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Il basso elettrico e il linguaggio del jazz

di
Maurizio Franco

Il basso elettrico é entrato stabilmente negli organici jazz soltanto a partire dagli anni ’70, cioè
dall’affermazione del jazz rock, uno stile in grado di esaltare le caratteristiche di uno strumento che
ha avuto una storia controversa. La sua accettazione, da parte di critica ed appassionati, non è stata
infatti unanime, soprattutto nel periodo in cui infuriava la polemica tra chi sosteneva il jazz acustico
e coloro che guardavano alla dimensione “elettrica”, all’incontro con il pop, come ad un ulteriore ed
imprescindibile passo stilistico. Oggi queste distinzioni sembrano il retaggio di epoche lontane,
anche se la diffidenza verso lo strumento non è comunque totalmente scomparsa. Il punto centrale
della questione non è però il dualismo tra l’opportunità o meno del suo utilizzo in ambito jazzistico,
bensì in quali contesti questo strumento, relativamente giovane sul piano jazzistico, può meglio
sviluppare le proprie qualità espressive. E non si tratta soltanto di un problema di figurazioni

ritmiche, ma anche di suono, di rapporto timbrico all’interno di un organico preciso, della relazione
con la batteria. Chiaramente, la ricchezza di espressione e la profondità sonora del contrabbasso
erano più congeniali alle dinamiche jazzistiche degli anni ’50 e ’60 rispetto alle caratteristiche del
basso elettrico, e questo perché le qualità dello strumento acustico si armonizzavano meglio con le
sonorità dei piatti e le complesse articolazioni ritmiche della batteria, sposandosi con il sound dei
fiati, dando spessore e facendo da collante alla musica, tra l’altro in un periodo nel quale il
contrabbasso stava sviluppando la propria dimensione anche in ambito solistico. Il basso elettrico è
stato però determinante nel passaggio a dinamiche più rock, perché poteva marcare con maggiore
percussività il ritmo, incastrandosi in un sound potente come quello realizzato dalla batteria nel suo
incontro con il funk e con le ritmiche da questo derivate. Ma lo strumento ha anche saputo adattarsi,
nel corso del tempo, a situazioni più sfumate ed astratte, trovando una sua peculiare dimensione
melodica grazie alla quale ha modificato, ampliandole, le sue connotazioni espressive. Del resto, la
sua storia non é lunghissima ed anche se, come quasi sempre è avvenuto nell’ambito degli strumenti
elettrici, ha avuto nei jazzisti dei formidabili sperimentatori, esso non è nato pensando al jazz. La
destinazione iniziale era il Rhythm and Blues, dove il suo compito era quello di marcare le note
basse fondamentali, e la sua data di nascita è il 1951. In quell’anno, dopo il fallimento di ripetuti
prototipi, Leo Fender immette sul mercato il Precision Bass, diventato nel tempo sinonimo di basso

elettrico. Lo scopo era quello di permettere ai bassisti di Rhythm and Blues di contrastare il volume
sonoro della chitarra elettrica, che sovrastava il suono del contrabbasso acustico, ed anche di
realizzare uno strumento di facile trasportabilità, con la foggia della chitarra ed il numero di corde
del contrabbasso ma, contrariamente a quest’ultimo, con i tasti che dividono le varie note. Nel jazz
lo introdusse Monk Montgomery, fratello del celebre chitarrista Wes, che lo utilizzava
nell’orchestra di Lionel Hampton diventando, nel 1953, il primo jazzista ad aver inciso con il basso
elettrico. Anzi, per molti anni è rimasto l’unico, autentico specialista dello strumento nel mondo del
jazz, dove invece venne guardato per anni con diffidenza dalla maggior parte dei musicisti, mentre
dilagava in ambito Soul, Rhythm and Blues e Rock and Roll. Il suo ingresso nel jazz, dopo la fase
pionieristica, avvenne, come scrivevamo, nel periodo dell’incontro di questa musica con il rock,
quando alcuni contrabbassisti cominciarono a suonarlo: tra i primi ci furono l’inglese Dave
Holland, il cecoslovacco Miroslav Vitous e Steve Swallow, che è stato l’unico tra loro ad
abbandonare definitivamente lo strumento acustico per dedicarsi esclusivamente a quello elettrico.
Un altro musicista giunto dal contrabbasso e diventato un modello per l’agilità del fraseggio è stato
Stanley Clarke, colonna dei Return To Forever di Chick Corea e tra i primi autentici virtuosi dello
strumento, mentre dopo questa prima fase di sviluppo comparve sulla scena un artista
rivoluzionario, coetaneo di Clarke, che cambierà la storia dello strumento non solo dal punto di
vista artistico: Jaco Pastorius. E’ lui che toglie i tasti creando il freetless, che conferisce maggiori
possibilità espressive soprattutto dal punto di vista delle sfumature timbriche e melodiche, ed infine
sviluppa una nuova tecnica per la mano destra. L’agilità del suo fraseggio è tuttora un punto di
arrivo per ogni strumentista, così come la cantabilità melodica del suo linguaggio, la completezza
dal punto di vista ritmico, l’originale applicazione dell’armonia, l’assoluta conoscenza del jazz e di
altri mondi sonori, che lo collocano al vertice del basso elettrico nel jazz e, in senso più ampio,
fanno di lui uno dei musicisti più creativi e originali degli ultimi decenni, un autentico maestro e
caposcuola che ha trovato negli Weather Report di Joe Zawinul e Wayne Shorter un terreno ideale
per potersi esprimere. La storia dello strumento si dirama poi in diverse direzioni, che tengono
conto anche delle nuove tecnologie quali pedali wa-wa, delay, riverberi ed effetti vari, mentre le
tecniche della mano destra alternano plettro, pizzicato ed un adattamento dello slap tipico del
bassismo degli anni ’20 e primi anni ’30 ed in grado di conferire una decisa percussività alla
musica. La linea più legata al rock trova dei personaggi di rilievo in Marcus Miller, che suona con
Miles Davis apportando una dimensione decisamente funky alla musica del trombettista, poi Darryl
Jones, Michael Henderson, Alphonso Johnson, Jack Bruce, Jonas Hellborg, Anthony Jackson.
Un percorso che giunge sino ai grandi virtuosi contemporanei, come Victor Bailey, e ad una serie
di artisti attivi in svariati contesti, quali Kevin Harris, Mark Egan, Jeff Berlin. Sul piano
melodico, il basso elettrico trova la sua figura di riferimento nel citato Steve Swallow, che suona
una versione a cinque corde dello strumento con la quale si esprime in contesti aperti e prettamente

jazzistici, spesso sottilmente impressionisti, senza lasciar cadere anche la spinta, il drive ritmico. Il
suo è un modo di suonare di grande poesia e raffinatezza, che ha indicato una strada diversa
nell’uso dello strumento. Senso melodico che emerge, seppure in un fraseggio più astratto, nello
stile di Jamaaladeen Tacuma, per anni membro del Prime Time di Ornette Coleman. Astrazione
che ritroviamo anche nel mondo sonoro dell’europeo Eberhard Weber, specialista di uno
strumento a cinque corde di sua costruzione, l’electrobass. Tra i grandi melodisti, capaci di far
cantare lo strumento come una chitarra, troviamo Stefano Cerri, che utilizzava anche un particolare
tipo di basso chiamato stick. Restando in Italia, occorre segnalare almeno due bassisti elettrici dalla
competenza globale e sovrastilistica quali Mino Fabiano e Dario Deidda. Infine, come già
evidenziato, bisogna rilevare che molti contrabbassisti suonano anche il basso elettrico con grande
competenza, e tra loro ricordiamo almeni i nomi di Ron Carter, Bob Cranshaw (che ormai ha
quasi del tutto lasciato il contrabbasso), Charnett Moffett, Christian McBride e John Patitucci,
autentico virtuoso sia nella dimensione elettrica che in quella acustica. In sostanza, la storia del
basso elettrico trova soprattutto nel jazz più recente un contesto espressivo in grado di valorizzarne
le possibilità, svincolandolo da un ruolo puramente subordinato e di servizio.

Maurizio Franco

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