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TESI DI DIPLOMA ACCADEMICO DI II LIVELLO IN

PIANOFORTE JAZZ

Bill Evans at Town Hall

DIPLOMANDO: Dimitri Tormene


MATRICOLA: 12863
RELATORE: M° Marcello Tonolo

Anno Accademico 2019/2020

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INDICE

Introduzione

1. Preambolo

2. L’uomo e la musica

3. Il concerto alla Town Hall

- Il contesto
- La Suite: “Solo - In Memory Of His Father”
- Prologue
- Story line
- Turn of the stars
- Epilogue
- Piano trio
4. Conclusione - Omaggio a Bill Evans

- Suite for Bill

Discografia

Bibliografia

Appendice

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La musica dovrebbe arricchire l’anima;
dovrebbe insegnare la spiritualità
mostrando alla persona una parte di sé
che non avrebbe scoperto altrimenti.
(B. Evans)

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Introduzione

La scelta dell’argomento di questa tesi è legata principalmente allo


studio svolto nei mesi scorsi su alcune trascrizioni di brani interpretati sia
in piano solo che in trio da Bill Evans, pianista che, per le peculiarità
dello stile improvvisativo e le accurate e innovative soluzioni armoniche,
costituisce un mirabile esempio per chi si appresta allo studio dei
meccanismi dell’improvvisazione jazz.
A farmi scoprire la registrazione del concerto alla Town Hall del 1966, di
cui si tratterà approfonditamente più avanti, è stato lo standard I Should
Care, la cui trascrizione era contenuta in uno dei testi che mi sono stati
suggeriti dal mio insegnante Marcello Tonolo.
Grazie a questo brano ho potuto poi approfondire le altre numerose
gemme contenute nel disco, in particolare la Suite eseguita in piano solo
e dedicata alla memoria del padre di Bill, deceduto pochi giorni prima del
concerto stesso.
L’ispirazione che mi è giunta dalla particolare bellezza e intensità di
questa Suite ha contribuito a far sì che approfondissi nel dettaglio la
suddetta esibizione, considerando che in questi brani, magistralmente
seguiti in piano solo, si possono notare più che mai le influenze del
pianismo classico tanto amato da Evans, che si muove dal romanticismo
chopiniano fino all’impressionismo di Ravel.
Nell’ultima parte il mio lavoro si è concentrato nella composizione di una
Suite ispirata a quella di Bill Evans, di cui parlerò nell’ultima sezione della
tesi e che eseguirò il giorno del mio Diploma di II livello in pianoforte jazz.

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1. Preambolo

E’ praticamente impossibile immaginare gli ultimi cinquant’anni di jazz


moderno senza Bill Evans. Le idee pionieristiche del pianista
compositore del New Jersey furono ampiamente assorbite dai suoi
contemporanei e da ogni nuova generazione di musicisti. La figura di Bill
Evans si schiera accanto a quelle dei più influenti jazzisti del dopoguerra
(Mingus, Davis, Coltrane, Parker, Gillespie), e il suo contributo al jazz
dalla fine degli anni ’50 all’inizio degli anni ’60 è sicuramente considerato
un apporto imprescindibile alla storia di questa musica.
All’inizio della sua carriera, grazie anche alla collaborazione con Miles
Davis, Evans ebbe una crescente popolarità che coincise con
un’esplosione di creatività di avanguardia del jazz, legata strettamente
alle nuove libertà sociali, culturali e politiche; ma Evans fu rapidamente
lasciato molto indietro nell’avanguardia della musica; infatti la maggior
parte dei suoi esperimenti successivi a quelli del trio con Motian e
LaFaro andarono in contrasto con le tendenze musicali dell’epoca
rendendo i suo sforzi profondamente fuori moda. Ciò nonostante lo stile
di Evans continuò ad evolversi fino alle avventure dell’ultimo trio; può
non sembrare spesso commisurato alle aspettative iniziali ma
difficilmente è colpa di Evans se i fan e critici che lo hanno salutato come
nuovo messia jazz, in seguito hanno deciso che non era stato così.
Evans era un musicista molto serio sulla sua musica e fedele alla sua
continua evoluzione; non è mai stata la sua principale ambizione tenere il
passo con le mode musicali del periodo.
Per arrivare a uno stile così personale, Bill Evans prese spunto da molti
pianisti jazz precedenti a lui (disse di Bud Powell, ad esempio, che aveva
il talento compositivo più completo di qualsiasi altro jazzista che si fosse
mai visto sulla scena) e dalla musica classica, in particolare dai
compositori impressionisti francesi, Debussy e Ravel.

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Considerando la presenza costante dell’influenza stilistica di Bill sulla
scena degli ultimi cinquant’anni, vale la pena considerare lo stato del
pianoforte jazz contemporaneo a lui, quindi quello della metà degli anni
’50, in modo da avere un’idea più chiara dell’iniziale impatto di Evans e
del suo stile più maturo.
Nel 1955 la prima ondata di pianisti bop -Bud Powell, Al Haig, Dodo
Marmarosa, Thelonious Monk, Lennie Tristano e George Wallington- per
varie ragioni era più o meno scomparsa; Bud Powell stava vivendo una
sequenza devastante di problemi personali, incluso il trattamento di
scosse elettriche che alla fine lo avrebbe privato della sua grande spinta
creativa; Thelonious Monk, per motivazioni di tipo legale, non poteva
ormai più esibirsi a New York. Tristano in quegli anni decise di dedicarsi
all’insegnamento, esibendosi in pubblico solo con pochi studenti come
Lee Konitz e Warne Marsh, disgustato da quella che considerava la
politica anti-musica della maggior parte dei proprietari di locali notturni.
Lo stile ascetico di Tristano e la sua influenza possono essere rintracciati
in pochi pianisti dell’epoca, ma Bill Evans ne è sicuramente uno di
questi. Altri pianisti influenti per Bill furono Nat King Cole, musicista
dell’epoca swing che sicuramente presagì il successivo sviluppo del
piano jazz, e George Shearing, che aveva fatto sentire la sua presenza a
livello internazionale già alla fine degli anni ’40.
Delle maggiori star degli anni ’40, solo pianisti come Errol Garner e Oscar
Peterson stavano ancora sviluppando la loro musica senza compromessi
e in stili vicini alle loro concezioni originali.
Un’idea che Evans sviluppò da pianisti dei primi anni ’50 fu la tecnica dei
block chords, tecnica ampliata e adattata da sperimentazioni precedenti
da pianisti come George Shearing e Ahmad Jamal; l’emergere di Jamal
negli anni ’50 fu una parte importante delle nuove idee che stavano
sostituendo le disposizioni standard del be-pop, l’interazione di gruppo,
l’armonia e la forma; in particolare Jamal emerse per la sua attenzione ai

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contrasti (luce e ombra per quanto riguarda le tinte sonore, pieno e vuoto
nell’interazione tra pianoforte e ritmica). Per tutti questi motivi Jamal era
un pianista molto amato da Miles Davis che infatti assunse Red Garland,
nel ’54, in gran parte proprio per la capacità di Red di imitare il modo
libero ma fortemente ritmico di Jamal.
Per quanto riguarda lo stile improvvisativo specifico delle invenzioni
melodiche create con la mano destra sicuramente una delle più grandi
influenze fu Bud Powell, abitualmente descritto come l’equivalente
pianistico di Charlie Parker. Il suo linguaggio armonico, la sua spinta
ritmica e le sue lunghe e complesse melodie così come la sua completa
padronanza del blues sono tecniche condivise con Charlie. Powell aveva
una tecnica fenomenale attraverso la quale comunicava un’emotività
incandescente. Powell è stato superato tecnicamente alla tastiera solo
da Art Tatum, il grande pianista dell’era pre-bepop; tuttavia le radici di
Powell risiedono nell’approssimazione pianistica degli strumenti melodici
e delle loro linee di improvvisazione, come sviluppato negli anni ’30 da
Earl Hines, in particolare il suo famosissimo trumpet style. Il repertorio
personale di Hines, arabeschi melodici lunghi, asimmetrici, spesso
drammatici, combinato con un uso libero e spesso esplosivo della mano
sinistra, è stato portato a un livello molto diverso di espressione da
Powell, durante i suoi primi successi. Powell, come Marmarosa e pochi
altri pianisti jazz, aveva una preparazione classica al pianoforte che gli
permetteva di utilizzare la sua immaginazione ritmica e armonica in modi
freschi e nuovi.
Altri giovani musicisti che precedettero Bill Evans furono Hank Jones,
John Lewis, Red Garland e Wynton Kelly, in particolare, gli ultimi due,
precedettero Bill nel quintetto di Miles Davis e cominciarono ad usare
quei particolari voicing caratterizzati dall’assenza della tonica nella loro
struttura formale (i cosiddetti voicing Kelly-Evans), usati tutt’oggi dai
pianisti jazz di tutto il mondo.

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Per quanto riguardano le influenze europee, Dave Brubeck fu un altro
pianista dell’epoca con una profonda conoscenza e interesse per la
musica colta; anche se non influenzò molti pianisti successivi, venne
citato da Cecil Taylor come fonte di ispirazione; probabilmente anche
Evans fu attratto dall’uso fresco e completo dell’armonia di Brubeck e
dal suo dono per la melodia. Brubeck mostrò poca affinità con il
fraseggio be-pop di New York, le sue radici infatti affondano direttamente
da pianisti come Nat Cole, George Shearing, Art Tatum, Fats Waller o
pianisti blues, buchi come Albert Ammons e James P. Johnson. Un’altra
influenza importante per Brubeck fu Darius Milhaud, compositore
francese che mostrava amore per il ragtime e le forme di jazz classiche
arrivate in Europa nei primi decenni del ‘900. Negli anni ’50 l’interesse di
Brubeck per la forma, le ritmiche e le applicazioni dell’armonia avanzata
trovarono poche affinità con i musicisti dell’epoca, ma i metodi che usò
nella registrazione dell’album in piano solo della sua musica nel 1956
(Brubeck plays Brubeck) rilevano un legame stretto con il pensiero e la
pratica compositiva e improvvisativa di Bill. L’abilità di Brubeck di
modulare attraverso tutte e dodici le tonalità nella frase iniziale di “The
Duke”, affascinò probabilmente pochi musicisti jazz contemporanei, ma
lasciò sicuramente il segno in Bill, come possiamo notare
dall’importanza che il pianista darà nei suoi successivi lavori alle
modulazioni anche all’interno di un’unica melodia, originariamente
concepita in un’unica tonalità.
Un altro fattore decisivo per l’evoluzione dello stile di Evans fu, dopo la
metà degli anni ’50, lo studio e il lavoro con il compositore e teorico
George Russel; fu proprio Russel ad indicare al giovane pianista lo studio
delle scale modali come alternativa all’ossessiva improvvisazione sui
cambi di accordo.
Nei paragrafi successivi approfondiremo i dati biografici di Bill, per
meglio integrare la sua crescita stilistica congiunta agli eventi più

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importanti della sua vita, soffermandoci sulla sua parabola compositiva
per ampliare in modo più dettagliato i punti più importati che abbiamo
accennato in questo preambolo.

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2. L’uomo e la musica

“La vita di ogni uomo è una storia” (B. Evans)

William John Evans, nasce il 16 agosto 1929 a Plainfield nel New Jersey
e muore a 51 anni il 15 settembre del 1980 a New York, secondo figlio di
Harry Evans e Mary Soroka.
Il padre Harry Senior era di origini gallesi, dotato di discreto attivismo
imprenditoriale anche se limitato da frequenti problemi per l’abuso di
alcol e la dipendenza dal gioco d’azzardo, episodi che sicuramente
influirono sulle vicende umane dei due fratelli Evans. La madre Mary
Soroka, di origine ucraina, suonava il pianoforte e probabilmente fu lei a
trasmettere a entrambi i figli la passione per la musica. Figlia di immigrati
ucraini cresciuta in un monastero religioso russo-ortodosso, qui imparò,
tra l’altro, suggestivi inni liturgici che poi avrebbe trasmesso ai figli;
questi canti solenni carichi di misticismo sicuramente influirono in modo
profondo nel pensiero musicale del giovanissimo Bill Evans.
A causa di queste vicende familiari la madre di Bill ben presto scelse di
trasferirsi con i figli dalla sua famiglia di origine, in una città vicina, per
allontanarsi dal carattere instabile e distruttivo del marito. Così il cugino
degli Evans, Earl Epps, ricorda l’infanzia del pianista: “gli Evans vivevano
in quegli anni a Plainfield, nel New Jersey; capitava spesso, soprattutto in
occasione dei fine settimana, che la loro casa ospitasse simpatiche
riunioni familiari, durante le quali Harry Junior, il più grande dei loro due
figlioli, si esibiva al pianoforte. Harry aveva allora circa 7 anni, un paio in
più di Bill, e non era molto che aveva cominciato a prendere lezioni di
piano. Nei suoi confronti Bill nutriva un’ammirazione sconfinata e cercava
di emularlo in tutto. Era però ancora troppo piccolo per iniziare anche lui
a prendere lezioni. Quando, durante quegli improvvisati concertini
domestici del fine settimana, Harry Jr. Si cimentava col suo repertorio di

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piccoli brani pianistici, Bill se ne stava tutto rannicchiato in un angolo ad
ascoltare. Talvolta, dopo che il fratello aveva finito di suonare e quando i
parenti si erano allontanati, Bill si avvicinava zitto zitto al seggiolino, si
sedeva, ed eseguiva perfettamente, ad orecchio, i pezzi che aveva
precedentemente ascoltato.” Aggiunge Epps: “Pur senza pendere lezioni
progrediva più rapidamente di Harry, che poteva disporre di un
insegnante e che si esercitava continuamente.”1
Il padre di Epps era un buon pianista classico (anni prima aveva dovuto
rinunciare a una promettente carriera concertistica), fu perciò naturale
rivolgersi a lui per avere consigli quando si decise di avviare anche Bill
allo studio del pianoforte.
Oltre al pianoforte, da bambino, Bill studiò anche uno strumento
melodico come il violino e intorno ai 12 anni introdusse lo studio del
flauto, anche se poi abbandonò presto questi strumenti, è probabile che
il loro studio abbia esercitato un’influenza sul suo stile lirico.
Durante l’infanzia Bill studiò molta musica classica: Bach, Mozart,
Beethoven, Schubert, Ravel, e molti spartiti di polke, marce e arie
sentimentali di fine ‘800 che la madre gli acquistava. Tra le sue influenze
egli cita Petruska di Stravinski, il pianismo di Claude Debussy e la Suite
Provençale di Milhaud, il cui linguaggio armonico gli aprì la mente verso
altri orizzonti. All’età di 12 anni Bill ebbe l’occasione di prendere il posto
del pianista nella band dove il fratello Harry suonava la tromba; così
Evans ricorda quell’esperienza: “una sera mi sono avventurato in Tuxedo
Junction e ho fatto un piccolo “ping!”, come lei sa, che non era scritto,
ed è stata una bella esperienza! Far musica che non era scritta. Ciò iniziò
a farmi capire cosa volevo fare con la musica.”2 (intervista a Bill Evans).

1 E. Pieranunzi, “Bill Evans - ritratto di un artista con pianoforte”, Roma, Nuovi Equilibri, 1994
2K. Shadwick, “Everything Happens To Me - a musical biography”, S. Francisco, Backbeat
Book, 2002

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Nel periodo dell’adolescenza prese parte a varie formazioni, suonando
durante matrimoni, feste da ballo, e l’incontro sicuramente più
importante di questo periodo fu quello col bassista George Platt, che gli
introdusse, per primo, le regole dell’armonia avviando Bill a una
comprensione più profonda del linguaggio musicale.
Nel ’46 Bill si iscrisse alla Southeastern Louisiana University e vinse una
borsa di studio, studiando musica classica e composizione con vari
insegnanti, iniziando a comporre i suoi primi brani, tra cui “Very Early”,
che in seguito diventerà uno standard della musica jazz. Furono anni di
duro lavoro, di studio serrato, unito alla prima esperienza di lontananza
dalla famiglia; si esercitava al pano mediamente per sei ore al giorno,
affrontando tutta la letteratura dello strumento da Bach fino ai
compositori del Novecento.
Nel ’50, in occasione del recital finale per il Bachelor Degree, eseguì
brani di Bach, Brahms, Chopin, Kabalevskij, e il primo tempo del
concerto n. 3 di Beethoven. Secondo alcuni membri della giuria le sue
interpretazioni furono eccezionali e molto mature; ottenne il massimo dei
voti e numerose lettere di presentazione da parte del direttore del
dipartimento di Musica. Con questo insolito bagaglio culturale, Bill si
presentò dunque alla ribalta del jazz, mentre decollavano gli anni ’50.
Ottenne i primi ingaggi dall’orchestra di Herbie Fields, dal chitarrista
Mundell Lowe, e dal contrabbassista Red Mitchell, ma dovette
interrompere presto l’attività per il servizio militare che durò ben 3 anni. Il
disagio profondo per la vita militare non era certo attenuato dalle serate
nei piccoli club di Chicago e dintorni, né dal tempo trascorso a suonare il
flauto nella banda dell’armata; nella psiche di Bill si fece strada quella
che egli, molti anni dopo, avrebbe riconosciuto come la sua parte
distruttiva. Fu allora, probabilmente, che iniziò a fare uso di stupefacenti.
Con questi problemi personali Bill convivrà praticamente tutta la vita,

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senza mai dar luogo tuttavia alle manifestazioni clamorose di cui molti
famosi jazzisti solevano essere protagonisti.
Congedato nel 1954 trascorse tutto quell’anno nel New Jersey presso la
famiglia, solo saltuariamente si recava a New York.
Nel ’55 il pianista finalmente si trasferì a New York dove suonò con Jerry
Wald e continuò al tempo stesso gli studi musicali e filosofici; non è un
caso che il primo ad accorgersi di lui fu un personaggio di spicco come il
compositore George Russel che lo convocò nel maggio ’56 per registrare
alcuni brani in sestetto. Evans si trovò sicuramente a suo agio: la sua
preparazione approfondita, la frequentazione della musica colta e la
perseveranza con cui negli anni era riuscito a far suo il linguaggio
jazzistico dei boppers e poi quello dei musicisti aderenti al cosiddetto
cool jazz, furono il background indispensabile per muoversi con
disinvoltura lungo i percorsi tracciati da Russel nei suoi brani. L’alternarsi
di parte obbligate scritte con zone di improvvisazione su successioni
prestabilite di accordi, trovarono prontissimo il giovane Evans.
Un altro musicista importante per Evans fu Tony Scott, che gli dette
modo di farsi conoscere nell’ambiente musicale della metropoli.
Finalmente nel settembre del ’56 Evans incise il primo LP sotto il suo
nome. E’ “New Jazz Conceptions” per la Riverside di Orrin Keepnews.
Con lui ci sono Teddy Kotick al contrabbasso e Paul Motian alla batteria.
Si tratta quindi del trio pianoforte, contrabbasso, batteria che rimarrà la
sua formazione preferita oltre che la più celebrata dal pubblico e dalla
critica. Nell’estate del ’57 Evans partecipò con un trio a una memorabile
edizione del festival di Newport e all’inizio dell’anno successivo venne
invitato da Miles Davis a far parte del suo sestetto: fu una sorta di
consacrazione ufficiale, documentata fra l’altro da uno dei migliori album
mai incisi da Davis, “Kind of Blue” con il suo sestetto composto, oltre
che da Miles e Bill, da John Coltrane al sax tenore, Cannonball Adderley
al sax alto, Paul Chambers al contrabbasso, Jimmy Cobb alla batteria. Il

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suddetto album venne registrato fra marzo e aprile del ’59 ed è una sorta
di reunion perché Evans decise dalla fine del ’58 di abbandonare la
formazione di Davis, adducendo come motivo il suo stato di stanchezza
fisica e mentale: in realtà voleva riprendere a studiare con maggior
impegno e dedicarsi al trio. Mi sembra doveroso soffermarmi su
quest’album, per la particolare importanza che questa pietra miliare della
musica ha rivestito nella carriera di Bill, poiché, essendo uno degli album
più venduti della storia del jazz, lo consacra come musicista a livello
mondiale: nel ’58 e ’59, infatti, Bill Evans, fu dichiarato miglior nuovo
talento “New Star” nel referendum dei critici indetto dalla rivista “Down
Beat”.
Sebbene l’idea di Miles Davis di prendere un pianista bianco al posto di
Red Garland avesse suscitato parecchie perplessità all’interno della
comunità jazzistica americana, e, il far parte di un gruppo così stellare
fosse motivo di stress fisico ed emotivo non indifferente (non
dimentichiamo che Davis e i suoi erano degli idoli per la comunità
americana di colore), i mesi trascorsi con quella formazione furono
artisticamente bellissimi per Evans; egli aveva l’impressione che il
gruppo fosse composto da supereroi e nonostante ciò l’influenza della
sua musica sul gruppo di Miles fu molto forte. Davis scrive nella sua
autobiografia: “avevo bisogno di un pianista che fosse dentro questa
faccenda del modale, e Bill Evans c’era. Incontrai Bill grazie a George
Russel, con il quale Bill aveva studiato (…). Più profondo andavo nel
modale, più chiedevo a George se conoscesse qualche pianista in grado
di suonare il tipo di cose che volevo, e lui mi raccomandò Bill”3. La
modalità di cui parla Davis era intesa come superamento del bop, il
quale aveva portato la musica jazz al massimo della complessità,
l’improvvisazione era diventata una sorta di percorso ad ostacoli con
modulazioni sempre più ardite, si vedano ad esempio le sperimentazioni

3 Q. Truope, “Miles l’autobiografia”, Roma, Ed. Minimum fax, 2001

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di John Coltrane su Giant Steps. C’era dunque nell’aria un bisogno di
semplificare, di riportare l’espressione jazzistica ad una più intima
essenzialità; Miles aveva sentito questa esigenza prima degli altri e già
con Milestones si era mosso in quella direzione; facendo un parallelismo
con la musica colta europea si può pensare a quello che è successo a
inizio novecento dopo l’orgia di modulazioni, di allargamento dello
spettro armonico, che aveva avuto il suo apice in Richard Wagner e
seguaci; a questo tipo di armonia sarebbe seguita per reazione quella
statica, coloristica evocativa di Debussy, Ravel, Bartok e alcuni
compositori dell’area russa. Per questo, in questo processo, fu
determinante il background classico di Evans: Davis ancora nella sua
autobiografia ricorda che <<Bill portò con sé una grande conoscenza
della musica classica; gente come Rachmaninov e Ravel>> (…) che
<<così come Ravel e un mucchio di altra gente, Bill Evans mi aveva
portato ad apprezzare di Aram Khatchaturjan, il compositore russo
armeno. L’avevo ascoltato parecchio ed ero rimasto intrigato da tutte
queste scale che usava>>. 4.
<<C'è una forma particolare di arte visiva giapponese in cui l'artista opera
in modo spontaneo ma all’interno di una disciplina precisa. In questa
forma d’arte l’artista dipinge su una sottile pergamena intelata, con un
particolare pennello e un inchiostro nero ad acqua, seguendo un metodo
di controllo del gesto, poiché un qualunque movimento che sia poco
naturale o interrotto minaccia di interrompere la linea o di distruggere la
pergamena. Le cancellature o cambiamenti sono impossibili. Questi artisti
praticano una disciplina peculiare: permettono alle loro idee di esprimersi
in comunicazione diretta con le loro mani, secondo una disciplina in cui il
pensiero razionale non deve intervenire. Le opere che ne derivano
mancano forse di complessità e nella composizione e nella superficie

4A. Kahn, Kind of blue, New York, 1959: storia e fortuna del capolavoro di Miles Davis,
Milano, Ed. Il Saggiatore, 2003

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pittorica, che invece si trova nella pittura tradizionale, ma si dice che chi
la guardi sia capace di leggervi qualcosa che sfugge alle spiegazioni. Il
principio che il gesto diretto contenga un significato più profondo ha fatto
compiere un salto in avanti all'evoluzione di una delle più severe e
peculiari discipline del jazz, ovvero l’improvvisazione musicale.
L'improvvisazione, quando è organizzata all'interno di un gruppo
musicale costituisce una sfida ulteriore. A parte i pesanti problemi tecnici
correlati al concepimento della musica e in modo coerente e in una forma
collettiva, esiste la necessità, che si manifesta a livello individuale e di
gruppo, di un'empatia fra i suoi membri, capace di condurre verso un
buon risultato finale. Questo, che è il problema più difficile, penso sia
stato brillantemente risolto in questa registrazione. Come il pittore ha
bisogno del suo quadro di riferimento nella pergamena, così il gruppo
musicale che improvvisa ha bisogno di un medesimo inquadramento
nella cornice del tempo musicale. Miles Davis presenta qui alcuni pezzi
che sono melodie squisite nella loro semplicità e che già contengono
tutto quello che è necessario ad un musicista per produrre la sua
performance, mentre mantiene il riferimento sicuro alla composizione
originaria. Miles ha concepito queste composizioni soltanto poche ore
prima delle date di registrazione, ed è arrivato con degli appunti che
indicavano al gruppo cosa bisognava suonare. Tuttavia, chi ascolta udirà
in queste performances qualcosa di vicino alla spontaneità più autentica.
Il gruppo non aveva mai suonato questi pezzi prima dell'incisione e sono
sicuro che, quasi senza eccezioni, la prima performance abbia coinciso
con la take vera e propria. Sebbene non sia comune per un musicista jazz
aspettarsi di improvvisare su materiale nuovo in una sessione di
registrazione, la peculiarità di questi pezzi rappresenta una sfida
particolare. Brevemente, il carattere formale delle cinque composizioni è
il seguente:

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‘So What’ è una figura semplice basata su 16 battute di una scala, otto di
un'altra e otto di una prima, seguite da un introduzione di piano e di
basso in stile ritmico libero. ‘Freddie Freeloader’ è un blues di dodici
battute a cui e' stata data una nuova personalità dall'efficacia melodica e
dalla semplicità ritmica. ‘Blue in Green’ è una forma circolare di 10
battute che segue a un'introduzione di 4 battute, e suonata dai solisti in
varie diminuzioni ed aumenti di valori di tempo. ‘Flamenco Sketches’ è un
blues in un tempo di 6/8 che produce il suo mood attraverso alcune
variazioni modali e la libera concezione melodica di Miles. ‘All blues’
eèuna serie di cinque scale, ciascuna delle quali deve essere suonata fino
a quando il solista vuole, fino al completamento della serie.>>5
Una delle caratteristiche più studiate dai pianisti jazz per quanto riguarda
le disposizioni accordali usate da Bill nell’ambito della modalità in Kind of
Blue, sono i cosiddetti So What voicings, caratterizzati dalla
sovrapposizione di tre quarte giuste e una terza maggiore; questi
voicings prefigurano l’abbondante uso, nel jazz degli anni ’60,
dell’armonia quartale. Lo stile di Bill Evans richiese sicuramente molto
studio e applicazione per poter essere messo a punto, come possiamo
notare anche nelle parole lette poc’anzi; l’artista, riferendosi
all’improvvisazione, parlava spesso di disciplina nella convinzione che la
libertà espressiva aveva senso solo all’interno di forme e schemi
prestabiliti, pena il disordine e la diminuzione del valore artistico.
Per questo motivo fu avverso alle correnti del free jazz, preferendo a
questo stile la ricerca di melodie liriche e cantabili; egli credeva
fortemente nel linguaggio della musica popolare e della forma canzone.
Continuando ad esaminare la parabola del musicista di Painfield, dopo il
già citato primo album a suo nome del ’56, “New Jazz Conceptions”, Bill
intraprese nel 1958 la registrazione del suo secondo album, “Everybody
Digs”. Il produttore Orrin Keepnews dovette fargli la corte per più di due

5 A. Kahn, “Kind of Blue”, Milano, Il Saggiatore, 2003

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anni perché registrasse un secondo album; Evans riteneva di non aver
nulla di particolarmente nuovo da dire ed era molto intransigente con se
stesso, non era mai soddisfatto delle sue registrazioni e Keepnews
dovette quasi obbligarlo per convincerlo a pubblicare il materiale
registrato. Una delle tracce più belle di questo disco, registrato con Philly
Joe Jones alla batteria e Sam Jones al contrabbasso, è Young and
Foolish, giovane e sciocco, probabilmente come egli stesso si sentiva,
non ritenendosi all’altezza e biasimandosi costantemente. L’importanza
di questo brano in stile “narrativo” si rivela in una ricchezza di sfumature,
voicings di rara bellezza tanto che il brano sembra trasformarsi in una
romanza senza parole, sancendo la maturazione stilistica del pianista,
documentata anche dagli altri brani del disco (ricordiamo Epilogue piano
solo che chiude il disco, una sorta di inno costruito su una successione
pentatonica, con rimembranze Musorgskijane, che Bill riprenderà anni
dopo, al termine del concerto alla Town Hall che tratteremo nel dettaglio
più avanti).
Dopo quest’album e carico della visibilità arrivatagli da uno dei momenti
chiave della sua vita, la registrazione di “Kind of Blue”, Bill Evans ormai
trentenne ha intenzione di formare un suo gruppo stabile. Dopo un
periodo iniziale di assestamento con vari musicisti, si consolida il
famosissimo trio con il contrabbassista Scott la Faro e il batterista Paul
Motian: con questi due musicisti percepisce fin da subito di trovarsi a
s u o a g i o , d i p o t e r s p e r i m e n t a re u n a p p ro c c i o p i ù l i b e ro
all’improvvisazione di quello usuale a quel tempo per un trio, dove il
contrabbasso e la batteria si limitavano al ruolo statico e subordinato di
accompagnatori del pianista; Evans, profondo conoscitore della musica
colta, sapeva che nei passaggi di transizione una voce comincia a
sentirsi sempre di più finché diventa predominante sulle altre: l’idea di
Evans era quella di una “collettiva improvvisazione a tre”, egli chiese ai
suoi musicisti la capacità di far scaturire ogni parte improvvisata del

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discorso dalla precedente, mettendo le idee musicali in relazione
continua. Il 28 dicembre 1959 il trio con LaFaro e Motian entra in sala
d’incisione per l’inizio di una delle registrazioni più importanti della vita
artistica di Bill: “Portrait in Jazz” è il primo dei 4 album che il trio
realizzerà e contiene alcuni picchi interpretativi che mettono in evidenza il
lato più meditativo e lirico di Evans, la profondità delle cose che aveva
da dire.
Il 2 febbraio 1961, a più di un anno dal primo saggio discografico del trio,
venne inciso “Explorations”; tra queste due incisioni il trio si dedicò a
varie esibizioni, e Bill in particolare proseguì anche la sua attività di
sideman; la sua situazione economica era difficile: egli aveva
continuamente necessità di denaro principalmente a causa della sua
tossicodipendenza di cui abbiamo già accennato; sebbene Evans nel
corso della sua carriera rincorse i suoi obiettivi musicali con grande
onestà e lucidità intellettuale, la sua vita privata fu sempre segnata
dall’abuso di eroina, che gli causò, tra l’altro, problemi di salute (non
dimentichiamo il suo ritiro dal gruppo di Miles e il rientro a casa dalla
famiglia per seguire le cure a seguito della contrazione di un’epatite).
L’album “Explorations” è un ulteriore passo avanti verso quel colloquio a
tre cercato dai componenti del trio, continuando quel percorso di
superamento dello schema pianista in primo piano e contrabbasso e
batteria nel ruolo di accompagnatori (in Nardis per esempio è LaFaro che
parte con uno splendido assolo mentre Evans l’accompagna); l’altra
tappa importante raggiunta con “Explorations” da Evans fu la maturità
raggiunta nell’esecuzione delle ballads che, con il loro aspetto
“romantico”, erano perlopiù appannaggio di trombettisti o sassofonisti:
Evans “canta” con il pianoforte e riesce così a narrare i sentimenti più
profondi delle vicende amorose.
A “Explorations” seguì nella primavera del 1961 la prima registrazione dal
vivo del trio “Sunday at the Village Vanguard”, in questo live si toccano i

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vertici musicali che il trio inseguiva dal momento della sua costituzione,
sembrò che i talenti dei tre musicisti fossero arrivati alla massima
maturazione contemporaneamente: tutta l’attenzione di ciascuno è
rivolta al suono, il proprio e quello degli altri due. Il rapporto tra LaFaro e
Evans sembra telepatico e “l’interplay” tra i musicisti, ossia la capacità di
non limitarsi al solo ruolo di accompagnamento e all’ascolto passivo del
discorso del pianista, viene davvero espresso in tutto il suo splendore;
resta questa una preziosa gemma nella storia del jazz. La gioia provata in
quel periodo cosi artisticamente fecondo, fu spenta tragicamente il 4
luglio del 1961, a soli dieci giorni da quelle sessions, quando Scott
rimase vittima di un incidente stradale: la vita di Bill si immobilizzò, fu
uno choc, quel lavoro di allargamento degli orizzonti musicali che il trio
sentiva di poter perseguire assieme fu bruscamente interrotto.
In quella settimana al Village Vanguard i tre eseguirono tredici diversi
brani, alcuni di questi furono suonati più volte e tutte le registrazioni
vennero, dopo alcuni anni, inserite in un cofanetto chiamato “The
complete Village Vanguard recordings, 1961”; quando inizialmente si
trattò di fare un solo disco, chiamato appunto “Sunday at Village
Vanguard”, da poco accaduta la precoce scomparsa del bassista, Bill,
nel decidere i sei brani da inserire, ebbe il desiderio di enfatizzare i brani
in cui era posto in evidenza il contributo di Scott LaFaro; scelse infatti
ben due brani scritti dal bassista (Gloria’s Step e Jade Visions) e neanche
un brano di sua composizione, bensì quattro meravigliosi standards,
Solar di Miles Davis, My Man’s Gone Now di G.Gershwin, Alice in
Wonderland, tratto dal repertorio del musical e All of you di C. Porter.
L’album sembra essere una dedica appropriata alla breve carriera di
Scott, come una memoria indelebile dello splendido talento e
dell’importante contributo da lui dato alla storia del jazz.
Poco dopo la Riverside fece uscire un’altro album con altre registrazioni
prese dalla fortunata settimana al Village Vanguard, il disco venne

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chiamato “Waltz for Debbie”, il delizioso brano in tempo ternario che Bill
compose anni prima come dedica alla figlia del cugino. LaFaro fu
sostituito da Chuck Israels, tecnicamente molto dotato, che collaborerà
con Bill fino a febbraio 1966; egli riuscì a porsi come una delle tre voci di
un trio dove, oramai, l’interplay era un dato acquisito; seppur questo trio
non toccherà i vertici raggiunti da quello con LaFaro, Israels fu una figura
importante per Evans poiché con la sua personalità non era solito
procurare interferenze nel discorso musicale e non forzava il pianista in
una decisione da lui decisa facendogli raccontare la sua storia per intero.
La depressione per la perdita dell’amico e le relative necessità
economiche a cui Evans andava incontro a causa delle sue dipendenze
da stupefacenti, fecero si che il 1962 fosse, volente o nolente, un anno di
intensa attività di registrazione in studio e di allargamento delle sue sfere
di attività musicale (sceglie e arrangia il repertorio per due splendidi
album come leader di due diversi quintetti, -Interplay e The Interplay
Sessions- lavori che metteranno in evidenza le sue doti di arrangiatore e
che, dal punto di vista del linguaggio pianistico, segnano un tentativo
riuscito di tornare ad una vitalità che sembrava ormai persa nel suo
nuovo trio); eseguì una serie di incisioni in piano solo e si fece
coinvolgere, dal suo nuovo produttore discografico Creed Taylor (Verve),
in produzioni ben lontane dall’impegno di ricerca nel periodo con LaFaro.
Questa diminuzione d’interesse per l’approfondimento dei meccanismi
connessi con l’improvvisazione collettiva determinarono, nel febbraio del
63, l’uscita del suo album “Conversations with Myself” e pochi mesi
dopo, su pressione di Creed Tayolr, la realizzazione di un disco di musica
più commerciale, dove il pianista si limitò a suonare in modo pedestre e
senza la ricerca armonica che lo contraddistingueva, dei brani di musica
da film. Il ’63 fu per Evans il momento per dar vita ad un suo nuovo trio
con Israels e Larry Bunker in occasione di un concerto a Los Angeles,
ma il repertorio di quegli anni era sostanzialmente fermo poiché Evans

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componeva pochissimo; Bill suona principalmente standards e pop
songs; il ’64 fu anche l’anno di addio tra Bill e Motian: l’interesse di Bill
all’interplay, alle barriere ritmico-armoniche del linguaggio jazzistico era
nullo, e Motian avvertiva che la musica del trio era ferma, “stanca”.
Seppur in questa fase di stasi, la metà degli anni sessanta furono per Bill
il periodo in cui cominciò a farsi conoscere in Europa, compì infatti con
Israels e Bunker una fortunata tournée nei paesi scandinavi che gli diede
modo di diventare nel corso degli anni sempre più popolare.
Grazie all’assistenza della sua nuova manager Helen Keane Bill riuscì a
ritagliarsi un pubblico affezionato in un’epoca in cui le tendenze
prevalenti nel jazz andavano in tutt’altre direzioni, in cui la figura
dominante e più influente sulla scena era quella di John Coltrane.
L’opera più rappresentativa di questo periodo è “trio 65” (si ricordano le
sue celebri esecuzioni di Who can I turn to e Round Midnight).
L’evento più importante della vita di Bill che segnò la seconda metà degli
anni ’60 fu la scomparsa del padre: dopo 15 giorni il pianista eseguirà
una Suite (che rappresenta, fra i suoi tanti capolavori compositivi, forse il
suo vertice) composta proprio per questa ricorrenza durante il concerto
alla Town Hall, la prestigiosa sala newyorkese. Questo concerto, di cui
tratteremo approfonditamente nel prossimo capitolo, venne pubblicato
su disco dalla Verve nel 1967 e rappresenta una delle vette mai raggiunte
dal geniale pianista; fu anche l’ultima occasione in cui Evans si avvalse
della collaborazione di Chuck Israels, musicista che lo aveva
accompagnato in un momento difficile raccogliendo un’eredità pesante
come quella lasciata da LaFaro. A lui succedette Eddie Gomez, con cui
nell’ottobre 1966 registrò “A Simple Matter of Conviction” nel quale
compare anche il batterista californiano Shelly Mane.
In quegli anni si succedettero vari batteristi finché nel 1968 Marty Morell
diventò il terzo membro stabile del trio (trovare un nuovo batterista non
era stato semplice, il problema che Bill maggiormente riscontrava nei

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confronti dei batteristi era la loro difficoltà a riabbassare la tensione del
volume del loro drumming dopo averli intensificati).
Alla fine degli anni ’60 Bill torna periodicamente in Europa proponendo
brani incisi magari 10 anni prima: la sua scelta dei brani risponde
solitamente a stimoli di tipo emozionale e percorsi intimi; negli anni in cui
Miles Davis dà vita alla sua cosiddetta svolta elettrica e altri musicisti
iniziano a sperimentare nei loro ritmi i suoni provenienti dal funk e dal
rock, Bill non sente quest’esigenza di cambiamento e continua per la sua
strada; il suo rinnovarsi, in effetti non riguarderà quasi mai le forme
musicali: la sua idea era lontana dall’abbandono di ogni regola, seppur
convinto a mantenere una certa libertà all’interno delle regole
improvvisate; l’unica vera sperimentazione che gli interessò per tutta la
vita fu quella che gli consentisse di tradurre il suo sentire più profondo in
suono. In quel periodo Bill, nelle varie interviste, si soffermò sulla
funzione spirituale della musica che non aspira a enormi masse di
spettatori eppure si rivela profondamente umana ed arriva al cuore.
All’album dal vivo “At the Montreaux Jazz Festival” del 1968 (con un
giovane Jack Dejonette alla batteria ) seguì un breve periodo di
collaborazione con l’etichetta discografica di Miles Davis, la Columbia
Records, per la quale uscì un unico disco “The Bill Evans Album” che
contiene, fra gli altri, il toccante Two Lonely People, sorta di allusione alla
sua vita privata e al rapporto con la moglie Ellaine che dopo poco si
sarebbe suicidata avendo appreso da Bill la decisione di separarsi da lei.
Un’altra caratteristica di questo album è il fatto che compaiono solo
composizioni di Bill: non succedeva dai tempi di “Interplay”; un altro
brano significativo è Twelve Tone Tune (TTT), nel quale Evans fa uso della
composizione seriale dodecafonica.
Nonostante i riconoscimenti (nel ’68 era stato giudicato miglior pianista
dai critici di “Down Beat” e il suo album del 1970 “Montreaux II” ottenne
un altro Grammy) questo periodo per Evans non rappresenta un

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momento di particolare fioritura compositiva; confrontando le esecuzioni
di questo periodo con le esecuzioni degli stessi brani ma di anni
precedenti, non si potrà non rimanere sconcertati dalla banalizzazione
che domina le versioni più recenti; gli assoli di Bill non costruiscono più
forme: appaiono percorsi da una frenesia esecutiva inusuale per lui,
come se avesse perso quel meraviglioso respiro, quella varietà dinamica,
quel senso di discorso logico che ne era la sua più affascinante
caratteristica. Un’isola felice di questo periodo è rappresentata
dall’album “Alone”, uscito per la Verve; in questo disco, considerato tra i
più grandi capolavori per piano solo, per cui tra l’altro ricevette un
Grammy, Bill Evans si isolava dal mondo e si rifugiava nel suo strumento
in solitudine, colloquiando con alcune delle grandi ballads della
tradizione della song americana, per dar vita ad una comunicazione
emotiva senza pari.
Nel ’72 Bill ritrova il suo mentore George Russel per “Living Time”: come
già accaduto in passato, Russel ebbe un ruolo di stimolatore verso
Evans e cercò di forzarlo a gettarsi in situazioni formalmente libere; il
risultato però fu di disagio e ne venne fuori una musica complessa e
poco fluida.
Un esempio più riuscito di collaborazione tra Evans e un’orchestra più
allargata fu l’album “Symbiosis”, una Suite in due movimenti e cinque
parti composta da Claus Ogerman; quest’album può essere considerato
il più alto risultato artistico raggiunto da Evans in quegli anni.
Nei primi anni ’70 ci furono dei cambiamenti nello stile pianistico
evansiano: la mano sinistra prima impiegata con parsimonia e a volumi
inferiori rispetto alla destra, diventa più presente e in qualche caso anche
invadente; la sua funzione da commentatrice del fraseggio della destra
diventa elemento di propulsione ritmica; il piano da strumento melodico
tende a diventare ritmico, a percussione, con una tendenza a spingere
avanti il tempo davvero accentuata rispetto ai suoi standard esecutivi.

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Questi cambiamenti coincisero anche con degli importanti avvenimenti
personali, tra cui, la nascita del figlio Evan Evans nel 1975, avuto con la
seconda moglie Nenette, che portò una nuova ventata di motivazione e
determinazione a vivere in un uomo da sempre attanagliato da
depressione e vittima dell’uso di stupefacenti.
Dopo l’esperienza dell’album in duo con Tony Bennett per la Fantasy
Records Evans registra nel 1977 un album con Gomez e Zigmunt “I Will
Say Goodbye”, il cui titolo è un tema da film di Michel Legrand; questo
brano e Seascape di Johnny Mandel diventano delle struggenti romanze
senza parole, pezzi intimi che recuperano modelli pianistici di Brahms,
Chopin, Debussy e Scriabin, e la sua tecnica di far cantare la voce
superiore del tema suonando tre o quattro voci con la mano destra trova
una raffinatezza sublime; questo fu possibile anche grazie alla sensibilità
del batterista Eliot Zigmunt, che assecondava Bill restituendo al trio
antiche vette.
Con Zigmunt e Gomez assistiamo ad un altro album, questa volta per
l’etichetta Warner Bros: “You Must Believe In Spring”, una piccola
gemma nella corposa discografia di Bill Evans, è l'ultimo capitolo del
sodalizio artistico Evans/Eddie Gomez (le incisioni risalgono all'agosto
del 1977) e, contemporaneamente, epitaffio alla vita stessa di Evans,
essendo il primo disco pubblicato dopo la morte del pianista nel 1980.
Temi centrali del disco sono la mancanza, la perdita, e la morte: la prima
traccia (B Minor Waltz, dedicata alla prima moglie Ellaine morta suicida) e
l'ultima (Suicide Is Painless, tema dalla serie televisiva M*A*S*H) sono i
confini entro i quali Evans disegna un percorso musicale lucido e
doloroso, che attraversa stati d'animo diversi ma segnati tutti dalla
medesima fragilità. Il dolore e la rassegnazione di fronte all'ineluttabilità
della morte sono temi sempre presenti nell'arte di Bill Evans, fin dalla
tragica scomparsa dell'amico Scott LaFaro; eppure “You Must Believe In
Spring”, se da un lato è disco dai toni cupi e spesso drammatici, sa

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essere elegante e sobrio, pieno di spunti armonici e di “materia”
musicale. Il brano We Will Meet Again, è una commovente dedica al
fratello Harry — dedica quasi profetica, vista la morte per suicidio del
fratello circa due anni dopo la registrazione del disco; Bill gli era molto
legato e gli sopravviverà di pochissimo. Fra i dischi di Evans più amati e
venduti, “You Must Believe In Spring” rimane una delle grandi
testimonianze del pianismo di uno dei più grandi musicisti del secolo
scorso, nonché un'ulteriore conferma del fatto che nella carriera di Bill
Evans anche il sodalizio con Eddie Gomez ha regalato pagine
indimenticabili.
Dopo aver inciso un altro album in piano solo “New Conversations”, nel
luglio 1978 intraprende una tournée Europea con Marc Johnson e Philly
Joe Jones e al ritorno dagli stati unti incide “Affinity” in quintetto.
Tra la fine del ’78 e l’inizio del ’79 il trio di Bill è cosi composto: alla
batteria Joe la Barbera e al contrabbasso Marc Johnson, entrambi
musicisti di notevole intelligenza e spiccata capacita di ascolto; sembra il
momento giusto per riportare il trio ai livelli di un tempo. I tre figureranno
insieme a Tom Harrell alla tromba e Larry Schneider al sax tenore
nell’incisione di “We Will Meet Again”: la registrazione avviene dopo la
traumatica notizia del suicidio del fratello; tutto a un tratto è come se Bill
Evans iniziasse qui il suo prossimo addio alle scene, l’attaccamento alla
vita già vacillante declinerà rapidamente, ma nonostante questo la
musica continua ad uscire intensa e forte; con il nuovo trio debutta in
Europa a novembre dello stesso anno. Di questa tournée uscita un
doppio LP per la Elettra nel quale compare anche Letter to Evan, un
brano composto dal Bill per il figlio Evan in occasione del quarto
compleanno e nel quale scrive anche le parole: sono parole dolci-amare,
di affetto e di distacco, come se il pianista fosse conscio del poco tempo
che gli rimaneva.

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Nonostante la felicità per i rapidi progressi fatti con i suoi due giovani
partners, comincia ad avere seri problemi di salute, probabilmente come
conseguenza alla tragica scomparsa del fratello inoltre Bill comincia a
fare anche uso di cocaina. In questo periodo compone la struggente
Your Story, nella quale utilizza un approccio “a nucleo” in cui una breve
figurazione ritmica viene ripetuta con uno sviluppo armonico modulante
e con l’uso dell’enarmonia. Un brano ripreso con il nuovo trio è Nardis, in
particolare la versione eseguita nel “The Paris Concert Edition II” è
straordinaria: il lungo piano solo introduttivo sembra una ricapitolazione
di tutti gli elementi del pianismo di Bill; la musica colta dal romanticismo
al ‘900, gli elementi armonici tristaniani e la musica jazz si fondono senza
precedenti, l’ingresso della batteria e del contrabbasso dopo il lungo
piano solo fa esplodere il pubblico in un liberatorio applauso. Bill sentiva
questo trio come collegato profondamente al suo primo trio, tanto che in
un’intervista del 1980 disse <<sento che il trio ha ora ha un suo
Karma>>6.
Nonostante il sempre più intenso uso di cocaina e l’entrata in crisi
definitiva del rapporto con Nenette, Bill riesce ad affrontare un’altra
tournée europea. Al ritorno continua a lavorare a ritmo serrato, anche al
“Keystone” di San Francisco e altri club americani. Le sue condizioni di
salute peggiorano rapidamente, disdice un ingaggio al “Fat Tuesday”
tanto che Johnson e LaBarbera lo convincono a ricoverarsi. Morirà da li a
pochi giorni il 15 settembre del 1980 all’età di 51 anni.

6 E. Pieranunzi, “Bill Evans - ritratto di un artista con pianoforte”, Roma, Nuovi Equilibri, 1994

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3. Il concerto alla Town Hall

Il contesto

Il 21 febbraio 1966, Bill Evans si esibisce in concerto alla Town Hall con il
suo trio formato da Chuck Israels al basso e Arnold Wise alla batteria.
Vista la particolarità della sala da concerto -un luogo adibito solitamente
alla musica classica di stampo sinfonico- l’intera esibizione viene
registrata per l’etichetta della Verve; per la circostanza dolorosa (il padre
era mancato da quindici giorni) e per il severo ambiente in cui il concerto
ha avuto luogo, il suo debutto in quella sala fu una delle esibizioni più
intense del decennio e l’album che ne scaturì fu tra i suoi più belli in
assoluto, sia dal punto di vista dell’ispirazione creativa che della qualità
dell’esecuzione. Ogni brano è una gemma, e ciò che ne valorizza ancora
di più il contenuto sono gli oltre tredici minuti dell’esecuzione della Suite
composta da quattro brani e intitolata “Solo - In Memory of His Father”,
di cui tratteremo ampiamente nel dettaglio più avanti.
Il dolore per la morte del padre provoca nel pianista un meccanismo
probabilmente inconscio di rimembranze, che lo riportano indietro nel
tempo; suona brani che non aveva più proposto dai tempi del trio con
LaFaro come Spring is Here e My Foolish Heart. Esprime il suo tormento
con estremo pudore ma allo stesso tempo con una profondità di
espressione che sembrava perduta. Gli altri titoli dei brani sembrano una
traccia allusiva al suo stato d’animo; I Should Care e Who Can I Turn To?
(When Nobody Needs Me) rimandano a messaggi di solitudine e di
perdita, di preoccupazione per un destino ineluttabile.
La critica pose l’accento su come l’ambiente della sala da concerto
avesse esaltato le qualità da concertista di Evans, ritenne a ragione che il
medley di brani originali suonati in piano solo rappresentasse il più alto
risultato conseguito da Evans come compositore, e che le capacità del

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pianista di trasformare canzoni di Broadway o standards un po’ logori
per l’epoca (ricordiamo che nel ’66 il linguaggio del jazz aveva subito
radicali cambiamenti, e pochissimi gruppi del periodo proponevano un
repertorio tratto dagli anni ’40-’50) in vere composizioni -ricche di
contenuti assenti nelle versioni originali- fosse una sua caratteristica
personale, che quasi nessuno tra i suoi colleghi poteva rivendicare.
Evans aveva la capacità di far sembrare la sua versione degli standards
in qualche modo “definitiva”, un punto di arrivo; concetto già espresso
anni prima da Miles, che, riferendosi a Bill asseriva che egli aveva la
capacità di portare le cose sempre oltre il punto d’arrivo immaginato.
Oltre allo sterminato vocabolario armonico, in quell’occasione, Evans
sfoggiò una qualità di suono e una varietà di tocco da vero concertista
classico; impressionante è l’immedesimazione tra lui e il pianoforte.
Bill, che all’epoca aveva 36 anni, in quel concerto, oltre alla Suite per
piano solo e ai vari brani in trio (I Should Care, Spring Is Here, Who Can I
Turn To, Make Someone Happy, Beautiful Love, My Foolish Heart, One
for Helene), proseguì il resto del concerto assieme alla big band
capitanata dal sassofonista tenore Al Cohn.
L’esibizione fu percepita come un importante traguardo artistico tanto
che fu trasmessa in televisione nel ’68 in memoria di Robert Kennedy, da
poco tragicamente scomparso.

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La Suite: “Solo - In Memory Of His Father”

Il debutto nella prestigiosa sala newyorkese e la dolorosa notizia


riguardante il padre, fecero decidere al pianista di eseguire una Suite
intesa come un delicato requiem in piano solo; ricordiamo che Bill,
sebbene adorasse suonare in solitudine, raramente lo faceva in
esecuzioni pubbliche, essendo sempre molto critico verso se stesso,
riteneva di non avere la stoffa per questo tipo di esibizioni. Sentiva che i
suoi ascoltatori avessero bisogno del drive di una sezione ritmica, per cui
il piano solo avviene in rari e accuratamente scelti momenti. La Suite è
composta da quattro momenti, Prologue, di sapore neo-impressionistico,
dove aleggiano echi lontani della prediletta Berceuse di Chopin congiunti
a un pentatonismo debussiano e raveliano, Story Line, un brano modale
molto vicino a Re: Person I Knew, dalla toccante ballad Turn Out The
Stars (ritenuta una delle sue più belle composizioni, e, in assoluto, nella
storia del jazz, nella quale Bill sembra davvero spegnere le stelle per suo
padre), e da Epilogue (brano già inciso sette anni prima in Everybody
Diggs) che chiude la Suite.
Dan Morgensten, il critico che presentò il concerto, scriverà che questa
era un tipo di musica difficile da commentare e che fu un’esperienza
completa, gratificante e intensa; aggiunse poi che, essere in grado di
sedersi nel proprio salotto e riascoltare la registrazione del concerto, gli
permise di rivivere tutte le emozioni che Bill Evans fu in grado di
suscitare quella notte.
Di seguito parleremo dei quattro brani che compongono la Suite.

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Prologue
Prologue è stato composto probabilmente proprio per il concerto alla
Town Hall. È un pezzo classico per piano scritto per esser eseguito come
da partitura, senza improvvisazione e senza il feeling jazz, solitamente
presente nella musica di Bill. Per questo pezzo modale scelse il modo
ionico; per rinforzare questo tipo di sound la mano sinistra suona un
pattern ostinato per tutto il brano: quattro accordi costruiti nel I, IV, III e II
grado, disposti da due, tre, fino a quattro note, a parti strette. Partendo
da mi maggiore abbiamo -sovrapposti al primo grado tenuto con il
pedale ed eseguito con la nona- gli accordi di: la maggiore (IV grado di
mi), sol diesis minore (III grado) e fa diesis minore con la settima (II
grado). Userà lo stesso approccio nei vari cambi di tonalità. Evans
precedentemente ha usato questa tecnica in Peace Piece (1958),
Flamenco Sketches (1959) e NYC’s No Lark (1963).

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La prima frase di otto misure in mi ionico ed è suonata in note singole;
questa quieta melodia evoca le Gymnopedie di Erik Satie e le loro
atmosfere malinconiche, un sound che probabilmente corrispondeva al
sentimento di Evans in quel periodo. Gymnopedie numero 2 è stato uno
dei primi pezzi registrati da Evans dopo la morte del bassista Scott
LaFaro nell’album “Nirvana” con Herbie Mann. Questa frase è stata
trasposta una quarta sotto nelle successive otto battute e abbandonata
per alcune variazioni e modulazioni. In questa sezione centrale entrambe
le mani spesso suonano nello stesso registro. La mano destra suona
doppie note alternando intervalli ampi e stretti. Questa tecnica può esser
trovata anche nella Berceuse in re bemolle Op. 57 di Chopin, un brano
che Bill amava. A misura 23 del prologo la destra traccia i contorni della
figura iniziale della Berceuse, solo trasportato dall’originale Reb a Lab.
Una mera coincidenza o piuttosto un’inconscia reminiscenza,
considerando che Evans non amava citare altri brani.

Dopo cinque misure in Sol Ionico Evans ritorna a mi ionico per restaurare
la melodia iniziale, questa volta armonizzato a quarte.
In questo pezzo sono suonati quattro modi: Mi, Do, Lab e Sol ionici. Non
è solo un caso che, combinando le toniche di queste scale, si forma un
accordo di Lab maggiore settima con la quinta diesis che è il terzo grado
della scala minore melodica; consideriamo che Evans stava esplorando
le possibilità di questa scala, con un sound aumentato dato dalla quinta
aumentata, come vedremo nei brani successivi della suite. Gli accordi
della mano sinistra sono fedelmente trasposti, producendo una piena
tessitura armonica. Tutti questi elementi, assieme all’uso del pedale e alla

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sovrapposizione di entrambe le mani nella sezione centrale del pezzo,
fanno di Prologue un pezzo neo impressionistico.
Qui proponiamo le ultime tre righe inclusive del brano dove la prima
enunciazione tematica ricompare armonizzata per quarte.

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Story Line
Questo brano è stato molto probabilmente composto specificatamente
per il concerto alla Town Hall. È un brano basato su una struttura
armonica nella quale Evans improvvisa liberamente, senza specifica
melodia. Nel 1958 aveva già sperimentato questa tecnica nel brano
Peace Piece, un’improvvisazione su due accordi (CMaj7 e G9sus),
basata sulla sua ricerca nel campo modale degli anni ’50. Altre due
occasioni in cui è stata utilizzata questa stessa tecnica furono: Know
What I Mean del 1961 con Cannonball Adderley e Re: Person I Knew del
1962.
Nel primo di questi due brani Evans ha usato una semplice progressione
di cinque accordi minori per improvvisare nel modo dorico: F#-9, Eb-9,
Em9, Am9 and Cm9. Ogni accordo dura due battute. Il rapporto tra
questi quattro accordi è data dalla relazione di terza minore tra un
accordo e il successivo (accordo diminuito). Nel ‘62 Evans ha usato
questi stessi accordi, in ordine differente, da misura 17 a misura 20 nel
brano Time Remembered, un’altra opportunità per esplorare il modo
dorico, oltre che il modo lidio.
Con lo stesso concetto il brano Re: Person I Knew del 1962 (nell’album
“Moonbeams”): anche qui nessuna melodia definita e nessuna cadenza
ritmica particolare, anche se poi, più tardi, verrà scritta una melodia.
Il principale obiettivo di questo pezzo è stato quello di creare
un’atmosfera attraverso i modi scelti per l’improvvisazione; come tipico
della musica modale gli accordi di settima dominante sono assenti e
come in Time Remembered ci sono solo accordi maggiori e minori,
questa volta suonati sopra un pedale che percorre le sedici battute del
brano.
Usando la stessa idea in Story Line, Evans prende i cambi d’accordo
delle prime dodici battute di Re: Person I Knew come punto di partenza
della struttura a 52 battute.

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Story Line può essere quindi considerata un’estensione di Re: Person I
Knew ma in una forma decisamente più estesa, ABAC, dove la A è d 16
misure, il B di 8 e il C di 12.
Come fosse un’infinita progressione blues, l’armonia è basata sui gradi
tonali I, IV e V (do, fa e sol). Il Il, IV e V grado sono sempre minori, mentre
invece il primo accordo slitta tra maggiore e minore prima di diventare
maggiore nelle ultime otto battute.
Il pezzo risulta in un mood maggiore-minore; vi è un altro tipo di
ambiguità che dà al pezzo un sapore speciale: i tre accordi hanno la
settima minore o sono di tipo minore con la settima maggiore; entrambi i
modi sono presenti in tutto il pezzo. Da notare che Bill stava
sperimentando le sovrapposizioni di triadi aumentate, quindi nel dettaglio
potremmo dire che sovrappone: agli accordi minori con la settima
maggiore la triade aumentata partendo dal III grado dell’accordo, agli
accordi di settima di dominante la triade aumentata costruita sul VII
grado dell’accordo, e infine, agli accordi semidiminuiti, sovrappone la
triade aumentata costruita sul V grado.
Il Do tenuto come pedale, elemento chiave del brano Re: Person I Knew
è mantenuto lungo le prime 40 misure (sezione ABA); esso gioca un ruolo
preponderante nel rinforzare l’effetto statico degli accordi ripetuti;
abbiamo l’impressione di uniformità, di un vagare monotono, di un
movimento circolare e, allo stesso momento, di immobilità; un accordo
arriva costantemente dopo l’altro, come l’infrangersi delle onde.
Il pedale viene abbandonato alla misura 41 della sezione C; la linea del
basso scende cromaticamente dal I al IV grado, per proseguire poi
liberamente in alternanza con momenti in cui ritorna il pedale di Do, in
chiusura abbiamo un’ultima particolare cadenza: I; VI; II; bII.
L’ultimo accordo Db/G rende possibile evitare la vera settima di
dominante G7, che non risolve sulla tonica creando un mood sospeso
(questa soluzione è presa da Re: Person I Knew). Coincidenza o no, Turn

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out the Stars che segue Storyline, chiude con la stessa nota
fondamentale sebbene in forma minore (C#minor).
L’ambiguità armonica prevale fino alla fine. La frase finale è una semplice
scala di Do minore naturale. Da notare l’uso della tecnica del Drop 2
durante l’assolo di Evans, tecnica nella quale la seconda nota
dell’accordo partendo dall’alto è spostata al grave di un’ottava (secondo
chorus misura 35; terzo chorus 4, 7, 8).
Evans non inserì Story Line nel suo repertorio abituale, mentre, la
versione breve di Re: Person I Knew, fu costantemente eseguita anche
con il trio. Qui di seguito, visto la caleidoscopica mutevolezza armonica
di questo brano, riporto la successione degli accordi e delle scale
utilizzate per ogni battuta.
Per quanto riguarda la sezione A (qui di seguito le prime 8 battute):

1^b: C/scala maggiore di Do; 2^b: C+/quinto grado della minore


melodica di Fa; 3^b: Gm(7#)/scala minore melodica di Sol; 4^b: Gm7/
scala dorica di Sol; 5^b e 6^b: Fam7/scala dorica di Fa; 7^b e 8^b:
Cm7/scala dorica di Do; 9^b: Fam(7#)/scala di Fam melodica; 10^b:
Cm(7#)/scala minore melodica di Do; 11^b: come la quinta battuta;
12^b: come la terza battuta; 13^b: DbMaj7(#11)/scala di Reb lidia; 14^b:

40
come la decima battuta; 15^b: F#m7(b5)/scala di Lam melodica; 16^b:
come la quinta battuta;
Per quanto riguarda la sezione B:

1^b: come la prima battuta della sezione A; 2^b: Gb7(#11)/scala lidia-


dominante di Solb; 3^b: come la quinta battuta; 4^b: F#dim/scala
diminuita di Fa#; 5^b: come la prima battuta; 6^b: come la quarta
battuta; 7^b: come la quinta battuta; 8^b: come la tredicesima battuta;
Per quanto riguarda la sezione C:

41
1^b: Bdim/scala minore armonica di Do; 2^b: Cm7/scala minore naturale
di Do; 3^b: Am6/scala minore melodica la La; 4^b: Fam(7#)/scala minore
melodica di Fa; 5^b: come la prima battuta della sezione A; 6^b: come la
diciottesima battuta di A; 7^b: come la quinta di A; 8^b: come la
ventesima battuta di A; 9^b: ancora come la prima di A; 10^b: come la
quindicesima battuta della sezione A; 11^b: come la quinta di A; 12^b:
come la tredici di A.
Il brano termina poi con la cadenza finale di cui abbiamo parlato prima.
Bill Evans, quindi, con Story Line, riesce ad unire l’utilizzo, in uno stesso
brano, di ben tredici scale diverse, armonizzandole magistralmente tra
loro e approfondendo, così, il linguaggio modale in tutti i suoi vari aspetti,
rendendolo eterogeneo e diversificato ai massimi livelli.

42
Turn Out The Stars
Questo brano fu suonato per la prima volta al Town Hall Concert. Venne
composto tra la fine del ’63 e l’inizio del ’66. Il titolo proviene da
un’amica di Bill, Gene Lees che scrisse le parole per questa canzone
romantica e allo stesso tempo ricca armonicamente, che ha una struttura
ABC divisa in: 16 misure (A)+ 8 (B)+ 16 (C).
Sezione A:

Il primo motivo consiste di due note ripetute che risolvono


cromaticamente mezzo tono sotto con altre due note ripetute formando
una cadenza II V I di La minore; la stessa enunciazione tematica viene
ripetuta nella seconda frase con le stesse note ma con una cadenza
diversa (II V I di Do maggiore). La stessa cadenza invertita verrà
riproposta verso la fine della sezione C. Evans potrebbe aver preso
quest’idea melodica dalla canzone I Should Care che registrò nel 1962
nell’album “How My Heart Sings” e che ripropose anche in questo
concerto alla Town Hall. Alcuni esempi di brani composti in questo
modo, per mezzo di un motivo breve usato sistematicamente,

43
armonizzato in diverse maniere e trasposto di tonalità, sono: Bill’s Hit
Tune, The Opener, Orbit, Song for Helen (di cui tratteremo più avanti), 34
skidoo, Tiffany e Your Story.
Le progressioni di accordi in tutto il brano sono sempre II - V - I e V - I in
tonalità maggiore o minore. Nelle prime dieci misure il centro tonale
cambia ogni due battute salendo per progressioni di terza: Am, C, Eb, G,
B. Questi cinque gradi di scala formano un accordo di Am9(b5), un
accordo derivato dalla scala di Do minore melodico.
Questa tecnica per organizzare diversi centri tonali era molto in voga al
tempo (Eb, G e B sono i centri tonali di Giant Steps di Coltrane, scritto
nel ’59). Evans usò di nuovo questa tecnica nel brano del ’66 Orbit.
Più tardi Evans fece alcune modifiche nella melodia e armonia di queste
sezioni, aggiungendo degli accordi di passaggio tra le varie cadenze.
Sezione B:

Nella scelta degli accordi per questa sezione (II, V, I in Re maggiore e Do


maggiore), Evans potrebbe essere stato ispirato dal bridge della
composizione di Dave Brubeck In Your Own Sweet Way, registrata da

44
Evans nel 1962, sempre nell’album “How My Heart Sings!”; gli accordi
sono suonati dalla mano destra mentre la sinistra arpeggia su un pedale
di dominante (A tenuto durante tutta la progressione Em7-A7-Dmaj7 e il
basso di G sulla progressione Dm7-G7-Cmaj7), un espediente ricorrente
nella musica di Evans, che crea un effetto statico su questa sezione della
canzone, in contrasto con le altre due sezioni che hanno un movimento
direzionale: ascendente (A) e discendente (C). La mano sinistra suona le
linee arpeggiate dal pedale dalla nota pedale; Evans era mancino e le
sue linee sinistre sono vere e proprie melodie, senza debolezza ritmica o
melodica, come se fossero scritte, come fosse una composizione
classica. Il rapporto tra gli accordi di Evans nel registro medio-alto e le
linee melodiche nel registro medio-basso danno al pianoforte un suono
straordinario e il confronto con la musica di Chopin è inevitabile.
Sezione C:

Dalla misura 25, il movimento melodico e armonico scende (usando


sempre le cadenze II-V-I o V-I) diatonicamente (Em, Dm, Cm); arricchisce
la progressione circolare aggiungendo alcune appoggiature di tritono.

45
L’inciso iniziale (fa-fa-mi-mi) riappare nella misura 31, prima trasposto,
quindi riarmonizzato in modo inaspettato nelle ultime due misure: Ab7,
C#m (il primo accordo è etichettato Ab7 perché la nota della melodia fa
appartiene a Db maggiore; la risoluzione viene deviata in minore con un
accordo C#m). Questa cadenza finale è ovviamente una re-
armonizzazione delle misure 3 e 4: Dm7 G7 Cmaj7 sarebbe stata una
conclusione banale, ed Evans la eviterà in modo sofisticato, ponendo
fine alla melodia in un mood pieno di incertezza. Nel complesso, i cambi
di accordo viaggiano attraverso non meno di dodici centri tonali,
un'instabilità armonica caratteristica della maggior parte delle
composizioni di Evans. Dopo l'esibizione solista alla Town Hall, Turn Out
the Stars è stato quasi sempre suonato dal trio (anche un mese dopo al
Village Vanguard). Lo swing che emerge dall’assolo bilancia la natura
romantica di questo tema. Evans non si è mai stancato di suonare
questa grande melodia che è sempre rimasta nel suo repertorio ed è ora
considerata un classico.
In questa rara performance in piano solo, dopo aver esposto il tema, Bill
si lancia in addirittura due chorus di improvvisazione, nei quali
distribuisce sapientemente molte delle sue tecniche di fraseggio, di
distribuzione degli accordi (utilizzo di planning e di sostituzioni di tritono)
e uso dei block chords. In totale, questa lunghissimo chorus di 40
battute, viene proposto quattro volte e, la melodia nell’ultimo chorus
viene riproposta con una distribuzione delle voci diversa rispetto alla
prima esposizione, e con un utilizzo molto più fantasioso della sinistra. Il
pezzo si conclude con un sospeso Do diesis minore.

46
Epilogue
Epilogue è un brano completamente scritto e registrato per la prima volta
nel 1958 nell’album “Everybody Digs”; come nel caso della Town Hall,
data la breve durata del brano (38 secondi), si presenta come un pezzo
di carattere conclusivo; venne messo infatti alla fine di entrambi i lati del
disco sopra citato. Alla Town Hall Evans lo usò per concludere il suo
piano solo, ma con alcune leggere modifiche nella disposizione dei
voicings degli accordi che rimarranno comunque fondamentalmente gli
stessi. E’ un brano semplice dal punto di vista melodico-armonico-
strutturale, con delle reminiscenze musorgskijane, date anche
dall’armonizzazione della melodie per quarte, quinte e seste parallele; la
melodia è sostanzialmente pentatonica, evoca sapori di popolarità russa
(ricordiamo che la madre di Evans aveva origini russe). Il brano consiste
in due periodi musicali di cui il primo formato da sette battute (semifrase
di 4 battute e semifrase di 3 battute) e il secondo di otto battute (4+4).
All’inizio del brano troviamo solo due voci: basso e melodia, entrambe le
mani suonano singole note, la mano sinistra esegue una scala
discendente di Mi bemolle sopra la quale canta la mano destra. Nella
quarta misura si aggiungono altre voci e la mano destra propone la
melodia per quinte parallele. La chiusura della prima semifrase è sulla
dominante di Do minore (b. 4), quindi da Mi bemolle Evans si sposta
nella relativa minore; nella seconda semifrase (da b, 5 a b. 7) si muove
utilizzando e armonizzando per quarte e quinte sulla scala di Do minore
naturale; la prima frase, infatti, si conclude con un Do minore (b. 7, nel
cui accordo però la terza è elusa, dando un sapore di ambiguità e
incertezza tonale); la disposizione con la quale suddivide l’accordo è
questa: prima e quinta dell’accordo di Do minore alla mano sinistra e
quarta e prima alla mano destra (si evince la tonalità minore -e non un
accordo sus- solo perché in queste tre battute la sinistra scende

47
utilizzando la scala di Do minore naturale e le alterazioni usate sono
sempre quelle relative alla scala minore naturale).

Nel secondo periodo (bb.8-15) Bill tiene bicordi lunghi alla mano sinistra
(prima-quinta) e inizia la melodia su La bemolle maggiore; in questo caso
armonizza a quarte e seste. Il Lab si sposta nelle altre due battute della
prima semifrase a Sol minore (b. 10, sempre armonizzata per quarte e
con al basso un bicordo prima-quinta) e a Do minore (b. 11) che, in
questo caso, presenta un’ambiguità tonale in quanto, nella seconda nota
della battuta, compare un mi naturale e, nell’ultima, un mi bemolle.
L’ultima semifrase (bb.12-15) si chiude con il basso che suona la settima,
la settima alterata diesis e la prima della scala di do minore. Il penultimo
accordo (b. 13) è un accordo di Sol con al basso si, senza la settima ma
con la nona naturale, che dà un sapore caratteristico alla conclusione del
brano in quanto, solitamente, in una cadenza V-I in minore nell’accordo
di dominante compare quasi sempre la nona bemolle e non naturale. Ma
d’altronde la conclusione è giustificata dal fatto che, anche alla fine di
questo secondo periodo, -e del brano intero-, Bill chiude con un Do
minore ancora “ambiguo”; l’armonizzazione dell’accordo, infatti, non
presenta la terza (la nota che da sempre, nella musica tonale, determina

48
la qualità dell’accordo); in questo caso la suddivisione dell’accordo è
prima-quinta alla sinistra e quarta-quinta-prima alla mano destra.

Con questa atmosfera di incertezza, di instabilità e di sospensione


temporale senza soluzione, Bill chiude il piccolo requiem dedicato alla
morte di suo padre, lasciando aperto in noi ascoltatori uno spazio di
indeterminatezza, confermata dall’ambiguità dell’ultimo accordo che
sembra rappresentare un interrogativo posto a se stesso sui suoi veri
sentimenti, lasciandoci e lasciandosi il dubbio sulla natura più profonda
del suo tormento.
Come nel caso di Prologue e Story Line, anche Epilogue non rimase nel
repertorio di Evans. La Suite: “Solo - In Memory Of His Father” è quindi
un vero e proprio unicum nella sua carriera e anche per questo ho
ritenuto importante addentrarmi in un’analisi così approfondita.

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Piano Trio

Il concerto alla Town Hall è iniziato con l’esibizione di Bill Evans e il suo
trio, che hanno eseguito ben otto brani tratti dal repertorio abituale di Bill.
Il trio di Bill, che, come ricordiamo, era composto da Chuck Isreaels al
basso e Arnold Wise alla batteria, eseguì alcuni standards (Spring Is
Here, Beautiful Love, My Foolish Heart) presi dal repertorio del primo trio
con LaFaro e gli standards I Should Care, Who Can I Turn To, Make
Some Happy, che appartenevano a periodi successivi. In trio eseguì solo
due brani di sua composizione, Very Early, la cui esecuzione purtroppo
non è stata inserita nel disco relativo al concerto in questione, sebbene
registrata, e One For Helen. Questo ultimo brano, essendo l’unico
originale che possiamo ascoltare, verrà trattato approfonditamente;
questa composizione è stata dedicata a Helen Keane, manager di Evans
dal ’62, e probabilmente fu scritta pochi mesi prima del concerto alla
Town Hall, dove è stata registrata per la prima volta, anche se non
comprare sul primo LP originale, ma nelle ristampe successive. One For
Helen è stato concepito come un brano fast-swing; il tempo con cui
venne eseguito alla Town Hall è di 162 alla semiminima, ma in esecuzioni
successive, verrà eseguito a tempi ben più veloci, come nel caso di
quella di Montreaux, in cui verrà suonata a 250 per semiminima. Il brano
è diviso in tre sezioni, ABC, dove A è di 16 battute, B di 8 bb, C di 10 bb,
quindi di forma inusuale, infatti in totale il brano è composto da 34
battute. Nella sezione A, la prima frase apre con quattro battute in Do
minore (la tonalità del brano) ed è trasposta su di una quarta nella nona
misura (Fa minore); successivamente la frase si evolve in modo diverso
da b. 13, sebbene la figura tematica sia di tipo circolare, quindi ritorna
spesso su se stessa rivisitata in altre tonalità.

50
Nella sezione B, la melodia sale di mezzo tono (Do diesis); in questa
sezione il tema sembra quasi respirare e le note sono lunghe sui tempi
forti e creano una sensazione di sospensione temporale; le quattro note
lunghe (da 4/4) sono note alterate o estensione degli accordi di settima
di dominante all’interno del circolo delle quinte. La qualità degli accordi è
presa dalla scala minore melodica, in cui si possono riscontrare gli
accordi con la quinta aumentata che Bill Evans stava esplorando al
momento della composizione.

51
Nella sezione C è ripresa la prima frase di apertura del brano. Nelle
ultime otto misure dell’ultimo chorus c’è un movimento discendente degli
accordi da Bb7 all’ultimo Cm della coda: questo tipo di finale fu
successivamente sostituito da un vamp di due accordi (Cm6(9) e G7).

Per quanto riguarda l’assolo è interessante notare nel secondo chorus


l’uso sistematico di triadi aumentate sugli accordi di dominante e degli
accordi posizionati sul quarto battito della misura, anticipando il loro
normale posizionamento sul primo battito della battuta successiva:
Evans spiegherà in un’intervista questa tecnica dicendo <<è un modo
per mantenere la musica in movimento quando si utilizza una forma
metrica regolare, facendo sì che gli accenti della frase cadano in base al
significato del motivo melodico; cadendo prima di essa e dividendola in
diversi modi; è un modo di spingere la musica, farle avere un grande
movimento in avanti e allo stesso tempo dire qualcosa in più perché stai
approfondendo il linguaggio musicale>>7.

7P. Wetzel, Bill Evans at Town Hall, piano Transcriptions and Performance Notes, New York,
Two Essex Music Group, 2004

52
Evans aveva già esplorato tempo addietro lo spostamento motivico,
usandolo nei suoi assoli e nell’esecuzione di canzoni scritte da altri come
I Believe in You (“Empathy”, 1962) e nel suo brano Displacement (1956),
quest’ultimo ben dieci anni prima del concerto alla Town Hall. One For
Helen non fu successivamente molto interpretata dal trio e negli anni
successivi sarebbe stata abbandonata, ma Bill dedicò un’altra canzone a
Helen (Song for Helen), nel 1978.
L’altro brano che analizzeremo accuratamente, tra quelli eseguiti la sera
del concerto alla Town Hall in trio, è Who Can I Turn To (When Nobody
Needs Me), brano che, al tempo della Town Hall, stava entrando in punta
di piedi nel repertorio di Bill. Questo brano, eseguito e registrato da Tony
Bennett del 1964, fu registrato da Evans per la prima volta nell’album
“Trio ’65”; è una canzone di 32 battute nella forma ABAC, composta
quindi da 4 periodi di 8 battute ciascuno. Nonostante una mancanza di
originalità nell’armonia, con i suoi accordi II-V-I-I-II-III-IV, e una
modulazione alla sottodominante, possiamo capire perché ad Evans
piacesse questa canzone; come molti dei suoi stessi brani, si basa su
una figura breve ripetuta e trasposta con piccole variazioni, e che cade
sistematicamente nel quarto battito della misura, prima del primo battito
della battuta successiva: una collocazione che dà più forza alla frase
musicale. Evans usa questo metodo per esempio nel brano Letter to
Evan, a dimostrazione di come questo brano sia un tipo di brano che
Evans avrebbe potuto comporre.
Come tutti i grandi artisti jazz, il genio di Evans risiedeva anche alla sua
capacità di trasfigurare un tema sentimentale, evitando allo steso tempo
di cadere in un sentimentalismo superficiale. Egli era sempre
consapevole di questo pericolo, ma la sua intelligenza musicale lo
metteva a riparo da questo rischio; Evans infatti, nel suo stile, era riuscito
a escludere qualsiasi traccia di elemento fastoso e decorativo, come ad
esempio arpeggi che corrono lungo la tastiera. Il modo in cui viene

53
suonato il brano all Town Hall è esemplare e tipico degli arrangiamenti di
Evans per il suo trio: breve introduzione in piano solo, enunciazione del
tema con pianoforte e arco del contrabbasso in rubato, nella quale, dato
che non è legato a un ritmo costante, Evans ha una totale libertà di
espressione nel suonare i voicings del piano e, nelle linee del basso, ha
una maggiore libertà con la mano sinistra. Nella seconda enunciazione
tematica (b. 17) entra anche la batteria e il contrabbasso lascia l’arco per
cominciare ad accompagnare in pizzicato; il mood diventa finalmente
swing, la mano sinistra suona i suoi classici voicings senza
fondamentale. A questo punto entrano i soli: l’ordine di esecuzione per
questo brano è sempre quello di solo di basso e poi solo di piano. La
melodia viene infine riproposta da tutti e tre i musicisti. Alcune
osservazioni sull’arrangiamento delle sezioni del brano:

54
nella sezione A, le prima quattro battute vengo suonate su un pedale di
dominante che contrasta con la progressione di accordi ascendenti (I-II-
III-IV grado); questi accordi sono arricchiti con movimenti interni delle
voci, caratteristica che è un punto di forza nel modo di suonare di Bill.
La sezione B è completamente re-armonizzata da Evans (come era solito
fare), tanto che alcuni centri tonali sono cambiati; è interessante scrivere
esattamente le differenze tra la versione originale e quella di Evans: la
prima battuta è la medesima in entrambe le versioni, nella seconda
invece sostituisce gli accordi di Fm7 e D7 con G7alt; nella terza battuta
sostituisce il Gm7 con Cm9; nella quarta battuta mantiene un Cm mentre
nella quinta battuta sostituisce il AbMaj7 e Dm7(b5) con Fm7 e F#dim;
nella sesta battuta mantiene gli stessi accordi (Gm7 e C7), nella settima,
oltre a Fm7, Evans aggiunge Abm7, e infine, l’ultima battuta è
completamente re-armonizzata in quanto sostituisce l’originale Bb7 con
Bm7 e E7.

Al termine della sezione B torna la sezione A, anche questa re-


armonizzata, per evitare una ripetizione delle prime otto misure. Come
nella sezione B di Turn Out The Stars, la mano sinistra suona linee di
crome, espone la progressione accordale partendo da un pedale

55
di Bb, mentre la mano destra esegue la melodia con accordi pieni e,
come in One For Helen, gli accordi, nell’assolo, a volte cadono sul IV
battito della misura, anticipando il I battito della misura successiva.
Dopo la ripresa della A ritorna l’ultima sezione, la C, che si configura
come la sezione B con leggere modifiche nel finale (nelle ultima due
battute è presente un turnaround in Eb che lancia la successiva
esecuzione del tema, questa volta presentato da tutto il trio).

Questo brano è rimasto a lungo nel repertorio del trio di Bill Evans che,
appare con questi musicisti proprio in questa occasione per l’ultima
volta; per questo riportiamo le osservazioni del critico Morgenstern il
quale disse, <<Wise è il miglior batterista che Evans abbia mai avuto; era
un modello di buon gusto e comprensione degli obiettivi musicali di
Evans, non invadente ma sempre presente>>8.

8 E. Pieranunzi, “Bill Evans - ritratto di un artista con pianoforte”, Roma, Nuovi Equilibri, 1994

56
4. Conclusione - Omaggio a Bill Evans

Suite For Bill


Giunti al termine di questa mia trattazione ho deciso di inserire, come
appendice al mio elaborato, una parte personale di brani da me
composti che ho chiamato “Suite For Bill”, ispirati al sapore armonico e
alla struttura della Suite Solo - In Memory Of His Father.
I brani che ho composto ricalcano quelle che sono le caratteristiche
principali dei brani di cui ho ampiamente trattato nelle pagine precedenti
e verranno eseguiti in trio, quartetto e piano solo proprio il giorno della
discussione della tesi in oggetto.
Ogni brano composto si ispira al corrispettivo brano della Suite di Bill
Evans, in particolare il terzo, Stars Inside, si configura come un
contrafact basato sul giro armonico dell’omologo brano di Bill Turn Out
The Stars. L’ultimo brano, infine, sarà un’improvvisazione libera sulle
armonie di Epilogue.
Nelle partiture della Suite For Bill di mia composizione che riporterò in
appendice si potranno notare alcuni dei procedimenti armonico-
compositivi di Bill che sono stati elaborati secondo la mia sensibilità
musicale e che spero possano avvicinarci a ricreare, per un momento,
quell’atmosfera tipica del pianista che per eccellenza rappresenta una
pietra miliare della storia mondiale del jazz.

57
Discografia utilizzata per la stesura della tesi

Bill Evans, ”New Jazz Conceptions", con Teddy Kotick e Paul Motian
(Riverside OJCCD-025-2)
Bill Evans, ”Everybody Digs Bill Evans", con Sam Jones e Philly Joe
Jones (Riverside OJCCD-068-2)
Bill Evans, ”Portrait In Jazz" (Riverside OJCCD-088-2)
Bill Evans, ”Explorations" (Riverside OJCCD-037-2)
Bill Evans, ”Waltz For Debby" (Riverside OJCCD-210-2)
Bill Evans, ”Sunday At The Village Vanguard" (Riverside OJCCD-140-2)
Bill Evans, ”At The Village Vanguard", con Scott LaFaro e Paul Motian
(Riverside FCD-60-017)
Bill Evans, ”At Shelly's Manne Hole" (Riverside OJCCD-263-2)
Bill Evans, ”Trio '65", con Chuck Israels e Larry Bunker (Verve 519808)
Bill Evans, ”Bill Evans At Town Hall", con Chuck Israels e Arnold Wise
(Verve 831271-2)
Bill Evans, ”Bill Evans At The Montreaux Jazz Festival", con Eddie
Gomez e Jack deJohnette (Verve 827844-2)
Bill Evans, ”The Tokyo Concert", con Eddie Gomez e Marty Morell
(Fantasy OJCCD-345-2)
Bill Evans, ”I Will Say Goodbye" (Fantasy OJCCD-761-2)
Bill Evans, ”You Must Believe In Spring", con Eddie Gomez ed Eliot
Zigmund (Warner Bros. 923504-2)
Bill Evans, "Conversations With Myself", sovrainciso tre volte (Verve
821-984-2)
Bill Evans, "Undercurrent", in duo con Jim Hall (Blue Note CDP
7-90583-2)
Bill Evans, ”Interplay", con Freddie Hubbard, Jim Hall, Percy Heath,
Philly Joe 6. Jones (Riverside OJCCD-308-2)

58
Bill Evans, ”Loose Blues", con Zoot Sims, Jim Hall, Ron Carter, Philly Joe
Jones (Milestone MCD-9200-2)
Bill Evans, ”Affinity", con Toots Thielemans, Larry Schneider, Marc
Johnson, Joe LaBarbera (Warner Bros. 927387-2).
George Russell Smalltet, "Jazz Workshop" (RCA ND86467)
Miles Davis, "Kind Of Blue" (CBS 460603 2)

59
Bibliografia

A. Kahn, “Kind of Blue”, Milano, Il Saggiatore, 2003

B. Evans, 1966. https://www.youtube.com/watch?v=3ojmTz-ngyU

B. Evans, Oslo, October 1966 https://www.youtube.com/watch?


v=mDqruu0KZio

Bill Evans Trio - Jazz Session--1972 Paris ORTF Performance, https://


www.youtube.com/watch?v=tV5mutjZjuA

E. Pieranunzi, “Bill Evans - ritratto di un artista con pianoforte”, Roma,


Nuovi Equilibri, 1994

I. Carr, “M. Davis, una biografia critica”, Milano, Arcana Editrice, 1982

J. Reilly, “The armony of Bill Evans”, New York, Unichrom LTD, New York,
1992

M. Levine, “The jazz piano book”, Milano, ed Curci 2008

K. Shadwick, “Everything Happens To Me - a musical biography”, S.


Francisco, Backbeat Book, 2002

P. Pettinger, “Bill Evans-How my heart sings”, A New York notable book,


Yale University, 1998

P. Wetzel, Bill Evans at Town Hall, piano Transcriptions and Performance


Notes, New York, Two Essex Music Group, 2004

60
Q. Truope, “Miles l’autobiografia”, Roma, Ed. Minimum fax, 2001

S. Zenni, “I segreti del jazz”, Viterbo, Stampa alternativa/Nuovi equilibri,


2007

Universal Mind of Bill Evans (1966 Documentary), https://


www.youtube.com/watch?v=QwXAqIaUahI

61

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