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Ornette Coleman

1. La vita
Ornette Colema ha una vita molto tribolata, in cui subisce, a più riprese, ogni sorta
d'umiliazione. Nasce a Fort Worth, nel Texas, il 19 Marzo del 1930, da famiglia
povera (la madre è cucitrice e il padre muore quando egli è appena bambino).
Inizia a suonare a quattrordici anni un sassofono regalatogli dalla madre e dopo poco
ottiene i suoi primi impieghi professionali in mediocri orchestrine di rhythm and
blues. Lavora quasi sempre in bische malfamate (una volta in una di queste scoppia
persino una rissa mortale) dove però ha l'opportunità di conoscere anche dei buoni
musicisti come Red Connors,il quale, a metà degli anni '40, come racconta lo stesso
Ornette, faceva già una musica simile a quella che avrebbero fatto John Coltrane e
Sonny Rollins molto tempo dopo. E' proprio Red Connors a far conoscere ad Ornette
i migliori dischi di bebop.
La sua vita è scandita da difficoltà economiche che, in questa fase, lo portano ad
entrare in Silas Green, una delle ultime compagnie di minstrels, con la quale gira
tutto il Sud e Sud-Ovest in piccoli teatrini (spesso tendoni) per neri. A Natchez, in
Mississipi, il direttore d'orchestra lo licenzia perchè viene a sapere che ha cercato di
insegnare il bebop ad un collega. Riesce quindi a farsi assumere in un complesso di
rhythm and blues diretto da Clarence Samuels, con il quale giunge in Louisiana, a
Baton Rouge, dove finisce per arenarsi in seguito ad un'aggressione: alcuni tipi non
gradiscono il suo modo di suonare e, dopo un concerto, lo pestano a calci e pugni e
gli distruggono il sassofono. In seguito a questo episodio si sposta a New Orleans,
aiutato dall'amico clarinettista Melvin Lassiter, che gli offre ospitalità e un sassofono
contralto per studiare e lavorare. “Fu allora, mentre mi trovavo nella casa di Melvin,
che cominciai a suonare come cerco di fare oggi” ammette lo stesso Ornette. A New
Orleans vive sei mesi molto difficili: il suo modo di suonare non piace nemmeno ai
musicisti moderni e per guadagnarsi il pane deve lavorare di giorno, facendo ogni
sorta di mestiere, fino a quando non incontra Pee Wee Crayton, un suo vecchio datore
di lavoro di Fort Worth, che ha un posto per lui nella sua orchestra che si dirige a Los
Angeles. Qui Ornette vivrà per nove anni.
Inizialmente anche Los Angeles si rivela ostile: nei primi mesi vive in un alberghetto
scalcinato, frequentato da musicisti neri, dove riesce a sopravvivere solo grazie ai cibi
in scatola inviatigli dalla madre, poi, bisognoso di danaro, si adatta a fare lavori
qualsiasi che nulla hanno a che fare con la musica (babysitter, portiere, fattorino).
Spesso si presenta con il proprio strumento in qualche locale nella speranza di
suonare, ma gli altri musicisti, conoscendolo di fama, lo considerano un velleitario e
lo evitano. Riesce però a crearsi una corte di amici (Ed Blackwell, Billy Higgins, Don
Payne, Walter Norris e Don Cherry) con i quali crea un vero e proprio gruppo di
lavoro che si riunisce con frequenza in un garage. Inizialmente le soddisfazioni non
sono molte, fino a quando il bassista Red Mitchell, invitato da Don Payne a una
sessione di prove, resta affascinato dalle composizioni e gli suggerisce di presentarne
qualcuna a Lester Koenig, proprietario della Contemporary. Viene scritturato seduta
stante e nel Febbraio del 1958 esce “Something Else!!!”. Il disco non gode però di
grandissimo successo.
Dopo poco Ornette, dovendo realizzare un secondo LP per la Contemporary, si reca a
San Francisco, dove conosce il bassista Percy Heath e gli propone di prendere parte
alla sessione. Viene così ascoltato da John Lewis che diviene il suo più grande
sostenitore. Esce così nel 1959 “Tomorrow is the question”. Percy Heath parla
inoltre con Nesuhi Ertegun, proprietario dell' Atlantic, il quale offre ad Ornette un
contratto per alcuni dischi e fa ottenere sia a lui che a Don Cherry una borsa di studio
per il seminario che si sarebbe tenuto nell'estate del '59 alla School of jazz di Lenox,
diretta da John Lewis. In questa circostanza i due sbalordiscono ed entusiasmano
alcuni dei più illustri esponenti del mondo del jazz e proprio da questo momento
iniziano le discussioni attorno ad Ornette e la sua musica. Così, nel Novembre del
1959, Coleman e Cherry, con Charlie Haden e Billy Higgins, fanno il loro esordio al
Five Spot di Manhattan, provocando le reazioni più disparate da parte del pubblico. Si
racconta che Dizzy Gillespie si piazzò a braccia conserte davanti al quartetto
chiedendo alla fine, con aria disgustata: “ma state facendo sul serio?”. Che stessero
facendo sul serio non pare dubbio a Nesuhi Ertegun, che da ai primi due dischi del
quartetto editi da Atlantic dei titoli profetici: “The shape of jazz to come” e “Change
of century”. Nel terzo album, “This is our music”, Ed Blackwell prende il posto di
Billy Higgins.
Dopo la sua affermazione a New York, Ornette cambia diverse formazioni e suona
con il trombettista Bobby Bradford e con i contrabbassisti Scott La Faro, Gimmy
Garrison e David Izenzon. Con queste formazioni fa diverse registrazioni tra il
Dicembre del '60 e la fine del '62. Di questo periodo è da ricordare sicuramente
Abstraction, una composizione seriale di Gunther Schuller, in cui la più avanzata
musica europea si concilia con il modo di improvvisare di Ornette.
E' però la sessione di registrazione successiva a fare la storia. Coleman unisce due
quartetti, il suo e quello di Eric Dolphy (Higgins, Blackwell, La Faro, Haden, Cerry,
Hubbard) e fanno una sessione di improvvisazione collettiva, riprendendo l'idea dal
jazz delle origini, che passa alla storia come “Free jazz”. In questo preciso momento
si assiste all'abbandono totale e definitivo della concezione armonica tradizionale e
alla rivendicazione di libertà da ogni subordinazione ritmica, armonica e melodica.
“La cosa più importante per noi era suonare insieme, tutti allo stesso tempo, senza
interferire l'uno con l'altro”, afferma lo stesso Ornette. Il concerto alla Town hall
chiude la prima fase della sua carriera.
Il periodo immediatamente successivo vede Coleman ritirarsi in un interrato usato
come magazzino da un commerciante di vasellame e lì vive poveramente finchè non
viene sfrattato per morosità. Qui si dedica allo studio del violino e della tromba,
rifiutando categoricamente ogni offerta di lavoro. Solo due anni dopo il suo ultimo
concerto, torna ad esibirsi dal vivo al Village Vanguard (suona anche violino e
tromba).
A metà anni '60 parte per un tour europeo e al suo ritorno incide “The empty
foxhole” (con Charlie Haden e il piccolo figlio Denardo di soli dieci anni), dopo un
periodo di quattro anni senza alcuna pubblicazione.
Ad inizio anni '70, ansioso di rinnovarsi e di esplorare le possibilità offertegli da
musiche appartenenti a culture diverse, conduce diversi viaggi: Europa, Nigeria,
Marocco, finendo per cimentarsi poi con la musica cinese. Nello stesso periodo
adibisce più volte uno stanzone della sua casa newyorkese a concerti, esposizioni e
incontri, battezzandola come Artist's House. Qui si esibisce diverse volte e vi registra
anche un disco, “Friends and neighbours”, in cui si avverte la partecipazione della
folla presente al flusso improvvisativo.
L'opera più lunga e importante di quegli anni, ma forse della sua intera carriera, è
“Skies of America”, presentata per la prima volta in pubblico nel Luglio del 1972. Si
tratta di un concerto grosso per il suo quartetto e un'orchestra sinfonica: la
composizione può essere definita aperta e aleatoria (ogni musicista è libero di
suonare nell'ottava che preferisce le note scritte; ogni strumento o gruppo di strumenti
può essere sostituito negli episodi improvvisati; la sequenza delle varie parti può
essere variata). “Skies of America” è il primo vero tentativo riuscito di sposare
l'improvvisazione jazzistica alla musica sinfonica europea.

2. La poetica
Intorno al 1960 Ornette Coleman è al centro di una vivace controversia fra gli uomini
di jazz: da un lato chi sostiene che sia il più grande innovatore dopo Charlie Parker,
dall'altro chi pensa che egli non sappia nemmeno cosa stia facendo. Ornette è
addolorato dagli equivoci attorno alla sua musica, che tanti giudicano in base a
canoni estetici e regole grammaticali da lui deliberatamente rifiutati. Dovrebbe essere
abituato ad essere frainteso, deriso, perchè quello è stato il suo destino per anni, ma
all'incomprensione Ornette non ha saputo rassegnarsi mai. Lui suona per dar piacere
alla gente, oltre che per esprimere ciò che ha dentro e l'incomprensione altrui lo
amareggia. A chi gli chiede la ragione delle sue rare esibizioni in pubblico lui
risponde: “Dicono che la mia musica non piace al pubblico”. Eppure l'importanza
del suo contributo all'evoluzione della musica afro-americana è stato immenso:
assieme a John Coltrane, e in minor misura Cecil Taylor, Ornette è stato l'ultimo dei
grandi creatori del jazz. Paul Bley, che ha lavorato con lui a Los Angeles, ha
sintetizzato così l'importanza della sua opera: “...Ornette ha risolto in un sol colpo un
problema che era venuto aggravandosi per dieci anni: il problema di come fare a
rendere più interessante l'improvvisazione nel jazz. Bird era uno strumentista
virtuoso che suonava sugli accordi e dopo di lui ci furono decine di altri virtuosi.
Non c'era più nulla che si potesse suonare sui temi di canzoni. C'era rimasto uno
schema di canzone di trentadue battute, e noi potevamo improvvisare su qualche
battuta che era stata spremuta fino all'estremo. Ornette invece ci ha insegnato che
dopo che un pezzo è terminato si può suonare su uno dei suoi centri soltanto”. In
effetti egli scrive deliberatamente dei temi che non consistono di trentadue battute
suddivise in sequenze di accordi di uguale lunghezza e quei brani sembrano tonali ma
poi, se si presta attenzione, ci si accorge dell' irregolarità del numero di battute, della
poca chiarezza delle strutture armoniche e della mancanza di quadratura dei chorus.
In tal modo egli da ai musicisti che improvvisano la possiblità di respirare quando
vogliono, di pensare ciò che vogliono e di preoccuparsi poco o molto del giro
armonico a seconda dei gusti.
“Io e i membri del mio gruppo stiamo ora cercando di arrivare ad una nuova e più
libera concezione del jazz: una che si tenga lontana dai clichès e da tutto ciò che è
convenzione nel jazz moderno”. Le convenzioni che lo stesso Ornette ammette di
voler distruggere sono quelle armoniche, ritmiche e strutturali, ma bisogna fare i
conti con un'evidente difficoltà nello scoprire le nuove regole che disciplinano la sua
musica in quanto il suo discorso appare a tratti tonale, spesso politonale o atonale e
l'impianto strutturale è molto libero e vario. George Russell sostiene che “Ornette è
un pensatore musicale pan-tonale”. In effetti il sassofonista texano non prescinde
totalmente da tonalità e accordi, ma se ne serve con la massima spregiudicatezza,
abbandonando l'una e l'altra quando ritiene opportuno. Lo stesso si può dire per la
quadratura delle frasi, che non si articolano in una struttura strofica rigorosamente
simmetrica, ma ne creano una più o meno libera. Libera è infine anche la pulsazione
ritmica che sostiene e disegna le frasi, che per lui non deve seguire rigidi schemi ma
avere la naturalezza del respiro umano. Si parla a tal parla a tal proposito di
Harmolodic theory, termine usato nel 1972 dallo stesso Ornette, nelle note di Skies of
America. La definizione di tale teoria è spesso confusa, perchè egli usa termini di uso
comune nel gergo musicale (come unisono o transposizione) ma in chiave non
convenzionale. La spiegazione più sintetica di tale teoria è l'uguaglianza di
HARmony, MOvement e meLODY, i tre elementi del discorso musicale. L'
Harmolodic theory è una filosofia di vita più che una semplice teoria musicale in
senso tradizionale.
Un altro elemento fondamentale della poetica di Ornette Coleman è la sua
intonazione, che gli ha fatto attirare non poche critiche nel tempo. In molti lo hanno
giudicato un musicista stonato in quanto egli fa ampio uso di microtoni o quarti di
tono, denotando una concezione dell'intonazione, ma della musica più in generale,
molto vicina a quella dei raga indiani. Egli parla di “human quality” della sua
intonazione,“human pitch” o vocalizzazione del suono. “Quando suono un fa in un
pezzo che si chiama Peace, penso che non debba suonare come suona la stessa nota
in un pezzo chiamato Sadness”. La nota avrà sempre lo stesso numero di vibrazioni, è
il suono che cambia. Per attuare questa concezione Ornette si serve di varie tecniche
come l' aumento della pressione del respiro, l'uso di armonici fuori registro e un uso
non convenzionale dell 'octave key (false fingering). A far scalpore erano anche gli
strani strumenti usati da Ornette e Don Cherry: un contralto di plastica bianco e una
vecchia, piccola e malconcia tromba.
Nonostante la grande libertà morfologica e sintattica e l'assoluta originalità, la musica
di Ornette non parve a nessuno arditamente sperimentale o cervellotica in quanto vi è
sempre un pathos molto intenso: la sua è una voce che piange e spesso grida e ciò è
dovuto soprattutto al fatto che egli si servì di un ristretto numero di collaboratori, a
lui legati da stretti vincoli d'amicizia, in quanto, per attuare questo tipo di estetica, è
indispensabile una comprensione stretta e intensa tra i musicisti.
Verso la fine degli anni '60, dopo un concerto del quartetto di Ornette al Teatro lirico
di Milano, Pino Candini scrive: “E' chiaro ormai che il free jazz ha tante facce
quanti sono i suoi esponenti più dotati: quella di Ornette è forse la faccia più
sorridente,o meglio, meno problematica e arcigna, ma destinata, mi sembra di
capire, a durare più delle altre. Egli può definirsi un musicista lirico, sereno ed
equilibrato, anche se perfettamente calato nel clima del contrastante travaglio
creativo”.

3. Le composizioni
Le composizioni di Ornette Coleman possono essere divise in due categorie: quelle
con temi bebop, che risalgono agli anni '50, e quelle successive, basate su idee
fortemente contrastanti tra loro, che richiamano alcuni temi mingusiani. Queste
seconde sono il più importante tipo di composizioni degli anni '60 e sono state molto
riprese e imitate da altri compositori (spesso i musicisti le chiamavano Coleman's
theme).
L'aspetto essenziale delle melodie colemaniane è la loro stretta realazione con la
storia del jazz delle origini e con la tradizione folk americana. Egli riesce a combinare
una sorta di melodie bebop con frasi prese dalla tradizione folk o dai blues arcaici.
Dopo le prime registrazioni diventò abile anche nel liberare le composizione da
strutture di accordi standard e forme simmetriche. Le sue melodie spesso contengono
un tranello, una frase asimmetrica che sorprende e inchioda l'ascoltatore.

3.1 Invisible
Invisible è stato composto da Ornette tra il 1952 e il 1953, ma è stato pubblicato solo
nel 1958, nel suo primo album per la Contemporary, “Something Else!!!”. Questa è
l'unica session in cui egli utilizza una formazione jazz standard in cui ci sia anche il
piano (Walter Norris).
Invisible è stato anche registrato da John Coltrane nel disco The Avant-garde (1960).
Il brano ha la forma di una popoular song di 32 battute in un tempo di 4/4. La
struttura AABA con frasi di 8 battute ricalca la forma classica delle composizioni
swing e bebop, ma vi è una piccola deviazione: la settimana battuta è di 6/4. Questo
allungamento della forma è però presente solo nel tema e non nelle improvvisazioni
che avvengono sempre in 4/4.
La sezione A del brano contiene una melodia, mentre la B è lasciata aperta
all'improvvisazione, altra caratteristica tipica della tradizione bebop. Anche la
melodia richiama i classici temi bebop ed è per questo che possiamo classificare
Invisible nella prima categoria di brani colemaniani.
La forma della melodia consiste in una sequenza alternata di 4 frasi in botta e risposta
e la struttura armonica differisce dalle classiche progressioni bebop: invece delle
cadenze tonali dei II-V, la melodia modula cromaticamente nelle prime 4 battute. La
prima frase inizia in Db major nella prima battuta, per poi arrivare in D major nella
seconda. La seconda frase modula da Eb a E nella terza battuta per poi arrivare a F
nella quarta. La terza frase termina con una cadenza in C major, mentre la quarta è un
turnaround che torna in Eb, ma finisce con la ripetizione di una singola nota, B.
Questo tipo di finale, con la ripetizione di una nota fuori tonalità della frase, è
chiamato intervallic denial da David Liebman.

A
| | Db | D | Eb E | F | Ab Db | D-7 G7 | C Eb | B (single note)| |

B
| | C#-7 F#7 | D-7 G7 | Bb-7 Eb7 | Ab | C#-7 F#7 |B-7 E7 | F7 Bb7 | Eb7 Ab7 | |

Questa è la struttura armonica del brano. Gli accordi contrassegnati con la sola nota
possono essere sia dominanti, che di settima maggiore o 6/9.
La B inizia con una serie di II-V, prima in B, poi in C e successivamente in Ab. Alla
quarta battuta il II-V in Ab risolve sul primo grado. La seconda parte del bridge è
invece armonizzata in maniera funzionale, usando un ciclo di dominanti che
risolvono in Db major.
Anche la melodia contiene una progressione di note, tecnica tipica anche delle
composizioni bebop, chiamata “step progression”. Quest'ultima consiste in un'
udibile, ma nascosta, linea melodica incastrata in una frase più lunga che si muove
solitamente verso l'alto o il basso (come si può osservare nella didascalia).
3.2 Congeniality

Congeniality rientra nella seconda categoria di brani colemaniani, quelli più vicini ad
una poetica mingusiana, in quanto basato sulla compresenza di idee contrastanti.
Registrato nel 1959, viene inserito in “Shape of jazz to come”, primo album di
Ornette per l' Atlantic.

Il primo elemento di questo brano che salta all'orecchio è l'irregolarità ritmica (anche
questo lo avvicina alle composizioni di Mingus). I passaggi 4 e 4a sono gli unici
accompagnati da un beat regolare. In 1, 2, 1a e 1b il ritmo della melodia è accentuato
dalla batteria; nei passaggi 3 il tempo è libero. Tali contrasti ritmici creano diversi
effetti e sensazioni tra cui quella di un crollo di beat continuo.
La forma del brano è A-B1-A-B2 e non ha nessuna rilevanza per le improvvisazioni.
Nella sezione 1,2 e 3 l'area tonale è quella di Bb major, mentre nella sezione 4
troviamo delle cellule 5-3-2-1 minori che scendono per toni, partendo da Eb minor
fino ad arrivare ad A minor (Eb minor, Db minor, B minor, A minor). In 1a troviamo
una brevissima partentesi di 2 battute che modulano un tono sopra l'impianto
originario (quindi in C major) per poi tornare nuovamente in Bb major nella sezione
1 e ripetere tutto uguale fino alla sezione 4a. In quest'ultima troviamo una battuta in
Eb minor ed un'altra in Ab minor che risolve poi in Db major nelle ultime 2 battute
del tema (1b).
Congeniality è pertanto un tema free-jazz a tutti gli effetti, nel più vero e profondo
significato del termine.
3.3 Free jazz
Già nelle sue note a Change of Century Ornette Coleman scrive: “Forse l' elemento
più importante nella nostra musica è la nostra concezione di improvvisazione
collettiva”. La realizzazione definitiva di questo percorso avviene nel 1960, con la
registrazione di Free jazz, un unica lunga improvvisazione collettiva di due quartetti,
quello di Ornette (con Ed Blackwell, Charlie Haden e Don Cherry) e quello di Eric
Dolphy (con Billy Higgins, Scott LaFaro e Freddy Hubbard).
La prima take, un'improvvisazione di 37 minuti circa, vede i singoli complessi,
condotti dai solisti, legati da passaggi di ensamble di transizione. Alcune di queste
parti di ensamble sono scritte e hanno il tipico carattere delle linee colemaniane, altre
sono strutture parzialmente improvvisate, quelle che Ornette, in modo del tutto
fuorviante, chiama “harmonic unison”. Qui i musicisti si servono di materiale tonale
ma il timing non è scandito, una tecnica di composizione molto usata
successivamente in tutto il free jazz.
Assistiamo inoltre ad una ripartizione dei ruoli: Charlie Haden e Ed Blackwell sono
responsabili di scandire il ritmo fondamentale, che viene continuamente rotto e
“sfidato” da Scott LaFaro e Billy Higgins. Sulla base di questi accordi preliminari, la
musica dipende quasi esclusivamente dalla prontezza d'interazione dei musicisti.

L' esempio qui riportato mostra come un motivo presentato da Coleman viene subito
preso da Cherry e contrappuntato da Dolphy. Questo processo costruisce una rete di
interazioni: creando contrasti, tramite imitazione o continuazione e rinnova
costantemente il flusso delle idee musicali.
Free jazz ha un carattere per lo più statico, molto raramente dinamico: solo
occasionalmente avvengono climax emotivi, ma la ricchezza delle idee e il loro
continuo variare si sviluppa su un livello espressivo che non varia quasi mai. Si
possono trovare qui e lì dei passaggi in cui le frasi folk di Ornette suggeriscono una
sorta di pace bucolica, ma questi ultimi sono brevi e rari.
Tale concezione di improvvisazione collettiva avvicina molto Ornette Coleman a
Charles Mingus, anche se quest'ultimo sviluppa quest'idea molto più in contatto con
gli assiomi del jazz tradizionale di quanto non faccia il sassofonista e sebbene il
risultato musicale sia abbastanza differente. L' idea di partenza è però la medesima:
allontanarsi dal monologo individuale del solista per andare verso una conversazione
collettiva. In questo senso Free jazz è sicuramente una delle più importanti opere per
lo sviluppo delle nuove forme del jazz, anche se Ornette non continua su questa
strada, abbandonando l'idea di ensamble allargati.

4. Conclusioni

Analizzare i brani di Ornette Coleman è un' operazione al limite dell'onestà


intellettuale e del rispetto incondizionato che si dovrebbe avere nei confronti di
quest'uomo in quanto l'idea stessa di analisi si pone in contrasto con la sua poetica e
la sua esigenza creativa, che rifuggono ad essere inquadrati in un “sistema”, ma
soprattutto perchè egli disegna nuovi canoni estetici e regole grammaticali rifiutando
quelle precendenti, che sono le stesse di cui ci serviamo normalmente per effettuare
quella che siamo soliti chiamare “analisi musicale”.
Ciononostante l'approfondimento di alcune delle sue composizioni, con la
conseguente sensazione di straniamento che esse talvolta suscitano, permette di
comprendere ancora di più e ancor più profondamente la sua grandezza e genialità,
ma a patto che non si provi a scendere nella sua dimensione più oscura e
imponderabile, nella sua anima nera ma allo stesso tempo ariosa, che va preservata e
lasciata esprimersi tramite il suo unico mezzo, il suono.

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