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I
l basso elettrico è uno strumento ormai perfettamente inserito nell’immaginario
collettivo. Onnipresente pressoché in ogni formazione musicale d’ogni genere.
Rimane tuttavia uno degli strumenti più giovani, e sia per quanto riguarda le
specifiche costruttive , che per quanto riguarda il timbro, la suonabilità, e soprattutto
il suo ruolo all’interno dei combo, ha una storia ancora in costante divenire.
Da dove spunti fuori il basso elettrico è uno dei quesiti ancora aperti nel mondo della
storiografia legata agli strumenti musicali. Esso infatti presenta caratteristiche in
comune con strumenti cordofoni differenti: Il contrabbasso e il liuto.
Esaminiamo dunque i tratti caratteristici che il basso ha in comune con questi due
strumenti.
Il contrabbasso
Questo magnifico strumento nasce nel XVI sec. e si diffonde rapidamente in tutta
Europa. In origine esso veniva utilizzato per doppiare all’ottava bassa le parti
eseguite dalla viola da gamba. Il contrabbasso infatti legge in chiave di basso ed è
comunque uno strumento traspositore, poiché il suono reale della nota è
un’ottavasotto quella graficamente segnata.Originariamente lo strumento nasce a
tastiera cieca e con tre corde (in Italia) di budello, accordate per quarte giuste,
mentre nelle regioni tedesche esso si presenta per lo più a quattro corde, è aggiunto
un Mi1 grave come quarta corda. Poiché la letteratura musicale, sopratutto dal
Romanticismo in poi, richiede al contrabbasso di raggiungere registri musicali
sempre più gravi, il contrabbasso stabilizza la sua forma tradizionale con quattro
corde, fintantochè si dovrà aggiungere in alcuni contesti anche una quinta corda che
può essere accordata come un Do1 o un Si0. In alcuni modelli di contrabbasso è
presente invece un’ estensione della tastiera nella parte del Mi basso, in cui è
possibile suonare, azionate da un meccanismo particolare dotato di pulsantiera, le
note Re1 e Do1, questo per ovviare alla necessità di costruire uno strumento dotato
di cinque corde, che presenta oltre ai
vantaggi di avere una corda in più, una serie di difficoltà costruttive e chiaramente
costringe ad un compromesso per quanto riguarda la suonabilità, presentandosi ben
più goffo del fratello, e l’intonazione, poiché in un registro così grave (30 Hz del Si0)
è difficile stabilire l’esatto Pitch di una nota, tenendo conto che la soglia di udibilità
minima dell’orecchio umano ruota attorno ai 16 Hz.
Questa parentesi storica sulle caratteristiche del contrabbasso è utile per poter
apprezzare tutte le affinità tra i due strumenti, e anche per coglierne le differenze.
Caratteristiche comuni:
-4 corde o più
-accordatura
-registro
-funzione all’interno dell’organico
Caratteristiche comuni:
-accordatura per quarte (nella regione grave, negli ordini superiori il liuto utilizza,
come la chitarra, le terze maggiori)
-posizione d’esecuzione orizzontale
-utilizzo di una tastiera “fretted”
-utilizzo prevalente della tecnica del “pizzicato” attraverso dita o plettro
Come il Basso elettrico, anche la chitarra vede la sua genesi legata alla storia di
strumenti ben più antichi. Anche essa infatti nasce nel mondo arabo: sono presenti
suoi antenati nel mondo egizio (3500 a.c. tomba di Har-Mose-Sen-Mut) che a loro
volta sono stati ispirati dall’impero Persiano e così via, fino a giungere al medioevo,
dove la chitarra si presenta con tantissime caratteristiche in comune con il liuto. nel
XIX sec. diventa di grande successo in Spagna e in Italia, per la precisione a Napoli,
dove raggiunge per la prima volta la sua forma moderna (liutai Vinaccia), anche se si
deve al liutaio spagnolo Antonio de Torres, il merito di averne standardizzato più o
meno definitivamente le forme e le tecniche di incatenazione della cassa armonica.
Sopravvissuti al gioco degli anni e radicati nella cultura di massa sono soprattutto le
percussioni nella forma più dinamica della batteria, il contrabbasso per il suo ruolo di
accompagnamento ritmico e monodico, il pianoforte per la ricchezza di possibilità
che offre in tutte le parti, la chitarra per l’accompagnamento al canto, le parti
solistiche, e non in ultimo il peso e ingombro, e gli strumenti a fiato, tra i più giovani
nati dell’industria musicale.
Queste famiglie di strumenti così diverse fra loro, per tutto il XX sec. comporranno la
base per ogni ensamble o orchestra, da due strumenti alle decine, poiché nel corso
degli anni sono risultati essere i più efficienti.
Tuttavia essi possiedono caratteristiche estremamente differenti fra loro, non in
ultimo la pressione sonora capace di generare. In altre parole il volume.
Proprio questo fattore legato all’intensità del suono, catturò l’attenzione dei
costruttori di strumenti musicali.
Poiché è innegabile che gli strumenti a fiati abbiano una proiezione incredibilmente
più ampia di quelli a corda, così come il pianoforte e le percussioni, bisognava
escogitare espedienti che rendessero il contrabbasso, la chitarra e la voce
percepibili chiaramente all’interno di un organico.
La smisurata crescita industriale che aveva accompagnato tutto il XIX, fece si che gli
USA,che avevano investito pesantemente in questo campo rispetto ai paesi
europei,si trovassero a ricoprire una posizione egemone per quanto riguarda
l’aspetto economico e lo sviluppo di nuove tecnologie.
Non è un caso che per la prima volta nella storia le principali innovazioni costruttive
che riguardarono gli strumenti musicali nei primi decenni del XX sec. avvenissero
proprio lì.
Dagli anni ’20 del 1900, cioè quando la corrente elettrica incominciò a divenire di
pubblico utilizzo, si aprì uno scenario completamente nuovo: quello delle macchine
elettriche prima, e quello degli strumenti musicali elettrici dopo.
Con la scoperta della valvola termoionica (nata nel 1904) capace di tramutare
fenomeni ondulatori in segnali elettrici, fu possibile convertire, attraverso microfoni, il
suono in segnali elettrici che venivano poi amplificati attraverso un cono.
Questa fu la scintilla che portò alla nascita della radio, del cinema e della televisione
e in generale di quella che sarebbe divenuta la società dei mass-media.
In quegli anni di fervore l’attenzione si focalizzò verso il contrabbasso e ciò che esso
significava e comportava all’interno di un organico. Come la chitarra esso non era in
grado di reggere l’impatto sonoro di altri strumenti, oltre ad avere lo svantaggio di
una grande mole e di una difficoltà nell’intonazione. Fu così che molti costruttori
cercarono di ovviare a queste problematiche immaginando una veste differente per
lo strumento d’ensemble più grave.
Molto interessanti sono i primi esperimenti d’introduzione nel mercato di modelli
antesignani del moderno basso elettrico. Tra cui spicca il
Negli anni ’20 un liutaio Slovacco John Dopyera e un uomo di spettacolo George
Beauchamp, emigrati in America, si dedicarono allo sviluppo di nuove tecnologie
legate agli strumenti musicali, e in particolare cercarono di ovviare al problema del
volume degli strumenti a corda. Essi grazie alla loro intuizione di introdurre dei coni
d’alluminio all’interno della cassa di risonanza dello strumento, crearono la Dobro, o
chitarra resofonica, che ebbe negli anni, soprattutto per il timbro (più che per il
volume), una grandissima fortuna. Ugualmente cercarono di progettare anche una
chitarra-basso; ma come il mando-bass questa non era altro che una chitarra di
dimensioni spropositate, suonabile verticalmente o reclinata in diagonale mediante
l’apposito puntale.
Inutile dire che anche questo esperimento trovò pochissimo consenso fra i bassisti,
ma se non altro ci mostra come ci si avvicinasse alle intuizioni che portarono alla
nascita del basso moderno.
Ovviamente siamo ancora nella sfera degli strumenti acustici, dunque in mancanza
di elettricità ancora non ci avviciniamo alla risoluzione del problema.
La società di primo Novecento ancora traballa tra un mondo antico e uno nuovo che
avanza ad un ritmo mai visto prima. La sollecitazione esterna, la pubblicità e le
grandi guerre portano sconvolgimento, paura e trepidazione verso un futuro che si
prospetta nuovo e inimmaginabile fino a pochi anni prima. Attraverso i nuovi mezzi di
comunicazione è possibile diffondere notizie, slogan e soprattutto musica.
Con le prime registrazioni degli anni ’10 si consacra il jazz al grande pubblico. Esso
diviene la musica delle prime decadi del XX sec. Uno stile influenzato dalla società
sempre più rumorosa delle macchine, dei clacson e delle mitragliette.
e il repertorio di brani swing dal carattere infuocato e vulcanico incita la gente al ballo
sfrenato e al divertimento. L’epoca dei volumi acustici volge al tramonto, è
necessario che le nuove tecnologie adeguino gli strumenti verso questo nuovo
orizzonte.
Questo strumento è avveniristico per l’epoca. Presenta la totale assenza del body e
della cassa tipici del contrabbasso. Rimane solamente la tastiera montata su un
supporto e le corde di budello, alla cui estremità, in corrispondenza del pick up, è
montato un rivestimento di metallo, in maniera che il microfono riesca a captarne la
vibrazione.
Il segnale catturato dal noto pick-up “horseshoe” viene tramutato in segnali elettrici
che vanno all’ amplificatore, su cui è montato lo strumento.
Questo ampli è il primo conosciuto per basso, ed ancora risentiva di tutte le
problematiche del tempo per quanto riguarda la riproduzione di frequenze gravi, che
tendevano ad andare in saturazione piuttosto presto, benché l’assenza del body
escludesse tutti i problemi di feedback e larsen.
Nel 1938 anche la Gibson (che ormai non produceva più mandolini) si adeguò ai
tempi e brevettò il primo pick-up, detto “bar”, poiché costituito da una singola barra
avvolta nel rame, che venne installato su una chitarra dalla forma spagnoleggiante,
la S-150. Un modello che fece la storia poiché venne scelto da un giovane Charlie
Christian, astro nascente del Bop newyorkese, che ne fece la prima icona della
storia degli strumenti amplificati.
Parallelamente allo sviluppo di questo modello di chitarra, arrivò il lancio del primo
basso Gibson. Come i suoi precursori, anche questo strumento venne a configurarsi
a metà tra un contrabbasso e un basso, poiché era nato per essere suonato in
verticale, ma presenta i fret e risulta suonabile anche in orizzontale.
Giungiamo così quasi al culmine della nostra ricerca attraverso la storia. Avendo
indagato un po’ tutte le correnti costruttive che si sono succedute nei primi trent’anni
del XX sec. Ora rimane da aggiungere al puzzle un ultimo tassello di fondamentale
importanza: l’amplificatore per basso e la risoluzione delle sue problematiche.
Nel 1946 Stanley Micheals e Everett Hull, pianista e contrabbassista, fondarono un
azienda il cui scopo era sviluppare un pick-up per contrabbasso e un efficace
metodo di amplificazione per lo strumento. Proprio in quell’anno sperimentarono un
innovativo pick-up che si collocava direttamente lungo il puntale dello strumento
e che prese il nome di Amplified Peg, che venne abbreviato successivamente in
“Ampeg”. Nasceva così la celebre casa di amplificatori per basso che ebbe poi tanta
fortuna. Il loro brevetto venne convogliato in un’avveniristico amplificatore, la cui
tecnologia aumentando il limite di potenza delle valvole finali, riusciva sia ad
eliminare l’eccessiva saturazione del segnale, che ad ottenere un timbro rotondo e
caldo, che negli anni è rimasto il tipico del sound della casa.
Il “Precision Bass”, che prende il nome dalla presenza dei frets sulla tastiera, che si
suppone risolvano definitivamente le problematiche legate all’intonazione delle note
sul contrabbasso.
Non è perfettamente comprensibile cosa abbia creato Leo Fender finché non si
guarda a quest’evento con un approccio storicistico. La creazione del basso elettrico
probabilmente significò più per la musica di quanto non fosse stato con la chitarra
elettrica. Questo perché il basso è uno strumento completamente differente, che in
questa veste ha molte più similitudini con una chitarra che con un contrabbasso.
Ecco dunque il presupposto che abbatte le profonde differenze di ruolo tra
contrabbassisti e chitarristi.
-manico: può essere avvitato (bolt-on) come il primo basso raffigurato oppure
incollato al body (neck-thru) come il secondo. Questi due criteri costruttivi sono molto
incisivi sul costo di realizzazione , poiché la costruzione secondo il primo metodo
rende possibile lavorare in modo più rapido e perché attraverso l’avvitamento delle
due parti tra loro si semplificano le problematiche relative alla precisione della
lavorazione, mentre nel secondo caso è essenziale che manico e corpo diventino un
tutt’uno durante la lavorazione, il che rendo proprio questa realizzazione più lunga e
delicata. Queste differenze Sono incisive anche sull’aspetto timbrico, poiché un
basso avvitato, dimezza il diapason di vibrazione dello strumento e ne velocizza
l’attacco, mentre un manico incollato ne aumenta le vibrazioni, ma rallenta l’attacco.
img.1
-pick up: i pick-up, ovvero i trasduttori che percepiscono il vibrare della corde e lo
tramutano in segnale elettrico, possono essere di differenti tipi. Originariamente
erano singoli magneti “single coil”, ma già il modello di Precision del ’53 adottò lo
“split coil”, il celebre pick up diviso in due che ancora oggi è in utilizzo.
Successivamente nacquero gli “humbuckers” che utilizzando due magneti posti in
opposizione di fase, cancellavano quel rumore di ronza (detto “hum” appunto) e
rendevano il segnale più rotondo e smussato. In bassi come quello raffigurato
nell’img.2, prevedono che i pick-up siano “splittabili”, ovvero ciascuno dei magneti è
separabile dall’altro, il che rende molto più ampia la varietà timbrica
img.2
Il basso elettrico ha segnato una svolta epocale nello sviluppo del gusto musicale
della seconda metà del ‘900, traghettando le sonorità liriche e avvolgenti del
contrabbasso verso una nuova definizione e potenza. Il nuovo suono del basso
ormai così presente, si amalgamava perfettamente in ensemble sempre più
rumorosi, che proponevano una musica veloce e che richiedevano una diversa
pulsazione ritmico-melodica.
“Bootsy” Collins, uno dei pionieri del basso funk, ci mostra come questo linguaggio si
basi sulla ripetizione di riff, che negli anni sono diventati sempre più complessi e
agili, che scandiscono lo spazio armonico, spesso ridotto a pochi accordi che
variano nel bridge, qualora ci sia. l riff prendono ispirazione dal blues, lo possiamo
intuire dal lirismo e dall’ utilizzo di scale pentatoniche, maggiori e minori, che
eliminano le tensioni della scala per preferire un linguaggio semplice in cui risaltano i
chord tones degli accordi. Ma è soprattutto l’aspetto ritmico quello in cui il basso
risalta maggiormente: i riff di basso rispettano l’uno della battuta quasi fosse un
sacramento, ma per quanto riguarda i restanti tre movimenti della battuta, in essi il
bassista gode di una relativa libertà, potendo scegliere come interpretarli
ritmicamente, oltre al gioco delle variazioni che rendono un semplice riff o “giro” di
basso, una sorpresa costante per l’ascoltatore, e oltre a fornire un supporto ritmico-
armonico, rappresenta per questi, una vera e propria voce, sempre perfettamente
distinguibile nel mix complessivo.
Questo excursus nello stile del Funk ci è utile per comprendere la via che il basso
elettrico si aprirà nel mondo del jazz. Poiché questi, essendo figlio del suo tempo,
rappresenterà uno dei motivi di maggiore crescita ed evoluzione del linguaggio
jazzistico assieme a tutti i vari strumenti elettrici, che presentandosi ricchi di novità
timbriche e di suoni innovativi, agili e maggiormente performanti, diedero ispirazione
ai musicisti per avventurarsi in territori sempre nuovi, dove la contaminazione tra i
generi divenne ricercata quando non richiesta. Segno di una società che guarda
costantemente in avanti verso l’innovazione. Una società che stimola i musicisti a
prendere sempre più spunto da altri generi e da altre culture per catturare
l’attenzione dell’ascoltatore, che grazie alla radio e alla televisione ha la possibilità di
scegliere che musica ascoltare in un bacino estremamente più vario di quello
disponibile nella prima metà del XX sec.
Quale fu, tuttavia, il primo approccio dei contrabbassisti jazz verso il basso elettrico?
Va detto che lo swing fin dalla sua origine, una volta sostituito il basso tuba, trovò nel
contrabbasso un perfetto alleato. Lo strumento infatti riusciva ad amalgamarsi
perfettamente assieme al suono dello scarno set di batteria tipico del primo
ventennio del jazz. Il fatto che l’attacco della nota fosse ben udibile e che il sustain di
questa venisse risucchiato nelle terzine suonate sul raid fece si che, come per il
funk, l’immaginario collettivo accettasse il contrabbasso come unica pulsazione
veritiera dello swing.
Tuttavia benché non abbia trovato un accettazione entusiastica da parte dei
musicisti, tant’è vero che osservando ciò che è ora il mondo del jazz, possiamo
dichiarare che il contrabbasso è sopravvissuto alla rivoluzione, mantenendo una
posizione di prestigio nell’organico dei combo. Ci furono alcuni pionieri che ebbero il
coraggio e l’audacia di sperimentare l’utilizzo del basso elettrico in contesti swing e
jazz, nel pieno del periodo bop e hard-bop.
Il primo di cui si hanno notizie che ebbe modo di registrare un disco di jazz con il
basso elettrico fu
é possibile ascoltare la prima registrazione del basso elettrico nel jazz, nelle prime
tre tracce del disco “the Art Pepper septet”, registrato nel 1953 e pubblicato nel 1956
dalla Prestige. In queste registrazioni, che rappresentano il primo lavoro solistico di
Art Pepper, si può ascoltare l’innovazione che il basso elettrico dona al sound della
ritmica, permettendo che le linee di basso risultino chiare, pulite e precise, molto più
facili da percepire. Inoltre si evince una maggiore incisività nel fraseggio bop e negli
ostinati ritmici di brani dal sapore latin come “Mau-Mau”.
Un altra perla che testimonia l’introduzione del basso nel repertorio bop è
rappresentata dall’incisione di “Un poco loco”, brano di Bud Powell, registrato nel
1957 dai Mastersounds nel disco “Jazz Showcase”
Lionel Hampton infatti fu uno dei primi fervidi promotori dell’introduzione di questo
strumento nell’organico jazzistico, e non è difficile immaginare i vantaggi che uno
strumento del genere, amplificabile e chiaramente udibile, rappresentasse per una
big band che proponeva un repertorio di canzoni dal tiro infuocato. Proprio il famoso
vibrafonista e direttore d’orchestra fu anche testimonial per la Fender.
è molto interessante l’opinione di Leonard Feather, giornalista e critico musicale per
la celebre rivista jazz Down Beat, che racconta in un intervista la prima volta che
ebbe la possibilità di ascoltare un concerto in cui al posto del contrabbasso c’era il
basso elettrico. Occasione in cui si esibiva alla Carnagie Hall proprio la Lionel
Hampton orchestra.
“When the music started at this gig, something seemed amiss: Feather heard a bass
but saw no bass player. Almost inaudible in a loud band, a bass player at least was
easy to see. Feather wrote, “On second glance we noticed something even odder.
There were two guitars—but we only Feather had stepped into the future, not
the Twilight Zone. And in a few moments what he saw and heard made sense. One
of the guitars had a longer, fretted neck, a peculiar-looking body, electric controls and
a cord running to a speaker. After the first set, the critic asked Hampton to explain.
“Sure, man,” Hampton was quoted as saying in Down Beat, “that’s our electric bass.
We’ve had it for months.”
Grazie anche a Feather che elogiò il basso elettrico in articoli apparsi sul Down Beat,
questo strumento trovò pian piano accettazione e collocazione, seppur
sporadicamente, nel mondo del jazz. Bisognerà però attendere la metà degli anni ’60
e ’70, perché il basso elettrico prenda il sopravvento nella corrente del jazz
denominata “Fusion”, che coerentemente al nome, aprì il linguaggio del bop a
sonorità derivanti dal panorama afro, latin, funk e rock.
Furono musicisti leggendari come Stanley Clarke e Jaco Pastorius ad imporsi, prima
come sideman e poi come bandleader,portando il messaggio del basso elettrico al
mondo. Innovando le sonorità e spingendo i limiti tecnici ed espressivi di questo
strumento fino a vette mai ascoltate prima.
John Francis Pastorius III (1951-1987)
Su Jaco pastorius è stato detto tutto il possibile, sia sulla vita che sull’opera artistica.
Quello che vorremo evidenziare è il naturale proseguimento di un Odissea che porta
il basso elettrico sempre più lontano, verso orizzonti che fino a vent’anni prima erano
irraggiungibili dai contrabbassisti ma anche dai primi bassisti elettrici. Questo
perché in Pastorius si sintetizzarono tantissimi elementi differenti, appartenenti al
mondo e al linguaggio del jazz come a quello del funk e del soul propri della
Southern America.
In primis il suo utilizzo del modello “fretless” (senza tasti) che fa da ponte tra i lirismo
del contrabbasso e l’agilità costruttiva del Fender Jazz. E già dai primi dischi che
Jaco ebbe la possibilità di registrare si può ascoltare un’ innovativa visione del
basso. Prendiamo ad esempio il disco “JACO” del 1974, nome non ufficiale di un EP
registrato con Pat Metheny e Paul Blay, dove già sono presenti in germe tutte le
caratteristiche più peculiari del suo modo di suonare. Se è vero che il contrabbasso
già dai primi anni sessanta è più di un semplice strumento d’accompagnamento,
basti vedere il trio di Bill Evans che per primo scardinò la rigida separazione dei ruoli
nell’organico, ora con Pastorius la storia va ripetendosi, solo che il soggetto è
cambiato, e tutto ciò che può esprimere il basso elettrico, per sua stessa
costruzione, supera anche quello che è possibile eseguire dalla maggioranza dei
contrabbassisti sul proprio strumento.
Innanzitutto il modo di suonare dentro i combo di jazz è differente; le sonorità sono
cambiate e il perenne dialogare tra tutti gli strumenti è divenuto quotidiano. Si può
sentire infatti Pastorius alternare alle linee di basso, dei riff tipici del mondo Funk.
Inoltre attraverso l’uso degli armonici, una tecnica già esistente ed eseguibile su tutti
gli strumenti a corda (anche il contrabbasso) ma spinta in avanti, proprio grazie alle
peculiarità del basso e al volume capace di raggiungere, unito alla grande
precisione, che consentiva a pastorius di suonare delle complesse melodie.
Egli utilizza inoltre i primi voicing accordali che si ricordino sul basso elettrico. Anche
questa tecnica esisteva per contrabbasso, ma su questi non è possibile eseguire più
di due note contemporaneamente e garantire un risultato piacevole e musicale,
mentre sul basso elettrico è possibile suonare tranquillamente due, tre note anche
quattro note per volta, che consentono una varietà timbrica dei voicing molto estesa
e pone le basi perché questo strumento si distacchi dall’abituale ruolo di “basso
continuo” di carattere monodico che bene o male, con tutti i mutamenti del tempo,
esso ha continuato a rivestire.
Il basso così per la prima volta si presenta al grande pubblico come strumento
solista di tutto rispetto, capace di suonare vere e proprie polifonie, che si trova a suo
agio tanto negli organici allargati, quanto in formazioni molto ristrette, dove a
seconda del genio dell’esecutore, può rivestire più ruoli contemporaneamente.
Insomma questi due musicisti fanno da caposaldo alla scuola di grandi bassisti che
dagli anni ’70 in poi hanno fatto la storia dello strumento e ne hanno ampliato le
possibilità ogni oltre immaginazione.
Alcuni di essi:
Marcus Miller, John Patitucci , Mark King, Alain Caron, Steve Bailey, Anthony
Jackson, Victor Bailey, Victor Wooten, Richard Bona, Christian Mcbride oltre agli
italiani Balducci, Deidda e il leggendario Gianluigi Goglia.
Tutti loro hanno contribuito alla crescita di questo strumento musicale moderno e
relativamente giovane. Pur prendendo in prestito elementi provenienti da contesti
musicali eterogenei, sia nel tempo che nella cultura, che nella provenienza
geografica e nella scelta dell’organico tutti loro hanno utilizzato il terreno fertile del
jazz per trovare una base d’appoggio su cui lavorare.
Nello studio del basso i primi passi sono sicuramente l’appropriazione di tutto il
materiale tecnico che concerne la tonalità, le triadi, gli arpeggi e le scale. Con la
conoscenza e l’interiorizzazione di questo materiale è possibile avvicinarsi alla
musica leggera e appropriarsi del suo linguaggio d’accompagnamento
rigorosamente monodico.
Ma è ascoltando i primi dischi di jazz che ci si avvicina a sonorità del tutto nuove e si
apre un nuovo mondo di possibilità armoniche ed espressive. Lo studio tecnico può
arricchire il nostro bagagliaio di risorse sempre maggiori: dal pizzicato al plettro, dal
tapping allo slap in tutte le loro numerosissime varianti. Si può apprendere come
accompagnare nello stile del Funk e nello stile dello swing, collegando gli accordi
tramite il Walkin bass. Si possono ricercare le melodie dai dischi pop e jazz e
riprodurle sul basso.
Ciò che appare ancora estremamente nebuloso nell’orizzonte espressivo del basso
è il suo utilizzo relativo alla polifonia. Come è possibile dunque inserire il basso
elettrico nel novero di strumenti capaci di eseguire più suoni contemporaneamente?
Abbiamo visto che alcuni musicisti hanno lavorato in questa direzione, utilizzando i
primi voicings, come Pastorius, o i più semplici power-chords utilizzati da Clarke
( sovrapposizione di quinte e quarte) e mutuati dal linguaggio rock, fino a giungere a
virtuosi come Wooten o Jackson che incominciano a suonare melodie armonizzate
o accompagnamenti accordali per mezzo di loop-station.
Sicuramente questo utilizzo del basso elettrico non si è imposto, direi anche
giustamente, al grande pubblico e neanche il bassista medio si è interessato allo
sviluppo di tecniche del genere, se non coloro che si trovano nella situazione di
accompagnare una voce, per cui sempre più spesso il basso è capace di fare le veci
di una chitarra.
L’indagine della nostra tesi verte sulla stesura di una tecnica, per quanto
rudimentale, attraverso cui armonizzare una melodia, e che possa essere eseguita
alla maniera di un pianoforte o di una chitarra, chiaramente nello stile del jazz fino
agli anni ’60. Questa tecnica nasce per sopperire al bisogno del musicista di
ascoltare come le sonorità di una melodia e del suo tessuto accordale possano
amalgamarsi fra di loro a creare una pasta sonora terza che contenga le prime due.
Come far si, attraverso questa tecnica, che quest’accompagnamento sia dinamico e
non statico, che i vocings di un accordo possano muoversi utilizzando regole che
provengono dall’armonia classica e che dal jazz sono state snellite.
Chiaramente un materiale che va semplificato per l’utilizzo sul basso, che consente
di eseguire un massimo di quattro suoni contemporaneamente, ma ne preferisce
utilizzare tre volta per per una questione timbrica di impasto tra le frequenze (spesso
troppo gravi), e che alle volte riesce a farsene bastare solo due, sufficienti però a
ricalcare la direzione armonica e melodica di un brano.
Nella seconda sezione di questa tesi cercheremo di mostrare, attraverso alcuni
semplici esempi, come sia possibile a vari gradi di difficoltà, armonizzare una
melodia.
Criteri lavorativi
Dalla disposizione per terze dei sette suoni che compongono ciascuna scala
otteniamo degli accordi di settima. Per ora scegliamo di estendere l’armonizzazione
di questi suoni solo alla settima, in maniera da poter considerare con precisione la
specie di ciascuno di questi accordi, che vanno a configurarsi come:
-Maj7
-min7
-7
-min, maj7
-Maj7,+5
-min,b5
Abbiamo così ottenuto tutte le specie d’accordo che sia possibile ritrovare in contesti
musicali tonali, eccezion fatta per gli accordi diminuti ed aumentati, di cui è
certamente possibile eseguire dei voicings, ma essendo queste scale simmetriche,
essi si ripresentano ciclicamente in modo uguale e non cambiano senso musicale al
variare dei gradi della scala.
Tuttavia per determinare con maggiore accuratezza ciascuno di questi accordi da
dove provenga e quale sia la sua ragione d’essere in un contesto armonico-
melodico, c’è bisogno di estendere la gamma dei suoni a più di quattro.
Dunque oltre ai chord tones che ci permettono di determinare la specie dell’accordo,
ci occupiamo ora di stabilire con accuratezza le tensioni che caratterizzano ciascuno
di questi.
Troveremo così che tra gli stessi accordi maggiori, minori, settima di dominante etc.
ci sono delle differenze che si trovano oltre la settima (estendo per terze l’accordo).
Nelle seguenti immagini sono mostrati, disposti in ordine scalare, tutti e sette i suoni
che compongono il Totale armonico di un accordo.
Per facilitare la comprensione del lettore, abbiamo scritto le sigle degli accordi che
risultano dalla sovrapposizione di terze, nello stesso modo in cui vengono espresse
nel linguaggio jazzistico.
Tuttavia queste, eccetto per poche tensioni caratteristiche proprio di quell’accordo in
quel determinato brano, spesso non sono affatto segnate. Questo per due ragioni:
innanzitutto perché l’impianto tonale ci guida all’interpretazione del tipo di accordo
che troviamo in partitura; é chiaro che lo stesso tipo di accordo può esistere su gradi
diversi di tonalità sia maggiori che minori, e sono proprio le tensioni (qualora la
melodia ci dia,come spesso accade, delle indicazioni) a guidarci nell’indagine e a
distinguere lo stesso accordo maggiore o minore etc. dall’altro.
Il secondo motivo per cui non vengono spesso indicate tutte le tensioni proprie di un
accordo è da ricercarsi nelle fondamenta stesse del jazz. Poiché si stratta di un
linguaggio in cui la parte scritta è spesso un mero canovaccio, sono possibili più
interpretazioni, più vie per giungere a conclusioni che rimangono comunque sempre
coerenti con l’originale versione del brano.
Che si consideri però ogni accordo singolarmente, dunque “modalizzandolo”, o che
la scelta delle tensioni apra una strada oppure un’altra, è pur sempre vero che un
accordo ha una funzione ed un suo preciso scopo d’essere in funzione della tonalità
in cui si presenta.
Molto importante è notare che i voicings sono scritti in posizione stretta; per ottenere
la posizione lata è sufficiente invertire la prima voce con la terza, dopodiché si
sceglierà sempre tra le due voci centrali quale utilizzare come terzo suono.
Tenendo conto che a diversi gradi della scala corrispondono dei significati di senso
possiamo provare ad utilizzare voicings che escano dalla semplice sigla espressa
sulla partitura e attraverso la sostituzione di accordi che hanno lo stesso significato
semantico, aiutarci nel rimanere coerenti al senso originale con cui sono stati pensati
i passaggi melodici.
Stiamo parlando di contesti in cui il percorso armonico è ben definito, standard come
“Confirmation” o “Stella by Starlight” per dirne alcuni. Brani i cui gli accordi hanno
un’area di significato sottolineata da costanti moti cadenzali che fanno viaggiare
l’armonia verso alcuni precisi punti. Rifacendoci a questo senso possiamo cercare
altre vie interpretative di queste melodie.
è chiaro che stiamo parlando di contesti solistici o legati ad un interpretazione
particolare, non stiamo cercando di certo metodi per distruggere un groove ben fatto.
Stiamo cercando una via per esprimere qualcosa in un modo innovativo e ci stiamo
dotando dei mezzi tecnici e teorici per farlo con cognizione.
Proprio accennando a queste canzoni ci viene in mente però che non è possibile
approcciare ad un repertorio del genere senza introdurre la questione delle cadenze.
Perché una melodia o un accompagnamento siano veramente interessanti e anche
coerenti con il linguaggio, dobbiamo appropriarci anche di sonorità che oltrepassano
la semplice diatonia; poiché rimanendo in quella sfera il movimento armonico fra le
voci non può raggiungere la sua vera potenza.
le principali cadenze che troviamo nel jazz dei primi anni ’50, cioè negli standards
sono
Dunque se noi volessimo armonizzare una scala maggiore non più alla maniera
diatonica, come nel primo esempio che abbiamo mostrato, ma volessimo che si
senta un costante moto di tensione e risoluzione, come potremmo fare?
é sufficiente armonizzare i gradi I III V VI con i voicing degli accordi che gli
appartengono
e i gradi II IV bVI VII con i voicing dell’accordo diminuto.
I Cmaj6 II D°
III E-7 IV F°
V G6 bVI Ab°
VI A-7 VII B°
Ora basta rispettare il moto naturale delle risoluzioni delle voci di un accordo perché
il nostro orecchio sia gratificato da sonorità che hanno un senso e una direzione
precise.
Le risoluzioni dei chords tones sono
fram.1
in questo primo frammento si può vedere come nella prima battuta la melodia sia
stata lasciata così com’è, per dare respiro e preparare alla seconda, in cui si è scelto
di armonizzare il C# con un Bsus9, il D# con un B#° che risolve a E armonizzato
come un C#-7, segno che siamo passati al relativo minore. Successivamente si
riapre tutto armonizzando il G# con il E, in un registro abbastanza grave per cui è
preferibile utilizzare due suoni per volta, anche in posizione lata. successivamente ci
si appresta ad una cadenza II-V-I, espressa con F# in posizione fondamentale,
successivamente A, il su terzo grado con C# al canto che scende al B armonizzato
con un accordo alterato, ovvero C-maj7 in posizione fondamentale. La cadenza
termina sulla battuta successiva con il A (b7 di B7alt) che risolve a G# terza
maggiore di E. Sono stati rispettati i moti di risoluzione delle voci.
fram.2
fram.4
Questo è uno dei frammenti più movimentati dell’intero brano, le voci superiori
scendono diatoniche da A verso E, armonizzate con F#°,Emaj6,D#° e C# con il
raddoppio dell’ 8ava e la b3 al canto, per far si che due voci su tre si muovano per
moto contrario, ora è come se fossimo scesi verso il B7alt che viene espresso con
un voicing con +9,b9, il ritardo della M3 con 5+ al basso e a seguire un voicing con
b9,b7 e ritardo alla voce che risolve nel voicing di B7, seguito da una discesa del
basso da quarto maggiore, quarto minore, terzo, tritono, secondo, tritono, con la
voce al canto che rimane fissa quando il basso si muove per alterare.
A questo punto incomincia una cadenza presentata con un gioco di alternanza di
tritoni per tritoni in cui le voci si scambiano dal basso al canto fino ad arrivare al
basso di dominante che lancia la melodia verso un nuovo prosieguo.
fram.5
fram.6
Nell’ultima parte della melodia si sono scelti tutti voicings a parti late, poiché ci
stiamo avvicinando al culmine del brano e i voicings disposti con intervalli più ampi
della terza regalano maggiore spazialità all’armonia. Nella prima battuta è espresso
un C#- e le voci sovrastanti vengono armonizzate con il voicing relativo dalla terza,
in cui canta la quinta. La voce discende verso F# che è stato armonizzato con un
diminuito con la b5 che risolve su un Bsu4 con l 11 al canto. Nella seconda battuta ci
si muove verso il quarto grado, che viene espresso ancora con il voicing relativo alla
terza, ovvero C# disposto con l’11 e la 5 al canto. Segue ancora un Bmaj che torna
verso il quarto grado espresso con la fondamentale al basso in posizione lata. Nella
penultima battuta ci avviamo alla conclusione; incomincia la cadenza II V I.
Si scandisce un F# e subito verso il suo voicing dalla terza espresso con due soli
suoni per via del registro. A e C#,G#° con B al canto e di nuovo F#in posizione
fondamentale che anticipa la nota al canto che viene armonizzata con un C-maj7 in
posizione fondamentale, con la nota al canto che scende diatonica fino al D#, unico
momento in cui appare il basso di dominante su punto coronato, che porta alla
conclusione, con la sensibile che risolve sul primo grado.
L’armonizzazione di questa melodia e la sua analisi sono il frutto di un lavoro
sviluppato circa i voicing, e che abbiamo mostrato nel corso di questi appunti.
Chiaramente per quanto possa essere scientifico l’approccio all’armonizzazione,
spesso molte soluzioni giungono a noi semplicemente tramite l’orecchio che ci
suggerisce certe sonorità che all’apparenza sono sbagliate.
tuttavia è confortante approfondire e studiare ciò che si è creato e ritrovarvi dei criteri
di logica sottintesa. Il criterio di sviluppo dell’armonizzazione basato sulle scale, gli
arpeggi e i oro voicings è potenzialmente un bacino di ispirazione e ricerca quasi
infinito. benché non siano tanto le voci utilizzabili c’è bisogno di un lavoro duro e
costante perché questo linguaggio attecchisca con naturalezza nel playing di un
musicista o e di un bassista nello specifico. Quindi andrebbe sicuramente creata una
routine di esercizi che permettano di sviluppare fluentemente l’uso di questa tecnica.
Per ora la lentezza del lavoro fa si che ogni armonizzazione sia un successo nel
momento in cui si riesce a percepire un senso musicale.
E sicuramente stendere questa tesi, come diretta continuazione di un lavoro
intrapreso due anni prima. Chiarire alcuni concetti e ricercare nell’armonia questi
chiarimenti mi ha permesso di capire un po’ meglio le regole che stanno dietro
alll’arte della sovrapposizione dei suoni.
Nella terza sezione di questa tesi, si troverà un appendice con i principali voicings
nei loro diversi rivolti, in posizione sia stretta che lata. A fondo di ogni capitolo ci
sono alcuni esercizi che possono essere da guida alla comprensione del
meccanismo di scambio tra le voci.