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CAPASSO E I CAPASSIANI

[in Aldo Capasso. Critica e poesia, a cura di F. Secchieri, Granviale, Venezia


2008, pp. 95-108]

La definizione di "poeta capassiano", che questa indagine presuppone, rischia di


apparire un poco riduttiva, perché riferita ad autori che, per quanto innegabilmente
"minori", "marginali", un poco appartati rispetto agli scenari più vistosi della
letteratura italiana del Novecento, seppero comunque sviluppare percorsi creativi
diversificati, almeno in parte autonomi, non del tutto privi di spessore e di
originalità. Tuttavia, tale definizione può essere giustificata dal considerevole ruolo
di teorico, organizzatore culturale e direttore di riviste e di collane editoriali che
Capasso svolse, riuscendo a convogliare, a raccogliere intorno a sé, in certo modo
anche a coordinare e orientare, molte vive energie della "giovane poesia" delineatasi
nel secondo dopoguerra, dopo la crisi di quel movimento ermetico di cui Capasso
appare oggi essere stato prima un possibile precursore (basti rileggere i versi
solariani, da Un infinito roco a Donna e pioggia, che sembrano immergere nella
tradizione italiana le arditezze sintattiche e le vertiginose condensazioni analogiche
del simbolismo e del post-simbolismo francesi, da Mallarmé a Valéry), poi un
risoluto e militante avversarioi.
Giova ribadire, preliminarmente, l'importanza che, se non altro sul piano storico
e documentario, può essere rivestita dai "minori", che, sebbene, e anzi forse proprio
perché privi di una marcata e cristallina originalità, di una genialità scintillante e
perentoria, possono più fedelmente rispecchiare i valori medi e le tendenze
predominanti che connotano un dato sistema letterario e una determinata temperie
culturale. Come è stato osservato, proprio nel quadro di una poetica e di un
movimento ben definiti - quali sono appunto quelli configurati dal Realismo lirico,
l'indirizzo letterario teorizzato e propugnato, come si vedrà, da Capasso - la
produzione dei "minori", le loro scelte estetiche ed espressive possono acquisire un
valore e un significato particolari. Come ha scritto Rosario Assunto, proprio
nell'opera dei «cosiddetti minori […] le idee estetiche storicamente manifestantisi
come determinazioni interne della categoria di bellezza attestano il loro
autoprogrammarsi come poetiche»; a questo interesse a livello di storia delle
poetiche e delle idee letterarie viene ad aggiungersi «il fascino», di cui ha parlato
Barberi Squarotti, «dell'avventura fra opere ancora inesplorate e, anche, male
esplorate o sorpassate dagli esploratori che hanno in mano mappe troppo rigorose di
ideologie o di gruppo o di poetiche»: nella sua «scommessa col silenzio, con la
morte, con il nulla», il critico «deve saper cogliere anche la breve iridescenza di
colori in una pozza d'acqua morta»ii.Chiedendosi, in un saggio del 1944, Che cos'è la
poesia minore?, T. S. Eliot, dopo avere «dissipato qualsiasi nozione spregiativa»
connessa con quella definizione, metteva a fuoco la peculiare condizione dei «poeti
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da antologia», di quei poeti che non hanno consistenza e visibilità se non in relazione
a un dato periodo o a un dato movimentoiii. E sono proprio le antologie e i repertori -
del Falqui, del Galletti, del Fusco, del Fiorentino, del Pedrinaiv, quest'ultimo forse il
più esplicitamente favorevole al capassismo - a far riaffiorare nomi, titoli, testi caduti
nell'oblio, immersi nell'ombra di quelle «catacombe», così difficili ad individuarsi e
perlustrarsi, in cui, come affermava Carlo Bo in un'intervista rilasciata a Renato
Minore sul Messaggero del 9 febbraio 1994, «vive la poesia», in cui «si sono
rifugiati gli scrittori che nemmeno conosciamo e che non sono riusciti a superare le
barriere delle diverse organizzazioni»; autori, questi ultimi, che resterebbero, forse,
per sempre celati da quell'ombra, se non sopraggiungessero la voce e la mano del
critico, che amministra una sorta di nekyia, di rituale necromantico capace di
riportare alla luce e alla vita fisionomie, percorsi, esperienze della poesia avvolta
dalle nebbie del passato e della dimenticanza.
Non pare opportuno, a questo punto, inanellare una serie di profili o di ritratti
dedicati in modo specifico, e con pretese di esaustività, ai singoli autori, che
finirebbe per risultare prolissa, tediosa e dispersiva. Sarà certo più proficuo
inquadrare una galassia di dominanti tematiche e di costanti stilistiche che avvolge
ed accomuna gli autori del Realismo lirico (o "capassiani", se proprio si vuole
impiegare questo termine, tra l'altro inquinato dalla valenza sarcastica, se non
spregiativa, che la definizione e il concetto di "capassismo" assumono nel carteggio
tra Montale e Quasimodo), cogliendone e cercando di restituirne trasversalmente, per
esempi e campioni, i bagliori e i riflessi molteplici. È opportuno porre in evidenza,
innanzitutto, il legame di continuità e di coerenza che unisce il Realismo lirico alla
cultura del rappel à l'ordre degli anni Venti e Trenta, a quel tentativo di
conciliazione fra modernità e classicità (fra «invention» e «tradition», «Aventure» e
«Ordre», per citare l'Apollinaire della Jolie Rousse) che voleva opporsi
all'iconoclastia, alla ribellione, allo hasard delle avanguardie storichev. Proprio nel
quadro della cultura del ritorno all'ordine venivano, del resto, ad inserirsi alcuni
aspetti della riflessione teorica capassiana, da Note sul genere lirico a Conclusione
su Valéry a Ricerche di aura poeticavi: riflessione non lontana da quella di Ungaretti,
solidale prefatore, nel '31, del Passo del Cigno, e a cui il Capasso solariano dedicava,
nel novembre del '31, un saggio importante. Come si avrà modo di osservare in
maniera più dettagliata prendendo in esame singoli aspetti ed esempi della poesia
lirico-realistica, la continuità a cui si è appena accennato risulta ulteriormente
confermata dal fatto di ritrovare, nelle file del Realismo lirico, alcuni poeti (da Fiumi
a Jenco a Federico De Maria) che erano stati precedentemente legati
all'"avanguardismo" e al "neo-liberismo" teorizzati da Fiumi nella prefazione a
Polline, e perseguiti dal cenacolo riunito intorno alla rivista La Dianavii. Com'è stato
osservato, per il poeta di Roverchiara l'adesione al realismo lirico, alla medietas di
un indirizzo letterario che voleva conciliare classicità e modernità, rappresentava la
coerente prosecuzione, e in certo modo il compimento, delle scelte estetiche e
militanti precedentemente operateviii. Non a caso, nel secondo dopoguerra Fiumi fu
tra gli animatori della rivista Realtà, che si affiancava all'organo maggiore del
movimento, la testata Realismo lirico, diretta da Capasso ed edita presso Ceschina.
Realtà era contraddistinta dall'intento di creare una letteratura capace di conciliare le
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esigenze dell'autonomia e della purezza con una partecipe adesione all'autenticità


dell'esperienza e del vissuto dell'uomo e alla complessità e alle inquietudini degli
scenari sociali. Sempre sul piano - inevitabilmente non immune da qualche
compendioso schematismo - della sintesi storiografica, si può forse affermare che la
continuità fra l'antiavanguardismo, o almeno l'avanguardismo disciplinato e
addolcito con memorie classiche, del rappel à l'ordre e la scelta antiermetica del
Realismo lirico corre parallela, pur se su un versante di polemica opposizione, a
quella che esiste, in certo modo (basti pensare al Bo di Bilancio del surrealismo o al
Bigongiari di Poesia francese del Novecento), fra l'avanguardia storica (in
particolare taluni esiti più lirici, moderati, sfumati, del surrealismo francese, da certo
Éluard a un Reverdy e ad uno Char) e l'ermetismo - certo, a paragone delle teorie del
Breton, governato da una più vigile ed assorta coscienza critica, da un più profondo,
e quasi religioso, senso del Verbo poetico, della parola pura, assoluta, "scavata come
un abisso", pregna di risonanze metafisiche e di aperture conoscitive, ma ugualmente
attento ai bagliori e agli echi che affioravano dalla vasta notte del prerazionale e del
preconscio.
È ormai tempo di prendere in mano il manifesto di poetica che segnò l'inizio più
chiaro e più decisivo del movimento capassiano, cioè la piuttosto malnota Lettera
aperta ai poeti italiani sul realismo nella lirica, pubblicata nell'agosto del 1949 sulla
rivista romana Pagine nuove, che annoverava tra i suoi collaboratori diversi letterati
(dal Cardarelli al Villaroel) di "retroguardia", o comunque in vario modo intenti alla
salvaguardia e all'ascolto della voce della tradizione e della lezione dei classici, e
successivamente riprodotta, in un opuscolo autonomo, da Alberto Macchia, uno dei
firmatari (originale e coraggioso scrittore-editore, che avrebbe tra l'altro dato alle
stampe, nel '58, il capassiano Dramma a Guayaqui)ix. Quel testo non nasceva dal
nulla. Esso si inseriva nel quadro movimentato, vivace, per molti aspetti confuso, e
oggi per larga parte dimenticato (sebbene all'epoca vi rientrassero in vario modo
letterati di assoluto rilievo, dal Luzi degli interventi raccolti in Tutto in questione al
Macrì di Realtà del simbolo), del dibattito post-ermeticox. Il manifesto capassiano -
sottoscritto, oltre che dal letterato altarese, anche da Fiumi, Elpidio Jenco, Giuseppe
Gerini, e da quattro prosatori, tra cui Amedeo Ugolini, poeta in prosa di formazione
frontespiziana, e il citato Alberto Macchia - esordiva con un attacco polemico nei
confronti di «certe poetiche moderne» - espressione ripetuta più volte in anafora,
quasi a meglio definire e rimarcare l'oggetto della contestazione - che insistevano su
di una «"magica" imparagonabile realtà», «una "magia" compiutamente diversa e
contrapponibile alla realtà quotidiana», e che si traduce in uno sfrenato analogismo,
tale da abolire la logica comune. Appare evidente che nell'idolo polemico del
Realismo lirico si fondono elementi del simbolismo più orfico e arduo (la «magie» di
Mallarmé, la «sorcellerie évocatoire» di Baudelaire) e del surrealismo (i manifesti di
Breton), sebbene il referente più immediato sia costituito, com'è ovvio, dalla poetica
ermetica. A questo atteggiamento viene contrapposto - con arditi ed eclettici richiami
agli autori più svariati, da Saffo a Whitman a Lee Masters, da Baudelaire a Esenin -
il «realismo del poeta lirico», che consiste nel «non rompere i legami sentimentali
con l'uomo comune, e per ciò stesso rispecchiare - a suo modo - la realtà quotidiana».
La Lettera aperta, oggi praticamente dimenticata, non mancò di destare,
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nell'immediato, echi polemici di un certo rilievo. Basti ricordare il dibattito che si


sviluppò sulla rivista romana Idea: ad un articolo di Guido Mariani, Ancora
un'offensiva antiermetica, apparso il 16 ottobre del 1949, in cui la poetica ermetica
era difesa attraverso il richiamo all'"assenza" teorizzata da Carlo Bo, rispondeva, il
23 ottobre, Giuseppe Gerini, con un articolo sui Realisti lirici, in cui, riprendendo
parole di Ugolini, definiva il realismo lirico - la "terza corrente", intermedia tra
l'orfismo ermetico e il crudo realismo di altre proposte, da esso incarnata - come
«sintesi dolorosa […] di questo nostro periodo storico, colmo inusitatamente di
sofferenze e di sogni». Subentrava Capasso (Mancanze ed equivoci dei difensori
dell'ermetismo, nel numero del 20 novembre 1949), che additava certi esiti del primo
Ungaretti e del primo Montale, Cardarelli e la poesia di Betti e di Bacchelli come
modelli del Realismo lirico. Già nel numero del 7-14 agosto del '49, Capasso aveva
pubblicato su Idea un articolo dal titolo Realisti lirici, in cui, gettando un ponte fra le
"arti sorelle", quasi a voler rivisitare il topos dell'ut pictura poësis, accostava
l'esperienza poetica della "terza corrente" al movimento figurativo dei "Pittori
Moderni della Realtà", il cui manifesto, apparso nel '47, e firmato da Pietro Annigoni
(risoluto antiavanguardista lungo tutto il corso della sua fortunata carriera, in
particolar modo di ritrattista ufficiale), da Gregorio Sciltian e dai fratelli Antonio e
Xavier Bueno, insisteva sulla necessità di riguadagnare alla pittura una "moralità" di
sguardo e di stile, una appassionata adesione alla realtà e alla concretezza delle cose
e dell'umano, in antitesi alle forme pure, avulse, chiuse nella loro assolutezza ed
autoreferenzialità, dell'astrattismo e della "pittura pura", e a quelle deformate,
distorte, straniate, del cubismo e dell'espressionismo; un movimento, questo dei
"Pittori della Realtà", che diede luogo a un'arte popolata di figure nette, solide,
austere, a volte quasi ieratiche, di scenari dai contorni netti, marcati, scabri,
contraddistinta (ecco ancora il richiamo al "ritorno all'ordine") da un primitivismo
che può far pensare tanto a un Modigliani quanto al gruppo di "Valori plastici".
Anche le posizioni teoriche capassiane appena ricordate, poi, erano già prefigurate, a
conferma della continuità, cui si è ripetutamente accennato, rispetto alla cultura del
rappel à l'ordre, dagli interventi che Fiumi e Capasso, tra gli Anni Trenta e i primi
Anni Quaranta, avevano pubblicato sul Corriere padano, la cui terza pagina
rappresentò uno spazio importante per quella cultura. Capasso, fin dal numero del 17
settembre del '32, insisteva sui Limiti della poesia, sui margini, sui confini, sui
precisi contorni e le nitide coordinate che dovevano, classicamente, in antitesi al
panismo di D'Annunzio, del primo Ungaretti, ma anche di certo Montale,
circoscrivere con precisione il principium individuationis della soggettività lirica; e
Fiumi, recensendo, il 9 febbraio del '43, Ed è subito sera di Quasimodo, già ne
lamentava - pur apprezzando la solida e classica fattura di certi endecasillabi - taluni
eccessi di oscurità e talune contorsioni sintattiche, e il 3 giugno dello stesso anno
notava, in Vita d'un uomo, una certa attitudine a «restare all'orlo della poesia», a
«tricher au jeu», «pago di limitarsi all'immediatezza del frammento»xi. Come si vede,
autori e testi che, pur non potendo essere ascritti all'ermetismo vero e proprio, inteso
stricto sensu, furono peraltro considerati dai teorici e dagli esponenti di quel
movimento come modelli ed archetipi illuminanti, a quelli che sarebbero poi stati gli
ispiratori e i maestri del Realismo lirico appaiono invece come i campioni di una
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modernità con cui ci si doveva inevitabilmente misurare, ma i cui risvolti più estremi
e più arditi dovevano essere ridimensionati, e come raddolciti, attraverso il richiamo
alla limpidezza, all'equilibrio, al franco ma sobrio confronto con la realtà e la
concretezza dell'umanità e del vissuto, che contraddistinguevano la classicità e la
tradizione. Non vorrei, ora, invadere un terreno trattato da altri in questo stesso
volume, e con competenze certo superiori alle mie; ma mi pare interessante
sottolineare che, nell'estetica del Realismo lirico, quel saldo legame tra creazione
poetica e consapevolezza critica che caratterizza, in antitesi alla crociana sintesi di
intuizione ed espressione, il pensiero estetico di Capasso, da Saper distinguere a
Dottrinarismo a Ricerche, distinzioni, discussioni, è finalizzata al conseguimento di
una peculiare "purezza" lirica, intesa non già, secondo il canone ermetico, come
condensazione semantica, occultamento o soppressione dei nessi logici,
accentuazione delle valenze suggestive ed evocative perseguita e protesa fino alle
soglie dell'obscurisme, ma piuttosto come limpidezza, chiarezza, nettezza di tratto e
di segno, trasparenza di idee, sentimenti, resa verbale. Non a caso, Lionello Fiumi, in
Parnaso amico, mettendo a fuoco, in veste di simpatetico interprete, i Significati di
Aldo Capasso, definiva - con un giudizio che sottintendeva una poetica, e che pareva
anch'esso preludere alla Lettera aperta - la natura di un'arte in cui, come in quella di
Valéry, «il calcolo - il vagliare, il pesare, il misurare - ossia il secondo stadio della
creazione - ha importanza per lo meno equivalente all'ispirazione», e tende non già
alla complessità, alla voluta oscurità, alla studiata sovrapposizione di significati
ulteriori e celati, ma, piuttosto, alla semplificazione e alla chiarezzaxii. Anche negli
interventi che potrebbero apparire più connotati e più compromessi sul piano
ideologico (penso ad articoli come Poesia "arcanista" e modernità, in «Regime
fascista» del 4 aprile 1939, o Conclusioni sull'arcanismo. Precisazioni, apparso sulla
stessa testata il 21 luglio dello stesso anno), le ragioni dell'antiermetismo capassiano
sono anche e prima di tutto letterarie, riconducibili alla volontà di rigettare - così si
legge nel primo dei due articoli appena citati - il «compiacimento, anticlassico e
tecnicistico, dell'oscurità permanente e sistematica».
Alla Lettera aperta non mancarono echi e adesioni - peraltro, come nota Barberi
Squarotti nella "voce" citata, da parte di autori rimasti ai margini, forse proprio a
causa del loro rispetto di certi valori tradizionali, del dibattito letterario del
dopoguerra. Tramite gli interventi pubblicati sulla rivista Tripode (in particolare nel
numero 7, del novembre 1949, e nel numero 8, dell'aprile dell'anno successivo),
diretta da Carlo De Franchis, che al movimento dedicò anche un'importante
antologia di tendenzaxiii, aderirono al programma letterario della "terza corrente" vari
scrittori, dal Cardarelli al Titta Rosa, dall'Arfelli al Borgese (l'opera poetica del quale
ultimo, pur se innegabilmente marginale rispetto a quella del critico e del narratore, è
però interessante per il verso e per il tono distesi, discorsivi, prossimi alla prosa).
Singolare, per contro, che al movimento si opponesse, in polemica con Fiumi, un
critico come Giuseppe Ravegnani (alludo all'articolo Giurmerie della "terza
corrente", in «Milano sera» del 15 dicembre 1950), precedentemente favorevole ai
"poeti di Verona e di Ferrara", tra cui lo stesso Fiumi, e solidale con l'"Orfismo della
Parola" teorizzato, su basi concettuali riconducibili, nella sostanza, all'estetica
romantica, dall'antiermetico Francesco Flora.
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È ora tempo, fatte queste premesse, di avvicinarsi ad un esame più dettagliato,


per esempi, figure, testi in vario modo emblematici, della poesia espressa dal
"capassismo". È opportuno soffermarsi, in primo luogo, sulla raccolta di Luigi
Fiorentino Scalata al cielo, pubblicata nel '48 dalla casa editrice Ausonia di Siena, la
cui prefazione, scritta da Capasso, appare quasi come una sorta di "manifesto tecnico
del Realismo lirico". Ed è interessante accennare anche all'attività culturale ed
editoriale del Fiorentino, che fondò e diresse la rivista Ausonia, il cui programma era
improntato anch'esso ad una sintesi di classicità e modernità, e intorno alla quale si
raccolse il cenacolo dei "Poeti di Ausonia", che diede vita a diverse antologie.
«Modernità», scriveva Capasso, «è l'amare sobrietà e concisione», cercare
l'«essenzialità», «ma non è cercare […] il concettismo, l'analogia troppo sforzata per
vanità dell'inedito, e l'oscurità sistematica». L'"Ausonismo" del Fiorentino e il
"Realismo lirico" di Capasso sono accomunati proprio dal rifiuto, o almeno dal
disciplinamento, dalla razionalizzazione, dall'illimpidimento, dell'analogismo, del
"demone dell'analogia" che permeano la poesia moderna. Capasso, dovendo offrire
un esempio concreto di analogia limpida e misurata, citava il testo eponimo della
raccolta, incardinato proprio sul nesso associativo suggerito dai «fiori» che brillano
nella «celeste volta» del cielo, e che in realtà «sono mondi», e sul riverbero della
voce del poeta, che si perde «sola, senz'eco», «nei profondi silenzi della notte», i
quali segnano così il limite invalicabile di fronte a cui devono arrestarsi l'«estasi
cosmica» del poeta, l'afflato panico del soggetto lirico. Ci si può soffermare poi su
un altro testo del Fiorentino, per l'esattezza Sicilia, scritto nel '45 nel lager di
Witzendorf, ove l'autore era stato internato per aver combattuto contro i tedeschi
dopo l'otto settembre, e confluito nella raccolta Basalto, edita, sempre presso Maia,
nel '53. Si tratta di una lirica stesa in versi liberi inframmezzati con numerosi
endecasillabi, e tutta pervasa da riferimenti storici e geografici insieme precisi e
suggestivi (i mandorli che «creano sogni bianchi» specchiandosi nei fiumi, la locusta
che trilla «tra sparsi templi»), e culminante in un'analogia densissima («Tutta la terra
è musica che vive»), ma preparata, e pertanto chiarificata, dall'articolato discorso
lirico che la precede e che, in qualche modo, in essa si placa e si risolve.
Proprio il testo del Fiorentino su cui ci si è appena soffermati mostra in modo
evidente un'altra caratteristica del movimento capassiano, vale a dire il costante
richiamo al mondo classico, alle radici storiche, all'antiqua mater incarnata dalle
origini culturali ed etniche: non una quasimodiana «terra impareggiabile» il cui
ricordo, come in Vento a Tindari, porta la soggettività del poeta quasi a dissolversi, a
vanire rapita dall'onda delle reminiscenze e delle evocazioni, o un ungarettiano
"paese innocente" in cui "smemorarsi", ma piuttosto un'identità culturale, un
profondo sostrato di radici e di ascendenze storicamente circostanziati e definiti, da
recuperare e rivivere nelle loro testimonianze e nelle loro voci plastiche, nette,
nitidamente scolpite. Proprio in questa luce andrà vista l'importanza che nel
movimento assume l'esercizio della traduzione: non già, come nelle versioni, o
meglio nelle emulazioni, nelle creazioni di secondo grado, eseguite dai "lirici nuovi"
a partire dalle pagine dei poeti antichi e moderni, il "frammento" in cui cercare
"essenzialità" e "purezza" sulla base dell'incertezza filologica, dello spazio fluttuante
ed opinabile che lo circondano; piuttosto, traduzione intesa come fedele e compiuto
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recupero di una classicità vista, ai limiti dell'accademismo, come "nobile semplicità",


come limpido equilibrio di pensiero e di forme. Basti citare le traduzioni teocritee di
Elpidio Jenco, edite nel '48 (che riflettono, in una partitura versale ariosa e distesa, la
melodiosa solarità dell'originale, l'inestingubile brama di canto che lo anima, come
dimostra, per fare un solo esempio, la resa della Morte di Dafni: «là, cìpari e querce
fan bosco; / fanno un armonioso ronzare gli sciami pei bugni. […] Vieni, Despota; e
prendila tu la mia fistola bella, / stretta con cera, che ha fiato di miele»), o quelle
delle Georgiche eseguite da Giulio Caprin e pubblicate, due anni dopo, con il
corredo iconografico delle acqueforti del Manzùxiv: versioni stese in esametri perfetti,
pieni, torniti, di fattura carducciana, lontani dagli «esametri sbagliati», dai
«movimenti larghi di ritmo», dalla misura «spezzata e ricostituita» messi in opera,
sia nella traduzione che nella poesia originale, dall'ultimo Quasimodo, e da lui
teorizzati nel Discorso sulla poesia posto in appendice a Il falso e il vero verde per
essere rifuso in Il poeta e il politico, il volume saggistico del '60. Ciò che osservava
Manara Valgimigli sul Quasimodo traduttore, e più in generale sui "lirici nuovi"
interpreti e ricreatori di poesia greca (cioè che il poetare si rifletteva sul tradurre
molto più di quanto il tradurre non si riflettesse sul poetare, il tutto a partire dal
«casuale stato frammentario e quindi, in certo senso, alogico, anticontenutista,
antisintattico […] di certa poesia lirica greca»xv), nel caso dei Realisti lirici deve
essere ritoccato, se non proprio invertito. Si può citare, al riguardo, Elena Bono,
autrice vivente e tuttora attiva, pur se ai margini dell'establishment letterarioxvi. La
traduttrice di Sofocle (si fa riferimento alla versione dell'Antigone, dell'Edipo re e
dell'Edipo a Colono apparsa nel 1982 presso Garzanti) affiora e fa sentire la propria
voce anche nei versi originali: i caduti della Resistenza, a cui è dedicato un testo dei
Galli notturni - raccolta, anch'essa garzantiana, del '52 -, sono morti «per ubbidire ad
una legge / che non fu mai scritta», morti «secondo il proprio cuore» - immolatisi a
quegli stessi aghrapta nomima, a quelle stesse «leggi non scritte» che esistono da
sempre e per sempre (aei pote), invocate da Antigone al cospetto di Creonte («quelle
leggi non scritte e indistruttibili», traduce la Bono, che vivono «non soltanto da oggi
né da ieri / ma da sempre», e «nessuno sa da quando sono apparse»). Proprio il
richiamo alla classicità traspone e trasfigura il referente storico e ideologico,
traslandolo su di un piano di assolutezza metatemporale, riscattandolo dalla crudezza
rappresentativa, dall'unilateralità ideologica, dall'acre, e a volte greve,
espressionismo linguistico che hanno spesso contraddistinto la visione neorealista
della tematica resistenziale. Non per nulla, lo spirito neo-umanistico che animava i
Realisti lirici li indusse a prendere più volte le distanze, sulle colonne della loro
rivista, tanto dal neorealismo quanto dai suoi modelli d'oltreoceano, a cui veniva
contrapposta la lezione di Amedeo Ugolini, e che erano tacciati, l'uno e gli altri, di
insistere eccessivamente sugli aspetti più vili e deteriori della condizione umana.
Come detto, il tradurre si riflette sul poetare. La poesia dei Realisti lirici è tutta
intrisa di reminiscenze classiche, a partire da una delle prove più impegnative del
loro maestro Capasso, vale a dire l'Ultimo canto di Saffo (in Per non morire,
l'ambiziosa raccolta edita da Berben di Modena nel '47), tutto pervaso da una fitta
rapsodia (esemplata forse su certi procedimenti del Pascoli conviviale) di
contaminazioni e di emulazioni plasmate con i frammenti della poetessa di Lesbo. E
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si può allora ricordare, per l'affinità dello spirito e del tema, Saffo di Giuseppe
Gerini, un altro firmatario della Lettera aperta (in Dentro celeste sponda, raccolta
edita nel '49 presso Maia, e corredata di una prefazione di Capasso che ne elogiava la
vena «parca d'immagini, ma penetrante, nel tono, con singolare virtù»): «Fatemi
dormire, stelle di febbraio, / in codesto alto letto viola / come una di voi […] / Letto
viola alle mie chiome viola». Versi, questi, in cui viene ripresa ed amplificata, con
intenso ma leggibile analogismo, l'immagine alcaica (fr. 63 D.) di Saffo ioplokos e
mellichomeidos, «dal crine di viola» e «dolce ridente». Peraltro, come dimostra, ad
esempio, un altro testo di Dentro celeste sponda, Melodie, il Gerini era forse,
insieme al Jenco di Essenze, il più vicino, fra i poeti del Realismo lirico, a movenze e
registri ermetici, pur se rivisitati alla luce della nuova poetica: «Melodie di chiare
praterie / con pause d'ombra d'alberi distanti. // Io tendo a quella chioma che più
densa / cerchia sul verde: e mi conduce / il limpido fluire / di questa sponda irrigua /
dove tu pure, o Sognata, / muovi leggiadra i piedi» (versi da confrontare con
l'Ungaretti di Isola o, per l'arditezza sinestetica, con il Quasimodo di Oboe
sommerso, o infine, per la simbologia della danza, con il Luzi di Tango, ma
sottolineando sempre, rispetto a questi referenti, la maggiore chiarezza del dettato, la
più netta evidenza della rappresentazione, il diretto richiamo alla tradizione, in
questo caso, per l'esattezza, alla figura dantesca di Matelda). Emblematico, sotto
questo aspetto, un testo di un esponente minore del movimento, Cesare Ottaviano
Cochetti, Poi vidi un fauno, incluso da De Franchis nella sua antologia: una poesia
che rivisita il motivo panico legato (dall'Hugo del Satyre al Guérin del Centaure al
Mallarmé dell'Après-midi d'un faune) alla figura del fauno, e in pari tempo
l'atmosfera di egloga evanescente e straniata che incontriamo nella tradizione
simbolista e post-simbolista, dal Mallarmé, già ricordato, dell'Après-midi
all'Ungaretti della già citata Isola. Una lirica, questa del Cochetti, che si apre con
l'immagine della ninfa Deiopea, «ombra bianca» che «va errando nei tempi», e si
conclude con la visione del fauno che «si denuda l'anima / tra la marina e i pàmpini e
le case / contro un mostro d'acciaio, per morire»: ove è evidente, ancora una volta,
come il Realismo lirico si accosti a motivi e immagini cari alla sensibilità simbolista
ed ermetica per tradurli in figurazioni più nette e concrete. E ancora il richiamo alla
classicità rappresenta un aspetto rilevante nella prima stagione di un'altra autrice
ancor oggi attiva, Maria Grazia Lenisa, secondo Squarotti «forse il temperamento più
autenticamente lirico di tutto il movimento»xvii. L'ampio saggio introduttivo di
Capasso all'Uccello nell'inverno, la raccolta che la Lenisa pubblicò nel '58 presso la
casa editrice Liguria, si apre e si chiude con il rifiuto di ogni «decadentismo,
ermetico, o surrealisteggiante, o vagamente espressionista» (e si ricordi, per questa
accezione estensiva di un "decadentismo" identificato tout court con la modernità
novecentesca, il celebre saggio di Norberto Bobbio sulla Filosofia del decadentismo,
che, apparso presso Chiàntore di Torino nel 1944, poteva già lasciar presagire, con la
sua condanna del «ripiegamento irrevocabile dell'uomo su se stesso» segnato dalla
sensibilità contemporanea, lo spirito della reazione lirico-realista). A Capasso, di
rimando, l'autrice ha dedicato quello che resta forse il più ampio e il più appassionato
studio d'insieme sul poeta di Altare; un libro in cui la Lenisa insiste, tra le molte altre
cose, sulla «struttura logica» che - in antitesi all'"immaginazione senza fili" che
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accomuna, fino a un certo segno, i futuristi al primo Ungaretti - contraddistingue i


suoi versi, interagendo fecondamente con il nutrimento, primo e imprescindibile,
dell'ispirazionexviii. In sede di poetica andrà ricordato, della Lenisa, il Documento dei
giovani, apparso su «Realismo lirico», in diverse tranches, nelle annate fra il '56 e il
'59: pagine lucide, ferme, coerenti, in cui alla poetica dell'allusione e della
suggestione era opposta una classica vis sententiae, una precisa e potente
corrispondenza tra res e verba. Coerenti con questa poetica appaiono i versi della
prima produzione lirica lenisiana, caratterizzati da assorte memorie classiche
restituite in un severo e composto "stile da traduzione", pervaso da risonanze epiche
e liriche: «O fossi io la sicula fanciulla / dal piè danzante, fiore dell'Ortigia, / che alle
correnti d'Aretusa / affida le bianche membra……» (Ultima Aretusa). E torna, anche
nella Lenisa (per l'esattezza nella Lettera di Saffo da Mitilene), l'immagine di Saffo,
poetessa richiamata nella Lettera aperta: «Il pianto mi strugge / per te, Mitilene, / per
te dalle palpebre viola, / molli di sonno, / sotto le vive notti di luna» (si notino le
affinità, specie cromatiche, con i versi del Gerini).
Si è già accennato al problema dei "limiti della poesia", all'intento, da parte dei
capassiani, di definire in modo chiaro e solido i contorni e le prerogative del soggetto
lirico. Ciò non toglie che proprio la visione del cosmo, dell'Infinito, dell'Assoluto
rappresenti uno dei temi chiave del movimento. Ma si potrebbe dire che, come per il
Leopardi lettore di Burke, così anche per questi poeti il confronto con l'infinito, lo
smisurato, il sublime è occasione per ribadire e per rafforzare l'identità e la solidità
dell'io lirico. Qualcosa di diverso accade, invece, nei modelli e nei testi guida
dell'ermetismo, in cui spesso il soggetto tende a sfaldarsi, a diluirsi, a risolversi in
una sostanza fluida, instabile, cangiante. «Un oboe gelido risillaba / gioia di foglie
perenni / non mie, e smemora», dicono versi celebri di Quasimodo; e basterebbe
l'uso assoluto, indeterminato, senza espansioni, di quel verbo, «smemorare», per
rendere l'idea di un'identità avulsa e straniata. Ma si può prendere ad esempio anche
un testo, anch'esso celebre, di Luzi, L'alta, la cupa fiamma, in Quaderno gotico: «Io
mi levo, mi libro e mi tormento / a far di me un Mario irraggiungibile / da me
stesso».
Assai indicativa è, in questo senso, l'opera del già ricordato Federico De Maria,
che sul terreno della poetica aveva espresso, fin dal volume del '36 Rinnovamento e
tradizione, posizioni di modernità attenuata e conciliata con lo spirito classico, non
dissimili da quelle del Realismo lirico. Si consideri, ad esempio, Infinito: «Io sono un
abitante / del chiaro mondo aperto a ogni mio senso. (…) / La notte mi sommerge nel
tremendo / suo buio - brulicante / d'infiammati universi. / […] E in quell'attimo
anch'io sono infinito». Come si vede, il "naufragio" nell'immensità del cosmo non
compromette l'unità, raziocinante e poetante, dell'io (e si noti, nei versi appena
riportati, l'affinità tematica, e anche lessicale, con la citata Scalata al cielo di
Fiorentino). Proprio questo nodo concettuale offre, poi, l'opportunità di soffermarsi,
per quanto brevemente, su due autori in certo modo appartati, ma comunque legati al
movimento, cioè Giuseppe Selvaggi (importante anche come critico d'arte) e Giulio
Caprin. Significativa, in tal senso, di Selvaggi, la poesia Mare, antologizzata da De
Franchis. «Guardo il mio viso specchiato / nell'acqua / e vi ritrovo il cielo ed il
mare. / Potessi anche diventare cieco / io per questo / mi sento infinito» (ove si può
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notare, ad ulteriore conferma di come i realisti lirici facciano propri, filtrandoli in un


contesto di leggibilità e chiarezza maggiori, motivi dell'ermetismo, l'affinità con
l'imagery di alcuni celebri testi quasimodiani, da Acquamorta a Specchio). Di
Caprin, si potrà rileggere in questa luce Mare del nord, nell'Almanacco letterario
Bompiani del 1933: «Liberi i venti portano il mio cuore / intorno al mondo, e il
mondo è tutto mare; / e i continenti e le isole non sono / che ombre delle nuvole sulle
acque / mobili e ferme nell'eternità. […] / Ma più beato chi del mare eterno, / vuoto,
senza memoria e senza rive, / non conobbe che un po' di sabbia bionda / in fondo a
un golfo chiuso tra due punte / di dolce nome, e un tremolio lontano». Versi in cui il
topos classico del makarismos si fonde con il motivo oraziano dell'angulus terrarum,
e si associa alla percezione dantesca e poi leopardiana del «gran mar dell'essere», del
«pelagus substantiae infinitum», del mare come imago aeternitatis. Ma, ancora una
volta, il soggetto lirico si salva riparando nella finitezza del reale. E si potrebbe
citare, volendo trovare un riscontro capassiano di queste immagini marine, quello
che fu, forse, il testo più noto e più largamente antologizzato del poeta altarese, vale
a dire Cielo ligure, in Paese senza tempo: «Se dall'oscuro nido / io m'affaccio, mi
perdo. Su la nera / coppa di questa terra mormorante / un fluido globo turchino
contiene / sciami di stelle». Immagini equoree e siderali, queste, che trovano a loro
volta riscontro in diversi dei testi fino ad ora esaminati, in modo tale da potere,
unitamente agli altri riferimenti fino ad ora raccolti, configurare il Realismo lirico
come un organico e coerente sistema letterario, tematicamente e semanticamente
connotato in modo uniforme e coeso.
È ora opportuno soffermarsi, prima di chiudere, su quello che è forse il più
profondo e più autentico significato culturale del movimento, al di là dell'intrinseco
valore poetico che può essere riconosciuto agli esiti espressivi cui esso seppe
pervenire. La Lettera aperta definisce il Realismo lirico come una possibile risposta
all'esigenza di un "nuovo umanesimo" manifestata dalla cultura contemporanea. In
effetti, in questi poeti il recupero della tradizione classica si inserisce nel quadro di
una humanitas intesa nel senso più ampio, che contempla anche una viva e sentita
adesione ai più vari aspetti della condizione umana. Basti considerare Gli uomini,
una poesia della raccolta Uomo e donna di Ugo Betti, autore certo importante
soprattutto come drammaturgo, ma vicino, come poeta, al Realismo lirico:
«Camminavano insieme, con un brusio di fiume […]. Uguale / passava quel suono di
fiume; / gli stessi canti consolavano le stesse cure; / le stesse rozze dita smuovevano
la terra, la mutavano / come viso materno che mentre / si consuma, s'illumina». E si
può citare ancora Jencoxix (di cui, tra l'altro, usciva nel '32, presso Emiliano Degli
Orfini, un'antologia di poesie scelte da Capasso), per l'esattezza la lirica Uomo, nella
raccolta Cenere azzurra: «Io lo so che sorte ti mena, / uomo, effimero grumo di pena.
[…] / E il grumo di pena si scioglie / in un mare di eterna dolcezza». I nuclei
concettuali ungarettiani dell'«uomo di pena» e del «grumo di sogni» sono qui diluiti
e dispiegati nella struttura, più articolata e discorsiva rispetto ai "versicoli"
dell'Allegria, di due quartine. Dovendo additare il significato culturale e ideologico e
la posizione storica del movimento, sarà possibile ravvisare in esso un tentativo -
forse un poco attardato, ma autenticamente e profondamente sentito - di venire
incontro all'istanza di un moderno neoumanesimo avvertita, negli anni dell'entre
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deux guerres e dell'immediato secondo dopoguerra, in vari orientamenti del pensiero


contemporaneo (basti pensare all'umanesimo testuale, filologico, "retorico" nel senso
più alto, di certa cultura tedesca, dal Wilamowitz a Jaeger, o al "neo-umanesimo" e
all'"umanismo", ben distinti dall'umanesimo tradizionale, e anzi ad esso antitetici per
molti risvolti, della filosofia dell'esistenza, da Jaspers a Sartre). In tale contesto, le
aspirazioni, se non proprio gli esiti espressivi, del Realismo lirico vengono a
coincidere con quelli che caratterizzano, nel secondo dopoguerra, i percorsi di autori
di radici e di formazione ermetiche, come Quasimodo e Gatto. «Il poeta» - affermava
Quasimodo nel famoso Discorso sulla poesia del '54 - «sa, oggi, che non può
scrivere idilli o oroscopi lirici»; «la ricerca di un nuovo linguaggio coincide […] con
una ricerca imperiosa dell'uomo»; «il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario».

Matteo Veronesi
i
Cfr., al riguardo, ALESSANDRO SCARSELLA, Parafrasi per un cigno, in appendice alla
pregevole ristampa di ALDO CAPASSO, Il passo del cigno, Verona, Novacharta, 2003, pp. 153-
165.
ii
ROSARIO ASSUNTO, La testimonianza dei "minori" e la storia dell'estetica e GIORGIO
BARBERI SQUAROTTI, "Minori" e "minimi" nella storiografia letteraria del Novecento, in Il
"Minore" nella storiografia letteraria, Ravenna, Longo, 1984, pp. 93 e 315-316.
iii
THOMAS STEARNS ELIOT, Che cos'è la "poesia minore"?, in IDEM, Opere 1939-1962,
Milano, Bompiani, 2003, pp. 401 sgg.
iv
Cfr., ad esempio, ENRICO FALQUI, La giovane poesia. Saggio e repertorio, Roma, Colombo,
1956; ALFREDO GALLETTI, Il Novecento, Milano, Vallardi, 1973; ENRICO MARIA FUSCO,
La lirica. Ottocento e Novecento, Milano, Vallardi, 1950; IDEM, Antologia della lirica
contemporanea. Dal Carducci al 1950, Torino, Società Editrice Internazionale, 1953; LUIGI
FIORENTINO, Mezzo secolo di poesia, Siena, Maia, 1951; LUIGI FIORENTINO - ORAZIO
LOCATELLI, Il Tesoretto, Milano, La Prora, 1954; FRANCESCO PEDRINA, Storia ed antologia
della letteratura italiana, vol. III, Milano, Trevisini, 1938; FRANCESCO PEDRINA, La lirica
moderna. Dal Parini ai realisti lirici, Milano, Trevisini, s. a. (ma 1951).
v
Cfr. VALERIO VAGNOLI, Il ritorno all'ordine nella cultura del primo Novecento, Padova,
Liviana, 1985, e soprattutto lo studio imponente di DANIELA BARONCINI, Ungaretti e il
sentimento del classico, Bologna, Il Mulino, 1999, che travalica largamente i limiti segnati dal
titolo, e arriva ad abbracciare, anche su di un piano internazionale, una vasta temperie culturale ed
artistica.
vi
Cfr., in particolare, per la nozione capassiana di "lirica pura", aliena dall'aseità e
dall'autoreferenzialità del segno ermetico, e la relativa polemica, LINDA PENNINGS, I generi
letterari nella critica italiana del primo Novecento, Firenze, Cesati, 1999, pp. 308-315.
vii
Cfr. La Diana, a cura di NICOLA D'ANTUONO, Cava Dei Tirreni, Avagliano, 1990; ADELE
DEI, La Diana 1915-1917. Saggio e antologia, Roma, Bulzoni, 1981.
viii
Circa la continuità esistente, nel percorso creativo di Fiumi, tra l'avanguardismo e l'adesione al
Realismo lirico, cfr. la "voce" di RICCARDO DE MARCHI, in Dizionario biografico degli italiani,
vol. XLVIII, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1997.
ix
Sul realismo nella lirica, a cura di ALBERTO MACCHIA, Roma, Macchia, 1951.
x
Cfr., per un quadro generale, ALBERTO FRATTINI, Collane riviste convegni antologie: nel
"fuoco" della giovane poesia, in Novecento, vol. IX, a cura di GIANNI GRANA, Milano,
Marzorati, 1980, pp. 8050-8057 (in cui, peraltro, non viene preso in considerazione il fenomeno del
capassismo); ANTONIO PIGLIARU, Introduzione al cinquantennio letterario, «Ichnusa», II, 1950,
4, pp. 107-117 (con riferimenti alla polemica fra Macrì e Capasso). Per una visione d'insieme del
movimento, preziosa la "voce" di GIORGIO BARBERI SQUAROTTI, Realismo lirico, in
Dizionario mondiale della letteratura del Novecento, a cura di Lucio Licinio Galati, Roma, Edizioni
Paoline, 1980, pp. 2435-2436.
xi
Gli articoli citati si leggono nell'utile Antologia del "Corriere Padano", a cura di ANNA FOLLI e
ADELE DEI, Bologna, Patron, 1978.
xii
LIONELLO FIUMI, Significati di Aldo Capasso, in IDEM, Parnaso amico. Saggi su alcuni poeti
italiani del secolo XX, Genova, Degli Orfini, 1942, pp. 495-533.
xiii
I poeti del realismo lirico, a cura di CARLO DE FRANCHIS, prefazione di ALDO CAPASSO,
Roma, Edizioni del Tripode, 1952.
xiv
TEOCRITO, Tre idilli, trad. di ELPIDIO JENCO, Rieti-Roma, Edizioni del Girasole, 1948;
VIRGILIO, Georgiche, trad. di GIULIO CAPRIN, Firenze, Vallecchi, 1950.
xv
MANARA VALGIMIGLI, Poeti greci e "lirici nuovi", in IDEM, Del tradurre e altri saggi,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1957.
xvi
Sulla lunga e vasta attività dell'autrice, si veda ora il numero monografico della «Riviera ligure» a
lei dedicato (2000, 32). Anche nei riguardi della Bono Capasso esercitò la propria funzione di
interprete e di guida (si veda il saggio La poesia religiosa di Elena Bono, Firenze, Città di Vita,
1993).
xvii
Rinvio, per un panorama complessivo (comprendente anche i testi della stagione lirico-realistica)
della vasta opera dell'autrice, a MARIA GRAZIA LENISA, Verso Bisanzio (antologia dal 1952 al
1996), Foggia, Bastogi, 1997.
xviii
EADEM, Poesia di Aldo Capasso, Roma, Aternine, 1967, p. 30.
xix
Si può vedere, su questa figura, Elpidio Jenco e la cultura del primo novecento. Atti del convegno
di studio, a cura di MIRKO LAMI, Viareggio, Pezzini, 1991 (in particolare le relazioni di Niva
Lorenzini, Marcello Ciccuto, Paolo Lagazzi).

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