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Forme e modi della violenza: "Pietà e paura.

Il tragico problema della catarsi"


Primo intervento

Aristotele, nacque nel 384 circa e morì nel 322 a. C. La sua produzione fu immensa; pensiamo alla
Metafisica e alla Fisica.
Ma Aristotele ha scritto il primo trattato di Filosofia dell’Arte: la Poetica. La Poetica è un’opera
esoterica scritta una decina di anni prima di morire. Che Vuol dire esoterica? Non ha un’accezione
“esoterica” modernamente intesa; la “segretezza” riguarda solamente la natura di divulgazione; erano
lezioni tenute nel Liceo e non dovevano essere “portate fuori”.
La Poetica, in generale, è un’opera fondamentale per tre motivi:
1. È il primo trattato di Filosofia dell’Arte.
2. È un'opera importante per quanto riguarda la storia del teatro e sui poeti. Solo nella Poetica
infatti troviamo citazione di opere di autori tragici che, se non ci fosse stata la Poetica, non
avremmo mai avuto modo di leggere.
3. È l’opera che ha “partorito” il senso moderno della parola più importante dell’opera: Catarsi.

La Poetica è “famosa” per due motivi:

1. Catarsi, come abbiamo detto.


2. Il secondo Libro della Poetica di Aristotele che noi non abbiamo e che doveva parlare della
Commedia. Questo secondo libro il misterioso libro oggetto di ricerca dei due protagonisti de
Il Nome della Rosa (di Umberto Eco, pubblicato 1980 dalla Bompiani).

Orbene, fuori finzione, donde è venuta questa storia, leggenda, del “Secondo Libro” della Poetica,
che doveva parlare della Commedia? Probabilmente da una lettera spedita alla fine dell’ottavo secolo
tra un certo tizio di nome Timoteo e un suo amico Sergio al quale chiedeva: “Potresti inviarci il
secondo libro sui poeti, perché noi ne abbiamo uno solo”. Uno potrebbe dire: “Ma noi lo abbiamo,
anche se in frammenti, un libro Sui Poeti. Non è che ha fatto confusione?”.
Forse no per motivi troppo complicati: basti dire che il disguido sia nato dal modo di “citare” le opere
di Aristotele da parte del mondo arabo. Esempio: Aristotele ha scritto un’opera: la Politica.
Utilizzando il nostro esempio è come se avesse chiesto: “Ci potresti inviare il libro sui politici?”.

Perché a noi piacerebbe avere il secondo libro della Poetica? Perché ci avrebbe aiutato a capire la
catarsi tragica. Ovvero, se avessimo avuto il secondo libro in cui si parlava del corrispettivo comico
forse avremmo avuto modo di capire la catarsi della tragedia. Perché questo? Perché la definizione di
catarsi primo non è solo non tanto chiara (e “razionalizzante) ma per di più data di sfuggita. Questa
mio intervento ha cercato di mettere in luce questo fatto: che se parliamo della violenza, della catarsi
della tragedia greca tutto è dovuto un fatto che non va dimenticato: che se nella modernità affrontiamo
temi immortali è grazie alle opere che ci sono state tramandate dell’antichità.

17 Febbraio 2021
F. Sieni
Forme e modi della violenza: "Pietà e paura. Il tragico problema della catarsi"
Secondo intervento

Ringrazio Francesco per questa dettagliata esposizione filologica, che ci permette di calarci subito in
medias res. Se dunque vogliamo arrivare a dare una definizione di cosa sia la catarsi, è bene prendere
in esame cosa ne dica nello specifico Aristotele; e per fare ciò dobbiamo rileggere con attenzione il
nucleo di tutta la Poetica, ovvero la definizione di cosa sia la tragedia.

La tragedia, per Aristotele, è imitazione di atti più o meno violenti (non comici), che vengono
rappresentati (ossia ri-presentati, modificati per essere messi in scena, filtrati attraverso l'occhio dello
scrittore); dunque in essa la violenza viene modificata, e la tragedia la rende sopportabile, le da nuova
dignità nella rappresentazione. La tragedia è viva, e con essa la violenza, che viene incanalata
nell'opera, e dunque nel teatro, che è l'unico luogo in cui la tragedia è tale.

Giungiamo ora alla questione centrale, ossia cosa sia la catarsi tragica. Si è detto che la tragedia è (a)
sempre esteticamente significativa e (b) sempre e solo rappresentata. Ora, per procedere dobbiamo
evidenziare due elementi di fondo, ossia (1) cosa significhi di per sé il termine catarsi e (2) cosa
c'entrino la pietà e la paura.
Per quanto riguarda (1), il termine greco è relativamente raro, e si limita essenzialmente a tre ambiti:
1. quello medico, in uso nella scuola ippocratica, che riguarda ogni processo corporeo che
“purifichi” il fisico dalle scorie, come purghe, mestruazioni, diuresi e via dicendo), da cui
derivano gli altri due;
2. quello, per così dire, “religioso”, che riguarda la purificazione dell'anima dal corpo;
3. quello aristotelico, che è riferito all'azione estetica della tragedia (Poetica).
Per quanto invece concerne (2), la teoria aristotelica è essenzialmente questa: la vista di un'azione
tragica commuove, letteralmente “muove insieme”, lo spettatore, e lo stimola attraverso le passioni di
pietà e paura a compiere la catarsi.
L'esposizione aristotelica, però, a questo punto risulta semplicistica. In che modo, possiamo chiederci,
la pietà e la paura muovono le passioni dello spettatore? E soprattutto, che ruolo ha lo spettatore in
questo processo?

Proviamo a dare una risposta, basata su quanto abbiamo detto finora. Lo spettatore ha un ruolo
ambivalente; è vero che subisce l'azione tragica, o meglio ne coglie il lato estetico, ma è altrettanto
vero che solo il suo sguardo rende “viva” la tragedia, solo il suo essere nel teatro fa sì che il rituale
tragico possa avvenire. Ecco spiegato il perché abbiamo due passioni differenti: da un lato abbiamo
la pietà, che è – per così dire – una passione “a distanza”, che richiede di essere esterni all'azione,
mentre dall'altro abbiamo la paura, che invece è implicitamente legata ad un'interiorità del soggetto
patente nell'azione [o anche l'empatia verso il soggetto patente]. In generale, comunque, il principio
di base è sempre lo stesso; lo spettatore soffre. E di questa sofferenza erano consci i tragediografi, che
rendono questo legame esplicito nelle opere; un esempio di questo è l'Agamennone di Eschilo.

[momento letterario: pathe mathon]

A questo punto però sorge una domanda: che statuto ha l'attore tragico? Anch'esso ha un ruolo
ambiguo: se da un lato abbiamo che è sicuramente attivo, in quanto il personaggio tragico è vivo solo
grazie al suo recitare, è anche vero che l'attore è passivo, in quanto subisce l'azione del personaggio
tragico. Dunque, l'attore è spettatore della maschera tragica: il personaggio che egli porta in vita poi
diventa distinto dall'attore, vive di vita propria.

Cosa ne possiamo dedurre? Che è l'intera collettività che è spettatore, è l'intera collettività del teatro
(spettatore, attore, coro) che subisce l'effetto estetico e porta avanti il rituale tragico. E', però, anche
la collettività che impone a se stessa il rituale tragico, come se fosse l'imperativo di un Dio; recepisce
il tragico come esterno da sé. Rituale del Dio, che non a caso troviamo in un'altra tragedia, ovvero le
Baccanti di Euripide.

Allora, la catarsi che fine fa? Chi è che sperimenta la catarsi delle proprie passioni? Per quanto detto
finora, non può essere il singolo spettatore, oppure l'insieme dei singoli spettatori. E' l'intera
collettività, l'intera società ateniese raccolta nel teatro che viene, per un secondo, liberata dalle
passioni, dalle tensioni, dagli attriti interni a sé. Ecco dunque il significato profondo della tragedia:
attraverso la rappresentazione della violenza, attraverso l'interpretazione dell'atto tragico, la violenza
interna al mondo greco viene evocata con tutta la sua forza, ed incanalata nell'arte. La tragedia porta
lo spettatore a mettere da parte la propria individualità, a smettere la corazza sociale di cui si riveste
ogni giorno. Ogni individuo si lascia trasportare irrazionalmente dall'azione tragica, perché vi avverte
tutta la violenza da cui è circondato, i pericoli che potrebbe dover affrontare (in particolare, la morte
violenta e il destino incombente) – da cui la paura – e la comunità della condizione precaria che
intrattiene con i protagonisti – da cui la pietà. In sintesi, vi vede se stesso; e in questo vedere se stesso
si lascia rifluire nel rituale collettivo, si annulla nella collettività culturale a cui sente ora
visceralmente di appartenere, entro cui si sente tanto sicuro da poter lasciar scorrere il flusso della
violenza.

Ecco dunque dove si cela l'errore di base di Aristotele: non riuscire ad ammettere il lato collettivo ed
irrazionale insito nella tragedia. In questo, Aristotele commette lo stesso errore che, nel ciclo mitico
di Dioniso, commette Penteo: laddove Tiresia e Cadmo accettano di smettere la corazza
dell'individualità, e per questo possono assistere indenni ai riti delle baccanti, Penteo – che non
rinuncia a questa individualità – viene scoperto e dilaniato. Allo stesso modo, Aristotele non vuole
rinunciare ad una spiegazione strettamente unilaterale e razionale della catarsi tragica; ma al
contempo rifiuta il carattere più profondo del mondo greco, ossia l'irrazionale, l'ambiguo.

Quindi, in conclusione, per comprendere la dimensione estetica della tragedia non dobbiamo opporci
ad essa, e considerarla alla luce di elaborazioni mentali o intellettuali; adesso anche noi dobbiamo
annullarci, ed immaginare di sederci nel grande teatro di Dioniso, ad osservare il grande mistero
dell'uomo, ossia noi stessi. Ecco, infine, la definizione più profonda che possiamo dare di cosa sia la
catarsi tragica: lo specchio di Dioniso, come viene affermato da Plotino.

17-03-2021
M. Cherubini

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