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et i a di di e se a ee dell Af i a e dell Asia, i pa ti ola e la usi a af i a o-occi-
de tale pe pe ussio i, il aga i dia o e il osiddetto ga ela ali ese, sulle
quali Reich si è lungamente soffermato come apprendista in lunghi periodi di studio
sul a po , o e di e e o gli et o usi ologi. La ozio e di ipetizio e se a
est a ea all idea o ide tale - davvero pervasiva, potrei dire dominante - di varia-
zione, un concetto estetico sostanzialmente opposto, che poggia sulle nozioni di
s iluppo, di t asfo azio e, di ela o azio e, alla i e a di u a ti olazio e del di-
scorso musicale funzionale a un senso del bello, o del nuovo, o dello sviluppo di un
soggetto teat ale, i tesi appu to o e a ia e to. L a t opologia ultu ale i ha
insegnato a maturare u idea relativista dei sistemi culturali, indispensabile viatico
a una comprensione delle diversità, intese anche come ricchezza euristica e sapien-
ziale. Giudi a e e p ete de e di api e le usi he delle ultu e alt e , degli alt i
Paesi e Continenti, utilizzando i modelli teorici e percettivi di quella occidentale, è
un errore nel quale sono incorsi per troppo tempo musicisti e musicologi europei,
e che peraltro persiste in parte ancor oggi (non a caso un saggio di antropologia
cultu ale i fe e o os e e, a i fa, il di e te te aso o es iato di usi isti af i-
cani che, chiamati ad esprimere un giudizio su una sinfonia beethoveniana, finirono
a stig atizza e l i a azza te po e tà sotto il p ofilo it i o . La ipetizio e o
è, in tal senso, noia, incapacità di variazione, ignoranza del principio di elaborazione
e di varietà e contrasto. È se pli e e te tutt alt o: il linguaggio, o meglio il mec-
a is o fo ale, att a e so il uale si esp i e o u idea esteti o-sonora, ma il
progressivo disvelamento di uno stato di coscienza, di un rituale, di un fenomeno
collettivo e sociale. La ripetizione - che in realtà non è tale in senso stretto, perché
prevede continue per quanto lente microvariazioni di altezza, di dinamica e di tim-
bro - persegue quindi altri obiettivi, e interpretarla secondo il canone occidentale è
uno sbaglio grossolano. Ma il bello è che Steve Reich, Terry Riley, La Monte (Thorn-
ton) Young, Philip Glass e gli altri (non a caso il movimento ha avuto principalmente
origine in California, lo stato per ragioni di contiguità geografica più asiatico degli
Usa) ha o saputo t asla e uest idea del tutto di e sa, poggia te su ultu e e p a-
tiche etnico-religiose, o legate alla itualità lai a, so iale, ell al eo del li guaggio
colto (ossia s itto, se o do l eti ologia lati a della t adizio e ia a eu o-ameri-
cana, e della sua declinazione musicale cosiddetta contemporanea. Tutto questo
anche se, terminologi a e te, i i alis o s atu is e i se so lessi ale da u
alt o à ito, uello dell a te figu ati a, analogamente all i p essio is o , o i-
mento musicale derivato da quello pittorico, sia in senso terminologico sia per di-
versi connotati formali. Artisti visivi minimalisti, tutti americani, sono stati ad esem-
pio i pittori Robert Rauschenberg e Frank Stella, o scultori come Donald Judd e Ri-
chard Serra, a l uo o he ha assu to il te i e e l ha appli ato alla sfe a della
composizione sonora è stato il critico e musicista anglosassone Michael Nyman, sul
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quale non a caso si sofferma, in questo volume, anche Alessandro Carrera. Certo,
vi sono poi delle differenze, nello sviluppare creativamente il concetto di minimali-
smo, tra gli autori americani citati. Philip Glass ha parlato, ad esempio, di una mu-
si a se za i te zio i , apa e di i ede e se si il e te le p op ie oo di ate te -
po ali, fa e do i uesto le a sull e o azio e di p ati he e itualità s i olate
dall o ologio e dalle du ate e i, tipi a e te o ide tali, o h dal se so u
po teleologi o, talora ideologico, della composizione eurocolta. Reich ha a sua
volta insistito (ad esempio nel suo saggio del 1968 intitolato Music as a Gradual
Process) su u idea i uesto po o agea a di pe etti ilità so o a e g adualità del
processo comunicativo della composizione-esecuzione. Nel rifarsi a concetti tem-
porali e rituali tipicamente orientali, più raramente africani (se non, vedi ancora
Reich, ell uso di alcuni strumenti), i minimalisti hanno finito per condividere, nella
seconda metà degli anni Sessanta, la filosofia religiosa e comportamentale indiana,
he all epo a att asse fo te e te a he g uppi eu opei di popular music come i
celebri Beatles. E non a caso il rapporto tra origini etnico-musicali del minimalismo
musicale e sua incorporazione nel linguaggio occidentale delle partiture è avvenuto
a he att a e so la ediazio e, a h essa tipi a e te, si etisti a e te a e i-
cana, con le sonorità, gli strumenti e i caratteri armonici e ritmici essenziali del jazz
e del rock, che a loro volta negli anni, come ci mostra Carrera con impeccabile ca-
pacità argomentativa e analitica, hanno finito per esserne influenzati, magari anche
nelle loro successive declinazioni europee, oltre che nordamericane (e proprio su
Brian Eno, Alvin Lucier, Laurie Anderson, tra gli altri, si sofferma particolarmente
l auto e, p ese ta doli o e o igi ali p opaggi i e s iluppi del o i e to già ali-
forniano). Certo, non è che nella letteratura eurocolta il principio minimalista della
ripetizione sia sempre stato assente: basti pensare al Bolero di Ravel (1928), che
carica di tensione drammatica un analogo fondale di spunti melodico-ritmici di ma-
trice etnica (declinati con un crescendo ossessivo, quasi cinematografico), o alle
Vexations di Eric Satie (1893), nelle quali è prevista per ben 840 la ripetizione di una
medesima frase per pianoforte. Ma il minimalismo si costituisce come movimento,
non come singolo episodio (per quanto anche in Satie si colgano facilmente le sug-
gestio i esotizza ti , pe lopiù o ie tali, tipi he dell epo a olo iale, e t e el
celebre brano di Ravel la fonte è la musica spagnola per danza di matrice etnica,
popolare). E questa propensione minimalista alle suggestioni africane, ma soprat-
tutto asiatiche, derivava ai membri del movimento da quella scelta di campo che i
compositori americani degli anni Cinquanta avevano dovuto compiere, avendo di
fronte un bivio costituito da u a pa te dall osse uio al se ialis o ie ese, ossia a
u a a gua dia olto ispetta ile, i peg ata e igo osa a fo se a he pe uesto
se p e più esote i a, ossia dista te dalla o u i azio e ol pu li o, e dall alt o
dall ape tu a li e ta ia alle suggestioni appunto asiatiche (e in fondo anche, in qual
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modo, neo-futuriste) rappresentata dalla lezione concettuale e para-teatrale, oltre
che sonora, di John Cage. Di fronte alla scelta, Glass, Reich, La Monte Young e Riley
hanno naturalmente preferito rivestire di rigore formale e strutturale le suggestioni
cageane, sostanziandole sovente (in particolare, Glass e Reich) di un drive ritmico
quasi jazzistico e di sonorità liquide ed elettriche proprie della stagione del rock e
del pop, che non a caso, come accennato, ha finito a sua volta per appropriarsene,
da do luogo ad u ulte io e si etis o. You g e ‘ile ha o o di iso, ell epo a
gio a ilisti a del flo e po e la te sio e e so il o segui e to degli stati al-
terati di coscienza, quei paradisi di beatitudine sonora e spirituale, mistica e liser-
gi a, he pote a o pe segui si a he sulla ase dell utilizzazio e siste ati a del li-
quido organo elettrico di Riley di A Rainbow in a Curved Air o del morbido ma incal-
zante piano elettrico di Glass in Music with Changing Parts. E che in qualche modo
ha o p efigu ato le te ati he e ologiste e g ee sulle uali si soffe a a he,
in alcuni passi, questo saggio.
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All epo a della pubblicazione del mio primo libro, Musica e pubblico giovanile
(1980), dopo a e a alizzato l i patto che il rock, il jazz e anche le avanguardie mu-
sicali avevano avuto sulla cultura sociale e politica dei giovani in Italia tra gli anni
sessanta e i settanta, avevo espresso il timore che il isog o di usi a , così domi-
nante tra i membri della mia generazione, si stesse trasformando in un più anonimo
e generico bisogno di suoni . Pareva che prendesse piede il desiderio di adattarsi
comodamente a un ambiente sonoro il più possibile innocuo. Non immaginavo an-
cora che mi sarei presto dedicato a indaga e l esteti a della cosiddetta usi a
d a ie te , né che il mio interesse per la musica minimalista, che già avevo, sa-
rebbe cresciuto al punto di farmi venire il desiderio di forzarne per così dire il se-
greto, che era poi riassumibile in un misterioso piacere della ripetizione.
Nessuna musica è mai stata estranea alla ripetizione di temi, ritornelli, strofe e
st uttu e it i he. ‘ipete il da apo delle a ie a o he, ipete l esposizio e ella
forma sonata, ripete il minuetto dopo il trio, almeno fino a Bruckner. Ma ecco, ap-
punto dopo Bruckner, i compositori cominciano a trovare insopportabile la sem-
plice ripetizione di informazioni musicali già fornite. Vengono presi dalla smania di
aggiungere sempre di più, fi o ad a i a e, o l a a gua dia se iale, alla p oi i-
zio e p esso h assoluta di ipete e al u h . Ed p op io al ul i e dell a e -
tu a dell a a gua dia, agli i izi degli a i sessa ta, he i izia a fa si st ada la con-
trotendenza del minimalismo, le cui prime opere sono tutte basate sul fascino ri-
s ope to e spesso, pe l O ide te, e a e te uo o, della ripetizione di brevi cel-
lule – anche interminabile, anche ossessiva – e delle modalità attraverso le quali tali
brevi cellule sonore sono sottoposte a processi di microvariazione che alterano in-
cessantemente lo sfondo senza mai creare una figura dominante.
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prodotto fino allora Brian Eno da solo, in particolare Discreet Music e Music for Air-
ports. Ora volevo andare più a fondo. Volevo capire.
Le mie prime riflessioni, che partirono proprio da Brian Eno, miravano dunque a
definire che significato avesse assunto il termine ambiente presso la nuova scuola
di compositori o non-compositori (come Eno stesso si dichiarava). L ambiente era,
prima di tutto, una struttura organizzativa, una disposizione spaziale di vie di suono
e di ostacoli al suono stesso. Ma questa disposizione era presente nella musica
stessa. La usi a d a ie te o o upa a u o spazio già o ga izzato i p e e-
denza, come la sala da concerto, il jazz lu , l a e a rock, la discoteca o gli spazi del
lavoro e della festa dove nasce la folk music. No, la usi a d a ie te reclutava lo
spazio o e pa te della sua stessa st uttu a. Allo stesso odo, l uso di se ue ze
auto-organizzate o strategie oblique non faceva di Brian Eno un seguace della mu-
sica aleatoria degli anni cinquanta. La differenza tra Music Walk di Cage (1958) e
Music for Airports di Eno (1978) era la stessa che corre tra un attrezzo meccanico e
un aggeggio elettronico. Se Cage era un inventore di suoni (un inventore più che un
compositore; così l a e a defi ito Arnold Schönberg, avendolo avuto come stu-
dente), Eno era un programmatore di sonorità, più interessato al software che allo
hardware. Il suo affida si all intuizione era basato sulla sorpresa di scoprire ciò che
le sue estensioni tecnologiche erano capaci di fare senza di lui. E se le estensioni
te ologi he o p odu e a o ie t alt o he ipetizio i dello stesso pattern
u e e tualità he Cage o a e e a ettato , a da a e e lo stesso.
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La differenza tra la vecchia avanguardia e la nuova stava dunque nel rifiuto o
ell a ettazio e della ipetizio e. Cage incorporava il caso nelle sue composizioni,
ma si e a fo ato ell a ie te del se ialis o st uttu ale, in cui ogni ripetizione di
motivi, di altezze o anche solo di configurazioni sonore veniva considerata presso-
ché una bestemmia. Cage era anche un lettore di Henry David Thoreau e aveva as-
similato la filosofia del trascendentalismo individualista. In una tale visione del
mondo la ripetizione portava solo all i diffe e za, osa inaccettabile perché
ognuno è differente. Per la generazione di Cage, il rifiuto della ripetizione era una
questione di etica, ma i giovani non la vedevano così. Per Terry Riley e LaMonte
Young, per Reich e Glass, per John Adams e Meredith Monk, per Wim Mertens e
Simeon ten Holt, come anche per Michael Nyman, Gavin Bryars e le derivazioni
elettroniche dei Tangerine Dream e di Klaus Schulze, senza dimenticare le strutture
iterative incluse dai Soft Machine in Six e Seven, la ripetizione non significava indif-
ferenza bensì modularità, praticità, opportunità, e di conseguenza la possibilità di
lavorare all i fi ito su unità discrete, una volta che venivano poste in sequenza (una
sequenza o qualunque sequenza).
Ciò he i att ae a ell esteti a del i i alis o e a che i compositori della mi-
nima differenza avevano rivoltato il mio mondo musicale da capo a piedi. Negli anni
settanta, io ero un devoto del free jazz, dell a a gua dia europea e delle frange più
cerebrali del progressive rock. Cercavo l a o ia i aspettata, il ti o i audito, il
cambiamento improvviso d intensità, la sorpresa continua in termini di gamma di
altezze e di masse sonore. L ulti a cosa che mi aspettavo era di provare piacere ad
ascoltare una musica nella quale e a appa e te e te poco da aspettarsi, se non
che proprio quella mancanza di aspettative inevitabilmente alza a il io li ello d at-
tenzione. Stavo scoprendo, in altre parole, che i minimalisti fornivano un surplus di
informazione p e isa e te sott ae do l i fo azio e stessa. L a usa di totale
anonimità rivolta al loro materiale da costruzione era riduttiva. Parecchi anni dopo,
in un mio altro libro che trattava un tema completamente diverso (Lo spazio ma-
te o dell ispi azio e, 2004), avrei articolato la struttura teorica che mi avrebbe per-
messo di cogliere, retrospettivamente, in che senso il minimalismo stesse lavo-
rando con pre-significanti pre-discorsivi, ma non per questo pre-logici.
In sostanza, e come ho già detto, la posta in gioco era il piacere. Perch l osti-
nato, interminabile rincorrersi di minime cellule sonore dava piacere proprio a quel
pubblico (non numerosissimo, ma a quei tempi consistente) cresciuto con il jazz e
l a a gua dia, come potei constatare in un concerto del Philip Glass Ensemble a
Milano nel 1985? E perché dava piacere a me? O non era piuttosto un piacere
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perverso, una sorta di jouissance musicale piuttosto che un piacere?1 Il Pierrot lu-
naire di Schönberg e Le Marteau sans maître di Boulez mi davano piacere. Anche
un assolo di Frank Zappa o di Robert Fripp mi davano piacere. Ma era lo stesso tipo
di pia e e he p o a o ell as olta e Music for 18 Musicians di Steve Reich? Perché
provavo un istante di soddisfazione quasi fisica (anzi, proprio fisica) ogni volta che
percepivo un lieve clinamen in una sequenza, dal momento che avrei potuto rica-
vare molte più soddisfazioni, per modo di dire, dalla Terza Sonata per pianoforte di
Boulez, se tutto uello he ole o e a l i essa te mutamento? O non era possibile
il o t a io, io he fi o a uel o e to a e o soffe to l a a gua dia se iale e
materica facendomela perversamente piacere a tutti i costi, mentre ora regredivo
felicemente al puro piacere di sapere che la gamma dei suoni che mi attendeva
prometteva sorprese, sì, ma non proprio sconvolgimenti? Era una domanda insi-
diosa per uno che aveva scritto la sua tesi di laurea su Arnold Schönberg e che let-
teralmente venerava la doppia triade formata da Nono, Berio e Maderna, e da Bou-
lez, Ligeti e Stockhausen. (Solo in seguito vi avrei aggiunto Iannis Xenakis e Giacinto
Scelsi, che allora non conoscevo.)
A metà degli anni ottanta non ero ancora abbastanza ferrato nella compren-
sione della comunicazione pre-discorsiva per poter articolare in maniera soddisfa-
cente la uo a fe o e ologia dell as olto he e a o di odella e a pa ti e dalla
mia esperienza. Nel linguaggio della vulgata lacaniana, potrei oggi arrischiarmi a
sostenere che quelle cellule musicali a volte ridicolmente semplici erano permeate
dalla sostanza del godimento precisamente perché resistevano ad essere tradotte
in significanti completamente formati.2 Nel lessico della semiotica di C. S. Peirce,
che allora mi era più familiare, quelle cellule musicali appartenevano allo stadio
della Firstness (sensazione, possibilità, vaghezza, qualità non determinata). Ripe-
tendosi, o mostrandosi indifferenti alla loro ripetizione o sparizione, resistevano
la da e te all i e ita ile passaggio alla Secondness (relazione, attualità) e solo a
malincuore si consegnavano alla Thirdness (rappresentazione, necessità). Al contra-
rio, uelle po e e ellule usi ali preferivano insistere quanto più potevano nel
loro nucleo di non-signifi a za pe h do e u sig ificato completamente
1
In gergo freudiano, il piacere della ripetizione ha una connotazione ossessivo-compulsiva
legata alle pulsio i dell Ego alt i e ti dette pulsio i di o te perché, al contrario del pia-
e e e oti o, ha o o e s opo la sop a i e za dell i di iduo e o uella della spe ie .
Lacan introduce la nozione di jouissance per differenziare il godimento o brivido della pul-
sione di morte dal plaisir erotico.
2
‘i a o la fo ulazio e da “la oj Žižek, Looking Awry, p. 39 (traduzione dell auto e).
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formato i può esse e pia e e a o godi e to. I tutto iò he allora scrivevo
sull a go e to, gi a o intorno alla questione senza affrontarla davvero, ma oscu-
ramente sapevo che il problema stava lì. Nel 1985 avevo perfino scritto un breve
articolo ui ip eso i pa te ell ulti o apitolo sulla musica e il piacere della ri-
petizione per una rivista che cercava di popolarizzare Lacan in Italia.
Ma non ero cieco alle implicazioni sociopolitiche della calcolata passività del mi-
nimalismo. Marius Schneider a e a t o ato u a pa titu a usi ale as osta ell a -
chitettura della Cattedrale di Sant Cugat in Catalogna (Schneider 1976). Se la musica
scolpita nelle colonne di Sant Cugat rapprese ta a u a o u ità armonica di sog-
getti politici e religiosi, ebbene, Music for Airports celebrava la comunità senza volto
dei viaggiatori che si incontrano negli aeroporti- atted ale, a o iosa e te uniti
dai loro rituali di acquisti duty-free, assunzione di cibo, passare i controlli di sicu-
rezza e mostrare i biglietti al personale di terra per scomparire infine nel grembo
degli aeroplani. Il minimalismo era una forma sofisticata di darwinismo musicale.
Lo stesso concetto di ambiente, dopotutto, aveva implicazioni biologiche, ecologi-
che, antropologiche e in ultima analisi biopolitiche, la cui ideologia consisteva nel
soste e e he solo l a ie te e ie t alt o he l a ie te fa usi a. L ambiente
selezionava la se ue za iglio e, l a ie te riduceva la gamma delle mutazioni
possibili al numero di quelle che avevano la migliore possibilità di sopravvivenza.
Tutta ia il p o esso o a e a ie te di atu ale. A ie te e a solo u alt o odo
di chiamare lo stato attuale dei rapporti di produzione che ponevano sé stessi come
forme naturali di produzione e di scambio.
Il concettualismo di Lucier era ben più radicale di quello di Eno, che dopotutto
i a e a spe ula e all a ie te i osta te. Gli spe hi i fi iti della copertina di
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No Pussyfooting di Eno e Fripp erano, a tutti gli effetti, una dichiarazione di poetica.
No alt o, olt e a uello he ie e iflesso, a la iflessio e i a e, all i fi ito.
Lucier metteva invece in s e a l agg essi ità dell a ie te: dato u u e o n di
registrazioni, qualunque testo o ualu ue usi a sa e e stata idotta a u onda
fluttuante. U passaggio t iste e te ele e dell Estetica di Hegel (che il lettore
troverà citato nel capitolo su Lucier), mi aveva fatto pensare che I Am Sitting in a
Room fosse il colpo di grazia a quel che era rimasto della soggettività fenomenolo-
gico-trascendentale. Il suo autore, se Lucier poteva essere definito un autore, aveva
avuto l auda ia di ette e i s e a la eta o fosi del ompositore in mobile da
salotto. Solo la stanza selezionava ciò che il pubblico avrebbe ascoltato. Niente ri-
verberava dai muri della stanza di Lucier che non fosse stato previamente autoriz-
zato dall a ie te stesso.
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della decima sinfonia di Mahler (di William Basinski e dei suoi loop parlerò nella
postilla fi ale . C giustizia poeti a el fatto he Philip Glass abbia voluto orche-
strare Icct Hedral di Aphex Twin (Richard David James). Bisogna riconoscere i propri
discendenti, così come bisogna onorare i propri antenati. È per questo che vale la
pena di ritornare alle radici di un movimento che di fatto ha cambiato la storia della
musica.
La magia delle performance di Alvin Lucier (alle quali ho assistito alla Brooklyn
Academy di New York a metà degli anni novanta) consisteva nel suo disincantato
sciamanismo, i o i o a assi u a te. La p ese za dell ideato e sul palco riaffer-
mava che comunque qualcuno deve pur dare inizio alla performance, qualcuno
de e o ga izza e l a ie te el uale essa si s olge, a he se il isultato fi ale
proprio la scomparsa di quel qualcuno. Il problema critico da affrontare era dunque
la o t apposizio e t a la usi a he i te agi a atti a e te o l a ie te Lu ie
ispetto all esteti a del asuale The ‘eside ts). Era possibile trovare un terreno co-
u e t a l as olto st uttu ato di ui pa la a Ado o e l as olto post ode o pe
essenza distratto (che non è la stessa cosa del non-as olto dei o e sali all epo a
della Tafelmusik ? Di fatto, l esteti a dell udire senza ascoltare si stava già co-
struendo un suo repertorio.
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e rispetto alla quale si può restare totalmente indifferenti, segnala che il mondo è,
al o e to, u auto o ile essa i folle o u o pute i sta d-by. Ma, soprat-
tutto, fanno sapere che sta ancora funzionando, e he du ue l apo alisse i i-
e te a o attuale. Il u o e u a a o tale, di e a Attali segue do gli studi
antropologici di René Girard. La musica, che è suono organizzato e quindi socializ-
zato, è un rito sacrificale che tiene il Reale del rumore a distanza di sicurezza.
Qualunque musica? Attali parla di musica registrata e perciò rimossa dal rito co-
u ita io. Mettia o pu e da pa te l o ia o iezio e che la musica registrata non
ha mai ucciso la musica dal vivo. Forzando l a go e tazio e di Attali, si può però
sostenere che la musica iterativa andava dritto al cuore della questione. Invece di
offrire suoni da ripetere nel contesto di un rito, offriva un rituale prêt-à-porter, una
sorta di sacrificio preconfezionato. Si ritualizzava da sola, senza aspettare che la
comunità, troppo affaccendata da altri impegni, ponesse tempo a ritualizzarla. Il
i i alis o i so a e a u esteti a ad hoc, fatta apposta pe l età della so ap-
produzio e a tisti a e del so a u ulo d i fo azio e. E a, pe alt o, u a isposta
intelligente, sensibile, e anche molto astuta. È anche possibile vedere nel minimali-
s o la usi a dell ideologia della es ita ze o, la muzak che il tristemente celebre
Club di Roma potrebbe tenere in sottofondo durante i suoi convegni.
La prima mossa (ed era qui che entrava in gioco Big Science) consisteva nella
beautification della tecnologia, nel renderla ideologicamente attraente. La tecnolo-
gia doveva superare lo stadio farraginoso della macchina futurista-modernista e
pe e i e alla ellezza lis ia e fluida dei istalli li uidi. La uestio e della te i a
che aveva tormentato Heidegger stava per essere rimpiazzata da ben altra
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questione, e cioè quanto poteva essere bella la tecnica stessa, perché finché la tec-
nologia è bella possiamo pensare di vivere in un mondo bello. Questa nuova e bella
tecnologia aveva bisogno di un management. O, per riferirci a un celebre detto di
McLuhan, se l a tista o te po a eo uole e ita e la atast ofe, de e sposta si
dalla to e d a o io a uella di o t ollo.
Negli a i otta ta e o a ta l estetica del rock oscillava tra i poli opposti di Wel-
come to the Machine (dei Pink Floyd) e Rage Against the Machine (il gruppo forma-
tosi in California nel 1991). In realtà, il rock stava invecchiando perché la chitarra
elettrica e perfino il sintetizzatore Moog erano ancora macchine, mentre il MIDI
Sampler non lo era già più. Per la sua capacità di operare un taglia-e-incolla su qua-
lunque materiale registrato, il MIDI non era uno strumento meccanico. Era
u este sio e delle a i e a zi ipo ta a il usi ista i diet o el te po, dalla fu -
zione sacerdotale-giulla es a assu ta ella ode ità all atti ità p i iti a del a -
ciatore-raccoglitore.
Ecco, questo era il libro che avrei dovuto pubblicare dopo Musica e pubblico gio-
vanile. La mia partenza per gli Stati Uniti nel 1987 e un cambiamento di orizzonte
la o ati o all i p o iso, e o di e tato u p ofesso e di lette atu a italia a
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lasciarono incompiuti molti progetti. Il fatto che quel libro di allora, scritto inizial-
mente tra il 1982 e il 1986 nella forma di articoli e saggi (quasi tutti pubblicati su
Musica/Realtà e sui Quaderni della Civica Scuola di Musica) e al quale sono ritor-
nato nel 2005, sia completo solo adesso, non mi sembra un elemento a suo sfavore.
L epo a d o o del i i alis o e il a ia e to della pe ezio e della usi a a -
e uto egli a i otta ta, ua do il pop o e usi a e o e ideologia p ese il
sopravvento sul rock e sul resto, hanno poi influenzato tutti gli anni a venire, inclusi
i ost i ui ed o a. È il aso allo a di to a e al o e to dell inception con cogni-
zione di causa per constatare che cosa avevamo visto e su che cosa eravamo stati
ciechi. E poi, possiamo progettare tutti i libri che vogliamo, ma non siamo noi che li
finiamo; sono loro che decidono quando vogliono essere finiti. Gli autori che lo
sanno, non devono far altro che obbedire a loro.
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Nel 1995, a New York, avevo cercato di visitare la Dream House, che mi
dicevano stesse ancora risuonando, ma un paio di tentativi andarono a
vuoto. Qualcuno mi diresse allora e so u alt a asa-installazione nel
cuore di Soho, vicino alla sede downtown del Museo Guggenheim. Era la
Earth Room, un intero appartamento al terzo piano, vuoto di mobili e per-
sone e bianco di pareti e finestre, con una coltre di terriccio nero sparso
uniforme e te sul pa i e to. Nessu filo d e ba, niente vegetazione, ma
la terra non era secca e e a u se to e di u idità o t ollata ell a ia.
No si pote a e t a e, o e a o se tie i passe elle, si pote a solo
osse a la dall i g esso e spi ge e lo sgua do verso le altre stanze. Era
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come gettare lo sguardo su un sogno che qualcun altro stava sognando, una scena
che avrebbe potuto dipingere Magritte. La coltre di terriccio t asfo a a l appa ta-
e to i u a se a t aspo tata su u ast o a e, o e se lì, oltre quella porta, si
fosse raccolto tutto ciò che si potrebbe salvare del nostro pianeta se un giorno lo
dovessimo abbandonare (e che cosa si potrebbe salvare del pianeta Terra, se non
la terra?). Ma dava un grande senso di pace. E sembrava ne venisse un suono. Nulla
di individuabile, nessuna altezza riconoscibile, nessuna frequenza percepibile. Era
un suono nero come quel terriccio che probabilmente era stato raccolto nelle cave
di Staten Island o del New Jersey: un suono interno, centrifugo, che attirava a sé
i e e di spa de si ell a ia, e he fa e a e i oglia di hi a e l o e hio e di po-
sarlo sulla terra umida.
Come gli antichi Indù, gli architetti del Medioevo credevano che le pietre fossero
musica congelata, e racchiudevano complesse simbologie musicali nella costru-
zione delle loro cattedrali. A Sant Cugat, in Catalogna, i capitelli delle colonne della
atted ale o ispo do o si oli a e te alle ote dell i o Iste confessor, alle fi-
gu e dell a o ast ologi o, ai o i e ti della da za delle spade e agli usi te apeu-
tici delle moresche. L uomo del medioevo non lasciava nulla al caso, né si curava
che il mondo si accorgesse o meno della sua meticolosità, perché la percezione
dell o di e he a da a ipete do elle sue ost uzio i o e a desti ata a uesto
mondo. Solo negli anni quaranta il musicologo Marius Schneider scoprì il segreto
delle pietre cantanti, che nessuno scritto aveva preservato.
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Si veda anche la conferenza del 1979, The Studio Recording as a Compositional Tool, che
si può ascoltare su http://techcrunch.com/2016/03/28/revisiting-brian-enos-the-studio-as-
a-compositional-tool/. U a t as izio e pa ziale, us ita su Do eat el , dispo i-
bile su http://music.hyperreal.org/artists/brian_eno/interviews/downbeat79.htm
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o t ollo di pa te della p op ia a ietà atu ale pe s iluppa e la p op ia affida i-
lità p e edi ilità . Il te i e a ietà è usato nel senso che gli dà la cibernetica
(W. Ross Ashby), per ui la varietà di un sistema è la gamma totale delle sue pro-
duzioni, la gamma intera dei o po ta e ti . Nei fatti, Brian Eno, dopo aver pro-
grammato (progettato) un sistema dotato di un numero di varietà, anche interve-
nendo il meno possibile sul configura si di , , …, assu e X come legittima
di diffusione pubblica attraverso il disco. Altre configurazioni, naturalmente, po-
tranno essere proposte nelle esecuzioni dal vivo. Una configurazione, un risultato,
è una possibilità realizzata, ma una soltanto: una debolissima luce che per un attimo
si alza sull i tatta supe fi ie delle pe utazio i o giu te alla manifestazione acu-
stica. Dunque ascoltia o u e e tualità solo pe pe epi e l asse za di tutte le pos-
sibili altre? Brian Eno aggi a l osta olo facendo capire che la sua non è musica da
ascoltare quanto piuttosto da udire, come il segnale di una nuova natura nella quale
l o da di u si tetizzatore EMS occupa il posto di ogni possibile suono, così come il
canto di un uccello, per chi cammina senza alzare gli occhi, non ha nulla a che ve-
de e o il o po dell u ello he o eta e te lo e ette. Questa però non è la
musica di Brian Eno. È la sua estetica e la sua ideologia; sono le sue istruzioni per
l uso. Brian Eno ha basato molte delle sue composizioni, soprattutto quelle legate
ai progetti Discreet Music e Ambient Music, su sequenze casuali. E ne ha teorizzato.
I o posito i he egli a i segui o o e diffuse o l aleato ietà ha o fatto la
stessa cosa. Eppure Brian Eno non è semplicemente un epigo o i ita do dell alea,
e neanche il suo astuto divulgatore.
Si sbaglierebbe a dare troppa importanza ai suoi primi lavori del 1969 nel campo
della musica sperimentale: la Scratch Orchestra di Cornelius Cardew, i due dischi
della Portsmouth Sinfonia pe l eti hetta Transatlantic. È il periodo in cui Eno sco-
p e, dopo u pe iodo di i te esse pe la pittu a, he l u i o st u e to usi ale he
lo affascina davvero è il registratore, e ne ricava un manifesto teorico intitolato Mu-
sic for Non-Musicians, in cui teorizza he l u i o odo pe las ia e spazio alla crea-
tività libera, perché l e e tuale si ealizzi senza limitazioni, è quello di far musica
se za o os e la. A e e la e te uota , condizione che anche Stockhausen in
u i te ista italia a all epo a della p i a alla “ ala di Donnerstag (1981) aveva in-
o ato o e i dispe sa ile pe la eazio e, la ostalgia dell uo o so a a i o
di informazioni. John Cage, il gruppo Fluxus, Cornelius Cardew prima della svolta
maoista: questa è la genealogia di Music for Non-Musicians. Di quattro, cinque anni
più ta di l ela o azio e delle Oblique Strategies, u gio o agea o de i ato dall I-
Ching e che materialmente prende la forma di un mazzo di carte ognuna delle quali
o tie e l i di azio e di u operazione da eseguire. Ogni carta è funzione di un av-
venimento, sonoro o no a seconda dei casi, che sta alla base di tutte le possibili
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