Sei sulla pagina 1di 87

Conservatorio statale di Musica “Antonio Buzzolla” Adria

Alta Formazione Artistica e Musicale


Diploma Accademico di II livello in discipline musicali
Indirizzo: interpretativo - compositivo
Corso: Musica Jazz

“Le possibilità timbriche dello


strumento voce nella musica
jazz”

Relatore: Diana Torto

Presentata da: Federica Baccaglini


Sessione: III
Anno Accademico: 2008/2009
INDICE

1. INTRODUZIONE, pag. 3

2. COS’E’ IL TIMBRO E COME SI CONCRETIZZA NELLO


STRUMENTO “VOCE”, pag. 5

3. IL TIMBRO NEL CORPO: RISUONATORI E


ARTICOLAZIONE FONATORIA DEI SUONI, pag. 16

4. IL TIMBRO E GLI ASPETTI MUSICALI AD ESSO


CORRELATI: IL COLORE DELLA VOCE IN RELAZIONE A
MELODIA, RITMO E FONEMI, pag. 40

5. CONCLUSIONI, pag. 73

6. APPENDICE: L’autoanalisi vocale come via di consapevolezza


musicale nel cantante, pag. 78

7. BIBLIOGRAFIA ed ELENCO BRANI MUSICALI CITATI,


pag. 82

2
1- INTRODUZIONE

Ho sempre nutrito una grande passione per la voce ed il canto. L’unicità di


ogni voce e l’infinita possibilità musicale a disposizione di questo strumento
hanno sempre esercitato un grande fascino su di me ed il mio interesse verso
ciò è cresciuto in particolar modo da quando ho scoperto l’universo “jazz”.
Esso è unico, a mio avviso, nel poter offrire allo “strumento voce” una
ampissima gamma di sfumature possibili ed esplorabili, sia dal punto di
vista ritmico, melodico, ma soprattutto dal punto di vista timbrico.

Il concetto di “suonare la voce” si collega bene al canto jazz, dove il canto si


concretizza non solo nell’interpretazione musicale di parole, ma soprattutto
nell’uso della voce come vero e proprio strumento, che esprime idee
musicali con suoni scollegati dall’idea logico-strutturata di una lingua
ufficiale. Infatti, oltre al canto del “tema”, con le sue lyrics, il cantante jazz
si può cimentare nell’improvvisazione o “scat”, dove crea una propria
“lingua”, che non è cristallizzata e definitivamente strutturata, ma è una
lingua che si concretizza come ricerca ed esplorazione continua attraverso
l’emissione di suoni appartenenti ad un nuovo “linguaggio” musical-
espressivo, coniato dallo stesso esecutore.
In questa ricerca ho scelto di analizzare il canto jazzistico dal punto di vista
timbrico, per osservare come timbro e performance jazz siano legati, e come
il timbro stesso del cantante possa influenzare, se non determinare, il tipo di
assolo durante la performance, dal punto di vista ritmico, melodico e
strutturale.

Sicuramente l’assolo di un cantante non è determinato e generato


unicamente grazie al timbro della sua voce (entrano, infatti, in “gioco” le
componenti psico-emotive del performer, il suo bagaglio musicale, la sua
capacità di interazione con gli altri musicisti, l’aspetto volontaristico insito

3
nel processo creativo) ma la naturale vocalità (predisposizione fonatoria che
si ha a disposizione) differenzia le varie voci e differenzia pure la musicalità
dello strumentista, che in questo caso è il cantante.

Il timbro è in relazione con la nostra corporeità, ovvero con il substrato più


istintivo e presente in noi, infatti il “colore” di una voce è determinato in
primo luogo da fattori fisici: struttura delle corde vocali, struttura del vocal
tract (ovvero dei risuonatori) e struttura del nostro apparato uditivo che filtra
i suoni che sentiamo nell’ambiente. In secondo luogo, il timbro è
determinato anche da fattori ambientali, ovvero dall’ambiente in cui
cresciamo e viviamo ed in cui si costituisce la voce, e da fattori psichici
(l’uso della voce è comunicazione, quindi in base a come il soggetto si pone
con il mondo esterno “reagirà” anche la voce stessa), ma l’analisi quivi
possibile (con dati percettivi) può riferirsi unicamente al dato uditivo
derivante dall’ascolto dei brani e dalle videoregistrazioni dei concerti dei
cantanti jazz. L’obiettivo del presente lavoro è quello di mostrare una
modalità di analisi e conoscenza dello strumento voce nel jazz, soprattutto
nell’aspetto timbrico e risonanziale della voce, in modo da comprendere
ancor più la complessità del fenomeno vocale nella musica jazz, dove il
linguaggio della parola cantata si interseca con il sovralinguaggio musicale
nell’improvvisazione e nel fraseggio.

4
2- COS’E’ IL TIMBRO E COME SI CONCRETIZZA NELLO
STRUMENTO “VOCE”

La definizione generale di timbro dice che esso è quella particolare qualità


del suono che permette di giudicare diversi due suoni con uguale intensità e
altezza; esso rappresenta quell'attributo della sensazione uditiva che
consente a chi ascolta di identificare la fonte sonora.

Il timbro, indicato fra i "parametri" del suono musicale insieme all'altezza,


all'intensità e alla durata, suggerisce numerose analogie con il colore per
quanto riguarda la percezione visiva. Infatti, il timbro viene designato come
colore del suono sia in inglese (tone-colour) sia in tedesco (klangfarbe).

Mentre le altezze sonore, le durate e le intensità possono essere


"discretizzate" e ordinate lungo una scala così da essere definite in base a
un'unica dimensione, e possono essere rappresentate graficamente nella
partitura, ciò non può essere realizzato per il timbro, che è un parametro
che va oltre la dimensione della notazione musicale.

Nella concezione classica, basata sulla teoria del suono di Helmholtz, il


timbro viene definito e determinato sulla base della sola composizione
spettrale del suono, ossia in base alla distribuzione dell'energia delle diverse
componenti di frequenza che compongono il suono. In questa concezione vi
è una netta associazione fra spettro del suono e timbro, infatti egli sviluppò
una teoria matematica per spiegare il timbro in base agli armonici naturali,
chiamato “teoria della risonanza”, su cui basò la sua opera "La teoria delle
sensazioni tonali come base fisiologica della teoria musicale”; tuttavia,
studi più recenti hanno dimostrato che i suoni prodotti da strumenti musicali
tradizionali sono caratterizzati da andamenti spettrali che variano nel tempo,
così che per dare una rappresentazione fedele del suono risulta necessario
determinare le variazioni dello spettro nel tempo.

5
Ciò ha spinto a considerare il timbro come dipendente sia dalla distribuzione
dell'energia nello spettro di frequenza, sia da fattori temporali, da ciò deriva
che per tracciare una rappresentazione intuitiva del suono fisico può
risultare utile impiegare un grafico tridimensionale (ampiezza, frequenza,
tempo) in cui il timbro risulta individuato mediante una complessa
superficie definita in questo spazio. La "caratterizzazione" timbrica è quindi
in relazione alla materia e alla costituzione della sorgente sonora;
acusticamente dipende dalla forma delle vibrazioni ed è direttamente
collegata con il fenomeno dei suoni armonici.

Arriviamo quindi allo strumento “voce”.


La voce è il suono prodotto dalla vibrazione di due strutture muscolari
poste nel collo, le corde vocali, le quali, muovendosi con atti di
avvicinamento ed allontanamento, mettono in vibrazione l’aria espirata dai
polmoni; il suono lì generato è poi modificato dalle risonanze delle due
cavità che compongono il canale vocale: la faringe e la bocca.
Per semplicità si può scomporre il fenomeno vocale in tre momenti distinti:
1)la produzione del fiato, 2)la generazione del suono e 3)la modulazione o
modificazione di questo. Le tre funzioni coinvolgono l'apparato respiratorio
e la parte superiore di quello digestivo (organi della masticazione e della
deglutizione): il primo è responsabile della produzione del fiato e della
generazione del suono, il secondo della modulazione del timbro vocale e
dell'articolazione della parola. Come ha sintetizzato Franco Fussi nel suo
“Ascoltare la voce” 1, per ottenere un ciclo vibratorio è necessario che si
verifichino i seguenti avvenimenti:
1- produzione di una corrente aerea respiratoria;
2- adduzione delle corde vocali;
3- pressurizzazione della corrente aerea sottoglottica per aumento
dell’energia potenziale con diminuzione dell’energia cinetica;

1
F. Fussi, S. Magnani “Ascoltare la voce. Itinerario percettivo alla scoperta delle qualità
della voce”, F.Angeli, 2008, pag. 49;

6
4- superamento delle resistenze glottiche e apertura delle corde vocali;
5- aumento dell’energia cinetica con diminuzione dell’energia
potenziale;
6- riduzione della pressione esercitata dalla corrente aerea alla faccia
inferiore delle corde;
7- successiva chiusura della glottide.
Ciò dà avvio ad una serie di aperture/chiusure delle corde, le quali, come
suggerisce lo stesso Fussi, dovrebbero essere chiamate “porte vocali” in
quanto, a differenza delle corde di un qualsiasi strumento musicale, non
sono le corde stesse a vibrare (come avviene invece per una chitarra per
esempio) ma è l’aria che viene messa in vibrazione dalla resistenza che le
corde vocali esercitano alla pressione d’aria in uscita dai polmoni. Quindi la
legge generale delle corde per la quale:

Tensione longitudinale
Frequenza = ½ __________________
Massa/lunghezza

è solo parzialmente applicabile alla voce umana, la quale vede diverse e


numerose variabili che possono contribuire a determinarne la frequenza
(tono muscolare, presenza di patologie o abitudini vocali, ecc.).
Oltre a questo è interessante osservare che la fonazione, ovvero l'insieme
delle funzioni fisiologiche che intervengono nella produzione della voce, è
un'attività che coinvolge direttamente o indirettamente tutto il corpo. La
postura, per esempio, influisce sulla geometria dello scheletro e quindi sulla
meccanica respiratoria, e, viceversa, le manovre articolatorie e di
produzione del suono interagiscono con la meccanica respiratoria inducendo
inoltre cambiamenti nell'equilibrio e nella postura. Ricordiamo che nella
storia ancestrale dell’uomo gli organi direttamente impegnati nella
formazione del suono vocale avevano tutti funzioni primarie diverse da
quella di generare la voce e il loro impiego nella fonazione fu un

7
adattamento secondario, dovuto alla volontà ed alle esigenze di
comunicazione dell’essere umano.
Le corde vocali e la glottide, infatti, sono vero e proprio sfintere anatomico,
in quanto possono dividere le vie aeree medie inferiori da quelle superiori.
Nel susseguirsi del tempo, nell’uomo la variabilità della risposta
risonanziale del vocal tract (ovvero l’insieme dei risuonatori della voce
umana, o, ancor meglio tutte le cavità poste sopra le corde vocali) si risolse
in una variabilità timbrica impressa al suono laringeo; fatto questo che,
insieme con la variabilità in intensità, frequenza e durata del segnale vocale,
ha consentito lo sviluppo del linguaggio e del canto.

Il timbro della voce si genera, quindi, nel corpo umano, il quale può essere
paragonato a un grande risuonatore e consuonatore: ogni cavità ed ogni
organo molle, situati nelle cavità sopra la sorgente laringea di produzione
del suono (sopra le corde vocali), interferiscono nella fonazione dei suoni
linguistici, modificandone ampiezze delle armoniche e lasciando inalterata
la frequenza fondamentale, in tal modo ognuno, essendo differente da
qualsiasi altra persona, caratterizza in modo unico la voce con il proprio
timbro. In particolare, grazie alla presenza di organi mobili (lingua, labbra,
laringe, velo del palato), la voce umana si caratterizza per diversificabili
rinforzi armonici, cioè ha la possibilità di mutare timbro, in termini musicali
“colore”, dando luogo a quella multiformità di emissioni cui attribuiamo
varie aggettivazioni in base a caratteristiche percettivamente riconoscibili.
La risonanza è dunque il processo attraverso il quale il prodotto primario
della fonazione, cioè il suono generato dalla vibrazione delle corde vocali,
oltre ad essere rinforzato in intensità, dà luogo, attraverso il passaggio nelle
suddette cavità, a quello che è definito il timbro della voce. Le cavità di
risonanza sono spazi confinati contenenti aria, la quale è in grado di
risuonare, cioè di vibrare, se investita da un’onda sonora, quella appunto
prodotta dalla vibrazione delle corde vocali, producendo un suono che è
composto da una banda di frequenze le quali contengono alcuni picchi

8
centrati sulle frequenze naturali di risonanza delle cavità attraversate. In
altre parole, secondo la conformazione e l’atteggiamento assunto dalle
cavità che momento per momento ricevono l’onda sonora, si avrà un
rinforzo di alcune armoniche e non di altre. E’ importante allora precisare
che i risuonatori sono posti tutti e solamente tra la zona laringea delle corde
vocali e l’ambiente, formando il cosiddetto “vocal tract”: non è pensabile,
per la stessa definizione di risuonatore, che una cavità che si trovi prima del
punto di origine del suono fondamentale, della nota emessa, possa in
qualche modo risuonare, in quanto tale cavità non potrebbe mai essere
attraversata da un’onda sonora, e non avrebbe perciò nulla da poter
amplificare, ecco perché il torace, il petto o altre parti del corpo non
risuonano ma “consuonano”, in altre parole non amplificano il suono ma ne
trasmettono solo le vibrazioni in quanto corpi solidi.

Questa possibilità di variazione di alcune componenti del vocal tract (organi


mobili) ha permesso alla voce umana di poter assumere colori diversi,
sfumature anche contrastanti anche all’interno del panorama di un singolo
strumento “voce”. Il vocal tract, infatti, è un “organo funzionalmente
complesso, in grado di modificare profondamente le qualità acustiche del
segnale glottico”, come scrive ancora Fussi2; spesso i professionisti della
voce (cantanti, attori, comici, imitatori) ricorrono a modificazioni mirate del
vocal tract per impostare la voce (pensiamo appunto agli imitatori, o ai
cantanti lirici che cercano con tanto allenamento ed esercizio di utilizzare
certi specifici risuonatori).
Rispetto ad un cantante possiamo definire il suo bilancio risonanziale,
ovvero la risultanza acustica dell’atteggiamento che il vocal tract assume in
una certa vocalizzazione, la sommatoria degli effetti di variazione di
lunghezza, diametro e tensione della parete delle cavità di risonanza.

2
F. Fussi, S. Magnani “Ascoltare la voce. Itinerario percettivo alla scoperta delle qualità
della voce”, F.Angeli, 2008, pag 173;

9
Al fine di comprendere in seguito la nostra analisi su voci jazzistiche,
analizziamo i diversi parametri che contribuiscono a differenziare le qualità
percettive del vocal tract:

- parametro lunghezza: posso avere allungamento o accorciamento


del vocal tract; con l’allungamento (chiamato anche intubazione),
ottenuto sia per abbassamento della laringe, sia per protusione delle
labbra, ho generalmente un abbassamento frequenziale (voce scura);
con l’accorciamento di lunghezza del vocal tract ho un esito di
schiarimento della voce, ovvero di innalzamento frequenziale e
amplificazione delle frequenze acute;
- parametro ampiezza della cavità: poiché la muscolatura che
compone il vocal tract può contrarsi, è in grado di modificare il
calibro della cavità; con un ottundimento, ovvero una riduzione del
diametro otterrò una perdita di brillantezza ed una difficoltà a
proiettare la voce a distanza, mentre con l’ampliamento del vocal
tract produrrà un aumento di intensità e proiezione del suono; a
questo proposito è interessante notare che con l’invecchiamento si
può verificare una riduzione del tono muscolare e quindi un generale
cambiamento nella voce a causa di una conseguente tendenza
all’allungamento del vocal tract (scurimento della voce).
- parametro tono di parete: il cambiamento di tono di parete del vocal
tract (sia esso come incremento di tono o ipotonia) generano
modificazioni percettive particolari; in generali l’ipertono valorizza
le frequenze acute (pensiamo alla voce di chi si arrabbia) mentre
l’ipotono abbassa le frequenze; ciò coinvolge molto l’antro della
bocca (lingua, labbra, velo palatino) ed è determinato anche dal
grado di apertura della bocca stessa o dall’arrotondamento delle
labbra; anche la postura della lingua è importante per modificare il
timbro in quanto la lingua stessa è ancorata alla laringe.

10
Il vocal tract esercita quindi una sorta di filtro sulle frequenze, o per meglio
dire sulle formanti ( ovvero raggruppamenti armonici selettivamente
amplificati), esaltandone alcune e mettendone in secondo piano altre.

Possiamo distinguere un timbro glottico ed un timbro vocal tract, in


relazione alle informazioni percettive che ci arrivano ascoltando una voce.
Ascoltando un cantante posso percettivamente capire cosa sta succedendo al
livello della glottide, ovvero della sorgente sonora, capendo se le corde
vocali hanno una buona adduzione, se la massa cordale è normale o alterata
(come nelle voci disfoniche con noduli o altro): questo è il timbro glottico.
Posso altresì cogliere aspetti caratteristici ed individuali di un cantante
ascoltando il timbro vocal tract, ovvero ascoltando ed osservando come
utilizza la cassa di risonanza.

Tuttavia, la valutazione globale di una voce dipenderà dal suo esito acustico
generale, ovvero dal segnale sonoro prodotto in relazione al costo sostenuto
ed in relazione al soggetto stesso (età, sesso, condizioni psicofisiche e
capacità tecniche). Spesso si parla di voce eufonica, ovvero di voce prodotta
con modalità fisiologiche, buon bilancio delle risonanze, presa d’aria
corretta, adduzione cordale sana; quindi la voce eufonica ci fa pensare ad
una voce globalmente sana, udibile, non rumorosa e timbrata. In realtà, in
questa sede, è più corretto parlare di eufonia stilistica, ovvero di voce la cui
eufonia è determinata non solo in base ai parametri indicati sopra, ma
soprattutto in base alla sua aderenza allo stile nel quale si riconosce. Se devo
confrontare la voce di Billie Holiday con la voce di Maria Callas,
sicuramente potrò evincere che Maria Callas utilizzava il suo strumento in
modo sano, grazie ad una tecnica consolidata che le poteva permettere di
usarlo con una buona economia vocale, mentre la Holiday con quei suoni
graffiati e stridenti probabilmente non utilizzava la voce in modo
perfettamente e tecnicamente sano; tuttavia posso affermare che, rispetto al
jazz, la voce della Holiday è eufonica e quella di Maria Callas no!

11
Parlando di eufonia stilistica e di timbro, nel jazz la dimensione sonora è
sicuramente elemento costituente il linguaggio stesso; se nel canto classico
eurocolto si dava importanza alla ricerca dell’omogeneità timbrica nei vari
registri (quindi continuità timbrica in tutta l’estensione vocale), nel jazz il
suono particolare di ogni voce (come di ogni suono strumentale) è segno di
personalità artistica, un timbro (=marchio) vero e proprio. Anche nel canto
classico si assiste alla dicotomia tra uniformità timbrica e difformità
timbrica dovuta al fraseggio ed all’articolazione (osservando tutte le
difformità e differenze timbriche date da un uso discontinuo del vocal tract,
a causa dei necessari spostamenti della lingua, interessata nella pronuncia
delle vocali e consonanti), ma in questo caso il privilegio è dato
all’omogeneità, che rende più difficile (ma non impossibile) cogliere il
timbro come marchio. Anche nel canto jazz osserviamo un simile
fenomeno, ma in questo caso parlare di dicotomia è più difficile a causa
dell’ampia gamma di elementi in gioco: melodia nell’esecuzione del tema,
ritmo, fraseggio e dinamiche espressive nella stessa esposizione tematica,
fraseggio melodico-ritmico dello scat vocale, dinamiche, energia ed
intenzionalità presenti nella performance, ecc. Ogni cantante trova (o
sceglie) il suo stile personale, il quale è costituito in primo luogo dal suono
del suo strumento e successivamente dalla preferenza data ai vari parametri
musicali (ritmo, melodia, ecc). Ecco che la ricerca dell’uniformità timbrica
può essere un elemento costitutivo del suo stile, ma non necessariamente;
pensiamo a quei casi in cui il cantante “sporca” il suono (cioè lo fa deviare
dall’eufonia fisiologica) per sottolineare alcuni passaggi per lui importanti,
con le parole o con le sillabe dell’improvvisazione.

Davide Sparti, nel suo libro “Il corpo sonoro”, definisce questa
commistione di elementi presenti nel jazz vocale come “la grana della
voce”3, ovvero un misto di timbro e linguaggio:

3
Davide Sparti “Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz”, Il Mulino, 2007; pag. 81;

12
“Ogni voce, in quanto diversa da tutte le altre voci, attesta la singolarità
incarnata di ciascuna esistenza. Il gesto vocale è di per sé un gesto
soggettivante, un dire da me che è anche un dire di me. Se la parola rivela il
desiderio di dire, la voce rivela quello di dirsi” 4.

Quindi, come ricorda ancora Sparti, il “timbro” può essere considerato


anche nella sua antica accezione di “sigillo”, ovvero di “certificato
d’identità del musicista”. Il nesso tra voce ed individualizzazione, nella
musica jazz, è molto stretto ed il jazzista raccoglie la possibilità offerta da
questo strumento cercando non il suono ideale, bensì il proprio suono,
ovvero quel suono che lo contraddistinguerà da qualsiasi altro musicista.
Ciò avviene sia per i cantanti sia per gli strumentisti. Scrive ancora Sparti:

“In una poesia del 1948, IN PRAISE OF LIMESTONE, W. H. Auden scrive


che la musica è invisibile e non ha odore. Certamente. Ma la musica è
generata da persone che non sono affatto disincarnate, e, soprattutto nel
caso del jazz, la musica coincide con chi la suona, nel senso letterale che
chi la suona dà corpo alla musica. Il jazz, potremmo dire riferendo ad esso
quanto osservato da Carlo Serra in relazione ad Antonin Artaud, introduce
una dimensione del musicale dove aspetti ritenuti secondari e, per loro
natura, refrattari ad una trattazione rigorosa, diventano vettori pregnanti di
un progetto espressivo che porta in primo piano l’idea di corporeo. Il
jazzista, infatti, è dentro la genesi della sua musica, fa tutt’uno con essa,
innanzitutto come corpo, come supporto materiale di un processo in cui è
difficile distinguere l’autore dall’opera-evento”5.

Ecco che il timbro diventa, nella musica jazz, il parametro guida della
ricerca stilistica , pur nei suoi contrasti; pensiamo a questo proposito alla
differenza vocale tra un Louis Armstrong ed una Ella Fitzgerald, posti agli

4
Davide Sparti “Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz”, Il Mulino, 2007; pag. 81-82;
5
Davide Sparti “Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz”, Il Mulino, 2007; pag. 86-87;

13
antipodi dei principi dell’emissione vocale, ma coesi sulla stessa linea della
nuova ricerca estetica dei suoni jazz. Il confine stesso tra suono e rumore
viene reso più labile e variabile, con l’introduzione dei “growl” e degli
“honk” degli strumenti a fiato, solo per portare un esempio; oppure ancora,
il confine tra linguaggio e musica viene compenetrato ancor più nel
profondo. A proposito di ciò, Gunther Schuller, nel suo saggio “Il jazz. Il
periodo classico. Le origini”, osserva che proprio nella matrice africana del
jazz troviamo un’interdipendenza tra musica e linguaggio:

“Nelle culture africane, il significato delle parole è collegato ai suoni


musicali. Una musica strumentale indipendente dalle funzioni verbali, nel
senso della musica “assoluta” europea, vi è pressoché ignota [… ] in
sostanza la lingua funziona solo in simbiosi con il ritmo. Ogni attività
verbale, sia nella vita sociale e quotidiana, sia nella religione e nella magia
è ritmicizzata. Lingue e dialetti africani sono già in sé una forma di musica,
al punto che spesso certe sillabe hanno intensità, durata e perfino altezza
prestabilite […] La straordinaria ricchezza sonora e timbrica di queste
lingue ha una sua intrinseca musicalità che non ci sorprende ritrovare, in
forma attenuata, nei testi scat e bop del jazz americano. […] Nel jazz tutto
ciò sopravvive in diverse manifestazioni: ad esempio, nel blues, l’imitazione
di parole da parte di strumenti in risposta al canto; o la tecnica parlante di
solisti come Joe Tricky Sam Nanton, il grande trombonista di Duke
Ellington. Viceversa, possiamo riconoscere la strumentalità del jazz vocale
in quasi ogni nota di Billie Holiday, la quale, consciamente o no, tenne
conto nel suo stile delle idee strumentali di Lester Young e altri. […]”6

Se ascoltiamo Creole Love Call (1927), di Duke Ellington, la cantante


Adelaide Hall imita lo strumento mentre la tromba di Bobber Miley imita la
voce usando uno sturalavandini come sordina per fare il wa-wa, e canta
addirittura nella tromba. Miley insegnò queste tecniche al trombonista Joe

6
Gunther Schuller, “Il jazz. Il periodo classico. Le origini”, EDT Torino, 1996; pag. 2-3;

14
"Tricky-Sam" Nanton, uno dei più grandi trombonisti di sempre, tanto che
in Nanton si riscontra un mimetismo impressionante con la voce umana. Un
altro emblematico esempio lo troviamo nel grande Louis Armstrong, che
usava lo stesso fraseggio, sia per la tromba che per la voce, ed è stato un
importantissimo e fondamentale innovatore sia della voce che della tecnica
degli strumenti a fiato. Portò il caratteristico vibrato delle soprano dell’opera
italiana nei suoi finali trombettistici, e nel suo canto non ebbe paura di
deformare il testo della canzone per privilegiare il timbro, spesso usando la
bocca a denti stretti e labbra aperte.

Si può certamente dire che con la musica jazz si diffonde il principio


dell’eterogeneità sonora (contrapposto all’omogeneità orchestrale della
musica eurocolta), principio che valorizza l’individuo e le sue peculiarità
espressive, al di sopra di ogni parametro estetico classico, sconvolgendo a
fondo i canoni classici dell’estetica musicale.

15
3- IL TIMBRO NEL CORPO: RISUONATORI E ARTICOLAZIONE
FONATORIA DEI SUONI

Il numero e la complessità degli elementi che entrano in gioco durante la


fonazione fanno sì che il comportamento del sistema fonatorio sia molto
variabile, sia nello stesso individuo, sia fra individui diversi. Si può dire che
ognuno di noi possiede uno strumento vocale unico!

Analizzando il processo di concretizzazione del suono vediamo che, nel suo


percorso dalla laringe all’ambiente, il suono incontra cavità poste in serie o
in parallelo (la cavità faringea, la cavità orale e le cavità nasali), il transito
nelle quali è obbligato (per le prime due cavità) o facoltativo (per le fosse
nasali): la possibilità di passaggio dell’aria nel rinofaringe è regolata dal
velo palatino (palato molle) che abbassandosi verticalmente permette la
continuità verso l’alto del flusso e innalzandosi ne sbarra il passaggio. Il
suono è il risultato non solo di come si gestisce la sorgente sonora (laringe e
corde vocali) ma anche di come viene gestita la cassa di risonanza nelle
varie cavità e pareti. Vi sono alcuni elementi fissi (l’ossatura per esempio)
ed alcuni elementi variabili e molli (velo palatino, labbra, lingua, ecc), la cui
modificazione comporta un diverso esito sonoro. Posso dire che dentro di
noi esistono non una ma tante voci, ovvero tante sfumature timbriche della
nostra stessa voce, in base all’utilizzo della cassa di risonanza e della
sorgente sonora. Matteo Belli, famoso attore italiano, nonché ricercatore in
ambito vocale, nei suoi seminari presenta i 18 risuonatori della voce umana.
Egli ha frammentato i concentrati di risonanze, che solitamente cogliamo
raggruppati nella voce delle persone, arrivando ad isolarli uno ad uno.
Questi risuonatori sono i seguenti: laringale, faringale, uvulare, occipitale,
velare, parietale, palatale, apicale, prepalatale, nasale, nasale-velare,
falsetto, flauto, fischio laringeo, airtenoideo, throat voice, diplofonico e
diplofonico con false corde, dei quali gli ultimi sei sono oltretutto frutto di
particolari modalità di emissione vocale. Ebbene, quando ascoltiamo una
persona parlare o cantare possiamo cogliere che essa utilizza una di queste

16
zone risonanziali in preferenza (solitamente per imprinting ricevuto sin da
piccoli), oppure cogliamo un uso di più zone mescolate assieme.

Nel canto possiamo avere una voce che si affida al bilancio risonanziale che
ha sviluppato con il linguaggio sin dall’infanzia (spesso con grande peso
dell’imitazione del timbro genitoriale) oppure, essendo educata e con
competenze tecniche, abbiamo una voce che è consapevole delle zone di
risonanza che utilizza e cerca di adattarle sia al contesto sonoro nel quale si
cimenta sia alla situazione psicofisica del momento.

Sintetizzando, le zone di risonanza predominanti sono: la cavità della


faringe, la cavità della bocca e le cavità del naso.
La faringe è situata dietro la bocca, posteriormente alla lingua. E' una cavità
che può variare il suo volume sia in senso orizzontale che verticale.
Maggiore sarà l'ampiezza della zona faringea, più il nostro suono risulterà
percettivamente libero e naturale. Vi è poi la zona della bocca, la cui cavità
dovrebbe essere potenzialmente ampia affinché il suono possa risuonare in
tutta la sua possibilità armonica. Il velo palatino (soffitto posteriore della
bocca), è organo mobile che può alzarsi e abbassarsi, ed esso conferisce
maggior portanza e rotondità al suono. Al fondo della bocca vi è anche
l’ugola, un piccolo muscolo a forma di ogiva, che pende dal centro del velo
palatino, ma la sua funzione nella fonazione non è ancora del tutto chiara.
Vi sono poi le fosse nasali che possono comunicare con i seni per mezzo di
piccoli orifizi. Fosse nasali e seni costituiscono quello che generalmente
viene chiamata maschera, ovvero un suono che risuona proprio in queste
zone. I seni sono quattro: sopra l'orbita (seno frontale), sotto l'orbita (seno
mascellare), tra l'occhio e il lato del naso (seno etmoidale) e il soffitto del
rinofaringe (seno sfenoidale). Anche se la funzione risonatoria dei seni è da
alcuni autori messa in discussione, si può tranquillamente definirli zone di
risonanza.

17
Nell’immagine osserviamo chiaramente le zone di risonanza. Partendo dal basso abbiamo: zona
laringea (larynx) che si apre poi a zona faringea (larynx opening into pharynx e pharynx), cavità
buccale (oral cavità) con lingua (tongue), palato molle e duro (palate), denti e labbra, infine abbiamo
le cavità nasali (nasal cavity).

Conoscendo bene la costituzione della cassa di risonanza (vocal tract) ed il


suo effetto sul suono, abbiamo la possibilità di identificare il più
correttamente possibile quali risuonatori utilizza un determinato cantante.
Tornando al jazz, vi sono cantanti che, nelle loro performance, si
contraddistinguono per una consuetudine timbrica, ovvero per un uso
costante di determinati risuonatori; altri cantanti invece sono poliedrici e
variano spesso il suono, soprattutto se si cimentano in suoni come le
percussioni vocali o suoni di strumenti musicali (per esempio le sezioni
fiati); a questo proposito, ricordiamo i gruppi vocali jazz (Swingle Singers,
Double Six, Manhattan Transfer, ed altri) che con i loro ensemble
ricostruiscono le sonorità di strumenti musicali; tra i solisti è d’obbligo
ricordare Bobby Mc Ferrin che, con la sua abilità vocale e gusto musicale,
spazia tra numerosissimi tipi di risonanze vocali (dal suono del basso, al
suono di tromba, alle percussioni vocali, ecc). In questo caso si può dire che
la voce sia usata in senso “mimetico”, ovvero diviene voce evocativa ed
imitativa nei confronti dello strumento a cui si ispira in quel momento.
L’oggetto di questa analisi è invece la voce usata in senso proprio,

18
autoaffermativo, ovvero la voce che si esprime come strumento a sé, frutto
sia di una ricerca personale sia di un substrato fisico naturale.

Non possiamo ora trascurare un altro elemento molto importante che è


competenza del solo strumento voce nell’universo degli strumenti musicali,
elemento che interviene in modo particolare quando cantiamo testi o quando
improvvisiamo con lo scat: l’articolazione fonatoria dei suoni.

L’articolazione del linguaggio e delle parole è svolta da parti mobili della


sezione vocale che modificando dimensioni e forma varia il flusso della
colonna d'aria in uscita. Tali organi non svolgono esclusivamente tale
funzione, infatti essa è stata sviluppata filogeneticamente a partire da attività
fisiologiche, come la masticazione, la deglutizione e respirazione. La loro
estrema plasticità funzionale permette di realizzare modelli linguistici
estremamente vari e diversificati attraverso potenzialità di articolazione
estese. Durante la produzione delle parole, i modi e i luoghi di articolazioni
cambiano da un fonema al successivo, e si influenzano foneticamente
realizzando quel fenomeno dinamico caratteristico del linguaggio che gli
studiosi hanno denominato coarticolazione.

I sistemi uditivo (feedback audiofonoarticolare) e cinestetico-tattile


(feedback propriocettivo) regolano costantemente la produzione e
l'articolazione vocale integrandosi reciprocamente.

Nella realizzazione dell’articolazione distinguiamo ORGANI


ARTICOLARI primari (lingua e labbro inferiore) e LUOGHI
ARTICOLARI (labbro superiore, arcate alveo-dentali, il palato duro, il velo
palatino). Variabilmente vengono in contatto con gli organi articolari
realizzando fonemi sia vocalici(prodotti delle corde vocali e dalla posizione
della lingua e dalla particolare forma della rima buccale che determinano
variazioni volumetriche del segmento sovraglottico) che consonantici
(prodotti dall'ostruzione più o meno totale del flusso d'aria in uscita
realizzati dagli organi articolari).

19
Ecco come i suoni consonantici si realizzano:
 Dal contatto tra il labbro superiore e il labbro inferiore: P, B, M
 Dal contatto tra la zona dento-alveolare (predorso-alveolare) e la
lingua (zona predorsale-apicale): RD, ST, ZN, L
 Dal contatto tra la zona dento-alveolare (apico-dento-alveolare) e la
lingua (apice): T, D, N
 Dal contatto tra la zona dento-alveolare (apico-post-alveolare) e la
lingua: CI, GI, SC, J.
 Dal contatto tra il palato duro e il dorso della lingua: GN, GL.
 Dal contatto tra il palato molle o velo pendulo e la lingua (zona
dorso-base): K, GH.

I denti, intervengono non solamente nella produzione delle consonanti


dentali T, D ed N ma anche nelle consonanti labiodentali F e V.

Anatomicamente e fisiologicamente riguardo la produzione delle consonanti


oltre l'organo di articolazione e il luogo d'articolazione dobbiamo riferirci
anche al MODO DI ARTICOLAZIONE delle consonanti (con cui si
realizzano). Infatti abbiamo:
 Consonanti OCCLUSIVE: caratterizzato dall'ostacolo completo
della cavità orale al flusso d'aria in fase espiratoria (uscita)
 Consonanti COSTRITTIVE: realizzate da un restringimento della
cavità buccale.
 Consonanti SEMI-OCCLUSIVE E SEMI-COSTRITTIVE: in cui
l'atteggiamento articolare risulta intermedio tra i primi due.

A loro volta le occlusive possono essere nasali/orali, e le costrittive vibranti


(mediane e laterali), sorde/sonore. In particolare alcune consonanti (da un
punto di vista dell'impressione sonora) si realizzano attraverso una
contemporanea vibrazione della laringe (per cui si parla di consonati sonore,
B, D, M, N, GH, GN), diversamente dalle sorde in cui manca (T, L, P, S).

20
Anche se questo vale non completamente nello scat in quanto spesso si
rendono sonore quasi tutte le consonanti (anche T ed L per esempio).

Questa modalità di formazione delle consonanti e delle vocali, e di


conseguenza delle sillabe e delle parole, è anch’essa assolutamente
influenzata dalla fisicità personale e dal linguaggio che abbiamo appreso sin
da piccoli. In particolar modo, la voce dei genitori o di chi ci ha cresciuto
può essere stata determinante per formare il modo che abbiamo di
pronunciare le parole, l’andamento del nostro eloquio, il suono del nostro
eloquio stesso. Da una ricerca effettuata in Giappone nel 2007 da Saito-
Aoyama-Fukamoto è emerso che soprattutto il linguaggio materno
(chiamato motherese) ha un ruolo importantissimo nell’attivare il cervello
del neonato e nello stimolare il processo di assimilazione del linguaggio già
in tenerissima età. La cosa interessante è la descrizione che viene fatta del
motherese (chiamato anche “lingualatte”): linguaggio puerile con
semplificazione della sintassi, brevità dell’articolazione vocale,
caratterizzato da molti e veloci cambiamenti nel tono come nel glissando
musicale, uso di suoni senza senso e altre modificazioni fonetiche e che si
riscontra in tutte le lingue. Viene spontaneo fare un collegamento con le
caratteristiche dello scat, il quale si configura come una sorta di ripresa di
un linguaggio non codificato, ma puramente evocativo, timbrico, pre-
linguistico; inoltre, è importante notare che l’area cerebrale coinvolta nella
formazione di suoni pre-linguistici è la corteccia orbitofrontale,
particolarmente sviluppata nella corteccia destra (mentre l’attività verbale e
linguistica si concentra nell’emisfero sinistro) sicchè dal punto di vista
fisiologico abbiamo un fenomeno (quello del pre-linguaggio) che è
inquadrabile ed assimilabile all’attività musicale. Si può dire che il cantante
jazz, che improvvisa con lo scat, recupera tutta un’attività legata al pensiero
emotivo dell’emisfero destro, dove il suono si fa evocativo e non codificato
entro una lingua specifica; tuttavia, il cantante jazz recupera altre
informazioni e ricordi musicali da altre aree cerebrali coinvolte nel processo
improvvisativo, con un uso più integrato (e meno lateralizzato) degli

21
emisferi del cervello. Passare tra creatività e razionalità, tra invenzione e
ricordo, tra il lasciarsi andare ed il controllo, è lo slalom che fa il cantante
(ed anche il musicista) jazz, quando manipola con pensiero e corpo la
materia sonora che ha a disposizione in un dato momento.

La complessità della formazione articolatoria dei suoni viene arricchita


ulteriormente dalla lingua ufficiale che l’individuo parla. Ogni lingua ha
determinati suoni e determinate possibilità espressive e comunicative a
livello ritmico e melodico. Un individuo che padroneggia già il sistema
fonologico della propria lingua capta i suoni di una lingua straniera in modo
condizionato dal proprio sistema linguistico, attivando una sorta di "filtro
fonologico". Ecco perché, per padroneggiare bene una lingua essendo
credibili a livello sonoro (quindi non solo nel parlato, ma in questo caso nel
cantato), ciò che lavora è soprattutto il nostro orecchio che deve carpire e
“comprendere” la modalità di esecuzione dei fonemi propri di quella lingua.
Comunque, al di là delle considerazioni linguistiche, credo che nel jazz la
voce stia e “sia” sicuramente accanto al linguaggio ed insieme ad esso,
come quando un cantante interpreta le lyrics e musica un significante
testuale, ma la voce è ,soprattutto, “nonostante” ed “oltre” il linguaggio
stesso, poiché essa improvvisa e si appropria di fonemi non codificati, di
nuovi eloqui, di sillabe create nel qui ed ora dell’immediatezza del momento
improvvisativo. Quindi, mentre le caratteristiche di una certa lingua (fonemi
e frasi) appartengono al codice deciso dall’uomo, ovvero al corpo sociale, la
voce cantata (ed ancor più nel canto improvvisato) è una forza comunicativa
estremamente individuale che trascende i limiti della comunicazione sociale
consueta, proprio perché si riaggancia alle caratteristiche profondo del
suono in sé.

Certamente, lo scat di un cantante jazz è frutto di un lavoro di anni, un work


in progress che continua sempre al fine di rispecchiare ciò che il cantante
stesso è o sceglie di essere in quel momento. Dall’analisi delle

22
improvvisazioni vocali jazzistiche possiamo riscontrare delle consuetudini
nell’utilizzo delle sillabe scat nei vari cantanti.

Porterò ora alcuni esempi.

Louis Armstrong viene citato come il primo esecutore di un assolo scat


vocale, tuttavia esistono esempi precedenti già dagli anni 10 del novecento,
come Gene Greene7 o Al Jolson8, o più tardi Aileen Stanley9, fra le voci
femminili. Comunque la registrazione di “Heebie Jeebies” di Armstrong del
1926, nella quale egli sostituiva il testo con sillabe scat, ha avuto un’enorme
influenza nel panorama jazzistico vocale (pensiamo alle performances
successive di Cab Calloway). Ascoltando lo scat di Armstrong, si può
osservare che le sillabe da lui utilizzate richiamano in diversi punti il
fraseggio trombettistico, in altri punti sembrano un rimando ad un
linguaggio onomatopeico con vocali abbastanza chiare. Egli utilizza tutte le
vocali (per le quali ritorna spesso la sequenza oo-ee-oo-ee) abbinandole a
consonanti più che altro dentali e bilabiali, infatti vi è un grande uso della D
e della B (dee, doo, dat, bee, bap); usa anche l’occlusiva P e la consonante
velare K, quest’ultima soprattutto con il suono I (scritta nella trascrizione
come la doppia “ee” della lingua inglese). Da altri ascolti di Louis
Armstrong emerge che il suo universo sillabico comprende anche le sillabe
inizianti per “z” (esempio za, ze, zoo, zee, ecc), marchio caratteristico del
suo scat. A proposito della sua voce, G. Schuller ha scritto:
“Nell’ascoltatore di orientamento eurocolto la voce di Louis, con la sua
tecnica rauca e totalmente antiortodossa, di solito produce uno choc
completo. Spesso la reazione sfocia nel rifiuto di questa voce come

7
Egli registrò un solo scat nel suo brano “King of the Bungaloos” e diversi altri brani fra il
1911 ed 1917.
8
Al Jolson, cantante ed attore Americano, registrò un solo scat che durava alcune battute
nell’anno 1911 nel brano "That Haunting Melody".
9
Aileen Stanley, cantante, mise un intervento scat nella chiusura del brano “It had to be
you” , fatto in duetto con Billy Murray.

23
primitiva e rozza. In realtà il canto di Louis non è che il corrispettivo vocale
del suo modo di suonare, ed altrettanto libero e ispirato. Nella sua voce si
colgono tutte le sfumature, le inflessioni e la scioltezza spontanea della sua
cornetta, inclusi portamenti e colpi d’attacco, vibrato e trilli. […] Ha
aggiunto una nuova scuola o tecnica di canto alla musica occidentale,
sebbene il suo orientamento di partenza sia senz’altro africano.”10
Il suo timbro era il risultato di un suono molto focalizzato in laringe e
faringe (si ipotizza anche un uso delle false corde vocali), al quale non
mancava una componente di risonanza più alta, soprattutto nelle note più
acute della sua estensione (probabilmente, in virtù anche della tecnica
trombettistica, egli usava il palato molle in modo duttile, quindi anche
alzandolo). Ecco la trascrizione del solo:

10
Gunther Schuller, “Il jazz. Il periodo classico. Le origini”, EDT Torino, 1996; pag 93;

24
Dopo questo breve excursus sullo scat di Armstrong, osserviamo altri
fonemi usati da famosi cantanti jazz.

Ella Fitzgerald fa ascoltare un vero universo di fonemi: le dentali D e T


associate soprattutto alle vocali I (“ee” della scrittura inglese), U (“oo” della
scrittura inglese) ed E (dee, doo, de, tee, te); le bilabiali B e P associate
soprattutto alle vocali I (=ee), A, U (=oo), O (esempio pé ba o ba, ba oo ba
boo ba, u bé bé, pee oo bee ); Ella usa anche le laterali come GL (gleea per
esempio), la liquida L (soprattutto con la vocale I e O), la velare GH (spesso
in associazione con I, A ed O); non troviamo quasi mai la F e la V. C’è
anche un uso di doppia consonante come DL (dove viene sonorizzata molto
la L) e la DN (qui viene sonorizzata molto la N), in particolare nelle ghost
notes. E’ stato osservato da Stewart, Milton L. (autore di "Stylistic
Environment and the Scat Singing Styles of Ella Fitzgerald and Sarah
Vaughan", 1987) che l’universo sillabico di Ella rappresenta la sonorità per
eccellenza della swing era, differenziandosi per esempio da Sarah Vaughan
che con il suo scat incarnava il nuovo fraseggio del Bop.
Stewart porta gli esempi del brano “Flying home” (registrazione del 1949) e
“How high the moon” (registrazioni degli anni ’50 e degli anni ’70) per
avvalorare la sua tesi. Nel brano “Flying Home” cantato da Ella (per il quale
Stewart fa notare come fosse suonato sia da musicisti della Swing Era sia
dell’era Bebop), Ella usa molte consonanti bilabiali (B,P) e la liquida L.
Poiché la produzione di una bilabiale si effettua con una “esplosione” di
aria costretta nell’area labiale della bocca, rimandiamo direttamente allo
stesso principio formativo della produzione del suono di molto strumenti
che utilizzano l’aria (come i brass). Stewart ricorda che negli ottoni si
produce il suono usando fonemi come Tu o Du, eseguiti con la lingua.
Ella usa frequentemente anche la dentale D come si usa anche in molti brass
(uso del Du nei passaggi con legato). Il legame tra D ed U vede l’unione di
una dentale (D) e di una vocale con lingua alta e concretizzata
maggiormente nell’antro posteriore della bocca.

25
La DU articola ogni nota e serve per unire insieme le note nel fraseggio.
Queste particolarità dello scat di Ella sono per Stewart influenzate dalle
sonorità da big band, con le quali spesso si esibiva Ella stessa. Si può però
osservare che, dal contatto e la collaborazione con jazzisti bebop, Ella
assorbì anche il loro materiale sonoro, anche se il suo stile rimane anche
legato alle caratteristiche evidenziate da Stewart.

Ascoltando lo scat di Sarah Vaughan, si può osservare che tra i suoi fonemi
compare spesso la sibillina S nelle sillabe sha, shoo, shee ed altre; spesso vi
l’uso di occlusive bilabiali come P e B (pee, pa, bee, ba, ecc) e dentali come
la D e la T (doo, dee, do, too, tee); le sequenze spesso usate da lei sono
“shoo bee oo bee”, “sha, ba da ba”, “doo bee doo bee”, sa ba dee bee doo dé
ee a”, “sa ba do wee”, ed altri. A questo proposito, lo Stewart fa notare che,
se Ella sembra aver introiettato in maniera particolare le sonorità della
Swing Era, Sarah Vaughan sembra essere influenzata, nei suoi fonemi, da
strumenti presenti nel piccolo gruppo o combo, in particolare dell’era bebop
e cool. Anche Stewart osserva che Sarah usa frequentemente la S (lingua-
palatale e fricativa) ed egli rimanda ciò al suono delle spazzole della
batteria jazz, usate molto negli anni ’50 e ’60, nell’era cool.
Inoltre, sempre per lo Stewart, Sarah dimostra un’altra influenza della
scuola cool nel suo uso di vocali sostenute e nelle dinamiche delle vocali
stesse (per esempio cantare una vocale per più misure, mettendo il vibrato
solo alla fine della durata della nota, e variando la dinamica della nota
stessa).

Probabilmente le due cantanti svilupparono i loro fonemi scat non solo in


base alle situazioni musicali (rispetto al genere ed agli organici) nelle quali
eseguivano le loro performance, ma anche in base al loro proprio strumento
vocale, alla loro storia personale e musicale e al loro gusto personale.

Per portare altri significativi esempi, osserviamo che la cantante Betty


Carter si affida più frequentemente a fonemi che includono la liquida L e la
dentale D. Le combinazioni sillabiche più utilizzate dalla Carter sono “la-

26
do-la-lod-lo”, “lad-lad-le”, “la-la-lo-lee-lee”, “la-dud-le-doo-lo”, oppure
“de-de-la-la-do”. Essa usa inoltre la B e la P come in “pat-pa-da-doo”, “do-
pa-da-pa-da-doo”, “ba-lo-ba-lee-lo”, “pa-la-lee-dl”. La sua caratteristica più
evidente rimane sempre l’uso della L ed il suono con cui articola le sue
vocali, soprattutto, in quanto è un suono molto aperto e chiaro, quasi più
vicino al suono vocalico italiano rispetto al suono vocalico inglese-
americano.

La cantante Carmen Mc Rae utilizza spesso, abbinandola a D, P e B, la


fricativa post-alveolare sorda “sc” (in inglese “sh”) come nei fonemi “sho-
do-ba-doo-ba”, “sha-pa-doo-da”, “sho-po-po-po”, “sha-du-ba-du-dn-dee-
da”, “sha-dud-lee-a-doo-wee-dop-wee-wa”, “shoo-do-pee-pou”, “shoo-poo-
poo-wee”. Per riprendere il concetto espresso da Stewart, relativo ad Ella
Fitzgerald e Sarah Vaughan, possiamo chiaramente ravvisare anche in
Carmen Mc Rae una chiara evocazione di suoni strumentali.

Particolare è il caso del grande trombettista-cantante Chet Baker. Il suo


universo vocalico vede una preferenza per le dentali T e D, associate
frequentemente alla vocale E (pronunciata come la U di “turn” o “burn”,
quindi scrivibile come “eu”); il suo scat è sicuramente riconducibile al suo
suono e fraseggio trombettistico, caratterizzato da un timbro morbido ma
definito, reso nel canto più sussurrato (quindi arioso) e stemperato. I suoi
fonemi preferenziali utilizzano, oltre alle consonanti T e D, la P e la L: “pa-
de-dl-la-de-de”, “dei-dei-le”, “te-d-dl-de”, “te-ee- da-de-doo-le-de-e”, “te-
te-te-de-de-lee-de”, “loo-duh-doo-too”, “te-did-le-did-le”, “to-de-do-to-de-
do-de-dl-de”. Il suo è un universo sillabico ridotto, soprattutto dal punto di
vista vocalico, ma in chiara linea con il suo stile ed il suo fraseggio di
strumentista. Nell’esempio che segue, dove Chet Baker esegue assolo
vocale nel brano “It could happen to you”, vediamo come tutte le vocali
indicate come “e” siano pronunciabili in modo abbastanza chiuso (come la
pronuncia della parola inglese “burn”) ed anche le “a” siano poco aperte e

27
spesso formate con un’apertura buccale limitata (come la pronuncia inglese
di “far”).

Numerosissime sono le voci interessanti da analizzare, fra esse Anita


O’Day, Mel Tormè, Sheila Jordan, Jay Clayton o quella del poliedrico e
virtuoso Bobby Mc Ferrin, o ancora, fra le voci jazz internazionali più
innovative, Dianne Reeves, Kurt Elling, Maria Joao, Dee Dee Bridgewater,
Diane Schuur, Norma Winstone, Ursula Dudziak, ed altre ancora. Ogni
voce è un universo di fonemi diverso dagli altri, alcune di esse hanno punti
in comune, altre si differenziano totalmente. Sicuramente, nella storia
dell’improvvisazione vocale jazzistica, all’evoluzione del fraseggio (scelte
melodiche, ritmiche, agogiche) si è accompagnata una ricerca spesso
innovativa nella scelta e nell’uso dei fonemi dello scat, in virtù non solo
della generale evoluzione del jazz (a livello compositivo e stilistico, quindi

28
con armonie e melodie più complesse rispetto al repertorio degli standards)
e della sua interazione con altri generi musicali, ma anche in virtù della
maggior conoscenza delle tecniche canore e del mutamento degli ambienti
sonori con cui entra in contatto il cantante jazz oggi. Per esempio la cantante
Dianne Reeves, considerata dalla critica una delle più grandi voci jazz
internazionali, mostra una interessante diversità nell’uso dei fonemi quando
canta uno standard jazz rispetto a quando canta un brano di stile diverso.
Riporto, di seguito,due esempi nei quali la Reeves usa sillabe diverse: più
classiche nello standard “What a little moonlight can do” (registrato in
quartetto), più variate ed inconsuete, con un uso maggiore della consonante
R assieme al dittongo UA, nel brano “Obsession” (originariamente di stile
latino americano, riarrangiato per la Reeves nell’album dedicato a Sarah
Vaughan). Nel primo brano Dianne Reeves usa frequentemente la dentale
D e la bilabiale P, inoltre c’è una grande presenza della liquida L; le
combinazioni fonetiche più usate sono “pee-pa”, “pee-po”, “pee-lo”, “po-
po”, “dood-la-dood-le”, “dee-dl”. Notiamo che il brano è uno swing
medium up. Nel secondo brano, che fu interpretato negli anni ’80 da Sarah
Vaughan nell’album “Brazilian Romance”, l’approccio è più vicino alla
musica latino-americana, infatti buona parte dell’improvvisazione è una
samba. Dianne Reeves in questo caso usa dei fonemi che suonano quasi
come parole africane: “hen-dé”, “he-re-de-yé”, “pe-re-de-ye”, “ye-dem-
bem-bé”, “pa-ra-dan-dé”, “bu-be-lé-yo-lo-be-bé”, “rrua-pa-ba-la-ra”, “hu-
bu-bay-de-bon-bay-è”. Vi è un uso frequente della R e della N ed M, suoni
che abbinati a certe vocali evocano il suono delle percussioni (esempio
“rrua”, “bem”, “dan”, ecc.).

Quindi, la Reeves usa due stili fonetici evidentemente diversi, che evocano
strumenti musicali diversi (nel primo brano si potrebbe pensare ad una
tromba o ad un trombone, mentre nel secondo brano si può pensare alle
percussioni africane).

29
30
31
Ma la scelta dei fonemi dello scat come influenza il “timbro” della voce?
Ovviamente, come abbiamo visto in precedenza parlando della modalità
articolatoria delle vocali e delle consonanti, vi sono vocali che generalmente
risultano più chiare e vocali che risultano più scure, non solo ad un livello
percettivo, ma ad livello acustico oggettivamente misurabile.

Ciò che le differenzia sono le “formanti”. Con formante si intende una


“frequenza caratteristica attorno alla quale un suono spettralmente ricco
mostra un picco di ampiezza” (parametro che si può vedere anche a livello
grafico). Esse sono raggruppamenti di frequenza dotati di maggior energia.
Ciò che le fa mutare non è solo la costituzione anatomica del vocal tract, ma

32
anche l’atteggiamento funzionale assunto da esso nel corso della fonazione.
Le formanti si indicano con la lettera F maiuscola, seguita da un ordinale a
partire da 1, in ordine crescente di frequenza (dalla più grave, ossia vicina al
parlato, alla più acuta). In prima approssimazione, una specifica vocale è
identificata dal rapporto tra seconda e prima formante: F2 / F1, mentre le
altre formanti definiscono "sfumature" linguistiche, dialettali e personali.
Poiché le posizioni delle formanti sono parzialmente modulabili
volontariamente, questo è proprio il meccanismo di emissione, e di
riconoscimento, delle vocali. Scrive Fussi:

“Sebbene per ogni vocale si abbiano almeno 5 formanti, situate in zone


frequenziali precise (relative al tipo di filtraggio/atteggiamento attuato), la
maggior parte dei tratti distintiv,i sui cui opera l’identificazione vocalica, è
veicolata dai valori della 1a e della 2a formante, a loro volta strettamente
correlate essenzialmente all’atteggiamento funzionale della rima labiale e
del corpo linguale. Studi sperimentali infatti hanno dimostrato la primaria
importanza delle labbra e lingua nell’articolazione fonemica, come già era
evidente all’osservazione, rilevando una proporzionalità diretta tra grado
di apertura della bocca e frequenza della 1a formante e variazioni
frequenziali della 2a relative a cambiamenti di atteggiamento del corpo
linguale […] Variazioni anche minime dei restanti distretti del vocal tract
sono in grado di produrre variazioni formantiche che, anche senza mutare
sostanzialmente il suono vocalico, impedendone l’identificazione,
producono alterazioni del timbro; ad esempio un arrotondamento delle
labbra spesso abbassa i valori di tutte le formanti, così come un
abbassamento della laringe, tanto da poter affermare che tutto ciò che
allunga il tubo aggiunto (labializzazione, intubazione, forzata
retroposizione linguale) scurisce globalmente il suono, tutto ciò che
accorcia (sollevamento laringeo, stiramento labiale, riduzione dello spazio
faringeo-laringeo) schiarisce, come intuitivamente è dato pensare

33
osservando le canne di un organo: lunghe per i suoni gravi, corte per gli
acuti”11.

Le formanti non devono essere confuse con le costituenti armoniche del


suono, infatti nell'emissione della voce abbiamo uno spettro armonico (la
nota emessa, che è presente anche nel parlato), il cui profilo spettrale, già
decrescente con la frequenza, viene ulteriormente plasmato dal profilo
formantico applicato dalla postura scelta per il tratto vocale.

Tornando al colore delle vocali, possiamo indicare come vocali chiare la "e"
e la "i", e come vocali scure la "a", la "o", la "u". Tuttavia, come detto sopra,
anche la “a” può risultare chiara se è pronunciata in modo tale che ne
risultino potenziate determinate formanti.

Scrive Mauro Uberti: “La voce, dicevamo, percorre il canale vocale, il


quale presenta due cavità di risonanza: la faringe e la bocca. I suoni
armonici che compongono la voce, capaci di risonare nell'una o nell'altra
delle due cavità a seconda della loro altezza, vengono rinforzati per gruppi
chiamati formanti e il timbro ne risulta modificato. Le modulazioni del
timbro, così ottenuto, vengono percepite come vocali.

Può essere interessante, a questo punto, prendere a sperimentare con la


nostra bocca e verificare come, nella pronuncia delle diverse vocali, la
lingua e le labbra vengano a delimitare cavità ben definite secondo lo
schema della figura. Nel caso della "i", per esempio, si forma fra la
porzione anteriore della lingua e la regione alveolare del palato una
cameretta di risonanza che determina una formante molto acuta (2700 Hz,
quella che dà alla vocale il caratteristico timbro chiaro), mentre la porzione
posteriore, risalendo dalla faringe lascia libera una grossa cavità che
rinforza, per risonanza, armonici la cui altezza coincide abbastanza bene
con le note centrali dei pianoforte (250 HZ).

11
F.Fussi, S. Magnani, “L’arte vocale”, Omega Edizioni, 1994, pag. 38.

34
Nella pronuncia della "u", invece, la laringe si abbassa, il dorso della
lingua arretra, le labbra protrudono in avanti e faringe e bocca si
trasformano in due grosse cavità capaci di generare le due formanti basse
(250 e 700 Hz) che conferiscono a questa vocale il timbro oscuro”12.

Mauro Uberti13 scrive che l’interesse per il timbro delle vocali sentito come
qualità estetica, nella storia della musica antica, viene espresso in modo più
schematico e ordinato dal Bembo14 e dal Tesauro15; il Panigarola16, invece,
disserta ampiamente sulle combinazioni di fonemi. Da tutti e tre appare
chiarissimo il gusto per il timbro in sé e il senso della qualità vocale come
mezzo di espressione. Scrive il Tesauro: "A lei [alla /A/] si avvicina la E:
che rattemperando alquanto la forza di quella con alcuna compressione
delle labbra: si rende men chiara e men sonora; ma alquanto più dolce: e
perciò ministra delle preghiere. Per contrario la O, allargando più di ogni
altra l’organo della voce; e più premendo i mantici del petto: manda un
suono più sonoro e più maschile che la A: ma men naturale e men dolce:
acconcio pertanto à turbar gli animi più che a placarli. Talchè la A e la O
frà lor soperchiandosi, l’una in sonorità, l’altra in dolcezza, stan piatendo
di nobiltà, come la lira, e la tromba"17.
Dice ancora Uberti che, se si fa un'analisi dei madrigali degli anni in cui

12
Mauro Uberti (1936), autodidatta per gli studi musicali e laureato in Scienze biologiche,
è stato insegnante presso i Conservatori di Musica di Pesaro, Parma e Torino; è ricercatore
nell’ambito della Fisica acustica
13
Dal convegno "Claudio Monteverdi e il suo tempo". Congresso Internazionale
Monteverdiano - Venezia, Mantova, Cremona: 3-7.5.68.
14
Pietro Bembo (Venezia, 20 maggio 1470 – Roma, 18 gennaio 1547) è stato un
grammatico, scrittore e umanista veneziano. Regolò per primo in modo sicuro e coerente la
Lingua italiana fondandola sull'uso dei massimi scrittori toscani trecenteschi. Contribuì
potentemente alla diffusione in Italia e all'estero del modello poetico petrarchista. Le sue
idee furono inoltre decisive nella formazione musicale dello stile madrigale nel XVI secolo.
15
Emanuele Tesauro (Torino, 1592 – 1675) è stato un tragediografo e trattatista morale
italiano.
16
Francesco Panigarola (Milano, 6 gennaio 1548 – Asti, 31 maggio 1594) è stato un
vescovo cattolico italiano, vescovo di Crisopoli nel 1586 e vescovo di Asti tra il 1587 e il
1594.
17
Emanuele Tesauro, “Il cannocchiale aristotelico, o sia idea delle argutezze heroiche
vulgarmente chiamate imprese”, Torino, Gio. Sinibaldo, 1654, pag. 213.

35
nasce il melodramma, si evince che i compositori sceglievano i testi fra
quelli di poeti che avevano fatto l’uso formale della parola più raffinato e
che, nell'ambito delle polifonie, contrapponevano gli incisi con criteri
timbrici. Così, per esempio, le vocali chiare /i/ ed /e/ venivano contrapposte
tendenzialmente alle vocali scure e non si trovava mai la vocale di una voce
impiegata a vocalizzare contro la stessa vocale in un’altra voce perché i due
timbri si sarebbero mascherati a vicenda. Ma, soprattutto, il timbro vocalico
veniva impiegato a fini espressivi; ricorda Uberti che Monteverdi usò le
vocali /ó/ e /u/ in “Ecco mormorar l’onde” per rappresentare il mormorio
iniziale, schiarendole poi progressivamente con la /i/ della parola
“mattutina” passando attraverso le /a/ di “aura”. Questo è solo un esempio
dell’impiego “coloristico” (citando ancora Uberti) della parola, soprattutto
nei madrigali perché la loro struttura in certo qual modo orchestrale lo
richiede e lo consente, ma, ovviamente, lo ritroviamo sfruttato anzitutto dai
poeti la cui esperienza in materia è antichissima.

Scrive ancora Uberti che, per rappresentare graficamente il “colore” o


timbro vocalico, possiamo utilizzare uno “spettrogramma”, cioè una
rappresentazione tridimensionale della voce cantata.

“Sull’asse orizzontale viene rappresentata la durata del fenomeno, su quello


verticale la frequenza degli armonici che compongono la voce mentre i
livelli di grigio ne rappresentano l’intensità. I gruppi di armonici più scuri
– cioè più intensi – che appaiono a tre livelli sovrapposti corrispondono ad
altrettante risonanze che imprimono al timbro la loro caratteristica e
pertanto vengono chiamati formanti del timbro. Enunciando le cose in modo
semplicistico dal punto di vista scientifico, ma accettabile agli effetti pratici,
possiamo dire che il gruppo più basso, o prima formante, è quello che viene
rinforzato dalla risonanza della cavità faringea e che imprime alla voce il
colore generale. Gli armonici del gruppo centrale, o seconda formante,
sono quelli che vengono rinforzati dalla bocca e hanno una funzione
prevalente nella comprensibilità della parola. I gruppi di armonici più scuri

36
– formanti – superiori vengono a cadere nella zona di maggiore sensibilità
dell'orecchio e forniscono lo smalto che caratterizza la voce cosiddetta "in
maschera". A questo punto, ammettendo per comodità che le componenti
del timbro vocalico siano soltanto queste tre e indipendenti l’una dall’altra
– affermazione peraltro non proprio esatta – si capisce perché esse possano
essere dosate a mo’ degli ingredienti di una ricetta culinaria: il cantante
preoccupato di mettere in evidenza soprattutto il timbro della propria voce
dà enfasi alla regione bassa dello spettro sonoro e, magari, anche alla
parte acuta, quella che le dà smalto mentre il cantante interessato alla
parola cerca di mettere in evidenza la formante centrale, quella che dipende
dalla bocca. Per quanto riguarda lo smalto, a seconda del grado di
consapevolezza e di dominio del mezzo vocale, l’esecutore ne farà usi
diversi: ritrovandosi per esempio a cantare con un liuto non sarà il caso
che accentui troppo questa caratteristica timbrica perché verrebbe a
determinare uno squilibrio fra la voce e lo strumento; se però si troverà a
cantare in concerto con più strumenti egli, oltre che l’intensità del suono,
avrà a disposizione la brillantezza del timbro come mezzo per emergere
dall'insieme”18.

Ecco un esempio di spettrogramma di una voce che sta cantando le parole


“delira dubbiosa”:

18
Ideali estetici e tecniche vocali agli albori del melodramma, Atti del convegno di
studi "La musica vocale: aspetti compositivi nella letteratura antica e contemporanea",
Associazione Ricercare Musica Nuoro, 15-17 maggio 1992.

37
Tuttavia, possiamo osservare che un’analisi di questo tipo è applicabile
soprattutto a generi dove vi sia una vocalità che risulti omogenea in tutta la
sua estensione, come può essere il canto classico; nel canto jazz la
situazione risulta sicuramente più complessa, in quanto l’approccio vocale è
svincolato dai canoni estetici classici, e la voce stessa (come è avvenuto
nella storia degli strumenti musicali utilizzati nel jazz) si esprime con
variazioni timbriche che seguono le esigenze espressive del cantante,
creando una nuova e multi-sfaccettata eufonia stilistica.

Comunque, se pensiamo ai fonemi dello scat, possiamo individuare una


importante correlazione tra questi ed il timbro di ciascun cantante, e
precisamente in una relazione di reciproca influenza: la costituzione
anatomico-fisiologica dell’apparato vocale influenza la modalità
articolatoria del cantante da un canto, dall’altro canto la modalità
articolatoria che mette in atto il cantante influenza di conseguenza il timbro
finale che ne risulta.
Se una cantante identificabile come soprano (quindi con corde vocali di una
certa lunghezza ed una certa globale conformazione anatomica) usa di
preferenza vocali scure nel suo scat, come U oppure O (magari con un
allungamento del vocal tract), il risultato timbrico che ne deriverà sarà
quello di una voce tendenzialmente scura, rinforzato per esempio dall’uso
di consonanti più gutturali (ossia formatesi non anteriormente ma
posteriormente); se un contralto utilizza vocali chiare (come la I o E),
allargando ed accorciando il vocal tract, avremo un risultato notevolmente
più chiaro. Ecco che gli stereotipi vocali del bel canto (soprano leggero,
lirico pieno, ecc) vengono sconvolti nella nuova estetica jazz, lasciando una
grande libertà al musicista (in questo caso il cantante) per esplorare il
proprio strumento e per esprimere la propria personalità.
Le E pronunciate da Chet Baker danno un risultato non certamente brillante
e “di punta”, poiché egli le articola con un certo grado di chiusura, come
pure le sue A; l’articolazione che egli usa rende il suono offuscato (quindi

38
con una certa componente di aria al suo interno) e non troppo scuro.
Possiamo ipotizzare che egli usasse il suo vocal tract in modo abbastanza
neutro (ovvero né verticalizzato né troppo allargato orizzontalmente), con
un palato molle in posizione non troppo elevata.
Se Chet Baker avesse articolato i suoni usando la cassa di risonanza in modo
più verticale, per esempio, avremmo avuto un risultato totalmente
differente, ferma restando la costituzione di base del suo strumento vocale.
E ancora, se Sarah Vaughan avesse pronunciato le stesse sillabe di Carmen
Mc Rae probabilmente avremmo avuto un risultato timbrico diverso
nonostante le due cantanti siano state definite come contralti, poiché, come
detto in precedenza, il modo di articolare i suoni della Vaughan (oltre che
alla sua conformazione anatomica) era diverso da Carmen Mc Rae.
Da ciò si evince che l’analisi del timbro svolta in relazione all’uso fonetico
dei suoni è utile per comprendere il risultato finale del “colore” vocale di un
cantante, tuttavia non è l’unica relazione da considerare, in quanto, come
vedremo più avanti, molto determinante per il risultato timbrico è
l’intervento dei risuonatori che un cantante utilizza.

39
4- IL TIMBRO E GLI ASPETTI MUSICALI AD ESSO
CORRELATI: IL COLORE DELLA VOCE IN RELAZIONE A
MELODIA, RITMO E FONEMI.

Dopo aver analizzato quali sono gli aspetti fisiologici e linguistici che
intervengono nella formazione del timbro di una voce, metterò in relazione i
risuonatori del vocal tract con l’aspetto musicale, ovvero con melodia e
ritmo.
Ho scelto di confrontare due cantanti con vocalità abbastanza diverse fra
loro, ovvero Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan. Queste due grandi e
memorabili voci della storia del jazz hanno lasciato un segno importante
nell’estetica jazz, diventando icone emblematiche per i cantanti che furono
loro contemporanei o successivi.

Ella Fitzgerald ebbe un’infanzia difficile in quanto rimase orfana a


quattordici anni e passò la sua infanzia tra orfanotrofi e quartieri malfamati
di New York. Debuttò nel 1934 all'Apollo Theater di Harlem e l’occasione
fu una delle serate dedicate alle competizioni canore dei dilettanti, chiamate
“Amateur Nights”, a cui Ella Fitzgerald partecipò e vinse. In realtà era
andata a quelle competizioni per ballare, ma non riscosse molto successo
come ballerina, sicchè decise di salire sul palco e cantare. Essa era chiamata
“the homeliest girl” nell’ambiente, ovvero “la ragazza sempliciotta”,
considerata non bella e non ancora compresa nel suo talento. Ella fu però
notata da Bardu Ali, della band di Chick Webb, che convinse quest'ultimo
ad assumerla. Da quel momento partì la sua fortuna, infatti Ella Fitzgerald
iniziò a cantare per l'orchestra di Webb nel 1935, e successivamente incise
con loro alcune canzoni di successo, tra cui "A-Tisket, A-Tasket",
"Undecided" e "Mister Paganini". Pian piano il suo stile vivace, virtuoso e
coinvolgente, aderente perfettamente allo swing, le permise di essere
annoverata fra le stelle della musica e alla morte di Chick Webb nel 1939,
l'orchestra continuò a fare spettacoli con il nuovo nome di "Ella Fitzgerald

40
and Her Famous Orchestra". Nel 1941 Ella Fitzgerald iniziò la carriera
solista, abbracciando nel tempo i più svariati generi musicali: swing, bebop,
blues, latin jazz, gospel. Con il suo potente e talentuoso strumento vocale
essa si cimentò in improvvisazioni funamboliche, tanto che i suoi scat
potevano durare oltre i cinque minuti. Essa sapeva giocare talmente bene
con i suoi suoni che nell'ultima parte della sua carriera artistica si divertì
spesso anche ad imitare le voci di altri cantanti durante i suoi concerti,
come per esempio quelle di Rose Murphy, Dinah Washington, Della Reese
e Louis Armstrong (come nella famosa versione di “Basin street blues”).

Ella Fitzgerald si esibì con i più importanti gruppi ed interpreti solisti. Negli
anni '50 si esibì in una tournée attraverso Europa e Nord America
accompagnata dall'orchestra di Duke Ellington, aprendo i concerti con il
famoso brano "Take the 'A' Train". Anche con Louis Armstrong instaurò
uno straordinario sodalizio artistico, sfociato nell'incisione di tre dischi
importanti.Dal 1956 al 1964 Ella Fitzgerald incise per l'etichetta
discografica "Verve Records" una serie di "Songbooks", prodotta da
Norman Granz, tratta dal repertorio delle canzoni scritte dai più grandi
compositori americani. Nel 1960 tenne un indimenticabile concerto a
Berlino da cui sarebbe stato tratto l'album “Ella in Berlin”; in
quell’occasione, nel momento in cui doveva cantare “Mack that Knife”,
dimenticò le parole del testo e cominciò ad improvvisare con grande ritmo e
verve; per questa interpretazione si aggiudicò un Grammy Award. Negli
anni sessanta e settanta continuò ad incidere dischi e ad esibirsi in tutto il
mondo; fra i concerti indimenticabili ricordiamo i quattro concerti al
Festival di Montreux. Partecipò agli show televisivi di celebri colleghi,
come Frank Sinatra, Dean Martin, Nat King Cole e Dinah Shore.

Si può dire che lo strumento vocale di Ella Fitzgerald sia


contemporaneamente semplice e complesso. La semplicità deriva da un
linguaggio musicale comprensibilissimo, fluido, piacevole. Il suo fraseggio
è morbido nelle ballad e più energico ed accentato negli swing medium o

41
fast. Il suo universo sillabico è talmente vario da sembrare sempre
rinnovato, sempre alla ricerca di sorprese, pur restando in uno stile
riconoscibilissimo e coerente. Ma come si configura timbricamente lo
strumento vocale di Ella? La sua è una voce che risuona differentemente
dalle voci di altre cantanti di colore. Scrive il Polillo:

“A dire il vero, Ella è diversa dalle altre cantanti negre, e lo è stata fin dal
principio, quando era ancora una ragazzina che viveva nel sobborgo
newyorkese di Yonkers, e si studiava di imitare la voce e lo stile di Connee
Boswell, la più brava delle Boswell Sisters19: tre bianche”20.

Continua ancora il Polillo:

“Nulla di strano in questo, perché allora, nei primi anni Trenta, era difficile
per chiunque imbattersi nel vero jazz e nelle cantanti di blues. C’era la
Crisi, e sulle onde delle radio si sentiva quasi esclusivamente musica dolce.
Quanto al buon jazz che si faceva nei cabarets di Harlem, era fuori dalla
portata dei negri, e i race records erano roba d’altri tempi. Quelli che
ancora si trovavano nei negozi, ad ogni modo, erano troppo cari per Ella,
che era povera”.

Questa influenza musicale sulla giovane Ella Fitzgerald risulta molto


interessante. Le Boswell Sisters crebbero in una famiglia della middle-class
abitante in Camp Street, nell'uptown New Orleans (Louisiana). Martha e

19
Boswell Sisters è il nome di un trio vocale femminile statunitense originario della
Louisiana, attivo negli anni trenta. Ne facevano parte le sorelle Martha (9 giugno 1905 – 2
luglio 1958), Constance detta "Connee" (poi Connie, 3 dicembre 1907 – 11 ottobre 1976)
ed Helvetia "Vet" Boswell (20 maggio 1911 – 12 novembre, 1988). Sono ricordate per le
loro intricate armonie vocali e per la sperimentazione ritmica che portarono avanti. Ebbero
notorietà essenzialmente negli Stati Uniti. Il loro stile è stato ripreso negli anni successivi
da diversi girl group, fra cui il trio Lescano e, in epoca molto più recente, dalle italiane
Sorelle Marinetti. Nel 1998 sono state inscritte nella Vocal Group Hall of Fame. Dieci anni
dopo sono state poi inserite nella Louisiana Music Hall of Fame.

20
Arrigo Polillo, “Jazz”, Mondadori, Milano 1975, pag. 543.

42
Connie erano nate a Kansas City (Missouri), Helvetia a Birmingham
(Alabama). Iniziarono a farsi conoscere a New Orleans quando erano ancora
poco più che adolescenti. In quegli anni presero parte a spettacoli in teatri e
stazioni radiofoniche locali. Il loro primo disco lo incisero per la casa
discografica Victor Talking Machine Company nel 1925. Non ottennero il
successo sperato su scala nazionale e dovettero aspettare cinque anni per
arrivare alla notorietà dopo essersi trasferite a New York City. Qui poterono
lavorare per network radiofonici nazionali ed incidere dischi per la Okeh
Records e per la Brunswick Records (per quest'ultima casa discografica dal
1931 al 1935). Molte delle loro incisioni discografiche per la Brunswick
Records sono considerate pietre miliari nell'ambito della registrazione
vocale di musica jazz. In particolare, la rielaborazione che una di loro,
Connee Boswell, apportava a melodie e ritmi di canzoni popolari contribuì
a farle apprezzare da un vasto pubblico. Buona parte del loro successo era
dovuto anche all'arrangiamento di Glenn Miller e all'orchestrazione di artisti
giovani ma già di vaglia dell'ambiente jazz newyorkese. Le Boswell Sisters
furono dei veri e propri talenti musicali, con qualità che andavano oltre la
capacità di vocalizzare armonie talvolta anche complicate. Erano tutte e tre
polistrumentiste: Martha suonava il pianoforte; Helvetia ("Vet") il violino, il
banjo e la chitarra mentre Connee era suonatrice di violoncello, sassofono e
chitarra. Le Boswell furono inoltre fra i pochi artisti dell'epoca disposti a
riarrangiare i loro pezzi in una chiave che risultasse più moderna. Sebbene
la tendenza dell'epoca fosse piuttosto conservativa e spingesse le case
discografiche, sotto la pressione dei desideri del pubblico, a mantenersi su
un piano di difesa della tradizione, nel caso delle tre sorelle Boswell vi fu
maggiore disponibilità a che le melodie fossero riarrangiate con mutamenti
anche sostanziali, come l'eseguire la partitura un tono sotto rispetto
all'originale, così come la chiave del brano poteva venire portata da
maggiore a minore mentre un'analoga operazione veniva attuata sulla
sezione ritmica. Numerosi sono gli esempi di questi brani rinnovati: “Shine
on harvest moon”, “Shuffle off to Buffalo”, “Alexander’s Ragtime Band”,

43
“Cheek to cheek”, “St. Louis Blues” e tanti altri. Una delle tre sorelle,
Connee registrò da sola diversi dischi, per l'etichetta Brunswick e, poi, per la
Decca Records. Fu proprio Connee che catturò l’attenzione della giovane
Ella. Connee aveva una voce potente, dalle sfumature scure, che si
esprimeva particolarmente bene anche negli acuti. La sua particolarità era
il colore dei suoi bassi, risuonati in zona faringale in modo molto morbido, e
legati con continuità alla zona più acuta che era cantata con una voce di testa
abbastanza potenziata. Anche il fraseggio di Connee era aderente allo stile
jazz, con accentazione dei movimenti deboli e delle note in levare (in
particolar modo nelle improvvisazioni scritte realizzate con il trio vocale) e
con un approccio ritmico rilassato, che la faceva stare abbastanza “indietro”
sul tempo. Connee è ancora considerata una delle più grandi cantanti jazz
della storia; essa collaborò spesso con Bing Crosby, realizzando con lui un
disco di duetti.

Ella, a proposito di Connee, disse: "Mia madre portò a casa uno dei suoi
dischi ed io me ne innamorai. Cercai con grande impegno di suonare come
lei”.

Ascoltando e confrontando le voci di Ella e Connee appare lampante la


vicinanza timbrica delle due. Entrambe, nel range basso dell’estensione
vocale, evidenziano una concentrazione di suono in zona faringea,
contemporaneamente risuonata anche in avanti (in “maschera”). Negli acuti
Connee sembra usare un palato molle comodamente alto, con una
disposizione non troppo aperta e dilatata del vocal tract. Ella si differenzia
in ciò in quanto negli acuti usa un’apertura laterale considerevole del vocal
tract, esaltando le frequenze medio-acute. Si può dire che Ella usa una
cavità risonanziale non sviluppata ed utilizzata in lunghezza, quanto più in
larghezza (ovvero in senso orizzontale). Se i suoi bassi sono appoggiati in
zona faringale, gli acuti sono realizzati con una minor copertura del suono
rispetto a cantanti come Sarah Vaughan o la stessa Connee Boswell; il

44
voice-craft”21 direbbe che Ella usa una sorta di twang orale, con apertura
laterale dei pilastri della gola. Il twang è una modalità di fonazione che
esalta le frequenze medie della voce, e si realizza con un vocal tract piccolo,
con laringe piuttosto alta e risonanze che si sentono nel retro della bocca. In
Ella la posizione laringea sembra abbastanza neutra e solo a volte alta, e si
può dire che essa si caratterizzi anche per un tipo di fonazione chiamata dal
voicecraft “sob”, ovvero un suono rotondo anche negli acuti, con vocal
tract abbastanza espanso e corde assottigliate. Quindi, per riprendere i
termini voicecraft, possiamo dire che Ella utilizza le due qualità “twang” e
“sob”, con una propensione ora per una ora per l’altra, ma orientandosi al
twang soprattutto in certi acuti e restando in produzione vocale sob nei medi
e nei bassi. Parlando in termini fisiologici, essa utilizza di preferenza il
risuonatore faringale per la zona dei bassi, mentre per la zona centrale il
suono è ben distribuito nella cavità (c’è un senso di arrotondamento e un
palato molle comodamente alto); per gli acuti Ella usa più frequentemente
un accorciamento del vocal tract (con apertura dei pilastri della gola), con
uno sviluppo più orizzontale, anche se dobbiamo notare che è la voce
giovanile di Ella ad essere più incline a questo timbro (chiaro e leggermente
tagliente). Negli anni matura lo stile di Ella assieme al suono del suo
strumento e la voce si fa più rotonda nella zona centrale; anche il suo scat,
dagli anni ’40 in poi, diventa più esplorativo e si fa ispirare ed influenzare
dalle nuove atmosfere musicali del be-bop, aprendo ad Ella un mondo di
virtuosismi definiti spesso “pirotecnici” nella sua improvvisazione. Il timbro
si arricchisce con frequenze più scure ed anche gli acuti si arrotondano. Se
confrontiamo registrazioni dei primi anni, come il primo “Mr Paganini”

21
Il Voicecraft è un metodo di insegnamento del canto, creato da Jo Estill, che si basa sulla
conoscenza approfondita della fisiologia e della funzionalità dell’apparato fonatorio. La
tecnica si basa su esercizi di addestramento chiamati “figure obbligatorie”, che mirano al
controllo di parti specifiche del meccanismo vocale nel modo più indipendente possibile e
contemporaneamente, propone esercizi di rilassamento mirati a quelle strutture la cui
interferenza andrebbe a discapito dell’esecuzione. Il giusto bilanciamento fra le due attività
(lavoro/rilassamento) mira ad ottenere eufonia vocale, rispettando il principio del massimo
profitto con il minimo sforzo. Il voicecraft distingue diverse modalità di produzione sonora:
qualità discorso, falsetto, sob, twang, belting ed opera.

45
registrato con l’orchestra di Chick Webb o “Love and kisses”, con
registrazioni dagli anni ’40 in poi (“How high the moon” o “Flying home”),
sentiamo un’evoluzione sonora nello strumento vocale di Ella che si
accompagna all’evoluzione del suo scat. Anche nelle sillabe scat troviamo
una maggiore esplorazione ed un uso più variato delle consonanti. Resta
ferma l’impronta generalmente “orizzontale” della vocalità di Ella.

Le trascrizioni che compaiono di seguito vedono un’evoluzione timbrica e


stilistica di Ella.

Dall’ascolto di un primissimo “Mr Paganini”, registrato da Ella con


l’orchestra di Chick Webb, la vocalità di Ella è evidentemente in fase di
sviluppo; il suono è orientato a frequenze acute, con un’apertura limitata del
vocal tract, e con un uso più accentuato del palato molle in alcuni punti e
delle risonanze concentrate nella parte posteriore della bocca (tra la zona
faringale e la zona velare). Ella usa, nel brano, una sequenza di sillabe che
ricorda quelle usate dai gruppi vocali come per esempio le già citate
Boswell Sisters. La sequenza è “pa doo de la le doo de yeah yeah”, che
ritroviamo simile nel brano “Heebie Jeebies” cantato dalle Boswell Sisters,
o in altri brani del gruppo, nei quali erano utilizzate le sillabe “doo”, “le la
da”, “pa doo de”, “doo le la da”, e simili (quindi vi era un grande utilizzo
della liquida L, della dentale D e della bilabiale P). In questi suoi primi anni
di esibizioni Ella mostra, oltre al timbro sopra descritto, un fraseggio ancora
abbastanza plastico e con poche variazioni, rispetto al repertorio che siamo
abituati ad associare al suo canto. La sensazione è che le sue parti ed i suoi
interventi concedessero poco spazio a variazioni istantanee, ma che la
maggior parte del materiale fosse già scritta o decisa a priori.

46
Nel secondo break lasciato alla voce, Ella apporta pochissime variazioni e
mantiene la stessa timbrica.

Anche il tema è cantato in modo ritmicamente semplice, con accenti ripetuti


negli stessi movimenti di battuta, spesso in levare dal 3° movimento al 4°,
ma assolutamente senza le successive variazioni ritmiche e melodiche delle
Ella che conosciamo di più. Il piccolo break improvvisativo non mostra
particolare interesse per ritmica, accenti o melodia, però nella sua semplicità
contiene già il seme del futuro scat della cantante, scat che si è evoluto
parallelamente all’evoluzione dell’improvvisazione jazz degli strumentisti
in generale.

Nel solo tratto dal brano “Oh Lady be good”, registrato da Ella nel 1947, si
sente già l’influenza del bebop ed una maturazione timbrica di Ella che la
differenzia in modo significativo dai suoi “early years”. Possiamo dire che
avviene in quel periodo il cambiamento più significativo del suo timbro, il
quale diviene più armonioso nelle frequenze acute, medie e gravi, grazie ad
un utilizzo più rotondo del vocal tract. Il fraseggio è veloce, energico, con
pochissime note lunghe. Gli accenti cadono spesso su note in levare e la
melodia si mostra essenzialmente “diatonica”, senza alterazioni. Vi è la
presenza di poliritimie, rese ancor più interessanti dall’uso delle sillabe scat.

47
48
49
50
La complessità di questo assolo mostra una grande evoluzione stilistica di
Ella, che nel frattempo è già entrata in contatto con il mondo bebop.
Il tema è cantato con grande scioltezza nonostante la velocità del brano, e la
voce di Ella suona in un gran senso di orizzontalità; nelle note acute non
sembra intervenire un grandissimo uso del palato molle ed il suono si sta già
differenziando da un’estetica più classicheggiante come poteva essere quella
delle prime registrazioni di Ella.
Nello scat, che mostra una grandissima varietà di sillabe (come una sorta di
bacino da cui Ella continua ad attingere durante tutto il brano), emerge un
suono quasi stridente negli acuti (a volte bambinesco), che sono emessi con
una modalità definita in precedenza come “twang”, mentre i bassi sono
appoggiati in zona faringale, accentuando spesso questa risonanza. A battuta
73 del solo, Ella vocalizza anche con un suono che assomiglia ad una sorta
di “growl”, con la vocale I, dando un effetto che può ricordare gli strumenti
a fiato suonati con la sordina. Nel brano vi è l’uso predominante delle

51
consonanti L, D e P, la prima poiché aiuta nell’agilità, le altre poiché
rendono un grande senso ritmico ricordando gli attacchi sonori degli
strumenti a fiato. Quando Ella vuole dare un accento il suono diventa più
energico, a volte eseguito con un registro più pieno (registro di petto). Le
vocali usate di preferenza per le note da accentare sono I ed A.
Ritmicamente, credo che l’agilità di Ella fosse dovuta più alla sua
grandissima capacità articolatoria interna che non all’agilità cordale;
ovviamente anche a livello melodico certe improvvisazioni così
virtuosistiche (ricordiamo i medley di scat che Ella era solita fare nei
concerti) devono essere supportate da un’adeguata agilità della muscolatura
intrinseca della laringe e delle corde vocali, tuttavia il suo punto di forza era
sicuramente l’articolazione. Il timbro, nei momenti di maggior impegno
ritmico (ovvero a velocità sostenute), sembra impregnarsi di maggior
energia e sembra leggermente più pieno, come se dovesse avere una spinta
in avanti per poter essere compiuto. Possiamo ben comprendere questa
asserzione se confrontiamo gli scat di Ella con le improvvisazioni leggere e
veloci di Bobby Mc Ferrin, per esempio.

Tornando al brano, in alcune battute del solo compaiono frasi cantate da


Ella anche in “Flying home” (per l’esattezza le battute 22, 23, 34 e 35),
registrato nello stesso periodo, e compare anche la citazione del suo
successo “A tisket a tasket”, da lei inserito in diversi brani. Quando Ella
canta le note più acute usa essenzialmente la vocale I, che rende più
agevole la realizzazione del suono nel suo caso, sia per altezza che per
velocità d’esecuzione.
Osservando Ella Fitzgerald in alcuni video che la riprendevano nelle
performance del brano, è evidente come la sua mimica facciale (quindi uso
dell’articolazione esterna della bocca ) non sia esagerata nei movimenti.
L’apertura della bocca non è mai accentuata in verticale, semmai in
orizzontale. Mi ha colpito soprattutto la realizzazione degli acuti, fatti con

52
un’apertura molto limitata in particolar modo nelle I. Credo che questo sia
determinante ai fini del risultato timbrico finale.
Il suo timbro ricco di frequenze medio acute era dovuto anche a ciò, ovvero
a questo uso orizzontale del vocal tract, già menzionato in precedenza.
Probabilmente un uso più verticale l’avrebbe limitata nell’agilità e avrebbe
certamente cambiato quel suono che a noi risulta sempre riconoscibilissimo.
Possiamo dire che Ella, più che l’articolazione esterna ed il movimento
buccale e facciale, utilizza una grande gestualità corporea con braccia,
movimento della testa e del tronco.
E’ da notare anche come la sua respirazione, in questo brano ed in generale
nei brani medium up o fast, risulti abbastanza alta e non eseguita con un
grande uso del diaframma; anche questo, ovviamente, incide sulla qualità
sonora, in quanto l’uso del diaframma permette un miglior abbassamento
laringeo con un conseguente ampliamento del vocal tract ed un suono dal
timbro più rotondo.
Nelle ballads invece Ella respira in modo diverso, con una respirazione
meno clavicolare e più bassa.

Un altro brano memorabile nella carriera di Ella è “How high the moon”,
registrato anch’esso nello stesso periodo di “Oh Lady be good”. Anch’esso
racchiude buona parte di quello che è il mondo improvvisativo di Ella.

53
54
55
Il brano si articola in due movimenti eseguiti a due velocità differenti; Ella
esegue il tema una prima volta ad una velocità metronomica di circa 162
bpm, successivamente la velocità supera i 200 bpm ed è lì che, dopo aver
cantato il tema a quella velocità, parte il suo solo. La registrazione da cui è
tratto il solo risale al 1947, ma diverse furono le takes del brano, ed in
ciascuna di essa rimangono invariate numerosissime frasi del solo; anche le
sillabe utilizzate sono simili, mostrando quindi un’idea già precostituita

56
della sua “improvvisazione”, come se avendo trovato la chiave giusta per
approcciare il brano non volesse perderla. In moltissime esibizioni
successive, essa cantò il suo assolo richiamandone esattamente le stesse
note, almeno nelle frasi più memorabili (quasi ad indicare che dal suo solo
era nato in realtà un nuovo tema), divertendosi poi con variazioni
rocambolesche e citazioni di brani popolari statunitensi o internazionali.
Spesso essa inseriva al suo interno il tema bop “Ornithology”, brano di
Charlie Parker costruito sugli stessi accordi. Il range vocale del solo va dal
fa sotto il do4 (do centrale) al fa5 (notiamo che è esattamente la stessa
estensione usata anche in “Oh Lady be good!”). Anche in questo brano
osserviamo che Ella negli acuti preferisce la vocali I oppure U, mentre tutte
le altre vocali sono utilizzate nel resto dell’estensione. Le sillabe utilizzate
sono simili a quelle da lei utilizzate in “Oh Lady be good!”, preferendo la L
nei momenti in cui serve più agilità, ma usando anche la D, la B e la P per
accentuare la ritmica e gli accenti. Quindi come nel brano precedente la
vocale che la facilita negli acuti è la I con le sillabe “pee”, “dee”, “bee”, nei
bassi Ella preferisce “ba”, “oo-ba-oo-de-oo-da”, “ba-oo-ba-oo-be-ba” (in
“Oh Lady be good!” nei bassi usava di più “do”, “lo”, “bo”, “ba”). Il timbro
è sostanzialmente come quello descritto in precedenza, evidenziando ancor
più come il suo suono fosse veramente il suo marchio per eccellenza.

Un altro esempio interessante del suo suono è quello usato sulle ultime
battute di “Lullaby of birdland” (che al punto della trascrizione ha modulato
alla tonalità di re minore), registrato nel 1966 dai live eseguiti in Francia
con Duke Ellington. Ella usa una sillaba particolare in questo caso,
ovvero“ga”, insolita nel suo universo musicale. Tuttavia Ella la usa proprio
nella cadenza finale, dandole un rilievo particolare.

57
La sequenza da lei utilizzata è “la-ga-ga-go-ga-ba”, e poi “pee-ga-ga-ga-ga-
ga-gna”, suoni che suonano come molto concreti, quasi come vocalizzazioni
bambinesche (una sorta di “lingualatte”); tuttavia il suono con cui Ella le
emette è molto spinto (sicuramente a laringe alta, con registro di petto,
senza un palato molle particolarmente alto), quasi ad emulare un grido.
All’orecchio suona come un grido infantile emesso da una voce adulta, che
nella liberazione del linguaggio e della voce sembra trovare una nuova
autoaffermazione. Questa brevissima sequenza mostra anche come nel
mondo sonoro di Ella vi fosse sempre spazio per ricerche nuove e
sperimentazioni vocali inaspettate, fatte in direzione ritmica e timbrica più
che verso la ricerca di melodie alterate ed intervalli particolari; infatti a
questo proposito possiamo ben dire che Ella si muove principalmente con la
scala relativa all’impianto tonale del brano, arricchita da cromatismi e blue
notes, ma senza ricercare melodie astruse e complicatissime. Le poliritmie
che crea sono spesso date da ripetizione di gruppi melodici di 3 note, quali
viene accentuata la prima sillaba scat.

58
Quindi, il mondo timbrico di Ella rimane sostanzialmente questo per quanto
riguarda lo swing ed il bop; ovviamente con il passare degli anni il suo
timbro si è leggermente scurito e ha perso lievemente la brillantezza dei
suoni in alcune note, tuttavia si può dire che essa ha mantenuto un buon
livello di produzione vocale anche negli ultimi dischi e concerti.
Interessante è osservare come Ella abbia affrontato localmente un genere
diverso da swing ed affini, come la bossanova. Essa aveva registrato il disco
“Ella abraça Jobim” inserendo brani come “The girl from Ipanema”,
“Photograph”, “Triste”, “How in sensitive”, “A felicidade”, ed altri. Il suo
suono appare qui già condizionato dalla sua età (infatti risulta più scuro
della giovane Ella) ed il vibrato risulta molto più ampio. Ella sembra
rimanere sempre in un registro di petto, anche quando sale negli acuti, e la
voce non risulta pulitissima e dalla “grana” pastosa e scura. Il range dei
brani non è estesissimo negli acuti, quanto piuttosto nei bassi, ed Ella
sembra concentrarsi molto sulla ritmica, pur non restando troppo indietro sul
tempo. Quella che lei ci dà è una sua interpretazione del repertorio
brasiliano, filtrato dalla sua storia vocale e musicale. Le improvvisazioni
vedono introdursi anche accenni di percussione vocale e sillabe molto
concrete come “bo”, “bé”, “po”, “pa”, oltre alle solite “pee”, “lee”, ecc. La
sensazione che si ha ascoltando Ella improvvisare e cantare bossanova è
che questo fosse un genere un po’ inesplorato per lei, un mondo da scoprire
che lei approcciò troppo tardi per viverlo come lo swing o il bebop. Tuttavia
la sua lettura di questo genere è interessante soprattutto per vedere come un
cantante può avvicinarsi in modo diverso a generi differenti, modificando
leggermente il proprio suono pur rimanendo coerenti con il proprio stile.

Adesso parlerò di un’altra voce emblematica per la storia del jazz, che
mostra interessanti differenze timbriche rispetto ad Ella Fitzgerald; mi
riferisco a Sarah Vaughan. Si può dire che Sarah Vaughan abbia contribuito
quanto Ella Fitzgerald ad elevare il ruolo dei cantanti a strumentisti jazz.

59
La storia musicale di Sarah Vaughan cominciò prestissimo, quando a tre
anni iniziò a prendere lezioni di pianoforte. Si dice che avesse un ottimo
orecchio musicale, che la facilitava molto nell’apprendimento della musica.
Essa era nata in una famiglia di musicisti, in quanto il padre Asbury, un
carpentiere, suonava la chitarra ed il pianoforte, mentre la mamma Ada
cantava nel coro della Chiesa Battista “Mount Zion”. A casa si ascoltavano i
dischi di jazzisti come Count Basie ed Erskine Hawkins. Così, sulla scia
della madre, Sarah, allora dodicenne, iniziò a cantare anche da solista e a
suonare l’organo nel coro “Mount Zion”. Tuttavia la sua formazione
musicale non si limitò a queste esperienze; infatti Sarah frequentò la
Newark’s Arts High School.
Leggiamo in un articolo del 2 marzo 1961 di Downbeat, scritto da Barbara
Gardner:
“There is another myth about Miss Vaughan that deserves exploding-the
idea that she is a “natural” singer with a little knowledge of music. It is an
assumption made by people who don’t know about her years of piano
studies. While it is true that she was a professional singer before her first
husband induced her to take voice lessons, she has, from the beginning,
been equipped with an excellent knowledge of the mechanics of music. She
credits much of it to training she received at Newark’s Arts High School”22.
La Gardner scrive anche che, quando Sarah suonava il pianoforte nella band
della scuola, imparò a creare melodie alternative a quelle date, riuscendo
così, di conseguenza, a cantare sempre in modo differente i temi dei brani, e
a differenziarsi dagli altri cantanti.
Nel 1942, a 19 anni, vinse un concorso di canto all'Apollo Theater di
Harlem, grazie alla sua interpretazione del brano “Body and Soul”.

22
“C’è un altro mito da sfatare su Sarah Vaughan, ovvero l’idea che essa sia una “cantante
naturale” con una piccola conoscenza della musica. E’ un preconcetto creato da coloro che
non sono a conoscenza di tutti gli anni di studio del pianoforte. Mentre è vero che essa era
già una cantante professionista prima che il suo primo marito la inducesse a prendere
lezioni di canto, lei aveva già un eccellente conoscenza dei meccanismi della musica. Deve
buona parte di ciò all’allenamento ricevuto alla Newark’ Arts High School”.

60
Fortunatamente tra il pubblico c’era il cantante jazz Billy Eckstine, all'epoca
vocalist e star della band di Earl “Fatha” Hines, il quale convinse il grande
jazzista ad ingaggiarla come seconda cantante e, all'occorrenza, pianista. In
quella situazione, Sarah conobbe alcuni giovani boppers, anch'essi presi da
Hines su suggerimento di Mr. B. Fu lì che essa uscì con il primo singolo
“Lover man”. Un anno dopo Eckstine formò una propria orchestra nella
quale vi entrarono i suddetti boppers (erano Gillespie, Parker ecc) nonche' la
stessa Sarah. In questo modo, ovvero cantando accanto a Billy Eckstine e
facendosi accompagnare da talenti del calibro di Dizzy Gillespie e Charlie
Parker, Sarah Vaughan rafforzò e perfezionò il suo stile vocale.

La figura di Billie Eckstine, detto appunto Mr. B, fu molto importante per


Sarah. Eckstine divenne famoso come cantante e leader della sua grande
orchestra, attorno alla fine degli anni 1940; egli ebbe anche una grande
influenza sulla musica jazz moderna, in particolare sul bebop, assumendo
nelle sue orchestre molti dei più importanti esponenti di questa corrente
musicale, e sul canto jazz, tanto che non c'è cantante jazz che non abbia
ammesso di avere avuto in Eckstine una sorte di guida ideale (in particolare
Nat King Cole e suo fratello Freddy, Joe Williams, Johnny Hartman, Earl
Coleman, Al Hibbler, Arthur Prysock, e la stessa Sarah).

Eckstine suonava anche la chitarra, la tromba e il trombone a pistoni, ma lo


strumento più conosciuto fu la sua voce. La sua voce aveva il colore e
l’estensione di un potente baritono, e si può dire che fosse il correlativo
maschile della voce di Sarah Vaughan. Aveva un vibrato abbastanza ampio,
un colore scuro ma ben risuonato negli acuti, un fraseggio fluido con sottili
accenti. Sicuramente suonare con lui e la sua orchestra fu un’ottima scuola
per Sarah, sia dal punto di vista del linguaggio jazz, sia dal punto di vista del
suono in sé.

Sarah nel 1945 lasciò la band e cominciò la sua fortunata carriera da solista.
Nel '47 sposò il trombettista George Treadwell, in seguito anche suo

61
manager (la cantante si sposerà varie volte- a volte si legge 3, altre volte 4-:
la seconda volta, col giocatore di football Clyde Atkins, con il quale, nel
1961 adottera' una bambina, Debra Lois - attrice cinematografica dagli anni
Ottanta col nome d'arte Paris Vaughan-, cui sara' legatissima). Essa registrò
una fortunatissima versione di “Body and soul” e negli anni successivi vinse
il premio come “Miglior cantante donna” da Downbeat e Metronome (due
giornali). Iniziò così ad essere chiamata “The Divine One” (la Divina) dal
grande pubblico, anche se i suoi amici la chiamavano “Sassy”.

La personalità di Sarah era molto “bipartita”: se da un canto nei concerti


appariva con un carattere forte e deciso (tanto quanto il suo suono),
nell’intimo Sarah era molto fragile; spesso la sua fragilità emergeva anche
durante le sessioni di registrazioni o prima dei concerti, situazioni in cui si
mostrava piena di paura ed insicurezze. Questo fu il motivo che la portò,
nella sua vita, ad una dipendenza da sigarette e droghe. Fu altresì uno dei
motivi per cui per tutta la vita restera' attaccata al "mentore" Billy Eckstine,
che essa definì come il proprio "padre" o addirittura come "my blood",
ovvero il mio sangue.

Tornando alla sua carriera, alla fine degli anni '40 Sarah Vaughan conquistò
il pubblico americano con brani come Tenderly e It's Magic, e nel decennio
successi come Misty e Broken-Hearted Melody, dimostrando il grande peso
della sua capacità interpretativa e quella che è stata chiamata l’ “incisiva
delicatezza” della sua voce. Incise anche alcuni duetti con lo stesso Billy
Eckstine.

Negli anni anni '50 si eisbì con i più grandi jazzisti del periodo, come Miles
Davis e Jimmy Jones, ed incise una serie di dischi per le etichette più
importanti. Negli anni seguenti il successo continuò e la sua voce, che man
mano scendeva verso colori sempre più contraltili , continuava ad incantare
le platee. Tornò a registrare con Eckstine in "Irving Berlin songbook" e un
"Passing strangers" che diverra' il piu' alto esempio di canzone duettata

62
uomo-donna. Negli anni '60 affrontò con successo anche il genere della
bossanova, con il suo “Brazilian Romance”.
Ricevette vari premi, fra i quali il Grammy, consegnatole nel 1983 per
l'incisione di un album monografico sempre su Gershwin. Il critico musicale
Eddie Meadows scrisse che Sarah Vaughan fu la prima vocalist che
comprese ed accentuò i nuovi concetti armonici e ritmici. Sarah disse
invece: “I am not a special person. I am a regular person who does special
things”23.
Sarah Vaughan continuò ad esibirsi fino a poco tempo prima prima della sua
morte, avvenuta all'età di sessantasei anni per cancro ai polmoni. Scrissero
che le sigarette, che resero la sua voce così ricca, distrussero il suo corpo.
Era il 4 aprile del 1990.

Lo strumento vocale di Sarah Vaughan è molto interessante. Nonostante sia


stata definita come voce da contralto dalle biografie e dagli articoli che si
trovano su di lei, credo che inquadrare la sua vocalità sia in realtà ben più
complesso, soprattutto per l’estensione che utilizzava. Sicuramente il suo
era un timbro che per colore ci rimanda alle voci dei contralti o dei
“mezzocontralti” (contralti dalla grande agilità che spaziano dalla zona
centrale a quella acuta), però a volte ci sorprende con frequenze diverse, più
chiare e leggere24. Se Ella Fitzgerald si caratterizza per l’orizzontalità del
vocal tract come caratteristica principale, Sarah Vaughan si caratterizza per
la verticalità. Il suo vocal tract risulta abbastanza ampio all’ascolto, con una
buona apertura interna della cavità; vi è un uso importante del palato molle
(quindi con una certa “copertura” del suono, come si dice in gergo classico)
contemporaneamente ad un grande uso del risuonatore faringale, da cui
deriva il colore scuro della voce. Notiamo che spesso i suoi bassi sono
comunque agganciati alla zona della maschera, come ci fosse doppia

23
“Non sono una persona speciale. Sono una persona normale che fa cose speciali”.
24
Pensiamo per esempio alla voce della cantante peruviana Yma Sumac (1921-2008),
interprete di musica “esotica” (un mix di elementi folk, jazz e rock), che aveva un
estensione di circa 5 ottave, con un colore timbrico che spaziava dall’estremo scuro al
chiarissimo.

63
componente di risonanza (faringe e maschera); inoltre la zona risonanziale
superiore (palato molle soprattutto) è sempre pronta ad accogliere gli acuti,
impedendo alla voce di rimanere incastrata nelle risonanze basse.
Importante è anche la componente nasale nel far risuonare in questo modo
la voce di Sarah Vaughan, componente che è usata con grande equilibrio
senza emergere dando impressione di nasalità. E’ altresì da notare come,
spesso, Sarah usa la bocca e le labbra per dare forma al suono durante
l’emissione di una stessa nota. Tornando ai termini del voicecraft, si
potrebbe dire che l’emissione vocale di Sarah Vaughan segue la modalità
della qualità “opera”, con laringe bassa e palato molle alto. In particolare
negli acuti, mentre Ella non verticalizza il vocal tract per produrli, Sarah
allunga la cavità di risonanza e alza il palato molle. Anche dal vibrato di
Sarah, che ricorda in un certo senso quelle delle cantanti classiche, si evince
quanto importante fosse l’uso del palato molle nel suo strumento vocale.
Questa sua caratteristica vocale emerge in modo chiarissimo in due
registrazioni di brani gospel che Sarah realizzò nel 1947. I brani erano
“Motherless child” e “The Lords’s prayer”, ed in essi Sarah usa una vocalità
relativa ad un’interpretazione del genere gospel molto ancestrale, con
un’impostazione più vicina al canto classico (opera) che non al canto jazz,
blues o gospel che noi conosciamo oggi (spesso le vecchie registrazioni di
cantanti gospel mostrano una vocalità simile). Ascoltando quei brani si
potrebbe quasi ipotizzare che Sarah avesse imparato l’emissione vocale del
canto lirico.

Tuttavia, la sua vocalità nel jazz è altra cosa rispetto a questi brani. Mi
chiedo se abbiano potuto influire nella maturazione del suo suono anche gli
interventi estetici che il primo marito la spinse a fare per migliorare il suo
aspetto (scrive Barbara Gardner, nello stesso articolo citato in precedenza,
che Sarah ha corretto la dentatura ed il naso).

64
Dall’ascolto di una improvvisazione del 1954, relativa al brano “Shulie a
bop”, scritto con il primo marito George Treadwell, emergono già
caratteristiche salienti del suono di Sarah.

65
Il brano serviva per presentare la band ed era eseguito ad una velocità di
circa 160 bpm. La trascrizione comprende la parte iniziale del brano, prima
che Sarah presenti i musicisti. L’impianto tonale è in re minore e Sarah
include anche una citazione della “Carmen” di Bizet (da battuta 17). Le
sillabe da lei utilizzate vedono la predominanza della consonante S e della
laterale liquida GL; la S è spesso combinata nelle sillabe “sha”, “shoo”,
“sa”, “see”; la GL si trova con la vocale I (scritta come doppia E); altre
sillabe che troviamo sono “doo”, “dn”, “bee”, “boo”, ecc. Quando sale negli
acuti, anche Sarah usa di preferenza la vocale I, che li rende più facili,
mentre nei bassi usa molto le vocali più aperte come A ed O. Il timbro
risulta agganciato al risuonatore faringale nella zona della tessitura (ovvero
zona medio bassa), mentre salendo verso gli acuti si sente chiaramente
l’intervento del palato molle che accentua gli armonici e rende il suono
bello pieno e tondo nonostante la voce sia emessa con un registro di testa.
L’accentazione delle note è meno spiccata rispetto agli assoli di Ella, in
questo brano. È un’accentazione elegante e sobria, come del resto l’universo
scat contenuto nel brano, che mostra una coerenza data dalla scelta di sillabe
abbastanza limitata e contenuta.

Le altre trascrizioni di improvvisazioni di Sarah Vaughan, che si troveranno


di seguito, sono relative a due brani analizzati anche per Ella Fitzgerald:
“How high the moon” e “Lullaby of birdland”.

Il primo è stato registrato da Sarah Vaughan nel 1954 in “The definitive


Sarah Vaughan”, il secondo sempre dello stesso anno, contenuto nell’album
realizzato con Clifford Brown.

66
67
Il primo brano mostra una Sarah Vaughan incredibile. Suonato ad una
velocità di circa 220 bpm, vede Sarah improvvisare con un’estensione che
va dal fa# sotto il do centrale (do4) fino al sib5! Pur essendo stata definita
come “contralto”, la sua estensione va ben oltre lo standard dei limiti

68
considerati per questa categoria. Anche la timbrica in questo brano si mostra
molto brillante e chiara, con un gran uso dei risuonatori alti (palato molle e
cavità nasali). La voce di petto è assolutamente non troppo risuonata in
faringe e agganciata a risonanze alte, in modo da risultare leggera. Notevole
è anche l’agilità di Sarah, che mostra una facilità di esecuzione, ad una
velocità metronomica così alta, nelle crome e nelle terzine di crome degna
di un “bopper”. Come abbiamo visto succedere spesso, le note più acute
sono realizzate con la vocale I, mentre nel basso Sarah preferisce la A.
Anche in questo caso troviamo le sillabe che, in un certo senso,
costituiscono il marchio Vaughan, ovvero quelle contenenti S (sha, shoo, sa,
ecc), oppure con P e D (poo, pee, dee, doo, ecc). La cosa più lampante è la
diversità timbrica fra quella di questa Sarah Vaughan e quella della Sarah
Vaughan degli anni successivi. Anche in “Lullaby of birdland”, che risale
allo stesso anno, la sua voce risulta notevolmente estesa, con un buon
aggancio in petto per i bassi (ma non troppo trattenuto in gola, quindi ben
risuonato) ed una libera e risuonata voce acuta. In questo secondo brano le
sillabe usate da Sarah vedono la predominanza di sequenze come “da-ba-
doo-bee”, “doo-bee-a”, e meno la presenza di sillabe con S o SH.
L’estensione da lei usata va da un re sotto il do4 fino ad un fa#5, cantato
velocemente con una vocale a metà fra A ed E. Ritmicamente, sia in “How
high the moon” sia in quest’ultimo, Sarah si mostra molto fantasiosa e ricca
di disegni melodico-ritmici che poi ripete con note diverse, ma mantenendo
i rapporti tra esse. Gli accenti sono, anche in questi brani, molto sobri e
contenuti ma percepibili. Il suo fraseggio mostra una grande eleganza ed
apparente semplicità. Caratteristica importante e spesso presente è il glissato
tra due note, che Sarah usa sovente quando canta il tema di un brano,
abbinato anche al cambio di apertura buccale mentre canta una determinata
vocale.

Negli anni successivi la timbrica di Sarah si arricchisce di bassi più morbidi


e risuonati (facilitati anche dalla sua conformazione fisica, soprattutto a

69
livello della larghezza del suo collo), mentre gli acuti si arrotondano di più
e, pur brillanti, si differenziano da quelli della giovane Vaughan. Anche
mentre canta, come detto sopra e come si vede da alcuni video tratti dai
suoi concerti, Sarah cambia mimica facciale mentre esegue una nota, quasi a
cercare il miglior suono, o il suono emozionalmente più sentito; infatti la
sensazione che si ha è che lei stia cercando nel momento presente il suono
più giusto per quel dato istante musicale, unico ed irripetibile. Infatti, Sarah
non mostra un’unica modalità di apertura buccale e di postura per realizzare
le stesse note (note con la stessa altezza), e, successivamente, le vocali
stesse acquisiscono colori e conformazioni diverse. Nella “Fly me to the
moon”, registrata live nel 1969, mentre canta il tema in rubato, quasi tutte le
A diventano simili ad una E molto chiusa, per esempio.
Per quanto riguarda l’influenza della respirazione sul suo suono, Sarah
sembra avere un buon controllo sulla respirazione, nonostante sembri una
respirazione abbastanza alta. Credo che questo controllo sia retaggio della
formazione musicale ricevuta sia in giovane età, sia con le lezioni di canto
prese all’epoca del primo matrimonio. Quindi, anche se il focus non è
concentrato solo in zona diaframmatica, per realizzare certi suoni, con un
buon abbassamento della laringe (come in certi acuti) Sarah doveva
certamente essere in grado di usare il diaframma, e questo ha influito
sicuramente sulla sua qualità sonora.
Anche in altri generi musicali, come la musica brasiliana che Sarah ha
incontrato sia nell’album “I love Brazil” del 1977, e nell’album “Brazilian
Romance” del 1987, il suo mondo timbrico rimane lo stesso, intenso e
carico di variazioni risonanziali. Lo strumento di Sarah Vaughan ha sempre
mantenuto, negli anni, grande ricchezza armonica e grande capacità di
suonare in modi diversi, adattandosi al mood dei brani e al feeling del
momento stesso in cui la cantante eseguiva quegli stessi brani. Anche con
un universo sillabico ridotto rispetto a quello di Ella Fitzgerald, essa rimane
nella storia del jazz e della musica mondiale per la grande capacità musicale
ed interpretativa, ogni volta diversa e rinnovata nei dettagli.

70
Gli aspetti timbrici di Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan partono da
predisposizioni fisiche (il corpo stesso) e storie differenti; si sono evoluti in
sensi diversi ma non opposti nonostante l’orizzontalità predominante in Ella
e la verticalità di Sarah Vaughan. Entrambe le voci hanno suonato da
strumentista, sia ritmicamente e melodicamente, sia intenzionalmente ed
emotivamente.
Le influenze dell’ambiente in cui si sono sviluppate le loro timbriche sono
state fondamentali; scopriremmo elementi interessantissimi andando ad
analizzare quali musicisti suonarono con loro, e soprattutto ascoltando i
fraseggi e le timbriche di quegli stessi musicisti. Certamente Ella e Sarah
hanno avuto una sensibilità musicale fuori dall’ordinario per riuscire a far
suonare le loro voci oltre i canoni estetici tradizionali, e mettendosi nel
ruolo di pionieri di una nuova vocalità esplorativa. Esse sono andate anche
oltre i limiti fisiologici della loro costituzione vocale, alleggerendo la qualità
vocale laddove sentivano di voler giocare con agilità a ritmi sostenuti,
oppure appesantendola dove volevano un approccio più pieno ed intenso, e
piegando gli strumenti linguistici (vocali e consonanti) per riuscire ad
esprimere musicalmente la loro personalità.
La questione che rimane è quella che riguarda il confine fra quello che è il
“timbro naturale” e quello che diventa il “timbro scelto”. Con la voce questa
questione si fa complicata poiché essa è l’unico strumento in grado di
plasmare così tante timbriche differenti. Credo che ciò che guidò non solo
Ella e Sarah, ma anche tutte le grandi voci della storia del jazz, sia stato un
insieme di elementi fra i quali la scelta di aderire ad un nuovo linguaggio
musicale, che in periodo così limitato (decenni) ha saputo avere così tante
evoluzioni. Esse hanno abbracciato ciò che il jazz voleva esprimere a livello
ritmico e melodico, trovando spazio per dirlo in modi sempre diversi,
fantasiosi e spesso sorprendenti. Questo mostra una grande consapevolezza
del proprio strumento ed una grande chiarezza di idee musicali.

71
L’analisi di assoli vocali, scollegati da un testo, mi ha permesso di ascoltare
le loro voci libere ancor più da vincoli linguistici codificati, anche se
dall’ascolto dei temi (dove la “parola” ha un peso importantissimo) la loro
voce manteneva le caratteristiche principali descritte sopra.
Nell’improvvisazione, però, la voce destruttura il linguaggio, lo dimentica e
lo oltrepassa, comunicando con un mezzo a mio avviso più potente: il
suono.
Scrive Davide Sparti:
“E tuttavia, benché la parola sia la destinazione della voce (così come la
melodia è la destinazione del suono), prima ancora della valenza semantica
del suono articolato in parola (il registro semantico del logos) vi è la
materialità fonica della vibrazione sonora da cui la parola scaturisce”25.

Il problema del cantante è proprio quello di trovare una propria identità


comunicativa oltre alla consueta modalità basata sul linguaggio; ecco perché
la comprensione di uno strumento vocale deve scavare anche oltre il
linguaggio stesso. Un cantante ci dà il suo autoritratto musicale in primo
luogo attraverso il suo suono, segno di quell’identità che egli ha cercato e
trovato. La parola (che di certo è molto importante) viene dopo.

25
Davide Sparti “Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz”, Il Mulino, 2007; pag. 80.

72
5 – CONCLUSIONI

Gunther Schuller ha scritto che, solitamente, il timbro nel jazz è il parametro


meno analizzato.
“Eppure” continua Schuller, “è la caratteristica che forse più di ogni altra
permette al non iniziato di riconoscere qualcosa come “jazz” o “non jazz”.
[…] La sonorità del jazz più autentico si può far risalire direttamente al
canto, e indirettamente alla parlata e al linguaggio africani. Più ci
allontaniamo dal nucleo della tradizione africana, a causa di qualunque
influenza, europea o meno, più ci allontaniamo dall’originaria concezione
della sonorità jazz”. 26
Con ciò, Schuller non voleva sicuramente screditare le composizioni di
brani jazz mescolate ad influenze “extra-africane” (eurocolte), ma
sottolineare che il suono “jazz” scaturiva principalmente da elementi
africani.
Schuller fa notare che la parlata ed il canto africani sono caratterizzati da un
tono aperto e naturale; questo, in un certo senso, li avvicina alla tradizione
europea ed occidentale, e li allontana dalla tradizione islamica, che mostra
suoni sottili e nasali con una vocalità nasale e stridula (infatti nello
strumentario islamico abbondano le ance doppie e gli strumenti a corda).
Lo strumentario africano rispecchia, secondo Schuller, le caratteristiche
della parlata africana, con strumenti come i corni d’avorio (dalle risonanze
profonde), xilofono e marimba (con suoni dai timbri penetranti), e le grandi
famiglie dei tamburi monopelli o bipelli, accordati con altezze differenti.
Anche le lingue africane mostrano un grande legame con la musica, in
quanto in molte di esse ogni sillaba deve avere una precisa intonazione che
influenza il significato della parola pronunciata (come succede nella lingua
cinese).
Questa grande varietà di risonanze è filtrata nella musica jazz con una
qualità generale che, secondo Schuller, si può chiamare “earthiness” (qualità

26
Gunther Schuller, “Il jazz. Il periodo classico. Le origini”, EDT Torino, 1996; pag 49,50.

73
legata alla terra); l’altra grande caratteristica penetrata nel jazz dalla musica
africana, a livello timbrico, è l’individualità del musicista, dovuta ad un
suono che vuole essere distante dai canoni estetici della musica eurocolta, e
che si pone come sigillo dell’identità del musicista stesso.
L’individualizzazione sonora è possibile grazie a questo, e nel jazz ciò
avviene in tutti gli strumenti; infatti la partizione fra il “vocale e lo
strumentale” (come dice Sparti) è molto meno definita che in altre tradizioni
e culture musicali.
Lo strumento “voce”, grazie alla sua propria caratteristica di essere parte
dello strumentista e di essere intimamente legata a lui, è espressione
emblematica del corpo del musicista. Attraverso il suo timbro, il cantante
mostra chi è, come è fatto, che strade ha seguito e che strada sta percorrendo
nell’attimo in cui sta cantando. Tutto questo è possibile nel jazz, grazie
anche all’improvvisazione vocale, che ci riporta al corpo mettendo in
secondo piano l’attivazione dei meccanismi di controllo mentali cui siamo
abituati nella comunicatività e vita di relazione quotidiane.
Nella vita di tutti i giorni, il timbro della nostra voce dipende spesso da
fattori inconsci ed emozionali che tendono a emergere senza filtri (pensiamo
alla voce della rabbia o della gioia, che modificano sensibilmente la nostra
timbrica); ma il cantante combina la sua naturale predisposizione fonatoria
con abilità tecniche e scelte estetiche, quindi il suo timbro vive di elementi
inconsci ed irrazionali mescolati ad elementi determinati consciamente e
volontariamente.
Lo “scat” è questo, ovvero creazione estemporanea di suoni con un
materiale sonoro e linguistico appreso e poi dimenticato (o sorpassato).

74
Nella Harlem Renaissance27, W. E. Du Bois parlava di “divorzio di parole e
musica”, ovvero di una musica esistente prima del linguaggio. Nell’articolo
“Louis Armstrong and the syntax of the scat” di Brent Hayes Edwards (che
risale al 2000), leggiamo che il divorzio tra parole e musica trova una sorta
di giustificazione intellettual-culturale nel saggio “The Souls of Black Folk”
di Du Bois. Nel saggio Du Bois racconta una storia relativa ad una musica
molto più antica delle parole, che gli veniva raccontata anche dalla sua
bisnonna paterna, la quale veniva cantata e tramandata di generazione in
generazione:

“Do bana coba, gene me, gene me!


Do bana coba, gene me, gene me!
Ben d’nuli, nuli, nuli, nuli, den d’le”

Nella ricerche dedicate proprio a Du Bois, lo studioso David Levering


Lewis fa risalire la canzoncina ad un canto degli schiavi senegalesi. La cosa
interessante non è tanto il comprendere il significato misterioso di quelle
parole, quanto comprendere che nella cultura afroamericana uno dei mezzi
espressivi più ancestrali e caratteristici poteva essere questa distanza fra
fonemi impenetrabili e musica, e, a questo proposito, Du Bois scriveva che
la musica ed il linguaggio si erano persi reciprocamente. Nella letteratura

27
Con questo termine ci si riferisce ad un movimento artistico e culturale sorto verso
l'inizio degli anni '20 negli Stati Uniti ad opera della comunità afroamericana. La
definizione è nata a seguito della pubblicazione dell'antologia di racconti “The New Negro”
di Alain Locke, nel 1925. Il centro del movimento fu il quartiere di Harlem a New York e
da lì si espanse nelle città di tutti gli Stati Uniti. Attraverso lo sviluppo di tutte le forme
d'arte (letteratura, teatro, musica, arti visive, danza) e delle scienze sociali (sociologia,
storiografia, filosofia) artisti e intellettuali trovarono nuove vie per esplorare ed
approfondire l'esperienza storica degli afroamericani, nonché la vita dei neri dell'epoca
nelle grandi città degli Stati Uniti settentrionali. Gli intellettuali afroamericani rifiutarono di
limitarsi ad imitare lo stile degli europei e dei bianchi d'America, ma esaltarono invece la
dignità e la creatività nera, rivendicando inoltre la loro libertà di esprimersi a proprio modo,
esaminarono la propria identità di neri americani, celebrando la cultura nera che era emersa
dalla schiavitù e i loro legami culturali con l'Africa.

75
nera ed in generale nella cultura afroamericana, questo nuovo mezzo
espressivo aveva avuto una grande risonanza.
In un altro articolo molto interessante di Casmier e Mattews28 si legge che il
canto scat è avvicinabile all’arte non mimetica, ovvero a quell’estetica che
enfatizza la dimensione creativa, spontanea e mistica della coscienza umana,
in contrapposizione all’arte mimetica, che ha come massimo esempio il
realismo 29. Mentre il discorso mimetico aliena chi lo fruisce perché ri-crea
qualcosa che già esiste, il discorso non mimetico ha l’effetto opposto poiché
unisce e fa partecipare (è co-creativo). L’arte realistica non può
rappresentare nulla che non sia già conosciuto e presente (si può dire che il
realismo manipola e banalizza gli oggetti che rappresenta, poiché dipende
dalle regole e dai giochi di linguaggio della società), mentre l’arte non
mimetica “usurpa” il potere della creazione; essa, riproponendo l’atto
creativo, si pone contro le convenzioni razionali della comunità, ecco perché
allude al “sublime”, alla trascendenza.
Lo scat si configura come arte non mimetica ed è stato paragonato alla
“glossolalia”, ovvero al “parlare in altre lingue”, termine che troviamo
anche in testi sacri come la Bibbia (considerato come dono dello Spirito
Santo)30 o in pratiche sciamaniche e affini.
Charles Mingus, a proposito dello scat, disse che esso è un linguaggio che il
diavolo non conosce, sottolineando la valenza mistica di tale forma
comunicativa.
Lo scat ci mostra che, anche se esistono le parole, i musicisti non le usano,
anzi creano di volta in volta un linguaggio diverso, grazie al quale emerge

28
“Why scatting is like speaking in tongues: post modern reflections on jazz,
pentecostalism and africosmysticism” di Stephen J. Casmier e Donald H. Mattews, Oxford
University Press, 1999.
29
Come esempio di arte non mimetica possiamo pensare ai quadri cubisti (emblematico il
quadro “Les demoiselled d’Avignon” di Ricasso), dove vi era uno smembramento dei
canoni estetici visivi tradizionali, ed una ricomposizione assolutamente soggettiva del dato
reale.
30
Glossolalia: pronuncia di ciò che può essere una lingua ma ignota a chi parla, oppure
parole di un linguaggio mistico sconosciuto, o semplici vocalizzi, o sillabe senza senso. E’
presente anche in letteratura (pensiamo ai dialoghi creati da J. R. R. Tolkien, autore di libri
come “Lo hobbit”).

76
ciò che nelle codificazioni linguistiche e comunicative spesso si perde:
l’individuo.
Emblema dell’individuo-cantante è il suo timbro personale, che ci riconduce
inesorabilmente a molteplici significati e collegamenti: la storia passata di
chi canta, il suo stato emotivo e fisico presente, la direzione musicale da lui
presa, la sua forma mentis.
Nel jazz la voce ha trovato nuove possibilità espressive, che sono andate
anche al di là di ciò che il fenomeno sembrava essere all’inizio. Dallo scat
nato in seguito alle parole dimenticate dei brani (come dicono le “leggende”
in merito a ciò), siamo arrivati oggi ad una grande liberazione vocale,
espressa in performances dove la voce compie grandi evoluzioni musicali e
timbriche (pensiamo ai concerti per sola voce di Bobby Mc Ferrin, o alla
cantante Ursula Dudziak, o, in generale, a quei cantanti che sperimentano
contaminazioni sempre nuove31 di jazz con altre culture musicali).
Nel jazz molte voci hanno trovato spazi insperati per altri “generi”;
pensiamo a Billie Holiday, la cui voce aveva quelle che Sparti ha definito
“increspature, rugosità, rochezza e velature della voce”, o ad altre vocalità
non certamente inquadrabili nell’estetica del belcanto. Il timbro, in questo
contesto, non è assolutamente un parametro “residuale” bensì un elemento
fondante non solo del canto ma di tutta la musica jazz.

31
Mi riferisco all’ interesse emerso nei cantanti per modalità di emissione vocale legate al
canto etnico (canto armonico, raga indiani,ecc), portate avanti da cantanti – sperimentatori
come il compianto Demetrio Stratos.

77
6 - APPENDICE: L’autoanalisi vocale come via di consapevolezza
musicale nel cantante

L’approccio di ogni musicista con il proprio strumento dovrebbe essere in


primo luogo basato sulla conoscenza approfondita di quest’ultimo.
Instaurare una relazione con il proprio strumento permette di conoscerne a
fondo le peculiarità, i limiti e le potenzialità, al fine di farlo parlare (e quindi
farci esprimere) al meglio. Il sassofonista Edward Sonny Stitt disse che “ci
si incarna nello strumento” (“you grow into the instrument”).
Per la voce la situazione è differente rispetto a strumenti esterni a noi stessi
(pianoforte, contrabbasso, sassofono, ecc). La voce è qualcosa che prende
forma acustica dentro di noi anche al di là della musica, è uno strumento che
nasce e muore con noi. In essa sono coinvolti il corpo (con componenti
fisiche e componenti legati alla gestualità e al movimento), la mente ed i
suoi processi, le emozioni e la volontà. Molti di questi meccanismi
scaturiscono inconsciamente durante l’atto vocale, mentre altri li
controlliamo volontariamente.
Nella mia storia musicale ho compiuto un lungo percorso per conoscere il
mio strumento, passando attraverso diversi generi musicali e diverse qualità
fonatorie. Il primo approccio alla conoscenza della voce l’ho avuto con
lezioni di tecnica vocale, durante le quali si apprendevano i meccanismi
basilari per una buona e sana prestazione vocale (respirazione
diaframmatica, postura, modalità di emissione del suono, ecc). Tuttavia, la
didattica che ho vissuto da allieva all’inizio non mi aveva portato a
conoscenza del perché si doveva agire in un certo modo; era come se si
dovessero seguire i dettami del “belcanto” un po’ alla cieca.
La comprensione delle motivazioni che richiedono certi atti è arrivata dopo,
grazie all’approfondimento di materie legate alla fisiologia dell’apparato
fonatorio, con seminari e moltissime letture e ricerche personali. Questo è
stato essenziale per permettermi di compiere progressi anche in modo
autonomo.

78
Quando ho iniziato il percorso al Biennio di Musica Jazz il suono del mio
strumento risentiva molto dei generi preferenziali che avevo cantato per
anni e stavo ancora cantando: soul e gospel.
Il suono vocale più adatto per questi generi era legato al registro pieno, con
capacità di effettuare un buon vibrato; il registro preferenziale per le
performances era quello di petto e la grana della mia voce risultava grossa e
ben risuonata. Il mio livello tecnico di controllo sui suoni, le risonanze,
l’intonazione e la ritmica, era già buono, tuttavia il materiale sonoro con cui
avevo a che fare era sicuramente limitato rispetto all’universo jazz: melodie
basate su scale pentatoniche, blues, scala maggiore e minore naturale,
ritmiche contenenti sincopi ed accentazione in levare ma mai eseguite ad
altissime velocità, armonie abbastanza semplici, spesso basate sulle cadenze
blues.
Incontrando in modo più approfondito il repertorio jazz sentivo che il mio
suono non era più funzionale, sia a livello tecnico sia a livello estetico.
Studiare le improvvisazioni di Charlie Parker con il timbro gospel era come
volare con chili di piombo attaccati ai piedi, cantare certi intervalli con un
approccio pesante (registro di petto) andava a discapito dell’intonazione e
della precisione, inoltre la sobrietà del jazz non si accordava più con quel
suono spesso gonfiato e calibrato in base a parametri più emozionali che
musicali (perché nel soul e nel gospel funziona così).
Innanzitutto, con Diana Torto (mia insegnante di tecnica di improvvisazione
al biennio) abbiamo iniziato a lavorare in modo più orizzontale con la cavità
di risonanza, stemperando la scurezza dei suoni e cercando un maggior
equilibrio nelle frequenze, poi personalmente ho continuato il percorso di
tecnica vocale che mirava ad ottenere un registro “unico” nella voce,
chiamato “voce mista”, ovvero quella qualità vocale che legasse
l’estensione dal basso all’alto senza interruzioni e con gran omogeneità.
Questo meccanismo funziona lavorando sempre con un aggancio
risonanziale alto a partire dai bassi fino agli acuti; quindi i bassi risulteranno
più leggeri e non appoggiati solo in zona faringale, mentre gli acuti saranno

79
eseguiti allargando anche la zona dei pilastri della gola, con una base
linguale ben abbassata e palato molle alto, in modo da creare una sorta di
“inganno acustico” che faccia risuonare la voce detta “di testa” come voce
più piena. Questa modalità è molto funzionale nella musica jazz, dove un
registro troppo pieno non serve assolutamente, anzi risulterebbe fuori stile.
Sicuramente questo è la modalità migliore per il mio strumento, mentre per
altre voci potrebbero essere necessari altri accorgimenti. La mia voce, con
corde vocali da soprano che sono però abbastanza larghe (quindi più portate
per frasi legate e meno per agilità velocissime), ha trovato, per ora, questo
ottimo compromesso che le permette di funzionare in modo sano ed
eufonico, tuttavia è importante non fossilizzarsi solo su un’unica modalità
fonatoria.
Poi, sempre durante il percorso del biennio, ho lavorato sulla ritmica e gli
accenti, vedendo come adattare il suono a ciò, e sull’ascolto e l’analisi di
grandi strumentisti (fra cui cantanti) jazz, su agilità vocali con le scale
modali, con patterns, con studio di trascrizioni di strumentisti jazz, e molto
altro ancora. Il percorso è stato ricco e arricchente.
Trovando in ogni brano difficoltà diverse, ho allenato la mia voce ad una
maggior agilità e prontezza sia nell’intervallistica sia nella timbrica,
adattando il suono a ciò che dovevo cantare.
Infatti, l’abilità di un cantante sta, secondo me, nel riuscire ad essere duttile
nel proprio uso dei risuonatori, poiché, per adattarsi al feeling ed alle
difficoltà tecniche di un brano da cantare, si potrebbe aver bisogno di
emettere il suono in modi differenti; per esempio potrei aver bisogno di fare
note molto basse tenute in zona faringale, oppure note basse ma chiare e
leggere, e per fare questo devo essere abile nel capire e sentire come farlo.
Tuttavia questa è una scelta musicale che non deve essere uguale per tutti,
infatti molti cantanti si caratterizzano per un’unica modalità di emissione
vocale, e questo è contemplato nella meravigliosa unicità delle voci e delle
personalità degli strumentisti stessi, e nella scelta di direzionare il proprio
repertorio in un senso o in un altro.

80
Credo che ognuno debba trovare il proprio percorso, nel quale fermarsi a
fare una riflessione sui propri aspetti timbrici sia assolutamente
indispensabile.
Io sto attualmente esplorando la grande vastità musicale del jazz, che oggi,
con le composizioni originali della nuova generazione di jazzisti, prende
strade definibili non più solo come jazz.
Il mio percorso è un continuo work in progress, il cui fine è il viaggio
stesso, entusiasmante e profondamente gratificante.
Quando approccio un brano non mi lascio più “suonare” solo con la prima
timbrica che esce dalla mia voce, ma seguo un certo percorso. Dopo aver
analizzato ed appreso struttura, armonia ed intervalli, canto il brano senza le
parole, recependo di più il substrato musicale separato dal contesto
linguistico (le lyrics). Così facendo scelgo una prima strada sonora a mio
avviso più coerente con l’ambientazione musicale del brano.
Successivamente, cantando le parole stesse proietto la sonorità ricercata
dentro il contesto del significante e significato della lingua stessa, adattando
il suono al messaggio del brano stesso. Per quanto riguarda la mia voce, ho
notato che la maggior libertà timbrica (quindi con variazioni accentuate e
con la possibilità di emettere suoni anche al di fuori da un’idea di eufonia
vocale) la applico a tutti i brani che rientrano nello stile swing, blues o bop,
nei quali sento di poter spaziare dentro i risuonatori (per esempio posso
indifferentemente caricare di suono un basso in zona faringale o tenerlo più
leggero e agganciato ai risuonatori più alti; oppure posso cantare la zona
acuta con una voce leggermente più piena). E questo si riflette anche nel
vibrato, in quanto sarà più libero e presente sulla coda della frase. Se invece
approccio un brano di genere bossanova il mio universo timbrico salirà
verso le risonanze più alte, quindi non eseguirò i bassi agganciandoli nella
faringe, ma li alleggerirò e anche la zona acuta sarà molto morbida; il tutto
avrà una generale uniformità timbrica. Anche il vibrato sarà ridotto al
minimo, o tolto quasi del tutto (come se gli strumenti d’ispirazione fossero
gli archi). Questa ambientazione timbrica mi piace molto anche sulle ballad

81
non appartenenti agli standards (come per esempio nelle composizioni di
Bill Evans o Kenny Wheeler o Mingus), mentre nelle ballads appartenenti al
repertorio degli standard jazz sento di poter spaziare un po’ di più, e
soprattutto sento che ciò si riflette sulla possibilità di inserire un po’ più di
vibrato.
Un'altra modalità per cercare il suono migliore è quella di studiare un brano
a velocità bassissima, in modo da soffermarsi su ogni singolo intervallo per
un po’; questo permette di appoggiare bene il suono nei risuonatori e quindi
di introiettarlo sempre più. Successivamente posso fare anche l’operazione
contraria, infatti se studio un brano a velocità nettamente superiore rispetto a
quella del brano stesso posso rendere a velocità normale più semplice il
passaggio di risonanze nel vocal tract, rendendo più fluida anche
l’articolazione delle parole o delle sillabe dell’improvvisazione.
Inserisco di seguito due esempi di diverso approccio timbrico ai brani. Il
primo è una ballad di Bill Evans, “Turn out the stars”, nella quale canto con
un timbro vocale omogeneo, con suoni agganciati ai risuonatori alti (quindi
con i bassi che risultano delicati e morbidi) e con la presenza del suono
soffiato, ovvero con una qualità sonora in cui assieme al suono fuoriesce
aria (ottenuto modificando l’accollo delle corde vocali). Il secondo è un
tema estrapolato dal solo vocale di Ella Fitzerald di “How high the moon”,
inserito in precedenza. In questo caso, vista l’ambientazione musicale
bebop, canto con maggior libertà timbrica e con maggior uso degli accenti,
usando anche la faringe come risuonatore ed avendo un approccio meno
morbido in alcuni punti, ma più deciso al fine di essere più aderenti alle
necessità del fraseggio.

82
83
84
Concludo con una riflessione di Davide Sparti sulla voce:

“Da un punto di vista storico, il jazz appare una musica fondamentalmente


patrilineare. La donna ha raramente uno strumento da suonare, protesi che
– se dominata – diventa potente prolungamento di sé. Ha “soltanto” la
propria nuda voce. […] Ma quella nuda voce, abbiamo visto, costituisce la
matrice stessa del jazz, anche di quello strumentale”32.

Ecco perché il jazz non cerca il suono ideale ma il suono personale: il suo
paradigma è la voce umana.

32
Davide Sparti “Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz”, Il Mulino, 2007; pag 85.

85
BIBLIOGRAFIA

 F. Fussi, S. Magnani “Ascoltare la voce. Itinerario percettivo alla


scoperta delle qualità della voce”, F.Angeli, 2008
 F.Fussi, S. Magnani, “L’arte vocale”, Omega Edizioni, 1994
 Davide Sparti “Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz”, Il
Mulino, 2007
 Gunther Schuller, “Il jazz. Il periodo classico. Le origini”, EDT
Torino, 1996
 Arrigo Polillo, “Jazz”, Mondadori, Milano 1975
 Ideali estetici e tecniche vocali agli albori del melodramma, Atti del
convegno di studi "La musica vocale: aspetti compositivi nella
letteratura antica e contemporanea", Associazione Ricercare Musica
Nuoro, 15-17 maggio 1992

ARTICOLI CONSULTATI:

 “Why scatting is like speaking in tongues: post modern reflections


on jazz, pentecostalism and africosmysticism”, S.J.Casmier e D.H.
Matthews, Oxford University Press, 1999;
 “Sarah Vaughan”, Barbara Gardner, Dowbeat del luglio 2009;
 “Louis Armstrong and the Syntax of scat”, Brent Hayes Edwards,
Columbia University, 2000;
 “All of me: the role of timbre in Louis Armstrong’s reinvention of
American popular song”, William R. Bauer, Conferenza di
musicologia, Montréal, 2005;
 “Stylistic Environment and the Scat Singing Styles of Ella Fitzgerald
and Sarah Vaughan”, Stewart Milton L., in Jazzforschung, vol.19
(1987);

86
 “Ella Fitzgerald: la first lady della canzone”, Paola Ingletti,
Risveglio Musicale;
 “The scat school of singing”, Bill Gottlieb, Negro digest, febbraio
1949.

BRANI CITATI (inseriti nel cd allegato)

1. L. Armstrong, “Heebie Jeebies”, 1926, pag. 23-24;


2. Ella Fitzgerald, “Flying Home”, 1949, pag. 25, 52;
3. Ella Fitzgerald, “How high the moon”, 1950, pag. 25, 53, 54, 55, 56;
4. Ella Fitzgerald, “Mr. Paganini”, anni ’40, pag. 45, 46, 47;
5. Ella Fitzgerald, “Oh Lady be good”, 1947, pag. 47, 48, 49, 50, 51;
6. Ella Fitzgerald, “Lullaby of birdland”, 1966, pag. 57, 58;
7. Ella Fitzgerald, “The girl from Ipanema”, “Photograph”, “Triste”,
“How insensitive”, “A felicidade”, pag. 59 (“The Girl from
Ipanema” e “A felicidade” compaiono nel cd allegato);
8. Boswell Sisters, “Alexander’s Ragtime Band”, “Cheek to cheek”,
“St. Louis Blues”, pag. 43, 44;
9. Sarah Vaughan, “Motherless child”, “The Lord’s prayer”, pag. 64;
10. Sarah Vaughan, “Shulie a bop”, 1954, pag. 65, 66;
11. Sarah Vaughan, “How high the moon”, 1954, pag. 66, 67, 69;
12. Sarah Vaughan, “Lullaby of birdland”, 66, 68, 69;
13. Sarah Vaughan, “Triste” dall’album “I love Brazil”, 1977, pag. 70;
14. Sarah Vaughan, “Obsession” dall’album “Brazilian Romance”,
1987, pag. 70;
15. Chet Baker, “It could happen to you”, pag. 27,28;
16. Dianne Reeves, “What a little moonlight can do”, pag. 29, 30;
17. Dianne Reeves, “Obsession”, pag. 29, 31, 32.

87

Potrebbero piacerti anche