H o r a c e
TheGoldenYears
Ho
In queste due
pagine, oltre a
un bel ritratto
del giovane
Horace Silver,
le copertine di
TheGold
di Marco Bertoli
r a c e
denYears
cortesia blue note
Ho r a c e
TheGoldenYears
dente più che limitativo, dev’essere interpretato secondo big band dello Swing) e quella della tradizione popolare-
il momento in cui veniva speso, cioè nel pieno ciclone folklorica (il gospel, il rhythm’n’blues, il blues urbano),
delle avanguardie jazzistiche storiche e di tutto ciò che a gettando lì per lì le basi dell’hard bop e i semi di quella
quelle si accompagnava. Accanto alle figure demiurgiche sua declinazione che sarebbe cresciuta pochi anni dopo,
di Coleman, Shepp, Taylor, Ayler e all’ombra gigantesca il soul jazz, due modelli del quale Silver propose già nel
e ancora incombente di Coltrane, Silver si vedeva asse- 1954, The Preacher e Doodlin’ (in «Horace Silver And
gnata da Williams la qualifica di craftsman (sia pure a The Jazz Messengers», Blue Note).
fianco di colossi come Morton, Henderson e Basie) a sco- A questi materiali, dapprima caratterizzati essenzial-
po classificatorio: e se oggi, trascorsa tanta acqua sotto i mente dalla struttura del call and response, Silver conferì
ponti, Silver ci appare artista tout court, quanto tutti i più quindi forme cangianti, di musicalissima fantasia ma sem-
o meno suoi coetanei appena ricordati, è proprio al loro pre contenute nei limiti più classici della strumentazione
paragone che egli si dimostra singolare, appartato; a chi e del linguaggio del jazz moderno (Silver compositore è
l’avesse considerato nel vivo di quella temperie (1965-70), quanto di più lontano, per dire, da un George Russell). La
elena carminati
addirittura sarà facilmente parso superato, tanto più in un favolosa sequenza discografica «Horace Silver And The
momento in cui la sua produzione, sempre di alto livello Jazz Messengers», «6 Pieces Of Silver», «The Stylings
musicale, segnava il passo. Of Silver», «Further Explorations» e «Finger Poppin’»
Eppure, a suo tempo e modo, Silver è stato davvero un (Blue Note, 1955-58) presenta il suo ingegno compositivo
innovatore, e qui si viene al punto espresso da Williams in classici come Nica’s Dream, Ecaroh, Cool Eyes, Soul-
con sintesi brillante. Nei primi anni Cinquanta, momento ville, Señor Blues, The Back Beat, The Outlaw, Moon
di apparente stasi del jazz, quando si erano placati i furori Rays, Pyramid, Sweet Stuff, Juicy Lucy (dove Silver pro-
del bebop e la placida marea pacifica della West Coast già gressivamente si stacca dall’estetica bop del tema veloce
si andava ritraendo, Silver innovò i materiali musicali del e nervoso) in un momento in cui, tolti alcuni esperimenti
jazz, risalendone le radici (non per programma ma spon- non bene invecchiati e il lavoro di John Lewis con il Mo-
taneamente) in due direzioni: come diremo poi meglio, dern Jazz Quartet, proprio la composizione era il punto
quella della tradizione jazzistica anteguerra (i pianisti, le critico del jazz.
XL Musica Jazz
Ciò che Silver non è mai stato, invece, è uno speri- in un modalismo appena accentuato (in particolare nel-
mentatore, qualcuno che, come Coleman, Coltrane, Da- le formazioni con Woody Shaw e Joe Henderson), in un
vis, usasse il palcoscenico come laboratorio. Intento a uso più frequente dell’ostinato ritmico, nello scurirsi del
perfezionare il proprio metodo compositivo, raggiunto colore generale e in pochi ritocchi di strumentazione in
molto per tempo e quindi perfezionato ma mai messo in dischi come «Serenade To A Soul Sister», «In Pursuit Of
discussione, Silver non ha poi più offerto al pubblico se The 27th Man» (1972), «You Gotta Take A Little Love»
non opere perfettamente compiute e rifinite con scrupolo (1969), dove la coda free nel pezzo omonimo ha un valore
insolito (proverbiale la sua ossessione per le prove). Que- parodico. E quando il suo lavoro degli anni Sessanta sem-
sti caratteri ne fanno un esempio, raro nel jazz, di artista bra profetizzare il jazz di quindici-vent’anni dopo, come
apollineo, tratto che Silver, adepto dell’astrologia, sicura- in «The Jody Grind» (1966), questo è solo perché quel
mente riferirebbe alla Vergine, sua costellazione di nasci- jazz era tornato a rivolgersi al recente passato e a una delle
ta; e questo tanto più in un momento, tra gli anni Sessanta sue sorgenti più vive: Silver, appunto.
e Settanta, monopolizzato dall’espressività dionisiaca non In tal senso, su queste pagine, ha argomentato inci-
solo degli uomini del free appena ricordati ma anche di sivamente Stefano Zenni (3), osservando come, pur con
quelli dell’hard bop più avanzato, cominciando dal suo ex tutto il suo lavoro volto ad articolare la forma dei pezzi
sodale Art Blakey con i Jazz Messengers attraverso Jackie (modificando il numero di battute delle sezioni, introdu-
McLean, Davis e Wayne Shorter per arrivare a Andrew cendo episodi secondari, intro, out-chorus eccetera), Sil-
Hill (2). ver non si sia poi praticamente mai staccato dalla forma
In una prospettiva storicistica, è stato possibile vedere chorus (la forma a ritornello che è per il jazz quello che la
in ciò un limite dell’estetica di Silver, ferma a un certo forma sonata è per la tradizione classica europea), prefe-
punto e incapace di superarsi, e notare la diversità del suo rendo, al sovvertimento radicale della forma, la sua elabo-
atteggiamento rispetto a quello, per esempio, di un altro razione per estensione, secondo il principio della giustap-
outsider come Sonny Rollins, che a suo modo accolse le posizione di episodi nel senso della varietà. È un limite,
lezioni di Ornette e di Coltrane (nelle note a «Serenade questo? Certamente pareva tale, fra gli altri, a Marcello
To A Soul Sister», 1968, Silver delinea un suo «breviario Piras, che così scriveva nel 1979, recensendo un’esibizio-
di composizione musicale»: «Bellezza melodica, sem- ne romana di Silver: «…è un musicista folk, più che un
plicità significativa, bellezza armonica, ritmo, influenze artista consapevole della propria autonomia. La sua tecni-
ambientali, ereditarie, regionali e spirituali»). Il massimo ca compositiva prevede solo combinazioni sempre nuove,
aggiornamento di Silver nei tardi anni Sessanta consisté e sempre fresche, di unità formali minime permutabili e
caratteristiche (…). Al confronto
roberto polillo
roberto polillo
bridge di otto e la frase A che s’interrompe in
sincope sull’undicesima battuta, lasciando alla
successiva un break di batteria. Armonicamente,
come ha osservato Zenni, il pianista si mostrava
a giorno del vocabolario più recente: «…Pen-
ny è un rapido esercizio sui passaggi armonici
cromatici (una tecnica che il bop aveva mutuato
da Tatum), Split Kick è un’originale mistura di
armonie tratte da Confirmation su ritmi latini
e di frasi bop su 4/4 swing e, insieme a Opus
de Funk, diventerà nei primi anni Cinquanta la
composizione più popolare di Silver» (17).
Da lì a poco l’attività di Silver prese l’abbri-
vo per quasi un ventennio di creatività intensa e
di risultati sempre eccellenti, spesso eccelsi. Per
quanto la sua personalità fosse già abbastanza
definita nei lavori registrati con Getz, fu solo gra-
zie a una seduta del 1952 a nome del sassofonista
/ phocus
introduzio-
ne basata
su una sca-
umberto germinale
la a toni interi che conduce a
un’esecuzione asciutta e tesa; Safari, sua
composizione, è esemplata sulla powel-
liana Un poco loco e, con Yeah, Buhai-
na e Message From Kenya (firmata da
Blakey e con l’aggiunta del percussioni-
sta Sabu) costituisce un polittico africa-
neggiante che nell’ultimo caso sembra
rimandare alle connotazioni tribali e
vagamente minacciose del Cubana Be
- Cubana Bop di Russell-Gillespie. Eca-
roh, che sarà poi ripresa da Silver con i
Jazz Messengers, è una delle sue compo-
sizioni più originali e innovative, l’unica
– come notato da Zenni nella sua analisi
(20) – in cui Silver deroghi dalla forma
chorus in favore di una multitematica.
La formazione del trio non consente
a Silver di esprimersi come accompa-
gnatore («un pianista deve accompa-
gnare con lo stesso entusiasmo con cui
suona gli assoli», ha detto a Len Lyons)
ma negli assoli egli emerge già tutto
intero, dispiegando il colorito blues e
boogie cui si è accennato, l’eloquenza di
Powell (ma meno torrenziale e spirita-
ta) e l’economia strutturale, e talvolta il
tocco scampanante, di Monk. Tutta sua
HORACE SILVER - Supplemento a Musica Jazz n. 12/2008 (697). Hachette Rusconi S.p.A.