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Thelonious Monk

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«- Would you play some of your weird chords for the «- Suonerebbe qualcuno dei suoi strani accordi per la
class?, classe?
- What do you mean weird? They're perfectly logical - Cosa intende con strani? Sono accordi
chords» perfettamente logici»
(Dialogo tra un insegnante della Columbia University e Monk (da
Hentoff, Jazz Life 188))

Thelonious Sphere Monk

Thelonious Monk nel 1947

Nazionalità  Stati Uniti

Genere Jazz
Bebop
Hard bop

Periodo di 1939 – 1972
attività musi
cale

Strumento Pianoforte

Etichetta Blue
note, Prestige, Riverside, Co
lumbia

Sito ufficiale

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Thelonious Sphere Monk (Rocky Mount, 10 ottobre 1917 – Weehawken, 17 febbraio 1982) è stato


un pianista e compositore statunitense, conosciuto per il suo singolare stile d'improvvisazione e per il
consistente contributo al repertorio del jazz[1].
Uomo dominato dalla stranezza comportamentale, da un mutismo eccessivo e da un forte
egocentrismo che inevitabilmente influenzarono la sua musica spesso screditata da critiche superficiali.
Stile che è però stato, in tempi recenti, completamente decifrato: sotto quella coltre di "stranezza" si è
conclamato un nuovo modo di fare jazz a cui si ispirarono le generazioni successive.[2]

Indice

 1Biografia
o 1.1Inizi
o 1.2Prime incisioni (1944–1954)
o 1.3Riverside Records (1955–1961)
o 1.4Columbia Records (1962–1970)
o 1.5Ultimi anni (1971–1982)
 2Principali composizioni
 3Discografia
o 3.1Principali Etichette
o 3.2Album
o 3.3Raccolte - Compilation
o 3.4Live
o 3.5Come session man
 4Note
 5Altri progetti
 6Collegamenti esterni

Biografia[modifica | modifica wikitesto]
Thelonious Monk ha iniziato come pianista stride, e dal 1939 al 1942 ha suonato come house-pianist
nel locale Minton's, dove il chitarrista Charlie Christian, il batterista Kenny Clarke e parecchi altri
precursori hanno gettato le basi del jazz moderno.
Durante la permanenza nella big band del trombettista ex ellingtoniano Cootie Williams scrive 'Round
Midnight, a oggi la sua più famosa composizione. Dopo aver militato nella formazione del trombettista
Harvey Davis al Cinderella Club, nel 1944 debutta ufficialmente su disco nel quartetto di Coleman
Hawkins, e dal '47 al '52 realizza una straordinaria serie di incisioni per la Blue Note in cui suona la
maggior parte delle sue migliori composizioni. Sono della partita Kenny Dorham, Milt Jackson, Sahib
Shihab e soprattutto Art Blakey, che gli resterà amico e collaboratore per tutta la vita. In quegli anni
incontrerà anche Miles Davis, con cui stringerà amicizia.
In Bloomdido (1950) Monk incontra Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Altra amicizia importantissima fu
quella col pianista Bud Powell, che propose più volte interpretazioni personali dei temi dell'amico. Dal
trio Plays Duke Ellington (1955) al quintetto di Brilliant Corners (1956), Monk realizza i suoi capolavori
su etichetta Riverside, e raggiunge lo status di mito vivente. Come logica conseguenza, nasce il suo
quartetto (più o meno stabile), con una serie di tenorsassofonisti che va da Sonny Rollins a Frank
Foster, da John Coltrane a Johnny Griffin (Misterioso e In action, 1958), fino a giungere a Charlie
Rouse, che resterà fino al 1968. Seguì la controversa partecipazione alla lunga tournée dei Giants of
Jazz (1970 - 72, con Blakey, Sonny Stitt, Kai Winding, Al Mc Kibbon e Dizzy Gillespie).
Nel frattempo le cose erano cambiate parecchio nel jazz, e chi si credeva all'avanguardia rischiava di
giorno in giorno di restare indietro. Eppure mentre Monk si adagiava sugli allori, nasceva tutta una
nuova generazione di musicisti - pensatori che riconsiderò in chiave quasi free i suoi lavori: Steve
Lacy, Don Cherry, Roswell Rudd, ecc.
Al di là delle circa settanta composizioni conosciute [3], l'eredità di Monk è più o meno evidente nel modo
di suonare di molti pianisti jazz successivi: il fraseggio frastagliato e pieno di cluster, la diteggiatura
ineducata, le armonie strane e ricercate hanno insegnato parecchio a molti musicisti jazz che si
interrogano sul concetto di libertà. Ciò che lascia Monk è soprattutto il virtuosismo ritmico fatto di ritardi,
accenti spostati, l'uso magico dei silenzi, la grande padronanza della scala cromatica. L'ascoltatore è
continuamente "sorpreso" dall'evolversi dei suoni che non cadono mai nella staticità e prevedibilità.
Monk ha saputo giocare con le note prendendosi gioco di esse: non si limitava ad improvvisare sugli
accordi del tema di base ma ne reinventava la struttura armonica facendo appello al suo istinto
primitivo generando dissonanze e giochi di note che si rincorrono e si urtano in una esemplare
disinvoltura.
Nei suoi ultimi anni di vita Monk si è ritirato nel New Jersey ospite della Baronessa Nica de
Koenigswarter (Pannonica), senza mai suonare il pianoforte nonostante ce ne fosse uno nella sua
stanza. È scomparso il 17 febbraio 1982 per infarto.
Inizi[modifica | modifica wikitesto]
Thelonious Monk nacque il 10 ottobre 1917, a Rocky Mount, Carolina del Nord, figlio di Thelonious e
Barbara Monk, due anni dopo sua sorella Marion. Un fratello, Thomas, nacque nel gennaio 1920. [4] Nel
1922, la famiglia si trasferì al 243 West 63rd Street, a Manhattan, New York City. Monk iniziò a suonare
il pianoforte all'età di 6 anni. Anche se ampiamente autodidatta, studiò teoria musicale, armonia, e
arrangiamento alla Juilliard School of Music.[5] Monk frequentò la Stuyvesant High School, senza però
portare a termine gli studi.[6] Da ragazzo suonò l'organo in un coro evangelico, prima di trovare lavoro
come musicista jazz.
All'inizio degli anni quaranta, Monk era il pianista fisso del night club Minton's Playhouse di Manhattan.
Gran parte dello stile di Monk si sviluppò durante questo periodo di apprendistato al Minton's, dove
spesso partecipava a gare notturne di bravura tecnica con altri quotati musicisti jazz dell'epoca.
L'ambiente del Minton's fu di importanza cruciale nello sviluppo dello stile bebop e portò Monk a stretto
contatto con artisti come Dizzy Gillespie, Charlie Christian, Kenny Clarke, Charlie Parker e,
successivamente, Miles Davis. Il suo stile dell'epoca venne descritto "hard-swinging" con l'aggiunta di
incursioni nello stile di Art Tatum. Le influenze dichiarate da Monk includono Duke Ellington, James P.
Johnson, ed altri pianisti stride.
Prime incisioni (1944–1954)[modifica | modifica wikitesto]
Nel 1944 Monk debuttò su disco con il Coleman Hawkins Quartet. Hawkins fu uno dei primi musicisti
jazz affermati a sponsorizzare Monk, e Monk ricambiò il favore in seguito invitandolo a prendere parte
alle sessioni del 1957 con John Coltrane. Nel 1947 Monk effettuò la prima registrazione come band
leader per la Blue Note (Genius of Modern Music: Volume 1). Nello stesso anno sposò Nellie Smith, e
nel 1949 la coppia ebbe un figlio, T. S. Monk. Nel 1953 nacque la figlia Barbara (affettuosamente
soprannominata "Boo-Boo").
Nell'agosto 1951, la polizia di New York City fermò un'auto sulla quale viaggiavano Monk e l'amico Bud
Powell. Gli agenti trovarono dei narcotici a bordo, presumibilmente di proprietà di Powell. Monk rifiutò di
testimoniare contro l'amico, e quindi la polizia confiscò la sua tessera del sindacato dei musicisti che gli
rese impossibile esibirsi dal vivo a New York. Monk trascorse la maggior parte della prima metà degli
anni cinquanta componendo, incidendo, ed esibendosi fuori città.
Dopo un ciclo intermittente di sedute di registrazione per la Blue Note nel periodo 1947–1952, venne
messo sotto contratto dalla Prestige Records per i successivi due anni. Con la Prestige incise diversi
album significativi, incluse collaborazioni con Sonny Rollins, Art Blakey, e Max Roach. Nel 1954, Monk
partecipò alle sessioni che produssero gli album Bags' Groove e Miles Davis and the Modern Jazz
Giants di Miles Davis.[7]
Nel 1954, Monk andò per la prima volta in Europa, eseguendo e registrando a Parigi il suo primo album
di assoli pianistici su etichetta Disques Vogue. Nel backstage Mary Lou Williams gli presentò la
Baronessa Pannonica "Nica" de Koenigswarter, membro della famiglia dei Rothschild e mecenate di
svariati musicisti jazz a New York City (incluso Charlie Parker). La donna divenne un'amica intima di
Monk per il resto della sua vita, ed egli scrisse in suo onore un pezzo pianistico intitolato,
appunto, Pannonica.
Riverside Records (1955–1961)[modifica | modifica wikitesto]
All'epoca della firma con la Riverside, Monk era molto rispettato e stimato da critici e colleghi, ma i suoi
dischi vendevano poco, e la sua musica veniva ancora vista come troppo "difficile" per un
pubblico mainstream. Per incrementare il suo profilo commerciale, Monk incise due album di standard
jazz: Thelonious Monk Plays the Music of Duke Ellington (1955) e The Unique Thelonious Monk (1956).
Sull'LP Brilliant Corners, registrato a fine 1956, Monk invece eseguì principalmente pezzi da lui
composti. La complessa title track, che contiene l'apporto del sassofonista Sonny Rollins, era così
difficile da suonare che la versione finale dovette essere messa insieme montando diverse take della
traccia stessa. L'album, tuttavia, fu il suo primo grande successo di pubblico.
Dopo aver ottenuto nuovamente la tessera del sindacato musicisti, Monk ricominciò in grande stile ad
esibirsi a New York con un periodo di cinque mesi di fila al Five Spot Cafe a partire dal giugno 1957,
guidando un quartetto con John Coltrane al sax tenore, Wilbur Ware al contrabbasso, e Shadow
Wilson alla batteria.[8]
L'ingaggio al Five Spot terminò nel Natale 1957, Coltrane lasciò il gruppo per riunirsi alla band di Miles
Davis, e il quartetto si sciolse. Monk tornò a suonare al Five Spot nel 1958, questa volta in gruppo con
Griffin (e poi Charlie Rouse) al sax, Ahmed Abdul-Malik al contrabbasso, e Roy Haynes alla batteria.
Il 15 ottobre 1958, mentre erano in viaggio verso il Comedy Club di Baltimora, Maryland, Monk e la de
Koenigswarter furono fermati dalla polizia a Wilmington (Delaware). Quando Monk si rifiutò di
rispondere alle domande del poliziotto sul perché viaggiasse insieme ad una donna bianca, gli agenti lo
colpirono con i loro manganelli. Sebbene nell'auto furono rinvenute anche delle sostanze stupefacenti,
il giudice Christie della Corte Suprema del Delaware invalidò le accuse di detenzione di narcotici a
causa dell'aggressione immotivata nei confronti di Monk operata dagli agenti di polizia della pattuglia. [9]
Columbia Records (1962–1970)[modifica | modifica wikitesto]
Dopo vari negoziati, nel 1962 Monk firmò un contratto con la Columbia Records, una delle quattro
grandi case discografiche degli Stati Uniti insieme a RCA Victor, Capitol, e Decca. Le relazioni tra Monk
e la Riverside si erano ormai deteriorate nel tempo a causa di royalty non pagate.
Lavorando con il produttore Teo Macero,[10] nel 1963 uscì Monk's Dream, l'album di debutto su etichetta
Columbia.
Monk's Dream divenne il suo più grande successo in carriera,[11] e il 28 febbraio 1964, Monk apparve
sulla copertina di Time.[12] Continuò poi a lavorare in studio, incidendo album famosi come Criss
Cross (1963), Solo Monk (1965), Straight, No Chaser (1967), e Underground (1968), ma il suo periodo
alla Columbia fu avaro di nuove composizioni originali in favore della pubblicazione di svariati album dal
vivo, inclusi Miles & Monk at Newport (1963), Live at the It Club e Live at the Jazz Workshop, entrambi
del 1964, quest'ultimo inedito fino al 1982.
Ultimi anni (1971–1982)[modifica | modifica wikitesto]
Thelonious Monk scomparve dalle scene nella metà degli anni settanta, facendo in seguito solo
qualche sporadica apparizione. La sua ultima seduta in studio come leader ebbe luogo nel novembre
1971 per l'etichetta britannica Black Lion, alla fine del tour mondiale dei "Giants of Jazz", gruppo
formato da Dizzy Gillespie, Kai Winding, Sonny Stitt, Al McKibbon e Art Blakey. Il bassista Al
McKibbon, che conosceva Monk da più di vent'anni e suonò insieme a lui nel tour del 1971, raccontò in
seguito: «In quella tournée Monk disse al massimo due parole. Intendo veramente solo due parole. Non
salutava, non chiedeva che ore fossero, niente di niente. Il perché, non lo so. Ci scrisse una lettera alla
fine del tour dicendoci che la ragione per la quale non riusciva a comunicare o suonare con noi, era
perché Art Blakey ed io eravamo troppo brutti».[13]
Il documentario Thelonious Monk: Straight, No Chaser (1988) attribuisce questo stravagante
comportamento di Monk all'insorgere di una malattia mentale. Nel film, il figlio di Monk, T. S. Monk,
afferma che alle volte il padre non lo riconosceva, e riferisce che fu ricoverato in ospedale in svariate
occasioni per non specificati problemi psichici che degenerarono alla fine degli anni sessanta. [14][15]
Mentre il suo stato di salute peggiorava sempre più, Monk trascorse i suoi ultimi 6 anni di vita ospite
nella dimora a Weehawken (New Jersey) dell'amica e benefattrice Baronessa Pannonica de
Koenigswarter. Durante questo lasso di tempo non suonò mai il piano e si chiuse in un ostinato
mutismo incontrando pochissime persone. Morì di infarto il 17 febbraio 1982, e venne sepolto
nel Ferncliff Cemetery di Hartsdale (New York). Nel 1993, gli venne assegnato postumo il Grammy
Lifetime Achievement Award.[16]

Principali composizioni[modifica | modifica wikitesto]


 52nd Street Theme
 Ask Me Now
 Ba-Lue Bolivar Ba-Lues-Are
 Bemsha Swing
 Blue Monk
 Bright Mississippi
 Brilliant Corners
 Bye-Ya
 Crepuscule With Nellie
 Epistrophy
 Evidence
 Friday 13th
 Hackensack
 I Mean You
 In Walked Bud
 Introspection

 Let´s Call This


 Light Blue
 Little Rootie Tootie
 Locomotive
 Misterioso
 Monk´s Dream
 Monk´s Mood
 Off Minor
 Pannonica
 Played Twice
 Reflections
 'Round Midnight
 Ruby, My Dear
 Rhythm-A-Ning
 Straight, No Chaser
 Well You Needn't

Biografia
 Data di nascita
10 Ottobre 1917
 Luogo di nascita
Rocky Mount, Nash County, North Carolina, Stati Uniti
 Data di morte
17 Febbraio 1982 (età: 64)
Thelonious Sphere Monk (Rocky Mount, 10 ottobre 1917 - Weehawken, 17 febbraio
1982) è stato un pianista e compositore jazz conosciuto per il suo singolare stile
d’improvvisazione e per il consistente contributo al repertorio del jazz. Uomo dominato
dalla stranezza comportamentale, da un mutismo eccessivo e da un forte egocentrismo
che inevitabilmente influenzarono la sua musica spesso screditata da critiche superficiali.
Musica che attualmente è stata completamente decifrata e sotto quella coltre di stranezza
si è conclamato un nuovo modo di fare jazz a cui si ispirarono le generazioni successive.

Il santone pazzo del jazz ha iniziato come pianista stride, e dal 1939 al 1942 ha suonato
come house-pianist nel mitico locale Minton’s, dove il chitarrista Charlie Christian, il
batterista Kenny Clarke e parecchi altri precursori hanno gettato le basi del jazz moderno.
Durante la permanenza nella big band del trombettista ex ellingtoniano Cootie
Williams scrive «Round Midnight», a oggi la sua più famosa composizione. Dopo aver
militato nella formazione del trombettista Harvey Davis al Cinderella Club, nel 1944
debutta ufficialmente su disco nel quartetto di Coleman Hawkins, e dal '47 al '52 realizza
una straordinaria serie di incisioni per la blue note in cui suona la maggior parte delle sue
migliori composizioni. Sono della partita Kenny Dorham, Milt Jackson, Sahib Shihab e
soprattutto Art Blakey, che gli resterà amico e collaboratore per tutta la vita.

In Bloomdido (1950) Monk incontra Charlie Parker e Dizzy Gillespie, mitici iconoclasti


ciascuno a suo modo. Altra amicizia importantissima fu quella col pianista Bud Powell,
che propose più volte interpretazioni personali dei temi dell’amico. Dal trio Plays Duke
Ellington (1955) al quintetto di Brilliant corners (1956), Monk realizza i suoi capolavori su
etichetta Riverside, e raggiunge lo status di mito vivente. Come logica conseguenza,
nasce il suo quartetto (più o meno stabile), con una splendida serie di tenorsassofonisti
che va da Sonny Rollins a Frank Foster, da John Coltrane a Johnny
Griffin (Misterioso e In action, 1958), fino a giungere a Charlie Rouse, che resterà fino al
1968. Seguì la controversa partecipazione alla lunga tournée dei Giants of Jazz (1970 -
72, con Blakey, Sonny Stitt, Kai Winding, Al Mc Kibbon e Dizzy Gillespie).

Nel frattempo le cose erano cambiate parecchio nel jazz, e chi si credeva all’avanguardia
rischiava di giorno in giorno di restare indietro. Eppure mentre Monk si adagiava sugli
allori, nasceva tutta una nuova generazione di musicisti - pensatori che riconsiderò in
chiave quasi free i suoi lavori: Steve Lacy, Don Cherry, Roswell Rudd, ecc.

Al di là delle settanta composizioni conosciute, l’eredità di Monk è più o meno evidente nel
modo di suonare di tutti i pianisti di oggi: il fraseggio frastagliato e pieno di clusters, la
diteggiatura ineducata, le armonie strane e spesso “sbagliate” hanno insegnato molto a
tutti i musicisti che si interrogano sul concetto di libertà. Ciò che lascia Monk è soprattutto
il virtuosismo ritmico fatto di ritardi, accenti spostati, l'uso magico dei silenzi. l’ascoltatore è
continuamente “sorpreso” dall’evolversi dei suoni che non cadono mai nella staticità e
prevedibilità. Monk ha saputo giocare con le note prendendosi gioco di esse: non si
limitava ad improvvisare sugli accordi del tema di base ma ne reinventava la struttura
armonica facendo appello al suo istinto primitivo generando dissonanze e giochi di note
che si rincorrono e si urtano in una esemplare disinvoltura.

Monk morì nel 1982, dopo dieci anni che non metteva piede fuori di casa.
C'è una scena in Straight No Chaser, il documentario di Charlotte Zwerin
prodotto da Clint Eastwood e dedicato alla vita di Thelonious Sphere Monk,
che è la sintesi dell'arte tutta di questo musicista imprendibile, indomabile e
infinito. La band sta suonando Evidence, durante l'assolo del sassofonista
Charlie Rouse, Monk si alza e inizia a ballare. Una danza goffa, derviscia. Gira
su se stesso Monk, un omone di cento chili che si avvita felice come un
bambino-farfalla sul proprio baricentro. Poi ritorna al piano e lo martella, i
piedi tengono il ritmo, le gambe volano disarticolate. È l'estasi, è la scossa
elettrica. È il jazz. È Monk. Monk che suona se stesso e che usa il pianoforte
semplicemente per dare voce a tutte le note, montagne di note, che gli
vorticavano tra il cuore e la testa, tra i mocassini eleganti ed i cappelli dalle
fogge bizzarre.

Il 10 ottobre 2017 si celebra il suo centesimo compleanno, se fosse ancora qui,


Il figlio T.S.Monk lo ricorda con una serie di divertentissimi aneddoti su Jazz
Blog. Tipo che era un grande giocatore di ping-pong e che in una partita
eterna e memorabile riuscì a battere 59 volte su 60 John Coltrane, che ad ogni
festa dei vicini eseguiva una versione riarrangiata di Happy Birthday e che
aveva una Buick bianca e nera. L'auto gli fu rubata ma venne ritrovata due
mesi dopo in perfette condizioni. Monk però non la usò mai più: diceva che il
suone delle vibrazioni della macchina era cambiato... Thelonious se n'è
andato presto, il 12 febbraio del 1982, stroncato dalla follia e da un ictus.
Eppure balla tra noi e ci fa ballare, ancora.

Ogni composizione di Monk, ogni standard che interpretava, perfino le ballad


possiedono talmente tanto ritmo da somigliare a irresistibili figure animate.
Così, in queste sue partiture sbilenche, poggiate all'apparenza sul nulla,
entrano ed escono pezzi di cinema in bianco e nero, Stanlio e Ollio (che
adorava), fumetti, cowboy da saloon e coristi che celebrano la grandezza del
Dio delle sale da ballo. Musica per gli occhi, un film che si dipana. La musica
di Monk è puro divertimento anche quando lacera, anche quando graffia
l'anima. Musica buffa e bellissima, un inno costante alla libertà. Sembra uno
scherzo quella musica, perennemente in bilico, che ecco, ecco ora sta per
deflagrare. Ecco, ora i suoni si disintegrano e sarà silenzio. Ecco, ora
Melodious stecca. Invece no. Un colpo di reni e la rincorsa tra accordi
riprende perfetta e fulminante “come un lungo respiro che si alza”.

E c'è New York, naturalmente, tra le dita di questo colosso nato il 10 ottobre
del 1917 in North Carolina ma cresciuto a San Juan Hill, sobborgo per
immigrati della Grande Mela. Cresciuto facendo a botte con le bande di
ragazzini portoricani. Thelonious Monk, pronipote di due schiavi, figlio di una
cameriera e di un bracciante. “Poi una signora ci regalò una specie di piano –
raccontò il musicista – Pensai che non volevo sprecare quel dono. E imparai a
suonare”. Iniziò così. Con il pianoforte in cucina che serviva anche come
contenitore per camicie pulite, vasetti di marmellata, piatti di pollo e patate.
Cominciò in chiesa, seguendo l'amatissima madre Barbara che pregava e
cantava e finì con l'incontro tra Monk e l'organo. Laurent de Wilde che ha
scritto Monk Himself, brillante e appassionata biografia con prefazione di
Enrico Pieranunzi (Minimum Fax 2007) spiega come “l'incredibile gioco di
piedi di Thelonious” sia mutuato proprio da quell'esperienza. “Dalla chiesa
Monk non ha tratto il suo stile, ma piuttosto l'anima della sua musica”. Così è.
Così sia.
Anni 40: il Milton's Club  La Big Apple ondeggia a caccia di nuove mode,
qualcosa che vada oltre lo swing, lo superi a sinistra, gli tagli la strada. Monk
si allena al Minton's Club di Harlem, instancabilmente. E' più che una
palestra quel locale: è un ring, un quadrato per musicisti-pugili. Rimane in
sella chi ha il fisico e il tocco. Thelonious possiede entrambi e picchia sui tasti
trasformandoli in un'orchestra, un vulcano, un calderone in ebollizione.
L'America è in guerra e chi resta ha voglia di ballare, di osare, di dimostrarsi
vivo. E ci sono suoni, storie che ora corrono più veloci perfino degli accordi.
C'è Charlie Parker, naturalmente, ma anche un trombettista tosto, uno che
parla di diritti, uno che ha scritto un pezzo intitolato Bebop. Si chiama Dizzy
Gillespie. Descrivendo quel periodo Miles Davis disse: “Bird è stato lo spirito
del movimento ma Dizzy ne era la testa e le mani, era lui che teneva insieme
tutto”. E Gillespie, di lì a poco, avrebbe incrociato Monk. Fu una storia breve
la loro, ma servì al pianista per entrare nel salotto buono e maledetto del jazz.

Bebop allora. Il nuovo maestro del sound che riempie di adrenalina le notti
newyorkesi è lui, Thelonious Sphere: occhiali scuri, cappelli assurdi, giacche
grigie ed un anello d'oro al mignolo. Il monaco folle ed elegantissimo, il
marito di Nellie. In questa storia la moglie di Monk, la donnina che serve
frullati al sedano ai più grandi jazzisti d'America, ha un posto importante,
cruciale. Lei prepara la valigie, tieni i conti, organizza l'esistenza disordinata
di Thelonious. Lei la musa, la casa e la culla. Ci saranno droghe, draghi, alcool
nella vita del pianista ma nessun'altra come Nellie. Si erano conosciuti
quando lei aveva 12 anni e lui 16. “Ci guardammo, ci riconoscemmo, anni
dopo lui ricordava perfettamente il mio vestito da bambina”, ha raccontato la
signora Monk a Robin D.G. Kelley che ha studiato per 16 anni l'opera e la vita
dell'artista dando alle stampe Storia di un genio americano, 800 pagine,
biografia monumentale tradotta in Italia (ancora una volta) da Minimum Fax.
Fuoco e terra. Sarà lei a tenergli la mano il 17 febbraio del 1982, l'ultimo
giorno.

Bebop, dunque. Ma non solo. Perché Monk è in grado di attraversare


pentagrammi e stili con una tecnica mirabile e una devozione pianistica da
operaio e filosofo. Nello stesso tempo può suonare, fumare, usare un
fazzoletto per asciugarsi il sudore e segnare con “mani da rastrello” gli 88 tasti
del piano. Dal primo contratto con la Blue Note ai successi con la Columbia, la
storia musicale di Monk è un'irresistibile ascesa. Lenta, ma inesorabile. Agli
standard preferisce le proprie composizioni, pezzi marchiati da un tono
inimitabile: il suo. Pezzi che ancora oggi sono cosa viva, materia che pulsa. E
sorride obliqua. Dalla malinconia di Ruby my dear al calor bianco di Well
You Needn't, dall'affresco urbano di 'Round Midnight alla vorticosa bellezza
di Evidence. Sono composizioni che sembrano arrivare da un altro mondo.
Sono giochi, boutade fantastiche, sono corde trasparenti per far inciampare la
gente. E quindi ecco i fumetti che si rincorrono in Four in One e le aritmie di
clacson e motori di Little Rootie Tootie dedicata al figlio. Monk scrive, segna
tutto in un quadernetto che porta nella tasca del cappotto. E condivide con gli
amici ed i colleghi. Art Blakey soprattutto, batterista sbruffone, muscolare,
furbo e cattivo, uno che canticchia e lancia gridolini quando suona. Uno della
banda. La banda del bebop. La banda del genio. E poi c'è la schiera infinita di
sassofonisti, un po' specchio, un po' riverbero, un po' molla. Maestri e fratelli:
Coltrane il treno, Sonny Rollins il loquace, Coleman Hawkins il padre, Gigi
Gryce il timido, Gerry Mulligan l'imperioso e più di ogni altro Charlie Rouse,
il complice. Il sax di Melodious.

Ci sono uomini e donne a marcare questa storia. Uno è Orrin


Keepnews, giornalista, diventato produttore e mentore di un'etichetta nuova
di zecca: la Riverside. Orrin non si spiega perché tanto talento sia quasi
invisibile al grande pubblico. Così nel 1955 prova la carta della
contrapposizione. Come scrive Laurent de Ville “il lunare Monk alle prese con
il solare Duke”. Lo strappa alla Prestige riscattandolo per 108 dollari, lo mette
sotto contratto. Il primo disco è Thelonious che omaggia Ellington. Bingo. Il
cerchio che si chiude. Perché il ragazzo di San Juan Hill è il primogenito
audace del Duca. L'unico in grado di traghettare il pianismo di Ellington (e
tutto lo swing) verso la matematica pura, l'unico capace di imprimere una
simmetria perfetta anche agli intervalli più spigolosi. Così, il grosso negro col
cappello inizia a far breccia. Due anni dopo arriva il capolavoro Brilliant
Corners, opera suonata all'unisono. Niente interplay. Un solo fiato, un'unica
voce. Da brividi. Marmo fluido. Una follia collettiva: Max Roach che si
invaghisce dei timpani, Monk che trova una celesta in studio e s'impunta per
ficcarla nel disco. Un capolavoro. Il successo. Il passe-partout per tentare
l'indicibile, come con Monk's Music, 1957, tre sax a scalpitare (Coltrane,
Hawkins e Gryce) e Thelonious carismatico al piano a gestire il traffico di
ance. Che anni, che America, che straordinarie benefattrici.

Nica, la baronessa. Anche Monk, come Charlie Parker, entra nelle grazie


della baronessa Pannonica de Koenigswarter, Nica per gli amici, appassionata
di jazz e di gatti. Sarà un'amicizia epica e totale la loro. Definitiva. E poi Teo
Macero, capo della Columbia e compositore, un bianco furbo e intelligente, il
contraltare di Miles Davis dietro le quinte, che decide di produrlo. E' l'apice
della carriera di Monk. Sono gli anni '60 e il mondo è cambiato. Così cambiato
da poter accogliere Monk's Dream il suo album più venduto, così cambiato da
meritarsi Monk sulla copertina di Time. Ci sono tour, ora, e fotografi, e gente
che fa la fila per vedere l'ultimo copricapo di Thelonious.

Monk's dream. Chissà qual è il sogno di Thelonious negli anni 70, chissà se è
un incubo o una febbre covata, tenuta a bada, e che esplode. Perché a un certo
punto l'intero microcosmo di Monk, quello che l'artista ha costruito accordo
dopo accordo, serata dopo serata, session interminabili e lavoro durissimo, si
sgretola. All'improvviso. Il pianoforte smette di esistere. Melodious esce ed
entra dalle cliniche psichiatriche. Bipolarismo è la diagnosi. Lui si mette a
nanna, sotto sale, si iberna, sceglie il letargo. Via il cappello. Le dita
rattrappite, la voce serrata in gola. Il distacco tra Monk e il mondo, all'inizio
una fessura, diventa una voragine. Si rifugia per un decennio nella casa di
Nica, a Weehawken, New Jersey. Nella stanza ha uno Steinway a coda che non
tocca, il contrario di quanto era accaduto a Bud Powell che, pazzo e disperato,
aveva continuato a disegnare sui muri del manicomio i tasti in bianco e nero.
La musica è finita. Monk, il gran sacerdote del bebop, è una balena arenata
tra le pieghe di un mare misterioso, senza onde. Un mare calmo, fetido e
mortale.

Un giorno disse: “Il rumore più forte del mondo è il silenzio”. Si sbagliava. Il
rumore più forte del mondo è la risata di una donna, è il battito del cuore di
un bambino su un'altalena, è il respiro di un gigante del jazz che prende la
rincorsa, ride, tocca Dio, balla, ed è ancora qui. A farci girare la testa.
THELONIOUS MONK, LA SCOPERTA
DEL GENIO
di minima&moralia pubblicato sabato, 10 ottobre 2015 · 2 Commenti 
(fonte immagine)
Il 10 ottobre 1917 nasceva Thelonious Monk, pianista e compositore tra i più
importanti della storia della musica jazz. Per ricordarlo pubblichiamo un
estratto da Thelonious Monk. Storia di un genio americano, scritto da Robin
D.G. Kelley e pubblicato in Italia da minimum fax, che ringraziamo. La
traduzione è di Marco Bertoli.
di Robin D.G. Kelly
Fu Mary Lou Williams la prima a dare la notizia a Thelonious. Un tale
Bill Gottlieb, un bianco, lo stava cercando. Lavorava per Down Beat come
giornalista e fotografo e voleva fare un servizio su Monk. Monk non riusciva
a crederci. Era un anno che si arrabattava con lavori da elemosina e adesso
la più importante rivista di jazz del paese voleva pubblicare un servizio su
di lui. La pubblicità significava lavoro, e Monk aveva un bisogno
disperato dell’una e dell’altro. Mary Lou Williams combinò un incontro per i
primi di settembre del 1947 e disse a Gottlieb di andare da Thelonious, a casa
della signora Monk, sulla Sessantatreesima.
Gottlieb, un tipo occhialuto e intenso, aveva più l’aria da professore di
college che da tipico appassionato di jazz, ma sapeva di cosa parlava. Nato
a Brooklyn nel 1917, Gottlieb si era laureato alla Lehigh University e poi
era stato preso all’ufficio pubblicità del Washington Post. Aveva cominciato
a scrivere una rubrica settimanale di jazz per il Post ma, siccome il giornale
non intendeva pagare un fotografo, aveva comprato una macchina
fotografica Speed Graphic e si era messo lui a fare le foto. Fu la sua abilità di
fotografo a renderlo famoso. Dopo aver servito in guerra, era tornato a New
York e nella primavera del 1946 aveva cominciato a lavorare per Down Beat.
Copriva quasi tutte le big band mainstream e aveva lanciato una rubrica,
«Posin’», di istantanee di musicisti con brevissime didascalie argute. Era
diventato uno dei più entusiasti fautori del bebop. Appena prima di incontrare
Thelonious, Gottlieb aveva pubblicato parecchie foto di Dizzy Gillespie,
Charlie Parker, Miles Davis e, fra queste, l’immagine che sarebbe diventata
l’icona di Gillespie, quella con berretto, occhiali e pizzetto: nello stile di Monk.
Come mai questo improvviso interesse per Monk? Non c’era praticamente una
sola rivista, fra quelle di arte e spettacolo, che non si stesse affannando per
trovare qualcosa sull’ultima moda musicale, il bebop. Oltre alle colonne della
pubblicistica jazz (Down Beat, Metronome, The Record Changer), per tutto il
1947 riviste popolari come The New
Republic, Esquire e Saturday Review avevano pubblicato profili, articoli e
pezzi di colore sul bebop e sui suoi principali esponenti, ben più di sei mesi
prima che il dibattito sulla nuova musica cominciasse davvero ad accalorarsi.
Le battaglie erano accanite; il bebop era o grandioso o orribile. Nessuno era in
grado di definirlo musicalmente, ma la cosa non aveva importanza. I musicisti
sentivano il dovere di intervenire nel dibattito, e alcune delle voci più autorevoli
del genere – Mary Lou Williams, Tadd Dameron e Lennie Tristano –
pubblicarono articoli in difesa della nuova musica contro i suoi detrattori.
Ovviamente i musicisti che rappresentavano i due diversi fronti continuarono a
parlare semplicemente di «musica» e non c’era differenza di generazione né di
stile che impedisse loro di condividere il palco o uno studio di registrazione. Ma
collaborazione, flessibilità stilistica, ambiguità nell’operare distinzioni fra i
generi non spingevano le vendite dei giornali.
In queste guerre jazzistiche, Bird e Dizzy divennero improvvisamente i
nuovi eroi, o antieroi, a seconda della posizione da cui li si guardava. E,
praticamente in tutte le interviste che concedevano, menzionavano
Thelonious Monk. Monk aveva padroneggiato i nuovi sviluppi armonici; era
stato uno dei pionieri al Minton’s Playhouse. Di colpo Monk apparve come la
versione anni Quaranta di Buddy Bolden, l’anello mancante che aveva dato
inizio a tutto e poi era scomparso. Per Gottlieb, era «il George Washington del
bebop».
Gottlieb aveva visto per la prima volta Monk l’estate precedente allo
Spotlite, quando stava ancora con l’orchestra di Dizzy. A Gottlieb la musica
era piaciuta, ma soprattutto era rimasto affascinato dall’aspetto visivo
dell’esibizione: «Si riconosceva la setta di appartenenza [di Monk]
dall’uniforme bebop: pizzetto, berretto e pesanti occhiali con montatura di
madreperla, solo che la sua era per metà d’oro». Fu da quel momento che
Gottlieb desiderò parlare con Thelonious, ma, così disse, non era mai riuscito a
rintracciarlo.
Quando Gottlieb e Monk finalmente s’incontrarono, fu amore a prima
vista. Avevano la stessa età, amavano entrambi l’orchestra di Claude Thornhill
ed erano innamorati di Billie Holiday. Gottlieb era autore di alcuni splendidi
scatti della Holiday, pubblicati sul Record Changer quella primavera, e
Thelonious aveva una foto di Billie attaccata al soffitto della sua camera da
letto. «Sul taxi, mentre risalivamo», ha raccontato Gottlieb, «Thelonious parlò
con una modestia singolare. Non avrebbe mai affermato pubblicamente che era
stato lui l’iniziatore del bebop; però, come da allora hanno riportato i libri di
storia, ammise di esserne stato quanto meno uno degli inventori».
L’interpretazione che Monk dava degli eventi, tuttavia, era forse meno modesta
di quanto sembrò a Gottlieb. «Il bebop non si è sviluppato in modi prestabiliti»,
spiegò nell’intervista. «Per quanto mi riguarda, dico che era semplicemente lo
stile che mi era capitato di suonare. Tutti abbiamo contribuito con delle idee
[…]». Poi aveva aggiunto con immodestia: «Se il mio lavoro ha più importanza
di quello di tutti gli altri, è perché il pianoforte è lo strumento chiave nella
musica. Penso che tutti gli stili si basino sugli sviluppi pianistici. Il piano getta
le fondamenta accordali e anche quelle ritmiche. Insieme a contrabbasso e
batteria, io ero sempre lì [al Minton’s] e potevo quindi lavorare sulla musica.
Gli altri, per esempio Diz e Charlie, all’inizio venivano solo di tanto in tanto».
Una volta giunti a destinazione, Monk andò dritto al piano. Per caso
erano appena arrivati l’ex direttore Teddy Hill e i trombettisti Roy Eldridge
e Howard McGhee, anche se è possibile che Gottlieb li avesse avvertiti.
Gottlieb scattò diverse foto di Monk al piano: mentre suonava, in posa, con
un’aria che era tutto fuorché misteriosa, con quel gessato un po’ abbondante
e gli occhiali scuri. In quasi tutte le foto Monk è a capo scoperto, ma Gottlieb lo
persuase a indossare il suo famoso berretto per alcuni scatti. Monk, però, non si
stava semplicemente mettendo in posa. Era lì per lavorare. Gottlieb notò come
McGhee «portò Thelonious a escogitare alcuni passaggi di tromba e poi, come
se niente fosse, glieli fece scrivere su della carta pentagrammata che per puro
caso si trovava nel locale». Gottlieb convinse quindi i quattro a uscire dal locale
per una seduta fotografica improvvisata. Ne uscì una delle fotografie più note e
rappresentative della storia del jazz. Quattro pionieri del jazz moderno fianco a
fianco sotto la tenda del Minton’s Playhouse, la casa che, come vuole la storia,
il «bop» costruì. La foto pubblicata è ricca di spirito. Gottlieb creò una specie di
monte Rushmore del jazz, con Thelonious all’estrema sinistra, al posto di
George Washington.
La pubblicazione di «Thelonius [sic] Monk – Genio del Bop» sul numero del
24 settembre di Down Beat non solo costituì una revisione della recente storia
del jazz, ma contribuì anche all’immagine di Monk come figura eccentrica e
misteriosa. Gottlieb calcò molto la mano sul suo carattere «elusivo»,
osservando che tutti avevano sentito parlare della sua «fantastica
immaginazione musicale; della sua abilità di pianista […] ma pochi lo
hanno mai visto». Citava poi Teddy Hill: «[Thelonious è] così assorto in quello
che fa che è diventato quasi misterioso. Metti che stia venendo a un
appuntamento con te. Gli viene un’idea. Comincia a lavorarci. Pum! Passano
due giorni e lui è ancora lì. Si è dimenticato completamente di te e di ogni
altra cosa che non sia quell’idea». Presentando Thelonious al pubblico del
jazz come una figura furtiva, sconcertante, Gottlieb poteva permettersi
un’affermazione sensazionale: aveva scoperto la vera sorgente della nuova
musica. Di nuovo citava Hill: Monk «merita un riconoscimento per aver dato
inizio al bebop più di chiunque altro. Lui non lo ammetterà mai, ma penso che
senta di essere rimasto fregato, non avendo ottenuto la gloria che è toccata
ad altri. Piuttosto che venirsene fuori ora e correre il rischio che la gente
pensi che è lui l’imitatore, Thelonious si è messo a inventare cose nuove. Credo
che speri un giorno di uscirsene con qualcosa di così avanti, rispetto al
bebop, come il bebop è ora avanti rispetto alla musica precedente».
Quel giorno arrivò prima di quanto Hill non credesse. Non era passata neanche
una settimana dal pomeriggio trascorso da Gottlieb con Monk, quando Ike
Quebec, sassofonista tenore, bussò alla sua porta. Era già andato spesso a casa
di Monk, ma stavolta portava con sé una giovane coppia bianca, Lorraine e
Alfred Lion. Alfred, un uomo alquanto minuto e dai lineamenti delicati, parlava
piano, con un marcato accento tedesco. Lorraine era alta e snella, con i capelli
corvini e gli occhi scuri, ed era meno riservata del marito. Parlava velocemente
e con convinzione; aveva un purissimo accento del New Jersey. Gli ospiti
furono condotti in camera da letto di Thelonious.
«La camera di Monk era appena oltre la cucina», ha ricordato Lorraine (ora
Gordon). «Pareva in qualche modo uscita da un quadro di Van Gogh; voglio
dire, ascetica: un letto (una branda, a dire il vero) contro il muro, una finestra,
un piano verticale. Nient’altro».Monk si era anche circondato di fotografie,
come quella di Billie Holiday sul soffitto, attaccata con lo scotch accanto a una
lampadina rossa, una foto di Sarah Vaughan sul muro a cui era accostata la
branda, e una foto pubblicitaria di Dizzy sopra il piano, con dedica: «A Monk,
mia prima ispirazione. Non perderla. Il tuo caro amico, Dizzy Gillespie». La
stanza era relativamente buia; l’unica finestra dava sul vicolo e la lampada sul
cassettone emetteva una luce molto fioca. Ma era la dimora del suo pianoforte
Klein, il suo laboratorio e la sua palestra, nonché un luogo in cui dormire.
Monk sapeva perché erano lì. Alfred era il fondatore della casa
discografica Blue Note, che mandava avanti con Lorraine e con il suo amico e
socio Frank Wolff. Quebec era stato uno dei loro artisti fin dal 1944. I Lion
avevano fiducia nel suo orecchio per gli ultimi sviluppi del jazz e lui agiva
come una sorta di talent-scout per l’etichetta. Quebec divenne fautore di
Monk e pregò Alfred e Lorraine di dargli un’occasione. I Lion tentennavano,
finché non vennero a sapere del profilo di Down Beat dedicato a Monk.
Come scrisse in seguito Lorraine: «Ci sedemmo tutti sulla brandina di Monk,
con le gambe allungate, come bambini […]. La porta fu chiusa. E
Monk cominciò a suonare, dandoci la schiena». Monk eseguì per i suoi ospiti
un set in piena regola, che comprendeva «’Round Midnight», «What Now»,
diversi brani senza titolo e la ballad oggi nota come «Ruby, My Dear». Lorraine
si «innamorò». Non furono tanto le armonie dissonanti; fu il suo impegno
nel suonare stride. Monk, ha ricordato, «non mi sembrò così rivoluzionario.
Per questo mi piacque tanto. A quei tempi, molti degli avanguardisti non
riuscivo ad ascoltarli. Ero cresciuta a forza di Sidney Bechet e Duke Ellington.
Ma fu Monk a farmi fare il passaggio, perché sentivo il suo
magnifico stride derivato da James P. Johnson, e il blues, e la sua grande mano
sinistra».
Si scambiarono poche parole. Quando i Lion se ne andarono, Thelonious Monk
aveva ottenuto una seduta di registrazione. Gli restavano appena un paio di
settimane per mettere insieme una band. Un piccolo miracolo: dopo anni passati
a sgomitare e a raschiare il fondo del barile, mentre le sue musiche venivano
incise da altri, finalmente Monk aveva l’occasione di registrare la propria
musica come leader. Ce ne era voluto di tempo. Stava per compiere trent’anni.
© minimum fax 2015

Un artista eccentrico ed enigmatico

Sono passati cento anni dalla nascita di Thelonious Monk, ma tutte le volte che, ancora
oggi, facciamo girare un suo cd nel lettore, facciamo posare la puntina sul vinile o, più
semplicemente, ci guardiamo su youtube un suo video, siamo sicuri che senz’altro ci
sfuggirà qualcosa.

Thelonious Monk era una sfida aperta, una sfida al suo tempo (quasi sempre le sue
composizioni, divenute standard e imprescindibili nel repertorio jazz, verranno scoperte a
distanza di diversi anni), una sfida al cuore e al cervello dell’ascoltatore, quando lo
avvolgeva con temi all’apparenza semplici ma armonicamente di una complessità
mostruosa.

L’eccentrico, lo strano, il più solitario, quello che indossava buffi cappelli (quanti epiteti in
quegli anni) era, in realtà, con la sua musica, lucido, attento e rigoroso come pochi.

Monk è stato ‘Round about Midnight, universalmente riconosciuto oggi come il classico jazz
per eccellenza, ma è stato anche Evidence, un pezzo di una radicalità compositiva ed
esecutiva sovranamente in anticipo sui tempi. In Evidence, in particolare, il ritmo elastico del
suo lavoro lo si nota soprattutto nelle pause, del tema, come ricorda il musicologo Stefano
Zenni, rimangono solo accenti isolati. Esiste, tra l’altro, una versione pubblica, rintracciabile
su youtube, del pezzo dove ad un certo punto Monk si alza e comincia a ballare (già Julio
Cortàzar aveva fatto cenno a Thelonius danzante in un passaggio di Il giro del mondo in
ottanta giorni).

Monk è stato il Bebop, ma in maniera decentrata, eccentrica; insomma ovunque,


dappertutto, sempre, Monk era Monk. Allora si vada a cominciare e vediamo un po’ cosa
salta fuori.
I primi anni

Thelonious Monk (da adesso TM) nasce a Rocky Mount, nella Carolina del Nord, il 10
ottobre del 1917. Nel 1922 la famiglia si trasferisce a New York, dove ancora bambino,
inizia da autodidatta, a suonare il pianoforte.

Mostra una spiccata curiosità musicale, ascolta inni sacri e gospel (suona in un coro
evangelico), ma anche compositori classici, mostrando un grande amore per Chopin e
Rachmaninov. Decisivo è in questa fase l’incontro con la pianista Alberta Simmons che fa
conoscere a Monk la musica di alcuni fondamentali pianisti jazz come Fats Waller, James P.
Johnson e Scott Joplin. In questi anni Monk apprezza molto lo “stride piano”, che è uno
stile pianistico sviluppatosi a New York in particolare nel decennio 1920-1930.

Il Bebop

Ma siamo già alle soglie della grande rivoluzione degli anni Quaranta: sta per nascere
il Bebop.

Al Mintons Playhouse di New York in quegli anni si sta facendo la storia del jazz, quando sul
palco sfilano il chitarrista Charlie Christian, il saxofonista Charlie Parker, il
pianista Thelonious Monk, il trombettista Dizzy Gillespie (pure lui nato nel 1917).

Il bebop è un modo di approcciarsi alla musica, alla vita, al mondo che cambia, alla velocità
di quei tempi frenetici. I boppers nelle serate al Mintons sperimentavano continuamente, si
confrontavano tra di loro e con il pubblico, improvvisavano nuove soluzioni armoniche e
non solo: Parker volava e dopo l’esposizione del tema accendeva l’intera sala in jam
infuocate con Gillespie, Monk e Max Roach.

La struttura, sostanzialmente, era dunque un tema a cui facevano seguito numerosissime


improvvisazioni e poi veniva riproposto il tema.

Monk fondatore del Bebop?

E Monk? Monk riteneva, indispensabile in questo senso la biografia “Storia di un genio” di


Robin D.G. Kelley uscita per Minimun Fax nel 2016, di non aver avuto il giusto
riconoscimento del suo ruolo di autentico fondatore del Bebop.

La storia ci ha consegnato Dizzy Gillespie, che incise anche un pezzo dal titolo Bebop, e
Charlie Parker quali iniziatori del genere, mentre TM, il Sommo Sacerdote (priest,
scherzando sul suo cognome Monk-monaco) del bebop era tenuto in una posizione di
rilievo, ma non determinante. Egli, addirittura, affermerà in seguito che gli altri erano stati
influenzati da lui, mentre lui non altrettanto. A distanza di qualche anno e seppure
indirettamente, Gillespie, replicherà dicendo che negli anni del grande fermento dei boppers
era difficile stabilire ruoli, visto che egli stentava a ricordare cosa aveva preso da lui e
viceversa.

A scanso di equivoci va, però, doverosamente ricordato che il bop di Monk era per molti
versi atipico rispetto a quello di Parker e Dizzy, visto che il suo jazz era meno vorticoso e
virtuosistico, preferendo un approccio interrogativo e articolato, che necessitava, per
l’ascoltatore di cautela e circospezione nell’approccio alla sua musica.

Si pensi ad Epistrophy: apparentemente assomiglia ad altri pezzi swing dell’epoca, in realtà


presenta incredibili arditezze cromatiche, che hanno portato il brano ad entrare con
estrema lentezza (come del resto moltissime sue composizioni) nel novero della letteratura
jazzistica di altri musicisti.

Il Pianoforte

TM era un pianista unico. Autodidatta, se escludiamo il fecondo rapporto con Alberta


Simmons, suonava usando le dita dritte e non arcuate; il suo battere sui tasti bianchi e neri
della tastiera sembrava una percussione.

Si diceva sbagliasse le note, al che rispondeva: “Una nota può essere piccola come uno spillo e
grande come il mondo, dipende dalla tua immaginazione”.

Provate ad ascoltare da Thelonious Himself del 1957 la classica ‘Round Midnight, seguite le


metamorfosi del tema, lasciatevi guidare dai suoi stravolgimenti. Occhio che rischiate di
andare a sbattere da qualche parte, ma ne vale la pena. Ascoltate le pause, immergetevi nel
sospeso, nel non detto (solo in apparenza), come del resto nel suo tanto amato Chopin,
dove accanto alle note vanno assaporati i silenzi.

“Non suonare sempre tutto e sempre, lascia che alcune cose sfuggano, che parti della musica
vengano solo immaginate; quello che non suoni può avere più importanza di quello che suoni”,
così chiosava Monk. Dunque un pianismo per sottrazione, come nelle numerose Testa di
ragazza di Costantin Brancusi o, pure, nella sua Colonna senza fine, asciutta e rivolta verso
l’alto, protesa verso il cielo.
Thelonious Monk e John Coltrane

Fondamentale per TM il rapporto con John Coltrane (JC muore nel 1967, dunque questo è
pure un anno coltraniano), che Monk accoglie quando Miles Davis lo caccia dal suo gruppo
perché ritenuto infaffidabile per colpa della sua tossicodipendenza. Da questa amicizia
nasce un quartetto ingaggiato al Five Spot di New York nel 1957 dove suonano per sei
giorni alla settimana dalla metà di luglio alla fine di dicembre dello stesso anno.

John Coltrane era letteralmente rapito dalla personalità di Monk, tanto che, per un certo
periodo, arriva a frequentare casa sua. Spesso, addirittura, piombava a casa sua e lo
svegliava: Monk allora si alzava e si metteva al pianoforte improvvisando e suonando
qualsiasi cosa gli saltasse in mente in quel momento. A quel punto Coltrane tirava fuori il
sax e cominciava a suonare, quando, poi arrivava un passaggio particolarmente difficile
Monk tirava fuori una cartelletta e mostrava al saxofonista lo spartito.

Era, dunque, tutto scritto, anche se, aggiungeva TM, è necessario, sempre, suonare senza
spartito, perché occorre, sosteneva, suonare a orecchio; fino a quando, dunque, la musica
era entrata dentro al tuo corpo e al tuo spirito. A un certo punto, poi, immancabilmente,
Monk usciva di casa, da casa sua, e lasciava Coltrane a suonare da solo, poi tornava e
ricominciavano a suonare insieme.

Ascoltate Monk’s mood dal live alla Carnegie Hall con la medesima formazione della
stagione al Five Spot, assaporate quel concentrato di speculazione intensa e ritmo
incalzante che si viene a creare tra i due musicisti e il resto del gruppo.

Thelonious Monk e il Sax Tenore

Monk ha avuto un rapporto decisamente molto importante con il sax, in particolare con il
sax tenore. Hanno suonato con e per lui: Coleman Hawkins, che Thelonious ha voluto al
suo fianco per la tenerissima ballad Ruby, my dear (contenuta nel disco Blue Monks del
1957), dedicata alla prima importante donna della sua vita, Rubie Richardson, il già
ricordato John Coltrane, Johnny Griffin, Charlie Rouse (che ha lavorato con lui per diversi
anni), Sonny Rollins e Charlie Parker (consigliata una splendida Well you needn’t da Monk
trane del 1973).

Nel 1957, però, incontrando un suo vecchio amico, Gerry Mulligan, decide di incidere un
disco con lo splendido interprete del sax baritono: ne esce un disco morbido e suggestivo
dal titolo Mulligan meets Monk, dove, accanto ai suoi classici come Straight No
chaser e ‘Round Midnight, si fa notare una trascinante Rhythm-a-ning, composta dallo stesso
TM.
Gli ultimi anni

Dal 1976, dopo alcuni episodi agli inizi degli anni settanta che ne denunciavano il precario
stato di salute (pare soffrisse di disturbi bipolari non diagnosticabili in tal senso in quegli
anni), a partire dal 1976 è ospite della baronessa Pannonica de Koenigswarter a
Weehawken nel New Jersey, alla quale aveva dedicato un pezzo contenuto in Brilliant
corners, anche questo disco del 1957.

In questi anni si chiude ancora di più nel suo mondo, non parla, non suona, fino alla morte
sopraggiunta per infarto il 17 febbraio 1982.

Per finire come cominciare

Si finisce cominciando, il cerchio si chiude e rimane la musica, splendida, a tratti misteriosa,


come Misterioso (ascoltatelo dall’omonimo album del 1958) è il titolo di un pezzo che
racchiude, a mio avviso una parte notevole dello spirito di Monk: la melodia è costruita su
uno schema in fondo assolutamente prevedibile (è un classico blues in dodici battute) e
avanza procedendo con una sorta di su e giù; eppure, eppure grazie a pochi tratti di colore,
Monk costruisce un pezzo surreale, irresistibile, di difficilissima esecuzione.

Signori: Thelonious Monk.

Nel 1944, e cioè poco più di settant’anni fa, veniva pubblicato uno dei brani più noti ed eseguiti del
repertorio jazz, ’Round midnight, firmato da una figura considerata generalmente eccentrica, “liminare”,
ma che in realtà aveva piena consapevolezza del proprio posto nella società e di come la musica potesse
rappresentare un mezzo utile per migliorare il mondo: Thelonious Monk.

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1. Musica e diritti civili

21 giugno 1969. Scoppia la prima rivolta gay, a seguito dell’ennesima retata della polizia. Dopo anni di
soprusi e provocazioni (queste ultime da ambo le parti, probabilmente), quella notte esplode la rabbia, una
rabbia incontenibile, premessa alla nascita del gay pride. Sempre quella notte, all’Haven, un locale notturno
illegale, si consuma un’altra rivoluzione, non civile, ma musicale, ad opera di un dj italoamericano, Francis
Grasso (1948-2001). Nasce la disco, la musica della libertà, dell’emancipazione, dell’amore, sostenuta dai
gruppi sociali fino ad allora vessati ed emarginati, come i neri, gli ispanici, i gay, i bianchi proletari. «Le
manipolazioni sonore e umorali di Grasso, i sound system di Alex Rosner, le ricerche musicali e gli ideali di
solidarietà di Mancuso sorsero tutti sullo sfondo della nuova democrazia nera e gay che regnava nei locali
newyorkesi e del potere liberatorio dei cambiamenti sociali. Anche la musica stava cambiando. La ballabilità
del funk si era incrociata con la grazia del soul ed era emerso un nuovo sound»[i]. Era la nata la disco.

La disco music, al di là di quello che poi è diventata in anni successivi, ha fatto da sfondo a un’era di
drammatici cambiamenti sociali. È la colonna sonora della fuga da una realtà fatta di guerra (quella del
Vietnam), crisi petrolifera e profonda recessione economica. E a mano a mano che i pregiudizi sui neri e gay
iniziano ad attenuarsi, è anche la musica giusta per festeggiare nuove libertà, con il suo straordinario e
innovativo mix di R’n’B, ritmi latini e ritmi funk.
Ho fatto questo riferimento iniziale alla disco per due motivi. Il primo è sottolineare ulteriormente quanto sia
stretto il legame tra sviluppi musicali e dinamiche sociali. Ogni rivoluzione, ogni rivendicazione di diritti ha
la propria colonna sonora. Il secondo motivo è dimostrare come il jazz possa essere considerato il genere
musicale per eccellenza nel panorama della musica di protesta, soprattutto perché storicamente è il primo
grande genere musicale nato in un contesto di violazione dei diritti.

2. Alle origini del jazz

Sappiamo bene come alcuni tra i generi musicali extracolti più ascoltati al mondo (hip-hop, rap, reggae, jazz
o blues) trovino in Africa le proprie lontane radici storiche, culturali e, se vogliamo, ideologiche. Il jazz nasce
dalla convergenza di culture africane ed europee nelle colonie nordamericane, in quell’oscuro e tragico
processo che va dal xvi al xx sec. e che conosciamo come «tratta degli schiavi»[ii]. Parliamo di circa venti
milioni di persone. Questo immenso spostamento di uomini ha comportato una convergenza tra culture
come mai si era avuta fino ad allora, per caratteristiche e modalità. Dal punto di vista musicale, approdano
negli USA strumenti africani (come il banjo), pratiche musicali legate sia alla danza che ai canti (come i canti
di lavoro). Nelle piantagioni risuonano i field hollers, un richiamo, una richiesta d’aiuto, un lamento solitario,
un «grido lungo, forte, musicale»[iii]. Il passaggio successivo sarà la trasformazione in canto sacro,
nello spiritual.

Questo accade nelle colonie inglesi (Virginia, Carolina, Georgia), ma non in Lousiana, a New Orleans. Qui
approdano gli schiavi africani provenienti dal sud del Marocco, quelli che poi saranno chiamati “creoli”,
riferendosi con questo termine ai neri di pelle chiara, nati da genitori bianchi e neri, con nomi francesi. Come
è stato scritto, la loro è una musica swingante, influenzata dalla cantillazione coranica, che preferisce
strumenti a corda portatili a scapito della trama poliritmica[iv]. Negli anni Sessanta del Settecento i francesi
cedono la Lousiana agli spagnoli, che fanno di New Orleans una città danzante, peraltro è legata alla vicina
Cuba da notevoli scambi commerciali. Si crea allora una tale commistione da produrre una musica afro-
mediterranea-cubana, soprattutto in forma di danza, una danza che è una sorta di religione solidale, basata
sull’assistenza e la resistenza, fisica e culturale, degli schiavi.

Il passo successivo sarà la nascita di una nuova figura, quello dell’entertainer, l’intrattenitore, che ingloba nel
proprio repertorio canti delle piantagioni e composizioni originali dalle sonorità nostalgiche e raffinate,
affrontando, con la musica, una società antagonista che aveva relegato i neri al ruolo di perdenti[v].

Alla fine dell’Ottocento ormai pianisti e compositori neri riescono a ritagliarsi un proprio spazio. «Andava
prendendo corpo una scuola pianistica costituita da compositori/improvvisatori che cucivano insieme danze
di provenienza orale, con un’abbondanza di sincopi afroamericane»[vi]. Questo stile, nel quale confluisce
anche il ritmo di marcia per banda e il cakewalk (una danza che risale alla schiavitù e che diventa, per i neri,
la «parodia della cerimonialità dei padroni»[vii]), prende il nome di ragtime (pensiamo a Scott Joplin,
James Scott o Joseph Lamb), uno stile che sprigiona un’irresistibile energia propulsiva, un’inesauribile
invenzione melodica e una pervasiva sicurezza ritmica, il tutto colmo di un potente ottimismo.

Nel frattempo, con la liberazione degli schiavi e il riconoscimento della cittadinanza americana realizzato dal
presidente Lincoln nel 1863, quegli uomini che erano vissuti in catene, dopo una prima drammatica reazione
di disorientamento e di disadattamento, si trovano a dover ridefinire il loro nuovo ruolo, la loro nuova
identità, le proprie ambizioni e le proprie speranze. In molti paesi rurali del Sud, però, la situazione rimane
ancora drammaticamente conflittuale, per la fortissima opposizione al proclama di emancipazione dei neri,
che si manifesta soprattutto con l’applicazione di leggi discriminatorie e frequenti episodi di linciaggio. È in
questo quadro che negli anni Novanta dell’Ottocento, nella zona del Delta del Mississippi, nella zona tra la
Georgia e il Texas orientale, nasce una lirica musicale di ambiente rurale per voce solista e strumento
accompagnatore, il blues, «frutto culturale della prima generazione di neri contadini nati dopo la schiavitù, i
quali si trovarono ad affrontare nuovi problemi di indipendenza economica, adattamento sociale,
organizzazione familiare ed espressione individuale. Il blues scaturì così dalle nuove sfide che i giovani neri
nati liberi dovettero affrontare in una società sempre più ostile e violenta»[viii].

Intanto Chicago inizia a riempirsi di musicisti provenienti da New Orleans, in particolare bianchi, che vanno
ad esibirsi soprattutto nei cabaret. In questo contesto, siamo nel 1916, nasce la ODJB (Original Dixieland
Jass Band). “Dixieland” si riferisce geograficamente all’intero sud della Louisiana. Ma ci sono già diverse
forme di “jazz”. A San Francisco e Chicago il jazz indica la musica polifonica e swingante dei neri provenienti
da New Orleans; a New York indica la polifonia frenetica della ODJB. Stiamo parlando, quindi, di jazz nero e
di jazz bianco.
3. Jazz e impegno civile

La storia del jazz, naturalmente, continuerà arricchendosi di personaggi leggendari come Louis Armstrong,
Earl Hines, Bix Beiderbecker, Duke Ellington e tutti i grandi strumentisti/improvvisatori/compositori che
hanno reso sempre più complesso l’universo jazzistico. Spostiamo però ora l’attenzione prima su alcune
considerazioni generali e poi su una delle figure più eccentriche della storia del jazz.

Va detto che la storia del jazz ci indica un percorso e uno sviluppo per nulla rigido e monolitico. Questo
genere musicale, pur essendo stato inevitabilmente travolto, al pari di qualsiasi altro, dalla inarrestabile
epidemia della standardizzazione e della commercializzazione, è sempre stato fortemente condizionato dal
contesto nel quale si è via via sviluppato, in quel tempo e in quel luogo, pertanto sempre profondamente
“attuale” e, per gli stessi motivi, sempre profondamente diverso. Il jazz «va consumato caldo, con
partecipazione di chi ascolta al momento creativo; deve maturare nella realtà presente, riflettere tale realtà
così intensamente come nessun’altra musica è stata mai capace di fare, e quindi rinnovarsi
incessantemente»[ix].

C’è chi però ritiene che questo incessante rinnovamento abbia subito un qualche rallentamento se, all’inizio
degli anni Novanta, Larry Kart ha sostenuto che lo stato del jazz in quel periodo poteva essere ben riassunto
dal detto «The old ones are going, and the young ones aren’t growing». Il jazz, cresciuto a ritmi così rapidi da
esprimere, nell’arco di una ventina d’anni dalla sua nascita, almeno tre figure principali (Louis Armstrong,
Sidney Bechet e Jelly Roll Morton) e una serie di capolavori innegabili, con l’approssimarsi della fine del xx
secolo, inizia a dare segni di “invecchiamento” – per usare un lessico adorniano. Questa musica gloriosa
inizia a perdere appeal, non per mancanza di popolarità, quanto per la sua vitalità artistica, che pare essersi
incrinata. Capace di rinnovarsi al proprio interno, a un certo punto della sua storia il jazz sembra girare su se
stesso, anche quando si apre alla fusion o alla world music[x].

Ciononostante, gettando uno sguardo alla storia del jazz, potremmo dire che si sono sviluppate tante forme di
jazz per quanti contesti sociali e geografici ne hanno visto la nascita: jazz bianco, jazz nero, jazz americano,
jazz europeo, jazz italiano, ecc. L’espansione del jazz in tutto il mondo ha comportato la modificazione del
suo linguaggio originario, «grazie a una serie di evoluzioni/rivoluzioni che [hanno palesato] la sua
dirompente vitalità, tanto da far nascere non solo stilemi rapportati al mutare delle situazioni sociali ed
economiche americane prima e mondiali poi, ma addirittura da coinvolgere anche jazzmen – soprattutto
europei – che via via si [sono appropriati] dei linguaggi jazzistici immettendo in essi elementi derivanti dal
loro patrimonio etnico così da creare altri linguaggi caratterizzati da una evidentissima originalità»[xi].

Il jazz ha sempre espresso sentimenti ambivalenti, ma sempre fortemente definiti: speranza, gioia,
disperazione e rabbia. Il jazz, insieme ad altri generi musicali, è il simbolo della libertà e del riscatto dei neri e
degli afroamericani. E la sua storia è stata costellata di personaggi leggendari vissuti come simbolo di
insubordinazione alla supremazia dei bianchi, ma anche di fratellanza, di uguaglianza dei diritti, di
rinnovamento culturale. Il jazz, il soul, il reggae, lo ska, costituiscono tutti dei modelli musicali, ma anche e
soprattutto dei modelli di cultura underground «nei quali i rapporti di genere, di classe e generazionali si
potrebbero attivamente rimodulare in senso più egualitario. In questo momento hanno preso forma una
nuova relazione con il mondo blackness e una nuova politica razziale, che hanno resistito negli anni del
dopoguerra»[xii].

Il jazz, nell’America della Guerra fredda, nell’America degli anni Sessanta, si presenta come il megafono per
le istanze emancipatrici soprattutto della comunità afro-americana. L’espansione del jazz in quegli anni si
accompagna alla convinzione ideologica di una sua presenta color blindness, l’indifferenza del jazz al colore
della pelle: poiché il jazz è ormai una musica di diffusione universale, esso trascende le questioni razziali. Ma
non è davvero così. Il sindacato dei jazzisti neri è discriminato, i contratti con le case discografiche sono dei
contratti capestro, il pubblico non è integrato, le opportunità di lavoro sono limitate. Nell’immediato
dopoguerra – lo sappiamo – uno dei problemi più scottanti negli Stati Uniti è proprio quello della
segregazione razziale. Bianchi e neri sono divisi in ogni attività quotidiana della società civile. Intorno agli
anni Sessanta l’esigenza di far riconoscere i diritti civili di tutta la popolazione, senza discriminazioni, si fa
sempre più sentita. Cosa fanno i jazzisti in quel clima? Già dopo il 1955 vengono realizzati brani come
la Freedom Suite del grande sassofonista e compositore Sonny Rollins e Haitian Fight Song di Charles
Mingus, grandissimo contrabbassista, pianista e compositore. Nella seconda metà degli anni Sessanta si fa
sempre più assiduo e intenso l’impegno di jazzisti come Dizzy Gillespie, Count Basie, Duke Ellington, Louis
Armstrong o Abbey Lincoln, la quale, nel 1960, con il poeta Oscar Brown Jr. e il marito Max Roach, batterista
e compositore, mette a punto il disco-manifesto Freedom Now Suite!, sulla cui copertina un gruppo di
uomini bianchi e neri, seduti al bancone di un bar, rivolgono allo spettatore un calmo sguardo di sfida. Il
bancone del bar, ovviamente, simboleggia il gesto di protesta di quattro studenti universitari del Greensboro
che il primo febbraio del 1960 s/i siedono, in un bar, nel posto riservato ai bianchi. Tra i jazzisti impegnati
sul fronte della difesa dei diritti dei neri, compare anche il “solitario” Thelonious Monk.

4. “Melodious Thunk” [xiii]

Thelonious Sphere Monk nasce il 10 ottobre 1917 a Rocky Mount, nella Carolina del Nord. A quattro anni,
con i genitori Barbara e Thelonious Sr., si trasferisce a New York, dove avrebbe vissuto per i cinque anni
successivi. Inizia lo studio del pianoforte classico attorno agli undici anni, ma la sua predisposizione per
quello strumento era emersa già da tempo, anche perché la musica, tra i Monk, è di casa. «Thelonious Monk
aveva una conoscenza e un gusto grandissimi per la musica classica occidentale, per tacere della sua
conoscenza enciclopedica degli inni, della musica gospel, delle canzoni popolari americane e della quantità di
arie poco note che sfuggono a una semplice categorizzazione. Per lui, era tutta musica»[xiv].

A diciassette anni, Monk lascia il liceo Stuyvesant per proseguire la sua carriera musicale, che inizialmente
l’aveva visto impegnato come pianista e organista accompagnatore di songs gospel nelle chiese e,
successivamente, attivo nella sua prima band, a partire dal 1933, che gli consente di muoversi nel Paese. Sono
anni importantissimi per la formazione di Monk, che in questo suo girovagare ha la possibilità di ascoltare i
grandi pianisti della tradizione stride[xv], come Fats Waller, Art Tatum o James P. Johnson. Nel 1941, inizia
a lavorare al Minton’s club di Harlem, dove continua a sviluppare uno stile che poi verrà conosciuto come
“bebop”, stile che inizia ad arricchirsi di un’accentuata tendenza alla riarmonizzazione e alla rimelodizzazione
di canzoni standard. Accanto a Charlie Parker e Dizzy Gillespie, Monk esplora nuove vie, privilegiando uno
stile veloce e altamente creativo, che avrebbe poi aperto le strade al jazz moderno. Monk inizia a incidere nel
1944, suonando insieme a Coleman Hawkins, che in quell’anno l’aveva invitato a suonare nel suo quartetto,
allo Yacht Club. Inizia così la sua carriera discografica, che dalla Prestige lo farà approdare, all’inizio degli
anni Sessanta, alla Columbia.

Nel 1951 viene arrestato insieme al pianista Bud Powell per possesso di stupefacenti. All’arresto seguono
sessanta giorni di galera e il ritiro (fino al 1957) della cabaret card, indispensabile per potersi esibire nei
club. Nel 1958 viene nuovamente arrestato, ingiustamente, per disturbo della quiete pubblica, e la sua licenza
viene revocata per la seconda volta, ma proprio verso la fine degli anni Cinquanta Monk inizia a vedersi
tributato il successo meritato e le incisioni fatte con l’etichetta Riverside (ma anche con altre due etichette
indipendenti, la Blue Note e la Prestige[xvi]) vanno così bene da fruttargli, nel 1962, un contratto con la
Columbia, label anche di Miles Davis, Dave Brubeck e Duke Ellington. Il successo discografico va di pari
passo con quello concertistico, suggellato da una performance, nel dicembre del 1963, alla Philarmonic Hall
di New York.

Nei primi anni Settanta, Monk è impegnato in alcune mostre personali e incisioni in trio per la Black Lion di
Londra, ma i concerti iniziano a essere sempre di meno. È il preludio a un graduale e inesorabile isolamento,
che porterà Monk al silenzio, non solo musicale. Dopo un concerto alla Carnegie Hall, nel marzo 1976, Monk
si ritira definitivamente dalle scene. Morirà il 17 febbraio 1982 all’ospedale di Englewood, nel New Jersey, a
seguito di un ictus. Al suo fianco, ancora una volta, la moglie Nellie, molto più che una compagna di vita. Si
erano conosciuti quando lei aveva appena dodici anni e lui quattro anni di più. Per mezzo secolo, questa
donna è stata una figura insostituibile, allo stesso tempo moglie, manager, madre, organizzatrice, contabile e
musa ispiratrice. È la seconda figura femminile che ha segnato la vita di Monk. L’altra è la ricca ereditiera e
mecenate Kathleen Annie Pannonica de Koenigswarter, la “baronessa del jazz” (nota anche come “baronessa
del be-bop”), donna che molto ha avuto a che fare con il sostegno a Monk e alla sua musica. Sarà lei, nel 1957,
a consentirgli di recuperare la cabaret card che gli era stata ritirata nel 1951.

Proprio negli anni Cinquanta, come detto, la critica e il pubblico smettono di ignorare Monk, probabilmente
perché fino ad allora il più disteso e conciliante cool jazz aveva impedito un’adeguata digestione del jazz
monkiano, decisamente più dissonante, più rude e più trasgressivo. A questo si aggiunge la “stranezza” dei
suoi comportamenti: «i goffi balli che compie mentre il suo gruppo sta suonando, i bizzarri cappelli che
indossa in concerto, l’abitudine di girare in tondo e naturalmente i lunghi silenzi»[xvii]. Eppure, Robin D.
Kelley, uno dei principali studiosi del pianista americano, è convinto che la solitudine e la stranezza di Monk
non restituissero in toto le caratteristiche di questa bizzarra figura. Secondo Kelley, una certa responsabilità
nell’aver cristallizzato nell’immaginario comune Monk come una persona timida e sfuggente, circondata da
un alone di mistero, è da attribuire alla campagna pubblicitaria di lancio di un album del 1948. In verità,
Monk, sì, era questo, ma non solo questo. Era anche un marito e un padre amorevole, un vicino di casa
allegro, un insegnante generoso. «Thelonious Monk – scrive Kelley – visse appieno nel mondo, perlomeno
finché il declino mentale e fisico non lo costrinse al ritiro, rendendo a quel punto il suo mondo
apparentemente molto più piccolo, chiuso in se stesso e a tratti impenetrabile. Ma per la maggior parte della
vita Monk interagì con il suo ambiente e ne fu affascinato. Politica, arte, affari, natura, architettura, storia,
non c’era argomento che considerasse estraneo, ed era il tipo che amava le belle discussioni, a dispetto dei
racconti sulla sua incapacità di comunicare»[xviii].

Monk è considerato il pianista jazz più innovativo e creativo dell’era Bepop. Nella sua ricchissima biografia,
R.D. Kelley traccia un percorso decisamente originale della vita e della carriera di Monk, attraverso un
approccio profondo e sofisticato, che potesse rendere giustizia del contributo offerto da Monk alla musica
americana e alla musica jazz internazionale. Come ha giustamente rilevato Larry A. Greene, il sottotitolo del
lavoro di Kelley, “Storia di un genio americano”, descrive con precisione l’ampiezza e la profondità sia di
questo lavoro di ricerca che, soprattutto, la collocazione di Monk nel panorama musicale statunitense. Quello
di Monk è un approccio al jazz fortemente originale, che si allontana, pur non tradendolo mai del tutto, dal
terreno swing delle big band degli anni Trenta, dando l’avvio alla rivoluzione Bepop[xix].

La sua è una musica dai caratteri ambivalenti, oscillante tra assoluta libertà e ferreo rigore, tra
sperimentalismo e tradizione. Quando Monk è solo, il suo stream musicale scorre a tratti, in una maniera che
quasi potrebbe apparire stentata (Jürgen Arndt ha parlato di «poetica dell’esitazione»[xx]), per via del suo
essere spezzata, frammentata, “cubistica”. La discontinuità propria del be-pop con Monk «arriva alle estreme
conseguenze, rompendo l’ultimo legame tra una frase e l’altra, sostituendovi l’irruzione dell’imprevisto,
dell’inaudito»[xxi]. Quando, invece, il pianista-compositore di Rocky Mount si esibisce in formazione, «la
sua musica appare legata ferreamente a un tema, a una scansione ritmica regolare»[xxii], dimostrando, con
ciò, di tenere comunque sempre aperto un canale di comunicazione con la tradizione. Come giustamente
rilevano Cappelletti e Franzoso, la musica afro-americana sperimentale non tende a innovare poggiando su
vezzi o atteggiamenti intellettuali (o intellettualistici), bensì elaborando una sorta di graduale rivoluzione
nella continuità. L’ambivalenza di Monk, allora, riesce a tenere insieme uno stretto legame con la tradizione,
pur aprendo a un universo armonico dissonante e indefinito. L’ambivalenza diventa allora ambiguità,
ambiguità che può arrivare a investire tutti i livelli: strutturale, armonico, melodico, timbrico. Il risultato è
una musica perennemente sghemba, imprevedibile, pungente, per nulla rassicurante, fatta
di cluster, cromatismi, dissonanze e interruzioni improvvise, pur nel rigore della forma. È una musica
“sbagliata”, che accoglie la nota fuori posto, il dito che scivola erroneamente su un tasto («I made the wrong
mistakes», sembra che Monk abbia detto una volta), proprio perché questi elementi di fibrillazione rendono
il risultato finale imprevedibile, sintesi ed emblema della varietà e della ricchezza del mondo.

Molti artisti, nel mondo del jazz, hanno elaborato un proprio stile distintivo, una propria tecnica strumentale,
ma sono pochi quelli che hanno incarnato uno spirito nuovo e anticonvenzionale (o non-convenzionale)
come quello espresso da Monk. Un pianista spesso accusato di ineptitude, soprattutto agli inizi della sua
carriera, ma che poi è diventato – come ha sostenuto Givan – una delle icone del jazz, venerato tanto come
pianista quanto come compositore, entrato nell’immaginario comune come l’archetipo dell’intellettuale
modernista e dell’artista anticonformista[xxiii]. L’errore, quindi, in Monk non è legato a una qualche forma
di inettitudine o alla mancanza di tecnica. È vero, l’approccio al pianoforte di Monk (il modo in cui utilizza
l’avambraccio, il polso, le mani, le dita), finanche la scelta della diteggiatura paiono elementi di un tutto
disorganico, quasi approssimativo, laddove invece sono il frutto di una scelta consapevole, studiata in
funzione di un universo espressivo[xxiv]. Si tratta quindi di componenti di un «linguaggio che è gestuale
prima che stilistico, o entrambe le cose allo stesso tempo, dato che questa musica funziona come linguaggio
sonoro in virtù del linguaggio gestuale che la supporta e la fa vivere. […] Vedere Monk suonare è essere
partecipi di un’esperienza sensoriale totale, che collega gesto ed ascolto, suono e visione (e partecipazione
cinestetica)»[xxv].

Le poche cose dette fin qui restituiscono – seppure parzialmente – il mosaico variopinto del pianismo e della
creatività musicale di Monk, un artista che non ha dato vita a una scuola. Non volontariamente. Come tutti
coloro che si caratterizzano in maniera geniale, anche Monk aveva un linguaggio e uno stile così peculiari
dall’essere di fatto inimitabili, pena lo scimmiottamento, la caricatura. È quindi particolarmente difficile
parlare di eredità di Monk[xxvi], quanto meno – per come si è detto – se si utilizza il parametro della
“scuola”. Al di là delle caratteristiche specifiche di un lavoro o di un’attività a seguito del rapporto con il
lavoro o l’attività di qualcun altro, in linea di massima il risultato è sempre originale. E allora dovremmo
parlare più correttamente di influenza, un’influenza che Monk ha esercitato ben al di là delle proprie
intenzioni, in parte contribuendo in maniera decisiva allo sviluppo del be-pop, in parte liberando il jazz da
quell’ombra di “prevedibilità” che avrebbe potuto consumarne la carica creativa. Elaborando quella che
potremmo definire “poetica dell’imprevedibilità”, Monk ha rappresentato, per usare le parole di Zenni, il più
genuino e il più anomalo dei compositori bop: «anomalo per i tratti enigmatici e spiazzanti della sua musica,
genuino perché a volte questi stessi tratti ci appaiono come una sorta di iperbole del bepop»[xxvii].
Una sera, durante una scrittura al Five Spot, tra un set e l’altro,
Monk venne trovato dall’altra parte della strada. Ciondolante e
tutto preso a guardare la luna. Gli chiesero se si fosse smarrito.
Rispose serio che no, non si era perso ma che forse il Five Spot
stesso si era perso. Nonostante l’espressione da bambino che
conservò tutta la vita, Thelonious Monk amava fare lunghe
passeggiate mettendo su l’aria di chi sa il fatto suo. Del resto,
era cresciuto a San Juan Hill nel west side di New York.
Crocevia di etnie, la zona negli anni 20 e 30 del ‘900 era famosa
per la guerra tra poveri costantemente in atto fra i suoi abitanti: i
bianchi contro i neri, la polizia contro i neri, ma anche gli stessi
neri del sud contro i neri delle Indie occidentali. Anche
attraversare un isolato che non fosse il proprio poteva
accendere un focolaio di guerriglia. Monk si fece presto la
nomea di uno che era meglio lasciar stare.

Figlio di musicisti dilettanti si innamorò del piano giovanissimo e


giovanissimo palesò del talento cristallino, del quale era
pienamente consapevole: “Gli insegnanti sai, nessuno ha dovuto
mai costringermi a studiare. Avevo del talento, capite?”. 
Durante l’adolescenza divideva il suo tempo tra la musica e lo
sport. Fortissimo a basket e imbattibile a ping-pong. Col suo
amico Sonny se ne andavano in giro per il quartiere e le
ragazzine se ne innamoravano. Quel suo modo di suonare il
piano, poi. Sua madre le invitava a casa ad ascoltarlo e loro
rimanevano lì per ore. I primi ingaggi furono per dei rent parties,
feste organizzate in casa di privati. Monk aveva sedici anni e
guadagnava dai tre ai quindici dollari, una signora cifra per i
tempi della grande depressione. Qualcosa lo portava alla
madre, il resto lo teneva per sé e lo spendeva per darsi un tono.
Gli piacevano i vestiti e, in particolare, aveva una singolare
ossessione per i cappelli. Cresciuto dalla madre nella chiesa
battista Monk, insieme a uno scalcinato complesso, prese parte
al viaggio itinerante di due anni di una predicatrice e guaritrice
pentecostale. Suonavano dei gospel in uno stile vicino a quello
del rhythm and blues che avrebbe furoreggiato qualche decade
dopo. Nonostante i trasalimenti estatici ai quali assistette, il suo
atteggiamento nei confronti della religione fu sempre
recalcitrante. Il fratello, diventato ministro dei Testimoni di
Geova, lo invitava a raccogliersi con lui nelle letture della Bibbia
e lui declinava gentilmente rispondendo che era lui, Dio. Quasi
paradossalmente, negli anni 50, durante la sua celebre
permanenza in quel Five Spot, locale ritrovo di artisti e letterati
della beat generation tra cui Jack Kerouac, grazie a quell’aura
concentrata e trascendente,  gli venne conferita la nomina di
gran sacerdote del bebop. Tornato a New York nell’inverno del
‘36, si fece le ossa partecipando alle jam session pianistiche a
casa di James P. Johnson. Trovò il consenso di molti musicisti
veterani di stride piano di cui conosceva perfettamente lo stile:
Teddy Wilson, Art Tatum, Fats Weller. Sapeva decisamente il
fatto suo.
Nel ‘41 fu chiamato a essere il pianista residente del Minton’s
Playhouse, il bar di un albergo a Harlem adibito a jazz club.
Insieme al batterista Kenny Clarke, costantemente alla ricerca di
nuove idee musicali, gettarono inconsapevolmente le basi
stilistiche per quello che sarebbe stato il nuovo jazz: il bebop. I
pezzi erano stravolti e diventavano più difficili da suonare.
Espedienti come la sostituzione degli accordi originali dei pezzi,
l’utilizzo di accordi dissonanti fino a un nuovo modo di suonare il
ritmo si dice servissero a scremare l’impressionante numero di
musicisti che voleva salire sul palco durante le jam session.
Monk poteva essere non tenero con i musicisti più scarsi,  anche
se, tuttalpiù, si limitava a dire tra sé e sé “Oh, man” con l’aria
perplessa. Se non vi rimaneva anche dopo l’orario di chiusura
per lavorare ai suoi brani, usciva dal Minton’s nel cuore della
notte e raggiungeva il Monroe’s Uptown House dove c’era Dizzy
Gillespie e poi, ancora, alle prime luci dell’alba casa di qualche
amico che avesse un pianoforte, svegliando tutti in uno stato di
febbrile eccitazione. Dormiva pochissimo per poi recuperare
tutto stando uno o due giorni a letto. A volte si addormentava
direttamente al piano. Fumava spinelli d’erba e talvolta non
disdegnò la cocaina, non cadde, però, come la stragrande
maggioranza dei suoi coetanei, nella trappola dell’eroina.
Considerato da molti un eccentrico, in realtà ebbe a che fare
con una forma di disturbo bipolare alternando momenti di
euforia, durante i quali lavorava instancabilmente giorno e notte,
a lunghi periodi di introversione. Non spiccicava una parola e
poteva chiudersi anche per due settimane in casa. In camera
sua e a letto per la precisione. Dagli anni 60 in poi questi
episodi furono sempre più violenti. Monk che nelle fasi maniacali
poteva diventare anche aggressivo, durante le fasi depressive
più acute semplicemente non reagiva più a nessuno stimolo. Se
ne stava lì senza dire una parola e sembrava non riconoscere
nessuno. In quel decennio cominciò un lungo viavai tra cliniche
ed ospedali psichiatrici, fu sottoposto anche a elettroshock.

Qualcuno definì il suo stile naif, primitivo, grottesco ma, in lui,


ogni nota era parte di un disegno più grande, logico e chiaro.
Aveva rinunciato alle volate veloci sulla tastiera. Roba alla Bud
Powell, di cui era stato mentore. Preferiva, ai fiumi di note,
lunghi silenzi tra una frase e l’altra. “Il silenzio è il rumore più
forte del mondo”, disse. Con le dita piatte su quei tasti,
sembrava percuoterli. Ebbe a dire delle sue composizioni che le
avrebbe capite anche un deficiente. In realtà ci si scontrarono
schiere di leggende: da Coltrane, a Sonny Rollins, a Max
Roach. Oscar Pettiford, in studio, imprecò per tutte le
venticinque take che ci vollero per registrare Brilliant Corners.
Perché proprio a me, continuava a chiedersi. Vennero quasi alle
mani. Come accompagnatore, non lasciava  granché spazio. 
Sul palco poi, bisognava stare attenti tutto il tempo perché la
direzione che avrebbe preso la musica la stabiliva lui con quel
modo di accennare continuamente alla melodia del pezzo,
smontandola e ricomponendola, salvo poi alzarsi dal piano per
una buffa danza improvvisata o per andare al bancone del bar o
direttamente in cucina, a parlare col lavapiatti di chissà cosa.

Fu estremamente moderno e personale. “Un genio è colui il


quale è il più simile possibile a sé stesso” insegnò a Steve Lacy.
Al pianoforte reagiva a ogni stimolo introspettivo o esterno che
fosse. Diceva che il jazz è dappertutto e che il jazz è l’America
espressa in musica. Adesso immaginatelo in auto col suo amico
e agente Harry Colomby, su una strada innevata. Monk sta
guidando come un folle. A un certo punto sta per provocare un
incidente spaventoso ma con una manovra repentina alla fine
salva la situazione. Scende dalla macchina e dice: “Bè, meno
male che alla guida c’era un automobilista esperto come me”.
Avrete così un’idea di come trattasse la sua musica spingendola
al limite, di come creasse un percorso irto di ostacoli per uscirne
poi usando dell’ironia. Si ritirò dalle scene alla metà degli anni
70. Passò il tempo che gli rimaneva a casa dell’amica e
mecenate Pannonica de Koenigswarter nel New Jersey. Chiuso
nella sua camera, guardando la tv in giacca e cravatta.

Musica Jazz – Aprile 2002 –  Esistono poche certezze nel jazz, proiettato com’è nel tempo
reale, nella composizione…   Esistono poche certezze nel jazz, proiettato com’è nel tempo
reale, nella composizione istantanea, nella continua metabolizzazione di ciò che gli sta
intorno. Tra queste ce n’è una che mette senz’altro tutti d’accordo: Monk è un vero maestro.
Esistono decine di testimonianze, racconti, anedotti, spesso amplificati dalla bizzarria del
personaggio e dai suoi inquietanti silenzi, che confermano questa tesi.

Miles Davis, ad esempio, afferma: “Monk mi ha insegnato composizione jazz più di altri
nella 52ma strada”. Il figlio di Monk, Thelonious Jr, racconta che Paul Jeffrey, l’ultimo
sassofonista del gruppo, era solito andare quasi tutti i giorni nella loro casa di Manhattan a
San Juan Hill con un quaderno pieno di domande sui brani suonati la sera prima, sui
voicings, le sostituzioni e Monk aveva per tutte una risposta. Kenny Barron ha invece
acquisito, attraverso i suoi “discepoli”, Charlie Rouse e Ben Riley, molti dei segreti delle
composizioni monkiane: “Suonando con loro (nel gruppo Sphere) ho capito perché la musica
di Monk è unica. Tutti suonano Round Mindnight o Well you needn’t ma con i voicings di
Monk è più difficile”.

Quei brani sono una sfida anche per esporre la semplice melodia. Alcune composizioni sono
complesse e le progressioni, assolutamente uniche, non ti consentono di suonare i tuoi
personali cliche”

È estremamente interessante scoprire come si è attuata questa personalissima forma di


“didattica” tra il Maestro e lo stuolo di musicisti che hanno bussato quotidianamente alla
porta di quell’appartamento al 243 West della 63ma Strada ove Monk ha trascorso
praticamente tutta la sua vita.
Si è trattato quasi sicuramente di scambi molto poco verbali. Monk non è mai stato un gran
parlatore del resto, ma poteva contare, oltre al suo straordinario talento musicale, su alcune
capacità quasi “paranormali”.
Sempre Thelonious jr confida che Bud Powell e il padre erano capaci di stare per tre, quattro
ore chiusi in una stanza senza pronunciare una parola.
Al termine dei loro incontri si salutavano calorosamente pienamente soddisfatti. Ronnie
Mathews, uno dei pianisti che forse più di altri ha approfondito lo studio della musica di
Monk, afferma: “Molte cose di Monk non erano verbali, eppure sentivo lo spirito giusto
intorno a lui. Non aveva problemi a mettersi al pianoforte e a suonare. Non aveva gelosie o
strani ego trips. Sapeva di avere talento”.

Anche Coltrane, sempre secondo il figlio, aveva un rapporto particolare con lui:
telepatico. Ed è proprio a Monk che Trane si rivolge per la sua “rinascita” umana e musicale.
La disponibilità di Monk era proverbiale e la sua casa era sempre aperta a tutti.
“Miles veniva spesso a casa nostra” (Thelonious jr) “ed era sempre mite ed affabile”.
Un’immagine completamente diversa quindi da quella impressa nell’immaginario collettivo
che vede un Davis sempre irascibile e di cattivo umore.
Indubbiamente Miles sapeva di essere al cospetto di un grande Maestro e, forse anche con un
pizzico di furbizia, aveva bisogno di consolidare le proprie conoscenze armoniche ma
l’imponenza di Monk, artistica ed umana, sortiva indubbiamente i suoi effetti. (Monk era alto
quasi un metro e novanta e pesava, in età matura, un centinaio di chili. Si può dire che si è
trattato di una “didattica” basata su molteplici aspetti umani e musicali: grande carisma,
disponibilità, talento straordinario, doti telepatiche, full immersion, intelligenza pronta e
vivace, humor pungente.
L’ironia appunto…
Art Blakey era solito raccontare l’aneddoto di Al Mc Kibbon che, alla richiesta di
spiegazione di un accordo, si sentì rispondere da Monk: “Abbiamo suonato quel pezzo ogni
sera per tutto il tour e tu non sai se è giusto? Quindi hai sempre suonato l’accordo sbagliato?
Bene, vai avanti così e suonalo sul disco che stiamo incidendo, così i tuoi nipoti potranno
ascoltarlo e sapere quanto sei stupido”. Inutile dire che Monk non rivelò mai a Mc Kibbon
l’accordo giusto.
Anche Cedar Walton è stato vittima degli scherzi di Monk.
Una volta, di buon mattino, si era recato da lui per sentire appositamente un accordo del
bridge (o meglio “l’inside del brano” come diceva Monk) di Ruby my Dear. Il maestro,
ovviamente, dopo l’esposizione delle prime sedici misure evitava di suonare il resto
lasciando il povero Walton interdetto. Si trattava in realtà di uno scherzo, perché quando
Walton gli chiese esplicitamente di suonare quell’accordo, Monk acconsenti di buon grado.
L’ironia è comunque uno degli ingredienti principali della musica di Monk. “Come non
vedere nelle frequenti svolazzate a toni interi” ( Ronnie Mathews) “una sorta di grande
sorriso? Oppure in certi clusters o negli sviluppi della melodia? Alcune parti di  Little Rootie
Tootie suonano come dei fischi del treno e mi fanno sorridere”.
Anche Kenny Barron è d’accordo: “Un aspetto peculiare del metodo compositivo e di
costruzione dell’improvvisazione di Monk è proprio lo sviluppo melodico”.
A questo proposito dice Rachel Z: “Straight no chaser è un esempio di sviluppo di una
melodia cromatica, mentre Well you needn’t sviluppa una idea per quarte, Rhythm a
ning spiega come suonare bebop in modo realmente intervallico sui rhythm changes. I suoi
brani suonano moderno. Se metti un tempo hip hop o di altro tipo una composizione di Monk
suona subito in modo “contemporaneo”.
Anche i luoghi giocano indubbiamente la loro parte nella trasmissione della musica del
Maestro. Monk vive tutta la sua vita nel cuore del jazz: New York. Non ha bisogno come
altri di spostarsi: è già nel posto giusto.
Vive infatti in un quartiere di Manhattan ad alta densità nera, lo stesso dove stanno James P.
Johnson e Willie The Lion Smith.
San Juan Hill è un quartiere “risanato” da Roosevelt dopo le numerose sommosse del 1905
nel quale sorgono parecchi caseggiati moderni (per l’epoca) ad affitto calmierato.
L’appartamento della 63ma, dove abita la famiglia Monk, ha perciò quasi la connotazione di
una “scuola” di jazz dove il Maestro vive ed insegna attraverso la sua musica, i suoi esempi
e, soprattutto, il suo metodo.
Debbono comunque averne avuta di pazienza la mamma Barbara, prima, e la moglie Nellie,
dopo! Gente di ogni tipo, ad ogni ora del giorno e della notte, musicisti strani, vestiti in
modo ancor più bizzarro con personalità spesso inquietanti.
Si trattava, in altre parole, di compagnie non molto raccomandabili soprattutto quando in
casa si hanno dei bambini da crescere (Thelonious Jr “Tootie” e Barbara “Boo Boo”). Eppure
la personalità di Monk metteva tutto al posto giusto con grande dignità e importanza.
Monk non solo era consapevole che quello stava facendo era giusto ma anche di altissimo
livello artistico.
I pochi eletti, scelti da Monk per suonare insieme lui, potevano applicare “sul campo” i suoi
insegnamenti.
Monk ha sempre avuto un grande fiuto nella scelta dei musicisti. Si provi solo a pensare al
poker vincente di tenoristi che si sono succeduti nel quartetto: Rollins, Coltrane, Griffin e
Rouse.

E le sezioni ritmiche? Ancora oggi all’ascolto dei suoi dischi si può apprezzare la
perfetta coesione del tandem basso/batteria: due musicisti sempre incollati al tempo e
contemporaneamente liberi di produrre swing.
Il merito è senz’altro nella qualità dei musicisti ma è proprio la presenza di Monk a fare la
differenza.
Steve Lacy racconta che Monk era solito consigliare: “Make the drummer sound
good”. È esattamente il contrario di quello che si pensa solitamente e cioè che sia il batterista
il principale responsabile nella produzione del beat. In realtà è il timing di ogni musicista,
soprattutto se solista, che “qualifica” ulteriormente il tempo e il suono della batteria.
Monk del resto era dotato di un tempo interiore senza eguali e tutta la sua musica, il “suo”
suono e soprattutto la sua tecnica sono costantemente al servizio del ritmo.
La scelta ad esempio di rinunciare quasi completamente all’articolazione delle dita (un
suicidio per un pianista!) è in realtà un’esigenza di natura ritmica e sonora. Le dita di Monk
sono delle bacchette o, meglio, dei mallets per poter percuotere meglio i tasti come un
vibrafonista o un batterista.
I movimenti del corpo assecondano la “pressione” delle dita piatte per creare una dinamica in
pianissimo oppure per caricare i tasti con tutto il notevole peso del corpo. Nessun gesto è
sprecato.
È tutto al servizio del suono e del ritmo.
Spesso Monk abbandona l’accompagnamento lasciando il solista di turno in trio con basso e
batteria. Una pratica divenuta oggi consuetudine ma per quegli anni assolutamente anomala e
sconcertante. Si pensi infatti che il modello di ritmica corrente degli anni quaranta era quello
di Basie ove la chitarra creava insieme a basso e batteria un continuum sonoro su cui si
inserivano gli strappi del piano. Anche nel bebop la ritmica piano, basso, batteria è
incessante e verbosa.
Monk invece suona per sottrazione. Quando l’assolo sta crescendo abbandona il campo e
lascia il trio solista/basso/batteria in solitudine.
A ben vedere tale procedura è assolutamente in linea con il Monk pensiero. In altre parole, si
tratta ancora di una sfaccettatura del metodo del grande Maestro: il silenzio evidenzia il
suono così come l’inside del pezzo (il bridge) fa suonare meglio il resto della melodia quindi
il tema principale, la notte ci fa desiderare la luce. Gli esempi o citazioni potrebbero
continuare….
Ancora Lacy racconta: “Non suonare tutte quelle note inutili, suona la melodia. Batti il piede
e suona la melodia nella tua testa, o suona il ritmo della melodia con altre note…”.
Monk, Maestro dell’armonia, ci insegna che melodia e ritmo sono gli ingredienti base del
jazz e dell’improvvisazione.
È un consiglio d’oro sia per chi suona professionalmente che per chi inizia a pronunciare le
prime frasi di jazz.
Un ultimo aspetto del metodo di lavoro di Monk riguarda lo studio del proprio strumento.
Thelonious Jr racconta che il padre dedicava intere giornate allo studio, ma non si trattava
dell’articolazione di scale e di arpeggi, bensì dell’esecuzione reiterata di proprie
composizioni e soprattutto della ricerca del proprio suono. Del resto la sua particolare
impostazione pianistica deve avere richiesto un durissimo lavoro tecnico a cui Monk ha
dedicato tutta la sua vita.
È frequente ascoltare la riproposizione di frasi caratteristiche di Monk da parte di molti
pianisti con esiti indubbiamente efficaci ed interessanti sebbene salti immediatamente
all’orecchio la differenza sostanziale di produzione del suono.
“Monk suona dei voicings incredibili” dice Horace Silver “Quando li senti ti chiedi: ma che
note ci sono lì dentro?” L’effetto però non è solo dato dalla disposizione degli intervalli ma
dall’esaltazione dei suoni armonici che la particolare percussione di Monk riesce ad ottenere
dal legno del pianoforte.
Non può infine mancare un accenno alla formazione musicale di Monk.
Sebbene esistano voci, o meglio, leggende sulla frequentazione dei prestigiosi corsi della
Juillard School si è propensi a credere ad una formazione autodidatta di Thelonious Monk.
La questione non sposta ovviamente di un millimetro la qualità artistica della sua musica ma
ci aiuta forse a capire di più come il Maestro possa aver acquisito le sue doti “didattiche”.
Monk sapeva trovare con i propri esempi e consigli espressi al pianoforte, la migliore
risposta ad ogni tipo di problema. Lo sapeva perché a sua volta l’aveva vissuto sulla propria
pelle, ora rubando dal movimento “automatico” dei rulli meccanici le posizioni stride dei
grandi maestri, ora sbirciando la musica dalle spalle della sorella durante le lezioni di piano.
Di certo la Juillard,
Monk l’ha frequentata, ma molti anni dopo, entrando dalla porta principale insieme a Hall
Overton.
Overton, docente presso il prestigioso istituto, si era inchinato alla musica di Monk per
moltiplicare il suono del pianoforte di Monk attraverso gli splendidi arrangiamenti per big
band per il memorabile concerto alla Town Hall.

helonious Monk
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(EN) (IT)
«- Would you play some of your weird chords for the «- Suonerebbe qualcuno dei suoi strani accordi per la
class?, classe?
- What do you mean weird? They're perfectly logical - Cosa intende con strani? Sono accordi perfettamente
chords» logici»
(Dialogo tra un insegnante della Columbia University e Monk (da
Hentoff, Jazz Life 188))
Thelonious Sphere Monk

Thelonious Monk nel 1947

Nazionalità  Stati Uniti

Genere Jazz
Bebop
Hard bop

Periodo di 1939 – 1972
attività musical
e

Strumento Pianoforte

Etichetta Blue
note, Prestige, Riverside, Colum
bia

Sito ufficiale

Modifica dati su Wikidata · Manuale

Thelonious Sphere Monk (Rocky Mount, 10 ottobre 1917 – Weehawken, 17 febbraio 1982) è stato


un pianista e compositore statunitense, conosciuto per il suo singolare stile d'improvvisazione e per il
consistente contributo al repertorio del jazz[1].
Uomo dominato dalla stranezza comportamentale, da un mutismo eccessivo e da un forte
egocentrismo che inevitabilmente influenzarono la sua musica spesso screditata da critiche superficiali.
Stile che è però stato, in tempi recenti, completamente decifrato: sotto quella coltre di "stranezza" si è
conclamato un nuovo modo di fare jazz a cui si ispirarono le generazioni successive.[2]

Indice

 1Biografia
o 1.1Inizi
o 1.2Prime incisioni (1944–1954)
o 1.3Riverside Records (1955–1961)
o 1.4Columbia Records (1962–1970)
o 1.5Ultimi anni (1971–1982)
 2Principali composizioni
 3Discografia
o 3.1Principali Etichette
o 3.2Album
o 3.3Raccolte - Compilation
o 3.4Live
o 3.5Come session man
 4Note
 5Altri progetti
 6Collegamenti esterni

Biografia[modifica | modifica wikitesto]
Thelonious Monk ha iniziato come pianista stride, e dal 1939 al 1942 ha suonato come house-pianist
nel locale Minton's, dove il chitarrista Charlie Christian, il batterista Kenny Clarke e parecchi altri
precursori hanno gettato le basi del jazz moderno.
Durante la permanenza nella big band del trombettista ex ellingtoniano Cootie Williams scrive 'Round
Midnight, a oggi la sua più famosa composizione. Dopo aver militato nella formazione del trombettista
Harvey Davis al Cinderella Club, nel 1944 debutta ufficialmente su disco nel quartetto di Coleman
Hawkins, e dal '47 al '52 realizza una straordinaria serie di incisioni per la Blue Note in cui suona la
maggior parte delle sue migliori composizioni. Sono della partita Kenny Dorham, Milt Jackson, Sahib
Shihab e soprattutto Art Blakey, che gli resterà amico e collaboratore per tutta la vita. In quegli anni
incontrerà anche Miles Davis, con cui stringerà amicizia.
In Bloomdido (1950) Monk incontra Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Altra amicizia importantissima fu
quella col pianista Bud Powell, che propose più volte interpretazioni personali dei temi dell'amico. Dal
trio Plays Duke Ellington (1955) al quintetto di Brilliant Corners (1956), Monk realizza i suoi capolavori
su etichetta Riverside, e raggiunge lo status di mito vivente. Come logica conseguenza, nasce il suo
quartetto (più o meno stabile), con una serie di tenorsassofonisti che va da Sonny Rollins a Frank
Foster, da John Coltrane a Johnny Griffin (Misterioso e In action, 1958), fino a giungere a Charlie
Rouse, che resterà fino al 1968. Seguì la controversa partecipazione alla lunga tournée dei Giants of
Jazz (1970 - 72, con Blakey, Sonny Stitt, Kai Winding, Al Mc Kibbon e Dizzy Gillespie).
Nel frattempo le cose erano cambiate parecchio nel jazz, e chi si credeva all'avanguardia rischiava di
giorno in giorno di restare indietro. Eppure mentre Monk si adagiava sugli allori, nasceva tutta una
nuova generazione di musicisti - pensatori che riconsiderò in chiave quasi free i suoi lavori: Steve
Lacy, Don Cherry, Roswell Rudd, ecc.
Al di là delle circa settanta composizioni conosciute [3], l'eredità di Monk è più o meno evidente nel modo
di suonare di molti pianisti jazz successivi: il fraseggio frastagliato e pieno di cluster, la diteggiatura
ineducata, le armonie strane e ricercate hanno insegnato parecchio a molti musicisti jazz che si
interrogano sul concetto di libertà. Ciò che lascia Monk è soprattutto il virtuosismo ritmico fatto di ritardi,
accenti spostati, l'uso magico dei silenzi, la grande padronanza della scala cromatica. L'ascoltatore è
continuamente "sorpreso" dall'evolversi dei suoni che non cadono mai nella staticità e prevedibilità.
Monk ha saputo giocare con le note prendendosi gioco di esse: non si limitava ad improvvisare sugli
accordi del tema di base ma ne reinventava la struttura armonica facendo appello al suo istinto
primitivo generando dissonanze e giochi di note che si rincorrono e si urtano in una esemplare
disinvoltura.
Nei suoi ultimi anni di vita Monk si è ritirato nel New Jersey ospite della Baronessa Nica de
Koenigswarter (Pannonica), senza mai suonare il pianoforte nonostante ce ne fosse uno nella sua
stanza. È scomparso il 17 febbraio 1982 per infarto.
Inizi[modifica | modifica wikitesto]
Thelonious Monk nacque il 10 ottobre 1917, a Rocky Mount, Carolina del Nord, figlio di Thelonious e
Barbara Monk, due anni dopo sua sorella Marion. Un fratello, Thomas, nacque nel gennaio 1920. [4] Nel
1922, la famiglia si trasferì al 243 West 63rd Street, a Manhattan, New York City. Monk iniziò a suonare
il pianoforte all'età di 6 anni. Anche se ampiamente autodidatta, studiò teoria musicale, armonia, e
arrangiamento alla Juilliard School of Music.[5] Monk frequentò la Stuyvesant High School, senza però
portare a termine gli studi.[6] Da ragazzo suonò l'organo in un coro evangelico, prima di trovare lavoro
come musicista jazz.
All'inizio degli anni quaranta, Monk era il pianista fisso del night club Minton's Playhouse di Manhattan.
Gran parte dello stile di Monk si sviluppò durante questo periodo di apprendistato al Minton's, dove
spesso partecipava a gare notturne di bravura tecnica con altri quotati musicisti jazz dell'epoca.
L'ambiente del Minton's fu di importanza cruciale nello sviluppo dello stile bebop e portò Monk a stretto
contatto con artisti come Dizzy Gillespie, Charlie Christian, Kenny Clarke, Charlie Parker e,
successivamente, Miles Davis. Il suo stile dell'epoca venne descritto "hard-swinging" con l'aggiunta di
incursioni nello stile di Art Tatum. Le influenze dichiarate da Monk includono Duke Ellington, James P.
Johnson, ed altri pianisti stride.
Prime incisioni (1944–1954)[modifica | modifica wikitesto]
Nel 1944 Monk debuttò su disco con il Coleman Hawkins Quartet. Hawkins fu uno dei primi musicisti
jazz affermati a sponsorizzare Monk, e Monk ricambiò il favore in seguito invitandolo a prendere parte
alle sessioni del 1957 con John Coltrane. Nel 1947 Monk effettuò la prima registrazione come band
leader per la Blue Note (Genius of Modern Music: Volume 1). Nello stesso anno sposò Nellie Smith, e
nel 1949 la coppia ebbe un figlio, T. S. Monk. Nel 1953 nacque la figlia Barbara (affettuosamente
soprannominata "Boo-Boo").
Nell'agosto 1951, la polizia di New York City fermò un'auto sulla quale viaggiavano Monk e l'amico Bud
Powell. Gli agenti trovarono dei narcotici a bordo, presumibilmente di proprietà di Powell. Monk rifiutò di
testimoniare contro l'amico, e quindi la polizia confiscò la sua tessera del sindacato dei musicisti che gli
rese impossibile esibirsi dal vivo a New York. Monk trascorse la maggior parte della prima metà degli
anni cinquanta componendo, incidendo, ed esibendosi fuori città.
Dopo un ciclo intermittente di sedute di registrazione per la Blue Note nel periodo 1947–1952, venne
messo sotto contratto dalla Prestige Records per i successivi due anni. Con la Prestige incise diversi
album significativi, incluse collaborazioni con Sonny Rollins, Art Blakey, e Max Roach. Nel 1954, Monk
partecipò alle sessioni che produssero gli album Bags' Groove e Miles Davis and the Modern Jazz
Giants di Miles Davis.[7]
Nel 1954, Monk andò per la prima volta in Europa, eseguendo e registrando a Parigi il suo primo album
di assoli pianistici su etichetta Disques Vogue. Nel backstage Mary Lou Williams gli presentò la
Baronessa Pannonica "Nica" de Koenigswarter, membro della famiglia dei Rothschild e mecenate di
svariati musicisti jazz a New York City (incluso Charlie Parker). La donna divenne un'amica intima di
Monk per il resto della sua vita, ed egli scrisse in suo onore un pezzo pianistico intitolato,
appunto, Pannonica.
Riverside Records (1955–1961)[modifica | modifica wikitesto]
All'epoca della firma con la Riverside, Monk era molto rispettato e stimato da critici e colleghi, ma i suoi
dischi vendevano poco, e la sua musica veniva ancora vista come troppo "difficile" per un
pubblico mainstream. Per incrementare il suo profilo commerciale, Monk incise due album di standard
jazz: Thelonious Monk Plays the Music of Duke Ellington (1955) e The Unique Thelonious Monk (1956).
Sull'LP Brilliant Corners, registrato a fine 1956, Monk invece eseguì principalmente pezzi da lui
composti. La complessa title track, che contiene l'apporto del sassofonista Sonny Rollins, era così
difficile da suonare che la versione finale dovette essere messa insieme montando diverse take della
traccia stessa. L'album, tuttavia, fu il suo primo grande successo di pubblico.
Dopo aver ottenuto nuovamente la tessera del sindacato musicisti, Monk ricominciò in grande stile ad
esibirsi a New York con un periodo di cinque mesi di fila al Five Spot Cafe a partire dal giugno 1957,
guidando un quartetto con John Coltrane al sax tenore, Wilbur Ware al contrabbasso, e Shadow
Wilson alla batteria.[8]
L'ingaggio al Five Spot terminò nel Natale 1957, Coltrane lasciò il gruppo per riunirsi alla band di Miles
Davis, e il quartetto si sciolse. Monk tornò a suonare al Five Spot nel 1958, questa volta in gruppo con
Griffin (e poi Charlie Rouse) al sax, Ahmed Abdul-Malik al contrabbasso, e Roy Haynes alla batteria.
Il 15 ottobre 1958, mentre erano in viaggio verso il Comedy Club di Baltimora, Maryland, Monk e la de
Koenigswarter furono fermati dalla polizia a Wilmington (Delaware). Quando Monk si rifiutò di
rispondere alle domande del poliziotto sul perché viaggiasse insieme ad una donna bianca, gli agenti lo
colpirono con i loro manganelli. Sebbene nell'auto furono rinvenute anche delle sostanze stupefacenti,
il giudice Christie della Corte Suprema del Delaware invalidò le accuse di detenzione di narcotici a
causa dell'aggressione immotivata nei confronti di Monk operata dagli agenti di polizia della pattuglia. [9]
Columbia Records (1962–1970)[modifica | modifica wikitesto]
Dopo vari negoziati, nel 1962 Monk firmò un contratto con la Columbia Records, una delle quattro
grandi case discografiche degli Stati Uniti insieme a RCA Victor, Capitol, e Decca. Le relazioni tra Monk
e la Riverside si erano ormai deteriorate nel tempo a causa di royalty non pagate.
Lavorando con il produttore Teo Macero,[10] nel 1963 uscì Monk's Dream, l'album di debutto su etichetta
Columbia.
Monk's Dream divenne il suo più grande successo in carriera,[11] e il 28 febbraio 1964, Monk apparve
sulla copertina di Time.[12] Continuò poi a lavorare in studio, incidendo album famosi come Criss
Cross (1963), Solo Monk (1965), Straight, No Chaser (1967), e Underground (1968), ma il suo periodo
alla Columbia fu avaro di nuove composizioni originali in favore della pubblicazione di svariati album dal
vivo, inclusi Miles & Monk at Newport (1963), Live at the It Club e Live at the Jazz Workshop, entrambi
del 1964, quest'ultimo inedito fino al 1982.
Ultimi anni (1971–1982)[modifica | modifica wikitesto]
Thelonious Monk scomparve dalle scene nella metà degli anni settanta, facendo in seguito solo
qualche sporadica apparizione. La sua ultima seduta in studio come leader ebbe luogo nel novembre
1971 per l'etichetta britannica Black Lion, alla fine del tour mondiale dei "Giants of Jazz", gruppo
formato da Dizzy Gillespie, Kai Winding, Sonny Stitt, Al McKibbon e Art Blakey. Il bassista Al
McKibbon, che conosceva Monk da più di vent'anni e suonò insieme a lui nel tour del 1971, raccontò in
seguito: «In quella tournée Monk disse al massimo due parole. Intendo veramente solo due parole. Non
salutava, non chiedeva che ore fossero, niente di niente. Il perché, non lo so. Ci scrisse una lettera alla
fine del tour dicendoci che la ragione per la quale non riusciva a comunicare o suonare con noi, era
perché Art Blakey ed io eravamo troppo brutti».[13]
Il documentario Thelonious Monk: Straight, No Chaser (1988) attribuisce questo stravagante
comportamento di Monk all'insorgere di una malattia mentale. Nel film, il figlio di Monk, T. S. Monk,
afferma che alle volte il padre non lo riconosceva, e riferisce che fu ricoverato in ospedale in svariate
occasioni per non specificati problemi psichici che degenerarono alla fine degli anni sessanta. [14][15]
Mentre il suo stato di salute peggiorava sempre più, Monk trascorse i suoi ultimi 6 anni di vita ospite
nella dimora a Weehawken (New Jersey) dell'amica e benefattrice Baronessa Pannonica de
Koenigswarter. Durante questo lasso di tempo non suonò mai il piano e si chiuse in un ostinato
mutismo incontrando pochissime persone. Morì di infarto il 17 febbraio 1982, e venne sepolto
nel Ferncliff Cemetery di Hartsdale (New York). Nel 1993, gli venne assegnato postumo il Grammy
Lifetime Achievement Award.[16]

Principali composizioni[modifica | modifica wikitesto]


 52nd Street Theme
 Ask Me Now
 Ba-Lue Bolivar Ba-Lues-Are
 Bemsha Swing
 Blue Monk
 Bright Mississippi
 Brilliant Corners
 Bye-Ya
 Crepuscule With Nellie
 Epistrophy
 Evidence
 Friday 13th
 Hackensack
 I Mean You
 In Walked Bud
 Introspection

 Let´s Call This


 Light Blue
 Little Rootie Tootie
 Locomotive
 Misterioso
 Monk´s Dream
 Monk´s Mood
 Off Minor
 Pannonica
 Played Twice
 Reflections
 'Round Midnight
 Ruby, My Dear
 Rhythm-A-Ning
 Straight, No Chaser
 Well You Needn't

Discografia[modifica | modifica wikitesto]
Principali Etichette[modifica | modifica wikitesto]

 1948 - 1952 Blue Note Records


 1952 - 1954 Prestige Records
 1955 - 1961 Riverside Records
 1962 - 1968 Columbia Records
Album[modifica | modifica wikitesto]

 1947 - Genius of Modern Music: Volume 1 (registrazioni per la Blue Note Records)
 1948 - Wizard of the Vibes Milt Jackson & Thelonious Monk Quintet (registrazioni per la Blue
Note Records)
 1951-1952 - Genius of Modern Music: Volume 2 (registrazioni del 23 luglio 1951 e 30 maggio
1952 per Blue Note Records)
 1952 - Thelonious Monk Trio (Prestige Records n. 7027, New York, 15 ottobre 1952)
 1953 - Monk (Prestige Records n. 7053, New York, 13 novembre 1953)
 1953 - Thelonious Monk and Sonny Rollins (Prestige Records n. 7075, 13 novembre 1953 a 25
ottobre 1954)
 1954 - Piano Solo registrato a Parigi Disques Vogue
 1955 - Thelonious Monk plays the Music of Duke Ellington, Riverside Records
 1955 - The Unique Thelonious Monk, Riverside Records
 1956 - Brilliant Corners (registrazioni con Sonny Rollins e Clark Terry), Riverside Records
 1957 - Thelonious Himself, Riverside Records
 1957 - Thelonious Monk with John Coltrane, Riverside Records RCD2-30027-2 (pubb. nel
1961)
 1957 - Thelonious Monk Quartet with John Coltrane at Carnegie Hall (registrato 29 novembre
1957, pubblicato nel 2005 dalla Blue Note Records)
 1957 - Art Blakey's Jazz Messengers with Thelonious Monk, Atlantic Records
 1957 - Monk's Music, Riverside Records
 1957 - Mulligan Meets Monk con Gerry Mulligan, Riverside Records
 1958 - Thelonious in Action and Misterioso (live al the Five Spot con Johnny Griffin), Riverside
Records
 1959 - The Thelonious Monk Orchestra at Town Hall, si unì alla band Charlie Rouse, Riverside
Records
 1959 - 5 by Monk by 5 (giugno 1959) Riverside Records
 1959 - Thelonious Alone in San Francisco (ottobre 1959) Riverside Records
 1959 - Thelonious Monk and the Jazz Giants Riverside Records
 1960 - Thelonious Monk at the Blackhawk con Charlie Rouse) Riverside Records
 1961 - Monk in France (18 aprile 1961 Riverside Records)
 1961 - Thelonious Monk in Italy (registrato nel 1961 per Riverside Records)
 1963 - Monk's Dream, Columbia Records
 1963 - Criss Cross, Columbia Records
 1963 - Monk in Tokyo (21 maggio 1963), Columbia Records
 1963 - Miles & Monk at Newport, Columbia Records
 1963 - Big Band and Quartet in Concert, Columbia Records
 1964 - It's Monk's Time, Columbia Records
 1964 - Monk, Columbia Records
 1965 - Solo Monk, Columbia Records
 1967 - Straight, No Chaser, Columbia Records
 1968 - Underground, Columbia Records
 1968 - Monk's Blues prodotto da Teo Macero, Columbia Records
Raccolte - Compilation[modifica | modifica wikitesto]

 1967 - Monk's Miracles, Columbia


 1968 - Monk's Greatest Hits, Columbia
 1968 - Best of Thelonious Monk (Riverside Records)
 1973 - Midnight at Minton's (circa 1941, pubblicato nel 1973 a nome Don Byas. Monk non
suona in tutte le tracce)
 1973 - After Hours (c. 1941, pubblicato nel 1973 a nome Charlie Christian)
 1981 - April in Paris (Monk album)|April in Paris
 1983 - Monk's Classic Recordings
 1984 - Blues Five Spot (incisioni discografiche dal 1958 al 1961, con vari sassofonisti e Thad
Jones)
 1985 - The Complete Vogue Recordings/The Black Lion Sessions (1954–71) (3 LP, Mosaic)
 1988 - Something in Blue, Nice Work in London, Blue Sphere e The Man I Love (tutte
registrazioni del 1971, raccolte in The London Collection 1988, tre CD)
 1991 - The Complete Riverside Recordings of Thelonious Monk ( 15 CD, Riverside)
 1994 - The Complete Blue Note Recordings of Thelonious Monk (4 CD, Blue Note)
 1998 - Monk Alone: The Complete Solo Studio Recordings of Thelonious Monk 1962-1968 (2
CD, Sony)
 1988 - The London Collection (3 CD)
 2000 - The Complete Prestige Recordings of Thelonious Monk (3 CD, Prestige)
 2001 - The Columbia Years: '62-'68 (3 CD, Sony)
 2006 - The Complete 1957 Riverside Recordings (raccolta delle registrazioni in studio del 1957
con J Coltrane)
 2010 - Monk. The Riverside Albums (16 CD, Universal)
 2012 - Thelonious Monk Quartet Complete Columbia Studio Albums Collection (6 CD, Sony)
 2017 - Les Liaisons Dangereuses 1960
Live[modifica | modifica wikitesto]

 1958 - Thelonious Monk Quartet Live at the Five Spot: Discovery! (con John Coltrane, registrato
11 settembre 1958, pubblicato negli anni novanta dalla , Blue Note Records)
 1961 - Thelonious Monk QuartetMonk in Copenhagen
 1963 - Live at Monterey Jazz Festival '63 (21-22 settembre 1963, MFSL, pubblicato in due vol.
1996-7)
 1964 - Live at the It Club, Columbia Records
 1964 - Live at the Jazz Workshop, Columbia Records
 1964 - Thelonious Monk Quartet Olympia 6-7 marzo 1965 (2cd)
 1967 - Thelonious Monk Nonet Live In Paris 1967 (LP del concerto in Francia FC-113 1967)
 1970 - Live in Tokyo (live, with Paul Jeffrey, Larry Ridley, Lenny McBrowne), Far East Records
Come session man[modifica | modifica wikitesto]
1944 con Coleman Hawkins

 Bean and the Boys (Prestige)


1948 con Milt Jackson

 Wizard of the Vibes (Blue Note)


1954 con Sonny Rollins

 Moving Out (Prestige)
1954 con Miles Davis

 Bags' Groove (Prestige)
 Miles Davis and the Modern Jazz Giants (Prestige)
1955 con Gigi Gryce

 Nica's Tempo (Savoy)
 Sonny Rollins, Vol. 2 (Blue Note, 1957)
1958 con Art Blakey

 Art Blakey's Jazz Messengers with Thelonious Monk  (Atlantic)


1958 con Clark Terry

 In Orbit (Riverside)

Note[modifica | modifica wikitesto]
1. ^ The History of Jazz Music. Thelonious Monk: biography, discography, review, links
2. ^ Thelonious Monk | Biography | AllMusic
3. ^ La lista completa su monkzone.com Archiviato il 20 maggio 2011 in Internet Archive.
4. ^ Robin D.G. Kelley Thelonious Monk: The Life and Times of an American Original, London: JR Books,
2010, p13
5. ^ The Thelonious Monk Reader, ed. van der Bliek, Oxford, 2001
6. ^ Robin D. G. Kelley, Thelonious Monk: The Life and Times of an American Original, Free Press, 2009,
p. 31, ISBN 978-0-684-83190-9. URL consultato il 23 novembre 2013.
7. ^ Miles: The Autobiography With Quincy Troupe, 80
8. ^ Chris Sheridan Brilliant Corners: A Bio-Discography, 2001, Wesport, Conn.: Greenwood Press, p.80
9. ^ State v. De Koenigswarter, 177 A.2d 344 (Del. Super. 1962).
10. ^ Marmorstein, Gary. The Label The Story of Columbia Records. New York: Thunder's Mouth, 2007, pp.
314–315.
11. ^ Monk, Thelonious. Monk's Dream. Columbia reissue CK 63536, 2002, liner notes, p. 8
12. ^ Gabbard, Krin, The Loneliest Monk, in Time, vol. 83, nº 9, Time, Inc., 28 febbraio 1964. URL consultato il 12
novembre 2007.
13. ^ Steve Voce, Obituary: Al McKibbon, in The Independent, Findarticles.com, 1º agosto 2005. URL consultato
il 12 novembre 2007 (archiviato dall'url originale il 13 ottobre 2007).
14. ^ Krin Gabbard, Evidence: Monk as Documentary Subject, in Black Music Research Journal, vol. 19, nº 2,
Center for Black Music Research — Columbia College Chicago, Autumn 1999, pp. 207–
225, DOI:10.2307/779343, JSTOR 779343.
15. ^ Spence, Sean A, Thelonious Monk: His Life and Music, in British Medical Journal, vol. 317, nº 7166,
BMJ Publishing Group, 24 ottobre 1998,
pp. 1162A, DOI:10.1136/bmj.317.7166.1162a, PMC 1114134, PMID 9784478.
16. ^ GRAMMY.com  — Lifetime Achievement Award, su Past Recipients, National Academy of Recording
Arts and Sciences. URL consultato il 12 novembre 2007.

Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]

  Wikiquote contiene citazioni di o su Thelonious Monk

  Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Thelonious Monk

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]


 Sito ufficiale, su monkzone.com. 
 Thelonious Monk (canale ufficiale), su YouTube. 
 (EN) Thelonious Monk, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. 
 (EN) Thelonious Monk, su Find a Grave. 
 Opere di Thelonious Monk, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. 
 Thelonious Monk, su Discografia nazionale della canzone italiana, Istituto centrale per i beni
sonori ed audiovisivi. 
 (EN) Thelonious Monk, su AllMusic, All Media Network. 
 (EN) Thelonious Monk, su Discogs, Zink Media. 
 (EN) Thelonious Monk, su MusicBrainz, MetaBrainz Foundation. 
 (EN) Thelonious Monk, su Internet Movie Database, IMDb.com. 
 (EN) Thelonious Monk, su AllMovie, All Media Network. 
 (DE, EN) Thelonious Monk, su filmportal.de. 
 Video di un'esecuzione in quartetto di 'Round Midnight.
 Video di un'esecuzione in trio di 'Round Midnight.

La composizione è datata 1944 e si pensa che sia stata scritta nel 1940 o nel 1941, ma, secondo Harry
Colomby (futuro manager del pianista), Monk nel 1936 (a 19 anni) ne aveva già scritta una versione
intitolata "Grand Finale". Secondo Colomby, Cootie Williams figura fra gli autori perché voleva suonare
ed incidere quella canzone per la sua orchestra, che all'epoca includeva Monk stesso, e diede per
questo, e per l'attribuzione, 300 dollari a Monk. Il pezzo fu registrato per la prima volta nel 1944 con
l'amico di Monk Bud Powell al piano: Round Midnight finì poi per diventare la sigla dell'orchestra. Poco
dopo Bernie Hanighen scrisse le parole, e Monk fu obbligato a dividere le royalty e l'attribuzione anche
con lui. Monk registrò il pezzo più volte in prima persona nel corso di molti decenni, pare iniziando con
una registrazione con l'orchestra di Dizzy Gillespie nel 1946. Gillespie aggiunse un'introduzione e una
cadenza finale (con variazioni) che furono poi adottate anche da Monk e vengono oggi eseguite nella
maggior parte delle performance. Esistono poi molte altre registrazioni in studio tra cui una versione
solistica del 1968 per la Columbia Records. Monk suonò questo pezzo (ancora in versione solistica)
nella sua ultima sessione in studio il 15 novembre 1971 a Londra. Una versione dal vivo al Five Spot
Cafè col suo quartetto del 1958 (con Johnny Griffin al sax tenore) è sulla riedizione
dell'album Misterioso.
Miles Davis suonò il brano nel 1955 al festival di Newport, in un'esibizione che segnò il suo riemergere
da un periodo di quasi silenzio (dovuto in parte ai suoi problemi di droga) e risvegliò l'interesse del
pubblico e della critica. Davis passò alla Columbia l'anno successivo e il suo primo album fu
intitolato 'Round About Midnight e aveva 'Round Midnight come primo brano. (La riedizione
del 2005 contiene la registrazione di Newport come extra). Altre registrazioni di Davis che includono
'Round Midnight sono su Miles Davis and the Modern Jazz Giants (Prestige) nel 1956, oltre a una
versione del 1953 (sempre Prestige, con Sonny Rollins e Charlie Parker) e una del 1958 con Michel
Legrand. Davis tenne la canzone in repertorio almeno fino al 1969, quando, già in pieno "periodo
elettrico", aveva ormai abbandonato tutti gli altri standard che lo avevano reso famoso, come My Funny
Valentine.
Al di là dei protagonisti dell'era hard bop che l'ha originato, si può dire che nessun musicista jazz abbia
omesso di confrontarsi con questo brano: alcuni - specie tra i pianisti - ne hanno fatto una parte
integrante delle proprie performance (ad esempio George Cables). Per questo ogni elenco di incisioni
di questo brano ha un valore più indicativo che esaustivo.
(EN) (IT)
«I really liked Monk's tune, "'Round Midnight," and I «Mi piaceva da morire il brano di Monk, 'Round
wanted to learn how to play it. So I used to ask him Midnight e volevo imparare a suonarlo. Così ogni
every night after I got through playing it, "Monk, how sera, dopo averlo suonato, andavo da Monk e gli
did I play it tonight?" And he'd say, looking all serious, chiedevo "Come l'ho fatto stasera?" E lui, tutto
"You didn't play it right." The next night, the same serio: "Non bene". La sera successiva, uguale e
thing and the next and the next and the next. This quella dopo, per diverse sere. Mi diceva "Non si
went on for a while. "That ain't the way to play it," he suona così" a volte con un'aria esasperata e
would say, sometimes with an evil, exasperated look maligna. Poi una sera glielo chiesi nuovamente e lui
on his face. Then, one night, I asked him and he said, mi disse "Sì, si suona così." Mi rese più felice del
"Yeah, that's the way you play it." Man, that made me più felice dei bastardi, più felice di un maiale nella
happier than a motherfucker, happier than a pig in merda. Avevo trovato il suono. Era uno dei pezzi più
shit. I'd gotten the sound down. It was one of the difficili.»
hardest.»
(Miles Davis, "L'autobiografia con Nat Hentoff")

Thelonious Monk.

Progressione armonica[modifica | modifica wikitesto]


Mibm Do- Fa-7b5 Sim7 Mi7 Mib-7
A Mibm7 Lab7 Labm7 Db7 Si7 Sib7
7b5 Sib7alt Sibm7 Mib7 Lab7

Mibm Do- Fa-7b5 Sim7 Mi7 Mib-7 Si7


A Mibm7 Lab7 Labm7 Db7 Mib-7
7b5 Sib7alt Sibm7 Mib7 Lab7 Sib7

Dom7b5 Dom7b5 Lab-7 Db7 Dob7 Mib7 Dob7


B Sib7 Sib7
Fa7b9 Fa7b9 Gbmaj7 Sib7 Db7 Sib7

Mibm Do- Fa-7b5 Sim7 Mi7 Mib-7 Si7


A Mibm7 Lab7 Labm7 Db7 Mib-7
7b5 Sib7alt Sibm7 Mib7 Lab7 Sib7

Analisi melodica e armonica[modifica | modifica wikitesto]


L'esecuzione standard è a tempo molto lento (non di rado a 60 bpm), con un andamento libero e
notturno che si presta a molte variazioni ed abbellimenti, soprattutto nelle esecuzioni pianistiche.
La tonalità è minore e l'evoluzione del tema presenta numerosi cromatismi che producono gli effetti di
scordatura tipici delle composizioni di Monk.
La firma del brano è indubbiamente costituita dall'arpeggio in semicrome seguito dalla minima puntata.
Questo motivo è quasi invariabilmente citato anche nelle (non infrequenti) esecuzioni che deformano il
tema fino all'irriconoscibilità ed è sufficiente ad identificarlo.
La frase è completata da una coda discendente e questo motivo di due battute viene ripetuto 3 volte
(con variazione della coda) trasponendolo di un intervallo di quarta ascendente. La parte A si chiude
con una cadenza discendente che (nel ritornello) risale alla tonica.
La parte B è costituita dalla ripetizione antifonale di un motivo di due battute seguito ancora da due
cadenze discendenti.
Dal punto di vista armonico, la parte A si basa su una progressione i - vi - ii7 - V7 (misure 1-2) seguita
da una sequenza i-IV (misura 3) e una modulazione discendente che sottolinea l'andamento del tema e
porta ad un breve cambio alla tonalità della sottodominante (la sequenza Sib-7 Eb7 che allude a una
progressione ii-V7-I di Lab). Dopo una breve escursione in Solb (misura 5) viene reintrodotta la tonalità
principale seguita da una nuova modulazione discendente.
La sezione B inizia con una progressione vi7(b5)-II7-V7 ripetuta due volte e seguita da una sequenza ii-
V7-I nella tonalità di Solb ma

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