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Introduzione
Quando da ragazzo ho deciso di cominciare a suonare inizialmente avevo
scelto il basso, ma il padre di un mio amico, chitarrista, mi consigliò la
chitarra per partire, per avere un approccio alla musica completo, e da quel
momento affrontando la chitarra ho avuto sempre un rapporto
“problematico” con lo strumento, una ricerca che appartiene a tutti i
musicisti, ma che sulla chitarra ancora più spesso, a mio giudizio, si avvicina
ad una ricerca spirituale ed apre ad un lavoro su di sé per tutta la vita. La
chitarra, seppur semplice da suonare di primo acchito, non fa sconti, se sei
insicuro ti restituirà un suono insicuro. Lo stesso accordo sulla chitarra può
essere suonato in innumerevoli posizioni, innumerevoli tecniche della
mano destra, ma aldilà del visibile, la chitarra non suonerà mai nella stessa
maniera a seconda di chi la suona. Confrontarsi con la chitarra richiede
quindi di capire chi si è, le proprie origini, e cosa si vuole essere. Il jazz
agisce nella stessa maniera. Quando all’inizio di questo percorso triennale
mi sono approcciato al jazz da musicista, e non più da ascoltatore, ho
sentito come una connessione con le ansie e le ricerche della moltitudine di
chitarristi che mi avevano preceduto. La chitarra che si confrontava con la
potenza dei sassofoni e delle trombe che con una sola nota lunga potevano
impattare più di mille suonate da una chitarra. La chitarra e il senso di
inferiorità nel comping verso il pianoforte, così ricco armonicamente, ma
soprattutto chiaro e potente. La lezione che ho imparato da quei chitarristi
è stata la “resilienza” (termine purtroppo abusato al giorno d’oggi), la
capacità di essere sé stessi e spiccare nonostante tutto. Ma soprattutto
quello che ho sentito dai grandi della chitarra è stata l’esaltazione di quelle
che per me erano apparenti difficoltà dello strumento, e ascoltandoli
sapevo chi erano, da dove venivano e cosa volevano essere. Tutto ciò da
Django Reinhart, un gitano intriso della sua cultura nomade millenaria, che
ha rivoluzionato un genere nato dall’altra parte del mondo, reinventando la
sua tecnica, passando per Wes Montgomery e George Benson,
afroamericani forti del blues, della potenza delle loro radici (le ottave
suonate da Wes rievocano subito la sonorità dello slide e non
impallidiscono di fronte ad un fiato), per arrivare a due chitarristi a mio
giudizio fondamentali per la chitarra del futuro, John Scofield e Bill Frisell.
Loro due, come i loro predecessori, sono stati capaci di rispondere alle
tante domande della chitarra, comprendendo il ruolo trasversale di questo
strumento che altri non hanno. Nel loro stile riesce ad esserci la grande
tradizione folk americana, l’avanguardia, l’esperienza del rock, l’elettronica
e l’intimità del suono acustico e insieme tutte le lezioni dei grandi della
chitarra jazz. La chitarra, figlia dei più antichi strumenti creati dall’uomo,
può e deve essere custode delle tradizioni e allo stesso tempo dirompente
e anarchica, proprio perché priva di un unico denominatore comune. La
chitarra è uno strumento nomade.
Se per gli strumenti a fiato si può osservare infatti come lo sviluppo della
loro dimensione solistica coincida e determini lo sviluppo stesso della
musica jazz, e con il pianoforte invece ci sia un rapporto conflittuale ma al
contempo dialogico e consequenziale con la musica classica, la chitarra si
affaccia al jazz in maniera disunita, senza una tradizione comune
appartenente a tutti i chitarristi e, dato il ruolo a volte da outsider, senza
potersi identificare completamente con i paradigmi del linguaggio jazz,
nonostante come un attore nascosto ne abbia influenzato spesso le
evoluzioni. Ogni chitarrista jazz sarà quindi a suo modo pioniere dello
strumento, costruendo una tradizione in fieri, una non-tradizione
“audiotattile” per eccellenza.
Come avremo modo di vedere la chitarra jazz oggi è debitrice della musica
rock: la mancanza di una forte radice che si aveva nella prima parte del
novecento si è assottigliata fino a convergere nella matrice comune di
moltissimi chitarristi jazz a partire dagli anni 70, i quali formatisi sui dischi
rock hanno portato tecniche, suoni e approcci fino ad allora assenti nella
chitarra jazz. Questa rivoluzione non ha però fermato la ricerca dei
chitarristi, e anzi si è ampliata la sostanza spugnosa dell’approccio alla
chitarra jazz, dal rapporto con l’avanguardia e l’elettronica, alla ricerca di
stili e tradizioni lontane dall’Occidente (la chitarra africana, il choro o
l’influenza di altri strumenti a corda dal globo), fino a una riscoperta e
rielaborazione della polifonia.
Nel corso della tesi analizzeremo dunque la storia della chitarra prima del
jazz e nel jazz, esaminandone le modalità d’uso, fino a giungere allo stato
dell’arte attuale della chitarra jazz.
Il Guqin o K’in appare molto simile all’odierna lapsteel, è una tavola con
sette corde accordata in do, re, fa, sol, la, do (ottava), re (ottava) e viene
suonata pizzicando con una mano le corde e con l’altra o toccando
lievemente per riprodurre degli armonici oppure glissando le dita creando
l’effetto dello slide.
La P’ip’a è sempre uno strumento di origine cinese ed è uno dei primi
esempi di liuto. Ha quattro corde ed è generalmente accordata in La-Re-Mi-
La. Inizialmente veniva suonata con un plettro e successivamente venne
sviluppata la tecnica con le dita molto simile all’attuale approccio della
chitarra classica, con tecniche di “strumming” simili al rasgeado.
P’ip’a
Il Guqin La moderna lap steel
L’avvento di vari strumenti della famiglia dei liuti nel mondo attorno al
Medioevo ha cristallizzato i suoni di svariate culture musicali popolari.
In Africa abbiamo la Kora, un’arpa-liuto pizzicata con tecniche simili a
quelle del flamenco. La kora ha varie accordature che seguono come nella
musica indiana determinate occasioni della comunità, queste accordature
corrispondono alla scala lidia, maggiore, minore e blues. Inizialmente le
corde erano in pelle mentre ora sono più spesso in nylon, ma è
caratteristico il suono spezzato e, come da tradizione musicale africana,
l’assenza di vere progressioni armoniche e invece un approccio più
“modale”, influenzato evidentemente dallo stretto legame con la Kora e le
sue caratteristiche simili ad un’arpa. Questi elementi compaiono infatti
anche nella contemporanea chitarra africana pizzicata o plettrata spesso
stoppando il suono con il palmo, usando corde di nylon (il chitarrista jazz
Lionel Loueke spesso usa chitarre acustiche con corde in nylon), e con l’uso
di accordature aperte:
Ali Farka Tourè, chitarrista maliano, usava un’accordatura Sol – La – Re –
Sol – Si – Mi, che permette di spaziare nei modi derivati da Sol maggiore
mantenendo un drone in Sol
Nell’africa occidentale spesso viene usata un’accordatura open D, Re-La-Re-
Fa#-La-Re
Un’altra tecnica infine è quella di cambiare la quarta corda del Re e mettere
una corda della stessa grandezza del Mi cantino accordandola un’ottava
sopra il Re dell’accordatura standard, e spesso tale accordatura è suonata
in duo con una chitarra in Open D.
A cavallo tra il blues e il jazz troviamo Eddie Lang, padre della chitarra jazz,
figura innovativa, che rappresenta un esempio perfetto dell’approccio
pioneristico che i chitarristi di ogni generazione hanno dovuto adottare per
fronteggiare la storia del proprio strumento:
Eddie Lang, pseudonimo di Salvatore Massaro, fu un chitarrista americano
di origini italiane. Suo padre infatti era un liutaio italiano e questa vicinanza
con la liuteria e la musica italiana, e gli studi iniziali di violino,tra cui
probabilmente lo studio del solfeggio, permisero a Eddie Lang, di avere un
background notevole in rapporto ai chitarristi dell’epoca. Egli infatti riuscì a
dare un’identità alla chitarra solista, e diede un impulso allo sviluppo
dell’armonia sulla chitarra. Inoltre fu un eccellente chitarrista blues e
registrò con lo pseudonimo di Blind Willie Dunn dischi di blues.
Ascoltando il suo linguaggio sia nel jazz ché nel blues è percepibile la
fusione che stanno adottando i chitarristi da questo momento in poi. Il
blues è la vera radice comune di tutti i chitarristi adesso, ed è pressoché
così ancora oggi. Eddie Lang apporta con originalità alcuni approcci
vagamente “classicheggianti”, ma il suo linguaggio è intriso di blues, come
per esempio la tecnica del bending, ossia la tensione di una corda per
alterarla di semitoni o toni, tecnica tipica del blues e del rock che verrà
usata meno nel jazz proprio per la tendenza a tentare di replicare
maggiormente il linguaggio dei fiati e del pianoforte, salvo poi trovare
spazio nei chitarristi più moderni e influenzati dal rock.
Ecco qui un esempio dell’uso del bending da parte di Eddie Lang nel brano
di sua composizione “perfect” del 1927, con una struttura tipicamente jazz,
con concatenazioni di 2-5 e turnaround:
Eddie Lang costruì le basi del chitarrismo jazz sia nel fraseggio, essendo le
sue
le prime registrazioni di un solo di chitarra, sia nell’accompagnamento, sia
nel chord melody, alternando accordi e frasi su una corda, aprendo le
porte al mondo della chitarra solo, la dimensione ancora oggi più
affascinante della chitarra jazz, nella quale è possibile percepire le
innumerevoli capacità sonore della chitarra, molto più rispetto ad un
contesto di gruppo.
Anche Django come Eddie Lang aveva una conoscenza approfondita della
musica classica, ma è affascinante notare come l’elaborazione del
linguaggio classico in Django ancora più che in Eddie Lang sia slegata dalla
chitarra classica: Django conosce l’armonia, suona sugli accordi con la
qualità formale di Bach, ma con il plettro e senza l’approccio polifonico e la
tecnica della mano destra tipica della chitarra classica. I chitarristi quindi
reinterpretano, imitano la musica classica, ma non sono debitori ad una
reale tradizione chitarristica.
Django inoltre non sapeva né leggere le parole né la musica.
Lo stile di Django era sicuramente debitore dell’approccio ritmico di Eddie
Lang che Django ripropose accentuandolo, nella cosiddetta “pompe”,
rafforzando lo swing sul due e sul quattro in maniera veloce e pesante,
approccio che si è poi cristallizzato ed è ancora alla base della pulsazione
del manouche o gipsy jazz.
Django a causa della sua menomazione poteva usare solo determinate
forme di accordi e quindi faceva spesso sostituzioni armoniche che
caratterizzano il suono del manouche.
Le influenze classiche e gitane resero il suo linguaggio unico, l’uso di
arpeggi e ornamentazioni lo rendeva un linguaggio sofisticato e maturo
rispetto all’aggressività del linguaggio jazz americano dell’epoca. Django
inseriva spesso la scala minore melodica e armonica e la diminuita, che
davano un tocco mediterraneo e esotico al suo linguaggio.
La tecnica di plettrata di Django, che sicuramente muove i passi da quella
raggiunta da Eddie Lang colpisce per la capacità espressiva, per la velocità e
la precisione che poteva raggiungere, e fu fondamentale per disegnare il
suono della chitarra solista jazz e in generale della chitarra, visto lo sviluppo
di una tecnica simile a quello che viene definito “economy picking”.
Negli ultimi anni della sua vita Django si avvicinò al nascente linguaggio
bebop e tramite un pickup iniziò a suonare per la prima volta elettrificato,
e le registrazioni del periodo sono una testimonianza interessantissima
della capacità pionieristica di un chitarrista come Django capace di
riadattare il suo stile alla nuova dimensione elettrica della chitarra, oltreché
di una qualità straordinaria che ci mostra un musicista al suo apice
espressivo.
Il linguaggio di Django in questo periodo certamente si rifà ai fiati del
bebop, e questo ne influenza alcune variazioni, ma anche da un esame
strettamente chitarristico possiamo notare come il confronto con
l’elettrificazione lo porti ad addolcire la sua plettrata, è un suono molto più
legato, il ritmo non essendo più scandito dalle frasi nel suo stile gipsy ora è
molto più legato ad un displacement ritmico, a spazi, risultandone in una
libertà espressiva che la chitarra difficilmente aveva potuto incontrare.
Jim Hall nasce nel 1930 e forse leggermente più in sordina rispetto a tanti
altri nomi che abbiamo analizzato e non, si farà strada nella chitarra jazz
con un approccio quasi cameristico, leggero, incantato. Jim Hall è un
“ingegnere del suono”, un incantatore che libera il suono della chitarra
dalle costrizioni tecniche dello strumento e restituisce l’intimità del
contatto con le corde, con la cassa armonica.
Jim Hall nasce in una famiglia di musicisti, la madre una pianista, il nonno
un violinista e lo zio chitarrista, cosa che lo porta ad avvicinarsi alla musica
sin da piccolo. All’età di dieci anni riceve come regalo di Natale una chitarra
e decide di dedicarsi con impegno allo strumento.
Anche Jim Hall fu influenzato da Charlie Christian, a tredici anni ascoltando
Solo Flight rimane folgorato e inizia a militare in diverse formazioni
suonando nello stile di Charlie Christian.
Questi studi influenzeranno l’approccio di Jim Hall alla chitarra jazz. Jim Hall
pensa anche in maniera polifonica, ma soprattutto è attento al tocco, al
suono acustico dello strumento. Ha una concezione precisa della melodia e
dello spazio che spesso sfrutterà come in una suite classica. Jim supera in
qualche modo la paura giustificata di perdere potenza del suono, ed egli
stesso continuerà per tutta la vita una ricerca del suono anche con
sintetizzatori ed effetti.
Jim quindi sin da subito può unire due anime, una quella jazz-blues della
chitarra di Charlie Christian e dei fiati bebop che lo ispireranno, ma anche
un’anima quasi inedita fino a quel momento, quella della chitarra classica,
uno strumento come avevamo visto a suo modo “incompleto”, che non
aveva trovato un reale posto all’interno della musica classica. C’è quindi
l’influenza di quel mondo della chitarra classica, intimo, molto influenzato
dalle sonorità spagnole a loro volta sintesi di svariate culture dell’Europa,
del medio oriente e del Nord Africa.
Attraverso la chitarra di Jim Hall respiriamo nel jazz questa sintesi di culture
che si rincontrano, che si fondono, con il piglio di un musicista colto che si
affaccerà anche all’avanguardia. Sono aspetti che potrebbero sembrare
peculiarità uniche di un musicista coltissimo, ma che in realtà ci indicano
delle direzioni sulla chitarra, poiché finalmente si riesce a percepire il
potenziale inespresso che c’è nel suono della chitarra. Le idee musicali di
Jim Hall passano proprio attraverso la chitarra, l’unico strumento a quel
punto che possa incarnare tutte quelle anime.
E’ il 68 quando esce Miles in the Sky di Miles Davis, album in cui si possono
rintracciare i primi elementi della trasformazione che avverrà con In a silent
way e Bitches Brew e in qualche modo con la nascita della fusion o jazz-
rock. In Miles in the sky alla chitarra elettrica c’è George Benson, chitarrista
eccezionale a cavallo tra Wes Montgomery e la chitarra ‘black’ che verrà
dopo e che deve tutto a lui. Nei suoi soli riconosciamo ancora forte lo stile
proprio di Wes, se non si conoscesse quanto avvenuto dopo si potrebbe
dire che tutto sommato, a parte gli arrangiamenti e l’approccio non più
swing, ché la chitarra non abbia subito grossi cambiamenti. Bastano due
anni e nel ’70 esce Bitches Brew, alla chitarra c’è un inglese, John
Mclaughlin. Ora è tutto differente: il suono della chitarra di Mc Laughlin è
acuto, distorto, una plettrata violenta segna piccole incursioni sonore, non
è un elemento ritmico, sembra di ascoltare i fiati del free. Nella traccia
“John Mclaughlin” si inserisce con brevi frasi distorte in cui esegue bending
e vibrati, sembra completamente un altro strumento. Si sente il blues,
tantissimo, ma come filtrato da un nuovo mondo. La chitarra è piena di
riverbero e come detto prende molto più spazio, riecheggia, crea un
tappeto sonoro.
Quanto sentiamo in Bitches Brew nel ’70 però sorprende solo perché
compare in un disco a nome di Miles Davis, maestro del jazz che solo dieci
anni prima era a suonare con John Coltrane. Quel suono per la chitarra è
ormai consolidato da quasi 10 anni. Si può prendere un qualsiasi disco degli
anni sessanta fuori dal jazz per scovare quei suoni. Acuti, taglienti, distorti,
con le chitarre che eseguono frasi violente, bending e una plettrata decisa.
Una tradizione di chitarristi senza una grande cultura chitarristica, cresciuti
con il blues e il primo rock’nroll sta segnando la musica e un’intera
generazione.
Sono grezzi e semplici, basta ascoltare i dischi dei rolling stones, dei
beatles, dei Cream o di Jimi Hendrix: rispetto alla tecnica, alla conoscenza
del manico raggiunta dai maestri della chitarra jazz che abbiamo analizzato,
questi chitarristi sembrerebbero non avere niente. Ma hanno un suono che
affascina, un suono inedito nella storia della musica. Sbaraglia le carte,
poiché è effettivamente qualcosa che non si era potuta ascoltare mai
prima, un’energia ancestrale che evolve dal blues. Ed è affascinante notare
come l’approccio che hanno i chitarristi rock negli anni sessanta ricalchi un
po’ i primi passi della chitarra jazz. Alcuni hanno sì studiato un po’ di jazz,
ma sono giovanissimi e privi di veri riferimenti, e esplorano. E forse il rock
nasce grazie a questa natura nomade della chitarra, nessun altro strumento
si concede così a uomini senza radici.
Prendiamo a caso tra i vari Purple Haze: Jimi Hendrix sta “inventando”, ciò
che fa non esisteva realmente nella chitarra prima, tutto ciò che veramente
si può rintracciare è la traccia del blues, anarchica per definizione, e un po’
di geometrie sul manico. Il solo dopo qualche frase si regge tutto su una
nota tesa in bending con violenza e plettrata a ripetizione, un suono
dirompente che nessuna chitarra avrebbe potuto fare prima. Jimi Hendrix
suona una stratocaster, una chitarra solid body, senza alcuna cassa
armonica. La sua voce è l’amplificatore, la distorsione generata dagli
amplificatori rotti diventa il suo strumento.
Voodoo Child inizia con un riff con il wah, un pedale che azionato attiva e
toglie un filtro sul suono della chitarra, e poi parte il brano con un suono
violento di chitarra, poche note, picchiate, con una potenza inaudita e poi
un solo che regge sempre su poche note in bending ripetute velocemente,
ogni tanto filtrate dal wah: la chitarra ora sovrasta ogni cosa, è il suono
principale che esce dai dischi, la batteria e il basso lavorano in sottofondo.
E’ quasi difficile descrivere un suono così dirompente, soprattutto rendere
l’innovazione che rappresentava in quel momento. Più avanti nel solo Jimi
inizia a passare il plettro trasversalmente sulle corde su e giù per il manico.
La chitarra nel rock sostituisce realmente i fiati del jazz: c’è come un legame
fuori dal tempo tra l’ultimo coltrane e Jimi Hendrix.
Nello specifico, John Scofield e Bill Frisell sono in qualche modo gli alfieri
della chitarra jazz contemporanea, gli ideali prosecutori di quel viaggio
iniziato con Eddie Lang, e che soprattutto partendo da quella che è stata la
rivoluzione di Jim Hall, hanno saputo aggiornare il linguaggio della chitarra
jazz a seguito dello stravolgimento del rock.
John Scofield nasce nel ’51 e sin da ragazzo inizia a suonare la chitarra in
ambito R&B e soul, avvicinandosi dopo al jazz. La sua infatti è una delle
prime generazioni cresciuta già in un’era “post-jazz” e il suo inconfondibile
stile nel jazz infatti rispecchia questa nuova natura dei chitarristi. Come
Frisell, Metheny e Stern anche lui studia a Berklee. Nel ’69 quindi si avvicina
al jazz e alla nascente scena jazz rock, e il suo debutto vero e proprio lo ha
con la band di Billy Cobham George Duke, musicista a cavallo tra jazz, funk
e fusion, che lavorò anche con Frank Zappa.
Il successo arriva però negli anni ottanta collaborando nei dischi jazz-funk
dell’ultimo Miles Davis, dove trova la definizione del suo stile e dopo questa
esperienza porterà avanti la sua prolifica carriera, sia in dischi da leader in
cui esplora sia il jazz classico, sia la sua personale commistione tra jazz e
soul. La caratteristica del suo suono è la prova del cambio paradigmatico
della chitarra jazz che stava già avvenendo dall’esperienza di John
Mclaughlin: Scofield, anche nei dischi più intimi e acustici, usa quasi sempre
l’overdrive, un effetto che riproduce la tipica ‘distorsione’ prodotta dagli
amplificatori rotti e che era la caratteristica del suono che abbiamo trovato
anche in Jimi Hendrix, ma in generale rappresenta il suono della chitarra
rock. Scofield lo sfrutta per tirare fuori un suono potente, pieno di alte,
attraverso il quale si avvicina molto di più ai fiati, ma soprattutto crea un
ponte credibile e funzionale tra il rock e il jazz, e lo fa senza sacrificare il
linguaggio jazzistico, né necessariamente tradendo l’anima swing del jazz.
Ed è proprio in questo che lo stile di Scofield risulta innovativo. Se la
generazione di chitarristi precedente che avevamo accennato tende a farsi
prendere dal rock al punto da costruire un linguaggio fusion a sé stante da
quello jazzistico, Scofield riesce a rievocare alla perfezione la tradizione,
che è vivace, si sente nel suo fraseggio. Dall’altra parte però la condisce di
bending e vibrato, di un fraseggio ritmico che strizza l’occhiolino al funk, ma
in realtà è come se si avvicinasse di più a certo solismo dei sassofonisti a là
Parker, con soluzioni inedite prima per la chitarra jazz.
Allo stesso tempo però Scofield è in piena sintonia con la chitarra jazz di
Wes Montgomery, e per esempio l’uso che fa delle ottave è una versione
aggiornata dell’approccio di Wes, salvo poi magari inserire voicing che
sembrano uscire da una canzone di Jimi Hendrix. Quello che porta la
chitarra jazz con Scofield a dominare dagli anni Ottanta in poi il mondo del
jazz è proprio questa capacità di essere un ponte, una summa del
Novecento, sostenuta poi negli anni da una ricerca nelle radici country e
blues dell’America che dona alla musica di Scofield una liricità unica.
L’uso degli effetti di Bill Frisell è un altro aspetto da non sottovalutare e che
ha fatto scuola nella chitarra jazz contemporanea. Se durante gli anni ’80
durante il “boom” della chitarra jazz si è fatto largo uso di alcuni effetti,
come overdrive, chorus e delay, a superare la prova del tempo è stato più
di tutti forse l’approccio di Frisell, ancora una volta nel solco di Jim Hall.
Frisell nel corso della sua carriera ha sperimentato moltissimi suoni, sin dal
suo disco d’esordio in chitarra solo “In Line” spicca il suo approccio nell’uso
di riverbero, delay e pedale del volume per creare un effetto simile
all’effetto di uno strumento ad arco, ma anche nei momenti più
sperimentali non ha mai ceduto al valore del suono acustico dello
strumento e questo ha portato ad un dialogo continuo tra la chitarra, come
strumento acustico, e la sua amplificazione e gli effetti. Questo fa sì che nei
dischi di Frisell permanga quel legame con il passato e la tradizione che è il
faro nel proseguire il percorso della chitarra jazz.
La chitarra jazz oggi
La chitarra jazz dopo gli anni ’80 si è sviluppata nel solco di quella
generazione di chitarristi di cui facevano parte Scofield e Frisell, e
parallelamente si è consolidata una scuola di chitarra fusion in dialogo
costante con il rock e il metal da cui sono usciti molti chitarristi con una
grande tecnica ma che si stavano allontanando sempre più dal linguaggio
jazz. Il mondo della chitarra jazz ha quindi risentito di queste influenze, e in
generale le generazioni di chitarristi jazz e affini successive hanno portato
ad uno sviluppo di un fraseggio sempre più articolato, veloce e tecnico. Tra
i chitarristi più importanti in questo senso troviamo Kurt Rosenwinkel,
chitarrista capace però di contenere anche le anime della tradizione jazz,
pur attraverso una tecnica molto più complessa e articolata dei suoi
predecessori. Il solco di Frisell e Scofield come dicevamo ha portato i loro
approcci nei chitarristi più disparati, a prescindere dalla loro vicinanza alle
idee di musica dei due. Vari chitarristi per esempio hanno affrontato un
lavoro sulla polifonia nella chitarra jazz ricostruendo in qualche modo uno
standard e riattualizzando certi principi della chitarra classica. Tra questi
abbiamo Gilad Hekselman e Julian Lage, entrambi a loro modo influenzati
dalla ricerca di Frisell.
Reinier Baas porta avanti inoltre uno stile unico che sfrutta le corde a vuoto
anche nel fraseggio e che mutua il suo approccio ritmico nel comping dalla
chitarra punk e new wave, arricchendo il suo jazz avanguardistico con
questa violenta anomalia all’interno del jazz.