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I. Biografia e Formazione
Possiamo identificare una prima svolta decisiva alla sua formazione nell’incontro
con due personaggi: il trombonista Britt Woodman e Buddy Collette, un giovane
sassofonista, clarinettista e compositore più grande di qualche anno che aveva
però maggiore esperienza musicale e già lavorava con una sua formazione.
Collette lo accolse nel suo gruppo e da lì nacque una grande amicizia che porterà
il giovane Charles a conoscere il mondo del jazz, a lui totalmente oscuro fino ad
allora, causa lo stampo borghese e lontano dal mondo afroamericano in cui
versava la vita familiare e gli scarsi sbocchi lavorativi come violoncellista in ambito
classico perché come sappiamo, all’epoca, a nessun musicista nero era permesso
di avvicinarsi alla carriera classica professionale. Più tardi Mingus conoscerà
Callender che gli darà lezioni di contrabbasso. Nel corso del tempo Charles
affinerà la sua tecnica al contrabbasso mosso da una fortissima necessità di
affermarsi e diventare “il più grande bassista del mondo” come lui stesso diceva.
Avrà modo di conoscere Barney Bigard, clarinettista che collaborava con Ellington,
e in seguito farà un tour con Louis Armstrong (1943) e suonerà con l’orchestra di
Lionel Hampton. Più tardi, nei primi anni 50 Mingus entra in contatto con le
leggende viventi del be-bop, Charlie Parker, Dizzy Gilllespie, Bud Powell eccetera.
Nonostante nutrisse una stima enorme nei confronti di questi personaggi, la sua
posizione sociale e personale nei loro confronti era piuttosto avversa: Mingus
considerava i boppers (in particolar modo Parker) dei disagiati, tossicodipendenti,
scarti della società, persone deboli alle quali preferiva non essere associato, come
dichiarò pubblicamente durante un incidente a un concerto con Parker e Powell.
La ragione è semplice: Mingus era creolo, la sua identità sociale era perciò poco
definita, e per tutta la sua giovinezza era stato snobbato dai bianchi ma
contemporaneamente non accettato dagli afroamericani. Egli sentiva la profonda
necessità di imporre la sua personalità ed essere considerato al pari dei musicisti
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classici bianchi, per cui la lotta al razzismo diventerà una caratteristica principale
nonché un messaggio costante nella sua musica.
Un’altra personalità con cui sicuramente Mingus trovò grande affinità la ritroviamo
in Eric Dolphy: la sua sprizzante vena eclettica ebbe sicuramente grande presa sul
contrabbassista, nonché il suo carattere esuberante e vivace. Dolphy e Mingus
divennero grandi amici, tanto che a seguito di un tour in Europa dal quale Dolphy
non fece ritorno perché decise di rimanerci, Mingus scrisse un brano dal titolo “So
Long Eric” dedicato al suo amico. Il titolo esteso del brano era “Don't Stay Over
There Too Long, Eric” e con buone probabilità Mingus volle esprimere in senso
metaforico il desiderio affinché Dolphy tornasse in America a fare musica con lui,
ma purtroppo quest’ultimo morì a Berlino poco tempo dopo, per cui tale desiderio
non venne mai esaudito.
Oltre ai vari musicisti con cui Mingus collaborò e che vedremo in seguito
analizzando alcuni aspetti salienti dei suoi lavori, da menzionare nella sua carriera
sicuramente va citato il rapporto stretto che ebbe con il batterista Max Roach.
Insieme fondarono una etichetta discografica indipendente, la Debut Records, che
aveva come obiettivo l’intento di fare emergere appunto i giovani musicisti che
avevano avuto difficoltà o non godevano di meritata celebrità. Una delle incisioni
maggiormente ricordate della Debut Records è quella con Gillespie, Parker, Bud
Powell e lo stesso Max Roach. Purtroppo l’etichetta non ebbe una vita felice e
poco tempo dopo Mingus si ritrovò coinvolto in altre situazioni che richiedevano
maggior presenza e impegno, incentrandosi prevalentemente sulla sua produzione
musicale e concertistica.
Più tardi infatti si dedicherà alla sperimentazione degli ensemble allargati, non
propriamente orchestre, poiché si trattava di formazioni composte da circa 8/10
elementi. Fondò una sorta di collettivo conosciuto come Jazz Workshop, che
aveva un chiaro intento speculativo, ovvero sperimentare un approccio alternativo
al be-bop e parallelamente al cool jazz, facendosi inconsapevolmente precursore
dell’estetica appartenente al free jazz. Infatti la caratteristica principale di questo
collettivo era quella di ricercare una sonorità improntata sull’insieme come
strumento unico, senza l’isolamento di un solista accompagnato da una sezione,
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piuttosto si provava a portare avanti un tentativo primordiale di improvvisazione
collettiva. Questi elementi conferiscono alla musica di Mingus un valore unico e
inestimabile, poiché la sua ricerca fu estremamente influente sulle generazioni a
venire, in particolar modo quelle del free e tutto il movimento rivoluzionario di
Ornette Coleman.
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dove l’esecuzione di Eric Dolphy richiama in un certo senso lo stile di Johnny
Hodges, sassofonista di punta dell’orchestra di Ellington. Stilisticamente parlando,
uno dei capisaldi della produzione mingusiana in cui riecheggia fortemente lo
spirito di Ellington è sicuramente la suite “The Black Saint And The Sinner Lady”:
gli elementi che configurano questa analogia sono al contempo le sonorità e
l’orchestrazione, impiego della forma estesa, connubio tra composizione e
improvvisazione, la componente autobiografica e l’ispirazione dei solisti allo stile di
Johnny Hodges. Anche in Open Letter To Duke troviamo queste stesse
caratteristiche.
Si può dire che Mingus non fu mai un vero e proprio bopper, anzi egli subì il
fascino e la potenza di questa musica piuttosto tardi, più o meno agli inizi degli
anni 50, in seguito al suo trasferimento a New York. Infatti prima di allora Mingus
era uno dei pochissimi musicisti della west Coast (se non l’unico) a non avere
grande ammirazione per i boppers newyorkesi come Parker e Gillespie. Tuttavia il
rapporto a stretto contatto con Charlie Parker scatenò in lui un’energia tutta nuova.
Parker lo volle spesso a suonare nel suo quintetto e in quel periodo Mingus
conobbe alcuni aspetti del jazz che aveva parzialmente trascurato: la potenza dello
swing in se e per sé, la crucialità dell’espressione individuale e antropologicamente
parlando il valore profondo dell’essenza della tradizione afroamericana. In un certo
senso possiamo affermare che il rapporto con Parker rappresenta un
cambiamento o meglio uno sviluppo interiore e artistico potentissimo nella
personalità di Mingus. Il fatto che il periodo in cui Mingus abbia suonato con
Parker coincide con il progressivo declino di quest’ultimo gioca un ruolo
fondamentale: Mingus si rese conto che quel modo violento di vivere la vita e
combattere contro il razzismo tipici di Parker, contrapposti al modo scherzoso e
servile di rapportarsi alla comunità bianca invece di Louis Armstrong, sarebbero
stati un motore potente per maturare un percorso artistico votato alla lotta politica
nera e che la forza e la posizione che assumeva la musica in questo senso gli
avrebbero dato una grande spinta spirituale. Permeato dal suo senso di
pessimismo e in continua lotta con se stesso, Mingus vede Parker come un
uccello che sta morendo, ma il suo spirito rimarrà in lui e la sua reincarnazione gli
darà la forza di andare avanti. Scriverà in sua memoria infatti il celebre brano
“Reincarnation of a Lovebird” nel 1956. In questo magnifico tema riscontriamo
degli elementi contrastanti riguardo lo stile di Parker, come se Mingus volesse
affermare di averne assorbito l’essenza ma di discostarsene con attenzione. La
tonalità inconsueta di Fa diesis minore, ad esempio, spinge i solisti a trovare
soluzioni innovative al di fuori degli automatismi del bop, sempre nell’ottica
mingusiana di rendere la libertà solistica un mezzo espressivo al servizio
dell’insieme e non alla celebrazione individuale del solista. Possiamo riassumere
dicendo che Mingus disprezzava il be-bop come stile compositivo e come forma
di ricerca artistica, poiché rappresentava un piccolo grande episodio relegato solo
ad alcuni giganti del jazz, mentre tutti gli altri non erano che “copiatori” che si
adagiavano sulla fatica e il grandissimo sforzo che avevano fatto i primi boppers
per esprimere sé stessi e raggiungere la cristallizzazione di uno stile specifico. Egli
era ossessionato da questa idea dell’essere copiato e al contempo di copiare lo
stile di qualcun’altro, perciò rese personali solo alcuni aspetti del be-bop, senza
lasciarsi inquadrare e associare più di tanto a quel linguaggio di cui quasi tutti i
jazzisti dell’epoca erano soliti farsi padroni.
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III. Evoluzione dello stile
Un capolavoro del 1959 è sicuramente l’album “Mingus Ah Um”, che viene fuori in
un periodo di svolta per tutto il mondo del jazz, non a caso nello stesso anno
uscirono dischi come “Kind of Blue” di Miles Davis, "Giant Steps” di John Coltrane
e “The Shape of Jazz To Come” di Ornette Coleman che sono sicuramente tra quei
dischi che possiamo considerare al contempo avanguardia e cristallizzazione di
stili profondamente diversi tra loro. Qui più che mai inizia ad emergere il carattere
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politico della musica di Mingus, con la magniloquenza del brano Fables Of Faubus,
irriverente e pungente ritratto del governatore segregazionista dell’Arkansas Orval
Faubus. Il brano fu parzialmente censurato dalla Columbia Records perché
conteneva un testo di esplicita critica e disprezzo nei confronti del governatore. La
versione integrale del brano comprensiva delle parole verrà pubblicata l’anno
seguente nell’album in quartetto con Eric Dolphy “Charles Mingus Presents
Charles Mingus”. Va certamente menzionata anche la profondissima ballad che
entrerà negli annali del repertorio di standards jazz “Goodbye Pork Pie Hat”,
romantica elegia al sassofonista Lester Young, per il quale Mingus nutriva
profondissima stima e ammirazione.
Nel 1977 Mingus scopre di avere la SLA, terribile malattia neurodegenerativa che
lo porterà gradualmente alla morte il 5 Gennaio del 1979. L’ultimo lavoro a cui si
stava dedicando era un album a quattro mani con la cantautrice canadese Joni
Mitchell, che dopo la sua morte prematura condurrà ugualmente alla luce,
considerandolo una sorta di tributo al compositore. Il disco porta il nome stesso di
“Mingus” appunto e si può considerare un caposaldo della letteratura del jazz
moderno e punto di incontro con il jazz rock: i componenti della band sono infatti
dei pionieri della nuova corrente “elettrica” tra cui troviamo giganti come Jaco
Pastorius al basso, Peter Erskine alla batteria e il sassofonista Wayne Shorter, per
altro componenti del leggendario gruppo fusion Weather Report. Oltre a loro tre
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abbiamo Herbie Hancock al pianoforte, Don Alias e Emil Richards alle percussioni,
e ovviamente Joni Mitchell alla voce e chitarra. Seppure questo disco non può
essere considerato un lavoro di Mingus, la sua personalità e il suo stile sono
chiaramente l’anima dell’opera nonché una grande eredità spirituale affidata alla
voce della cantautrice.
Carlo Ferro