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di
Maurizio Franco
Il ragtime, è bene precisarlo, non è uno stile jazzistico bensì un genere musicale autonomo, con una
propria storia stilistica, anche se ha una fondamentale importanza nella genesi del jazz, sia per i suoi
intrecci con lo stride piano sia perché rappresenta uno dei pilastri (insieme al blues e alla musica da
marcia) per la definizione stessa del New Orleans Style e del Dixieland. Analizzarne i contenuti
musicali ed espressivi, considerandone le modalità compositive e interpretative, consente di
sgombrare il campo da equivoci che, anche oggi, non sono stati del tutto chiariti, determinando una
visione spesso contraddittoria di un genere musicale chiaramente afroamericano e altrettanto
chiaramente “colto”, che negli ultimi trent’anni, grazie al film La stangata, ha vissuto una
considerevole ripresa d’interesse sia nell’ambito jazzistico sia nel mondo della musica accademica,
seppure per motivi differenti. Il fatto che si tratta di musica con una sua definizione scritta,
consegnata in partitura, ha infatti spinto diversi pianisti di estrazione classica a inserirlo nei propri
programmi concertistici per rinnovare i repertori esistenti. Una scelta interessante, che ha portato
alla constatazione che quelle pagine riscuotono un vivo successo, risultando molto gradite al
pubblico della musica classica e quindi offrendo una chance di rilievo per i musicisti, oppressi da
repertori standardizzati che lasciano spazio solo alle grandi vedette internazionali. Dall’altra parte, i
jazzisti si sono interessati al Ragtime perché hanno scoperto i suoi legami con l’uso del pianoforte
nella loro musica, oppure, se compositori, hanno esplorato le possibilità formali di un genere che sta
alla radice delle forme jazzistiche sino agli anni ’20 e, successivamente, ha ispirato molti grandi
autori Jazz. Intorno a questo crescente interesse, si annida però l’insidia della conoscenza reale di
questa musica, che in entrambi gli ambiti espressivi rischia di venire affrontata superficialmente. Il
Ragtime è infatti un genere particolare, che non esaurisce il suo fascino nella scrittura, né si può
interpretare con la logica del piano jazz moderno, bensì richiede uno studio specifico e la
comprensione delle sue peculiarità. Infatti, il Ragtime è portatore di elementi espressivi audiotattili
e si apre quindi a concezioni interpretative tipiche di queste musiche (di cui il jazz è la più
importante), che uniscono scrittura e oralità in un peculiare processo performativo nel quale la
partitura è importante, eppure non inviolabile, anzi, in una certa misura si può, o addirittura si deve,
personalizzare, ma in maniera diversa da quanto avviene nella grande tradizione della musica scritta
eurocolta. A questo si aggiungono le fondamentali, imprescindibili differenze dovute a un modo di
intendere lo strumento pianoforte che è diverso da quello accademico, e anche se non mancano
alcuni punti di contatto, il modo di concepire il piano in questa musica è spesso non conosciuto, non
capito o persino concettualmente rifiutato dai pianisti cosiddetti “classici”. Occorre quindi definire
a grandi linee questa importante forma di arte musicale, cominciando dal suo inquadramento
storico. Il Ragtime, come noto, si è sviluppato nell’ultimo decennio dell’800, diventando quasi una
colonna sonora degli Stati Uniti del periodo; era musica che si suonava nei saloon, nei bar, nei
caffè, sul cui ritmo veniva ballato il cakewalk e, sebbene molti pensino il contrario, era
principalmente, ma non certo esclusivamente, suonata al pianoforte; anzi, esistevano molteplici
orchestrazioni per piccolo gruppo e infatti il primo jazz si sviluppò partendo anche dagli organici
del Ragtime non pianistico. Dal punto di vista strettamente musicale, la sua caratteristica è la forma
politematica a sezioni accostate, che ha antecedenti nel mondo europeo soprattutto nelle masse
sonore delle messe fiamminghe ed è progressivamente scomparsa a favore delle procedure di
carattere imitativo, della sonata, della sinfonia e di tutte le altre costruzioni architettoniche tipiche
della musica colta del vecchio continente. Più facile trovare questa forma a sezioni nella musica
dell’Africa Occidentale, che nel gioco a contrasti e a domanda e risposta trova una delle sue più
diffuse modalità strutturali. Il Ragtime è quindi, già nella sua forma, qualcosa di inusuale e
prettamente americano, frutto dell’incrocio culturale determinatosi nel Nuovo Mondo. Incrocio che
si rivela anche nella concezione melodica, venata di inflessioni folcloriche legate alle tradizioni
vocali
statunitensi, e nella semplicità della trama armonica, scevra di complicazioni e invece basata su un
gioco di modulazioni che, come nel Blues, si basa fondamentalmente sul rapporto tonica-
sottodominante. Il politematismo con cui viene composto il Ragtime non si basa su un modello
univoco e può essere legato a due, tre, quattro e persino cinque temi, anche se la seconda e la terza
soluzione erano le più utilizzate. I temi venivano quasi sempre ripetuti due volte e c’era spesso
anche una introduzione. Il primo tema poteva essere ripetuto al centro della composizione e così
anche parte dell’introduzione. Per esempio, lo schema classico definito dal più famoso rag di ogni
tempo: Maple Leaf Rag di Scott Joplin, scritto nel 1899, è il seguente: AABBACCDD. Ogni lettera
indica una sezione che, tecnicamente, assume il nome di strain, per cui un Ragtime è costituito da
un certo numero di strains lunghi 16 misure con la metrica di 2/4. In realtà, dietro ogni sezione
ripetuta si cela una struttura che divide ogni sedici misure in due spicchi di otto misure ciascuna e
spesso, nella ripetizione, le ultime otto misure differiscono leggermente dalle seconde otto della
prima esposizione. Il risultato è una embrionale forma ABAC, cioè la più antica delle forme song,
quella che farà cambiare al jazz la sua impostazione formale proiettandolo nella dimensione
moderna. E’ comunque evidente quanto la forma Ragtime sia interessante sotto l’aspetto
compositivo e come sia facile trovarne innumerevoli esempi e sopravvivenze nell’opera dei
compositori jazz di ogni epoca, dalla più lontana da noi a quella attuale. Sotto l’aspetto generale, le
sezioni successive alla prima hanno forti legami con questa: la seconda è una sua variante, la terza,
anche indicata come Trio, è invece una elaborazione alla sottodominante delle idee iniziali, con una
forte marcatura ritmica. I legami sono, principalmente, di carattere ritmico e melodico, anche se
nello sviluppo cronologico del Ragtime si assiste a una maggiore autonomia delle varie sezioni.
Ritmicamente siamo in presenza di una musica complessa, polirtimica sotto tutti gli aspetti, con una
parte di sostegno (pianisticamente rappresentata dalla mano sinistra) salda sul tempo, e un’altra
prettamente legata allo sviluppo melodico (sul pianoforte, la mano destra) che si muove in costante
sincopazione e con figurazioni articolate. La poliritmia è spesso legata alla formula del 3 su 2, cioè
delle figurazioni ternarie su ritmo binario, al punto che nella prassi didattica e nei manuali si
insegnava a comporre parte del Ragtime su questo schema, che prendeva il nome di Secondary Rag.
La storia di questo genere musicale comincia con il Folk Ragtime, basato principalmente sulla
performance e sull’oralità, con significativa presenza di elaborazioni e variazioni improvvisate. Il
primo nome entrato nella storia è quello dell’afroamericano Tom Turpin, cui segue quello del
bianco Charles Hunter; il Rag, come il Jazz, è musica americana, quindi in bianco e nero, con tutte
le distinzioni racchiuse nella differente provenienza culturale. A questi autori se ne aggiungono
diversi altri, più bianchi che non afroamericani, capaci di utilizzare la scrittura in maniera sempre
più ampia, pur mantenendo la freschezza melodica e armonica del primo Ragtime. Il termine
Classic Ragtime deriva invece dalla tradizione creata dall’afroamericano Scott Joplin, il più
significativo autore di questo genere musicale e uno dei maggiori musicisti americani in
assoluto, che è diventato l’emblema stesso del Ragtime. Joplin era un artista di grande ambizione e
voleva fare del Ragtime una musica importante quanto quella della grande tradizione eurocolta.
Soprattutto, intendeva dare il rilievo principale al lavoro del compositore; per questo cercava di
scrivere pagine di grande equilibrio formale e di rara coerenza interna, spesso apponendo in calce
alle sue partiture la dicitura: non improvvisare. La sua richiesta si basava sulla prassi corrente
all’epoca, soprattutto per i pianisti, cioè quella di elaborare e personalizzare le partiture, mentre
l’idea di Joplin era quella di mettere al primo posto il compositore. Del resto, autorevoli studiosi
come Jasen e Tichenor, sottolineano che non fosse un pianista eccelso e forse proprio per questo
motivo la sua intenzione era quella di passare alla storia come autore di musica scritta. La posizione
di Joplin ha creato e crea comunque dei fraintendimenti tra due visioni differenti: quella degli
studiosi che sostengono la sacralità della pagina scritta e la non presenza di improvvisazione nel
Ragtime, negando la prassi reale e storica oltre che la stessa componente audiotattile di questa
musica, e coloro, tra cui praticamente tutti i pianisti che si sono dedicati in via esclusiva a questo
genere e gran parte degli studiosi contemporanei, che invece accettano la peculiarità di una musica
in grado di trovare il suo singolare dinamismo e originalità proprio nella sua capacità di andare oltre
la scrittura. La lezione di Joplin è comunque fondamentale e la bellezza della sua musica ha
consentito al Ragtime di espandersi e di durare nel tempo: proprio grazie a questo grande musicista
si è mantenuto interesse per questo genere e si sono poi riscoperti e studiati anche gli altri autori, in
alcuni casi di grande valore. Il successo ottenuto con Maple leaf Rag (pare che del pezzo ne siano
state vendute, in varie forme e orchestrazioni, circa 250000 partiture) non deve far dimenticare che
le sue opere sono innumerevoli e spaziano anche nella dimensione ritmica del tango e di altre
musiche latine, evidenziando la duttilità del loro autore e di questo genere musicale. Se Joplin è
stato il re del Ragtime scritto, un altro afroamericano, Louis Chauvin, lo fu per il Ragtime
“suonato”, in quanto scriveva solo nella mente le sue composizioni, tanto che l’unico suo brano
giunto in forma scritta sino a noi è dovuto all’aiuto di Joplin e titola Heliotrope Bouquet. Tra gli
altri esponenti afroamericani del Classic Ragtime troviamo Scott Hayden, altro musicista di cultura
accademica, Arthur Marshall, James Scott, tutti compositori rilevanti e anche pianisti di valore,
mentre tra i bianchi si segnala la grande figura di Joseph Lamb, un discepolo di Joplin e un
protagonista del revival del ragtime degli anni ’40 e ’50. Lo sviluppo successivo del genere va nella
linea del Popular Ragtime, che risponde alla più diretta melodicità richiesta dal mercato e viene
inaugurato dal Dill Pickles Rag di Charles L.Johnson, il primo brano hit da un milione di copie
nella saga dell’industria musicale americana, quella che aveva sede nella mitica Tin Pan Alley.
Anche gli altri protagonisti di questa nuova linea del Rag furono soprattutto bianchi, tra cui
ricordiamo George Botsford, Thomas Lodge, H.Clarence Woods; tra loro c’è anche una donna:
May Francis Aufderheide. All’inizio del secondo decennio del secolo scorso, il Ragtime toccò il
suo picco di popolarità, diventando sempre più apprezzato anche in Europa; per questo motivo il
genere si aprì a nuove concezioni, come armonie più avanzate o inusuali, e diventò terreno fertile
per molti compositori. Anche il giovane George Gershwin entrò a far parte degli autori-
performers, mentre tra gli altri protagonisti del periodo si ricordano il messicano George Cobb, poi
una figura di riferimento quale l’afroamericano Artie Matthews, autore dei meravigliosi Pastime
Rag, quindi Eubie Blake, autore di musical di grande successo, tra cui il celebrato Shuffle Along.
Un personaggio di frontiera nel rapporto tra Rag e Stride piano è stato invece Luckey Roberts,
primo dei pianisti Stride a essere pubblicato e maestro di James P.Johnson e Gershwin. Ognuno di
questi musicisti era portatore di uno stile personale, sia compositivo sia strumentistico, e questa è
una caratteristica che aiuta a farci comprendere quanto il Rag fosse un genere molto meno rigido,
aperto alla fantasia dei suoi protagonisti, di quanto si possa credere. L’ultima modificazione
stilistica del Ragtime arriva poco prima dell’inizio degli anni ’20 con il cosiddetto Novelty Ragtime,
prodotto dall’incontro tra i musicisti di formazione accademica che originariamente suonavano e
arrangiavano pezzi di musica popular, con quel mondo musicale così particolare e comunque
legato a vario titolo alla scrittura. Si tratta di un modo di concepire il genere in maniera
virtuosistica, legata alla tastiera del pianoforte, con pagine di esecuzione difficile e ricche di
classicismi, soprattutto derivate dall’impressionismo francese di Debussy e Ravel, unito a ritmi
dinamici e articolati. Con il Novelty Ragtime il centro principale della diffusione del Rag sul piano
commerciale passa a Chicago, quando all’inizio del ‘900 era stata St.Louis. Il suo autore di
riferimento è il bianco Edward “Zez” Confrey, che con Kitten On The Keys esercitò un’influenza
musicale paragonabile a quella di Maple Leaf Rag. Scuola essenzialmente bianca, il Novelty
Ragtime ha avuto tra i suoi principali esponenti Roy Bargy, Arthur Schutt, Rube Bloom (che
registrò con Bix Beiderbecke e altri celebri dixielander), Billy Mayerl, forse il più brillante tra
questi pianisti, fondatore di una scuola di musica di grande successo, con sedi in tutto il mondo.
Dalla seconda metà degli anni ’20 in poi il Ragtime è uscito di scena, sopravvivendo in situazioni di
revival, ma non per questo perdendosi completamente: autori interpreti, ormai praticamente solo
pianisti, hanno continuato a esistere, mentre le concezioni formali del Rag si intrecciavano in
maniera sottile con il lavoro di alcuni compositori jazz. Come scrivevamo all’inizio, negli anni ’70
il Ragtime è tornato in auge, entrando anche (e soprattutto) nelle sale da concerto deputate alla
musica euro colta. E’ diventato però un’arte di esecutori, trovando negli anni molti specialisti. In
Italia, oltre a Paolo Peruffo, si dedicano a questo genere musicale Cesare Poggi e Marco Fumo,
grandi interpreti e studiosi di livello internazionale. Ma in che modo si diffondeva il ragtime,
soprattutto nell’era pre-discografica? Ovviamente attraverso gli spartiti, spesso semplificati, ma in
particolare grazie ai rulli di pianola, che venivano inseriti in pianoforti meccanici diffusi in tutto il
paese. I rulli venivano impressi da tecnici oppure dagli stessi musicisti, e tenendo conto che i
progressi tecnici sono stati lenti e solo dagli anni ’20 le incisioni potevano prevedere anche l’uso
del pedale e un minimo di dinamiche. Naturalmente ai musicisti bianchi erano riservati i rulli
migliori, mentre per gli afroamericani erano disponibili quelli di peggiore qualità. I rulli pongono
dei grandi problemi interpretativi, poiché sono in gran parte sprovvisti di dinamiche e di sfumature,
oltre che non avere indicazioni di velocità univoche. Il fatto che, srotolandosi, facciano scendere i
tasti del pianoforte determina il non cambiamento della tonalità, indipendentemente dalla velocità di
riproduzione. studi e diatribe di ogni genere hanno quindi accompagnato i concetti legati a “come”
si dovrebbe eseguire il Ragtime. In effetti, seppure in questa musica gli elementi europei sono ben
presenti, soprattutto quelli legati al pianismo romantico, è altrettanto evidente che il modo di
concepire il pianoforte è molto diverso, per cui la saldezza ritmica e la percussività di tocco sono
indubbiamente un elemento centrale e imprescindibile, quindi molto complesso da padroneggiare
dagli strumentisti di formazione accademica, eppure fondamentale per comprendere anche la
dimensione jazzistica del pianoforte. Il Ragtime ha però esercitato un certo interesse anche tra i
compositori eurocolti, da Stravinsky a Morricone; anzi, ciò che viene sbandierato come
l’interesse per il jazz degli autori classici del primo ventennio del ‘900, è in realtà interesse per il
Ragtime. Il passaggio dal Ragtime a quello che si può considerare il primo stile jazzistico non di
gruppo, lo Stride piano, è stato graduale al punto che inizialmente non era facile individuare le reali
differenze tra le due musiche. Comunque, lo Stride appartiene pienamente alla storia del jazz, anche
se intorno a questo stile sono spesso prevalse le semplificazioni, soprattutto in merito all’uso della
mano sinistra. In realtà lo Stride presenta legami profondi con il Ragtime, ma anche con il piano
jazz successivo, nel senso che fanno tutti parte dell’uso peculiare dello strumento nelle musiche di
radice afroamericana. In primo luogo, come in tutto il jazz e come nel Rag, le due mani del pianista
stride sono in costante poliritmia tra di loro, con la sinistra ancorata al tempo base e la destra ricca
di sfumature. Sul piano pratico, quella che viene considerato il movimento ritmico principale, cioè
l’alternanza tra basso (raddoppiato generalmente alla quinta o all’ottava) e accordo suonato nella
parte centrale del piano, che provvede al sostegno ritmico armonico dei brani, è certo la più
famosa, ma non l’unica formula esistente. Anzi, esistono una varietà di figurazioni della mano
sinistra che spaziano da bassi albertini a giochi arpeggiati, da progressioni tipo Ragtime a varianti
del modello più noto, da ritmi di habanera a linee di walking bass, da giochi contrappuntistici a
triadi con intervalli di decima sino all’uso moderno del back beat. Procedure che sono frutto della
personalità dei pianisti e forniscono un quadro di eccezionale ricchezza stilistica, sposandosi con
una mano destra che sviluppa un ricco gioco di variazioni, e anche un certo senso tematico di
carattere bluesy e si intreccia costantemente con la sinistra in un gioco paritario e centrato sull’uso
orchestrale dello strumento, nel quale le due mani hanno un rilievo paritario e sono inscindibilmente
subalterne l’una all’altra. Successivamente, nella storia jazzistica, la mano destra acquisterà una
rilevanza primaria e, indipendentemente dalla quantità di note suonate dalla sinistra, la confinerà ad
un ruolo di sostegno, di supporto, indipendentemente dalle formule di accompagnamento da
quest’ultima praticate. Una grande e sostanziale differenza ritmica porterà comunque la mano
sinistra a staccarsi dal tempo base, per operare con una nuova linea derivata dalle necessità della
destra. Fatta questa indispensabile premessa, occorre sottolineare che mentre il primo stile jazzistico
di gruppo si definisce a New Orleans, lo Stride piano sviluppatosi a Harlem negli anni ’10 e ’20 è
presumibilmente il primo stile individuale della storia del jazz. In realtà, il passaggio dal ragtime
allo Stride è avvenuto gradualmente, lasciando vivi diversi punti di contatto, come appunto la
gestione delle due mani, sebbene nello Stride la destra sia meno melodica e la scrittura risenta
maggiormente di una logica improvvisativa e sia decisamente meno vincolante. Non solo, ma il
repertorio dello Stride è legato soprattutto ai suoi autori esecutori, è un repertorio molto personale e
legato alle caratteristiche tecniche di ogni pianista. Naturalmente questo stile richiede un’alta
competenza strumentistica, tra le più complesse (se non la più complessa) dell’intero percorso
musicale jazzistico; non a caso la formazione di un pianista Stride non mancava anche di una parte
classica, perché comunque la scena professionale era estremamente competitiva (seppure la cerchia
dei pianisti Stride, soprannominati Ticklers, era legata da rapporti amichevoli tra i suoi esponenti) e
richiedeva molteplici competenze. Sul piano storico il movimento Stride non si esaurisce certo con i
famosi “Big Three”: James P.Johnson, Willie “The Lion” Smith e Thomas “Fats” Waller,
perché i musicisti che si cimentavano, e con grande qualità, in questo ambito erano molti di più,
compresi coloro che inserivano le modalità pianistiche Rag in un ambito anche differente da quello
della scuola newyorchese, come Jelly Roll Morton o Earl Hines (a cui si deve però il cambio di
prospettiva che segnerà la nascita della moderna concezione pianistica). Restando ai tre grandi, la
figura di Johnson ha un ruolo centrale, che passa anche attraverso l’enorme influenza da lui
esercitata su Ellington, Monk, sullo stesso Waller e su un gran numero di pianisti. Strumentista di
stupefacente abilità, compositore di assoluto rilievo, abile anche nel campo sinfonico e cameristico,
inventore di una serie di brani titolati: Charleston e punto di riferimento per l’omonima danza,
Johnson possedeva una varietà di figurazioni impressionante, era un brillante improvvisatore ed
estemporizzatore e con brani quali, per citarne uno solo: Carolina Shout ha imposto degli standard
espressivi allo stile Stride. Più classico, dalle figure melodiche e ritmiche eleganti e arabescate,
eccellente nell’arte della variazione, Smith era un altro protagonista di quei “cuttin contest” nei
quali i pianisti battagliavano tra di loro rimettendosi al giudizio del pubblico. Waller, che poi
diventerà un maestro del pianoforte Swing, possedeva una mano sinistra formidabile ed era quello
che improvvisava maggiormente, seguendo una logica ampiamente moderna. Accanto a loro, ci
sono state però altre figure rilevanti e ingiustamente dimenticate dalla storia. Ritroviamo così i già
citati Eubie Blake e Luckey Roberts, poi Cliff Jackson, in possesso di una eccellente tecnica, che
era partito dalla lezione di Johnson sviluppando in maniera originale quel dettato stilistico. Altri
pianisti di alto livello, tutti afroamericani, furono Henry Duncan, Claude Hopkins, Joe Turner,
Seminole (musicista di origine indiana) e, soprattutto, Don Lambert. Un capitolo a parte lo merita
Jelly Roll Morton, uno dei grandi compositori della storia del jazz e tra i massimi pianisti di New
Orleans; nel suo mondo musicale le strutture del Ragtime agiscono come elemento centrale, mentre
sul pianoforte costituiscono uno dei materiali che si fondono insieme alle logiche Stride per
realizzare una sintesi unica nel suo genere. Dal punto di vista della sua genesi storica, lo “stile”
Stride è frutto del pensiero e dell’approccio dei pianisti afroamericani e solo più avanti nel tempo ci
sono stati specialisti bianchi quali Dick Hyman, Joe Sullivan, Ralph Sutton e lo straordinario
Dick Wellstood. Anche Ellington, formatosi studiando sui rulli i brani di Johnson, manterrà
sempre elementi del Rag e dello Stride nel suo modo di suonare (e di comporre), mentre
Thelonious Monk realizzerà la sua modernissima musica pensando la tastiera e le composizioni
come intreccio tra le due mani, quindi mantenendo viva nel jazz moderno e contemporaneo quella
tradizione. Diversi pianisti di scuola moderna hanno mantenuto i tratti dello Stride nel loro
linguaggio, anche in maniera “figurata”, cioè riproducendo nel gioco dei bassi o nella concezione
orchestrale della tastiera il vecchio, ma sempre vitale, pensiero espressivo. Pensiamo a Bud Powell,
oppure a Jacki Byard, ma anche in Cecil Taylor l’intreccio paritario tra le due mani è
fondamentale. In fondo, proprio di questo si tratta, non tanto di suonare Um-Pah o altre formule
con la mano sinistra, bensì di considerare la logica di utilizzo delle due mani, cioè un modo di
pensare lo strumento invece di un altro. Purtroppo, gli aspetti esteriori prevalgono sempre sul
pensiero profondo, che invece è quello che pone i fatti in relazione tra loro. Oggi si assiste a un
consapevole sguardo a quel periodo e a quegli stilemi, come dimostrano molti pianisti americani,
per esempio Marcus Roberts, oppure Jason Moran, che ha persino rivisitato un classico di
Johnson quale Modernistic. Anche in Italia non mancano musicisti che inglobano quegli elementi
nel loro linguaggio, per esempio Rossano Sportiello, Dado Moroni e Stefano Bollani, ma anche
in Franco D’Andrea si assiste a un uso delle due mani che risponde a procedimenti pre-bebop. In
sostanza, quando si dice Stride piano non si parla di una lingua morta, bensì di uno dei cardini
fondamentali nell’organizzazione del pensiero pianistico nella musica che chiamiamo jazz.
Maurizio Franco