenti, di queste personali ricerche sono tantissimi, non abbiamo
nominato chitarristi straordinari come Joe Pass, Pat Martino, George
Benson, Grant Green o Ed Bickert, che a modo loro hanno anche loro dato
tantissimo alla conoscenza del manico e delle corde della chitarra.
In questa ideale e arbitraria suddivisione cronologica fa però l’ingresso un
fattore che sarà determinante per la chitarra jazz e per la chitarra in
generale dalla fine degli anni sessanta in poi, e che in varie misure investirà
anche alcuni dei chitarristi già analizzati.
La terza rivoluzione: il rock
C’è indiscutibilmente una chitarra prima e dopo il rock, molto più rispetto al
percorso della chitarra jazz, se non nell’influenza che quest’ultima ha avuto
sullo sviluppo della chitarra rock. Il rock infatti è la prima vera e propria
musica non territoriale costruita quasi interamente sulla chitarra.
Ed è proprio grazie al rock che la chitarra si farà molto più spazio all’interno
del jazz, fino ad assumere il ruolo primario che ha spesso oggi.

E’ il 68 quando esce Miles in the Sky di Miles Davis, album in cui si possono
rintracciare i primi elementi della trasformazione che avverrà con In a silent
way e Bitches Brew e in qualche modo con la nascita della fusion o jazz-
rock. In Miles in the sky alla chitarra elettrica c’è George Benson, chitarrista
eccezionale a cavallo tra Wes Montgomery e la chitarra ‘black’ che verrà
dopo e che deve tutto a lui. Nei suoi soli riconosciamo ancora forte lo stile
proprio di Wes, se non si conoscesse quanto avvenuto dopo si potrebbe
dire che tutto sommato, a parte gli arrangiamenti e l’approccio non più
swing, ché la chitarra non abbia subito grossi cambiamenti. Bastano due
anni e nel ’70 esce Bitches Brew, alla chitarra c’è un inglese, John
Mclaughlin. Ora è tutto differente: il suono della chitarra di Mc Laughlin è
acuto, distorto, una plettrata violenta segna piccole incursioni sonore, non
è un elemento ritmico, sembra di ascoltare i fiati del free. Nella traccia
“John Mclaughlin” si inserisce con brevi frasi distorte in cui esegue bending
e vibrati, sembra completamente un altro strumento. Si sente il blues,
tantissimo, ma come filtrato da un nuovo mondo. La chitarra è piena di
riverbero e come detto prende molto più spazio, riecheggia, crea un
tappeto sonoro.

Quanto sentiamo in Bitches Brew nel ’70 però sorprende solo perché
compare in un disco a nome di Miles Davis, maestro del jazz che solo dieci
anni prima era a suonare con John Coltrane. Quel suono per la chitarra è
ormai consolidato da quasi 10 anni. Si può prendere un qualsiasi disco degli
anni sessanta fuori dal jazz per scovare quei suoni. Acuti, taglienti, distorti,
con le chitarre che eseguono frasi violente, bending e una plettrata decisa.
Una tradizione di chitarristi senza una grande cultura chitarristica, cresciuti
con il blues e il primo rock’nroll sta segnando la musica e un’intera
generazione.

Sono grezzi e semplici, basta ascoltare i dischi dei rolling stones, dei
beatles, dei Cream o di Jimi Hendrix: rispetto alla tecnica, alla conoscenza
del manico raggiunta dai maestri della chitarra jazz che abbiamo analizzato,
questi chitarristi sembrerebbero non avere niente. Ma hanno un suono che
affascina, un suono inedito nella storia della musica. Sbaraglia le carte,
poiché è effettivamente qualcosa che non si era potuta ascoltare mai
prima, un’energia ancestrale che evolve dal blues. Ed è affascinante notare
come l’approccio che hanno i chitarristi rock negli anni sessanta ricalchi un
po’ i primi passi della chitarra jazz. Alcuni hanno sì studiato un po’ di jazz,
ma sono giovanissimi e privi di veri riferimenti, e esplorano. E forse il rock
nasce grazie a questa natura nomade della chitarra, nessun altro strumento
si concede così a uomini senza radici.

Prendiamo a caso tra i vari Purple Haze: Jimi Hendrix sta “inventando”, ciò
che fa non esisteva realmente nella chitarra prima, tutto ciò che veramente
si può rintracciare è la traccia del blues, anarchica per definizione, e un po’
di geometrie sul manico. Il solo dopo qualche frase si regge tutto su una
nota tesa in bending con violenza e plettrata a ripetizione, un suono
dirompente che nessuna chitarra avrebbe potuto fare prima. Jimi Hendrix
suona una stratocaster, una chitarra solid body, senza alcuna cassa
armonica. La sua voce è l’amplificatore, la distorsione generata dagli
amplificatori rotti diventa il suo strumento.

Voodoo Child inizia con un riff con il wah, un pedale che azionato attiva e
toglie un filtro sul suono della chitarra, e poi parte il brano con un suono
violento di chitarra, poche note, picchiate, con una potenza inaudita e poi
un solo che regge sempre su poche note in bending ripetute velocemente,
ogni tanto filtrate dal wah: la chitarra ora sovrasta ogni cosa, è il suono
principale che esce dai dischi, la batteria e il basso lavorano in sottofondo.
E’ quasi difficile descrivere un suono così dirompente, soprattutto rendere
l’innovazione che rappresentava in quel momento. Più avanti nel solo Jimi
inizia a passare il plettro trasversalmente sulle corde su e giù per il manico.
La chitarra nel rock sostituisce realmente i fiati del jazz: c’è come un legame
fuori dal tempo tra l’ultimo coltrane e Jimi Hendrix.

Quest’approccio naive dei nuovi chitarristi si traduce anche nei voicing, un


po’ del blues, un po’ del country, del pop. La chitarra a questo punto
prende tutto, senza limiti. Per capire come viene rielaborato l’uso dei
voicing da chitarristi come Jimi Hendrix basta ascoltare John Scofield: nel
suo brano Holidays, una sorta di canzone jazz-rock, si sentono
evidentemente i voicing di Jimi Hendrix. Sono semplici, immediati,
impensabili prima dell’elettrificazione del rock.
Negli anni ’70 con la nascita del cosiddetto Progressive Rock, l’operazione
del rock si incrocia con il passato, si mescola: i chitarristi di questa nuova
generazione hanno una conoscenza tanto del rock degli anni sessanta,
quanto della chitarra jazz e della chitarra classica. Nei dischi dei Genesis e
degli Yes troviamo tutti questi elementi, per la prima volta insieme in uno
stesso chitarrista. E’ come se nel viaggio che abbiamo percorso dai primi
strumenti a corda fino a questo momento per la prima volta queste tracce
nomadi della chitarra si incontrassero. Steve Howe, chitarrista degli Yes, è
un ottimo esempio di questa nuovo sincretismo, egli studia sin da piccolo la
chitarra jazz, studia lo stesso Charlie Christian, ma anche la chitarra classica,
il flamenco e poi il blues e il rock’n roll. Fragile degli Yes inizia proprio con
un introduzione di chitarra classica, e poi esplode in un rock con soli
fortemente influenzati dalla tradizione jazz.

In generale l’esplosione mondiale della chitarra, porta con sé tutte quelle


innovazioni e tradizioni che erano rimaste spesso relegate a esperienze
territoriali o di alcuni chitarristi: il flamenco, la musica latina con Santana, la
chitarra bossa nova, il jazz, il rock, la chitarra classica. E’ come se d’un tratto
l’uomo avesse esplorato un pianeta lontano, che era sempre stato lì, sotto
ai suoi occhi. Ma soprattutto la chitarra proprio per questa natura sincretica
e allo stesso tempo equidistante da ogni radice, unisce tutto senza
preoccuparsi di un’autorità musicale.

La sperimentazione negli anni settanta viaggia nel solco della chitarra e


dialoga fortemente con il jazz. Per esempio Robert Fripp porterà avanti
un’esplorazione matematica della chitarra e svilupperà un’accordatura per
quinte in una sorta di avanguardia jazz. La chitarra sembra poter dare voce
a paesaggi che sembravano muti. La musica ‘americana’, il bluegrass,
attraverso la rivoluzione della chitarra acquisiscono un immaginario sonoro,
quello del deserto. La chitarra diventa uno strumento lirico, sonoro, ma al
contempo ritmico. Si sviluppa il suono della moderna musica africana
rielaborando su economiche chitarre elettriche il suono degli strumenti a
corda che avevamo analizzato all’inizio.

La tecnica si affina anche grazie alla tecnologia: la resa e la pulizia che si


può raggiungere con la moderna amplificazione dà vita ad una generazione
di chitarristi fortemente tecnici, che in qualche modo danno vita in fieri a
questa tecnica chitarristica. L’uso del mignolo e la stessa posizione della
mano cambia e il suono e il modo di suonare la chitarra si sviluppano
intorno agli effetti, alla leva, agli amplificatori.

Questo si riflette nel jazz in una generazione di chitarristi nati a cavallo di


tutti questi mondi, una generazione di ‘viaggiatori dimensionali’ che
influenzerà a tal punto il jazz da avere un culmine chitarristico che supererà
in influenza e produzione tutti gli altri strumenti del jazz. E’ la generazione
di John Scofield, Bill Frisell, Pat Metheny, John Abercrombie e Mike Stern.
Questi chitarristi conoscono la tradizione, sono cresciuti nel rock e nel
progressive, si nutrono della loro tradizione americana, e stanno cercando
nella sperimentazione.

Nello specifico, John Scofield e Bill Frisell sono in qualche modo gli alfieri
della chitarra jazz contemporanea, gli ideali prosecutori di quel viaggio
iniziato con Eddie Lang, e che soprattutto partendo da quella che è stata la
rivoluzione di Jim Hall, hanno saputo aggiornare il linguaggio della chitarra
jazz a seguito dello stravolgimento del rock.

John Scofield nasce nel ’51 e sin da ragazzo inizia a suonare la chitarra in
ambito R&B e soul, avvicinandosi dopo al jazz. La sua infatti è una delle
prime generazioni cresciuta già in un’era “post-jazz” e il suo inconfondibile
stile nel jazz infatti rispecchia questa nuova natura dei chitarristi. Come
Frisell, Metheny e Stern anche lui studia a Berklee. Nel ’69 quindi si avvicina
al jazz e alla nascente scena jazz rock, e il suo debutto vero e proprio lo ha
con la band di Billy Cobham George Duke, musicista a cavallo tra jazz, funk
e fusion, che lavorò anche con Frank Zappa.

Il successo arriva però negli anni ottanta collaborando nei dischi jazz-funk
dell’ultimo Miles Davis, dove trova la definizione del suo stile e dopo questa
esperienza porterà avanti la sua prolifica carriera, sia in dischi da leader in
cui esplora sia il jazz classico, sia la sua personale commistione tra jazz e
soul. La caratteristica del suo suono è la prova del cambio paradigmatico
della chitarra jazz che stava già avvenendo dall’esperienza di John
Mclaughlin: Scofield, anche nei dischi più intimi e acustici, usa quasi sempre
l’overdrive, un effetto che riproduce la tipica ‘distorsione’ prodotta dagli
amplificatori rotti e che era la caratteristica del suono che abbiamo trovato
anche in Jimi Hendrix, ma in generale rappresenta il suono della chitarra
rock. Scofield lo sfrutta per tirare fuori un suono potente, pieno di alte,
attraverso il quale si avvicina molto di più ai fiati, ma soprattutto crea un
ponte credibile e funzionale tra il rock e il jazz, e lo fa senza sacrificare il
linguaggio jazzistico, né necessariamente tradendo l’anima swing del jazz.
Ed è proprio in questo che lo stile di Scofield risulta innovativo. Se la
generazione di chitarristi precedente che avevamo accennato tende a farsi
prendere dal rock al punto da costruire un linguaggio fusion a sé stante da
quello jazzistico, Scofield riesce a rievocare alla perfezione la tradizione,
che è vivace, si sente nel suo fraseggio. Dall’altra parte però la condisce di
bending e vibrato, di un fraseggio ritmico che strizza l’occhiolino al funk, ma
in realtà è come se si avvicinasse di più a certo solismo dei sassofonisti a là
Parker, con soluzioni inedite prima per la chitarra jazz.

Allo stesso tempo però Scofield è in piena sintonia con la chitarra jazz di
Wes Montgomery, e per esempio l’uso che fa delle ottave è una versione
aggiornata dell’approccio di Wes, salvo poi magari inserire voicing che
sembrano uscire da una canzone di Jimi Hendrix. Quello che porta la
chitarra jazz con Scofield a dominare dagli anni Ottanta in poi il mondo del
jazz è proprio questa capacità di essere un ponte, una summa del
Novecento, sostenuta poi negli anni da una ricerca nelle radici country e
blues dell’America che dona alla musica di Scofield una liricità unica.

Interessanti per comprendere il nuovo percorso della chitarra jazz


intrapreso con questa generazione di chitarristi sono i dischi in
collaborazione fatti tra di loro, come “I can see your house from here”
insieme a Pat Metheny e i dischi del gruppo Bass Desires di Marc Johnson
insieme a Bill Frisell. In questo periodo di trasformazione della chitarra
infatti si costruiscono talmente tante strade ché a volte sembra di ascoltare
strumenti differenti nell’interplay tra questi chitarristi. In parte sostenuti
dall’effettistica, in parte dalle formazioni differenti di ciascuno di loro, in
questi dischi vediamo mondi che si incontrano attraverso la chitarra.

L’esigenza di creare un nuovo spazio della chitarra jazz si traduce anche


nell’anima compositiva di questi chitarristi. Sono vari i dischi in cui Scofield
propone sue composizioni, scrivendo anche molti contrafact di standard
con la riedizione del suo stile. Dischi come “A gogo” in collaborazione con il
gruppo jazz-funk martin medeski wood per esempio hanno influenzato un
intero modo di approcciare al jazz, nel bene e nel male, aggiornandolo nel
nuovo millennio. Scofield nel disco come in altri contesti non si pone
problemi nell’alternare il linguaggio jazzistico a un linguaggio puramente
blues come quello di Stevie Ray Vaughan, e questo ha influenzato tutte le
generazioni successive. Che siano più vicini alla tradizione o più
sperimentali, la lezione di Scofield è stata interiorizzata al punto da essere
rielaborata, da essere celata anche nei musicisti più lontani da
quell’approccio. Per esempio Adam Rogers, che ha studiato proprio con
Scofield, è un chitarrista jazz moderno, che spazia da progetti più
sperimentali a un approccio ‘tradizionale’, ma approccia al blues con
l’intenzione di Scofield e si percepisce come il solco Wes – Benson –
Scofield sia diventato uno standard nella formazione jazz-blues dei
chitarristi moderni.

Siamo arrivati dunque a Bill Frisell, forse il chitarrista più importante di


questa generazione, colui che ha aggiornato la lezione di Jim Hall e l’ha
trasportata nel nuovo millennio, mostrandoci tutte le vie, anche più
improbabili che si potevano seguire studiando Jim Hall. Come il suo
Maestro, Bill Frisell è difficile da catalogare all’interno di un genere solo,
nonostante in qualche modo riesca a interpretare perfettamente l’anima
del jazz, ma la sua ricerca sulla chitarra nasce proprio da un approccio quasi
storico e antropologico, che si ripercuote nei numerosi stili che
caratterizzano il suo suono.

Nella musica di Frisell riconosciamo uno studio approfondito del jazz e


soprattutto del jazz delle origini, con un lavoro come quello di Jim Hall che
va alla radice, all’essenziale dei grandi standard, facendone uscire la forza
delle melodie. Lo stile di Frisell è però anche vastamente intriso di quelle
sonorità definite “americana”, a cui appartengono il bluegrass, il country e
in generale quel folk americano delle origini che ha molto in comune con il
jazz delle origini. Bill Frisell infatti grazie alle possibilità della chitarra, come
una macchina del tempo la sfrutta per rievocare quei suoni che sembrano
appartenere da sempre alla storia dell’america, e li fa passare attraverso un
approccio sperimentale al manico della chitarra: c’è una costruzione di soli
e accompagnamento che riprende dalla chitarra classica come Jim Hall, ma
c’è anche lo sperimentalismo sia con effetti sia con tecniche disparate, in
alcuni live usa addirittura un bottleneck per fare slide guitar, senza perdere
quella poetica dell’essenziale ereditata da Jim Hall.

Tutto ciò ha portato Frisell ad ottenere un suono riconoscibilissimo: la


caratteristica principale del suono di Frisell sta nel leggero ‘vibrato’ in ogni
accordo o nota suonata facendo vibrare o ondeggiare il manico della
chitarra. L’altra caratteristica principale del suo stile è un’orchestrazione
minimalista che gioca molto sugli intervalli. Rispetto ai block chords e ad
accordi complessi, Frisell preferisce tinteggiare l’armonia con seste o
seconde, o in generale con accordi semplici, di solito sfruttando massimo
tre note e usando molto spesso corde a vuoto e armonici. Questo rende sia
l’accompagnamento che il chord solo molto più pieno, sfruttando le
caratteristiche della chitarra. Questa tendenza è stata accolta anche dalle
nuove generazioni di chitarristi che pur discostandosi dallo stile minimalista
di Frisell, tendono molto più spesso a far uso di poche note nei voicing, a
giocare sugli intervalli o a spezzettare l’accordo, come fa spesso Lage Lund
che ha costruito molto del suo fraseggio a note singole da una
decostruzione dell’accordo.

L’uso degli effetti di Bill Frisell è un altro aspetto da non sottovalutare e che
ha fatto scuola nella chitarra jazz contemporanea. Se durante gli anni ’80
durante il “boom” della chitarra jazz si è fatto largo uso di alcuni effetti,
come overdrive, chorus e delay, a superare la prova del tempo è stato più
di tutti forse l’approccio di Frisell, ancora una volta nel solco di Jim Hall.
Frisell nel corso della sua carriera ha sperimentato moltissimi suoni, sin dal
suo disco d’esordio in chitarra solo “In Line” spicca il suo approccio nell’uso
di riverbero, delay e pedale del volume per creare un effetto simile
all’effetto di uno strumento ad arco, ma anche nei momenti più
sperimentali non ha mai ceduto al valore del suono acustico dello
strumento e questo ha portato ad un dialogo continuo tra la chitarra, come
strumento acustico, e la sua amplificazione e gli effetti. Questo fa sì che nei
dischi di Frisell permanga quel legame con il passato e la tradizione che è il
faro nel proseguire il percorso della chitarra jazz.
La chitarra jazz oggi
La chitarra jazz dopo gli anni ’80 si è sviluppata nel solco di quella
generazione di chitarristi di cui facevano parte Scofield e Frisell, e
parallelamente si è consolidata una scuola di chitarra fusion in dialogo
costante con il rock e il metal da cui sono usciti molti chitarristi con una
grande tecnica ma che si stavano allontanando sempre più dal linguaggio
jazz. Il mondo della chitarra jazz ha quindi risentito di queste influenze, e in
generale le generazioni di chitarristi jazz e affini successive hanno portato
ad uno sviluppo di un fraseggio sempre più articolato, veloce e tecnico. Tra
i chitarristi più importanti in questo senso troviamo Kurt Rosenwinkel,
chitarrista capace però di contenere anche le anime della tradizione jazz,
pur attraverso una tecnica molto più complessa e articolata dei suoi
predecessori. Il solco di Frisell e Scofield come dicevamo ha portato i loro
approcci nei chitarristi più disparati, a prescindere dalla loro vicinanza alle
idee di musica dei due. Vari chitarristi per esempio hanno affrontato un
lavoro sulla polifonia nella chitarra jazz ricostruendo in qualche modo uno
standard e riattualizzando certi principi della chitarra classica. Tra questi
abbiamo Gilad Hekselman e Julian Lage, entrambi a loro modo influenzati
dalla ricerca di Frisell.

Un aspetto interessante è l’influenza che l’approccio compositivo di Frisell


ha avuto nei chitarristi più moderni come lo stesso Julian Lage: c’è
un’urgenza nel mondo della chitarra di costruire un repertorio, uno
“standard” prettamente chitarristico, e questo ha fatto sì che la loro ricerca
si indirizzasse in un’ottica meno improvvisativa, allontanandosi in qualche
modo dal jazz. Dall’altra parte la libertà e la ricerca nella musica folk
americana fatta da Frisell e Scofield ha influito in parte sul fiorire di
esperienze chitarristiche da ogni parte del mondo nell’indirizzo delle
musiche tradizionali locali. L’esempio più interessante è Lionel Loueke,
chitarrista del Benin che ha unito il jazz con la musica africana, ma
soprattutto con la chitarra africana, che come avevamo visto è una sorta di
rielaborazione degli stili nati sugli strumenti a corda dei vari paesi africani.
Lionel Loueke fa uso principalmente di corde in nylon e ha un suono
caratteristico che ultimamente viene sfruttato anche da altri chitarristi,
tentando di imitare quella pronuncia unica della musica africana e della
chitarra africana. Per esempio, Reinier Baas, chitarrista olandese e uno dei
nomi più importanti nella ricerca di nuovi approcci nella chitarra jazz, nei
dischi di Simone Graziano con il gruppo Frontal propone una rivisitazione
del suono della chitarra africana, che si inserisce perfettamente nella
musica poliritmica e esotica del progetto, e sfrutta questa poliedricità della
chitarra per creare paesaggi, soprattutto suggestioni.

Reinier Baas porta avanti inoltre uno stile unico che sfrutta le corde a vuoto
anche nel fraseggio e che mutua il suo approccio ritmico nel comping dalla
chitarra punk e new wave, arricchendo il suo jazz avanguardistico con
questa violenta anomalia all’interno del jazz.

Gli esempi potrebbero essere tantissimi, ma il fulcro di questo viaggio nella


storia della chitarra jazz è comprendere come la chitarra sia uno strumento
nomade, una scheggia senza radici, e al contempo con radici ovunque.
Come il jazz, non può avere una dimensione cristallizzata, se ne può
insegnare la storia, ciò che hanno scoperto i grandi chitarristi prima di noi,
ma non può avere una forma istituzionalizzata e per questo ringrazio il
Maestro Fabio Zeppetella per avermi fornito i mezzi per portare avanti
questa ricerca da solo, non dimenticando mai quella tradizione che ci
insegna proprio ad osare, a creare sempre, sfruttando i limiti del proprio
strumento per trovare nuove strade. Per me il percorso è ancora molto
lungo, ma ora posso affrontarlo con il sorriso, con la sensazione di far parte
di un viaggio infinito, quello della chitarra, uno strumento nomade.

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