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ANALISI DELLA VOCALITA' ELLINGTONIANA

There are simply two kinds of music, good music and the other kind
… Let's just say that what we're all trying to create, in one way or another, is music.
Duke Ellington

Ci sono semplicemente due tipi di musica, buona musica e l'altro genere


… Diciamo solo che quello che tutti cerchiamo di creare, in un modo o in un altro, è musica.

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Premessa:
Nell'ambito della poderosa produzione ellingtoniana vorrei soffermarmi sui diversi utilizzi della
voce che, spesso in maniera del tutto originale, hanno dato luogo a nuove sonorità e nuovi impasti,
analizzando la vocalità sia dal punto di vista solistico, sia dal punto di vista corale, aspetto
quest'ultimo per lo più trascurato nel jazz.
In particolare Duke Ellington utilizza la voce come uno strumento, incrementando la già numerosa
tavolozza dei colori e degli impasti sonori, soprattutto attraverso numerose cantanti, ciascuna con le
sue peculiarità, toccando prima corde assimilabili al blues e allo jungle style, per arrivare ad una
fase più impressionistica e infine a scrivere veri e propri vocalizzi, vicini a un genere più lirico-
classico. Utilizzare la voce come strumento musicale non è un fatto di per sé originale: Louis
Armstrong canta il primo “scat”, cioè la prima improvvisazione vocale senza un testo vero e
proprio, ma bensì attraverso sillabe, nel 1926 su “Heebie Jeebie”, ma con Ellington non si tratterà
semplicemente di esporre un tema, ma anche di rielaborarlo, o di improvvisare come una tromba o
un sassofono, o di fondersi con esso, a creare nuovi impasti sonori inediti: si tratta dunque di
un'esecuzione strumentale a tutti gli effetti, non più di un'esecuzione vocale.

In allegato alla tesi un cd con alcuni dei brani citati, ove segnalato accanto al titolo.

USO TIMBRICO DELLA VOCE


Adelaide Hall
“Creole Love Call” CD n.1

Ellington scrive nel 1927 un blues, nel suo periodo “jungle”, lo stile denominato “stile-giungla”,
intesa non solo nella sua accezione classica, con l'imitazione di suoni dal mondo animale, versi
animaleschi, ruggiti, ma anche come giungla “metropolitana”, luogo dunque di rumori e urla, Africa
e America insieme.
Tromba e trombone sono gli strumenti maggiormente adibiti a imitazioni, tramite le sordine, e alla
riproduzione del suono “sporco”, il cosiddetto “growl”.

Il 26 ottobre 1927 per la Victor Duke Ellington e la sua orchestra incidono “Creole Love Call”,
composto da Ellington insieme a Bubber Miley e a Rudy Jackson; sul disco originale c'è la scritta
“with vocal refrain”. Sarà Adelaide Hall , cantante di colore, a usare questo stile per la prima volta,
cantando, ma senza testo, il tema e riproponendolo nella riesposizione finale, imitando gli strumenti
a fiato, o meglio trovando una nuova sonorità, un timbro originale e diverso.

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Non è solo la sonorità, con le dinamiche, con il growl, a rendere la vocalità “jungle”, ma anche i
glissati, gli accenti, i blend, tutti quegli effetti dinamici o di espressione che utilizzano gli strumenti
a fiato per caratterizzare e personalizzare la propria “voce”.
Nel tema iniziale la sonorità è più lineare e dolce, mentre più aspra la riesposizione finale, con una
linea improvvisata ed elaborata dalla cantante stessa.
Formato da sei chorus, la Hall apre e chiude il brano, mentre in quelli centrali si ascoltano Bubber
Miley alla tromba, Rudy Jackson al clarinetto e gli orchestrali, prima gli ottoni, poi i clarinetti.
Si tratta di puro timbro vocale da una voce nera, assimilabile ad un suono di sassofono alto, ma
vicina anche ad un trombone sordinato ( dunque la voce rauca ).
Salta immediatamente all'ascolto che si tratta di uno schema domanda-risposta tra solista e
orchestra, un gioco di alternanze e a volte di sovrapposizioni, le note più lunghe non sono mai
dinamicamente statiche, ma in diminuendo, i suoni più acuti sono raggiunti spesso attraverso dei
piccoli glissati e accentuati, come spesso accade in questo stile per gli strumenti a fiato; inoltre le
frasi contengono delle piccole progressioni, riproposte con accenti diversi ( Ultimo tema ).

La melodia del tema sfrutta l'ambiguità tipica del blues tra terza maggiore e terza minore.

Nella rielaborazione della Hall troviamo una melodia spesso triadica:

In tutta la rielaborazione del tema, nell'ultimo chorus, la terza minore è predominante nella melodia,
c'è infine un'interessante coda, cantata parzialmente a cappella.

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“The Blues I Love To Sing” CD n.2

Lo stesso giorno l'orchestra di Ellington incide anche “The Blues I Love To Sing”, criticata
negativamente dal critico A.J.Bishop nel Jazz Journal del 1971, ma interessante da ascoltare.
Adelaide Hall introduce il brano vocalizzando e anche parlando, come se presentasse il titolo del
brano, e con altri piccoli interventi parlati, come a coinvolgere l'ascoltatore.
Dopo due interventi solistici, il terzo chorus consiste in un vero e proprio duetto tra voce, che
rappresenta lo strumento principale, e tromba, che si sente in secondo piano, a fare da controcanto;
lo stile è quello “giungla”, con molto “growl”, molti glissati; solo alla fine si sentono ancora delle
parole recitate, a ricordare il titolo del brano , “The Blues I Love To Sing”.

Adelaide Hall

“Chicago Stomp Down” CD n.3

Meno famoso, inciso solo pochi giorni dopo, il 3 novembre 1927, “Chicago Stomp Down” è stato
inciso un minor numero di volte.
Qui, dopo una prima esposizione del tema da parte di Otto Hardwick, la Hall canta le frasi dei
break, ai quali risponde l'orchestra; dopo di lei altri due interventi di Joe Nanton e di Rudy Jackson.
Bubber Miley in questa situazione aveva lasciato temporaneamente il suo posto, a favore di Jabbo
Smith, dunque è come se la Hall sostituisse la tromba di Miley: è uno strumento a tutti gli effetti,
con il suo colore, la sua peculiarità, il suo suono, protagonista e fuso in un impasto originale.

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Baby Cox
“The Mooche” CD n.4

Baby Cox
L'anno successivo, esattamente il 1° ottobre 1928, Duke
Ellington incide con la sua orchestra due brani con la
partecipazione di un'altra cantante, Baby Cox, che lavorava
nei varietà anche come ballerina.
Il brano è a nome Ellington-Mills: in realtà Irving Mills
aveva iniziato a collaborare già dal 1926 con Duke non certo
per le sue qualità musicali, ma per essere un dinamico e
capace impresario, che avrebbe contribuito ad organizzare
tournée, ingaggi e sedute di registrazioni: veniva poi ripagato
con una parte dei diritti d'autore e questo è il motivo per cui
troviamo diversi brani co-firmati.
“The Mooche”, che si riferisce al modo dinoccolato di
camminare del mondo di Harlem, diventa molto celebre e
resta dunque a lungo nel repertorio di Ellington, che non
dimentichiamo dava largo spazio al repertorio più amato dal
pubblico, riproponendolo spesso nei concerti, magari con
nuovi arrangiamenti, o inserendolo in un “medley”.
Potremmo dire che la voce si fonde e si confonde con la
tromba sordinata di Bubber Miley, nell'esposizione ci sono
tre clarinetti, la tromba risponde, le note lunghe sono in
crescendo o diminuendo anche qui, l'incedere è moderno,
con accenti sul “2” e sul “4” della battuta. Alla voce Baby
Cox, con un approccio strumentale e ancora più graffiante
rispetto ad Adelaide Hall. Non si tratta di improvvisazione
vera e propria, tutto è scritto.

(Intro) A B B B B A
a volte blues 24 mis blues 12 blues 12 blues 12 blues 12 blues 24 mis
minore maggiore minore maggiore minore minore
Baby Cox Bubber Miley

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“Hot And Bothered” CD n.5

Nella stessa seduta di registrazione viene inciso un altro pezzo meno noto ma che vale la pena di
ascoltare e analizzare, dove si assiste a uno scambio di fours ( domanda-risposta di quattro battute
ciascuno ), ad un tempo veloce, tra la vocalist e Bubber Miley.
Uno scambio tra voce e tromba era del tutto originale all'epoca e del tutto paritario risulta il ruolo
della Cox rispetto allo strumento ( pur non apparendo nell'esposizione del tema), distinguendosi
solo per il timbro, imitandosi tra loro e rispondendosi allo stesso tempo.

La prima frase di Bubber Miley utilizza sesta maggiore e minore, elemento “bluesy” (tonalità di Mi
bemolle maggiore).

Baby Cox utilizza delle piccole progressioni, riproponendo gli stessi intervalli, ma cambiando la
posizione all'interno della battuta; si noti anche l'utilizzo della sincope e delle note in levare.

Ecco invece le ultime battute, dove gli scambi diventano più serrati, c'è un avvicinamento dei due
musicisti, fin quasi a sovrapporsi.

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Kay Davis
“Transblucency (Blue Light)” CD n.6

Fino al 1930 si può notare chiaramente l'utilizzo di voci nere e vicine al blues, poi Ellington perderà
interesse per questi esperimenti e si dovrà aspettare fino al 1944 perchè incontri Kay Davis, soprano
che aveva anche una preparazione classica, per continuare anche la vocalità intesa come timbro.
La collaborazione con Kay Davis consisterà soprattutto in un linguaggio “tradizionale”, come
cantante dell'orchestra su canzoni con testi, ma due in particolare sono i brani che mi interessa
nominare a proposito, invece, della voce intesa come puro timbro.
L'evoluzione stilistica che porterà Duke Ellington a uno stile definibile “impressionista”
coinvolgerà anche la vocalità che diventerà più “pulita”, ad incontrare nuovi mondi, più lontani dal
jazz inteso in senso tradizionale.

Per il concerto del 4 gennaio 1946 alla Carnegie Hall, il Duca prepara una composizione per la
Davis: “Transblucency” ( il nome stesso è sintomo di “espressionismo” ).
Si tratta di un blues di 12 battute, però asimmetrico rispetto all'armonia del blues classico
( solitamente 4+4+4 ), che diventa 4+3+5; la melodia è un impasto sonoro di voce, clarinetto e sax
baritono, si tratta di suoni lunghi, contrapposti a brevi risposte del pianoforte; la melodia viene poi
suonata dal trombone, stavolta con clarinetto e voce che fanno da “background”; poi un
contrappunto a due voci per clarinetto e soprano, Lawrence Brown e Kay Davis, una voce intesa in
senso più flautato e classicheggiante; la voce esegue poi un “solo” vocalizzando sopra al tema
riproposto dall'orchestra.

Il contrappunto per voce e clarinetto, nella successiva trascrizione, è omoritmico, fatta eccezione di
un paio di brevi punti; le voci si muovono a volte per moto parallelo a distanza di terze, seste o
anche per quarte; a volte si muovono per moto contrario.

Qui la cantante non è chiamata a dialogare con gli altri strumentisti, ma a fondersi con essi; non a
caso gli strumenti sono diventati clarinetto e trombone, non più la tromba, che rischierebbe di
sovrastarla.
Ciò che stupisce è la sonorità, l'impasto che viene a crearsi, così come era già accaduto in “Mood
Indigo”, che apriva la strada a questo momento “espressionista” della produzione ellingtoniana.

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“On A Turquoise Cloud” CD n.7

Sempre con Kay Davis alla voce, del 1947, “On A Turquoise Cloud” continua l'impronta
classicheggiante e cameristica ( rafforzata con l'introduzione di un violino con arco in orchestra ).
Il brano è una forma bitematica tripartita, spesso utilizzata da Ellington, con una struttura a specchio
per quello che riguarda le misure.
(Intro) A B B A
pianoforte 8 mis 20 mis 20 mis 8 mis

Il primo tema viene esposto da Kay Davis, che canta nel registro acuto, e da Jimmy Hamilton, con il
clarinetto nel registro grave, poi il secondo tema è suonato da Lawrence Brown. Questo motivo
viene poi rielaborato dal duetto voce-clarinetto, con la Davis che esegue un assolo su un
“background” orchestrale. Il primo tema invece viene eseguito ancora alla fine del brano dalla voce
con il violino di Ray Nance e con la presenza del clarinetto basso di Harry Carney. Clarinetto e voce
ancora una volta si rincorrono, sembrano gareggiare, il sound ottenuto è eccezionale.

Kay Davis con Duke Ellington

Si tratta di una gamma timbrica molto raffinata, più “europea”, assimilabile alla musica classica e
lontana dal jazz inteso in senso tradizionale, come ancora oggi viene largamente percepito ed
eseguito e soprattutto per come verrà ampliato nel linguaggio improvvisativo solistico nel bebop.
Nuove e raffinatissime le sonorità trovate, la musica è totalmente scritta, non ci sono interventi
solistici improvvisati, il vero lavoro è quello di Ellington come arrangiatore

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Alice Babs
“Serenade To Sweden” CD n.8

Nel 1963 ero a Parigi con un contratto insolito, che mi consentiva di registrare per la Reprise con
sei o sette musicisti a mia scelta. La prima che scelsi fu Alice Babs perché è forse l’artista più
particolare che io conosca. È una soprano di coloratura senza confini. Può cantare l’opera, i
lieder, il jazz e il blues; canta come uno strumento, canta perfino lo jodel, e legge tutto a prima
vista. Non c’è problema se gli intervalli sono difficili: quando le date la musica, legge tutto e canta
come se avesse provato per un mese. E ogni parola viene pronunciata alla perfezione,
comprensibile e credibile .
(La musica è la mia donna, Editore Fuori Thema, Bologna 1994)

Alice Babs, così descritta dallo stesso Ellington, rimarrà a lungo al suo fianco, anche
nell'esecuzione dei Concerti Sacri: cantante di Stoccolma, piuttosto nota in patria soprattutto
nell'ambito pop, ma con una preparazione classica alle spalle, tecnicamente impeccabile, nonchè
ascoltatrice di musica jazz.
“Serenade to Sweden” venne composta appositamente per la sua vocalità, la cui pienezza è evidente
non solo nel registro medio e acuto, ma anche in quello sovracuto, con una “purezza” che non stona
con il jazz.
Pur trattandosi di una vocalità più vicina al mondo lirico che al jazz, non risulta stucchevole, né
fredda nell'interpretazione di questo repertorio, restando naturalmente una voce “bianca”.
Le doti virtuosistiche le permettono di cantare all'interno di un registro molto ampio, con
un'intonazione perfetta, specie dove la melodia consiste in note più difficili da emettere e, dal punto
di vista armonico, in approcci cromatici o “tensioni”.

Si tratta di un vocalizzo sulla vocale “a” pressochè su tutto il tema, ma con l'aggiunta di consonanti,
dove c'è necessità di accennare ad un fraseggio jazz o su un accento, con l'utilizzo dunque di sillabe
(“da”, “va”, “ba” ) che fanno parte del linguaggio legato allo “scat”.

Il brano è una “song form”, un brano AABA, con un tema A di 8 misure che viene esposto due
volte, seguito da un secondo tema B, mentre nell'ultima esposizione il tema “A” viene allungato di
4 misure, con un rallentando e delle corone sulle ultime note che, cromaticamente, risolvono.

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I CONCERTI SACRI E LA DIMENSIONE CORALE

Nel 1965 Duke Ellington scrive un Concerto Sacro, commissionatogli dall'Episcopato della
California, eseguito la prima volta il 26 settembre 1965 nella Grace Cathedral di San Francisco
(anche se la versione discografica più nota è l'esecuzione di dicembre a New York nella Presbiterian
Church); chiamato “Sacred Concert”; lo storico Stefano Zenni lo definisce una “cantata”, un
insieme di brani strumentali e vocali di carattere sacro.

Allora era per lo meno singolare che venisse pensata una stagione concertistica all'interno delle
Chiese, senza contare che Ellington, come la maggior parte del mondo legato al jazz, era simbolo
della vita notturna, della malavita, del “peccato”: Ellington porta il Cotton Club in Chiesa, con la
sua orchestra, il Coro, i solisti, non dimenticando i ballerini e persino un danzatore di tip tap.
Da ragazzino Duke Ellington frequentava con il padre la Chiesa Metodista, caratterizzata da riti
formali e rigidi, corredati da inni luterani, spirituals classici, mentre con la madre ebbe un'idea del
gospel, di cerimonie più accese, più ritmate, di voci più libere e corpi più agitati, nelle chiese
battiste: non possiamo definire Ellington un uomo “religioso” in senso stretto, ma entrambe le
esperienze dovevano averlo toccato, così come i numerosi episodi che lo avevano toccato
musicalmente, anche negli altri ambiti, contribuendo a rendere tanto poliedrica la sua formazione.

I testi sono tutti scritti da Ellington e sono molto semplici e accessibili, non si può definire uno
scrittore vero e proprio, ma è autentico, sincero e funzionale, comunicativo, diretto.

I concerti sacri sono l'ambito in cui Ellington si avvicina alla musica corale e la scrittura corale nel
jazz non ha precedenti: probabilmente era difficile riprodurre sia l'armonia jazzistica sia l'elemento
“improvvisativo” coralmente: a tutt'oggi l'eredità ellingtoniana vien eseguita non solo nelle
comunità ma anche, dai cori, all'interno delle università.

Il coro nei concerti sacri canta almeno in quattro diverse situazioni:

1. in armonia come un fondale (con un solista, strumentista o cantante)

2. a cappella liberamente

3. recitazione ritmica – parla, come se recitasse, a tempo

4. melodie all'unisono – di carattere jazz

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Segnalerò le diverse situazioni all'interno di alcuni brani tratti dai Concerti; le versioni
discografiche non sempre ricalcavano in pieno le successive esecuzioni, dato che Ellington anche in
questo ambito “sacro” continuava a variare, ri-arrangiare, allungare e adattare il materiale a nuove
idee o a nuove esigenze.

Primo Concerto Sacro

“Sacred Concert” denominato in un secondo momento “primo” concerto; Ellington non pensava che
ne sarebbero seguiti altri: definibile dunque come “Cantata” composta da varie parti, strumentali,
vocali, corali, 10 episodi per big band jazz, 3 voci soliste, un coro e un danzatore di tip-tap.
I materiali non sono tutti originali: il brano forse più noto è “Come Sunday”, tema nato per la Black
Brown and Beige che viene qui riproposto.

“In The Beginning God”

Uno dei brani più originali e complessi, suddiviso in varie sezioni.


Da notare il titolo, le prime 4 parole della Bibbia, nella traduzione di Re Giorgio ( la Bibbia è uno
dei libri molto letti da Ellington, in particolare l'Antico Testamento ); il tema è dunque basato su 6
sillabe, che diventano 6 note, un tema per niente semplice, con la sillaba “God” sulla nota più acuta.
La numerologia e la simbologia spesso legate alla musica sacra sono al centro di queste
composizioni anche per Duke Ellington.
Jon Hendricks fu il solista nella versione originale a San Francisco, sostituito poi a New York da
Brock Peters, due voci baritonali che cantano il tema con un suono vicino alla lirica.

Sopra ad un fondale strumentale “bluesy” con la batteria che mantiene lo swing e gli interventi di
Ellington al pianoforte, la voce recita un testo semplice, ironico, sfrontato, una visione
“idiosincratica” ( per citare Stefano Zenni ) con l'elenco di quanto non ancora creato, una lista
divertente di cose che “non c'erano” prima della Creazione: ancora recitati “no cielo, no terra, no
niente”, poi, dallo swing, “no cadillac, no montagne, no valli, no gloria, no notte, no giorno, no

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limiti, no cane, no gatti … no pedoni, no guardie del corpo, no conferenze, no barracuda ... no
“beatles”, no galera, no carte di credito, no tv commerciale, no conferenze telefoniche, no eroi, no
critica, no professionisti, no cantanti, no ballerini, no niente”. Un altro elenco recitato ritmicamente
dal coro è la lista dei titoli dei libri dell'Antico Testamento come un “background” ritmico sopra ad
un assolo di sassofono di Paul Gonsalves. Citato di nuovo il tema dalla tromba di Cat Henderson
nel registro acuto e sovracuto, poi di nuovo il coro a citare i titoli dei libri del Nuovo Testamento sul
rullante della batteria a creare tensione, in accelerando fino all'assolo di batteria e poi di nuovo il
tema all'orchestra e infine al coro che canta in modo maestoso “In The Beginning God”.

“Ain't But The One”

Il coro è invece utilizzato in modo più vicino alla spiritual ecclesiastico nei brani “Tell me it's the
Truth” e “Ain't but the One”, con l'effetto domanda-risposta, come accade nelle cerimonie, con le
risposte dei fedeli e i commenti e gli interventi degli stessi, uno stile vicino al gospel tradizionale.

Il brano che chiude il Concerto è “David Dance Before The Lord”, dove suona l'intera orchestra, il
coro e il ballerino di tip-tap.

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In “David dance before the Lord” il tema “Come Sunday”, già suonato da Johnny Hodges al
sassofono alto e cantato da Mahalia Jackson come inno spiritual tradizionale ( venne infatti incluso
negli inni ufficiali della Chiesa Presbiteriana ), qui viene accelerato e cantato all'unisono dal coro, in
stile swing, con un vocalizzo, a fare da sfondo, mentre il ballerino di tip-tap danza.
Prima della danza, Jon Hendricks canta uno scat, un'improvvisazione vocale.

Tutto ciò a testimoniare un utilizzo originale delle voci in un modo assolutamente inedito di
pregare, quasi uno show di Broadway entrato in Chiesa, il mondo del cabaret, il Cotton Club di
Ellington.

Secondo Concerto Sacro

Tre anni dopo, il 19 gennaio 1968 nella Chiesa di Saint John The Divine a New York, la
rappresentazione della seconda Cantata, di cui non abbiamo né un video né una registrazione; incisa
tra fine gennaio e febbraio: nel cd originale, per esigenze di spazio, mancano due brani.
Si tratta di 13 episodi per orchestra jazz, un narratore, 4 voci soliste, 4 cori, a volte separati, a volte
uniti, e anche un coro di bambini. Si tratta del Concerto Sacro più lungo, più pensato e strutturato,
dove Coro e Orchestra hanno medesima importanza e l'utilizzo della vocalità è totalizzante.
I due gruppi di ballerini danzavano nelle due navate: anche se spesso è stato ed è il Concerto più
replicato, non sempre viene eseguito completo di balletti.
Tutta la musica ed i testi sono interamente di Ellington, dato che Billy Strayhorn, suo collaboratore
per oltre 30 anni, morì nel 1967, fatto traumatizzante per via dello stretto legame tra i due, oltre che
per parità di vedute musicali.
Ancora presente la numerologia e probabilmente una riflessione più intima e intensa nei confronti di
Dio, sia per la morte di Strayhorn, sia per l'età di Ellington che avanzava.

“Praise God”

Il primo brano “Praise God”, che verrà ripreso anche alla fine del Concerto vede come protagonista
la cantante svedese Alice Babs, della cui vocalità duttile Ellington si era innamorato, con la pulizia e
la tecnica di una formazione lirica, ma anche con senso dello swing, conoscenza del jazz,
un'intonazione, un'estensione e una lettura a prima vista notevoli.
Non a caso si tratta di un tema non facile da intonare, con un'estensione decisamente più vicina al
mondo lirico che al jazz.

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“Supreme Being” CD n.13

Ancora una volta Ellington si prende delle notevoli libertà di linguaggio per descrivere il tema della
Creazione, l'Essere Supremo, un misto tra sacro e ironia.
La prima parte orchestrale consta di un linguaggio dissonante, aspro, che si avvicina alla nostra
musica contemporanea, poi il coro con la recitazione ritmica, “There is One/ only One / One
Supreme Being … Chaos and confusion... Heaven and Earth...” (C'è un solo/ solo un Essere
Supremo… Caos e confusione... Cielo e terra ): citati il tuono, il fulmine, il caos, la creazione.
Un recitato ritmico, che, a seconda delle parole, sale o scende di altezza, creando ipnoticamente la
visualizzazione e la suggestione dei termini utilizzati nel testo: luce, buio, bene, male.
Molto originale il Sonetto della Mela: Ellington per raccontare l'episodio di “Adamo ed Eva” rende
la mela stessa “narratrice” ed è dunque la mela stessa che racconta l'accaduto, con una voce di
bambina.
Di nuovo un episodio corale, recitato, e di nuovo l'asprezza dell'orchestra.

Non è un brano jazz, Ellington segue il suo “credo” in termini di musica “beyond categories”, fuori
dagli schemi come musicista, come gestione dell'orchestra, ma anche vocalmente e coralmente.

Un brano interamente scritto “Supreme Being”, che non lascia spazio ad improvvisazioni,
strutturato come un racconto, come teatro, con i suoi personaggi, le sue voci caratteristiche e
caratteriali, strumenti, solisti, voci o cori o danzatori che siano.

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“Heaven” CD n.14

In “Heaven” così come Johnny Hodges nella “Black Brown and Beige” suona il tema la prima volta
molto lentamente con un controllo perfetto delle sonorità, delle dinamiche, dei glissati, così anche
Alice Babs canta il tema la seconda volta, di nuovo un tema con intervalli non immediati e non
facili da intonare, reinterpretandolo, stavolta con un “mood” latin, un aspetto quasi sensuale, che,
non a caso, Ellington affida alla voce femminile.
A volte durante le nuove esecuzioni ed interpretazioni del concerto, era necessaria più di una
cantante, perchè difficilmente in una sola si trovavano riunite le diverse qualità di Alice Babs.

“Almighty God”

Mentre il precedente “Something 'bout Believing” è un brano che possiamo definire più fruibile e
immediato, con un coro che canta all'unisono un motivo jazzato, che definirei quasi vicino alle
atmosfere di Burt Bacharach, “Almighty God” cambia totalmente “mood”, attraverso un tema
originale, in cui convivono formazione classica, senso dello swing e una serie di vocalizzi dove la
voce viene utilizzata come timbro.
Ancora una volta Alice Babs protagonista con una vocalità classica che canta sopra all'orchestra;
nella seconda parte improvviserà insieme al clarinetto; infine, mentre il soprano continua nel suo
assolo con vocalizzi nel registro sovracuto, il coro all'unisono costituirà lo sfondo, a rendere il finale
maestoso.

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“(It's) Freedom” CD n.15

“(It's) Freedom” è invece una canzone, piena di parole ripetute, swingata, dal testo molto semplice,
come accade sempre nei testi scritti da Ellington per essere immediati e fruibili da chiunque; il coro
canta, all'unisono, alternando momenti cantati e ripetuti a momenti orchestrali con degli “assoli”
strumentali.
Nella sezione successiva il coro ripete la parola “freedom” a cappella, a tempo rubato, diventando
lo sfondo su cui Ellington parla: “Libertà è una parola parlata e cantata, forte e dolce in tutto il
mondo, e in molte lingue. La parola 'libertà' è usata per molti scopi. A volte è usata anche
nell'interesse stesso della libertà”. Come di consueto l'ironia di Ellington maschera con una canzone
apparentemente senza tensione, facile da ascoltare, l'intento di parlare di concetti civicamente
importanti, in un momento politicamente drammatico, dove le lotte per la libertà si susseguono.
Uno per volta, i cantori declamano la parola “libertà” in 21 lingue diverse, poi c'è di nuovo la
canzone; si alternano vari momenti, ci sono riferimenti allo spiritual, ci sono i “riff”, c'è lo stride-
piano, in trio, al pianoforte, a ricordare Will The Lion Smith.
Poi Ellington stesso parla del suo amico, scomparso, Billy Strayhorn, sfidando l'immaginario
americano, rifacendosi al discorso dell'unione nel 1941 di Franklin Roosvelt.

Le quattro libertà di Roosvelt:


L a p r i m a è l a l i b e r t à d i p a ro l a e d i e s p re s s i o n e - o v u n q u e n e l m o n d o .
La seconda è la libertà di ogni persona di adorare Dio a modo suo - ovunque nel mondo.
La terza è la libertà dal bisogno, che, tradotta in termini mondiali, significa intese economiche che
garantirà ad ogni nazione una vita sana in tempo di pace per i suoi abitanti - ovunque nel mondo.
La quarta è la libertà dalla paura, che, tradotta in termini mondiali, significa che a livello
mondiale la riduzione degli armamenti a tal punto e in un modo così accurato che nessuna nazione
sarà in grado di compiere un atto di aggressione fisica nei confronti di qualsiasi vicino di casa - in
tutto il mondo.

Le quattro libertà di Ellington:


libertà dall'odio
libertà dall'autocommiserazione
libertà dalla paura di fare qualcosa
libertà da quel tipo di orgoglio di essere meglio di suo fratello o di poter far meglio

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“T.G.T.T.” CD n.16

Ancora una volta in onore di Alice Babs, un duetto voce e pianoforte elettrico, “T.G.T.T. ”, a
testimoniare non solo i siglati che Ellington usava per abbreviare i titoli dei pezzi, ma anche il non
riuscire a trovare un titolo per questo brano, talmente bello da non riuscire a definirlo: “T.G.T.T.” è
infatti l’acronimo di “Too Good To Title”, letteralmente ‘troppo bello per essere intitolato’. Il canto
senza parole della Babs, con volteggianti passaggi dal registro basso a quello acuto, quasi una
“sublimazione” del concetto di voce strumentale.
Il brano è di difficile esecuzione, non solo per l'ampiezza di registro, ma anche per gli intervalli non
facili da intonare e perchè la melodia spesso consiste in “tensioni” degli accordi, poche volte
consonante all'armonia, forse una riflessione su Gesù Cristo e sulla sua trasgressività, tanto che
spesso, alla fine delle frasi, l'ultima nota non è quella che ci si aspetterebbe.

“Father Forgive”

Uno dei brani coralmente più raffinati è “Father Forgive”, tutto a cappella, con il coro, armonizzato,
che risponde al recitativo del solista, appunto con la frase “Father Forgive”, a cercare il perdono di
Dio. La risposta cambia sempre creando cadenze diverse.

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Terzo Concerto Sacro

Il terzo concerto sacro, commissionato a Duke Ellington alla fine del '72, fu eseguito un'unica volta
il 24 ottobre del 73 a Londra, a Westminster.
Fu scritto mentre era già malato e consapevole del fatto che l'opera sarebbe stata il suo ultimo
lavoro: la musica veniva scritta durante le cure, Ellington prendeva le sue decisioni in ospedale, con
la collaborazione del figlio, ascoltando i nastri.
L'album uscì postumo nel 1975, dopo la morte di Ellington, avvenuta il 24 maggio 1974, e non tutta
la musica finì nel disco, perchè si era trattato di una “prima” e di sicuro avrebbe subito variazioni e
rimaneggiamenti, come d'abitudine del compositore.

Il concerto è quello più intimo, con la parte vocale preponderante rispetto a quella orchestrale;
c'erano ancora Alice Babs e Harry Carney, tra i suoi storici protagonisti.
Possiamo immaginare che fosse una sorta di preghiera personale, che sentisse di essere alla fine
della sua vita.

Alice Babs con Duke Ellington

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“Is God A Three Letter Word For Love”

Un brano di intensità e colori diversi, dal pieno orchestrale, a un interludio pianistico, il soprano
espone il tema con il coro che entra con l'armonizzazione; c'è poi un recitato mentre il coro crea uno
sfondo a cappella ed infine di nuovo l'orchestra con il solista e i fiati che fanno da “background”.
Paragonabile ad un lied.

“Every Man Prays In His Own Language”

“Every man prays in his own language” può essere considerato il brano corrispondente a “It's
freedom” del Secondo Concerto Sacro, suddiviso in più parti.
Si tratta di una serie di episodi, tutti basati sulla preghiera del “Padre Nostro”: alcuni sono cantati
dal coro, altri suonati dall'orchestra.
All'inizio c'è il coro a cappella, raccolto in preghiera, quasi un gregoriano.
Entrano poi il pianoforte , la ritmica con batteria e contrabbasso e, da ultimo, i fiati.
Coro e orchestra restano separati, come a far sentire meglio l'importanza del testo e anche la voce
sola è senza accompagnamento. L'orchestra ha un andamento aperto, riflessivo, meditativo,
anch'essa in preghiera. Il “Padre Nostro” viene cantato in svedese da Alice Babs, poi dal flauto
dolce, strumento raramente utilizzato da Ellington, forse qui alla ricerca di suoni “puri”, più vicini a
Dio. Si entra in una dimensione “europea” e inserita nel registro acuto, meno esplorato dal
compositore: non dimentichiamoci che Ellington era sempre alla ricerca di nuovi orizzonti.
Anche la voce di Ellington è toccante, una voce anziana, malata che chiede: quando il capitano dice
di abbandonare la nave, siamo sicuri che l'oceano non celebri Dio? Quasi a celebrarLo attraverso la
tempesta.

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“The Majesty Of God”

Chiude il concerto un brano che gioca sul blues, ma ancora con colori chiari e che continua a salire
nel registro più acuto. Harry Carney, compagno di vita, è l'unico solista storico ancora presente e
protagonista: si tratta di un momento meditativo, di riflessione, non è nemmeno da considerarsi una
vera e propria “ballad”, ma qualcosa di più evanescente, così come lo stile del pianoforte: l'unico
momento davvero strumentale del terzo concerto, ma ancora con la presenza del soprano e il coro
che rappresenta lo sfondo, all'ultimo. L'ultimo Ellington apre strade ancora nuove.

Una curiosità: sembra che l'ispirazione ellingtoniana per la musica sacra e i concerti fosse derivata
da una favola francese chiamata “Il giullare di Notre Dame” o anche “Il giullare della Vergine
Maria”, in cui tutti portano doni molti ricchi alla Madonna, mentre il giullare ha solo la sua “arte”,
che consiste nel fare capriole e danzare. Ellington si identificava col giullare e il suo modo di
pregare consisteva nel presentare la sua arte a Dio e considerava forse la fede come luogo in cui far
convivere le diversità della sua musica e le sue contraddizioni di uomo, uno spazio - dunque - di
libertà.

Moon Maiden CD n.17

Al di fuori dell'ambito dei concerti sacri, cito un ultimo brano molto originale per quanto riguarda l'
utilizzo della timbrica vocale: si tratta di Duke Ellington in solo, in cui si sovraincide con la celesta
( lo capiamo anche dalla presenza dello schiocco delle dita ) del 1969, “Moon Maiden”.
Qui, oltre a suonare, Ellington recita un brano, ed è qui che si potrebbe cautamente assimilarlo ad
una sorta di “rap”: la recitazione è ritmica, ha degli effetti vocali percussivi su alcune consonanti,
allunga alcune vocali, c'è un effetto particolare sul termine “vibrations”, con la “a” quasi vibrata e
ribadita, a sottolineare i punti salienti del testo o a catturare l'attenzione dell'ascoltatore nei punti più
eclatanti, una recitazione quasi “futuristica”.

Duke Ellington, difficilmente accostabile ad un unico genere nella storia del jazz, come molti altri
compositori e interpreti, legati invece per lo più ad uno stile, è un innovatore anche per quanto
riguarda la scrittura vocale, passando attraverso una varietà di stili e di epoche, evolvendo ed
espandendo anche il linguaggio e la sperimentazione vocale e corale.

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“SOPHISTICATED LADY” : VERSIONI A CONFRONTO

Ho voluto di proposito dedicare un maggior approfondimento alla produzione di Ellington meno


“classica”, meno nota, se vogliamo, cioè quella dedicata all'uso timbrico della voce e alla coralità.
Ma nei concerti anche tardivi dell'artista non sono mai mancati i suoi “evergreen”, certo rielaborati
e riproposti in modo mai uguale o monotono, per una esigenza di pubblico: non dimentichiamoci
del lato “manageriale” di Ellington, che da sempre aveva compreso le leggi del mercato, non
deludendo le aspettative del suo pubblico.Vorrei dunque affrontare uno dei brani più noti e
rappresentativi di Duke Ellington: “Sophisticated Lady”, un brano di forma song AABA, 4 sezioni
di 8 battute ciascuna, con la sezione B - l'inciso - molto originale e per niente facile da cantare.

“Sophisticated Lady” mostra un impianto compositivo di altissimo livello, notoriamente nel


magistrale inciso che strappò gli ammirati complimenti di George Gershwin (Berini – Volontè).

Le sezioni “A” sono costruite su arpeggi e frasi ascendenti di 4 note che poi scendono
cromaticamente, della durata di 2 battute, che formano una progressione di tre frasi.

La terza frase conclude su una cadenza II V minore con la quinta sull'accordo minore che
cromaticamente scende alla nona bemolle dell'accordo di dominante.

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La seconda sezione A conclude invece sulla tonica dell'accordo, come la A finale.

La melodia comincia con un cromatismo che porta alla quinta dell'accordo minore, mantenendo
medesima melodia alla fine dell'inciso che porta all'ultima A, ma su armonia differente.

L'inciso sarà analizzato accostandolo all'interpretazione di Ella Fitzgerald.

Il brano, del 1932, è stato eseguito strumentalmente e riproposto numerosissime volte, con
arrangiamenti di volta in volta diversi, ma tipicizzato negli assolo di Harry Carney, il cui nome sarà
indissolubilmente legato al brano.

Ho scelto, da mettere a confronto, le versioni di quattro cantanti, Rosemary Clooney, Ella


Fitzgerlad, Billie Holiday e Sarah Vaughan per citarne la grandezza, che hanno molto cantato Duke
Ellington, ciascuna con le proprie caratteristiche.

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Rosemary Clooney CD n.9

Nel gennaio del 1956 il tema sarà cantato per la prima volta, dopo
che il testo verrà aggiunto da Irving Mills e Mitchell Paris ( che
Ellington apprezzò pur non riflettendo pienamente la sua idea
originale del brano ), da Rosemary Clooney, che inciderà sopra
alla parte orchestrale già registrata, non senza difficoltà,
nell'album “Blue Rose”.

Rosemary Clooney

Una versione dunque quasi “letterale”, una lettura molto fedele della partitura originale con
Ellington stesso e i suoi musicisti.

Forse non a caso, con Ellington al fianco, non ci sono molti punti personalizzati o reinterpretati,
anche se secondo alcune fonti una rilettura così pedissequa è testimonianza di una poca
dimestichezza e fantasia, di fronte a un tema , nell'inciso soprattutto, della vocalist.

La struttura consiste in un'unica esposizione del tema nella tonalità originale ( La bemolle ),
preceduta da un episodio e da un finale orchestrali: lo stile vocale è rubato, nell'inciso c'è solo
qualche variante ritmica, ma le note sono esattamente quelle scritte; l'unico punto diverso è l'ultima
nota del tema, dove anziché un la bemolle Rosemary Clooney canta la fondamentale dell'accordo
preceduta dalla dominante con un'appoggiatura dall'alto e di nuovo la fondamentale all'ottava sopra.

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Ella Fitzgerald CD n.12

Dall'album “Ella sings the Duke Ellington Songbook” del 1957 per la Verve, nella sezione small
groups, ho tratto invece la versione di Ella Fitzgerald, con agli assoli Stuff Smith al violino e Ben
Webster al sassofono tenore, in tonalità di Do maggiore.

Dopo una prima stesura del tema cantata, fedele alla melodia scritta, viene eseguito un secondo
chorus con due assoli di violino e di sassofono; Ella canterà di nuovo le sezioni B e A, rielaborando
la melodia, soprattutto l'inciso.

Ella Fitzgerald con Duke Ellington

La vocalist rivela la sua nota capacità di variare e personalizzare i temi, anche nell'ambito di
scritture complesse, creando a tratti nuove melodie o mantenendo alcuni punti di riferimento.

Di seguito il tema originale e l'interpretazione di Ella Fitzgerald a confronto, nella ri-esposizione del
tema, dopo gli assoli.

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La sezione B, nel tema originale, è formata da intervalli discendenti che formano un'unica frase di
tre battute che finisce sulla nona bemolle dell'accordo.
Ella spezza il fraseggio con una pausa, costruendo così due frasi, mantenendo però l'idea della
discesa, anche nel cromatismo in “thinking of tomor-row” da la diesis a fa diesis.

Alla battuta seguente, la vocalist imita la scrittura originale, mantenendo la stessa figurazione
ritmica, ma spostandola avanti di un quarto, lo stesso cromatismo ma un'ottava sopra, ma togliendo
la nota in mezzo e aggiungendone una all'ottava sotto ( la sillaba “non” sol diesis ).

Anche nella frase successiva ( la seconda metà dell'inciso ) mantiene le frasi spezzate e anche la
stessa figurazione ritmica: anche qui infatti esse iniziano con una pausa di un quarto.
Le frasi finiscono con le stesse note del tema originale, anche se nella seconda frase sono spostate in
avanti ritmicamente, arrivando però contemporaneamente sulla sillaba “man” ( re diesis ).

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Le ultime due battute dell'inciso sono uguali al tema, tranne che per l'ultima nota, il si bemolle, che
viene eseguito all'ottava superiore e porta all'inizio dell'ultima sezione A, con un la, nota del tema,
sempre all'ottava superiore.

Nell'ultima A, che porta al finale vero e proprio del brano, la cantante rispetta il fraseggio originale,
semplificando a tratti la melodia con delle note ribattute, ma arricchendo la progressione cromatica
discendente sulle sillabe “so-phi-sti-ca-ted la-dy” con delle appoggiature cromatiche.

Lo stesso arricchimento melodico era stato cantato nella prima esposizione del tema, nella seconda
A, con dei cromatismi nelle sillabe “fools in love”.

Le ultime tre battute sono uguali alla scrittura originale, tranne che per la nota finale, che ricalca il
finale di Rosemary Clooney.

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Billie Holiday CD n.10

Dall'album “All or Nothing at All” del 1956 per la Verve, con Ben Webster al sassofono tenore,
Barney Kessel alla chitarra, Harry “Sweets” Edison alla tromba e alla ritmica Alvin Stoller alla
batteria, Joe Mondragon al basso e Jimmy Rowles al pianoforte.

Billie Holiday con Duke Ellington

Della versione di Billie Holiday di “Sophisticated Lady” non è da segnalare la rielaborazione


melodica o l'arricchimento tematico, ma, come accade sempre nelle sue rivisitazioni, la
drammaticità dell'interpretazione, esasperata da attacchi del suono quasi “sporchi” o note cantate
con le stesse caratteristiche di uno strumento a fiato, bending (un tipo di glissato che altera una nota

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musicale di partenza fino a portarla a una più alta, con un intervallo di semitono o tono), la voce che
si spezza a tratti, le note più spesso accorciate e non tenute.
Come se l'intento, o meglio il sentimento, mirasse ad una rilettura “asciutta”; d'altra parte il testo
parla di una donna infelice e nessuna come Billie è stata in grado di esprimere questi stati d'animo.
La tonalità d'esecuzione è Si maggiore; dopo l'esposizione del tema il sassofono esegue un assolo
sulle due sezioni A, poi la voce rientra sulla sezione B, con poche note variate, con uno stile cantato
vicino al parlato e anche con degli effetti “growl” sulle note che appartengono al registro basso o su
altre che, per significato, possano richiedere una maggiore partecipazione emotiva.
Alla fine del tema una coda a variare e rimarcare le ultime quattro parole.

Attraverso il formidabile declino fisico degli ultimi anni , il canto - per lo più spogliato della sua
lucida creatività ma fortemente motivato dall'impeto della testimonianze personale – conservava
una palpabile e talora struggente tensione emotiva.

“Amaro Raccolto”- Posfazione di Luciano Federighi ne “La signora canta il blues” Billie Holiday
(Feltrinelli)

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Sarah Vaughan CD n.11

Dall'album “After Hours” del 1961 per la Roulette, un disco con voce, chitarra ( Mundelle Lowe ) e
contrabbasso ( George Duvivier ), che creano un'atmosfera molto intima ed elegante.

Sarah Vaughan al pianoforte

Il brano viene eseguito in tonalità di Do maggiore ed ha una stesura originale: Sarah Vaughan
comincia a cantare l'inciso e l'ultima A, per poi cantare di nuovo il tema intero dall'inizio, con una
coda finale.
Non ci sono assoli o parti improvvisate.

Il contrabbasso utilizza l'arco nel primo inciso con la sezione A, cantata per la prima volta, come
fosse un'introduzione, mentre utilizza il pizzicato con l'inizio del chorus.

Fino al secondo inciso, le note ricalcano il tema originale, anche se esistono numerose varianti
ritmiche.

Nella pagina seguente la trascrizione del secondo inciso, più ricco di reinterpretazioni.

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Nelle prime tre misure, anche Sarah spezza la continuità della frase originale, creandone due: la
prima crea un movimento ascendente e poi discendente, mentre la seconda prosegue gli intervalli
discendenti che appartengono al tema ellingtoniano, arrivando alla stessa nota finale ( La, la nona
bemolle dell'accordo ), preceduta da un cromatismo.

La quarta misura dell'inciso contiene la stessa frase dell'originale, solo spostata di un quarto.

Nella seconda parte dell'inciso Sarah spezza ancora di più le frasi, creando un'atmosfera più
rarefatta e restando indietro dal punto di vista ritmico rispetto al tema originale.
Le parole “dancing dining” vengono riproposte con le stesse note, ma anche qui spostate in avanti
sul pentagramma.

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Per ricongiungersi alle note del tema utilizza una terzina di note cromatiche.

La coda finale consiste in due misure, una sorta di “turnaround”, a rafforzare la conclusione, ma
curiosamente arrivando non alla fondamentale dell'accordo, bensì alla nona.

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Concerto
Voce Carla De Alberti
Pianoforte Davide Scagno

1. Come Sunday
2. The Star Crossed Lovers
3. It Don't Mean A Thing ( If It Ain't Got That Swing )
4. Heaven
5. T.G.T.T.

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“Come Sunday”

Il primo brano che ho scelto per il Concerto è un tema caro a Ellington, scritto dapprima come un
brano strumentale per la “Black Brown and Beige”, nella sezione “Black”, quella dedicata al
“mondo nero” fino alla schiavitù, agli africani importati come schiavi, con il loro lavoro nei campi,
con il senso del blues, le loro usanze.
Poi il brano fu cantato da Mahalia Jackson, che ne scrisse il testo, e divenne uno spiritual, nonché
uno standard eseguito da moltissimi artisti, tra cui Dizzie Gillespie, Abbey Lincoln e Joe Zawinul.
Il testo consta di più strofe e alcune sono state poi variate oppure aggiunte dalle numerose cantanti
che hanno poi reinterpretato la song, nella sua classica forma AABA.
Ma chi in primis ha cantato questo tema con il suo sassofono è stato Johnny Hodges che con la
morbidezza del suo suono per primo ha definito la sacralità del brano.

Duke Ellington e Johnny Hodges

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“The Star Crossed Lovers”

Nell'ambito dei collaboratori che hanno da sempre lavorato con Duke Ellington - è noto che
prendesse spunto dalle sonorità e dalle personalità dei propri musicisti, nonché da loro idee e
caratteristiche musicali - il sodalizio più rappresentativo fu quello con Billy Strayhorn.
Durante il secondo Concerto Sacro Ellington parla dell'amico scomparso, rimpiangendolo come
artista e come persona; tra i celeberrimi standards co-firmati ricordo “Take The A Train” e “Lush
Life”, una delle ballads più magiche.
Ma una delle opere più imponenti create insieme fu anche la “Such Sweet Thunder”, una suite
dedicata a William Shakespeare, un insieme di brani, dunque, a rappresentare ciascuno un'opera
shakesperiana, quattro sonetti e otto brani.
Tre di questi dodici movimenti sono stati scritti da Strayhorn, d'altro canto il vero conoscitore della
letteratura: diversi i timbri, diverse le atmosfere, ogni musicista, ogni assolo è non solo una
situazione musicale, ma un carattere, un personaggio.
Le voci, strumentali o vocali, per Ellington sono personaggi e colori diversi, ciascuno con il suo
essere e le sue caratteristiche.
“The Star Crossed Lovers” è il momento ispirato a “Giulietta e Romeo”, un brano classico,
sdolcinato, dagli impasti sinuosi e morbidi, potremmo dire “alla Strayhorn”.

Non c'è differenza tra uno strumento e una voce: le voci per Ellington sono rappresentative di
un'identità, un colore, un personaggio, ognuna racconta la sua storia.

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“It Don't Mean A Thing”

Insieme alle ballads più cantate e ai brani “pretesi” dal pubblico, come “Solitude”, “In A
Sentimental Mood”, celeberrimo standard ellingtoniano, “It don't mean a thing (if it ain't got that
swing)” rivisitato e reinterpretato da sempre, addirittura in un medley-dance da discoteca qualche
anno fa.
Suonato e cantato da ogni vocalist e da ogni formazione possibile, immediata l'orecchiabilità del
tema, caratterizzato dai ribattuti sincopati della seconda parte delle sezioni “A”.
Una delle versioni più “giocose” e godibili che ho ascoltato appartiene all'album “Ella and Duke At
The Cote D'Azur” del 1967, dai concerti del 1966 di giugno e luglio a Juan-Les-Pins, sulla riviera
francese.

Per il concerto canterò la mia trascrizione del primo “scat” di Ella Fitzgerald di questa registrazione,
a testimoniare un linguaggio improvvisativo “classico” della vocalità jazz, per poi allontanarci
verso una versione più contemporanea, soprattutto nell'utilizzo del pianoforte come strumento
accompagnatore, aprendo un pedale, alla ricerca di un'atmosfera diversa.

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“Heaven”

Già nominato nell'ambito del Secondo Concerto Sacro, questo tema è un altro capolavoro
ellingtoniano interpretato da Alice Babs e da Johnny Hodges.

Vorrei qui analizzare un po' più da vicino la melodia e far notare l'utilizzo di “tensioni” accordali:
anche se la parola “heaven” finisce con la settima maggiore dell'accordo di Si bemolle, una nota
non estranea, di sicuro è quella che più può far pensare a qualcosa di etereo, il paradiso appunto;
“dream” è la quinta diminuita dell'accordo di Sol e anche le due battute successive hanno al canto
una tensione. Naturalmente ciò non costituisce propriamente una novità nell'ambito jazzistico, ma è
di sicuro poco usato nelle melodie cantate con un testo, non facili all'intonazione, elemento in netta
contrapposizione con il testo inserito in tutti i Concerti Sacri, dove l'immediatezza delle parole a
volte contrasta con la difficoltà della melodia.

Posso immaginare, ma questa è una mia deduzione personale, che, pensando a Dio, Ellington
trovasse ispirazione da una lato dalla semplicità con cui ci si può rivolgere in preghiera con un testo
“umano”, di immediata comprensione, dall'altro invece dall'avvicinarsi a un livello superiore,
attraverso alcune melodie ( si tratta di alcuni temi all'interno dei Concerti Sacri ) più “divine” che
“terrene”. Ho trovato interessante che proprio le parole “sweet” e “thing” non siano più “tensioni”,
ma note dell'accordo e che la parola “life” (vita) sia la fondamentale dell'accordo.

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Impossibile non notare i numerosi cromatismi che fanno parte del tema, già a partire dalle prime
due note della parola “hea-ven”, poi “ev-ry sweet”:

Nel prossimo esempio la progressione: “hea-ven-ly heaven” e poi “to be”, una successione
cromatica.

E anche nella frase finale del tema le prime tre note hanno un'appoggiatura cromatica.

Vorrei inoltre segnalare lo stile di Johnny Hodges nella sua rilettura tematica, con un'attenzione
dinamica fuori dal comune; ogni nota lunga ha un crescendo o un diminuendo o una “messa di
voce”, a volte le note che non ci aspetteremmo vengono evidenziate e accentuate o emesse con una
dinamica più forte, spesso gli intervalli vengono eseguiti con dei cromatismi o dei glissati.

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Dopo l'interpretazione di Hodges, il tema viene cantato di nuovo da Alice Babs con il nuovo tempo
“Beguine”, dove notiamo un approccio un po' diverso da parte sua e alcuni accenti più evidenti,
qualche nota anticipata, a rendere la melodia un po' più giocosa, dato il tempo raddoppiato, a tratti
“ironica”.

Alla fine del tema c'è una coda, che ho definito “cadenza”, perchè tale mi è sembrata: è la ripresa
variata della prima frase, con note coronate e con un vocalizzo “finale” sulla parola “divine”, che
non a caso, proprio sull'aggettivo “Divino” arriva fino al re sovracuto, attraverso dei glissati e
un'ultima corona che porta all'ultima nota, rimasta uguale al primo tema, anch'essa una tensione, la
nona dell'accordo.
Saranno poi i fiati a dare un senso di finale e di maggior “staticità” al brano.

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Tracce CD

1 Creole Love Call Complete Jazz Series - Duke Ellington 1927 - 1928
2 The Blues I Love To Sing Complete Jazz Series - Duke Ellington 1927 - 1928
3 Chicago Stomp Down Complete Jazz Series - Duke Ellington 1927 - 1928
4 The Mooche Complete Jazz Series - Duke Ellington 1928 - 1929
5 Hot And Bothered Complete Jazz Series - Duke Ellington 1928 - 1929
6 Transblucency Le chant du monde - L'histoire des big band 1914 -1955
7 On a Turquoise Cloud Columbia - Duke Ellington and his great vocalists 1993
8 Serenade To Sweden Nils Lindberg Bluebell - Far Away Star, 1978
9 Sophisticated Lady Duke Ellington and Rosemary Clooney
10 Sophisticated Lady Billie Holiday
11 Sophisticated Lady Sarah Vaughan
12 Sophisticated Lady Ella Fitzgerald
13 Supreme Being Prestige - Second Sacred Concert, 1968
14 Heaven Prestige - Second Sacred Concert, 1968
15 It's Freedom Prestige - Second Sacred Concert, 1968
16 T.G.T.T. Prestige - Second Sacred Concert, 1968
17 Moon Maiden Duke Ellington

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Bibliografia

1) Libri

ELLINGTON DUKE, La Musica è la mia Signora - L'Autobiografia, Minimum Fax, 2007

BERINI ANTONIO – VOLONTE' GIAN MARIA, Duke Ellington. Un Genio Un Mito, Ponte Alle Grazie, 1994

FEDERIGHI LUCIANO, Blue & Sentimental: Voci e Canzoni d'America del Novecento, L'epos, 2009

FRANCO MAURIZIO, Il Jazz e il suo Linguaggio, Unicopli, 2005

FRANCO MAURIZIO, Oltre il Mito – Scritti sul Linguaggio Jazz, LIM, 2013

FRANCO MAURIZIO, Dizionario Enciclopedico della Musica e dei Musicisti, Musica Jazz, UTET, 2005

HASSE JOHN EDWARD, The Life and Genius of Duke Ellington, Simon and Schuster, 1993

SCHULLER GUNTHER, Il Jazz. Il Periodo Classico. Gli Anni Venti, EDT, 1996

SCHULLER GUNTHER, Il Jazz. L'Era dello Swing. I Grandi Maestri, EDT, 1999

TUCKER MARK, The Duke Ellington Reader, Oxford University Press, 1995

ZENNI STEFANO, Storia del Jazz. Una prospettiva Globale, Stampa Alternativa, 2012

ZENNI STEFANO, I Segreti del Jazz. Una Guida all'ascolto, Stampa Alternativa, 2007

2) Saggi, Articoli, Partiture

STEFANO ZENNI, Dispensa per studenti Conservatorio di Pescara, 2014

STEFANO ZENNI, Lezione di Jazz “In the beginning Duke Alla scoperta dei Concerti Sacri”, Auditorium Roma 2013

LLOYD THOMAS, The Revival of an early “Crossover” masterwork – Duke Ellington's Sacred Concerts, Arcticle

HOYBYE JOHN – PEDERSEN PEDER, Duke Ellington Sacred Concert, Full Score

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Indice

Analisi della vocalità ellingtoniana..................................................................................................2


Premessa.......................................................................................................................................... 3
Uso timbrico della voce...................................................................................................................3
I concerti sacri e la dimensione corale............................................................................................17
Primo concerto sacro.......................................................................................................................18
Secondo concerto sacro...................................................................................................................20
Terzo concerto sacro........................................................................................................................26
Sophisticated Lady...........................................................................................................................29
Sophisticated Lady: versioni a confronto........................................................................................ 31
Il concerto........................................................................................................................................ 44
Tracce CD........................................................................................................................................59
Bibliografia......................................................................................................................................60

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