III° ANNO “I Field Hollers, il Blues Primitivo e la sua evoluzione”
Di tutti i sistemi armonici in uso, il giro del blues
non ha eguali in nessun altra musica del mondo, e nonostante i tentativi e gli sforzi di vari musicologi, la sua origine risulta ancora poco soddisfacente. Per approfondire l’origine di questo stile, è giusto e doveroso fare un passo indietro e cercare di capire cosa abbia contribuito alla sua nascita. Negli anni, molti studiosi hanno rilevato un tipo di musica vocale, o meglio di forma vocale, i Field Hollers, praticata prevalentemente da schiavi africani e in seguito afroamericani. Gli hollers sono stati considerati come uno strumento di comunicazione durante il lavoro nei campi, e sono considerati come un passaggio primario nell’evoluzione storica della musica afroamericana. Il tema del rapporto fra voce e spazio è particolarmente rilevante nell’analisi dei field hollers: la loro è un evocazione sonora attraverso la voce.
La pratica dell’hollering, quindi, presentava
caratteristiche vocali distinte e fini espressivi riconoscibili dall’intera comunità. Non si trattava di un repertorio, ma piuttosto di una tecnica. L’hollers come stile vocale possedeva componenti specifiche: un messaggio che poteva essere doloroso o terrificante, insieme a un suono che fosse in grado di proiettare in maniere formidabili e la cui sorgente non poteva essere individuata visivamente. Inoltre, al fine di ottenere la massima proiezione, l’holler faceva uso di un ambiente sonoro caratterizzato da ampio riverbero (i campi, i boschi, le valli, le notti in quiete ecc). Questa tecnica non veniva solo utilizzata da chi lavorava nei campi di cotone, bensì anche da chi svolgeva altre mansioni, o lavorava in campi diversi come nelle piantagioni del riso e dello zucchero. Benché non ci siano registrazioni tangibili di questo fenomeno, una prima descrizione di questo fenomeno risale al 1853, e alcuni espedienti delle prime registrazioni di blues arcaico eseguite negli anni ‘30, riportano al fenomeno dei field hollers. Altri antenati del blues vanno cercati fra le work song degli schiavi di lavoro, oltre (da come abbiamo visto) dai field hollers: da questi il blues ereditò probabilmente la struttura di call and response. Il genere musicale detto blues è una forma di musica vocale e strumentale la cui forma è caratterizzata da una struttura ripetitiva di dodici battute (che come vedremo si sono solo affermate nel tempo) e dall’uso delle cosiddette blue note, un intervallo di quinta diminuita che l’armonia classica considera dissonante e che soprattutto in Italia valse il nomignolo di “musica stonata”. Non solo la quindi diminuita, ma anche la terza minore, infatti, una classica successione di scala blues ha la seguente costruzione di C – Eb – F – F# - G – Bb – C. È la forma di musica popolare più registrata al mondo e che a partire dagli anni 1960 fu uno dei fattori di influenza della musica pop. “Blues” nasce dall’espressione “to have the blue devils” (avere i diavoli blu), col significato di essere triste, agitato, depresso. L’espressione, che risale al XVII° secolo, si riferiva in origine allo stato allucinatorio che segue alle crisi di astinenza da alcool, infatti “blue” era un sinonimo gergale di “ubriaco”. Dopo la guerra di secessione, le espressioni “to be blues/to have the blues” vennero ad indicare uno stato di sofferenza o di malinconia, distaccato dall’originaria associazione con l’ubriachezza. A questo punto i due significati (extramusicale e musicale) si fusero, e divenne comune dire che il musicista blues suonava o cantava per “liberarsi del blues”. Non è possibile stabilire con esattezza una data che segni l’origine del genere, tuttavia un anno fondamentale fu il 1865, anno dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America: ottenuta la libertà molti schiavi iniziarono a portare la loro musica fuori dalle piantagioni. L’etnomusicologo Gerhard Kubik, è stato forse il primo ad attribuire certi elementi del blues alla musica islamica affermando che “gli strumenti a corda erano generalmente tollerati dai padroni che li consideravano simili agli strumenti europei come il violino”. Nelle forme più arcaiche di blues non c’è un giro armonico, ma un solo accordo, su cui il cantante può dispiegare liberamente la sua storia ritmata, come in “Mississippi Bo Weavil Blues” di Charley Patton. Quindi si può dire che era la parola a dettare una forma musicale. I temi blues conservano la struttura a tre versi della strofa vocale del blues contadino, e un esempio è “In Cross Road Blues” di Robert Johnson e la sua chitarra, gioco di botta e risposta tra il suo canto e la sua chitarra. Invece in “In Rambling on My Mind”, Johnson ignora la quadratura nel primo ritornello. Nel blues urbano degli anni Dieci e Venti cantante e strumentista diventano figure distinte, come nel duetto tra Bassie Smith e il trombone Joe Williams in “Me and My Gin” (1928). Bassie è considerata la più grande tra le cantanti del blues classico. Gli aspetti più emotivi del blues erano temperati nella sua musica
dall’umorismo e dall’uso di allusioni sessuali.
“Down Hearted Blues” registrata dalla Columbia Records ebbe un successo che vendette in pochi mesi 800.000 copie, che per l’epoca era un numero clamoroso. La classica progressione armonica del blues è corrispondente ai tre versi del blues vocale: I/I/I/I (enunciato a) IV/IV/I/I (ripetizione enunciato a) V/V/I/I (verso conclusivo b) Non c’è dubbio che nel blues jazzistico strumentale la forma melodica più caratteristica sia il riff, derivante dalle brevi frasi del blues rurale: la struttura dei temi rimane di regola aab, anche se non c’è alcun testo da cantare. Una delle peculiarità strutturali del blues è il giro di 12 misure, ma fin dagli anni Venti i compositori hanno trattato il blues come la canzone, sostituendo gli accordi, alterando la fraseologia, cambiando il metro. Un esempio è “Wednesday Night Prayer Meeting” di Charles Mingus (1959) e “Footprints”, blues in minore di Wayne Shorter dall’album “Adam’s Apple” che conta 24 battute in ¾ e che presenta una struttura armonica innovativa, infatti nelle ultime 8 battute si osserva una progressione di F#-b5 / F7#11 / E7alt / A7alt / e le ultime 4 battute in C-11. Il cosiddetto “blues parkeriano” adoperato dal celebre sassofonista Charlie Parker, che presenta numerosi artifici armonici. Una delle più famose è “Blues for Alice”: F6 / E-7 A7 / D-7 G7 / C-7 F7 / Bb6 / Bb-7 Eb7 / F6 / Ab-7 Db7 / G-7 / C7 / F7 D7 / G-7 C7 / Il blues di 16 misure ha conosciuto una più ampia diffusione a partire dai primi anni Sessanta. L’esempio più celebre è “Watermalon Man” di Herbie Hancock (1962), un blues classico nel quale però le ultime quattro battute sono ripetute due volte. Forse l’esploratore più rigoroso delle forme irregolari del blues è stato Horace Silver. Un esempio è nel suo “The Baghdad Blues”, (1959): Dopo l’elaborata introduzione, il chorus raggruppa due giri di blues in minore, uno di 14 e uno di 18 misure, per un totale di 32. Le quattro battute di pedale, richiamano il motivo “a” dell’introduzione. Quindi il brano presenta una struttura di: - “a” prime 8 battute (0:00); - “vamp” di 2 battute (0:08); - “b” altre 8 battute (0:11); - “break” di 4 battute (0:18); - “tema e assolo” sono 14 (0:22) + 18 (0:37) - “coda” di 8 battute, che riprende la frase del tema dal carattere orientaleggiante, per poi bloccarla in un ostinato. (4:36) Forse uno dei temi più eseguiti è “Stolen Moment”di Oliver Nelson (1961), un blues di 16 misure in tonalità minore: la fraseologia tradizionale arriva a batt.9 (0.27) creando una nuova arcata melodica, accompagnata da armonie modulanti. In conclusione, il blues è il cuore del sound del jazz, e anche la vicenda del free jazz di Ornette Coleman è intrisa di blues, così come il suono di Albert Ayler vicino alle distorsioni chitarristiche di Johnson, e Archie Shepp che nel 1968 registra “Damn if I Know”, uno dei blues più profondi ed intensi di tutti gli anni Sessanta.