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Il Blues
Einaudi
Premessa
Per poter raccontare la storia, e le storie, del blues, cosí come quelle dei
suoi protagonisti, bisogna innanzitutto provare a capire cos’è il blues. E
questa è la domanda piú difficile cui dare una risposta univoca. Perché il
blues è una e mille cose al tempo stesso. È un genere musicale, innanzitutto,
con un decorso storico, uno sviluppo stilistico, un processo espressivo che
parte dal Delta del Mississippi e giunge fino all’Europa, invadendo la
popular music, permeando il sistema simbolico afroamericano,
costituendosi come ingrediente decisivo nella costruzione di un’identità
sovente negata.
Però il blues non nasce dal nulla, all’improvviso: è il frutto di un
travagliato e doloroso processo di adattamento degli schiavi africani alla
loro nuova terra, e porta dentro di sé tracce indelebili della cultura africana,
dei suoi riti e delle pratiche sociali e religiose. Adattamento vuol dire anche
provare a riflettere sulla propria condizione, sul proprio ruolo nella società,
riuscire a sopravvivere alla discriminazione, alla violenza, alla
segregazione: il blues, allora, diventa un sentimento, una disposizione
d’animo, un modo di guardare alle cose, di capirle attraverso un filtro
esistenziale ben preciso, dalle caratteristiche fortemente etniche. Non è un
caso, dunque, che l’origine stessa del termine blues sia ancora discussa. Ma
sembra ormai accertato che derivi dall’espressione «to have the blue
devils», ovvero essere in uno stato mentale incline alla malinconia.
L’espressione circolava fin dal XVI secolo, ma il termine blues inizierà ad
affacciarsi nella lingua americana come marcatore del relativo genere
musicale solo agli inizi del Novecento. Prima di allora, quindi, quello che
chiamiamo blues probabilmente esisteva già, ma veniva chiamato in altri
modi.
Il blues è anche una forma: un particolare sistema, cioè, di organizzare il
materiale musicale e il testo all’interno di un brano. Molte sono le
innovazioni che i primi bluesmen, sebbene rozzi e con nessuna educazione
musicale alle spalle, seppero incastonare nelle leggendarie dodici misure di
una strofa blues: dalla tripartizione della strofa cantata (due versi uguali e il
terzo, in rima, che conclude il ragionamento), al giro armonico,
all’intonazione, all’espressività vocale e strumentale, al fitto dialogo tra
voce e chitarra. Una disposizione formale aperta alle piú numerose varianti,
formulaica e modulare per poter essere utilizzata nelle circostanze piú
eventuali, ma anche cosí morbida e flessibile da assecondare ogni piú
minuta e profonda sfumatura.
Le prime testimonianze registrate del blues risalgono agli anni Venti: a
inaugurare la tradizione fu Mamie Smith col suo Crazy Blues, pubblicato
dalla OKeh nell’agosto del 1920. Vendette centinaia di migliaia di copie, fu
un successo clamoroso, e soprattutto inaspettato; ma il blues, il vero blues,
aveva già qualche anno alle spalle prima di essere catturato su vinile, e già
nella versione di Mamie Smith appariva come addomesticato, piegato a una
nuova esigenza di comunicazione e intrattenimento. Il problema, in realtà, è
che non avendone nessuna traccia registrata, non sappiamo come suonasse
il blues delle origini; e sono molti gli aspetti che ancora si devono accertare
con precisione.
Impossibile determinare, ad esempio, quando e dove è nato il blues, al
pari di altre grandi forme d’arte, come la tragedia greca o la commedia
dell’arte, o il jazz, per restare in un territorio musicale ed espressivo
contiguo. Tutto quello che possiamo fare è analizzare le testimonianze,
vagliarne l’attendibilità e la consistenza. Da queste, avremo un quadro non
sempre convergente, ma con elementi condivisi: il quando è una scheggia di
tempo che va dalla fine del XIX secolo, gli ultimi due decenni, ai primi anni
del secolo successivo. Il dove è, con ogni probabilità, il delta del
Mississippi: una vasta piana alluvionale che sorge alla confluenza di due
fiumi – il Mississippi, appunto, e lo Yazoo –, e si estende all’incirca da
Memphis a Vicksburg: una terra fertilissima in grado di produrre, dall’inizio
del XIX secolo, ingenti quantità di cotone, alla cui raccolta fu destinato un
gran numero di schiavi, e successivamente ex schiavi. Con ogni probabilità
l’epicentro fu molto piú ampio, fino a comprendere la Louisiana e il Texas,
ma su questo le opinioni discordano.
Su come suonasse il blues delle origini abbiamo soltanto dei testimoni:
viaggiatori, musicisti, persone che a vario titolo si trovarono in quella parte
degli Stati Uniti tra il 1880 e il 1910, talmente colpite da un’espressione
musicale assolutamente nuova e strana, suonata e cantata dai neri
americani, da tenerne nota e memoria nei propri taccuini.
La prima e piú celebre testimonianza su come suonasse il blues delle
origini l’ha fornita W. C. Handy nella sua autobiografia. Il grande
musicista, uno dei padri putativi del blues, si era trasferito a Clarksdale per
dirigere un’orchestrina. Una sera, in un punto imprecisato del 1903, si
trovava alla stazione di Tutwiler, a quindici miglia da Clarksdale,
aspettando il treno che l’avrebbe riportato a casa. Il convoglio aveva
accumulato nove ore di ritardo e Handy si appisolò su una panchina,
nell’attesa. Il suo sonno fu interrotto dal suono di una chitarra: un nero,
male in arnese, gli si era seduto accanto e aveva iniziato a intonare una
musica strana, «la piú strana che avessi mai sentito», scrisse Handy. La
chitarra emetteva un suono quasi umano, triste, e l’effetto era provocato
dalla lama di un coltello che scivolava sulle corde, «alla maniera dei
chitarristi hawaiani». Nella strofa, l’uomo cantava un verso tre volte,
sempre identico, seguito da una risposta della chitarra: «Goin’ where the
Southern cross the Dog». In una pausa, Handy gli chiese cosa volesse dire
quella frase, ma il musicista lo guardò divertito e non rispose. Solo dopo
comprese che il nero doveva andare a Moorehead, dove si incrociavano due
linee ferroviarie, la Southern e la Yazoo & Mississippi Valley, da tutti
chiamata “the Yellow Dog”. Stava semplicemente descrivendo la sua attesa
del treno per Moorehead, e lo faceva improvvisando una strana musica, mai
sentita.
Poche settimane piú tardi, Handy vide per la prima volta in azione una
blues band, che su richiesta del pubblico si alternò all’orchestrina da lui
diretta per eseguire qualche brano danzabile. Il gruppo, formato da
mandolino, chitarra e contrabbasso, suonava una musica ossessiva, fatta di
intere sezioni ripetute senza che si capisse dove iniziavano e, soprattutto,
quando sarebbero finite. Al termine dell’esecuzione, gli spettatori
sommersero i tre musicisti di una cascata di monete, e Handy in quel
preciso istante comprese «la bellezza di quella musica primitiva. Quella
notte – aggiunse – è nato un compositore».
Un’altra importante testimonianza è quella di Charles Peabody. A
differenza di Handy, questi non era un musicista, ma un archeologo, che su
commissione della Harvard University era andato a scavare un tumulo
indiano nei pressi della piantagione Stovall, nella contea di Coahoma. A
colpirlo fu il fatto che i neri assunti per l’attività di scavo accompagnavano
il lavoro eseguendo una fitta e diversificata serie di espressioni vocali:
«distici e improvvisazioni piú o meno fraseggiati cantati cercando di
intonarsi a una melodia piú o meno formata. Queste strofe erano di carattere
generale, con riferimento ad abitudini, costumi ed eventi della vita dei
negri, oppure venivano improvvisate al momento», come annotava in un
importante articolo pubblicato nel 1903 su «The Journal of American
Folklore». Sebbene non fosse un musicista, Peabody si impegnò anche a
trascrivere molti dei canti ascoltati, dei quali riportò il testo: alcune delle
formule presenti in quei canti sono state utilizzate per tutto il secolo
successivo, e lo sono ancora oggi.
Le affermazioni di Handy e Peabody, tutte riguardanti una zona molto
ristretta del Delta del Mississippi, non sono però le uniche. Gertrude “Ma”
Rainey, una delle prime e piú importanti cantanti di blues della storia,
affermò di aver ascoltato per la prima volta un blues nel 1902 in Missouri,
mentre era in tour con i Rabbit Foot Minstrels. Inserí quella canzone nel suo
spettacolo e, a chi le chiedesse che musica fosse, rispose: «This is the
blues!», per via della tristezza e della malinconia del testo.
Jelly Roll Morton, tra i piú geniali musicisti della storia del jazz,
sostenne invece di aver ascoltato il blues nello stesso anno, il 1902, ma a
New Orleans, eseguito da Mamie Desdumes, una cantante pianista assai in
voga nella Crescent City. Bunk Johnson, uno dei primi jazzisti di New
Orleans, addirittura ricordava il blues nella sua infanzia, quindi attorno al
1880, mentre il pianista Eubie Blake dichiarò che il blues era nato
addirittura a Baltimora.
Se è impossibile dunque rintracciarne un luogo di nascita, un luogo
d’origine il blues ce l’ha senz’altro. Quel luogo è l’Africa.
Parte prima
I miti dell’origine e della nascita
Capitolo primo
Origini. Mother Africa
Che il blues, come tutte le musiche nere, abbia radici e matrici africane è
un dato di fatto incontrovertibile. Ciascuna delle espressioni musicali nate
sul suolo americano dal contatto, dall’interazione e dall’integrazione degli
uomini deportati come schiavi con altri uomini, culture, forme espressive e
artistiche trovate sul suolo del Nuovo Mondo ha prodotto musiche legate e
imparentate tra loro filogeneticamente. Se un alieno ascoltasse il blues, il
jazz, il samba o il tango non avrebbe difficoltà a capire che sono musiche
figlie di una stessa madre, rami di uno stesso albero.
Nel caso specifico del blues, da anni ormai l’interesse di etnomusicologi,
storici e studiosi si è rivolto alla individuazione di tratti specifici, capaci di
creare una corrispondenza univoca tra blues e musica africana. Con risultati
sorprendenti, e qualche inevitabile passaggio a vuoto.
1. Africa Nera.
La ricerca delle radici africane del blues, e della musica nera in generale,
è un ricco e interessante campo di studi inaugurato molti anni fa, e ha
prodotto una discreta messe di studi, ipotesi e teorie. Già dagli anni Trenta
l’antropologo Melville Herskovits – al quale si devono le prime illuminanti
indicazioni sulla sopravvivenza e persistenza di africanismi nella cultura
statunitense –, pur senza voler esplicitamente realizzare uno studio di
carattere musicale, fece emergere nella sua ricerca alcune considerazioni di
eccezionale interesse sulla quantità di elementi stilistici e formali che dalla
musica del Dahomey (l’attuale Benin), la regione da lui studiata piú a
lungo, si erano trasferiti in quelle eseguite dalla popolazione di colore del
Nuovo Mondo. Grande intuizione, ma troppo generosa.
Quella di Herskovits fu infatti un’approssimazione tipica: considerare
cioè la musica di una determinata regione, piccola seppur importante come
quella del Dahomey, rappresentativa di piú vaste aree geografiche. Non si
teneva conto (ma era naturale, visto lo stadio ancora embrionale della
ricerca e la scarsità di dati e conoscenze) di come l’Africa fosse un
continente non solo straordinariamente vasto per dimensioni geografiche e
caratteristiche climatiche e sociali, ma anche estremamente complesso per
la varietà di lingue, dialetti, popolazioni, usi, costumi, pratiche artistiche e
religiose. Col passare degli anni, e il sommarsi dei risultati ottenuti da
ricerche e studi piú numerosi e specifici, la nostra percezione dell’Africa si
è fatta meno confusa, piú precisa laddove è stato possibile risalire a fonti e
testimonianze di una cultura, non va dimenticato, orale. Adesso, perlomeno,
sappiamo dove cercare.
L’Africa è tagliata in due dal deserto del Sahara; l’enorme distesa di
sabbia non divide semplicemente il continente in un Nord e un Sud: separa
piuttosto due grandi aree culturali. Da una parte, quella nord, l’area di
lingua e cultura araba (o afroislamica, per l’esattezza); dall’altra, a sud del
deserto, la cosiddetta regione subsahariana. A fare da cuscinetto la fascia
del Sahel, una lunga striscia di terra, per la maggior parte desertica, estesa
dal mar Rosso all’oceano Atlantico. Immediatamente al di sotto del Sahel,
verso sud, c’è la regione del Sudan (da non confondere con lo stato
omonimo nel nordest del continente): una lingua di terra altrettanto estesa
che avrà, come vedremo, grande importanza nelle teorie sulle radici
africane del blues.
Sudan viene dall’arabo bilâd as-sûdân, la terra dei neri. Proprio
nell’Africa nera, dunque, oltre la solitudine del deserto, vanno cercate le
tracce e i fossili che gli schiavi hanno portato con sé nel Nuovo Mondo. Un
patrimonio ricco e articolato, fatto di pratiche linguistiche, religiose,
musicali, estetiche e sociali. Su queste – nonostante il crudele tentativo,
perseguito con scientifica determinazione, degli schiavisti di separare,
smembrare e rendere innocuo ogni nucleo familiare, linguistico o di stessa
provenienza geografica – gli schiavi africani avrebbero costruito la loro
esistenza sulla nuova, e strana, terra in cui non avevano scelto di abitare.
Alcuni elementi di questo patrimonio sopravvivono in tutte le musiche
afroamericane come tratti espressivi e stilistici di matrice inalienabile, e
naturalmente anche nel blues. Eccone una breve lista: l’uso del call and
response, ovvero della dialettica di domanda e risposta tra solista e coro o
voce e strumento; la peculiare inclinazione all’esecuzione estemporanea,
improvvisata, creata dal nulla di un’ispirazione impalpabile e permanente;
una certa complessità ritmica, fatta di accentazioni imprevedibili, di schemi
spesso asimmetrici, di sovrapposizioni di ritmi; l’uso estensivo di riff,
ovvero brevi cellule melodiche che acquisiscono rilevanza soprattutto
ritmica; l’inestricabile relazione con la danza e il movimento del corpo, sia
di chi esegue che di chi ascolta; l’adozione di una poetica timbrica del tutto
particolare, frutto di tecniche strumentali reinventate, o adattate a strumenti
occidentali, e, in stretta relazione, la tendenza alla produzione di suoni
vocalizzanti, tendenti cioè a imitare le inflessioni della voce; l’uso di
intonazioni apparentemente “sbagliate”, come per esempio nelle blue notes;
e infine la tendenza comune a comporre e cantare canzoni dal forte
contenuto soggettivo, o di commento sociale.
A questi tratti peculiari se ne possono aggiungere altri, di carattere piú
generale, come la tendenza a una forma di canto molto vicina agli aspetti
rapsodici del parlato (speechlike song), o il particolare concetto di brano
musicale: l’idea africana di performance non ha nessuna forma o durata
predefinita, ma si adatta alle circostanze e alle esigenze del momento. I
blues hanno conservato questa caratteristica, abbandonandola solo in
funzione della registrazione discografica, che non permetteva durate piú
lunghe dei tre minuti. Ma il blues non ha tempo o estensione preordinata;
come nota, meravigliosamente, Mellers:
Per quanto la forma del blues possa essere rigida, non ha alcun senso di inizio, di
mezzo e di fine. I blues stanno sempre con noi; e cosí, per fortuna, si crea la possibilità
di qualsiasi arabesco creativo. In questo senso i blues sono non europei, senza il senso
del tempo post-rinascimentale. Qui la musica non finisce, si perde semplicemente.
Il loro sistema matematico non può essere modificato da fattori culturali. Esso è
immune da qualsiasi influenza sociale, culturale o ambientale. Si può cambiare la
strumentazione di un time-line pattern, la sua accentazione, la velocità, il punto di
partenza, e le sillabe mnemoniche usate per insegnarlo, ma non la sua struttura
matematica. Ogni tentativo di cambiarla dissolve il pattern. Per questo motivo i time-
line pattern sono formidabili marcatori diagnostici per rilevare le connessioni storiche
tra certi stili musicali della diaspora africana nel Nuovo Mondo e quelli di specifiche
zone linguistiche del continente africano.
I profili che ottenni dalle mie registrazioni sul campo nel nord della Nigeria e nel
Camerun centrale e settentrionale mostrano un’accumulazione particolarmente densa di
tratti blues in certi generi che lí si ritrovano. Le scale pentatoniche prevalenti nelle
regioni piú interne della fascia sudanica centro-occidentale possono essere collegate in
modo convincente a diverse espressioni del blues.
Sebbene Kubik lasci cadere l’ultima frase con una certa disinvoltura,
essa imprime un marchio importante alle nostre conoscenze sul blues. Le
influenze di tratti stilistici islamici nelle musiche di derivazione africana
erano state già individuate e studiate da altri musicologi, ma mai messe in
cosí forte, e convincente, relazione con le dodici battute.
4. Senegambia blues.
La fascia sudanica centro-occidentale contribuí in maniera
numericamente rilevante alla tratta degli schiavi. Lungo tutto il XVIII secolo
fu costante e numeroso l’afflusso sul suolo statunitense di uomini
provenienti dal Sudan occidentale. La destinazione piú frequente di questi
contingenti era la Louisiana; nel secolo successivo, afferma Kubik,
discendenti di quegli schiavi (deportati dal Senegal, dalla Guinea e dal
Mali) finirono in fattorie del Mississippi e del profondo sud del paese,
alimentando cosí la sopravvivenza dei tratti musicali africani tipici dell’area
di provenienza.
Stando però agli studi di Philip Curtin, furono gli schiavi deportati dalla
zona chiamata Senegambia a rappresentare la fazione piú consistente, senza
la quale non sarebbe stata possibile la ripopolazione del Nuovo Mondo. Per
questo, le tradizioni di quell’area geografica – comprendente i territori di
Senegal e Gambia, e posta all’estremo della fascia sudanica – non possono
non essersi trasmesse alle nuove culture generate sul nuovo territorio.
Prima, però, di proseguire l’analisi, andrà quantificato un ordine di
grandezza che ci permetta di comprendere la consistenza dei vari gruppi
etnici arrivati sul suolo americano.
Quando si parla di numeri e cifre, rispetto alla deportazione di uomini
dalle coste dell’Africa occidentale, è bene perimetrare le conoscenze. Le
stime piú attendibili sulla tragica dimensione della diaspora africana parlano
di undici milioni di uomini e donne catturati, imprigionati e deportati come
schiavi nel Nuovo Mondo nell’arco di quattro secoli. Undici milioni, cioè,
sopravvissero alle durezze inenarrabili e alla crudeltà di un viaggio in mare
aperto ammassati come sacchi e trattati come bestie; secondo alcune fonti,
altrettanti morirono durante le fasi di cattura e deportazione. Di questi
undici milioni di schiavi, solo cinquecentomila furono destinati ai territori
dell’America del Nord, e la quota di quelli provenienti dal Senegambia,
sebbene non precisamente quantificabile, fu sicuramente cospicua. Wolof,
Mandinka e Fulbe erano le etnie piú rappresentate in quel contingente e
tracce del loro passaggio sono assai ben visibili nella cultura americana.
Quindi, ci si è chiesti, com’è possibile che la loro influenza non si sia
trasmessa anche alla musica?
La ricerca di Michael Coolen si è svolta tutta in direzione del
rinvenimento di elementi assimilabili alle culture del Senegambia nelle
musiche afroamericane, e in special modo nel blues. Nel corso di lunghe
ricerche, i cui risultati sono apparsi in un paio di importanti articoli,
l’etnomusicologo ha puntato l’attenzione su un sistema, piuttosto che su
singoli elementi: il sistema è costituito dalla relazione tra uno strumento, lo
xalam, i musicisti che lo suonano e la loro ideologia (xalamkat e gewel) e
una delle musiche che eseguono, il fodet. Lo xalam fa parte della numerosa
famiglia dei liuti africani e, secondo molti, sarebbe il candidato ideale per il
ruolo di progenitore del banjo; come per molti componenti della famiglia,
liuti a puntale di diversa lunghezza e numero di corde, si hanno ampie
testimonianze della sua presenza sia su alcune navi negriere – dove,
secondo alcuni osservatori, gli schiavisti permettevano ai prigionieri di
suonare i loro strumenti come antidoto alla depressione –, che sul suolo
statunitense. I suonatori di xalam, chiamati xalamkat, condividono con i
bluesmen alcuni tratti piuttosto interessanti. Non sono musicisti di
professione, innanzitutto: svolgono un altro lavoro, nei piú svariati settori
(dall’agricoltura alla pastorizia all’artigianato); appartengono a una classe
sociale modesta, priva di qualunque riconoscimento formale (come, per
esempio, un’adeguata sepoltura); sono in grado di accompagnare qualsiasi
attività o rituale.
È possible fare un parallelo fra lo stile di vita degli xalamkat professionisti e quello
dei songsters e bluesmen del Texas e del Delta del Mississippi. Sia gli uni che gli altri
affermano con orgoglio di essere intrattenitori completi. Gli xalamkats (soprattutto i
cosiddetti gawulos), sostengono di essere capaci di cantare la storia corretta, di
raccontare la fiaba appropriata, di citare il proverbio adatto e, piú in generale, di fornire
la musica giusta in ogni circostanza: battesimo, promozione, funerale, comizio politico,
festa privata, matrimonio o qualunque altra funzione alla quale assistano, invitati o
meno.
1. Il fodet utilizza una forma ciclica, in cui frasi musicali sono suonate o cantate in
base all’uso alternato di tonica e centri tonali secondari. 2. Il testo delle canzoni ha una
forma identica, o molto simile, a quella dei blues. 3. Un cantante di norma inizia il fodet
su una nota acuta e gradualmente si muove verso note piú basse alla fine del fodet. 4.
Tradizionalmente, il pubblico del Senegambia preferisce una esecuzione “fredda”
(sumaiata) a una “calda” (kandita), di una certa canzone. L’esecuzione fredda si usa per
esprimere sentimenti piú profondi, e la musica è generalmente meno virtuosistica che
nell’esecuzione calda.
1. Be mang kang
2. Be mang kang
3. Alfa Yaya mansolu
4. Be mang kang.
When you put it up side the wall, it’ll play. I’d say the house must give a sound to it.
Just like a guitar. When I started I didn’t have no radio and I had to have some music
some kind of way. So I put me up a one-strand and made my own music 1.
I motivi di queste canzoni non hanno varietà di melodie, e non richiedono piú
flessibilità vocale di quella che tutti possiedono, visto che tutti si uniscono al coro.
Qualcuno, che ritiene di essere adatto al compito, attacca il canto e da solo esegue
qualche strofa grossolana, talvolta in rima, talvolta in frasi brevi ed espressive, mentre
gli altri si uniscono in coro, e questo va avanti finché un nuovo improvvisatore non
prende il suo posto.
I cantori erano i rematori negri. Uno guidava l’esecuzione, il resto faceva il coro. I
canti erano in parte tradizionali, in parte improvvisati. Erano semplici e genuini, e
consistevano di un solo verso e il coro. Il cantore inseriva nelle sue rudi strofe ogni
argomento o avvenimento, come il luogo dove si era diretti, i passeggeri a bordo, la
moglie o la fidanzata a casa, il suo lavoro o il divertimento nei campi, o alluvioni […] le
voci erano generalmente buone, i brani piacevoli e vari, a volte allegri, a volte tristi.
Erano cantati con amore…
Uno degli strumenti fondamentali utilizzati da Wesley, accanto alla polemica sociale
[…] fu quello della conversione. Il metodismo wesleyano fece un uso sistematico della
predicazione, i cui toni accesi e infervorati saranno ripresi alla lettera dai primi membri
della Chiesa afroamericana.
I predicatori itineranti si rivolgevano a comunità sia bianche sia nere, nelle campagne
del Sud, perché spesso le piccole congregazioni erano separate. Gli schiavi cercavano di
riprodurre i canti in modo consapevole, ma spesso li cantavano diversamente,
sovrapponendovi ritmi diversi da quelli originali, e, spesso, non essendo in possesso di
un vocabolario o di una competenza verbale sufficiente, tendevano a differenziare i testi
da quelli dei bianchi. Musicalmente, gli spirituals, nati in epoca schiavistica, iniziarono
a distinguersi dalle canzoni del folklore principalmente in ragione delle differenze
culturali fra bianchi e neri e della particolare disposizione degli afroamericani per i
ritmi. Mentre i coloni bianchi attribuivano piú rilevanza ai testi che alle musiche (poche
melodie, spesso usate con testi differenti), i nero-americani tendevano a sottolineare
maggiormente l’importanza della musica.
Nel corso di questi incontri la gente doveva cantare a memoria o imparare canzoni
semplici e ripetitive che richiedevano poco impegno per essere memorizzate, dal
momento che non c’erano innari. Nel camp meeting i canti erano nelle mani della gente,
cosí come l’attività esortazionale – pregare, soffrire e altri esercizi fisici – era pensata
dalla e per la gente. I cantori controllavano le canzoni, ma i fedeli si univano al coro,
ripetendo una breve frase o una coppia di versi che stimolava la loro fantasia. Questo
determinò lo sviluppo di canti con passaggi ripetitivi […] Le melodie venivano
modificate secondo le esigenze della strofa in modo che tutti potessero imparare
velocemente. Cosí il song leader conosceva i versi ma tutti conoscevano la strofa e si
univano nel canto su queste o sui versi ripetuti. Questa era democrazia in azione;
ognuno poteva sentirsi parte di questa religione e del suo cantare.
Tra i canti approntati per il camp meeting di Cane Ridge, ce n’era uno
destinato ad avere un qualche ruolo anche nella nascita della musica del
diavolo. È Roll Jordan, composto da Charley Wesley (fratello di John); per
la sua forma peculiare (ogni strofa ripete tre volte lo stesso verso, e a ogni
verso segue una risposta costituita da un breve ritornello), lo studioso
Stephen Calt ritiene abbia fornito uno dei primi scheletri al blues a venire,
anche in virtú del fatto che un simile schema è stato piú volte riutilizzato da
bluesmen di spessore, come Blind Lemon Jefferson o Skip James.
Se l’idea di attribuire un singolo precedente, ben definito, al blues è
sempre rischiosa e offre il destro a controdeduzioni, è invece
incontrovertibile che lo spiritual, la musica religiosa afroamericana, abbia
contribuito alla definizione, e alla diffusione, di una serie di modalità, come
abbiamo visto, e di poetiche comuni ai due ambiti, sacro e profano. Né può
essere smentita la provenienza anche chiesastica del blues: al di là della
celebre affermazione di Mahalia Jackson – «Rock’n’Roll was stolen out of
the Sanctified church», forte ma non fasulla –, sono molti i bluesmen a
indicare nella chiesa, nelle pratiche responsoriali, nella riappropriazione
afroamericana degli innari, musica e testi, l’origine del blues.
Nei primi cinquant’anni del XIX secolo si andò dunque cristallizzando un
repertorio religioso afroamericano imponente per quantità e assolutamente
sorprendente per profondità di ispirazione. Nel momento in cui si
impossessava di materiali bianchi, l’afroamericano li trattava e rielaborava
alla luce della sua originaria esperienza e tradizione, richiamando prassi e
tratti espressivi dalle ricchissime tradizioni africane e impegnando la
propria immaginazione e l’abilità inventiva nella pratica
dell’improvvisazione e della creazione estemporanea, come ci spiega questa
testimonianza dell’epoca:
Chiesi a uno di questi neri, uno dei piú intelligenti, il Sergente Prince Rivers del 1 st
Carolina Volunteers, dove prendessero quelle canzoni. «Le fanno loro, signore», rispose.
«Come fanno a farle?» Dopo una pausa, evidentemente alla ricerca del modo migliore
per spiegarmelo, disse: «Glielo dirò. Il mio padrone mi fece chiamare e ordinò che
avessi una porzione ridotta di cibo e cento frustate. I miei amici ne furono molto
dispiaciuti e, quando venne sera, all’incontro di preghiera cantarono questa storia.
Alcuni di loro erano dei bravi cantanti e ci lavorarono, ci lavorarono sopra finché venne
bene. E questo è il modo. [I’ll tell you, it’s dis way. My master call me up, and order me
a short peck of corn and a hundred lash. My friends see it, and is sorry for me. When
dey come to de praise-meeting dat night dey sing about it. Some’s very good singers and
know how; and dey work it in – work it in, you know, till you get right; and dat’s de
way]».
La musica dei Neri che abbiamo ascoltato può essere collocata all’interno di tre
categorie: le canzoni cantate dai nostri uomini al lavoro scavando o trasportando terra,
senza accompagnamento; le canzoni eseguite dagli stessi uomini negli accampamenti o
in marcia, con l’accompagnamento della chitarra; e le canzoni, senza
accompagnamento, dei Neri del posto […] I nostri uomini avevano la stessa
propensione sia per il canto sacro che per il «ragtime». I canti metodisti della domenica
erano ripetuti in motivi tristi, spesso condotti da un solo esecutore, il leader del coro,
con un ritornello cantato, «tutti»: erano inni di estrema malinconia. Da questi si passava
velocemente, con rapidi cambi, al «ragtime», i cui temi piú diffusi erano «Molly
Brown» e «Goo-goo Eyes».
Riguardo a motivi piú appropriati, la copertura di questa quasi-musica era usata per
trasmetterci messaggi. Un sabato, mezza festività, un canto sbucò dalla buca:
Mighty long half day, Capta-i-n [Infinitamente lunga questa mezza giornata,
Capitano].
E una sera che il mio amico e io giocavamo a mumblely-peg [lancio di coltelli], la
nostra ultima occupazione prima di andare via dal lavoro, il leader del coro intonò una
canzone perché ascoltassimo:
I’m so tired I’m most dead, Sittin’ up there playing mumblely-peg [Sono stanco
morto, seduto qui su a giocare coi coltelli].
Il canto senza parole di Five Dollars, o il grido, lo shout, del nero che
incorpora nel suo verso lo svolgersi del gioco di Peabody rappresentano
segni fondamentali: ci fanno capire, cioè, che le forme vocali
afroamericane, sacre o profane, non avevano nessuna funzione estetica
(tanto che quando Peabody chiede ai suoi operai di replicare le loro
mirabolanti improvvisazioni per sua moglie, questi, intimiditi e confusi,
accennano qualche brano popolare, ma senza particolare convinzione).
Erano, piuttosto, segnali vocali, prove di esistenza, tentativi di mettere le
mani sul mondo esterno attraverso un impossessamento espressivo di
profonda umiltà. Tutto il repertorio di forme vocali profane, che vedremo a
breve, rispecchia questa ineludibile funzione: non si canta perché altri
ascoltino, ma perché capiscano, o localizzino, o per parlare con se stessi e la
comunità.
4. Odom il sistematico.
Prima che la ricerca etnomusicologica professionale setacciasse le
campagne del Delta del Mississippi e i territori del Sud alla ricerca del vero
patrimonio folklorico americano, e dopo il tentativo – casuale ma
importante – di un dilettante, Charles Peabody, trovatosi al momento giusto
nel posto giusto, le informazioni piú preziose, quasi definitive, sulla musica
profana afroamericana le abbiamo dagli studi di Howard Odom.
Laureatosi all’Università del Mississippi, il giovane ricercatore rimase
affascinato dalle neonate scienze sociali, che pretendevano di analizzare i
comportamenti umani con le tecniche di un laboratorio di precisione. La
ricerca sul campo era il principale strumento di questo nuovo orizzonte
culturale, cosí il giovane Odom, da sempre desideroso di comprendere piú a
fondo la natura della popolazione afroamericana, recuperò un registratore a
cilindro, e si mise in viaggio per dimostrare che, in fondo, quella
afroamericana doveva essere una razza inferiore. La sua ricerca, pubblicata
dapprima in un celebre saggio (apparso in due numeri successivi del
«Journal of American Folklore», nel 1911), costituisce la piú generosa
miniera di informazioni sulla musica suonata e cantata dalla popolazione di
colore nelle contee di Lafayette (Mississippi) e Newton (Georgia), tra il
1905 e il 1908. Informazioni scritte, però, perché nessuno dei cilindri
registrati è stato mai ritrovato. Le uniche prove di come si suonasse il blues
prima di diventare il blues si sono perse per sempre con quelle registrazioni:
esse, per Odom, dovevano avere una semplice funzione mnemonica;
attraverso i cilindri doveva poter ricordare e analizzare, e infatti non ne
trascrisse o indicizzò il contenuto. Il pensiero che potessero essi stessi
costituire un documento decisivo non lo sfiorò neppure.
Cosa c’è, dunque, nel lungo e dettagliato resoconto di Odom? Intanto,
una cosa non c’è, e forse avrebbe dovuto esserci. Di fatto, non c’è – ancora
– il blues. Delle centoquindici canzoni trascritte e annotate dal ricercatore,
nessuna è un blues nominale, né alcuno dei musicisti interrogati e ascoltati
dà questa definizione per le forme che utilizza. Il termine blues affiora nel
testo di due canzoni; la prima, Look’d down de road, dice:
La gran parte delle canzoni dei negri può essere divisa in tre classi generali, l’ultima
delle quali costituisce la classe dei folk songs comunemente intesi. Prima: i moderni
coon songs e le piú recenti canzoni del momento; seconda: canzoni largamente
modificate e parzialmente adattate dai negri; terza: canti creati dai negri o adottati
completamente da diventare folk songs della loro tradizione.
5. Canti di lavoro.
Cosa cambia nella prassi del worksong prima e dopo la fine della
schiavitú? In buona sostanza, nulla, tranne lo scenario, gli attrezzi, e il
rischio collegato al lavoro svolto. Nella piantagione, o su una barca, non si
metteva in gioco la propria vita come nei cantieri per l’estrazione della
trementina, nelle grandi falegnamerie a carattere industriale, nella posa
delle rotaie che avrebbero reso le ferrovie un potente mezzo di
comunicazione per la nazione. Era talmente delicato il lavoro che il caller,
il cantante cui spettava il compito di scandire il tempo, aveva quasi status di
manodopera specializzata. William Ferris ha raccolto la testimonianza di un
caller di lunga esperienza.
La gente si chiede spesso da dove viene il blues. Beh, quando ero ragazzo, la gente
cantava nei campi piú che da ogni altra parte. Quando andavano al campo iniziavano a
cantare vecchie canzoni. Uno urlava al vecchio mulo «Forza, muoviti!», e mentre
andava appresso al mulo iniziava ad arare e a cantare. Si cantava al mulo o a chiunque
altro, non faceva differenza. Le chiamavamo old corn songs, le vecchie canzoni del
grano, canzoni con lunghi motivi. E suonavano bene, altro che. Potevi sentirle a mezzo
miglio di distanza, per come cantavano forte. Specialmente appena prima del tramonto.
Sicuramente avevano fatto molta strada. Cosí iniziarono a chiamarle got the blues. Ecco
cos’è che chiamiamo blues. Quelle vecchie canzoni con frasi lunghe. Li sentivi parlare e
uno diceva: «Sapete, il vecchio tizio-e-caio sa veramente cantare il blues!» Non si
usavano strumenti. Solo la voce. Facevano anche le rime, come succede nel blues di
oggi, ma il metro e le frasi erano piú lunghe. Prima di ogni parola si emettevano lunghi
suoni, come un grido o un lamento. Cantavano della loro ragazza o di qualsiasi altra
cosa, il mulo, qualsiasi cosa. Parlavano di tutto, perché l’importante era cantare.
2
«Ho guardato in fondo alla strada, fin dov’è arrivato il mio sguardo | Be’, la band suonava
«Nearer, my God, to Thee». || Ho i blues, ma sono troppo povero anche per piangere! (× 2) || Quando
hai un dollaro, hai un amico | Che rimarrà al tuo fianco nel bene e nel male. || Non sono venuto qui
per rubare la scoperta di nessuno | Non sono venuto qui per scontare la mia pena. || Ho chiesto al
carceriere: “Capitano, come faccio a dormire?” | Il Poliziotto S. si muove furtivo intorno al mio letto.
|| Il carceriere ha detto: “Lascia che ti dica cos’è meglio: | Torna nella tua cella buia e riposati”. || Se il
mio uomo buono se n’è andato, il mio migliore amico mi ha gettato a terra. | Correrò verso il fiume,
salterò giú e annegherò».
3
«Mentre posi i binari dici: | Oh, cammino avanti e indietro per la strada, | Scattando e
precipitandomi a cercare la mia 44. | Ah, ah, tutto il giro. | Ah, ah, tutto il giro. | Poveri ragazzi,
lavorate insieme. | Sarà piú semplice posare i binari.| Oh!».
Capitolo terzo
Origini. Minstrel show e vaudeville: l’intrattenimento vagante
Questi artisti dalla faccia dipinta di nero erano come marionette mosse da un
burattinaio bianco. Il loro aspetto fisico proclamava il loro non-essere umani; essi
potevano essere utilizzati non solo per prendersi gioco di se stessi, ma anche per
comportarsi da esseri umani. Esprimevano emozioni umane come la gioia e il dolore,
l’amore, la paura, il desiderio. Il pubblico bianco si identificava con le emozioni,
ammirava l’abilità del burattinaio, simpatizzando bonariamente con l’aspirazione senza
speranza dei burattini di poter diventare umani. Allo stesso tempo tranquillizzato dal
fatto che non sarebbero mai potuti diventarlo. Per piú di mezzo secolo, il predominio del
fenomeno blackface minstrels sull’intrattenimento popolare segnò l’assuefazione agli
usi della supremazia bianca.
L’artista che piú di ogni altro legò il suo nome allo sviluppo (non certo
all’invenzione) del blues nell’ambito del vaudeville fu W. C. Handy,
rispettatissimo padre del blues, come egli stesso si autodefiní nel titolo della
sua autobiografia. Alle sue rimemorazioni dobbiamo alcune delle prime
visioni del blues all’opera, ma sono i brani da lui composti e pubblicati –
Memphis Blues, The Jogo Blues e soprattutto Saint Louis Blues – ad aver
creato la prima vera grande esposizione popolare per quei “frammenti” di
melodie blues, come amava chiamarli il compositore, attorno ai quali
costruí i suoi successi.
Nonostante, però, fosse stato uno dei primissimi testimoni di una
esecuzione blues, nel suo fortuito incontro con il musicista misterioso nella
stazioncina di Tutwiler, a pubblicare il primo blues a stampa fu –
naturalmente! – un italiano. Antonio Maggio, del quale si sa poco o nulla se
non che era un insegnante di musica a New Orleans, pubblicò il suo
strumentale I Got the Blues («Respectfully Dedicated to all those Who have
the Blues», recita il sottotitolo) nel 1908. Il brano in sé è un ragtime
piuttosto tipico dell’epoca; il blues è limitato a una strofa di introduzione di
dodici misure (in tonalità minore, peraltro), ma se musicalmente è lontano
dal blues, non lo è nello spirito: il titolo, e il sottotitolo, per la prima volta si
riferiscono alla condizione esistenziale dell’avere i blues. La stessa
introduzione riemergerà poi in un paio di brani di Handy, facendo nascere il
sospetto, in Paul Oliver, di un imprestito che i due autori fecero di una
melodia popolare. Il ricircolo di stralci melodici di provenienza folklorica
era evidentemente fatto consueto se si considera che Alabama Bound ha
avuto un percorso simile. Jelly Roll Morton sosteneva di averla scritta nel
1905, ma fu pubblicata quattro anni dopo a nome del musicista di New
Orleans Robert Hoffman. Abbott e Seroff ci ricordano come nel
frontespizio di quell’edizione si puntualizzasse che il brano era già
conosciuto col titolo di The Alabama Blues.
Il primo blues a stampa di W. C. Handy vide la luce nel 1912. Memphis
Blues non è esattamente un blues, quanto piuttosto un rag che lavora su una
progressione armonica simile a quella del blues. Nello stesso anno Hart
Wand pubblicò in proprio Dallas Blues, a dimostrazione che, da un lato,
l’espansione editoriale di spartiti e partiture ebbe favorevoli ricadute anche
sulla diffusione del blues; dall’altro, l’esistenza di spartiti favorí l’adozione
dei brani medesimi da parte di compagnie di vaudeville e artisti di giro.
L’importanza del vaudeville, soprattutto nella sua declinazione “sudista”,
non fu solo nel ruolo di spinta del mercato editoriale, che ancora si basava
esclusivamente su numeri di blues strumentali, anzi: una serie di eccezionali
performer, oggi totalmente dimenticati, calcarono le tavole dei palcoscenici
interpretando un sentimento popolare, di saldissimo legame con la
tradizione afroamericana, che molto assomigliava al blues.
Il fenomeno del varietà del Sud aveva recuperato molta della sua forza e vitalità dalla
gente comune; alcuni dei suoi esponenti piú autorevoli erano passati direttamente «dai
campi al palcoscenico». String Beans, Baby Seals, Johnnie Woods e Little Henry, Willie
e Lulu Too Sweet, Laura Smith – questi erano alcuni dei primi «diamanti blu nel fango»
che proliferavano intorno agli anonimi angoli di strada, nelle taverne, nei jukejoint, nei
depositi ferroviari, oltre che nelle baracche di campagna tipiche della letteratura blues.
Furono i padri e le madri del blues sui palcoscenici americani. Dalla strategica
piattaforma del vaudeville offrirono contributi fondamentali allo sviluppo della «grande
e nobile scuola di musica» americana. Il loro lavoro era pieno di originalità,
caratterizzato dall’autodeterminazione e dall’orgoglio della propria identità culturale
regionale, e fu sempre guidato dalle parole di Baby Seals, che il pubblico non si
stancava mai di ricordare loro: Oh cantali, cantali, cantali i blues, perché mi piacciono
davvero un sacco.
La prima contea che si incontra, appena usciti da Memphis, è anche la piú povera
dello stato, e probabilmente la piú povera contea d’America. Oggi Tunica può vantare il
piú basso reddito pro capite della nazione.
Il Delta del Mississippi è considerato oggi come forse la terra piú depressa
d’America. Sta morendo sotto gli occhi di tutti. Città dopo città il reddito pro capite è
sceso a tal punto che lo stato e gli ufficiali federali provano imbarazzo nel rendere note
le cifre.
2. Storia e geografia.
L’alveo del fiume Mississippi forma il confine occidentale di ciò che
comunemente viene chiamata la piana alluvionale creatasi alla confluenza
dei fiumi Yazoo e dello stesso Mississippi. Il confine orientale è costituito
da una serie di basse collinette che inizia poco dopo Memphis e corre fino a
Greenwood. All’interno dei confini si estende un’area lunga duecento
miglia e larga settanta. Queste settemila miglia quadrate di piana
alluvionale sono quasi completamente piatte. Ed erano molto selvagge,
come ricorda William Faulkner nel suo Big Woods.
Dal punto di vista geomorfico, il Delta è il risultato di secoli di alluvioni
e dei relativi depositi dal fiume Mississippi. È sempre stata una terra di forti
contrasti: povertà devastante e grande ricchezza dei proprietari terrieri;
inevitabili le tensioni e uno stato di costante apprensione, quasi di allarme.
Secondo Cobb, quella terra aveva troppo di tutto: c’era troppo sole, terra
fertilissima, vegetazione, e pioggia, per tenere l’elenco breve. Quando la
Guerra Civile terminò, nel 1865, la terra era ancora selvaggia; soltanto il
dieci per cento era stato bonificato per l’agricoltura, mentre il restante
territorio era ancora allo stato brado. Sebbene la schiavitú fosse stata abolita
ufficialmente con la firma della Proclamazione di Emancipazione nel 1863,
i bianchi mantennero un forte controllo sugli afroamericani: fisicamente, e
grazie ai codici legislativi di stampo segregazionista.
La coltivazione del cotone divenne presto la principale fonte di
ricchezza; le piantagioni funzionavano come piccole comunità e ciò rese il
Delta la regione piú produttiva dello stato. Leggi severissime rinforzarono il
sistema della mezzadria e ai fittavoli fu proibito di recedere dai contratti.
Pochi afroamericani poterono sfuggire a questa spirale di povertà.
La conformazione naturale del territorio e i forti interessi economici
legati alle risorse produttive generarono un sistema di sfruttamento della
manodopera assai rigido, secondo un modello diffuso, come rileva Saikku:
3. La seconda schiavitú.
Dopo la schiavitú molti afroamericani, appena liberati, scelsero di
lavorare per una parte del raccolto, piuttosto che in cambio di una normale
paga per il lavoro svolto, poiché vedevano questa soluzione come un
passaggio obbligato verso l’indipendenza economica e la possibilità di
possedere le terre. I proprietari terrieri invece ritennero che questo potesse
essere un buon sistema per avere le terre bonificate e finalmente coltivabili.
Il termine sharecropping, che traduciamo con mezzadria, si riferisce al
lavoro di un pezzo di terra in cambio di una parte del ricavato ottenuto dal
proprietario terriero quando vende i prodotti raccolti dal mezzadro.
La Guerra Civile segnò di fatto la fine della schiavitú negli Stati Uniti e
pose i proprietari terrieri del Sud in un vicolo cieco. Come si sarebbe potuto
continuare a lavorare il cotone senza schiavi? Alla fine della guerra
l’economia nel Sud era talmente decimata che molti proprietari di
piantagioni non avevano risorse per comprare semi e fertilizzanti, quindi
tanto meno per assumere forza lavoro nuova. Allo stesso tempo, gli schiavi
liberati non avevano lavoro, né posti dove andare, e provavano a
sopravvivere coltivando minuscoli pezzetti di terra nella speranza che
producessero cibo sufficiente.
Era evidente che le due necessità si sarebbero incrociate. I possidenti
bianchi ipotecarono le loro proprietà o convinsero le banche locali a
concedere loro prestiti agevolati per comprare tutto quello che occorreva
per riprendere la coltivazione. Gli ex schiavi, quindi, accettarono di restare
nelle piantagioni, di piantare e raccogliere il cotone in cambio di metà del
suo valore.
Il problema, con il sistema dello sharecropping, era che essendo gli stessi
proprietari delle piantagioni a vendere a credito semi, fertilizzanti, cibo e
attrezzi ai loro fittavoli, potevano imporre ricarichi o sovrapprezzi
ingiustificati, o interessi astronomici sui pagamenti rateali. Qualche
possidente si comportava correttamente, ma la maggior parte sfruttava
talmente la situazione che alla fine della vendita dei raccolti al mezzadro
non solo spesso non rimaneva nulla, ma si trovava ancora in debito col
padrone.
Il sistema delle piantagioni, nato su basi cooperative, si trasformò ben
presto in un moderno feudalesimo. Le piantagioni piú estese stampavano
valuta propria e coniavano monete che i mezzadri avrebbero potuto
spendere nel negozio della piantagione, dove – naturalmente – i prezzi
erano ingiustificatamente alti. La moneta della piantagione veniva accettata
di solito nella città piú vicina, ma non aveva validità da nessun’altra parte.
Questo spiega come mai molti afroamericani restarono intrappolati nelle
piantagioni per molto tempo dopo la fine della schiavitú. A rendere tutto piú
oppressivo e intollerabile, i padroni assumevano sorveglianti bianchi
affinché le regole rigide venissero rispettate e i mezzadri fossero spinti a
lavorare il piú duramente possibile per mezzo di minacce e punizioni
corporali.
Nonostante la fertilità e le grandi opportunità di lavoro per tutti, gli
afroamericani riuscirono a realizzare una crescita economica prossima allo
zero. Nei primi anni del XX secolo, la discriminazione montante, i linciaggi
e i comportamenti brutali divennero all’ordine del giorno: servivano,
naturalmente, a mantenere una distanza, a ristabilire costantemente il tipo di
relazione schiavistica. I bianchi provavano a mantenere il sistema di vita del
Delta, che dipendeva dalla prosperità economica della razza dominante
ottenuta mediante il lavoro della popolazione dell’altra razza.
Molto è cambiato e molto è stato perso. Nei primi decenni successivi alla
emancipazione, una generazione di ex schiavi cercò e in parte raggiunse una
indipendenza economica nel Delta, e i bianchi permisero e qualche volta favorirono
questa evoluzione. Le due generazioni successive si imbatterono in prospettive ben
differenti. In seguito all’attacco sferrato dalla conclamata supremazia dei bianchi, tra il
1890 e il 1920 furono demoliti i diritti politici degli afromericani, venne attaccata la loro
fragile indipendenza economica, e il linciaggio divenne il loro solo incubo. Il Delta tra il
Mississippi e lo Yazoo, dal 1865 al 1920; una regione tumultuosa, due distinte – quasi
contrarie – epoche, e innumerevoli uomini e donne per i quali il cambiamento era la piú
chiara certezza. Affermando l’intensità delle loro speranze, comprendiamo la profondità
del loro disappunto e riportiamo alla memoria queste vite che giacciono in tempi ormai
dimenticati.
Non c’erano ospedali per i neri. Dovevi restare malato. Quando si stava per partorire
un bambino, si doveva urlare in strada: «Dite alla Signora Tale dei Tali di venire qui»…
mia madre stava raccogliendo il cotone a circa 500 piedi da casa quando ebbe le doglie.
Ecco dove sono nato, su quel sacco di cotone.
Al suo livello piú profondo, il blues fu l’espressione della nascita di una cultura
afroamericana completamente consapevole del proprio spazio e tempo, e, soprattutto,
pienamente indigena. Nonostante molti afroamericani si spostarono a Nord, a Ovest e
addirittura in Africa, il Sud fu lo spazio di origine e l’unico luogo dove questa nuova
cultura poteva essere celebrata ogni giorno attraverso una vasta gamma di interazioni
con la natura, animali, ed esseri umani. Perciò il blues è stata la musica di argini, boschi,
campi, strade, prigioni, case e, inoltre, dei jukejoints, house parties, picnic e altri spazi e
funzioni non censurate in cui gli afroamericani esplorarono i parametri del ritmo
collettivo, danze, suono, spiritualità, libertà di parola e pensiero, e di innovazione.
Sono edifici complessi, non perché offrano agli storici un nuovo esempio di
architettura afroamericana, ma in quanto simboli di una storia chiave nell’evoluzione del
paesaggio culturale del Delta del Mississippi […] La segregazione ha lasciato un
paesaggio fisicamente discriminato nel Delta, un luogo in cui la popolazione
costantemente deve rinegoziare la definizione dei propri spazi. I jukejoint sono uno
degli spazi in cui la negoziazione avviene sia in maniera tangibile che invisibile.
L’elemento piú importante di ciascun jukejoint è la condivisione di esperienze e il senso
di appartenenza al gruppo. Sono spazi di interazione tra persone, persone e spazi, spazi e
musica, musica e ballo, pubblico e privato, individuale e comunitario, spostando e
confondendo continuamente le linee di confine tra il tangibile e l’effimero.
SAM JONSING : I feels bad – I’se got what de white folks calls de bloos, and de wos sort
at dat, dat’s what I has…
PETE GUMBO : De what you call ’em, Sam?
SAM JONSING : De bloos – the raal indigo bloos 4.
Il termine blues era noto a tutti. Ad esempio, quando avevo otto o nove anni ascoltai
blues intitolati Alice Fields, Isn’t It Hard To Love, Make Me A Palate On The Floor,
quest’ultimo lo suonavo alla chitarra […] Mr. Handy non può assolutamente provare di
aver inventato le musiche di cui si spaccia inventore. Egli, probabilmente, sfruttò la
possibilità di depositare materiale non protetto che, a volte, girava nei repertori delle
orchestre. Mi piacerebbe sapere come può una persona essere l’inventore di qualcosa
senza essere in grado di fare ciò che egli stesso ha creato.
[…] L’unica conoscenza che oggi una persona può rivendicare è quella che la storia
gli conferisce. Questo signore, senza dubbio, mostra solo avidità per una reputazione
che non merita. E che ottiene attraverso la violazione della proprietà di qualcun altro
che, si dà il caso, sia il sottoscritto. Per informazione di tutti, contatterò alcuni grandi
musicisti attivi all’inizio del secolo, John Robicheaux, Manuel Perez, Armand Piron, e
chiederò loro per quanto tempo hanno suonato il blues prima ancora di sentire nominare
Handy, per non parlare di composizioni a suo nome. Happy Galloways suonava blues
quando ero un ragazzino. Peyton, e la sua orchestra di fisarmoniche, l’orchestra di Tick
Chambers, Bob Frank e la sua piccola orchestra. Tutti suonavano blues. In seguito,
arrivò Buddy Bolden, il primo grande, e potentissimo, cornettista […] Quest’uomo
scrisse anche un blues che ebbe una vita molto lunga.
La prego, non mi fraintenda. Non sto rivendicando l’invenzione del blues, sebbene ne
avessi scritti molti prima che Mr Handy riuscisse a pubblicarne uno. Ho sempre sentito
suonare blues, da quando ero un ragazzino. Ad esempio, quando iniziai ad andare a
scuola, avevo il permesso di far visita a certi miei parenti che abitavano nel Garden
District. In quelle occasioni ho ascoltato molti di questi musicisti, che non sapevano
suonare altro che il blues – Buddie Canter, Josky Adams, Game Kid, Frank Richards,
Sam Henry e molti altri troppo numerosi da citare.
2. Il blues, da ragazzino.
Per tutta la sua vita, Morton fu considerato un inguaribile bugiardo, un
mentitore patologico; un cialtrone, un buffone. L’essersi attribuito la
paternità del jazz gli aveva alienato amicizie, procurato ostilità. I piú non lo
consideravano neanche, quelli bendisposti pensavano fosse un bizzarro
megalomane, da ascoltare con una punta di commiserazione. Lui stesso,
avvolgendo la sua vita in un’aneddotica da feuilleton, contribuí a rendere
piú denso e impenetrabile il confine tra verità e fandonia. Eppure, non tutto
è cosí come sembra. Da anni, infatti, molti studiosi – e addirittura un paio di
giornalisti vincitori di Pulitzer – hanno provato a verificare se davvero
Morton fosse un bugiardo patentato, o se ciò che raccontava corrispondesse,
almeno un po’, a verità. Lawrence Gushee, uno dei piú prestigiosi studiosi
di jazz delle origini, cosí affronta il problema in un suo celebre saggio:
Le registrazioni per la Biblioteca del Congresso sono sempre state considerate come
un insieme non verificabile o analizzabile di verità e finzione. Gunther Schuller, per
esempio, osserva: «Nel tentativo di separare i fatti dalle invenzioni nella vita di Jelly
Roll Morton, lo storico affronta un ostacolo insormontabile. Morton, uno dei personaggi
piú estroversi e brillanti che il jazz abbia mai conosciuto, fu costretto dalle sue
frustrazioni musicali e personali a esagerare e ingigantire la verità, tanto liberamente
quanto le circostanze lo consentissero, almeno nelle sue dichiarazioni pubbliche».
L’incapacità di ricordare con precisione date e sequenze corrette di eventi è un conto, e
tutti noi l’abbiamo sperimentata in assenza di una traccia scritta, ma esagerare e
ingigantire, quando non falsificare, è un altro. Le mie investigazioni e le ricerche che
piú avanti descrivo in questo saggio mi portano, infatti, a sostenere che la biografia orale
di Morton, in particolar modo quando racconta fatti nei quali partecipò direttamente, è
assolutamente attendibile, sebbene la maniera di raccontarli risulti spesso esagerata.
I fatti, no, non sono esagerati, né inventati. Bisogna dar credito a Jelly
Roll, e alla precisione con cui raffigura, racconta e riproduce sul pianoforte
un pezzo di storia che non c’è piú.
Oltre al blues di Mamie Desdunes (del quale parliamo piú avanti, nel
capitolo XI ), ascoltato quando era ancora un bambino, Morton cita quelli
suonati da Josky Adams, un pianista di qualche anno piú grande (della cui
sorella il piccolo Jelly Roll si era perdutamente innamorato). Soprattutto,
ricorda Game Kid.
At that time we had a lot of great blues players around. For an instant, we had one of
the famous ones at that time – nothing but blues – named Game Kid. Game Kid was one
of the favourites in the Garden District, work right, right in the section where the Robert
Charles riot began. Here’s one of the blues he played.
Could sit right here and think a thousand miles away,
I could sit right here, think a thousand miles away,
Since I had the blues, cannot remember the day 5.
L’indicazione relativa a Robert Charles ci permette di collocare il blues
di Game Kid in un tempo preciso, poiché fu l’elemento scatenante di una
sanguinosa rivolta razziale accesa da un violento scontro tra Robert Charles,
un afroamericano, e un poliziotto. La caccia all’uomo, che portò
all’uccisione di Charles e provocò un imprecisato numero di vittime, durò
quattro lunghissimi giorni, tra il 23 e il 27 luglio del 1900.
Non c’è alcun dubbio, ormai: se i ricordi di Jelly Roll sono esatti,
l’emersione del blues va retrodatata di almeno tre anni rispetto
all’esperienza di Tutwiler ricordata da Handy, e di due rispetto a quando
“Ma” Rainey ascoltò il blues da una ragazza tra il pubblico.
Bisogna, però, specificare che a New Orleans il termine blues poteva
essere riferito, oltre che alla forma musicale che conosciamo, anche a una
particolare attitudine esecutiva o espressiva: a tempo lento, con condotte
strumentali in cui il pathos e la sensualità soppiantavano il dato meramente
tecnico o l’esecuzione muscolare quando non virtuosistica. È il caso, per
esempio, di Make Me a Pallet on the Floor, citata da Morton nella lettera a
Ripley; si tratta di una forma pre-bluesistica, a sedici misure, con l’inusuale
IV-IV-I-I all’inizio del chorus. A questa sfumatura, che potremmo chiamare
bluesità, o blueing, come il titolo di un celebre brano di Miles Davis,
alludono molti dei testimoni che, come Morton, vissero quel tempo di
strepitosa creatività espressiva. Ma certo ciò non vuol dire, come afferma
piuttosto superficialmente Marybeth Hamilton, che durante tutta l’intervista
a Lomax Morton usasse i termini blues e jazz «piú o meno in maniera
intercambiabile»; è una sciocchezza colossale: basterebbe – cosa che la
studiosa evidentemente non ha fatto – ascoltare le esecuzioni al piano di
Morton per rendersi conto che quando suona, e canta, un blues si tratta
effettivamente di un blues, e non di altro. Morton era un musicista geniale,
talmente preparato che attraverso la sua ricostruzione siamo in grado di
ricostruire un pezzo importante di storia della musica americana. Sapeva
esattamente che differenza corresse tra ragtime, blues e jazz, tanto che si
autoproclamò inventore del jazz (non del ragtime, tantomeno del blues).
Se proprio non si vuol dar retta a Jelly Roll, c’è un’altra testimonianza
piuttosto interessante. L’ha resa, sempre ad Alan Lomax, Alphonse Picou,
uno di quei musicisti di New Orleans ai quali Morton si riproponeva di
chiedere ulteriori prove a sostegno nella sua querelle con Handy. Alphonse
Picou è un clarinettista leggendario; la sua fama è legata all’assolo
imperituro che sciorinò in High Society, banco di prova per generazioni di
clarinettisti e immortale esempio di eleganza e creatività. Nel corso di
un’intervista, nel 1948, Picou raccontò a Lomax come nacque il primo
blues mai scritto a New Orleans.
I used to play on – in the night clubs at Villere and Iberville and they had a woman, a
colored woman, working there, and she had a husband working on the railroad, putting
up tracks, you know? And while working, he was singing, you know, these songs, and
that’s where the blues come from – the first blues. So she invite me and the bass player
at her house. She says she’s got a wonderful blues. She says, if we get that, it’s going to
be very good for the band. So the next morning we went to her house and I caught on to
the melody and I wrote it down, from her, from her voice and, uh, with my instrument
and I wrote the music down. And that night we came and we played it. [Laughs] That
was the first blues ever known 6.
3. Congo Square.
Per molti, moltissimi anni New Orleans è stata la capitale musicale
d’America, e ben prima che lo scettro le fosse soffiato dalle altre grandi
metropoli. Già nel XVIII secolo la città della Louisiana poteva vantare una
scena musicale invidiabile: alto e basso, sacro e profano, bianco e nero (con
stimolanti vie di mezzo) convivevano gomito a gomito, spesso
interlacciandosi o dando vita a imprestiti succosi. Nello stesso periodo, era
la città che ospitava la piú folta popolazione di afroamericani, schiavi e
affrancati, e perciò fu proprio a New Orleans che certi processi di
ibridazione, sintesi e contaminazione avvennero in netto anticipo rispetto ad
altre città americane.
Il simbolo di questa tradizione è senz’altro Congo Square, il luogo in cui,
già dalla fine del XVIII secolo, ogni domenica gli schiavi potevano ballare le
loro danze e suonare le loro musiche in pubblico e all’aperto, per il
divertimento e la curiosità di tutti. Percussioni, strumenti a corda, mani e
legni a portare il tempo: la musica africana, grazie a questa possibilità, ha
potuto conservarsi nei gesti e nelle voci, cercando poi una strada verso
l’interazione con altri generi musicali.
Non va, poi, dimenticato che dirimpetto New Orleans ha i Caraibi, dei
quali fortemente ha risentito le influenze e le suggestioni, diventate poi
spinta pragmatica alla confluenza quando, nei primi anni del XIX secolo, un
robusto contingente di neri caraibici, molti dei quali liberi, sbarcò in città
ampliando non solo il ventaglio di linguaggi a disposizione, quanto
l’ampiezza culturale del pensiero musicale.
Alla metà del XIX secolo, dunque, New Orleans era città diversa da ogni
altra, strenuamente impegnata, peraltro, a difendere la sua diversità.
Cosmopolita per circostanze storiche (le dominazioni spagnola e francese) e
flussi di immigrazione, la Crescent City viveva, addirittura scintillava
grazie all’apporto di un numeroso gruppo di culture, tutte ben strutturate
dentro il tessuto sociale e urbanistico: francesi, cubani, italiani (soprattutto
siciliani), americani del nord, americani del sud, sudamericani, creoli,
afroamericani, caraibici, tedeschi trasformarono la città in una polifonia
vivente, in un fantasmagorico caleidoscopio di idee, suoni e tradizioni,
spezzato soltanto dall’irrigidirsi delle leggi razziali, intorno alla fine del XIX
secolo.
Non sorprende, allora, che New Orleans contasse tre compagnie
operistiche quando altre città non ne avevano neanche una, o che ci fosse
musica da mattina a notte, per ogni occasione e circostanza: balli, danze
all’aperto, funerali, battesimi, picnic nei parchi o sui barconi che
navigavano il fiume; e – naturalmente – musica nei bordelli di Storyville, il
quartiere a luci rosse, dove, come ricorda il contrabbassista Pops Foster, «il
cliente sceglieva la ragazza e il pianista che gli piacevano, e il pianista
suonava qualche blues lento» ad accompagnare i piacevoli momenti
successivi.
La culla ideale, per una musica senza padri.
4
«SAM JONSING : Sto proprio giú, devo avere quella cosa che i bianchi chiamano il blues, e il
peggior tipo possibile, ecco che c’ho… | PETE GUMBO : Com’è che si chiamano, Sam? | SAM
1. Questioni di forma.
Dodici misure. Tre accordi. Tre versi, di cui due uguali e l’ultimo che
rima con il precedente. Uno spazio riempito per metà dal canto e per l’altra
metà da una frase strumentale. Volendo ridurre all’osso, la strofa tipica del
blues è tutta qui, in questa estrema economia di mezzi, in questo scheletro
essenziale, ma capace di produrre variazioni infinite e meraviglie altrettanto
infinite.
Quando ci si riferisce alla forma blues, ovvero a quel meccanismo
strofico condiviso, e in qualche modo convenzionale, che si afferma a
partire dagli anni Venti, e che abbiamo riassunto in pochi tratti poche righe
piú su, si indica una forma musicale che non esiste in nessun’altra cultura e
parte del mondo. Sebbene siano stati compiuti studi e ricerche tendenti a
identificarne gli antecedenti e i precursori, non sembra essere stato
individuato alcun parente prossimo, o stretto. La forma blues, come il blues,
affonda le sue radici in Africa (come abbiamo visto nel capitolo I ), ma al
tempo stesso è il frutto, originale e sorprendentemente singolare, della
creatività dell’uomo afroamericano.
Proveremo, dunque, a comprenderne e riconoscerne i meccanismi, gli
ingranaggi, le sezioni, le parti e i singoli componenti a partire da tre
macrostrutture: il giro armonico, la particolare disposizione del testo e
l’interazione tra quest’ultimo e la melodia.
Il giro armonico, cioè la successione degli accordi, può essere facilmente
sintetizzata nella matrice seguente:
Nella forma blues assume importanza decisiva anche il modo in cui i tre
versi vengono collocati e posizionati all’interno della strofa. Ciascun verso,
infatti, si inscrive nella fondamentale pratica del call and response, uno
degli architravi del pensiero musicale africano: a ogni enunciato vocale, la
domanda o “call”, segue una parte strumentale, ovvero una risposta.
Quando il bluesman si esibisce in completa solitudine sarà lo strumento col
quale si accompagna a determinare la risposta strumentale.
L’enunciato vocale occupa piú o meno la metà dello spazio a
disposizione: finisce, cioè, solitamente sul primo quarto (quindi sul primo
accento) della terza misura, lasciando alla musica uno spazio
sostanzialmente analogo: testo e musica, cioè, ricevono lo stesso
trattamento, a indicarne la medesima importanza, e rilevanza, all’interno del
blues.
con ciascuno dei tre versi appoggiato su una coppia di accordi, e le ultime
due misure di stasi sull’accordo di tonica a lasciare spazio alla risposta
strumentale.
Se la versione Cox-Jackson è di innaturale bellezza, addirittura
modernista in quello scultoreo accompagnamento di banjo per accordi, con
molti spazi vuoti e la voce spesso a galleggiare nel silenzio (idea
formidabile e coraggiosa, per i tempi), quella di Leroy Carr è addirittura
insuperabile. Intanto, Carr annulla la distanza tra call and response
permettendo alla chitarra di Scrapper Blackwell di interagire costantemente
con le linee del canto e i poderosi schemi di accompagnamento al
pianoforte. Il testo, poi, è stato addirittura preso in prestito da Langston
Hughes, per una sua opera del 1934, The Blues I’m Playing:
3. Da forma a modello.
L’aspetto piú interessante della forma blues, cosí come l’abbiamo
definita nei paragrafi precedenti, è che non esiste in natura. Non esiste, cioè,
nella pratica dei bluesmen downhome, dei musicisti del Delta, per i quali la
quadratura, l’organizzazione formale, la regolarità erano optional di nessuna
utilità. Come vedremo successivamente, analizzando alcune registrazioni,
nel loro lessico non si rileva la simmetria, quanto il suo contrario;
atteggiamento comprensibile, se si pensa che i blues, in origine, erano
momenti di espressione totalmente improvvisati, creati estemporaneamente
e non scritti, composti e organizzati a tavolino.
Le dodici battute, e il rigoroso e cronometrico alternarsi degli accordi,
diventarono una necessità e si affermarono come struttura nel momento in
cui, per evitare una babele stilistica, bisognava: uniformare il linguaggio in
virtú del disco, che ne divenne il principale mezzo di diffusione; adeguare
l’espressione stilistica per adattarla a cantanti che provenivano da tutt’altro
tipo di repertorio; regolare misure e durate per il numero di musicisti
impegnati nell’esecuzione e nella registrazione. Mentre il bluesman con la
sua chitarra ha la libertà di allungare o accorciare ogni singolo percorso
metrico, l’esecuzione di una band non può rischiare l’entropia, quindi sono
necessarie la quadratura e la regolarizzazione. Dai primi blues a stampa di
W. C. Handy le dodici misure iniziano a incarnare l’idea di forma blues, che
nelle mani dei pianisti di boogie e negli arrangiamenti delle prime jazz band
assumono dignità e consapevolezza strutturale.
Questi processi, va ricordato, avvengono esternamente, lateralmente al
blues. Per il musicista del Delta il blues è ancora un fatto estemporaneo, che
si risolve tutto nel momento dell’esecuzione, e non in quello della
composizione. Musica di tradizione orale, il blues si inscrive in un universo
esteso di musiche improvvisate, dove il termine «improvvisazione» non va
inteso come una generazione spontanea di suoni, ma nell’accezione di
«stadio intermedio fra la riproduzione e la creazione», per usare la nota
definizione dell’etnomusicologa rumena Gizela Suliteanu. Ma, ammonisce
Giannattasio, quando si parla di musiche di tradizione orale concetti come
creazione, composizione, improvvisazione, variazione, interpretazione,
riproduzione non solo perdono la loro univocità di significati, ma si
sovrappongono o sconfinano l’uno nell’altro. Piú utile allora –
considerando anche che il valore innovativo dell’invenzione momentanea
può essere percepito dall’ascoltatore solo in relazione a qualcosa di stabile e
riconoscibile – affrontare il problema dell’improvvisazione a partire dalla
nozione di modello. Di questa, Lortat-Jacob ha dato una definizione
ampiamente condivisibile:
7
«Amo giocare, giocare è tutto ciò che faccio | Amo giocare, giocare è tutto ciò che faccio | E
quando perdo, non divento mai triste per questo».
8
«A volte sono cosí giú e mi sento cosí triste | Che a malapena so cosa fare in questo mondo,
baby | Per quanto tempo, per quanto quanto tempo, baby || E se potessi urlare come fossi un mountain
jack | Salirei sulla montagna e chiamerei indietro la mia piccola | Per quanto tempo, quanto tempo,
piccola, quanto tempo».
Capitolo settimo
Figure del discorso. Di cosa, e come, parlano i blues
Come sia organizzata la struttura del verso blues, l’abbiamo già visto in
precedenza. Ma, viene da chiedersi, di cosa parlano i blues? E, soprattutto,
come ne parlano? Il luogo comune del blues apparentato con la tristezza e il
lamento elegiaco è talmente diffuso da rivelarsi praticamente inscardinabile.
Per anni, si è pensato che le dodici misure e una certa, magari ben articolata
e strutturata, sadness fossero addirittura sinonimi. Ci sono voluti i primi seri
studi sull’articolazione poetica e immaginaria dei versi creati da almeno due
generazioni di bluesmen per aprire nuove prospettive e indicare orizzonti
alternativi. Alla tristezza si è cosí sostituita la rabbia esistenziale, la
denuncia, l’invettiva, il lamento, la ruminazione sulla propria, spesso
disperata, condizione. E, di fatto, si è sostituito un luogo comune all’altro.
Perché, in verità, la tavola argomentatoria dei blues è di enorme vastità, e
racchiude una miriade di sensi e significati, di riflessioni e punti di vista, di
prese di posizione e abbandoni. Un sistema, cioè, in cui l’atto stesso del
guardare la realtà, e ciascuna delle sue mille facce, diventa testo poetico,
struttura di senso, artificio significante.
Al vertice della piramide, però, come un centro di energia dal quale tutto
si irradia, c’è – quasi a sorpresa – l’amore.
La gente continua a chiedermi dove è iniziato il blues. Tutto quello che posso dire è
che quando ero ragazzo cantavamo sempre nei campi. Non era proprio cantare, sapete,
era piú un urlo, ma le nostre canzoni erano fatte delle cose che ci accadevano a quel
tempo, e credo che sia quello il posto dove è nato il blues.
Talvolta, sapete – non so chi abbia iniziato questa cosa, la faccenda del blues.
Sappiamo tutti che succede sempre cosí – il blues esiste, e viene fuori tra un uomo e una
donna che si amano. Uh-huh. E quando uno tradisce l’altro. E allora gli viene il blues,
cioè, se si amano. Sí. Viene il blues a tutti e due.
Un uomo e una donna che si amano. Punto. Altro non serve per mettere
in moto la profonda, instancabile negoziazione tra il blues e la realtà.
Nell’apparente genericità di una simile affermazione, Son House non perde
la lucidità dei riferimenti se, ancora qualche tempo dopo, afferma:
Il blues non è un gioco, come pensa la gente. Per esempio, i giovani oggi prendono
qualsiasi suono e ne cavano il blues. Ogni piccolo jump è buono per affermare che quel
pezzo è un blues, ma non è cosí. Esiste un solo tipo di blues, e si ottiene quando un
uomo e una donna si amano. Un uomo e un donna innamorati. Sono stato sposato
cinque volte, per il mio stupido egoismo, cinque volte, e ho una certa esperienza di
quello che dico. Blues, b-l-u-e-s, blues.
Se col blues non si scherza, sembra volerci dire Son House, non si
scherza neanche e soprattutto con i sentimenti, con l’amore. È il sentimento,
allora, che cementifica non solo l’unione tra un uomo e una donna, quanto
tra la voce e la chitarra, tra il blues e il suo mondo. Un’interazione binaria e
duale che viene interpretata a partire dall’idea di coppia piú naturale.
Addirittura piú categorico Robert Pete Williams, quando dichiarò che «è
l’amore che fa il blues. Non ci sarebbe amore, e non ci sarebbe blues se al
mondo ci fossero solo uomini».
Il problema, però, è che a scorrere i testi dei brani incisi da Son House
non è difficile accorgersi di come l’amore sia solo uno dei temi affrontati.
Per spiegare l’apparente contraddizione Jeff Todd Titon sostiene che il blues
primigenio fonda il suo contenuto testuale sull’argomento amoroso, e che
questo sia in grado di abbracciare e accogliere, grazie a un raffinatissimo
lavorio di costruzione metaforica, altri aspetti e storie. Attraverso
l’elaborato reticolo di situazioni che il rapporto tra un uomo e una donna
può offrire, cioè, il blues è in grado di parlare d’altro, innestando sulla
matrice di base situazioni diverse e complementari. La difficoltà di
mantenere accanto a sé il partner; il dolore e il rimpianto per la perdita di un
amante, o per la fine di un amore; il desiderio di un rapporto felice e
tranquillo; la soddisfazione sessuale e l’appagamento dei sensi; in
definitiva, il desiderio di un legame solido, gioioso e carnale: queste sono le
fondamenta su cui poggia il senso letterario e poetico del blues. Quando
arrivano i blues, cadendo come pioggerellina primaverile o camminando
per la stanza o infettando il cibo, il musicista sa che è arrivato il momento
di affrontare il problema della relazione con il/la partner; per questo, dice
Titon, molti blues cantano dei problemi d’amore, delle difficoltà, degli
impacci, degli inciampi. Avere il blues, allora, non è essere pervasi da un
generico sentimento di tristezza e malinconia, ma un complesso emotivo
assai piú denso e strutturato, un ventaglio ampio di sfumature, nessuna delle
quali prevalente, in cui si insinua, fluida, la riflessione amorosa, e la
sublimazione di una vasta gamma di stati emotivi.
L’idea della sublimazione, attraverso l’argomento amoroso, di
frustrazioni ed energie psichiche negative, e latenti, era stata già avanzata
da Paul Oliver, secondo il quale l’artista, piú o meno consapevolmente,
annega nell’idea dell’amore perduto la rabbia e la frustrazione per la sua
condizione esistenziale; nella comunicazione con l’ascoltatore il codice è
talmente condiviso da creare una solidissima alleanza, un legame
indistruttibile tra emittente e destinatario, in nome della comune lotta contro
il bianco oppressore e vessatore. L’amante infedele e violento, imbroglione
e bugiardo altri non sarebbe che lo schermo dietro cui si nasconde il bianco,
declinato in tutte le sue forme d’autorità. Perché, allora, l’ansia, se provata,
non viene manifestata apertamente e in maniera lucida e comprensibile? I
motivi potrebbero essere molti, riconosce Titon. Intanto, con l’affermazione
del blues nelle carovane viaggianti di minstrel e medicine show, il blues
serviva a divertire gli ascoltatori, non a inquietarli: lo spettacolo era un puro
momento di divagazione, e doveva essere accompagnato dalla leggerezza.
In seguito, quando i blues furono registrati, diventava probabilmente
rischioso per l’artista esprimere contenuti espliciti, vista la facilità con la
quale avrebbe potuto essere rintracciato e punito, attività per le quali,
evidentemente, bastava molto meno che incidere un disco di protesta. Né,
d’altronde, i blues emettevano messaggi in codice, la cui decrittazione
immediata spettasse al pubblico degli ascoltatori. O, perlomeno, se tali
messaggi c’erano, venivano nascosti con cosí tanta premura e precisione da
aver resistito alle analisi di studiosi e appassionati.
Un simile modello interpretativo convince, eppure non persuade. È
sufficiente, in effetti, ascoltare venti dischi scelti a caso dallo scaffale di
blues prebellico di un qualsiasi negozio per constatare come la varietà dei
temi trattati dai musicisti di blues fino alla Grande Guerra difficilmente
sopporti una riduzione cosí forte, sebbene perfettamente plausibile, e
sicuramente attiva, come quella esposta da Titon. Come ha precisamente
rilevato Federighi:
Il blues ha a che fare con l’intero spettro delle emozioni della vita, non solo con quei
sentimenti che caratterizzano la solitudine e il rifiuto – pertanto, in ultima analisi, è il
modo in cui il suo argomento viene trattato che dà al blues la sua incontestabile essenza,
certamente poetica, e dunque lontana da ogni ansia letteraria, morale ed estetica.
Non si può, come aveva fatto Paul Oliver, separare la dimensione poetica
con quella, attiva, della rivolta e della protesta. Il blues, costitutivamente
rivoluzionario nel suo essere espressione del desiderio usato come arma
contro lo sfruttamento, si nutre di immagini, e le rende potenti fionde per
lanciare dolorose sassate al sistema. Immagini che, come nella celebre
definizione di Saint-Pol Roux, altro non sono che fiammiferi accesi
sull’ignoto. Eros, aggressività, humour, viaggio, alcol e droghe, supremazia
maschile, liberazione delle donne, notte, animali, lavoro, la polizia e la
chiesa, crimine, magico: su queste immagini si esprime il sapere poetico del
bluesman. Immagini che richiamano e usano simboli, affondano la
creatività sovente in processi onirici, costruendo cosí una poetica
complessa, diversa da ogni possibile riferimento letterario ed estetico. La
forza del desiderio sull’urgenza della necessità, dunque, che si incanala in
una ruvida forza liberatoria.
2. Blues di un’esposizione.
Immaginate di percorrere i corridoi di una galleria d’arte, alle cui pareti
non sono esposti quadri, ma blues. Ciascuna sezione dell’esposizione
raccoglie e illustra un tema (un’immagine, per dirla con Garon) attraverso
alcune piú o meno celebri composizioni: un catalogo, non esaustivo ma
sistematico, e soprattutto multimediale; si guarda, anzi: si ascolta.
Un luogo cosí non esiste fisicamente, ma il Delta Blues Museum di
Clarksdale ne ha costruito uno virtuale: è sufficiente entrare nel sito e
accedere alla sezione podcast; qui si possono scaricare le puntate (oltre
quaranta, per il momento) su altrettanti argomenti. Mike Rugel, che
conduce lo show, con la sua pronuncia assai scivolosa, trasporta
l’ascoltatore negli archivi polverosi di blues, alla scoperta di incroci,
intersezioni, confluenze. Per ogni argomento, una manciata di blues e
notizie sempre di prima mano, e assai accurate, su contesti storici,
sociopolitici e musicali. Una maniera assai pregevole di sfruttare le nuove
tecnologie.
Passeggiando tra le opere, si rimane stupiti da quanto ampio sia stato –
ed è tuttora – l’orizzonte di indagine dei bluesmen. Non c’è evento o
avvenimento che non sia passato al setaccio: nonostante l’opinione corrente
tenda oramai ad attenuare l’importanza dell’aspetto cronachistico, quasi
giornalistico, del blues, i musicisti si sono sempre confrontati con la realtà,
anche con gli aspetti di piú scottante attualità e bruciante impellenza, dalle
elezioni presidenziali ai campioni neri dello sport. Particolarmente
affascinante, a tal proposito, la fioritura di blues attorno alle gesta di Joe
Louis; il boxeur non solo sconfisse Primo Carnera, in un match leggendario,
diventando il primo pugile di colore a conquistare un titolo del mondo, nel
1935, ma finí col rappresentare dapprima tutti i popoli africani, minacciati
dall’espansionismo coloniale fascista, poi tutto il mondo, quando affrontò il
tedesco Schmeling, dal quale fu prima sconfitto per poi riprendersi il titolo
in una memorabile rivincita. (Incidentalmente, notiamo come il mito del
pugile abbia affascinato anche Miles Davis, che a Jack Johnson dedicò un
album memorabile).
Accanto alle saghe presenti in maniera trasversale in molta musica
afroamericana del tempo (per esempio, quelle dedicate a John Henry –
simbolo stacanovista della forza del nero pronto a sconfiggere quella bianca
pur se moltiplicata dalla potenza meccanica di una macchina; oppure il
parassita boll-weavill, autore di una devastazione, assai poco metaforica,
delle piantagioni di cotone), o agli argomenti piú o meno futili (anche se di
propriamente futile i bluesmen non cantarono mai), come il gioco
d’azzardo o testi apertamente nonsense, gli artisti delle dodici battute
furono sempre acuti testimoni di un mondo e di una società che cambiavano
spesso a velocità consistente. Non a caso, qualche vecchio musicista ancora
ricorda che, in un primo momento, i blues venivano chiamati “reals”,
racconto di fatti veri: una sorta di gazzettino puntuale tramite cui
raccogliere, condividere e diffondere informazioni. Una sfumatura, questa,
che rivela la molteplicità di configurazioni, la ricchezza prismatica e
sfaccettata dell’approccio alla musica come racconto, testimonianza,
protesta, sublimazione, poesia, forza.
3. La formula segreta.
Una visita al museo dei blues, cosí come l’ascolto di un cospicuo
numero di incisioni fino alla Seconda guerra mondiale, costituisce
un’esperienza preziosa. Mette a contatto con un corpus poetico
assolutamente formidabile, permette l’appropriazione di tecniche musicali e
versificatorie, spalanca universi potenti. Allo stesso tempo, costringe a
misurarsi con un problema inevitabile, talmente macroscopico da non
richiedere alcuna capacità specialistica di ascolto o di analisi per essere
individuato. Basta cioè la semplice esposizione a un congruo numero di
incisioni per accorgersi che in moltissimi blues ricorrono le medesime frasi,
gli stessi modi di dire: spezzoni di discorso, azioni, relazioni tra uomini e
cose, sentimenti, riflessioni, viaggi e ritorni.
Talmente evidente era, sin dagli albori, questa caratteristica da non
essere sfuggita ai primi testimoni, e ai primi studiosi. Odum, difatti, parla
apertamente di formule.
La vera essenza del canto di lavoro, e quella da cui molti canti dei neri hanno avuto
origine, è la fraseologia del canto di lavoro. Le formule che lo tengono insieme sono
spesso espressioni semplici fatte di parole o frasi nate dal lavoro collettivo.
Un gruppo di frasi che hanno lo stesso valore metrico e che sono abbastanza simili,
come pensiero e parole, da non lasciare dubbi sul fatto che il poeta che le ha usate le
conosceva non solo in quanto singole formule quanto come formule di uno specifico
tipo.
Il sistema, in questo modo, agevola la pratica dell’improvvisatore che,
senza dover ritenere nella memoria ciascuna frase a sé stante ma
allacciandola al sistema, esercita uno sforzo mnemonico assai inferiore. Il
cantore, cioè, sostiene Lord, non deve ritenere a memoria un alto numero di
formule separate: è sufficiente che abbia compreso il meccanismo per
sostituire una parola chiave con un’altra.
Un tale sistema teorico di riferimento non poteva non attrarre – nel corso
degli ultimi anni – le attenzioni degli studiosi. Il sistema formulare di Parry
e Lord offriva una soddisfacente sistemazione, una risposta concreta,
misurabile, ai problemi sollevati dalla natura formulare dei blues. I punti
deboli, però, non erano pochi. Non ci volle molto per accorgersi che un
blues e un poema omerico, o un poema epico serbo, avessero molto poco in
comune. Al di là delle differenze macroscopiche, erano i settaggi del verso
a rendere molto piú libero il verso del bluesman rispetto agli intricatissimi
modelli a dieci sillabe dell’epica serbo-croata; il bluesman, il cui verso ha sí
una gabbia metrica, ma molto piú libera, sfrutta in pieno un sistema
generativo, che gli consente di elaborare un tessuto di versi formulari, e
non, ognuno dei quali attestato a una particolare configurazione ritmica, e
che possono essere adattati a un tema o a un’esecuzione a seconda del
soggetto della strofa o del brano, delle condizioni in cui viene
eseguito/creato, del pubblico cui è rivolto.
John Barnie è stato tra i primi a dare continuità sistematica allo studio
sulla formularità nel blues. A partire dalla fine degli anni Settanta l’autore
mise a punto un primo schema con al centro, come unità di misura
formulare, il mezzo verso, che si espande su un metro comprendente due o
tre accenti; formula, questa, che nel corso della performance viene alternata
con altre di diverso tipo.
Una cosí semplice forma del verso (opposta alla lunghezza indefinita e alla
complessità del verso epico narrativo) per la sua particolare disposizione delle formule
veniva facilmente e naturalmente memorizzata nella mente del cantante, con il risultato
che una volta cantata la formula iniziale le altre seguivano per associazione. Con il
passare del tempo, un raggruppamento di cosí particolare efficacia e utilità può entrare
per intero nella tradizione del blues e l’uso stesso tenderà a confermare il
raggruppamento come una convenzione del blues tradizionale.
Esempio tipico di questo meccanismo lo si può rinvenire in una strofa di
Blind Lemon Jefferson:
1. Le stanze del blues possono essere legate l’una all’altra in una canzone tramite
associazioni. Una parola o una frase verbale, un argomento o un’idea, o una struttura
sintattica usata in una stanza fa sí che il cantante scelga un’altra stanza contenente lo
stesso o simile elemento.
2. Le stanze del blues possono essere legate l’una all’altra tramite il contrasto. Una
stanza o un insieme di stanze associate contiene un argomento o un’idea che contrasta
con l’argomento o l’idea di un’altra stanza o gruppo di stanze. I tipici contrasti nel blues
sono: partire/ritornare; vantarsi/compatirsi; lodare/insultare; amare/odiare;
curare/maltrattare; fedeltà/rinuncia; dominio/sottomissione.
3. Alcune stanze dicono in sostanza «Io ho i blues» e esprimono l’insoddisfazione
generale del cantante. Ambiguità, confusione, insicurezza, disperazione,
preoccupazione, depressione, inquietudine e cosí via. Alcune stanze a volte hanno la
funzione di separare una coppia legata di stanze o un gruppo di stanze da un altro.
4. Strofe strumentali o pause hanno spesso anche la funzione di separare una coppia
legata di stanze o un gruppo di stanze da un altro. (Tali pause dovrebbero essere indicate
nella trascrizione di un blues).
5. I testi blues che rispondono a questi principî spesso mostrano modelli strutturali
simmetrici.
La critica di Evans si sviluppa con metodo, e tocca tutti gli aspetti della
teoria taftiana. Non ci intromettiamo nella discussione, naturalmente,
limitandoci a constatare come la genialità dei blues, la loro irriducibile
profondità, la creatività eccezionale che li ha nutriti resistano a studi e
teorie, sistemi e impalcature intellettuali, quasi a voler nascondere la loro
poeticamente sovrumana natura.
4. La poesia, dopotutto.
Ci si può scherzare su, come qualcuno ha fatto, ma certo Omero – se
solo fosse esistito – avrebbe potuto essere il primo bluesman della storia.
Blind Homer, lo potremmo ribattezzare; non vedente, relegato ai margini
della società, cantore di fatti, avvenimenti e stati d’animo, improvvisatore di
formule avvincenti. Di sicuro, Blind Homer e i bluesmen del Delta
condividevano un senso per la bellezza poetica, per la precisione
dell’immagine evocata, per quella relazione tra parola ed emozione in grado
di suscitare una profonda empatia tra esecutore e ascoltatore. Molte delle
strofe, nonostante il loro schema secco e ripetitivo e la loro natura
formulaica, contengono visioni straordinarie, intuizioni folgoranti,
immagini indimenticabili; ognuna di queste, relegata in un verso, o in
mezzo verso, viene subito dopo sostituita con altra immagine altrettanto
potente. Ecco: è la potenza di certe evocazioni a penetrare nell’anima di chi
ascolta; è lo stupore di fronte all’imprevedibile a rendere spesso
appassionanti le dodici battute. Atti poetici in cui la vita fa rima con musica,
e storie in cui vibrano e risuonano esistenze e avvenimenti, le strofe del
blues affrontano di petto l’ascoltatore, e quasi mai lasciano scampo.
Poesia sonora, ecco cos’è il blues. Legata indissolubilmente al suono
delle parole, alla pronuncia che di queste ci regalano Charley Patton o
Bessie Smith, Ishmon Bracey o Peetie Wheatstraw. Un legame cosí stretto
da rendere inefficace qualsiasi tentativo di trascrizione: senza la voce che lo
dice, e con quella struttura cosí ripetitiva, il blues vive nel momento, nella
performance, nel corpo a corpo instauratosi tra cantore e ascoltatore. Su
carta, inevitabilmente la sua suggestione trascolora, impallidisce, quasi
scompare. Proprio come poesia sonora, alla trascrizione dei testi del blues
dovrebbe essere accompagnato un supporto sonoro. Tra l’altro, come si
trascrive il testo di un blues? La tecnica usuale non rende certo attraente la
strofa.
9
«Me ne sto qui seduto a chiedermi se una scatola di fiammiferi conterrà i miei vestiti | Me ne sto
qui seduto a chiedermi se una scatola di fiammiferi conterrà i miei vestiti | Non ho cosí tanti
fiammiferi ma ho di certo molta strada da fare».
10
«Mi comprerò un gallo, e lo metterò davanti alla porta sul retro | Mi comprerò un gallo, e lo
metterò davanti alla porta sul retro | Perché quando vede uno straniero che s’avvicina, sbatte le ali e
fa rumore».
Capitolo ottavo
Figure (2). Blues Poetry. Langston Hughes e Sterling Brown
Noi giovani artisti creativi Neri intendiamo ora esprimere la nostra identità nera
senza paura o vergogna. Se i bianchi gradiscono ne siamo felici. Se non è cosí, fa lo
stesso. Sappiamo di essere belli. E anche brutti. Il tamburo piange e il tamburo ride. Se
la gente di colore gradisce ne siamo felici. Se non è cosí, neanche il loro disappunto ci
preoccupa. Costruiamo i nostri templi guardando al futuro, forti come sappiamo essere,
e stiamo sulla vetta della montagna, liberi dentro noi stessi.
Durante una visita a Kansas City si rese conto di un ulteriore aspetto della cultura
nera dal quale avrebbe attinto piú avanti sia come artista che come uomo. In un teatro
all’aperto in Independence Avenue, Hughes per la prima volta ascoltò il blues da
un’orchestra di musicisti ciechi. La musica pareva piangere, ma le parole in qualche
modo ridevano.
Due sono gli aspetti di rilievo. Il primo riguarda la tecnica; il poeta non
si limita, cioè, a riportare su carta la struttura di tre versi AAB (cfr. supra,
pp. 80 sgg.), tipica della stanza blues: ne replica anche la lingua dialettale, il
vernacolo afroamericano, quella selva di suoni duri e regole grammaticali
infrante. Non si tratta di una semplice caratterizzazione, o di una replica
fedele: è invece il tentativo consapevole, e coraggioso, di trasportare una
forma d’arte mobile e improvvisata sulla pagina senza alterarne i contorni,
senza modificarne gli attributi, e dunque riconoscendola per quello che è.
Hughes, naturalmente, impiega tecnica e sensibilità sopraffine per sopperire
alla mancanza dell’elemento musicale, e lo sostituisce con un meccanismo
semantico-narrativo meravigliosamente costruito. Meravigliosamente, e
rispettosamente. Un altro bellissimo esempio è questo:
I’m gonna walk to the graveyard
’Hind ma friend, Miss Cora Lee
Gonna walk to de graveyard
’Hind ma dear friend Cora Lee
Cause when I’m dead some
Body’ll have to walk behind me 12.
Sembra che Hughes si sia riproposto di portare via la poesia dalla pagina e lanciarla
nell’aria che respiriamo; desiderava portare la poesia nella vita di tutti i giorni. In
sintesi, voleva che i suoi canti blues emulassero l’improvvisazione presente nelle vite
degli Afroamericani:
To fling my arms wide
In the face of the sun.
Dance! Whirl! Whirl!
Till the quick day is done.
Rest at pale evening…
A tall, slim tree…
Night coming tenderly
Black like me 14.
Da un punto di vista sociale, quindi, i blues dicono molto di un segmento della vita
dei Neri. È inesatto, tuttavia, considerarli totalmente rivelatori del folklore nero, o del
folklore trapiantato nelle città, o delle classi sociali piú basse in generale. I blues
rappresentano il secolare, il profano, laddove gli spirituals e i gospel rappresentano il
religioso. Gli studiosi di folklore e di musica jazz sottolineano la somiglianza dei canti
religiosi con i blues. Ma ogni tipologia attira principalmente un certo gruppo. Molta
gente di chiesa non ha intenzione di ascoltare e non desidera avere dischi di blues in
casa. La maggior parte della classe media nera prova disgusto per i blues, naturalmente.
I pochi a essere interessati lo sono diventati per via delle interconnessioni fra jazz e
blues. Alcuni Neri non sono piú vicini al blues di quanto lo sia la Rapsody in Blue di
Gershwin.
Come poeta, il suo piú alto compito fu quello di elevare la stanza blues e
tutte le forme vocali afroamericane al livello di vere e proprie categorie
formali: utilizzandole nei suoi versi le accolse come riferimento ultimo,
conservandone la freschezza e l’autenticità. Nei suoi blues, cosí come in
quelli di Hughes, l’utilizzo del vernacolo è sentito come inevitabile. Il
contrario costituirebbe un tradimento.
In Southern Road, la sua raccolta piú famosa, Brown mette a reagire tutti
gli elementi che, da studioso accorto, ha rilevato nel tessuto del blues, nello
spirito che ne articola lo svolgimento. «Il blues, per me, è resistenza; è
stoicismo, è franchezza. Ecco perché piace ai ragazzi: perché vuol dire
essere onesti verso i fatti della vita».
A questi, e al modo in cui vengono vissuti dalle comunità afroamericane,
Sterling Brown, assieme a Jean Toomer (l’autore di Cane), dedicarono
molte delle loro energie creative: Toomer utilizzando, e rinnovando,
svariate forme espressive, Brown concentrandosi piú sul blues, sia come
struttura versificatoria che come elemento scatenante di immagini, visioni,
culture, anche politiche, come nella celebre The New Saint Louis Blues.
Quando Brown abbandona la forma del verso blues attinge ai suoi
significati piú ampi, alle rappresentazioni del mondo che esso veicola.
L’esempio che piú ci piace ricordare è il poemetto Ma Rainey, nel quale
Brown contestualizza l’importanza della cantante analizzandone non la sua
musica, o le sue celeberrime interpretazioni, ma il significato profondo che
la sua figura aveva nelle esistenze di chi assisteva ai suoi spettacoli. Il fine
ultimo era, evidentemente, la creazione di una letteratura afroamericana che
riconoscesse come padri fondatori i protagonisti del blues: esecutori e
ascoltatori, imprescindibili gli uni dagli altri, come le voci dal blues.
O Ma Rainey,
Sing yo’ song;
Now you’s back
Whah you belong,
Git way inside us,
Keep us strong…
O Ma Rainey,
Li’l an’ low;
Sing us ’bout de hard luck
Roun’ our do’;
Sing us ’bout de lonesome road
We mus’ go… 15.
11
«Ho un blues stanco | E non posso essere soddisfatto. | Ho un blues stanco | E non posso essere
soddisfatto. | Io non sono piú felice | E vorrei essere morto».
12
«Andrò al cimitero | Seguendo la mia amica, Miss Cora Lee | Andrò al cimitero | Seguendo la
mia amica, Miss Cora Lee | Cosí quando muoio | Qualcuno mi seguirà».
13
«Hai preso i miei blues e te ne sei andato. | Li canti a Hollywood Bowl | E li hai mescolati con
le sinfonie | E li hai sistemati (in modo) che non sembrano piú miei. | Sí, ti sei proprio preso i miei
blues e sei andato via. | Hai preso anche i miei spirituals e sei andato via. | Mi hai messo in Macbeth e
Carmen Jones | E in tutte le tipologie di Swing Mikados | E in tutto tranne che nelle cose che mi
riguardano. | Ma un giorno qualcuno si alzerà e parlerà di me, | E scriverà di me. | Nero e bello | E
scriverà commedie su di me. | Credo che sarò | Proprio io! | Sí, sarò io».
14
«Spalanca le braccia | Al sole | Danza! Volteggia! Volteggia! | Fino a quando non sarà terminato
il veloce giorno. | Riposati quando arriva la pallida sera… | Un albero alto, sottile… | Giunge
dolcemente la notte | Nera come me».
15
«O Ma Rainey, | Canta la tua canzone; | Ora che sei tornata | Nel posto a cui appartieni, | Fatti
strada dentro di noi, | Mantienici forti… | O Ma Rainey, | Piccola e minuta; | Cantaci della malasorte |
Che ci sta attorno; | Cantaci della strada solitaria | Che dobbiamo percorrere…»
Capitolo nono
Figure (3). Il blues nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
1. Le macchine parlanti.
Le prime registrazioni pensate esclusivamente per l’intrattenimento
furono prodotte a partire dall’ultimo decennio del secolo, ma l’impedimento
maggiore alla loro diffusione era costituito dalla dimensione e dal prezzo
dei fonografi, i cui primi modelli erano impraticabili e costosissimi.
L’immissione sul mercato di macchine piú agili, e abbordabili, causò
un’impennata delle vendite, e il fonografo si rivelò determinante per il
divertimento della middle class bianca. Come acutamente nota Tim Brooks:
2. Il cigno nero.
Mamie Smith, ancora e sempre lei. Attorno alla sua voce scaltra e
rapinosa, ai suoi dischi cosí veloci nel conquistare inimmaginabili
popolarità e fette di mercato, ruota molta parte della protostoria del blues su
disco. Perché sí, è vero, Crazy Blues (preceduto dalle già buone vendite di
That Thing Called Love, nel luglio del 1920) fu un successo inaspettato, ma
le cose furono leggermente piú difficili e complicate di come le si racconta.
Perry Bradford, un afroamericano proprietario di un negozio di musica, era
convinto della bontà delle sue composizioni; ancor di piú confidava
ciecamente nella bravura di Mamie Smith nell’interpretarle. L’idea era
giusta: irrompere nel mercato con un prodotto di grande qualità, in grado di
affrancare la musica afroamericana da quel guazzabuglio di coon song,
vaudeville e canzoncine buffe e dialettali in cui l’establishment era stato
abile a rinchiuderla. L’unico problema era quello di trovare una casa
discografica disposta a credere nell’operazione. La ricerca fu febbrile e
stancante: nonostante l’appoggio di Bert Williams, Bradford consumò due
paia di scarpe, come ricorda nelle sue memorie, collezionò una serie infinita
di insulti e porte in faccia (fors’anche di peggio), fin quando Fred Hager,
manager della OKeh, non acconsentí all’operazione. Hager, all’epoca
direttore musicale dell’etichetta, dovette respingere una forsennata attività
di dissuasione da parte degli stessi impiegati della ditta: lettere minatorie,
minacce di boicottaggio. Seppe resistere, il buon Hager, e il resto è storia.
Come è storia il fatto che la OKeh, fondata da Otto K. E. Heinemann, un
tedesco trapiantato negli States, si impose come la prima grande etichetta
discografica per il mercato afroamericano; grazie al successo di Mamie
Smith, e nell’intenzione di intensificare lo sfruttamento di quella inattesa
vena aurifera, Hager e il suo boss si affidarono a produttori e talent scout di
colore – Clarence Williams, pianista di grandi doti, per esempio – affinché
segnalassero artisti e autori di talento.
Le condizioni, dunque, erano favorevoli affinché potesse essere fondata
la prima compagnia discografica interamente gestita da neri. A capo della
Black Swan, questo il nome scelto per l’intrapresa, c’era Harry Pace, uno
dei personaggi piú affascinanti e complessi che la cultura afroamericana
abbia mai prodotto. Intellettuale raffinatissimo (all’università era stato
allievo prediletto di W. E. B. Du Bois, e per qualche tempo insegnò greco e
latino), attivo politicamente (fondò la prima sede, ad Atlanta, del NAACP , la
National Association for the Advancement of Colored People, una lega in
difesa dei diritti civili, nata nel 1909 su iniziativa, tra gli altri, dello stesso
Du Bois), Pace aveva a cuore anche le espressioni culturali dei suoi fratelli.
A Memphis incontrò W. C. Handy, e con lui costituí una società di edizioni
musicali, attraverso cui proporre alle case discografiche le opere di Handy,
naturalmente, e di altri autori afroamericani ignorati dal sistema produttivo
bianco. Quando la ditta si trasferí a New York, Pace e Handy dovettero
scontrarsi con una discriminazione ferocissima. Sulla spinta
dell’indignazione, Pace decise di mettersi in proprio, e iniziò a cullare il
progetto di fondare una sua società, la Pace Phonograph Company, che vide
la luce nel gennaio del 1921, con lui e un impiegato come forza lavorativa.
Nel maggio dello stesso anno il brillante imprenditore creò l’etichetta Black
Swan (in onore della piú importante cantante lirica afroamericana del
tempo, Elizabeth Taylor Greenfeld, nota appunto come “il cigno nero”), e
rese nota la sua politica culturale ed economica: «Black Swan nasce per
soddisfare una, crediamo, legittima e crescente domanda. In questa terra ci
sono dodici milioni di uomini di colore, e in questo numero si nasconde una
enorme quantità di talento e abilità musicali». Non era dunque soltanto una
questione economica e imprenditoriale: l’attività della casa discografica, nei
piani di Harry Pace, avrebbe dovuto svolgere un ruolo di indirizzo
nell’opinione pubblica, consentire un miglioramento delle condizioni dei
neri, essere un piccolo, ma potente mezzo per combattere la
discriminazione e la segregazione. Che il problema razziale fosse
eminentemente di natura economica, peraltro, Pace l’aveva capito da
tempo; fu per questo, quindi, che Black Swan fu interamente gestita da
afroamericani: dal presidente al consiglio di amministrazione (nel quale
sedettero Du Bois e altri personaggi di spicco della nuova borghesia di
colore) fino all’ultimo dei fattorini, la forza lavoro impiegata era
orgogliosamente nera. Gli aspetti piú propriamente musicali furono affidati
a Fletcher Henderson, il bandleader che di lí a qualche anno avrebbe
inventato il linguaggio orchestrale del jazz, e William Grant Still, che
sarebbe diventato tra i piú importanti compositori neri di musica colta.
Pace si industriò per inserirsi nella competizione scritturando Ethel
Waters, Alberta Hunter e Trixie Smith; il catalogo dell’etichetta, però, non
fu mai esclusivamente incentrato sul blues: anzi, la volontà era quella di
dare la piú ampia rappresentazione possibile dei talenti degli afroamericani
nel campo della musica, senza distinzioni di genere. Fu comunque il settore
del blues a procurare i maggiori incassi, grazie ai quali le finanze della
Black Swan poterono prosperare, almeno per qualche tempo.
I tempi stavano cambiando, per tutti. Cigni e brutti anatroccoli.
6. Blues explosion.
Il triennio dal 1927 al 1930 rappresentò il picco massimo della
produttività discografica in chiave blues e gospel. Le grandi etichette, cui si
erano aggiunte Gennett e BBC (acronimo di Brunswick-Balker-Callender,
aveva rilevato la Vocalion, mentre la Columbia aveva assorbito la OKeh nel
1926), si spartirono il Sud del paese come fosse il tabellone di una partita a
Risiko.
La Columbia setacciava la zona di Atlanta, con risultati certamente
interessanti. Frank Walker mise a segno i primi colpi scritturando Barbecue
Bob, nome d’arte col quale fu lanciato Robert Hicks (che poi registrò col
suo vero nome brani di carattere religioso); poi diversificò l’offerta
scritturando un eccentrico musicista, Washington Phillips, e un evangelista
girovago, Blind Willie Johnson, uno dei musicisti piú misteriosi e
affascinanti della musica afroamericana. La Victor, invece, affidatasi al
geniale Ralph Peer, scandagliava sistematicamente l’area di Memphis, dove
Peer – oltre a registrare musicisti di hillbilly e country bianco – scovò la
Memphis Jug Band, e in seguito tre fondamentali bluesmen come Tommy
Johnson, Frank Stokes e Ishmon Bracey. La Paramount, invece, non si
spostava da Chicago, dove chiamava a registrare i musicisti segnalati. A
capo del suo catalogo dei race record non c’era piú Mayo Williams:
l’ambizioso dirigente aveva dapprima fondato una sua compagnia (Black
Patti, dal nome d’arte della soprano Sissieretta Jones, forse la piú
importante cantante classica di colore della storia), al fallimento della quale
era stato assunto come talent scout dalla Vocalion; per la sua nuova etichetta
Williams registrò Jim Jackson, un istrionico entertainer che si era fatto le
ossa nei medicine show: Jim Jackson’s Kansas City Blues, registrato sulle
due facciate dello stesso disco, fu un successo immediato e clamoroso.
La grande espansione, i picchi di vendite, la diffusione della race music,
la sua capacità di penetrare un mercato assai codificato, e tutto quello che
un simile assetto determinò, suggerirebbero una prima lettura del fenomeno.
Se è vero che mai come in questo momento la black music è merce pregiata
– perlomeno dal punto di vista della produzione di profitto – è pur vero che
nei primi, decisivi sette anni di riproducibilità tecnica il blues vero, quello
cioè afferente al canone sul quale si è costruita la storia delle sue forme e
dei suoi sviluppi, semplicemente non c’è. Tranne pochi casi – Stokes,
Bracey, Tommy Johnson, Blind Blake e, naturalmente, Blind Lemon
Jefferson – i dischi prodotti riguardano generi musicali che con il blues
confinano, che con esso condividono le stesse radici, ma che poco
assomigliano all’idea di blues consegnata all’immaginario collettivo da
decenni di ricostruzioni storiche canoniche. Il disco, in definitiva, racconta
una storia diversa, in cui i grandi del blues appaiono come visitatori casuali
di un fenomeno nel quale i confini tra generi musicali sono molto piú
confusi e labili di come oggi siamo abituati a considerarli; una storia
diversa in cui non c’è differenza – per il pubblico afroamericano, ovvero il
referente privilegiato per il quale quella musica viene creata ed eseguita –
tra canzoni novelty, sermoni e quartetti vocali, sciocche filastrocche da
minstrel show e le allucinate elaborazioni dei bluesmen del Mississippi, o
tra questi ultimi e la cantanti professioniste dei primi anni Venti; una storia
in cui ai bluesmen del Mississippi i talent scout e i discografici bianchi
chiedono di registrare solo blues perché hanno bisogno di vendere quel
particolare prodotto, e non perché i bluesmen non sappiano suonare altro;
una storia, infine, in cui generi musicali, se percepiti come vicini, o simili, o
assimilabili dal pubblico per il quale sono stati creati, evidentemente
devono avere piú di qualche punto di contatto, e di qualche affinità.
Se si esclude Lonnie Johnson, il prodigioso chitarrista a suo agio in ogni
possibile contesto (dal blues downhome al jazz), che vendeva con regolarità
da almeno un lustro, gli ultimi anni del decennio si consumarono in
un’apoteosi di piccoli e grandi colpi di scena. Il piú importante fu la
scoperta di Charley Patton, il piú profondo, geniale e autentico interprete
del blues del Delta; a scoprirlo fu H. C. Speir, talent scout per la Paramount,
al quale si deve, in buona sostanza, il merito di aver scovato una serie
infinita di tesori musicali (al suo palmarès vanno aggiunti i nomi di Son
House e di molti altri, come vedremo). Patton incise, dal 1929, sessantasei
brani di buon successo per la Paramount. Niente di paragonabile, però, ai
due colpi messi a segno dalla Vocalion grazie alla lungimiranza di Mayo
Williams. Leroy Carr, un pianista di Indianapolis, con Scrapper Blackwell
che lo accompagnava alla chitarra, segnò un hit clamoroso al suo primo
tentativo, How Long How Long Blues. Ma a creare vero e proprio
scompiglio fu l’altra intuizione di Williams, il duo formato da Hudson
Whittaker, meglio noto con lo pseudonimo di Tampa Red, e Georgia Tom,
nome d’arte sotto cui si celava Thomas Dorsey (colui che, pochi anni dopo,
avrebbe posto le fondamenta del gospel moderno). La loro musica –
eccezionalmente frizzante, allusiva, sensuale, divertente, ammiccante,
ballabile e spensierata – aprí le porte a una produzione piú urbana, cittadina,
in cui il ritmo, elemento spesso solo implicito nelle performance dei grandi
bluesmen del Delta, giocava un ruolo essenziale e predominante. Non a
caso, per contrastare il successo di Tampa Red si puntò su piccole band,
come i geniali Mississippi Sheiks, o gli Hokum Boys: compagini dal suono
piú contemporaneo, attuale, nervoso e, sorprendentemente, in qualche modo
vicino alle pronunce ritmiche del country bianco.
7. La crisi.
Neanche Tampa Red fu in grado di evitare il collasso del mercato
conseguente alla grande crisi del ’29. Il decennio si aprí, dopo la sbronza
dei tre anni precedenti, su uno scenario impensabile: enorme contrazione
delle vendite, una società americana avvilita e infiacchita dalla depressione,
piccoli o piccolissimi margini di manovra. L’ecatombe, di fatto, era
questione di giorni. La prima a cedere fu la Paramount, seguita da un
nugolo di piccole altre etichette. Chi resisteva, grazie a un catalogo
previdente pieno di brani vivaci o denso di hit dell’ultimo biennio, provò a
giocare ancora qualche carta (la fantastica Memphis Minnie, Big Bill
Broonzy), ma erano tempi duri per tutti.
Dopo un complicatissimo gioco di accorpamenti, fallimenti e
acquisizioni, nel ’34 la mappa delle etichette discografiche impegnate nei
race record era drammaticamente cambiata (troppo, per darne conto in
questo nostro breve resoconto). Non cambiò, invece, il desiderio di scovare
nuovi artisti e dare nuovo impulso al mercato. Mayo Williams produsse due
musicisti dalle grandi potenzialità di vendita: Amos Eastman, i cui dischi
vennero pubblicati con lo pseudonimo di Bumblee Bee Slim, e Peetie
Wheatstraw, uno tra i piú geniali, e inquietanti, bluesman della storia.
Il 1937 fu l’anno della ripresa. I dischi ricominciavano a vendere, la
fiducia aveva sostituito l’ansia, e il pubblico desiderava una musica vivace,
spensierata. Si andava ormai imponendo il modello chicagoano, quello di
Tampa Red, per intenderci, ma la fine di quel decennio fece in tempo ad
assistere alla fugacissima apparizione di un talento infinito. Robert Johnson
fu scoperto da Speir, che prima gli fece un provino nel suo negozio, poi ne
consigliò la scrittura alla ARC . Le ventinove tracce incise da Johnson, che
ebbero un discreto successo, segnano di fatto la fine di un’epoca, e l’inizio
di un’altra. Rappresentano, cioè, la transizione tra il mondo rurale del blues
e il suo definitivo abbandono – stilistico, perlomeno – da parte dei
bluesmen successivi, e indicano il punto di non ritorno di tutto l’apparato
leggendario e misterico che col blues aveva sempre camminato fianco a
fianco. Non era però piú tempo per quelle diavolerie: il pubblico impazziva
per Washboard Sam, abilissimo suonatore di un’asse da bucato percossa
con dei ditali metallici, e già si prefigurava una musica diversa. Diversa dal
blues, a sua volta cosí diverso e simile da tutto il resto; e che a tutto quel
resto, in qualche modo, assomigliava in maniera davvero diabolica.
Capitolo decimo
Figure (4). Bluesbusters. Storie di talent scout, ricercatori, collezionisti e
visionari
1. Cacciatori di talenti.
Tranne che in qualche caso, i loro nomi sono assolutamente sconosciuti
anche agli appassionati. Il piú famoso, come abbiamo visto, fu
probabilmente J. Mayo Williams, l’afroamericano che dopo aver portato ai
vertici del successo nel campo dei race record la Paramount, avviò una
carriera in proprio, come discografico, prima, come talent scout per altre
etichette, poi. Fama, la sua, che deriva dal fatto di essere stato il primo nero
a ricoprire un ruolo dirigenziale in una etichetta controllata da bianchi, e
probabilmente il piú importante produttore di blues nella fase pionieristica
dell’industria discografica. Personaggio di successo, fu agitato da mille
contraddizioni: afroamericano borghese, appassionato piú di football che di
musica (è stato inserito nella Hall of Fame della palla ovale, mentre il suo
amico Fritz Pollard di lui diceva: «Di musica non capisce nulla»), in un
periodo in cui l’indifferenza, o anche l’antipatia, verso il blues era diffusa
tra i neri beneducati, Williams mantenne l’eretica opinione che il blues
rappresentava un aspetto importante dell’eredità razziale. Quando i suoi
amici beffardamente si riferivano a lui e al suo seguito di bluesmen come
“Mayo Williams e i suoi cani”, lui rispondeva: «I miei sono cani di razza».
Abile nel trattare con il suo capo, Supper, al quale anda va bene qualunque
musica o artista vendesse molti dischi, e nel districarsi nelle logiche
aziendali, Williams interpretò il ruolo del talent scout in maniera, invero,
piuttosto statica: non si muoveva mai dal suo ufficio, in pieno South Side a
Chicago, aperto dalle dieci alle cinque; sosteneva che andare in certi
bordelli dove gli segnalavano pianisti di grande bravura fosse troppo
pericoloso. Erano gli artisti a dover andare da lui, e lui non negava
un’audizione a nessuno. A patto, però, che il cantante non fosse
sgrammaticato, volgare, o si comportasse in modo imprevedibile o
disdicevole: in quelle circostanze il produttore l’avrebbe allontanato,
segnandosi il nome in una poco invidiata lista nera. Negli anni successivi
Williams si mostrò molto meno sedentario e dotato di un acume assai
moderno nell’interpretazione del suo lavoro, come quando, di fatto, creò ex
novo una band piuttosto importante come gli Harlem Hamfats. Il suo
contributo alla storia del blues è stato decisivo, anche se incostante e
leggermente eccentrico.
Fondamentale, invece, è stato il ruolo giocato da Henry C. Speir, un
allampanato signore proprietario di un negozio di musica a Jackson,
Mississippi. Per dirla con le parole di Gary Wardlow, lo studioso che lo
rintracciò con la stessa meticolosità come fosse stato un bluesman del
Delta, «Speir ha rappresentato per il country blues degli anni Venti e Trenta
ciò che Sam Phillips ha rappresentato per il rock and roll degli anni
Cinquanta: un visionario musicale. Non ci fosse stato lui, le piú importanti
risorse naturali del Mississippi non sarebbero state sfruttate». A muovere il
talento di Speir non fu l’ambizione, né il desiderio di scalare le gerarchie
sociali (era bianco, e tanto bastava): piú modestamente, il buzzo degli
affari; nel piano superiore del suo negozio aveva installato un registratore e
per cinque dollari stampava un disco test in acetato col provino
dell’aspirante musicista. «Vanity recordings», li chiamava: dischi il cui
unico scopo era soddisfare la vanità del cliente, come una bella foto, o un
bel vestito. Ma quando Speir, nelle sue continue esplorazioni del territorio,
si imbatteva in musicisti interessanti – per lui, che cresciuto nel Mississippi
aveva sviluppato un certo orecchio per la qualità – proponeva loro di
realizzare un test gratis. Gli acetati, poi, li spediva alle case discografiche, e,
in base a questi, Paramount, Brunswick, OKeh decidevano di produrre i 78
giri. Per questo, Speir si definiva non un talent scout quanto piuttosto un
“talent broker”, una sorta di mediatore tra i musicisti e l’industria. Ma era
troppo modesto: a lui si deve la scoperta di tutti i piú grandi bluesmen del
Delta: Charley Patton nel 1929 (e attraverso questi Son House), Ishmon
Bracey e Tommy Johnson nel 1927, Skip James nel 1930. Al contrario di
Mayo Williams al tempo della Paramount, Speir si muoveva molto, alla
ricerca di talenti. Come ricorda Wardlow:
Andava in giro in cerca di talento. Eh, sí, era sempre a caccia. Aveva sentito parlare
di Charley Patton probabilmente attraverso Bo Carter, aveva sentito dire che era
veramente bravo. Cosí andò alla piantagione di Dockery in cerca di Charlie e gli fece
fare una audizione. Quindi lo portò a Jackson, lo mise su un treno che lo portò a
Chicago, da Chicago a Richmond, Indiana. In quel periodo la Gennett Company di
Richmond, Indiana, la Star Piano Company, stampava i master per la Paramount, perché
quelli della Paramount erano di qualità scadente. Pagavano, credo, 40 dollari a lato per i
master, in quei giorni, e gli stessi venivano poi spediti nel Wisconsin, e se ne ricavavano
i dischi. Dunque Charlie andò prima a Richmond, Indiana, e registrò circa sedici
facciate. Poi verso dicembre del 1929, visto che i suoi dischi vendevano davvero bene,
la Paramount chiamò di nuovo Speir per poterlo registrare di nuovo. Questa volta andò a
Grafton, Wisconsin, dove avevano appena aperto un nuovo studio. La Paramount in quel
momento aveva la sede a Port Washington, ma loro registrarono a circa tre miglia di
distanza, a Grafton.
Non era facile fare dischi, all’epoca, come si vede. Eppure Speir ebbe
l’occasione di farlo in grande, e in prima persona. Fu quando il proprietario
della Paramount, nel 1930, gli propose di rilevare l’etichetta: magazzino e
presse. Tutto, per una cifra abbordabile: 25 000 dollari. Speir non aveva
quel denaro (poco tempo prima aveva investito una somma simile in un
pozzo petrolifero, rivelatosi generoso e produttivo solo molti, troppi anni
dopo); tornò a Jackson, dove chiese aiuto a chiunque, Camera di commercio
compresa (avete idea di cosa avrebbe potuto significare una grande etichetta
discografica nel cuore del Delta guidata da un tipo come Speir?) Ottenne
solo rifiuti, purtroppo. La delusione, a ogni modo, non gli impedí di
continuare l’attività; mollò tutto solo nel 1944, quando, immalinconito
dall’anno e mezzo di blocco discografico imposto da Petrillo, il capo del
sindacato musicisti, ritenne l’industria discografica giunta al capolinea. Si
mise allora a vendere mobili. Non prima, però, di aver registrato nel piano
superiore del suo negozio il provino di un musicista abbastanza in gamba:
cantava in falsetto come Ishmon Bracey, ma aveva qualcosa di personale.
Ne segnalò il nome e l’indirizzo a Ernie Oettle, rappresentante di New
Orleans della ARC (American Recording Company), il quale convocò il
bluesman a San Antonio, Texas, nel novembre del 1936. Quel musicista si
chiamava Robert Johnson ed era entrato nel negozio di Speir per registrare
un disco da far sentire agli amici, per dimostrare a tutti quanto fosse bravo.
Come Elvis Presley.
Speir, nel corso della sua carriera di bluesbuster, incrociò piú volte Ralph
Peer, altro personaggio leggendario. Potremmo chiamarlo “il signore delle
camelie”: nell’ultima parte della sua vita, infatti, si dedicò anima e corpo al
giardinaggio e agli studi di botanica, tanto da divenire un luminare del
campo. Le camelie erano, appunto, il suo cavallo di battaglia. Ma anche nel
campo della musica Peer seppe raggiungere risultati di assoluta eccellenza;
anzi, la sua è una di quelle esistenze che gli americani definirebbero “larger
than life”: come altrimenti si potrebbe definire un uomo che supervisionò la
registrazione di Crazy Blues (e di molti altri classici del jazz e del blues); fu
il primo a registrare musicisti nel loro luogo di vita grazie a un rudimentale
studio di registrazione mobile inventato da uno dei geniali tecnici della
OKeh; decise di registrare ufficialmente tutti i musicisti dei quali Speir gli
mandava il test; setacciò il South degli Stati Uniti inseguendo bluesmen
misteriosi e le stelle del genere hillbilly; di fatto inventò il country bianco,
registrando e producendo i dischi di Fiddlin’ John Carson e della Carter
Family; scoprí jazzisti come Fats Waller e cantanti di blues come Sara
Martin; coniò il termine «race record»? Stancatosi del mercato discografico,
Peer fondò una società di edizioni musicali, grazie alla quale riuscí a
ottenere grandi ricavi nell’ambito dei diritti d’autore; al tempo stesso, però,
tenne aperto il suo catalogo a tutte le musiche: da Hoagy Carmichael a
Charles Ives, passando per il rock and roll, il blues e il jazz, Peer costruí il
primo esempio di ecumenismo musicale. Mica poco.
Nella famosa spedizione di registrazione ad Atlanta del 1923, con Peer
c’era Polk Brockman, che ad Atlanta ci viveva e per campare vendeva
mobili, almeno questo dicono le fonti. In realtà, vendeva dischi nel negozio
di mobili del padre, oltre a essere rappresentante della OKeh per il Sudest.
(Che si vendessero dischi in un negozio di mobili non deve stupire: per
almeno i primi venti anni del secolo i fonografi erano considerati
complementi d’arredo, e quindi venduti, con i relativi dischi, come tali). Fu
proprio costui a segnalare Fiddlin’ John Carson all’etichetta, e a far capire a
Peer l’importanza di quella scoperta. Brockman era meno dotato di Peer,
musicalmente (la moglie disse che l’unico suono che gli piaceva era quello
del registratore di cassa) e imprenditorialmente, sebbene sapesse usare le
macchine di registrazione, e non gli mancassero un certo fiuto e un sano
cinismo, come quando, presentendo l’affare, convinse il reverendo J. M.
Gates, dopo aver constatato il successo del suo primo disco, a incidere una
lunga serie di sermoni, poi pubblicati da cinque etichette diverse.
Di passaggio, va comunque segnalato che la nascita del country
modernamente inteso avvenne nel corso delle campagne di ricerca talenti
per irrobustire i cataloghi di race record. E, altrettanto di passaggio, non si
mancherà di considerare come Brockman (e Peer, nondimeno) fu
personaggio decisivo nella costruzione dell’identità della musica country, a
dispetto di una certa cupidigia e una tendenza all’ipersfruttamento dei
musicisti.
Peer e Brockman erano bianchi, ma questo non vuol dire che non ci
fossero talent scout di colore: erano solo molto meno numerosi, e spesso
facevano altri lavori (Clarence Williams, come abbiamo visto, era un
pianista di prim’ordine). Jesse Johnson, bluesbuster per la OKeh, prima, e
altre etichette in seguito, tra i cui tanti meriti c’è quello di aver dato un
contributo fondamentale alla costruzione della scena bluesistica di Saint
Louis, veniva da una famiglia piena di talenti: il fratello, James – detto
Stump per via della piccola statura – fu pianista di qualità, con all’attivo un
paio di buoni successi. Forse per quel tipo di esposizione fraterna Jesse
coltivò un debole per i pianisti: fu lui a scoprire l’eccellente Roosevelt
Sikes, il fenomenale Walter Davis e altri performer minori. Ma il suo fiore
all’occhiello fu senz’altro l’aver consegnato alla storia del blues riprodotto
la voce di Victoria Spivey; la cantante raccontò a Paul Oliver di essersi
recata al Deluxe Record Shop (il negozio di dischi che costituiva l’attività
primaria di Johnson) e di aver preteso di registrare un disco. Fu subito
accontentata, e di lí a breve la Spivey vide pubblicata la sua versione di
Black Snake Blues. Di fiuto Jesse Johnson ne aveva anche per le cantanti:
nel 1925 sposò Edith North, vocalist e pianista (tanto per chiudere il
cerchio) le cui registrazioni, sfortunatamente esigue, mettono in luce
un’artista completa, personalissima e assai originale.
2. La ricerca sul campo.
Ben prima che le presse stampassero Crazy Blues, studiosi e folkloristi
avevano inaugurato la stagione dei field recordings: registrazioni effettuate
sul campo, con apparecchiature portatili – e nei primi tempi poco o nulla
affidabili – per raccogliere in diretta, dalla viva voce dei protagonisti,
forme, espressioni, suoni e canti del popolo afroamericano. Il primo fu
Howard Odum, la cui ricerca produsse molto materiale cartaceo, articoli
accademici e libri, ma nessuna traccia sonora, dal momento che nulla di ciò
che il ricercatore registrò sui cilindri sembra essere sopravvissuto. I primi
suoni di quel mondo ci giungono, invece, dal lavoro pionieristico di
Lawrence Gellert, che a partire dal 1924 intraprese la raccolta di canti di
lavoro, field holler e piú in generale canti di protesta della gente di colore.
Attivista politico, esponente di spicco del movimento comunista, Gellert
provò a restituire un’immagine del popolo afroamericano diversa da quella,
ormai stereotipata, diffusa dagli stessi blues commerciali, raccogliendo (e
pubblicandone i testi) canti e musiche di aperta protesta, di rabbia e
ribellione, che mai nessun bianco avrebbe potuto ascoltare su disco o per
radio.
Il testimone di Gellert, nel tentativo di dimostrare che la musica folk
americana non fosse soltanto il retaggio di quella europea, fu raccolto da
John Lomax che, col figlio Alan, appena diciassettenne, nel 1933 intraprese
una delle spedizioni etnomusicologiche piú famose della storia. Partendo
dall’idea di realizzare un’antologia delle ballate e dei folk song americani,
Lomax prese in prestito dalla Biblioteca del Congresso (dove si era appena
dimesso Robert W. Gordon, altro importante ricercatore, il cui lavoro di
testimonianza fa il paio con quello di Gellert) l’apparecchiatura di
registrazione, la sistemò sui sedili posteriori della sua automobile, e partí
diretto a sud. Impossibile descrivere, anche solo sommariamente, i successi
straordinari che i Lomax misero a segno nell’arco dei loro viaggi.
L’intuizione che mosse le loro prime esplorazioni – cercare nei penitenziari,
luoghi solitamente isolati e meno raggiungibili dal mondo esterno – si
dimostrò talmente esatta da consentire loro non solo di accedere a un
repertorio, a forme, modelli e prassi di cui si ignorava l’esistenza, ma anche
di scoprire veri e propri talenti del blues. Come, e questa è storia assai nota,
Huddie William Leadbetter, piú noto col nome di Leadbelly. I Lomax lo
trovarono nel famigerato penitenziario di Angola, in Louisiana, dove
l’uomo stava scontando una pena detentiva (la seconda della sua vita) di
trentacinque anni. John Lomax prese molto a cuore la storia di Leadbelly e
si adoperò affinché il bluesman ottenesse la grazia con un pardon song, una
richiesta di grazia in musica; Leadbelly era già ricorso a questo
stratagemma: la prima volta aveva funzionato, funzionò anche stavolta. Da
uomo libero, il musicista divenne consulente, factotum e autista dei Lomax
nelle loro spedizioni di ricerca. Almeno fino al 1940, quando minacciò
Lomax padre con un coltello, e da quella volta i due non si rivolsero piú la
parola.
Se John Lomax rappresentava la tradizione di ricerca pura, il cui scopo
era principalmente quello di preservare le espressioni folkloriche prima
della loro scomparsa o che fossero irrimediabilmente compromesse dalle
musiche moderne, Alan Lomax è stato una delle figure piú innovative,
brillanti e centrali dell’etnomusicologia del XX secolo, disciplina alla quale
la sua instancabile produzione ha dato fondamentali contributi. Volendoci
limitare solo al blues, l’attività di ricerca, di analisi, di testimonianza di
Alan Lomax è stata indirizzata non soltanto alla scoperta di forme e
musicisti (il caso piú eclatante è la registrazione del giovane Muddy Waters,
quando ancora vive nelle piantagioni di cotone Stovall, vicino a
Clarksdale): lo studioso ha provato, verso la fine della sua carriera, a fare il
punto dei suoi numerosi viaggi, delle sue innumerevoli registrazioni in un
libro importante, The Land Where Blues Begun, nel quale convoglia le sue
idee e il suo punto di vista; questi non sempre sono condivisibili, ma
restano punti cardinali per una piú profonda, o alternativa, ricostruzione
storico-estetica. Come intervistatore, poi, Lomax registrò ore e ore di
chiacchierate con grandi musicisti: celeberrima quella con Jelly Roll
Morton, il cui risultato complessivo, però, mostra come l’etnomusicologo
tendesse a forzare la direzione del discorso, a imprimere la sua visione delle
cose sovrapponendola a volte a quella dell’intervistato. Piccole macchie,
impercettibili difetti che, in una produzione enorme, vastissima e di
eccezionale ampiezza, sono quasi invisibili.
Con Lomax, ben presto nominato capo dell’American Folk Song
Archive della Biblioteca del Congresso, e contemporaneamente a lui,
operarono altri notevoli ricercatori. John Weasley Work III nel corso degli
anni Quaranta realizzò un’importante raccolta di canti folklorici
afroamericani, ristampati recentemente in un formidabile CD (John Work
III: Recording Black Culture, prodotto da Evan Hatch per la Spring Fed
Records) e fu, con altri due docenti della Fisk University (Charles Johnson
e Lewis Jones) autore di una ricerca di decisiva importanza per la
conoscenza e la comprensione dell’ambiente nel quale il blues è nato e si è
sviluppato. In collaborazione con Alan Lomax, i tre impostarono un lavoro
di ricerca sul campo in una delle comunità afroamericane piú importanti
nella nascita del blues, Clarksdale e la contea di Coahoma. Volevano
misurare in che modo il crescente grado di urbanizzazione avesse cambiato
la fruizione di musica della popolazione; scoprirono che nei juke-box nei
bar per neri dell’intera zona si ascoltavano i grandi classici dell’epoca
(Count Basie, Fats Waller, Louis Jordan), come in un qualsiasi altro luogo
di Harlem o del South Side di Chicago. Non c’era un solo microsolco, in
quelle macchine, inciso da un musicista della regione. Nessuna
testimonianza concreta del fatto che proprio lí, non molti anni prima, forse
era nato il blues.
L’impagabile lavoro di Lomax e gli altri è stato poi continuato, sebbene
da prospettive e angolazioni affatto diverse, da un nutrito numero di
studiosi, ai quali si devono i primi seri studi sul blues e, soprattutto,
l’indicazione di un metodo e di una prospettiva. A Samuel Charters, e al suo
volume The Country Blues, pubblicato nel 1959, si attribuisce la paternità
dello studio sistematico del blues rurale, verso il quale indirizzò l’attenzione
e le ricerche di molti studiosi e appassionati. Il libro era accompagnato da
un album, realizzato dall’etichetta Folkways di Mose Asch, il cui scopo era
quello di riportare alla luce suoni, voci e blues che nessuno aveva mai, di
fatto, ascoltato. La compilazione fu effettuata tenendo conto dei musicisti
che piú avevano venduto nel periodo esaminato, e fu proprio quest’aspetto,
come vedremo piú avanti, a scatenare la reazione decisa di un manipolo di
collezionisti. Nel corso delle sue numerosissime ricerche sul campo
Charters ebbe la fortuna, e il talento, di scoprire, o riscoprire, musicisti a
lungo dimenticati, come Furry Lewis.
Di due anni piú anziano, e inglese di nascita, è Paul Oliver, il piú
importante storico del blues vivente. Di formazione artistica – è stato
grafico, ed è attualmente un’autorità in materia di architettura vernacolare –
lo studioso britannico ha imposto una sterzata decisa alle metodologie di
studio del blues, sorpassando le ricostruzioni, spesso poetiche e lievemente
imprecise, di Charters, per attingere a una profondità e completezza di
ricostruzione che ancora oggi rendono la sua The Story of Blues, tra le
migliori opere in circolazione. Oliver ha pubblicato moltissimo e, come
Charters, si è misurato con l’intero ventaglio delle problematiche legate al
blues: le origini africane, la lingua poetica, la differenziazione stilistica per
regioni. La sua produzione, le sue ricerche, le registrazioni sul campo
effettuate in anni di viaggi e ricerche costituiscono una pietra angolare,
ponendosi come inevitabile punto di partenza per gli etnomusicologi della
generazione successiva, come David Evans e Jeff Todd Titon.
3. Blues Mafia.
Sembrerà strano, ma del fiorente mercato discografico nato attorno al
blues tra il 1920 e il 1941, dei milioni di copie vendute, dei ricchi cataloghi
pubblicati dalle etichette discografiche all’inizio degli anni Cinquanta non
restava quasi piú nulla: a causa del deperimento della materia prima di cui
erano fatti i dischi, la gommalacca, la cui diffusione scarseggiò duramente
prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale; l’oblio generale nel
quale piombarono gli artisti un tempo famosi soprattutto nella propria
regione (come dimostra la ricerca nella contea di Coahoma cui si accennava
piú su); lo scarso interesse delle case discografiche a mantenere un archivio
dettagliato di chi e cosa fosse stato registrato e la sparizione, spesso dopo
due o tre cambi di gestione delle etichette discografiche medesime: per
questi, e altri, motivi – come la scomparsa fisica di alcuni tra i principali
protagonisti – il blues fu ricacciato in una sorta di dimenticatoio: una zona
oscura, relegata nei meandri di una rimemorazione flebile, quasi
inconsistente.
Per anni i 78 giri incisi da Charley Patton, Son House, Blind Lemon
Jefferson, per citarne solo un nugolo, scomparvero letteralmente dalla
scena, cosí come i musicisti che li registrarono. Se Patton e Lemon
Jefferson erano passati a miglior vita, di Son House nel 1950 non si sapeva
neanche se fosse ancora vivo; né si aveva una seppur pallida e approssimata
idea di che musica suonasse, o del colore della sua voce. E di quella di
Patton, Lemon Jefferson, Bracey, Tommy Johnson e gli altri. Nessuno
sapeva, tranne un piccolo e sparuto gruppo di strani e ossessivi personaggi,
accomunati da due, spesso insane, passioni: il blues e il collezionismo di
dischi. Non lo sapevano, ma grazie soprattutto alla loro opera le voci dei
grandi del blues sono giunte fino a noi.
Il primo si chiamava Harry Smith. Intellettuale prolifico, artista visuale,
antropologo a tempo perso, iniziò ben presto a raccogliere vecchi 78 giri; il
suo interesse era rivolto ai race record e alla produzione country e hillbilly,
e setacciando Seattle nei primi anni Quaranta riuscí in breve tempo a
mettere insieme una poderosa collezione, cui associava una profonda
conoscenza di musiche e musicisti, nonostante le scarse fonti a
disposizione. A New York, dove si era trasferito per sfuggire agli strali della
commissione McCarthy, in difficoltà economiche decise di vendere una
parte consistente della sua collezione a Mose Asch, per 35 centesimi a
disco. Ma tale e tanta era la qualità e la rarità del materiale che il
discografico chiese a Smith di compilare una robusta antologia. I sei long
playing della Anthology of American Folk Music, curati e annotati dal
collezionista, uscirono nel 1952 e rappresentarono un evento di formidabile
portata: costituirono, innanzitutto, l’inizio di quella che potremmo definire
archeologia sonora, voci e suoni che tornano alla luce dopo un’operazione
accurata e delicata di scavo e ritrovamento; nella loro ecumenicità – si
passa da Blind Lemon Jefferson alla Carter Family, per citare solo due
paletti di uno slalom costante tra blues e hillbilly – le scelte di Smith
desideravano testimoniare l’esistenza di un folk americano indivisibile, di
una sola musica in cui si mescolavano le tradizioni e le eredità africane ed
europee; infine, l’antologia indicava un metodo, un sistema, una possibilità:
sebbene il vero collezionista di blues fosse meno disposto a considerare
altre musiche al di fuori delle dodici battute, era il processo, la modalità
della ricerca e della pubblicazione a rappresentare un modello perseguibile.
Piú o meno contemporaneamente alla pubblicazione della corposa
antologia, un gruppetto di giovanotti iniziava a collezionare dischi. Nessuno
di loro, però, manifestava l’apertura d’orizzonte di Smith: erano
appassionati di blues, e cercavano solo dischi di blues, in un momento in
cui in giro ne erano rimasti davvero pochi. Pete Whelan nel ’52, Gayle
Wardlow nel ’54 iniziarono una vasta operazione di raccolta e recupero, la
cui modalità primaria era quella del porta a porta. L’idea era acuta: dove si
potevano trovare i vecchi race record se non nelle case dei neri che li
acquistarono e che non se n’erano ancora disfatti? La ricerca diede risultati
incoraggianti e, anche attraverso lo scambio con altri collezionisti, i due
riuscirono a costruire collezioni di un certo prestigio. Whelan, a New York,
divenne abituale frequentatore di una cerchia di appassionati, con i quali
discutere le proprie liste di ricerca, scambiare valutazioni e opinioni,
leggere le riviste dedicate al collezionismo; con Whelan c’erano Bernard
Klatzko, Nick Perls, per un breve periodo lo stesso Samuel Charters,
Stephen Calt, Don Kent, Lawrence Kohn, Ben Kaplan: avevano deciso,
scherzosamente, di chiamare Blues Mafia quella loro accolita; talvolta
venivano raggiunti da qualcuno del contingente di Washington, come Dick
Spottswood o Bill Givens. Di norma, si incontravano una volta alla
settimana, a casa di ciascuno: si faceva eccezione solo per James McKune,
il piú anziano e autorevole della compagnia, colui che per le conoscenze e
la strabiliante collezione era considerato il decano, il capo, l’esempio da
seguire; ma non potevano vedersi a casa sua, perché all’epoca McKune
abitava in una stanza dell’YMCA a Williamsburg; teneva i preziosi acetati
(non molti: trecento, ma tutti di primissima scelta) in una scatola di cartone
nascosta sotto il letto. Non era difficile incontrarlo al negozio di dischi di
Big Joe, un ritrovo di appassionati e feticisti; di solito il suo abbigliamento
prevedeva camicia bianca, pantaloni neri, calze bianche e scarpe nere, e
nessuno ricorda di averlo mai visto vestito in maniera diversa. Né era noto
ad alcuno da dove venisse, quanti anni avesse. Probabilmente, nacque
intorno al 1910, non a New York, dove arrivò in un momento imprecisabile;
di sicuro, aveva lavorato come redattore all’ufficio di Brooklyn del «New
York Times», per poi impiegarsi come portiere di un ostello e part time in
un ufficio postale. La fase del collezionismo iniziò piú o meno alla metà
degli anni Quaranta, quando ascoltò Charley Patton e decise di seguirne la
voce, come incantato. In tasca aveva sempre la sua “want list”: un elenco di
milletrecento dischi che sperava di poter possedere, prima o poi: l’aveva
pubblicata sul Record Changer, nel ’43, e anni dopo, sulle colonne dello
stesso giornale, qualcuno era disposto a pagare per quella lista quanto per
un raro 78 giri.
A scatenare l’azione della Blues Mafia fu la pubblicazione del libro di
Samuel Charters The Country Blues. L’autore, un tempo membro della
congrega, aveva chiesto aiuto ai suoi compagni “mafiosi”, affinché gli
permettessero di ascoltare alcuni rarissimi dischi presenti nelle loro
collezioni, e altrimenti irreperibili. Nonostante ciò, il libro, e l’antologia
discografica che l’accompagnava, nelle opinioni di McKune e dei suoi
accoliti, fallivano completamente il bersaglio nell’utilizzare il gusto degli
ascoltatori afroamericani come termometro della qualità di un certo artista.
A nulla era servito l’aiuto di Whelan e degli altri. Charters aveva tradito, e –
in un certo senso – doveva pagare l’affronto. L’offensiva iniziò con una
mossa a sorpresa di McKune: nonostante fosse il piú riservato, e incostante,
del gruppo, si mise in contatto con l’editore di «Vintage Jazz Mart» (per gli
amici, VJM ), una rivista inglese per collezionisti, al quale chiese spazio per
pubblicare una recensione del libro di Charters. Quello che doveva essere
uno scritto occasionale si trasformò in una rubrica fissa, intitolata The Great
Country Blues Singers, che McKune tenne fino al 1965. La prima puntata
iniziava cosí:
I collezionisti di cantanti di country blues Nero dovrebbero leggere ciò che segue. O
dovrebbero portarlo appuntato addosso perché gli altri possano leggerlo.
Questo saggio integra ciò che Sam Charters non ha detto, o non ha detto in maniera
esaustiva, nel suo libro The Country Blues.
Alla fine del suo libro Charters dichiara che era stato aiutato dall’ascolto dei dischi
blues di Pete Whelan, Pete Kaufman, Ben Kaplan. Ma da nessuna parte ammetteva che
il suo libro contraddiceva Whelan e me, o che poteva essere contraddetto da tutti gli altri
cultori del blues Nero primitivo.
Non pensiate che lo dica solo per lamentarmi. Ciò che Charters fece per i cantanti
autentici del country blues, lo fece bene. Ma scrisse numerose pagine sui cantanti del
blues popolare Blind Lemon Jefferson, Leroy Carr, Lonnie Johnson, Bill Broonzy,
Brownie McGhee, Lighting Hopkins.
Jefferson è un cantante di country blues. Fece molti dischi per la Paramount. Li ho
ascoltati tutti tranne cinque. Secondo la mia valutazione, basata sull’ascolto di dischi di
blues sin dal 1943, Jefferson fece un solo disco che può considerarsi grande: Jack O’
Diamond/Chock House Blues, in Pm 12373.
Lighting Hopkins è un cantante di country blues oggi. Ma ho dei dubbi sul fatto che i
suoi piú ferventi ammiratori possano affermare che fosse dello stesso livello di Blind
Lemon. Gli altri cantanti su menzionati, celebrati da Charters, al di là delle loro vendite,
non sono cantanti country.
Charters ha scritto il suo libro basandosi sulla vendita dei dischi. Questo avrebbe
senso, o potrebbe averne, se il libro fosse stato pubblicato per quei neri, di cinquant’anni
o piú, che avrebbero potuto cosí leggere tutto sui cantanti che loro stessi ascoltavano
trent’anni prima.
Pochi di questi hanno comprato il libro di Charters. È stato acquistato, direi,
soprattutto dai collezionisti di blues o dagli studiosi del folklore nero, potenziali
collezionisti di blues.
Questo è il punto fondamentale. Conosco venti persone che collezionano il country
blues nero. A tutti noi interessa sapere chi siano stati i grandi cantanti del blues country,
non chi abbia venduto di piú.
Rispetto a questo parametro, i cantanti che hanno venduto meglio, Charters può avere
ragione. Ma io scrivo per coloro che vogliono un riferimento di valutazione diverso per i
cantanti blues. Ed è la loro relativa grandezza, o competenza, come cantanti di country
blues.
2. Storyville blues.
Jelly Roll Morton, oltre a saperla lunga, aveva una memoria di ferro,
come anni di ricerche e documentatissime ricognizioni a posteriori hanno
dimostrato. I lunghi, entusiasmanti racconti che rese ad Alan Lomax nel
corso delle interviste per la Biblioteca del Congresso, piú che i
vaneggiamenti di un egocentrico erano testimonianze di prima mano,
racconti veritieri e precisi fatti da un autentico protagonista. Per essersi
incastonati nella memoria del formidabile pianista come gemme
risplendenti, i blues di Mamie Desdunes dovevano averlo proprio colpito. E
Morton non si lasciava colpire facilmente. Ma chi era, esattamente, questa
proto-blueswoman? Racconta il pianista:
Uno dei primi blues che abbia mai ascoltato l’ho ascoltato da una donna, che viveva
accanto alla casa di mia nonna, nel Garden District. Si chiamava Mamie Desdoumes.
Nella mano destra le mancavano le due dita centrali, e suonava con le tre che le
restavano. Suonava tutto il giorno un blues come questo, e cominciava la mattina presto,
appena si svegliava.
Mamie Desdoumes la conoscevo bene. Ho suonato spesso con lei, e lei cantava
quegli stessi blues. Era una poco di buono. Una cantante blues, povera ragazza. Di solito
suonava, e bene, nelle sale da ballo di Perdido Street. Quando Hattie Rogers o Lulu
White dicevano in giro che Mamie avrebbe cantato nelle loro case, i bianchi si
riversavano a frotte e le puttane pulivano tutto per bene.
Nonostante avesse due dita mancanti alla mano destra, e fosse una “poor
gal”, una povera ragazza, i bianchi facevano la fila per ascoltare questa
donna, musicista a Storyville, il quartiere a luci rosse. Il suo cavallo di
battaglia, quello che Morton suona per Lomax – rievocando in un secondo,
con precisione mirabile tutta l’atmosfera della New Orleans di inizio
Novecento – raccontava la storia, triste e patetica, di una prostituta. Un
lamento, composto e accorato, nonostante tutto:
When Ma Rainey
Comes to town,
Folks from anyplace
Miles aroun’,
From Cape Girardeau,
Poplar Bluff,
Flocks in to hear
Ma do her stuff;
Comes flivverin’ in,
Or ridin’ mules,
Or packed in trains,
Picknickin’ fools…
That’s what it’s like,
Fo’ miles on down,
To New Orleans delta
An’ Mobile town,
When Ma hits
Anywheres aroun’ 18.
“Ma” Rainey era una figura straordinaria. Non aveva bisogno di cantare alcun verso:
bastava che emettesse un sospiro e il pubblico sospirava insieme a lei. Lo teneva in
pugno. Ho ascoltato anche Bessie Smith, però “Ma” Rainey era la piú amata dal
pubblico. Bessie era la piú grande cantante di blues, ma la Rainey conosceva veramente
questa gente; era una donna del popolo; era molto semplice e immediata. Quella notte,
quando la vedemmo, aveva problemi con un ragazzo. Sai, le piacevano i giovani
musicisti, e arrivammo John Work e io – eravamo giovani per lei. Ci mandarono nel suo
camerino e non sapeva chi dei due scegliere. Ma nessuno dei due stava scegliendo lei!
Volevamo solo parlare, ma lei era interessata ad altro. Era molto diretta. Era il meglio
cui potessi aspirare. Era grande.
Il City Auditorium era stipato di almeno 3500 persone e per la prima volta nella mia
vita ho visto la regina del blues; sto parlando dei primi anni Venti e IO LA VIDI ! Quando
Miss Smith entrò su quel palco per un minuto non riuscii a respirare. Volgeva verso di
noi i suoi occhi grandi e scintillanti con quel delizioso sorriso mostrando i suoi denti
perlacei, con diamanti grandi quanto un dente. Poi guardai il suo vestito. Nient’altro che
lustrini, paillettes e strass, oltre a un mantello di velluto con applicazioni di pelliccia.
Eravamo tutti impazziti. Poi iniziò a cantare – e tirò giú l’auditorium. Tra un brano e
l’altro, mentre la band continuava a suonare, si cambiava d’abito in un minuto, e tornava
a tempo record per il pezzo successivo. La sua voce piena riempiva completamente
l’auditorium, senza l’uso di microfoni, come si fa oggi. Quello era cantare il blues! Fu
una grande ispirazione, che mi rinforzò nel desiderio di diventare una cantante.
Che a sua volta sarebbe diventata una regina del blues la piccola ce
l’aveva scritto nel nome: Victoria Regina Spivey nacque a Houston, Texas,
il 15 ottobre 1906, da genitori con qualche trascorso musicale. Fu una
ragazzina prodigio e altrettanto prodigiosamente iniziò a esibirsi in giro,
stringendo amicizia con Blind Lemon Jefferson e ascoltando i dischi dei
suoi modelli, Ida Cox e Sara Martin. Alle quali, però, non fu mai
stilisticamente fedele, poiché il suo pensiero artistico già si muoveva su
coordinate diverse: quando – dopo aver, di fatto, strappato un provino a
Jesse Johnson – incide il suo primo disco nel 1926, quello che si ascolta è
un suono fantastico, modernissimo, lontano da ogni possibile comparazione
con gli stilemi del canto femminile dei quali il blues classico si era fino ad
allora nutrito. Accompagnandosi al pianoforte, Victoria dispiegò un timbro
lamentoso e inquietante, un moan (in)credibile e acido, che ne sarebbe
diventato il marchio di fabbrica. Come i testi dei suoi blues, ossessivamente
incentrati su temi sinistri, oscuri, dark. Droga, sesso, violenza: tutto
trasudava una certa morbosità, come in Blood Thirsty Blues:
Quando giunge sul palco tra le pieghe blu elettrico del sipario alle sue spalle, è
avvolta in un mantello da sera nero con applicazioni di pelliccia bianca. Non avanza, ma
esita, girando il suo viso di profilo. Il pianista suona un tipico pezzo di Blues. Clara
inizia a cantare:
«Sono preoccupata tutto il giorno; tutto il giorno sono triste; sono cosí terribilmente
sola, non so cosa fare, cosí lo chiedo a te Dottore, vedi se puoi trovare qualcosa nella tua
borsa per pacificare la mia mente. Dottore! Dottore! (I suoi toni diventano intensamente
patetici; lacrime scendono sulle sue guance.) Scrivimi una ricetta per questo blues, per
questo vecchio e maledetto blues! (Recipe for the Blues)».
(La sua voce svanisce in un doloroso lamento di angoscia e lei nasconde la testa tra i
tendaggi del sipario.) La voce di Clara Smith assume incredibilmente il colore del
sassofono; e poi del clarinetto. Sa essere potente, ma anche malinconica. E fa lacrimare
sangue da ogni cuore. I suoi gesti espressivi ed essenziali sono pieni di significato. Che
artista!
5. Fine di un regno.
Al termine di questa lunga carrellata tra voci, volti e desideri di un
ventennio formidabile, c’è da chiedersi come mai la presenza femminile sia
stata limitata al periodo del cosiddetto blues classico. Cosí centrale e
decisiva da determinarne un’estetica (se è vero che Robert Johnson
perfezionò i suoi blues ascoltando i dischi di “Ma” Rainey e Bessie Smith),
essa è poi scivolata nel nulla, con poche eccezioni, ben difese da una cortina
impenetrabile. Secondo alcuni studiosi, la musicologa Susan McClary tra
questi, l’universo femminile nel blues ha scontato gli effetti di un canone
che, come abbiamo visto, collocava nell’opera dei musicisti del Delta
l’origine del vero blues, e ascriveva al registro delle stranezze e delle
bizzarrie della storia l’avvento delle cantanti degli anni Venti, il cui
apprendistato negli spettacoli itineranti, e i cui repertori permeabili a
qualsiasi genere musicale di intrattenimento, testimoniavano l’impurità
dell’espressione e l’opportunismo della scelta stilistica. Come se l’onta
della commercializzazione delle dodici battute pesasse esclusivamente sulle
loro corde vocali, regine, principesse, imperatrici e usignoli sono state a
lungo dimenticate: soprattutto, hanno cantato una sola stagione. Quella,
però, fu l’unica stagione in cui si crearono i presupposti per una cosí
massiccia presenza femminile. Il blues è stato da sempre un fatto quasi
esclusivamente maschile perché nato in una società e in un periodo in cui le
differenze nella condizione dei sessi erano ben delineate, come ricorda con
precisione la McClary:
Quello che è stato chiamato «Classic Blues» […] è un discorso che articola una lotta
culturale e politica sulla relazione tra i sessi: una lotta contro l’oggettificazione della
sessualità femminile all’interno di un sistema patriarcale, ma che prova anche a
riscattare il corpo femminile come soggetto sessuale e sensuale del canto delle donne
[…] Le cantanti di blues occupavano uno spazio privilegiato; avevano oltrepassato i
confini domestici e portato la loro sensualità e sessualità dal privato nella sfera pubblica.
In questo Paese la chitarra veniva diffusa, insegnata e studiata quasi alla stessa
stregua degli altri strumenti europei colti. Gli insegnanti americani di chitarra (come gli
altri musicisti insegnanti) esaltavano le radici europee e insegnavano il loro strumento
attraverso tecniche formali – inclusa la notazione scritta – importate dall’Europa.
Nella vita degli Americani del XIX secolo troviamo la chitarra non tra i lavoratori
itineranti o tra la popolazione rurale povera; né era uno strumento dei ceti elevati.
Piuttosto, troviamo la chitarra nel ceto medio, soprattutto tra coloro che non potevano
permettersi un pianoforte (il vero simbolo del decoro vittoriano), o tra coloro che si
trovavano appena oltre la fase pionieristica e non abbastanza competenti da esserne
pratici.
Vincendo le barriere sociali, la chitarra sorpassa la linea del colore,
livellando strati sociali e abitudini private.
Nel Sud degli Stati Uniti, però, le cose andarono diversamente. Sebbene
le grandi comunità di afroamericani avessero sviluppato negli anni tecniche
e stili espressivi su strumenti a corda immediatamente derivanti dai
prototipi africani (come abbiamo visto nella prima sezione del libro), la
chitarra fu adottata dai bluesmen per la sua ricchezza timbrica e per la
maggiore duttilità rispetto al banjo. I primi strumenti, presumibilmente,
apparvero in Texas e in California, portati da soldati spagnoli o attraverso il
confine col Messico. In un breve lasso di tempo, quindi, i musicisti
meridionali seppero elaborare un vasto repertorio di tecniche e prassi
esecutive in grado di conferire alla loro musica quella peculiare dimensione
timbrica che ne costituisce parte del fascino.
I bluesmen applicarono alla sei corde tecniche di varia provenienza,
molto spesso inventate dallo stesso esecutore in risposta a una necessità
esecutiva o espressiva. Quella del bending, per esempio, è ancora oggi
estesamente utilizzata nel rock: con l’idea di piegare la nota si spinge la
corda tastata tangenzialmente al manico: piú la corda viene curvata, piú la
nota si alza in maniera non convenzionale. La piú celebre di queste tecniche
è senza dubbio la cosiddetta tecnica slide. Consiste nel tastare le corde non
con i polpastrelli delle dita, ma facendo scivolare lungo di esse un aggeggio
liscio – la lama di un coltello o il collo di una bottiglia (da cui il nome
bottleneck) – con lo scopo di, da un lato, ottenere un suono in glissando,
senza soluzione di continuità nel passaggio da una nota all’altra con la
possibilità di intonare intervalli particolari, inferiori al mezzo tono;
dall’altro, le note cosí ottenute acquistano una grana molto simile a quella
della voce umana. Sulla provenienza di simile tecnica non dovrebbero
esserci dubbi: il racconto di W. C. Handy riguardo al suo casuale incontro
notturno col bluesman nella stazioncina di Tutweiler fa esplicitamente
riferimento allo stile esecutivo reso famoso dai chitarristi hawaiani. Spiega
Andrea Rebora:
La nascita non ufficiale di questo strumento risale grosso modo al periodo 1860-80, e
la sua paternità è oggi attribuita a tre diverse persone: James Hoa, Gabriel Davion e
Joseph Kekuku. Ognuno dei tre infatti, da testimonianze di amici e concittadini, o da
proprie affermazioni, rivendicò l’invenzione della tecnica slide. Le controversie che
ancor oggi ci sono in merito non tengono conto, a mio avviso, del fatto che è
probabilissimo che ciascuno dei tre abbia effettivamente e nello stesso periodo «creato»
la steel guitar a insaputa degli altri due ma casualmente, come derivazione della tecnica
tradizionale della chitarra; e probabilmente alla stessa scoperta saranno arrivati anche
numerosi altri chitarristi di allora rimasti nell’anonimato.
Gus Cannon, nato nel nord del Mississippi nel 1883 e stabilitosi nel Delta vicino a
Clarksdale nel 1895, sentí per la prima volta una slide guitar «intorno al 1900, forse
poco prima». Il chitarrista era Alec o Alex Lee, che nacque verso il 1870 e trascorse la
maggior parte della sua vita nelle vicinanze di Coahoma Country. Le canzoni che
suonava con una lama includevano John Henry, probabilmente uno dei primi pezzi
suonati con la slide guitar, e Poor Boy Long Ways from Home, una canzone melodiosa di
un solo verso in cui ogni frase è ripetuta tre volte (AAA), e a cui rispondeva con la
chitarra slide.
L’incontro tra le due tecniche, probabilmente, si concretizza nell’uso del
bottleneck con le chitarre National, strumenti che perfettamente si
adattavano allo scivolamento, come si può vedere nella registrazione
filmata delle strepitose esecuzioni di Son House degli anni Sessanta. L’uso
del bottleneck, però, imponeva un’accordatura aperta, altro filone di grande
sperimentazione e innovazione dei bluesmen. Per accordatura aperta si
intende una intonazione delle sei corde della chitarra diversa da quella
standard (dalla prima corda, quella che produce la nota piú bassa: mi-la-re-
sol-si-mi). Inseguendo accordi piú ricchi o risonanti, la possibilità di poter
piú facilmente eseguire parti solistiche e di accompagnamento allo stesso
tempo, o sonorità piú personali, i musicisti alteravano l’accordatura dello
strumento, anche in assenza di bottleneck. Tra le accordature aperte, una
delle piú utilizzate è la cosiddetta Vestapol, o di Re maggiore (re - la - re -
fa diesis - la - re); Debra DeSalvo decritta l’origine del nome:
L’accordatura Vestapol era quasi sempre usata nella parlour music, musica per
chitarra suonata nei salotti buoni della borghesia, popolare dalla metà del 1800 fino
all’inizio del nuovo secolo. Ha preso il nome dalla pubblicazione avvenuta nel 1854
della partitura di un brano strumentale intitolato L’assedio di Sebastopoli, cosí chiamata
dopo l’assedio durato undici mesi di una base navale russa a Sebastopoli in Ucraina
durante la Guerra di Crimea.
Non aveva niente a che fare con lo stereotipo del bluesman agli inizi. Pianista
raffinato, con una voce gentile, espressiva, era conosciuto per i suoi vestiti eleganti e
visse la maggior parte della sua vita a Indianapolis. Il suo primo disco How Long - How
Long Blues, del 1928, ebbe un effetto rivoluzionario paragonabile a quello del pop
crooning di Bing Crosby, e per ragioni simili. Le prime stelle del blues, sia che
provenissero dal vaudeville, come Bessie Smith, sia che fossero cantanti di strada come
Blind Lemon Jefferson, avevano avuto bisogno di voci potenti per proiettare la loro
musica, ma con l’aiuto di nuovi microfoni e tecnologie di registrazione, Carr sembrava
un raffinato tipo di città che conversava con pochi intimi amici.
I testi di Carr erano scritti con molta attenzione, univano poesia sentimentale e
beffarda ironia, e la sua musica aveva uno swing leggero e cadenzato che poteva, in un
attimo, scivolare in un trascinante boogie. Piuttosto che sui gruppi jazz che
accompagnavano Bessie Smith, o sul peculiare stile chitarristico di Blind Lemon
Jefferson, Carr cantava sul solido ritmo del suo pianoforte e sulla pungente chitarra del
suo abituale accompagnatore Francis (Scrapper) Blackwell. Quello che veniva fuori era
una novità, uno stile da club urbano che segnò una nuova era nella popular music.
L’impatto che Carr ebbe sul blues degli anni Trenta lo si può forse
misurare, piú che sul numero di copie vendute, sull’improvvisa apparizione
di epigoni e imitatori. La formula piano-chitarra assicurava un equilibrio
sonico ed espressivo inusuale, spingendo la musica in avanti, garantendole
però una pertinenza e una forza diverse. Bumblee Bee Slim e Bill Gaither
(il quale incise brani con lo pseudonimo di Leroy’s Buddy) provarono,
essendo musicisti di spessore, a replicarne i modi timbrici e le nuances
vocali; ma anche per due bluesmen come loro era difficile ripetere
l’introversione di versi come
Ahimè! Non fosse stato per il mio amato violino, non riesco a immaginare come
avrei potuto sopportare la schiavitú per lunghi anni. Mi ha fatto entrare in grandi case –
mi ha alleggerito i numerosi giorni di lavoro nei campi – mi ha permesso di rendere la
mia baracca piú confortevole – pipe e tabacco e paia di scarpe in piú, e spesso mi ha
consentito di stare lontano da un padrone duro, di essere testimone di situazioni allegre e
divertenti. È stato il mio compagno – il mio amico del cuore che festeggiava
rumorosamente quando ero felice, che diffondeva la sua dolce melodiosa consolazione,
quando ero triste. Ha annunciato il mio nome al Paese – mi ha fatto conoscere amici che
non si sarebbero mai accorti di me – mi ha dato un posto d’onore nelle feste annuali, e
assicurato il piú sonoro e affettuoso benvenuto da parte di tutti durante le feste da ballo
di Natale.
Per imparare le tecniche del violino gli schiavi venivano addirittura
mandati a New Orleans, diventata a partire dal 1840 la capitale
incontrastata di questo e altri strumenti. Come nota Marshall Wyatt, verso la
fine del secolo il violino era lo strumento piú diffuso anche nelle band che
stavano, di fatto, creando i presupposti per la nascita del jazz. A questo tipo
di sonorità fu, evidentemente, esposto Lonnie Johnson, il quale, prima di
diventare uno dei chitarristi piú brillanti della musica del XX secolo, iniziò
la sua carriera come violinista. E non dimenticò mai di esserlo stato, visto
che, da quando ottenne il suo primo contratto discografico con la OKeh nel
1925, registrò piú di venti brani con il suo primo strumento. Johnson era un
musicista versatile: sapeva suonare correttamente anche pianoforte e
harmonium, cantava con voce gradevole e senza incertezze, ma restò legato
agli strumenti con i quali aveva iniziato la sua carriera professionale
nell’orchestra del padre. Celebre il suo Violin Blues, inciso nel 1928, nel
quale, dopo aver cantato una strofa e prima di improvvisare, urla: «Violin,
sing the blues for me!», dimostrando come il violino avesse peculiarità
espressive e tecniche, quasi cantabili, da renderlo perfettamente adeguato al
blues. Johnson riassume, nella sua arte violinistica, molti dei tratti
sopravvissuti all’oblio cui i black fiddler sono stati condannati: facilità
nell’uso di bicordi – spesso accordi a tre note, ottenibili con piú facilità in
virtú della minore curvatura del ponticello –, sonorità molto vicina alla
grana della voce umana e una naturale e istintiva propensione
all’improvvisazione. Caratteristiche riassunte con precisione da Michael
Hoffheimer:
Mentre i tre componenti della Jug Stompers utilizzavano solo chitarra, banjo,
armonica e jug, la Memphis Jug Band era formata sempre da cinque o sei musicisti e
usava diverse combinazioni di chitarre, armonica, pianoforte, banjo-mandolino,
mandolino, violino, contrabbasso, washboard e kazoo. Generalmente, le band tendevano
ad arrangiare le loro canzoni – un segno di professionalità – con espedienti pensati per
attirare l’attenzione come lo stop-time, che permetteva al jug o ad altri strumenti di
suonare brevi assoli. Spesso cantavano armonizzati, un altro segno di professionalità.
5. L’arpa in cantina.
Per essere uno strumento piccolo, poco costoso, alla portata di tutti e di
umili origini, l’armonica a bocca indossa un nome altisonante: è conosciuta,
negli States, come harp, o French harp, e questo ha causato qualche
problema non già ai musicisti quanto ai traduttori italiani, spesso tratti in
inganno. Un esempio, tra i molti, è nel doppiaggio di The Blues Brothers, il
film di John Landis che narra le vicende dei fratelli Jake ed Elwood Blues,
impersonati da John Belushi e Dan Akroyd. Durante la conversazione in
orfanotrofio con Curtis (Cab Calloway), Elwood ricorda di quando lo stesso
Curtis gli cantava le canzoni di Elmore James e suonava l’arpa in cantina.
L’arpa in cantina? Strano. Infatti, è un formidabile svarione del traduttore,
caduto nel tranello. La frase originale, peraltro, non si prestava a essere
fraintesa: “singing Elmore James tunes and blowing the harp for us down
there”. Come si fa a soffiare in un’arpa?
Come si soffia in un’armonica a bocca, invece, i musicisti afroamericani
hanno imparato a farlo subito e bene, tanto da lasciare un’impronta
indelebile nella storia e nelle prassi esecutive dello strumento. L’armonica
nacque ufficialmente nel 1812, anno in cui l’appena sedicenne Christian
Friedrich Buschmann ne registrò il primo brevetto. L’idea di strumenti a
fiato funzionanti attraverso l’azione di ance libere non è tuttavia nuova,
tutt’altro: è vecchia di tremila anni, da quando cioè in Asia si costruiscono
veri e propri organi a bocca, mouth organ. Lo sviluppo del primo brevetto
di Buschmann portò a significative modifiche e migliorie: quelle del
tedesco Hohner fissarono le caratteristiche dello strumento cosí come le
conosciamo oggi. Questi, dopo aver impiantato la prima fabbrica in Europa,
nel 1862 sbarcò sul suolo americano, e già quindici anni dopo produceva un
milione di pezzi all’anno. Un successo enorme.
Piccola e alla portata di tutti, dunque, ma non semplicissima da suonare.
L’armonica, infatti, proprio per il suo peculiare funzionamento (soffiando e
aspirando si ottengono due note diverse) e le diverse filosofie costruttive
(diatonica e cromatica: la prima permette di suonare solo le sette note di una
determinata scala, l’altra di suonare tutti i dodici semitoni dell’ottava) offre
svariate possibilità sia al dilettante che al virtuoso, e a tutti l’opportunità di
misurarsi con una serie intrigante di peculiarità espressive. Per la sua
conformazione l’armonica è in grado di sviluppare inconsueti tappeti ritmici
(grazie al serrato alternare delle due fasi respiratorie), di piegare le note con
un effetto di bending proprio come la tecnica slide sulla chitarra, di imitare
una nutrita serie di suoni (quello del violino, tra i tanti: e questo spiega il
diffondersi dell’armonica nella musica di chiesa, dove il violino veniva
considerato strumento del diavolo), le caratteristiche della voce umana, o
macchine e macchinari di ogni genere.
Inevitabile, dunque, che la piccola armonica arrivasse tra le mani e le
idee dei bluesmen. Tra questi, molti specialisti dello strumento si sono
messi in luce a partire dalla metà degli anni Trenta. Sonny Terry
(all’anagrafe Saunders Terrell) e Sonny Boy Williamson (il cui vero nome
era John Lee Curtis) iniziarono a pubblicare nel 1937. Il primo disco di
Sonny Boy per la Bluebird, Good Morning School Girl, fu un successo
inaspettato, e lo impose all’attenzione di pubblico e musicisti. Per dieci anni
la sua tecnica articolata e la straordinaria espressività furono prese a
modello da tutti gli armonicisti, fin quando non fu vittima di un’aggressione
a Chicago, nel 1948, che pose fine alla sua sfavillante carriera, e alla sua
esistenza, a soli trentaquattro anni. Sonny Terry ebbe invece un percorso piú
lungo, segnato prima dalla collaborazione con Blind Boy Fuller, interrotta
alla morte precoce di quest’ultimo, nel 1941, e poi da quella pluridecennale
con Brownie McGhee, protrattasi fino agli anni Settanta.
Sonny Boy Williamson e Sonny Terry furono gli interpreti dell’armonica
blues moderna: a loro si ispirò il piú innovativo tra i suonatori di harp, il
portentoso Little Walter Jacobs, simbolo assoluto dell’armonica post-
bellica, e dunque al di fuori del perimetro di questo libro. Prima di loro,
però, tre formidabili musicisti tracciarono le linee di sviluppo stilistico dello
strumento. Il primo si chiamava DeFord Bailey, e fu una vera e propria
leggenda.
Nacque a Smith County, Tennessee, alla fine del 1899. A tre anni
sopravvisse alla poliomielite, e nel lungo anno in cui fu costretto a letto, la
sua creatività si mise al lavoro.
Fu a quel tempo che iniziò a sviluppare il suo stile musicale. Giaceva nel letto e
ascoltava i suoni dell’ululato dei cani, dello svolazzare delle oche, del vento che soffiava
attraverso le crepe del muro e, ancora piú importante, il rumore sordo dei treni che
passavano lontano. Finalmente guarí, sebbene la malattia avesse gravemente
compromesso la sua crescita e lo avesse lasciato leggermente gobbo.
One day I was in the yard and she heard me playing. She said, «I didn’t know you
could play like that. How long have you been playing?» I told her, «All my life». From
then on she had me stand in the corner of the room and play my harp for her company.
I’d wear a white coat, black leather tie, and white hat. I’d have a good shoeshine. That
all suits me. That’s my make-up. I never did no more good work. My work was playing
the harp 22.
A harp ought to talk just like you and me… You got to learn how to make it talk in
all sorts of ways. I can make it say whatever I want to 23.
Me and a guy, he was playing with me, George Bullet Williams. I run up on him. You
about done heard talk of him ’cause they still got some of his old records. Some people
got them now. George Bullet Williams, the best harp blower I ever heard from that day
to this day. He’s from Alabama. I don’t know whether living or dead… Yeah, that’s
right. And I just don’t see how he could be living because George would drink
denatured, strained shoe polish. I’m telling you the honest to God truth, anything with
alcohol on it, he would drink it […] Yeah. I know if he living, he got an iron stomach…
I believe he’s dead now. Got to be dead. Uh-huh 24.
6. Squeezebox.
Alla stessa famiglia degli strumenti ad ancia libera appartiene anche la
fisarmonica, il cui ruolo nelle vicende del blues, in verità, è stato sempre
piuttosto sottovalutato. La ragione è semplice: poche, pochissime sono le
registrazioni effettuate con questo elaborato strumento, e scarse sono le
testimonianze dalle quali poter evincere una storia, o una tradizione, o uno
stile esecutivo. Un problema comune a diverse prassi e stili strumentali,
derivante da quella che Narváez chiama la «mediazione commerciale»,
ovvero il processo attraverso cui, da un lato, la produzione discografica ha
delineato i caratteri del repertorio (e di una certa idea di canone) blues;
dall’altro, canalizzato l’attenzione di studiosi e musicisti verso gli strumenti
piú rappresentati e registrati, cancellando, di fatto, quelli piú raramente
utilizzati. A leggere le interviste fatte dai primi ricercatori sul campo è
lampante l’assenza di qualsiasi riferimento alla fisarmonica. Certo, ma è
altrettanto lampante l’assenza di una qualsiasi domanda specifica
sull’argomento, almeno fino a quando Kip Lornell, incuriosito dal fatto che
Leadbelly avesse mostrato una certa abilità nel maneggiare lo strumento,
iniziò a chiedere a musicisti e testimoni se mai avessero visto qualcuno
suonare la fisarmonica.
Alla ricostruzione di un quadro inaspettatamente diverso, nel quale si
scopre un ruolo invece assai importante dello squeezebox (come vengono
gergalmente chiamati gli strumenti a mantice) hanno contribuito i lavori di
Jared M. Snyder. Alla sua tenacia, e alla profondità della sua ricerca, si deve
il recupero di una storia antica, e l’esatta collocazione di una prassi
strumentale di gran valore, nonostante i pochi riscontri su vinile.
Lo strumento, intanto, non è esattamente la fisarmonica cui siamo
abituati. È molto piú simile a quello che nelle nostre tradizioni popolari
prende il nome di organetto diatonico: una fila di bottoni per la mano destra,
appena tre per la sinistra. Le possibilità armoniche e melodiche, sebbene lo
strumento produca due note diverse quando il mantice viene aperto o
chiuso, sono abbastanza limitate: due ottave e mezzo, per la destra, e la
semplice alternanza di tonica e dominante per i bassi. Ciononostante
l’accordion (per essere esatti) conosce una diffusione assai significativa sin
da prima della Guerra Civile; molte sono le testimonianze dell’abilità con la
quale gli schiavi seppero confrontarsi con uno strumento nuovo, e fuori
dalla loro capacità produttiva. L’accordion risolveva molti problemi:
permetteva di accompagnare qualsiasi canzone da ballo (normalmente
costruita su progressioni armoniche semplici), e, soprattutto, dava al
musicista la possibilità di poter suonare da solo, di elaborare
simultaneamente una linea solistica e una di accompagnamento; di essere,
in buona sostanza, una one man band. Al tempo stesso, consentiva
l’espressione di una ricchezza timbrica inarrivabile, che lo rendeva quasi
indispensabile in alcune formazioni con chitarra e fiddle, organico spesso
utilizzato da Charley Patton per le serate danzanti (Homer Lewis era
l’accordionista).
Il blues, però, era una roba difficile da suonare, per l’accordion. La
natura dello strumento non permetteva di suonare le alterazioni cosí tipiche
della scala (terzo e settimo grado abbassati di un semitono), cosa che gli
armonicisti riuscivano a fare attraverso un uso spregiudicato dell’emissione
del fiato, e i fisarmonicisti cajun grazie all’introduzione di modifiche
costruttive; né consentiva il passaggio I-IV-V della progressione armonica,
o le inflessioni tipicamente bluesy ottenute glissando o tirando le note. I
musicisti, insomma, dovevano elaborare strategie e stratagemmi per poter
piegare le dodici battute alle miserie costruttive dell’attrezzo. A giudicare
dall’opera di Walter “Pat” Rhodes, il piú famoso tra gli specialisti di
accordion, ci riuscirono, seppur con qualche difficoltà. Mentre molti
giovani musicisti trovarono che il gioco non valesse la candela, adottando la
chitarra (Big Joe Williams, Blind Willie McTell, Muddy Waters e, come
abbiamo visto, Leadbelly), Rhodes proseguí la sua ricerca, che lo portò a
essere il primo e unico fisarmonicista del Mississippi a incidere dischi nel
1927.
È Rhodes un’aberrazione, una stranezza, un’eccezione o il frutto di un
movimento stilistico? Da questa domanda è partito Snyder per (ri)scoprire
un tesoro seppellito. Ma l’accordion, a nostro avviso, rappresenta molto di
piú di uno spicchio di storia. Nella sua sfida con le bizzarre tecniche di una
musica dell’anima, esso delimita il meraviglioso luogo della possibilità, un
luogo dove poter sperimentare e cercare soluzioni a problemi espressivi, e
di comunicazione. Nella sua imperfezione, nel suo essere tutto tranne che
adatto al blues, l’accordion ne costituisce lo strumento forse piú
emblematico, costretto com’era a piegare la sua propria natura per poterlo
suonare.
Ecco perché in copertina abbiamo scelto di mettere la foto di un anonimo
suonatore di accordion. Perché pensare il blues vuol dire non erigere
steccati; al contrario, richiede la massima disponibilità al confronto e al
dialogo, al rapportarsi con un’idea di altro talmente vasta da far tremare le
vene. Un accordion e un washboard, allora, esprimono, meglio di molte
parole, il senso di questo libro.
7. Banjo.
Banza, bangil, banjer, bangelo, banshaw, banjo, bandore, banjer, banjor,
banjar, banjay, banjaw, bangah. Sono solo alcuni dei nomi con i quali viene
chiamato lo strumento conosciuto ai nostri giorni come banjo, in documenti
risalenti al periodo 1678-1800. Che il banjo sia uno strumento di origine
africana è ormai un dato acquisito (come abbiamo visto nella prima
sezione), ma non lo era fino a quarant’anni fa, quando la musicologa Dena
Epstein inaugurò la ricerca che la condusse
a mettere a tacere numerosi miti che erano stati ampiamente diffusi, sebbene oggi sia
difficile credere che possano essere stati presi sul serio: che il banjo era stato
“inventato” dai bianchi negli Stati Uniti, che era stato reso popolare inizialmente da
gruppi di menestrelli, o che era sconosciuto agli schiavi nelle piantagioni. Deve essere
assolutamente chiaro che chi, grazie alla sua posizione, compreso lo stesso Thomas
Jefferson, poteva saperlo piú di altri, credeva che il banjo fosse uno strumento africano.
Sono stati prodotti documenti contemporanei che parlano di uno strumento simile al
banjo in Africa nel 1621, nelle Indie Occidentali Francesi nel 1678, in Giamaica intorno
al 1689, e continuamente attraverso le Indie Occidentali e il Sud degli Stati Uniti fino a
dopo l’avvento del minstrel show . Queste testimonianze sono il materiale grezzo sul
quale poter impostare una discussione sensata sul banjo e sul suo ruolo nello sviluppo
della musica popolare nera nell’emisfero occidentale.
21
«Ho il blues prima che sorga il sole, e le lacrime agli occhi. | Ho il blues prima che sorga il
sole, e le lacrime agli occhi. | Era un sentimento miserabile, piccola, un sentimento che disprezzo».
22
«Un giorno ero nei campi e mi sentí suonare. Disse: «Non sapevo sapessi suonare cosí. Da
quanto tempo suoni?» Le risposi: «Da tutta la vita». Da allora in poi mi fece stare nell’angolo della
stanza a suonare la mia armonica per i suoi ospiti. Indossavo un soprabito bianco, una cravatta nera
di pelle e un cappello bianco. Avevo un buon lustrascarpe. Tutta questa roba mi sta bene. Questa è la
mia divisa. Non ho piú fatto un lavoro vero. Il mio lavoro era suonare l’armonica».
23
«Un’armonica deve parlare proprio come facciamo io e te… Devi imparare a farla parlare in
tutti i modi possibili. Io posso farle dire ciò che voglio».
24
«Io e un tizio, suonava con me, George Bullet Williams. Mi imbattei in lui. Probabilmente
avrete sentito parlare di lui perchè hanno ancora qualche suo vecchio disco. Qualcuno li ha ancora.
George Bullet Williams, il migliore armonicista che abbia mai sentito. Veniva dall’Alabama. Non so
se sia vivo o morto… Già, proprio cosí. E non vedo come abbia potuto continuare a vivere perché
George beveva alcol denaturato, si scolava il lucido per le scarpe. Vi sto dicendo la verità, ve lo giuro
su Dio, qualsiasi cosa contenesse alcol, lui la beveva […] Già. Sono certo che se è vivo, ha uno
stomaco di ferro… Credo sia morto. Deve essere morto. Uh-huh».
Capitolo tredicesimo
Modelli. Il blues e le altre musiche
1. Peccatori e santi.
Poche pagine fa, con una certa disinvoltura, analizzando la curiosa
connivenza, all’interno della categoria race record, di blues e sermoni,
musica profana e musica sacra, abbiamo avanzato l’idea che quella
convivenza fosse stata resa possibile dal fatto che, in qualche modo, era la
stessa musica; se non altro, aveva lo stesso pubblico. Affermazione
iperbolica, senza dubbio, ma il cui fondo di verità, se esiste, forse vale la
pena rinvenire: il rapporto e la relazione tra blues e musica religiosa
costituisce uno snodo, a nostro avviso, essenziale per potersi avvicinare alla
loro dimensione piú profonda.
La chiesa e il blues hanno a lungo rappresentato luoghi e tempi ritagliati:
l’una come territorio fisico inattaccabile, l’altro come spazio mentale e
psichico di sopravvivenza. Per molto tempo il bluesman e il predicatore
sono stati la voce della comunità afroamericana: attraverso loro è stato
possibile costruire parametri e modelli di espressione, l’articolazione di un
sapere sociale e di una consapevolezza politica, inscritte in una dimensione
allo stesso tempo artistica e spirituale. Era inevitabile che i predicatori, i
ministri della Chiesa diventassero figure cruciali nelle comunità, come
spiega acutamente Carter Woodson:
I sermoni che il ministro dispensava dal pulpito non erano piú una
semplice lettura biblica, quanto la giuntura forte, inevitabile, tra lo spirito e
il mondo, le esigenze di preghiera e quelle di lotta. In essi si esprimeva tutta
la potenza linguistica e immaginativa, la facondia unita alla innata forza di
persuasione. Nessun argomento era intoccabile, o tabú: bisognava tirare le
linee guida della comunità con geometrica precisione, e a Dio piacendo.
Ecco perché, quando alla Columbia annusano l’aria e intuiscono il
colpaccio iniziando a registrare sermoni e canti, il successo è immediato:
per i fedeli, anche di congregazioni e chiese e comunità lontane migliaia di
miglia, quelle parole rimbomberanno per giorni e giorni tra le pareti di casa;
quei discorsi, quei moniti, quelle promesse e le voci stentoree che le
porgono si potranno ascoltare anche dieci, cento volte senza perdere un
milligrammo di suggestione.
Molto piú modestamente, ma con la medesima energia e con quel
plusvalore di contenuta dissolutezza, e di geniale creatività, il bluesman
dava voce ad altre aree dello stesso corpo sociale, mettendo in musica una
visione del mondo condivisa e condivisibile; ne garantiva circolazione e
movimento, con la propria possibilità di spostamento, o grazie alla velocità
di diffusione dei dischi. Un ruolo decisivo, se si pensa che normalmente il
bluesman parla per chi non ha voce, per chi non ha mezzi e strumenti per
farsi ascoltare, e delle cui espressioni e sensazioni si fa interprete e
testimone.
Similitudini forti, che finiscono col precipitare in comportamenti e stili
performativi. Molti sono gli elementi di stretta somiglianza, a partire,
secondo la classica indagine di Margaret McCarthy, dall’approccio alla
lingua utilizzata.
L’affermazione è una attitudine tipica sia del predicatore che del bluesman. A
sostenerla c’è una elasticità che rifiuta di essere soppressa, e la caratteristica che il piú
delle volte nutre questa elasticità è l’umorismo – un umorismo che va oltre le tematiche
dolorose espresse in entrambe le forme, sia che si tratti di peccato, come nel caso di un
sermone, o di amore non corrisposto, come può essere nel caso dei blues.
Se il panorama delle similitudini è ampio e luminoso, quello delle
discordanze, delle dissonanze lo è altrettanto. Non va dimenticato, cioè, che
sebbene con sfumature di varia intensità, da una parte si celebrava il bene e
dall’altra si cantava il male; in chiesa si provava a tenere alla larga i fedeli
dal sesso extramatrimoniale, dal gioco d’azzardo, dall’alcol, dalle droghe,
dai comportamenti immorali, mentre nei blues gli stessi temi venivano
affrontati con approccio diverso. La musica del diavolo era tale non perché
incitasse alla danza, al canto o al divertimento – elementi senza i quali non
poteva esserci redenzione e trascendenza – ma perché regolava l’ottica della
visione del mondo a un livello considerato basso, pericoloso, vizioso e
precario.
Posizioni contrapposte, addirittura antitetiche e antagoniste, che però non
impedirono il crearsi di una fluida possibilità di dialogo, di contaminazione,
di ibridazione. Il fenomeno dei cosiddetti evangelisti girovaghi è una di
queste. Musicisti itineranti, il loro repertorio era spesso cosí ampio da
comprendere i blues; quando suonavano musica sacra lo facevano con una
rurale, rauca, diabolica, inconfondibile inclinazione. Blind Joe Taggart
incise tra il ’26 e il ’34; in strada o nei picnic, per le mance degli ascoltatori,
eseguiva i blues; in studio si limitava al repertorio religioso, quando
firmava col suo nome: sotto pseudonimo, invece, registrava anche la musica
del diavolo, e le facce con il nome di Blind Joe Amos testimoniano di un
musicista inventivo e originale.
Blind Willie Johnson invece non oltrepassò mai la linea del blues,
restando sempre aggrappato all’idea di redenzione attraverso la musica. La
sua esistenza è avvolta da una leggera cortina leggendaria, che sfuma fatti e
avvenimenti rendendoli approssimativi e imprecisi. Nacque vicino a
Brenham, Texas, nel 1897, e divenne cieco da bambino, quando la
matrigna, picchiata dal marito per l’ennesimo atto d’infedeltà, decise una
vendetta grottesca lanciando della soda caustica sul volto del piccolo Willie
piuttosto che su quello dell’uomo che la violentava. L’apprendistato
musicale era iniziato un paio d’anni prima, nella locale Church of God in
Christ, dove oltre alla chitarra costruitagli con una scatola di sigari dalla
madre naturale, morta prematuramente, apprese i rudimenti del pianoforte e
provò a coltivare il suo desiderio di diventare un preacher. La sua vera
palestra, però, fu ovviamente la strada. Per tutta la vita Willie Johnson si
esibí agli angoli delle strade, con un barattolo vuoto appeso al collo per
ricevere le monetine dei passanti. Il Texas era il suo palcoscenico: Marlin,
dove per molti anni si è creduto fosse nato, poi Dallas e infine Beaumont, la
sua ultima casa. Anche se non accolse mai nella sua musica il blues, le
trenta tracce che il chitarrista incise tra il 1927 e il 1930 incarnano un
lascito la cui importanza ancora non è stata misurata: una musica di
sovrannaturale potenza, impossibile da ignorare, i cui influssi sono ancora
oggi percepibili nel blues e in tutte le musiche nere.
In ogni aspetto della sua produzione Willie Johnson produsse miracoli;
la sua tecnica chitarristica, grazie a un uso dello slide di rara efficacia, è tra
le piú imitate del secolo, e la sua voce, cosí potente, rauca, selvaggia in certi
brani, e morbida e setosa, in altri, indica un totale controllo, la capacità di
usare una sorta di mascheramento, il coraggio di operare senza alcun
riferimento a tecniche e modi conosciuti.
Nel corso della sua prima seduta di registrazione (a Dallas, il 3 dicembre
1927 nello studio mobile allestito da uno stupefatto Frank Walker dove,
appena il giorno prima, aveva inciso l’incontornabile Washington Phillips)
cesellò otto pietre miliari, che avrebbero sfidato il tempo grazie alla presa
che ebbero sui musicisti a venire: Nobody’s Fault But Mine fu presa in
prestito dai Led Zeppelin nell’album Presence (la foto di Blind Willie
Johnson, invece, è in bella mostra sulla copertina di Led Zeppelin 2);
Motherless Children, pubblicata poi su Vocalion con lo pseudonimo di The
Blind Pilgrim, è entrata nel repertorio di Eric Clapton, mentre Bob Dylan si
affidò a Jesus Make Up My Dying Bed per il suo primo album, e If I Had
My Way I’d Tear the Building Down è stata eseguita da una miriade di
gruppi e musicisti, dai Grateful Dead agli Staples Singers. Quello stesso
giorno Willie registrò forse il suo piú alto contributo all’arte e alla
sensibilità umane. Dark Was the Night, Cold Was the Ground è una
preghiera senza parole: una riflessione sulla Crocifissione fatta di una sola
linea melodica, suonata dalla chitarra e doppiata dal moanin’, il canto a
bocca chiusa dell’artista. Tre minuti e venti secondi di purissima magia
sonica, di arte elevata a potenza, di perfetta e trascendente bellezza. Come
Mahler quando compose Das Lied von der Erde, Willie Johnson suona i
silenzi, il vuoto, misurandosi con un’idea sovrannaturale eppure tutta
terrena di estasi. Sul brano, che attualmente vaga nei meandri infiniti dello
spazio a bordo della navicella Voyager 1, in orbita dal 1977, Richard
Spottswood ha scritto:
Resisterò alla tentazione di eguagliare l’eloquenza emozionale di questa performance
con le mie parole; certamente, appartiene alla lista dei dischi piú grandi di ogni tempo,
capace di illustrare, con enorme potenza, l’appeal spirituale che una chitarra slide può
avere tra le mani di un maestro… una preghiera senza parole nella forma di un dialogo
intimo tra Johnson e il suo strumento, che assume lo status di performance solo in virtú
della presenza di un microfono.
Le chiese nere, in virtú del potere che esercitavano nelle comunità, condannarono il
blues come corrotto e corruttore. Questo ci ha portato a percepire il bluesman come
stretto in una condizione dualistica: o si canta la “musica del diavolo” e si rischia la
dannazione eterna, o si rinuncia completamente alla musica mondana e si vive la
Cristianità. Questa è l’idea che molti di noi si sono fatti circa il dilemma morale che
affliggeva i cantanti di blues: prendere o lasciare. La scelta era o/o, mai e.
Molti bluesmen si formarono musicalmente nelle chiese nere. Questo, insieme ai loro
credo religiosi, spinse molti di essi a includere nel proprio repertorio canti religiosi. Di
solito, questi canti non venivano eseguiti in pubblico, ma venivano registrati e venduti
all’interno della comunità nera. In tal modo, il messaggio religioso dei bluesmen
raggiungeva tutti – sia praticanti che non.
Per uno non abituato a quella musica, distinguere tra i pezzi cantati pochi minuti
prima (in chiesa) e quelli che venivano ballati nel locale vicino ai binari della ferrovia
poteva essere impossibile. Tutti chiedevano la stessa domanda. Per quanto ancora, Dio?
Quanto tempo?
He had a left hand like God. He didn’t even know what key he was playing in, but he
played them all. He would play the ragtime stride bass, but it bothered him because his
stomach got in the way of his arm, so he used the walking bass instead. I can remember
when I was thirteen – this was 1896 – how Turk would play one note with his right hand
and at the same time four with his left. We called it «sixteen» – they called it boogie-
woogie now 25.
Quando nacque il blues, il paesaggio era silenzioso. Il piú rumoroso dei suoni che
rompeva la quiete era il ruggito del treno a vapore mentre passava nelle pianure,
lasciando uno sbuffo di fumo contro il cielo blu. Un breve istante di eccitazione al suo
passaggio, un fischio acuto, profondo e lamentoso come un blues e tutto finiva lí. Si
racconta che gli ingegneri avessero intonato le trombe del fischio a vapore affinché
suonassero un blues, ma esso probabilmente suonava già cosí per le mani che
lavoravano i campi e usavano come orologio i treni che passavano.
Anonimi musicisti neri, desiderosi di afferrare un treno e scappare lontano dai loro
problemi, incorporarono il ritmo della locomotiva a vapore e il lamento dei loro fischi
nella nuova musica ballabile, quella che suonavano nei jukes e nelle sale da ballo. Il
boogie-woogie cambiò per sempre il modo di suonare il pianoforte, cosí come quei
pianisti dalle grandi mani trasformarono lo strumento in una ferrovia poliritmica.
1. Ostinato – una linea di basso sincopata che traccia la pro-gressione di accordi nella
forma blues di 12 battute.
2. La pulsazione swing – la pulsazione swing può essere limitata alla mano sinistra
(pulsazione swing vera e propria) o prevedere la combinazione della mano destra e della
sinistra (pulsazione swing di interazione).
3. Sincope – come per la pulsazione swing, questa si può eseguire con ciascuna delle
due mani.
4. Interplay poliritmico – si ha l’interplay tra le due mani che suonano l’una contro
l’altra.
5. Condotta della mano destra, altamente percussiva, e spesso melodica – spesso in
staccato e ritmicamente complessa.
6. La mano sinistra è di frequente melodica e di contrappunto alla mano destra – può
dare la sensazione che piú di una persona stia suonando contemporaneamente.
7. Forte senso di tonalità.
8. Spesso la forma blues in dodici battute.
Honky Tonk Train Blues fu inciso per la prima volta da Lewis nel 1927,
per la Paramount, e dunque incarna perfettamente la fase di passaggio dal
boogie rurale a quello cittadino. Certo, il boogie suonato nella barrelhouse
di un accampamento texano di inizio secolo e in un appartamento di
Chicago degli anni Venti non poteva essere lo stesso. Una delle differenze
maggiori – come ci raccontano alcuni dischi incisi da Romeo Nelson e lo
stesso Clarence Pinetop Smith – risiedeva nel fatto che il pianista, diventato
performer a tutti gli effetti, aveva anche il compito di fornire elementari
indicazioni sui tempi e sui modi delle danze, e per far questo interrompeva
il flusso musicale per mezzo di un break, l’improvvisa e spesso
imprevedibile interruzione della musica che i jazzisti, da Louis Armstrong a
Jelly Roll Morton, avevano trasformato in frastornante effetto a sorpresa.
Il trascinante honky tonk di Lewis non fu però il primo brano registrato a
contenere il tipico basso boogie. Il riconoscimento spetta a un musicista
straordinario, George Washington Thomas junior. Fratello di Sippie
Wallace, e di Hersal, giovanissimo prodigio della tastiera, è considerato,
unanimemente, il musicista che prima, e meglio, elaborò gli stilemi del
boogie, rendendoli a disposizione di tutti sin dalla pubblicazione su spartito
di New Orleans Hop Scop Blues, apparso nel 1916, e nelle successive
composizioni. The Fives e The Rocks, accreditate anche a Hersal, sono i due
cardini dell’estetica boogie urbana; George registrò il primo con lo
pseudonimo di Clay Custer, segnando cosí la prima apparizione ufficiale del
boogie su disco. Se George fu il teorico della famiglia, Hersal era il talento
allo stato puro. Ma la sua carriera, che si preannunciava sensazionale, fu
troncata da una morte per avvelenamento da cibo, ad appena vent’anni.
La scuola stilistica dei fratelli Thomas produsse, seppur indirettamente,
uno stuolo di eccellenti musicisti. Tra questi, va segnalato Jimmy Blythe,
uno tra i pochissimi pianisti di blues a trovarsi a proprio agio in ogni
circostanza. Il suo Chicago Stomp, inciso nel ’23, è un boogie perfetto e
paradigmatico, moderno e addirittura visionario. Altrettanto interessante è,
nella veste di accompagnatore, Sunshine Special, di due anni piú tardi: qui,
al fianco della cantante Sodarisa Miller, Blythe esprime una profondità di
tocco e pensiero formidabili, riuscendo a piegare il boogie e il suo
ingombrante fardello in una dimensione piú cameristica. Una meningite
improvvisa lo uccise nel 1931. Non aveva neanche trent’anni.
Accanto a questa tradizione piú moderna, però, continuò a proliferarne
una piú rurale, dalla quale provennero, almeno stilisticamente, i campioni
del boogie degli anni Quaranta, ovvero Meade Lux Lewis, Albert Ammons
e Pete Johnson. Lewis e Ammons appresero i primi rudimenti, e i primi
trucchi del mestiere, da Jimmy Yancey. Personaggio degno di un feuilleton,
aveva già quarantun anni quando incise per la prima volta, nel ’39, e alle
spalle una vita spesa tra i palcoscenici del vaudeville nei panni di cantante e
ballerino; la sua compagnia, nel 1913, ebbe l’onore di esibirsi a Londra,
dinanzi alla regina e consorte, e i due coronati ebbero parole di
ammirazione per il giovane entertainer. Lasciato l’intrattenimento girovago
nel 1915, Yancey decise di imparare a suonare il pianoforte da autodidatta,
con l’aiuto di suo fratello Alonzo, e in breve tempo acquisí una padronanza
entusiasmante, tanto da essere uno dei pianisti piú richiesti in rent parties e
serate danzanti; attività divertente, senza dubbio, buona per arrotondare lo
stipendio di lavorante al Comiskey Park, lo stadio del baseball in cui
giocavano i White Sox. Sulle qualità di questo profondissimo esecutore
Wilfrid Mellers si sbilanciò:
Il piú grande pianista di barrelhouse: Jimmy Yancey. È significativo che Yancey sia
l’unico dei pianisti blues primitivi che suoni tempi relativamente lenti: l’unico che – in
un pezzo come il poeticissimo At the Window – si adoperi a suggerirci, sul pianoforte
meccanico e ben temperato, qualcosa della lamentosità espressiva della voce, della
chitarra e del clarinetto jazz. Suonava i glissandi con tale sottile controllo del colore che
facevano l’effetto di veri portamenti vocali.
The blues? Man, I didn’t start playing the blues ever. That was in me before I was
born and I’ve been playing and living the blues ever since […] Of course, the blues
comes a lot from the church, too. The first time I ever heard a boogie-woogie piano was
the first time I went to church. That was the Holy Ghost Church in Dallas, Texas. That
boogie-woogie was a kind of blues, I guess. Then the preacher used to preach in a
bluesy tone sometimes. You even got the congregation yelling «Amen» all the time
when his preaching would stir them up – his preaching and his bluesy tone. Lots of
people think I’m going to be a preacher when I quit this business because of the way I
sing the blues. They say it sounds like a sermon 26.
Nell’intreccio di riti antichi e moderni, la comunità afroamericana ha
sempre cercato e trovato elementi di continuità, dritti e sicuri come binari di
una ferrovia. Il blues è uno di questi. Anche le chiese, soprattutto quelle
pentecostali, come la Holiness, cercavano di annullare le distanze, rendere
permeabili i diaframmi. Scrive Lawrence Levine:
All’interno della chiesa questo amalgama di suoni divenne per la prima volta
importante nelle sette della Santità e degli Spiritualisti che si svilupparono al passaggio
del secolo […] Musicalmente, essi tornarono alla tradizione del passato schiavista
lontano dal mondo della musica nera secolare che li circondava. Portarono in chiesa non
solo i suoni del ragtime, del blues e del jazz, ma anche gli strumenti. Accompagnavano
il canto, che giocava un ruolo centrale nelle loro funzioni, con percussioni, tamburelli,
triangoli, chitarre, contrabbassi, sassofoni, trombe e qualsiasi altro strumento sembrasse
musicalmente adatto. Lo spirito della loro musica venne sintetizzato anni piú tardi da un
patriarca della chiesa che parafrasò Martin Luther: «Non dovremmo permettere che il
diavolo abbia tutto questo buon ritmo».
A Jacksonville c’è un pianista jazz che raramente ha una sera libera; gran parte del
suo lavoro deriva dal suonare nelle funzioni religiose della chiesa della Chiesa
Santificata, o nelle feste. Sostando fuori dalla chiesa è difficile capire quale tipo di
ingaggio stia assolvendo in quel momento.
La stessa musica.
3. Padre padrino.
L’estate del 1993 fu particolarmente fiacca per la Big Band Lumière,
l’orchestra diretta da Laurent Cugny. Piú che fiacca, minacciava di restare
inoperosa: neanche un ingaggio, neanche un concerto. Brutta gatta da pelare
per il musicista, jazzista di vaglia, teorico e oggi docente di jazz alla
Sorbona. Quando già gli animi di tutti s’erano rassegnati, arrivò la
chiamata, da un festival. Peccato, però, si trattasse di un festival di blues, e
pertanto la proposta andava valutata attentamente. Cosa motivava la
riluttanza, la prudenza di Cugny? Jazz e blues non sono quasi la stessa
cosa? Non nascono dalla stessa madre? Non sono l’uno il precursore
dell’altro, come spesso si legge? In realtà, no. La questione è molto piú
complessa di come appare, o è stata descritta. Cugny approfittò della
situazione per avviare una seria riflessione sul suo personale rapporto di
jazzista, bianco ed europeo, col blues, analizzando le differenze, le distanze,
i sospetti («ma suonate vero blues?», fu la domanda preoccupata
dell’organizzatore); gli studiosi, invece, non provano ormai neanche piú a
dipanare una matassa che per essere completamente sciolta avrebbe bisogno
di informatori, testimoni e osservatori dell’epoca.
Paul Oliver, in un suo articolo apparso su «Popular Music» nel 1990,
provò a fare il punto della situazione scrutinando tutte le piú importanti
storie del jazz apparse fino a quel momento; l’intento era quello di
verificare in che modo gli studiosi trattassero l’argomento, dunque
tratteggiassero la relazione tra i due generi musicali. In maniera quasi
univoca, il jazz veniva considerato come una derivazione del blues, e
dunque il blues come un precursore del jazz, con diverse sfumature. Stesso
punto di vista di Eileen Southern, peraltro, cui si deve la prima, organica
storia della musica afroamericana. Ma l’intento di Oliver era piú sottile;
tendeva, infatti, a mettere in crisi un postulato decisivo per accettare la
discendenza del jazz dal blues: che quest’ultimo fosse nato a New Orleans,
o fosse ampiamente disponibile in città affinché i primi musicisti di jazz ne
prendessero in prestito l’espressività, le funzioni ritualizzanti, l’intonazione
particolare, l’istinto vocalizzante nelle prassi esecutive strumentali, quando
non addirittura la forma. Su questo Oliver è intransigente: non c’è nessuna
prova, né alcuna testimonianza. Vero, ma in parte: come abbiamo visto, le
testimonianze dei musicisti di New Orleans puntano invece nella direzione
opposta: non basta leggere le storie del jazz, evidentemente. Né serve
compulsare quelle del blues, dove invece il jazz non entra affatto nella
narrazione e nello sviluppo dei fatti se non per enfatizzare la presenza di
jazzisti nelle registrazioni delle regine del blues classico, abituate ad avere
con sé in sala di incisione Louis Armstrong e i migliori solisti del tempo.
È pur vero che se si confrontano le registrazioni di Armstrong con gli
Hot Five e gli Hot Seven con quelle coeve dei grandi cantanti del country
blues – Blind Lemon Jefferson, ad esempio – ci si accorge che, dal punto di
vista dei linguaggi jazz e blues avevano già da tempo iniziato percorsi
diversi e tragitti che tendevano a divergere piuttosto bruscamente.
Nell’eloquenza strumentale, rivoluzionaria e virtuosistica di Armstrong,
seppur ancora irrisolta per il disequilibrio di quelle formazioni (la distanza
che corre tra Satchmo, come veniva affettuosamente soprannominato, e i
suoi prestigiosi sodali a volte è incolmabile) c’è poco o nulla della terragna,
ipnotica, ruvidissima e talvolta approssimativa tecnica esecutiva di alcuni
bluesmen; non c’era neanche un testo da cantare, una storia cui legare i
propri blues nella speranza che lasciassero la stanza (sebbene Armstrong
fosse vocalist superlativo). Verrebbe da dire che non c’era il blues, meglio:
non c’è un certo tipo di blues, una modalità particolare. Potato Head Blues,
incisa da Armstrong nel maggio del 1927, e Match Box Blues, registrata ben
tre volte da Lemon tra l’aprile e il maggio dello stesso anno, rappresentano
due capolavori dei rispettivi repertori; sono stati incisi nella stessa città,
Chicago (tranne la prima versione di Blind Lemon, la cui ripresa fu
effettuata ad Atlanta), eppure raccontano mondi lontani, legati a realtà,
situazioni e contesti distanti anni luce. Non solo: sembrano destinati a
pubblici diversi. In quel momento storico, e in futuro la distanza sarebbe
aumentata, il jazz e il blues non erano la stessa musica, forse perché, come
vedremo nell’ultimo capitolo, il termine blues ha finito con l’essere una
definizione a ombrello sotto al cui cono d’ombra sono precipitate differenti
idee e modalità.
Il rapporto tra blues e jazz andrebbe dunque ripensato a partire dalla
natura dei linguaggi. È proprio su questo terreno che si misurano le
incertezze piú gravi, quando non gli svarioni piú grotteschi. Se, forse,
nessuno oggi penserebbe mai quello che Ian Laing, prestigioso storico
inglese, scrisse nel 1947 («Il blues non è tutto il jazz, ma tutto il blues è
jazz»), c’è chi, come Elijah Wald, continua a fare una certa confusione
quando afferma:
Nei fatti non c’era una netta divisione tra blues e jazz. Tutti i musicisti di jazz della
prima generazione erano in grado di suonare il blues, come testimoniano le registrazioni
che Armstrong, King Oliver, Fletcher Henderson e centinaia di altri musicisti di jazz
realizzarono accompagnando le regine del blues.
Ma non è vero il contrario: se i musicisti di jazz erano in grado di
suonare il blues, i musicisti di blues non erano in grado di suonare il jazz
(tranne pochissime eccezioni, che vedremo a breve), né probabilmente
interessava loro. Andrebbe cioè analizzato con piú precisione il fatto che
già dal 1926 – dal momento in cui disponiamo di una buona registrazione di
un caposcuola del country blues – i linguaggi erano assai differenti, cosí
come le prassi esecutive, i ragionamenti espressivi e formali. Né va
dimenticato che il blues era esclusivamente un genere vocale, mentre il jazz
quasi esclusivamente strumentale, e che i bluesmen si esprimevano con una
strumentazione diversa. Ma, come ancora equivoca Wald:
Gli americani, come si è già visto, usano una singolare perifrasi per
indicare personaggi dalle esistenze leggendarie, che eccedono se stesse:
«larger than life», piú larghi della stessa vita. E la vita, a Bessie Smith
andava davvero strettissima. Se esiste materia per la leggenda del blues,
quella è l’esistenza veloce, bruciante, consapevole, determinata e
inarrestabile di una delle piú eclatanti regine della musica nera. Leggendaria
fu anche la sua morte, coperta dal mistero e dal sospetto. Troppo stretta, la
vita, se si è larger than life.
La metafisica della musica popular americana inizia e finisce con il concetto di soul.
È l’aspetto ultramondano della musica, quella parte che è separata dagli aspetti
meccanici di melodia, tempo, ritmo e timbro. Il soul è ciò che si sente, non ciò che si
ascolta. Una canzone perfetta può essere soul, ma per avere il soul dev’essere cantata da
una cantante speciale. In una cantante il soul è una qualità sia innata che acquisita; la
comprensione profonda della vita implicita nelle sue canzoni parla sia a una sensibilità
personale al mondo sia, spesso, a una storia personale segnata da lezioni dolorose.
Ecco, la voce di Bessie era la voce soul per eccellenza. Dal vivo,
secondo le testimonianze dei fortunati che ebbero la possibilità di assistere
ai suoi concerti, o attraverso il medium freddo del disco, la sua voce
riempiva l’aria di senso, di elettricità. Ed era un’elettricità costituita da
particelle significanti, ognuna delle quali trasportava un microscopico
dolore o una minuscola speranza: insieme, mai una cosa alla volta. Il senso
di Bessie per il blues era questa forza miracolosa nel coniugare la vita, nel
declinare le esperienze di ciascuno come fossero di tutti, nell’essere chi
racconta e chi è raccontato. Allo stesso tempo. Senza alcuno sforzo.
Allo stesso modo, fu anche una cantante assolutamente straordinaria.
Nonostante la sua arte poggiasse su basi empiriche, nessuna come lei seppe
dare un senso cosí compiuto al canto blues. Nessuna, come lei, seppe
stipare tanta sorpresa nell’esecuzione di un blues; Bessie si era subito resa
conto che le gabbie della struttura del verso potevano e dovevano essere
scardinate, altrimenti due versi uguali piú un altro in rima avrebbero potuto
uccidere l’espressività, azzerare l’attesa. Per questo, i suoi blues vivono su
un accumulo di strategie diversificanti: sillabe allungate, versi la cui
lunghezza sfora e si allarga alla misura successiva, l’enfasi posta con abilità
su certe parole e non altre. Soprattutto nell’esposizione del verso ripetuto
Bessie dava fondo a tutto il suo repertorio di variazioni improvvisate,
dimostrando la vastità delle sue risorse – che comprendevano una miriade
di effetti vocali – e la genialità della sua creatività. E poi, l’assoluto
controllo ritmico; non le piaceva suonare con i batteristi («ci penso da me a
tenere il tempo», diceva, e la stessa cosa avrebbe detto, anni dopo, Chet
Baker), e la finezza del suo controllo dimostra come il tip tap avesse fatto di
lei una macchina ritmica.
Bessie fu Bessie per tutti gli anni Venti, fin quando non si trovò
invischiata, come quasi tutti i suoi colleghi, nella palude della Depressione.
Continuò a suonare in lungo e in largo, e stava proprio andando a esibirsi
nel sud, padre di tutti i ritorni, quando smise per sempre di cantare.
Un incidente d’auto la uccise nei pressi di Clarksdale, la culla del blues.
Sulle dinamiche si produsse molta letteratura, e per anni si è creduto che
Bessie fosse morta per omissione di soccorso, cioè per il piú vile degli atti
di discriminazione razziale. Le cose andarono diversamente. Bessie fu
soltanto vittima di una tragica catena di fatalità, e non del bieco odio
razziale. Aveva quarantun anni, e ancora voglia di cantare. La sua lapide,
nel cimitero di Mount Lawn, poco fuori Philadelphia, rimase anonima per
piú di tre decenni, fin quando Juanita Green, che aveva lavorato per lei
come cameriera, e Janis Joplin non misero a disposizione il denaro
necessario per una nuova lapide.
Cosa resta di Bessie Smith, oggi? Ralph Ellison scrisse:
Ci sono diversi livelli di tempo e funzione, per cui il blues che in un posto può essere
usato come semplice intrattenimento, in un altro può rivestire una funzione rituale.
Bessie Smith avrebbe potuto essere una «regina del blues» per la società in generale, ma
per la comunità nera, in cui il blues era parte di un modo di vita complessivo, ed
espressione fondamentale dell’atteggiamento nei confronti della vita, Bessie è stata una
sacerdotessa, una celebrante che affermò i valori del gruppo e l’abilità dell’uomo a
misurarsi con il caos.
Ma, come spesso accade, è nelle parole dei poeti che si racchiude il
senso ultimo di un’esperienza. E questa lirica di Sybil Klein è il finale
perfetto:
27
«poteva ucciderti | con un sorriso | donna bellissima | in scarpe di raso rosse | indossando perle |
di un blues tormentato | ondeggiando sotto luce | morbida e tempi duri. | poteva amarti | con una
canzone | farti sentire | che cos’è morire, | che cosa la vita non | sarà mai | stella nera di diamanti |
ricrea le ombre | delle cose passate».
Capitolo quindicesimo
Una gita a Grafton
You can run, you can run tell my friend Willie Brown
You can run, you can run tell my friend Willie Brown
’at I got the crossroad blues this mornin’, Lord, babe, I’m sinkin’ down 28.
All’epoca non suonavo la chitarra. Ero un uomo di chiesa. Ero cresciuto in chiesa e
non credevo in null’altro, e vedere un uomo suonare una chitarra e cantare il blues e
roba del genere mi faceva andar di matto. Non ero cresciuto con quella roba, ma in
chiesa, e per cantare nel coro. In quello credevo, a quel tempo.
Gli anni della post-adolescenza furono critici. Son House voleva girare,
vedere altri posti, diventare uomo lontano dalla famiglia. Per questo iniziò a
vagabondare, lavorando nei campi e ovunque capitasse. Fino all’incontro,
fatale, con la musica del diavolo. Un giorno, vicino a Clarksdale, vide due
chitarristi esibirsi per un pubblico numeroso. Uno dei due aveva una specie
di bottiglina infilata al mignolo sinistro e sfregandola sulle corde otteneva
un suono meraviglioso. Alla fine dell’esibizione House si avvicinò e chiese
al suonatore di slide se avesse voglia di impartirgli qualche lezione. Willie
Wilson accettò. Era il 1927, piú o meno. House apprese velocemente e,
com’è prevedibile, introiettò nel suo stile nascente le influenze di Williams
e dell’altro musicista, Rube (o Reuben) Lacy. Se del primo non è conosciuta
alcuna registrazione, di Lacy abbiamo un paio di tracce, che mettono in luce
un chitarrista potente, aggressivo, sostenuto dal feroce battere del piede per
segnare il tempo. Diviso tra il coro in chiesa e i miasmi del blues, Eddie
iniziò a comporre i suoi primi versi, a cercare le rime piú adatte e brillanti.
E sentí crescere il disagio di una vita divisa a metà tra la spinta religiosa e
una musica proibita.
Poco piú tardi – ormai bluesman a tempo pieno e dedito ai piaceri della
carne – Son House si ritrovò coinvolto in una rissa, a Lyon. Non si seppe
mai con esattezza cosa successe e perché un uomo si ritrovò al suolo,
cadavere, mentre la rivoltella tra le mani di House ancora fumava. Il
musicista, che dichiarò di aver agito per legittima difesa, fu accusato di
omicidio e rinchiuso nella terrificante Parchman Farm, una delle istituzioni
carcerarie piú dure e disumane della nazione. Dopo una breve detenzione, il
caso fu riesaminato e fu riconosciuta l’innocenza dell’accusato: liberato, gli
fu consigliato di non farsi piú vedere a Clarksdale.
Non si allontanò molto, in effetti, perché il primo treno che prese fu
quello per Lula, a una trentina di kilometri, per visitare una zia. E qui
avvenne l’incontrò che gli cambiò la vita, quello con Charley Patton e
Willie Brown. Con i due musicisti si instaurò presto una solida amicizia;
suonarono insieme, si scambiarono informazioni e consigli, girarono in
cerca di lavoro nella zona.
Quando Son House monta in macchina per il viaggio a Grafton, quindi, è
piú o meno un novellino, ma ha un talento purissimo, una visione peculiare
del blues, e una vena poetica ancora freschissima, non indurita. In quattro
canzoni (tre di queste occupano le due facce del 78 giri), Son House
esprime un universo formidabile, acceso da una forza interpretativa a tratti
parossistica, da un accompagnamento strumentale intricato e singolare, e da
una capacità forse ineguagliata di evocare immagini.
Preaching the Blues esprime con una precisione addirittura dolorosa il
suo stato d’animo: la lacerazione di chi si sente a metà del guado:
3. Charley Patton.
Nonostante la statura – era alto appena un metro e sessanta – e la
corporatura esile, Charley Patton è una figura gigantesca, immensa. In molti
l’hanno definito il «re del Delta blues»; come tutte le definizioni, è
abbastanza approssimativa e complessivamente inutile, ma mette in risalto
perfettamente il ruolo centrale e insostituibile che Patton ebbe nella nascita,
nello sviluppo e nell’evoluzione del blues rurale. E non si fa fatica a
sottoscrivere le parole di Richard Spottswood:
28
«Puoi correre, puoi correre e dire al mio amico Willie Brown | Puoi correre, puoi correre e dire
al mio amico Willie Brown | Che ho il blues del crocicchio, stamattina, Signore, bimba mia, e sto
affondando».
29
«Oh, avevo la religione, Signore, ogni giorno | Oh, avevo la religione, Signore, ogni giorno |
Ma le donne e il whiskey, beh, non mi lasciano libero. || Oh, avrei voluto avere un paradiso tutto mio |
[parlato: Gran Dio Onnipotente!] | Già, un paradiso tutto mio | Per dare a tutte le mie donne una casa
tanto tanto felice. || Hey, amo la mia ragazza come amo me stesso | Oh, proprio come amo me stesso |
Beh, se lei non ha me non avrà nessun altro».
30
«Beh, stavo dietro in giardino, ho incrociato le braccia e ho gridato | Beh, stavo dietro in
giardino, ho incrociato le braccia e ho gridato | Non vedevo nulla, nulla che fosse verde. || Oh,
Signore, abbi misericordia se puoi | Oh, Signore, abbi misericordia se puoi | Lascia che la tua pioggia
cada e dia sollievo ai nostri poveri cuori. || Questo blues, questo blues va ascoltato | Oh, questo blues
va ascoltato | Signore, è come se non ci fosse nessun Dio».
Capitolo sedicesimo
Tommy Johnson. Il diavolo e l’acquavite
Nel film O Brother, Where Art Thou, dei fratelli Coen (in italiano,
Fratello dove sei?, 2000), si racconta – in chiave omerica – la fuga di tre
galeotti attraverso il Mississippi del 1937. Nel loro peregrinare, alla ricerca
di un’inesistente refurtiva, incontrano personaggi bizzarri e improbabili,
fatti di leggenda oppure offuscati dalle nebbie del mito. Tra questi, un
elegante uomo di colore: è un bluesman, e mentre canta per loro Hard Time
Killing Floor Blues, racconta di essersi venduto l’anima al diavolo, una
notte, in cambio di una abilità sovrumana nel suonare la chitarra. Il suo
nome è Tommy Johnson.
Per disegnare gli elementi basilari del personaggio Ethan e Joel Coen
hanno dichiarato di essersi ispirati al vero Tommy Johnson. Eppure, ancora
oggi è facile imbattersi in siti internet in cui la figura di Tommy viene
assimilata a quella del piú famoso Robert Johnson (nessuna parentela tra i
due), come se spettasse a quest’ultimo il copyright del patto faustiano col
demonio in cambio dell’immortalità musicale.
Tommy Johnson fu un musicista sorprendentemente unico e innovativo.
È proprio grazie a personaggi come lui che il blues spesso fa rima con
mistero, e con paradosso: sebbene sia uno dei musicisti la cui esistenza è
stata, con buona approssimazione, ricostruita almeno nello scheletro
generale, la sua musica, la fonte della sua ispirazione, restano
misteriosissime. Tommy Johnson non era un solitario, condivise musica ed
esperienze con molti bluesmen della zona attorno a Drew, nel Delta, che
David Evans ha dimostrato essere stata una sorta di reticolo artistico i cui
principî stilistici erano abbastanza fermi da essere condivisi. Basta, però,
ascoltare Cool Drink of Water Blues, il primo brano registrato da Tommy
Johnson, per essere proiettati in un mondo completamente autonomo, in un
laboratorio espressivo di singolare, e leggermente inquietante, bellezza.
1. Gasoline.
Cool Drink of Water Blues, con cui Johnson decise di inaugurare la sua
carriera discografica, ha la forza di un capolavoro incompiuto e la
minacciosità di una bomba inesplosa. La Victor decise di registrarlo dopo
che H. C. Speir aveva realizzato un provino dal risultato convincente.
Chitarrista per molti versi limitato, Johnson si era fatto accompagnare da
Charlie McCoy, appena diciannovenne ma già affermato come sideman, per
avere supporto armonico e tessiture compatte.
Il 3 febbraio, a Memphis, dunque, Johnson iniziò a costruire il suo
personalissimo universo artistico fingendo di raccontare una vicenda
realmente accadutagli, di fatto confessando, in un doloroso outing, la sua
dipendenza dall’alcol:
2. Crossroads.
Molto prima del suo piú famoso omologo, o di Peetie Wheatstraw,
Tommy Johnson confessò di aver stipulato un patto col demonio a suo
fratello LeDell, predicatore. Questo fu il suo racconto:
If you want to learn how to make songs yourself, you take your guitar and you go to
where the road crosses that way, where a crossroads is. Get there, be sure to get there
just a little ’fore 12 that night so you know you’ll be there. You have your guitar and be
playing a piece there by yourself… A big black man will walk up there and take your
guitar and he’ll tune it. And then he’ll play a piece and hand it back to you. That’s the
way I learned to play anything I want… 33.
31
«Ho chiesto dell’acqua e lei mi ha dato benzina (× 3) | Signore, oh Signore || Piangendo,
Signore, mi chiedo se tornerò mai a casa (× 2) | Signore, oh Signore || Sono andato al deposito, ho
guardato l’orario | Ho guardato tutt’intorno, “Da quanto tempo è partito il treno verso est?” || “È
andato, con su la tua ragazza, soffiandoti il fumo in faccia” (× 2) | Signore, oh Signore || Signore, ho
chiesto al macchinista “Posso salire su questo treno senza pagare?” | (Vorrei sapere se un uomo
distrutto può viaggiare senza pagare) | “Figliolo, compra il biglietto, perché questo treno non è mio” |
Signore, oh Signore || “Figliolo, compra il biglietto, perché questo treno non è mio” | “Figliolo,
compra il biglietto, perché questo treno non è mio” | Signore, oh Signore || “Il treno non è mio”».
32
«Grido, ragazza, ragazza, ragazza, lo sai, il canned heat mi sta uccidendo (× 2) | Se il canned
heat non mi uccide, grido, bimba, non morirò mai || Mi son svegliato stamattina pensando al canned
heat (× 3)» (trad. A. Roffeni).
33
«Se vuoi imparare a comporre canzoni per conto tuo, prendi la chitarra e vattene dove una
strada ne incrocia un’altra, dove c’è un crocicchio. Arriva lí giusto un po’ prima di mezzanotte.
Prendi la chitarra, siediti e suona un pezzo… Devi andarci da solo, sederti e suonare. Un enorme
uomo nero arriverà lí e prenderà la chitarra, e l’accorderà. Suonerà un pezzo e ti renderà la chitarra.
Questo è il modo in cui ho imparato a suonare tutto quello che voglio…» (trad. F. Venturini).
34
«Stira la mia maglia, inamida la tuta | Andrò a cercare la mia donna, dicono che è da qualche
parte nel mondo || Buon per te, ragazza, il Signore mi ucciderà (× 3) || Chissà se la mia ragazza pensa
a me (× 2) | Se l’ha fatto avrà sentito, Signore, la mia protezione || Mi son svegliato stamattina e ho
detto le mie preghiere del mattino (× 3) || Non ho una donna che parli per me (× 3) || Stira la mia
maglia, inamida la tuta (× 2) | Andrò a cercare la mia donna, dicono che è da qualche parte nel
mondo || A lei non piace quando urlo, ho provato a mormorare piano».
Capitolo diciassettesimo
Skip James, l’uomo migliore che abbiate mai incontrato
1. Grafton, Wisconsin.
Nehemiah “Skip” James nacque nei pressi di Bentonia, Mississippi, nella
piantagione Woodbine, il 9 giugno del 1902. Il padre, musicista, distillava e
vendeva whisky di contrabbando; per questo salutò moglie e figlio quando
si accorse di avere le forze dell’ordine alle calcagna, e sparí nel nulla (ma
non per sempre). Il piccolo Skip visse con la madre, prese lezioni di chitarra
e studiò il pianoforte a scuola, sviluppando nel giro di pochi anni stili
esecutivi completamente diversi sui due strumenti. Da adolescente si mise
in viaggio: si allontanò da Bentonia per fare mestieri diversi tra il
Mississippi e l’Arkansas. Dopo qualche anno fece ritorno a casa, rilevando
l’attività del padre; mentre produceva alcol di contrabbando giocava
d’azzardo e governava un piccolo gruppo di prostitute. Suonava, anche, ma
quella era una passione sotterranea, laterale. Sarebbe esplosa nel 1931,
quando finalmente si trovò a incidere i primi – e ultimi – brani della sua
precedente vita artistica.
Quando si presentò negli studi di Grafton, nel Wisconsin, James aveva
già un matrimonio alle spalle, e un fardello di dolore assai pesante. La sua
fresca moglie, Oscella Robinson, figlia di un pastore locale, con la quale si
era trasferito a Dallas, l’aveva piantato per il suo migliore amico. Deluso,
Skip tornò di nuovo a casa, e iniziò a frequentare Jackson, scambiando idee
e invenzioni con i musicisti del luogo. L’esatta percezione della sua distanza
dai modelli correnti, la convinzione di essere non migliore ma diverso dagli
altri musicisti, la consapevolezza di avere una propria modalità espressiva e
un proprio stile rinforzarono la sua vocazione musicale. Era talmente
diverso dagli altri, Skip, che una volta, mentre suonava per strada, gli
diedero dei soldi perché smettesse: la sua musica era, a volte,
insostenibilmente minacciosa, piuttosto che divertire provocava un
opprimente senso d’angoscia.
Gli studi di registrazione a Grafton raccontano un pezzo fondamentale di
storia della popular music americana. Nacquero dalla conversione di una
modesta fabbrica di mobili, la Wisconsin Chair Company, in un complesso
comprendente studio di registrazione e pressa per la stampa dei dischi, dopo
che la ditta era entrata nel mercato della riproduzione acustica costruendo
per Thomas Edison una serie di mobiletti per i suoi fonografi. Grafton
divenne anche il quartier generale della Paramount, fondata nel 1917 da
Otto E. Moeser, l’etichetta cui era affidato il compito di collocare sul
mercato i dischi registrati e stampati. Nonostante la scadente qualità dei
dischi fosse un problema già all’epoca, negli studi di Grafton passarono
molti tra i musicisti piú importanti degli anni Venti e Trenta, tanto che alla
chiusura dello stabilimento, avvenuta negli anni Quaranta, in molti si
chiesero che fine avessero fatto le preziose matrici in metallo, dissoltesi nel
nulla e mai piú rinvenute. Probabilmente furono vendute come materiale da
riciclare; altri, invece, sostennero che, assieme a molte delle copie di dischi
stipate nel deposito, subirono l’ira degli impiegati i quali, per vendicarsi
della perdita del lavoro, le gettarono nel vicino fiume Milwaukee.
Sembrava cosí verosimile che nel 2006 una puntata della trasmissione
televisiva americana History Detectives, sul canale pubblico PBS , mandò
una squadra di sommozzatori a scandagliare il fondale del fiume alla ricerca
di eventuali dischi e matrici. Nulla venne riportato alla luce, ma lo
spostamento di una diga adiacente allo stabilimento, avvenuta nel 2000,
potrebbe aver modificato il letto del fiume ed eventualmente spazzato via,
definitivamente, tesori sommersi.
35
«È solo musica la mia musica, la musica di Skip. Non canto canzoni di altri. Non canto come
canterebbero altri. Non posso».
Capitolo diciannovesimo
Memphis, il blues e i paperi del Peabody
1. Al bar da Virgilio.
Sebbene possa, sulle prime, apparire strano, Memphis, la capitale del
Tennessee è l’origine, il punto iniziale di una terra uguale a nessun’altra, il
Delta. Come disse, con un pizzico di sarcasmo, David Cohn, con
un’espressione divenuta celeberrima: «Il Delta inizia nella hall dell’Hotel
Peabody, a Memphis, e finisce nel Catfish Row, a Vicksburg». Oggi ci si
impiegano quattro ore e mezzo, in automobile, per coprire le
duecentosettanta miglia. Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX ,
probabilmente il viaggio era assai piú disagevole e lungo; ciononostante,
Memphis fu meta desiderata di molti afroamericani in fuga dalle condizioni
disumane delle piantagioni. Per loro rappresentava un piccolo paradiso a
portata di mano, un sogno che può non trasformarsi in incubo, la vita,
insomma, a prezzi di saldo.
Grazie al porto fluviale, al cotone e al commercio di legname, e piú tardi
alla ferrovia, Memphis divenne una città prosperosa e in costante crescita
alla fine dell’Ottocento, nonostante una violenta epidemia di febbre gialla
avesse mietuto migliaia di vittime e spinto alla fuga non meno di
venticinquemila abitanti. Beale Street divenne, ben presto, la strada in cui si
raccolsero negozi e commerci di ogni natura e provenienza: secondo un
diffuso modo di dire, gli ebrei controllavano i banchi dei pegni e i negozi di
alimentari, i greci possedevano i ristoranti e gli italiani gestivano teatri e
saloon.
Uno di questi rivestí un ruolo di primo piano nella creazione di una
scena musicale memphisiana. Lo fondò un napoletano, Virgilio Maffei,
giunto in città da New York a cavallo tra Otto e Novecento, con dieci
centesimi in tasca e nessuna prospettiva concreta. L’italiano, che per la
bassa statura venne soprannominato Pee Wee (ma, a quanto si dice, era
temibile nella boxe e nella lotta), riuscí ad aprire il suo saloon; qui, oltre a
vendere bevande e a ospitare intrattenimento musicale, impiantò il primo
telefono a pagamento di Beale Street. Si rivelò una mossa lungimirante,
perché Maffei e i suoi dipendenti allestirono un servizio di segreteria
telefonica gratuito per i clienti piú affezionati, cosí da rendere il locale il
punto di ritrovo obbligatorio per i musicisti della strada: impresari e
proprietari di locali che avessero voluto contattare un musicista non
dovevano far altro che chiamare il P. Wee’s Saloon e lasciare un messaggio.
Era difficile, per altro, trovarlo chiuso; in una strada che non dormiva mai,
il locale di Maffei era sempre aperto, al motto di: «Non possiamo chiudere,
non è ancora stato ammazzato nessuno!»
Fu proprio al bar di Virgilio (parafrasando una canzone di Ligabue) che
W. C. Handy scrisse Memphis Blues, il primo vero blues dato alle stampe
nel 1912. In verità, quel brano Handy l’aveva scritto tre anni prima, sul
bancone dei sigari di Maffei. Dopo essersi trasferito in città, fu ingaggiato
dal comitato per l’elezione a sindaco di Edward H. Crump. Con l’idea di
attirare il voto afroamericano, Handy pensò di comporre un brano usando
quella strana musica folk nera che aveva ascoltato e annotato durante i suoi
viaggi. Nacque cosí Mr Crump, il cui testo, in maniera del tutto imprevista,
si rivelava palesemente contrario ai propositi di bonifica di Beale Street da
parte del candidato sindaco. Evidentemente nessuno se ne accorse e Crump
vinse le elezioni, seppur con scarto minimo. Tre anni dopo, Handy
ripubblicò il brano, col nuovo titolo, e Memphis Blues divenne non solo
l’inno non ufficiale della città, ma le conferí anche il blasone di prima vera
città del blues.
1. Piedmont.
In un bellissimo e suggestivo saggio apparso una decina d’anni fa, lo
studioso Andrew M. Cohen ricavò una geografia stilistica del blues a partire
dalle mani dei chitarristi: attraverso cioè la loro posizione sulla chitarra, e
modi e tecniche di produzione del suono, determinò una mappatura delle
zone d’origine e influenza. Di fatto, ricalcò una tripartizione già nota a
storici e appassionati – Delta, Texas, Sudest, ma seppe conferirle una nuova
rigorosità, e sostanziarla con una visione innovativa. Ecco la sua
descrizione:
Area orientale. Uso questo termine come equivalente del piú comunemente usato
Piedmont, vale a dire le ondulate colline sedimentarie che costituiscono la tobacco
country a sud e a est dei monti Appalachi. Ci si può aspettare che i chitarristi folk-blues
neri dal Delaware alla Florida, a est di una linea che collega Knoxwille ad Atlanta e
prosegue da queste verso nord e verso sud, estendano il loro pollice destro nel suonare, e
la maggior parte di essi suoni i bassi alternativamente con il pollice. Una larga
maggioranza dei chitarristi neri in questa regione suona con il pollice esteso, cosí come
usa fare la maggior parte dei chitarristi bianchi della regione. La parte centrale di questa
regione – le due Virginia e le due Carolina – è la parte del paese dove i bianchi e i neri
hanno vissuto per piú tempo fianco a fianco. Questo fatto può anche contribuire a
spiegare perché esista in proporzione piú materiale condiviso in questa tobacco country
che nella cotton country.
2. Virtuosi.
Funamboli della chitarra, modelli irraggiungibili di perizia e abilità, i
grandi interpreti del cosiddetto Piedmont blues non si limitarono
all’elaborazione di uno stile esclusivamente legato al virtuosismo. Nella
loro musica è sempre possibile trovare il guizzo profondo, l’idea geniale, e
anche gli attributi tipici del blues rurale.
Blind Blake, che di tutti fu probabilmente il piú dotato tecnicamente, è
allo stesso tempo un enigma irrisolvibile. Di lui si sa talmente poco che le
enciclopedie preferiscono non stilare neanche la lista delle ipotesi: si sa, con
certezza perché lo testimoniano i dischi incisi, che fu attivo per sei anni a
Chicago dove conquistò una grande notorietà. E nient’altro. Difficile
peraltro individuare il suo vero nome: secondo alcuni si chiamava Arthur
Blake, come lui stesso dichiarò in un duetto con Papa Charlie Jackson,
secondo altri il vero nome era Arthur Phelps. Di sicuro quando arrivò a
Chicago e iniziò a registrare per la Paramount era già un chitarrista
eccezionale. Nel ’27 la sua musica era già perfettamente definita, in virtú
della tecnica fluida e magistrale e dell’aspetto leggero e divertente dei suoi
blues, frutto di un fitto reticolo di influenze. In uno di questi, il celebre
Southern Rag, diede prova di parlare correttamente il geechie, ovvero il
dialetto della popolazione Gullah, nell’omonima regione della Georgia, il
cui dialetto è rimasto miracolosamente vicino alla madrelingua africana.
Nel corso del soggiorno chicagoano Blake operò anche come sessionman
per molti artisti (“Ma” Rainey, Gus Johnson, tra gli altri), ai quali prestò
l’elettrizzante spina ritmica della sua musica. Nonostante il successo e la
fama – rivaleggiava in popolarità con Blind Lemon Jefferson – agli inizi del
decennio successivo la crisi economica segnò la sua carriera in maniera
letale. Da quel momento di Blake, o Phelps, si sono letteralmente perse le
tracce. Scomparso nel nulla.
Alla sua tecnica si ispirò Reverend Gary Davis, uno dei musicisti piú
importanti del dopoguerra, la cui attività in sala di registrazione iniziò
abbastanza tardi, nel 1935, e proseguí con molto piú successo e
riconoscimento dopo il secondo conflitto mondiale, quindi al di fuori dei
limiti temporali di questo volume. A lui si deve inoltre il merito di aver
instradato Blind Boy Fuller (all’anagrafe Fulton Allen), che diventerà in
seguito uno dei bluesmen piú ammirati e registrati della storia.
Ammirato, anche in tempi recenti, è stato Blind Willie McTell, tanto da
far dire a Bob Dylan che nessuno ha mai cantato il blues come lui. Fu un
personaggio singolare, come nota acutamente Michael Gray:
McTell ribalta tutti gli stereotipi sui musicisti di blues. Non è un ruggente primitivo,
né un diabolico sciupafemmine robertjohnsoniano. Non perse la vista durante una
violenta lite in un juke joint o saltando da un treno merci. Non si rifugiò nella musica
per evadere dall’aratro trainato da un mulo nel Delta. Non morí di morte violenta, o da
giovane. Piuttosto, non vedente dalla nascita senza che per questo si sentisse
handicappato, quest’uomo distinto e pieno di risorse diventò un perfetto musicista
professionista e disse la sua attraverso una lunga serie di registrazioni discografiche.
2. Bronzeville.
Una cosí numerosa invasione di nuovi abitanti creò non pochi problemi
alla città nata sulle rive del lago Michigan. I neri furono inurbati nella parte
sud della città, il South Side, come ancora oggi è chiamato: una specie di
ghetto sovrappopolato che non conobbe nessuno sviluppo urbanistico
sebbene il numero dei neri lí stabilitisi era aumentato del 148 per cento tra il
1910 e il 1920. The Black Belt, la striscia nera, era fatta di case fatiscenti,
dove spesso mancava la luce elettrica e il sistema fognario semplicemente
non esisteva. Eppure, questo non scoraggiò gli ultimi chicagoani, che a
poco a poco si impossessarono della realtà e la trasformarono – sebbene a
costo di enormi sacrifici e sofferenze – in qualcosa che piú assomigliava al
loro modo di vivere e alle loro tradizioni. Non a caso, il termine ghetto fu
presto sostituito con quello di Bronzeville: la città degli uomini di bronzo.
Con l’ironia, e l’autoironia, l’uomo afroamericano ha sempre saputo
affrontare le situazioni piú difficili. E il blues non poteva sottrarsi al ruolo
di fedele interprete della vita di tutti i giorni.
Nell’esodo di centinaia di migliaia di persone che abbiamo appena
descritto furono molti i bluesmen coinvolti, tanto che Chicago fu anche
definita la seconda capitale del Delta. Questi avevano spesso un lavoro
regolare e la sera, o nei weekend, animavano feste private o suonavano per
la strada. E fu proprio una strada a diventare uno dei simboli del blues di
Chicago. Maxwell Street era una lunga, e larga, striscia di asfalto che fu
trasformata dai commercianti ebrei in un mercato, riconosciuto
ufficialmente dalla municipalità nel 1912. Sui banchetti, sulle carrette
trainate a mano dai venditori, nei negozi che fiancheggiavano la strada si
poteva trovare di tutto, ogni genere di mercanzia legale e illegale: accadeva
sovente che la strada fosse animata da inseguimenti, pestaggi e cariche della
polizia. Agli angoli piú affollati, sui marciapiedi i musicisti di blues
installavano la loro strumentazione e suonavano per le mance. La vita
scorreva veloce e il blues la doveva rincorrere.
Il doppio senso nei blues è, non c’è neanche bisogno di dirlo, di natura sessuale. Non
che non ne esistano di altri tipi nelle canzoni dei Negri, ma quelli che rinvengono nei
blues sono quasi inevitabilmente di natura sessuale dal momento che i blues parlano
della relazione uomo-donna. Possiamo dividere i doppi sensi in due categorie generali:
(1) quelli il cui significato allude specificamente agli organi sessuali e (2) quelli che si
riferiscono all’atto sessuale o ad altri aspetti della vita sessuale.
Allo stesso modo che nel Delta, i primi bluesmen texani rappresentarono un aspetto
importante della rivolta afroamericana contro l’egemonia culturale dei bianchi nel
periodo post-Ricostruzione. Essi viaggiarono molto, lavorarono nei campi il meno
possibile, e cantarono lo sfruttamento e le privazioni della comunità nera. Attraverso la
loro musica e il loro stile di vita mantennero vivo lo spirito di resistenza.
“Ragtime Texas” Henry Thomas fu uno dei padri fondatori del blues
texano. Figlio di ex schiavi, nacque a Big Sandy, Upshur County, nel 1874,
e sin dall’adolescenza si costruí una vita girovaga, suonando dappertutto e
usando il treno per spostarsi. Quando finalmente arrivò il momento della
prima registrazione discografica, il musicista aveva un’età ragguardevole
per essere un novizio; soprattutto, il suo repertorio non era esattamente
all’ultima moda, o quello che i discografici si aspettavano, ovvero il blues
nella sua accezione piú pura. Thomas portava con sé mezzo secolo di
musica vernacolare afroamericana, mostrandone l’ampiezza e la
diversificazione. Nel corso di cinque sedute di incisione, a Chicago tra il
’27 e il ’29 registrò poco piú di venti brani: il loro assortimento permette
quasi di vedere lungo quale linea evolutiva si sia sviluppato il blues, dalle
stanze a un solo verso (AAA) a quelle piú regolari. Ma il blues era solo una
piccola parte del bagaglio espressivo di Thomas, il cui ricorso alle quills,
strumento ad ancia arcaico e di origine africana, rendeva la sua musica
antica e moderna al contempo.
Dopo il ’29, di Ragtime Texas non si ha piú alcuna notizia.
A big sound songster… a big, stout fella… he played dance songs, never did play a
church song… he had a tin cup wired on ta neck of his gittah. An when you give him
something, why, he’d thank ya. But he wouldn’t never take no pennies. You could drap a
penny in there an he’d know the sound. He’d take it out and throw it away 36.
3. Vecchia maniera.
L’apparizione di Blind Lemon Jefferson sul palcoscenico del blues ebbe
la potenza di un’epifania. Prima di lui, come abbiamo visto, pochissimi, e
senza esiti di rilievo, erano stati i musicisti a incidere solo con chitarra e
voce, materializzando cioè quella che avrebbe dovuto essere l’essenza piú
pura del blues. Ma l’industria discografica del tempo non aveva bisogno di
essenze o purezze: doveva produrre dischi che vendessero, e realizzassero
fatturato. E, dopo la sbornia del blues classico, e relative regine, o i blues
farciti di jazz della metà degli anni Venti, puntare su un musicista come
Blind Lemon era addirittura rischioso. Ecco perché la Paramount per
promuovere i dischi del musicista texano elaborò lo slogan: «Real old-
fashioned blues by a real old-fashioned blues singer». Blues vecchia
maniera cantato da un vero cantante di blues vecchia maniera.
Invece, Blind Lemon tutto era fuorché vecchia maniera. In realtà, non
aveva neanche una maniera, perché la sua musica era talmente varia, e il
suo repertorio talmente esteso, da rendere impossibile rinchiuderlo in una
categoria. Certo, Lemon era un bluesman, ma non solo. Incise per la
maggior parte blues, ma erano i produttori a decidere le scalette, non i
musicisti. E anche rispetto alla tradizione del blues, prima d’allora poco o
punto esplorata, Lemon era un vero e proprio innovatore. In ogni segmento
– forma, testo, tecnica chitarristica e vocale – il musicista fu in grado di
esprimere soluzioni innovative, che avrebbero costituito, negli anni a
venire, uno dei libri di testo sui quali si sono formate almeno un paio di
generazioni successive.
Una attenta analisi del corpus discografico jeffersoniano consente di
enucleare alcune caratteristiche della sua arte. La piú sorprendente è la
capacità di improvvisazione, estesa a tutti i livelli esecutivi. Quando si
confrontano due takes dello stesso brano è evidente il suo desiderio di
elaborare in tempo reale: modifiche al testo, ai singoli versi o addirittura
alla disposizione delle stanze; accompagnamenti chitarristici i quali,
sebbene costruiti attorno a una serie di moduli, subiscono variazioni e
modifiche significative. Per Lemon, cioè, la registrazione non costituiva il
congelamento di un brano nella sua forma definitiva, ma ne rappresentava
uno stadio dell’evoluzione. Il suo lavorio improvvisativo è ben osservabile
anche nell’uso di forme e strutture. Quando compone e suona un blues, usa
quasi esclusivamente la canonica forma del verso AAB, e l’altrettanto tipica
progressione armonica (speziata però da frequenti innesti di movimenti VI-
II-V). Sottopone, però, la struttura ad allungamenti, flessioni, torsioni e
dilatazioni dovute alla reazione estemporanea a uno stimolo, a un
particolare termine, al suono di una sillaba, o all’invenzione di un verso.
David Evans, in un pregevole studio, ha quantificato simili scostamenti
dalla norma. In Tin Cup Blues, ad esempio, Lemon suona una struttura
altamente irregolare, in cui ciascuna stanza ha lunghezza diversa, e le
misure di ogni stanza durano un numero di movimenti imprevedibile.
Cantante dallo stile flessibile e spesso assai ornato, e chitarrista dalla
tecnica virtuosistica e dal timbro ricco e pieno, Blind Lemon mostrò
un’attitudine spiccata anche nei suoi testi; in essi evocava immagini
fortissime, e spesso assai poetiche, dalla pasta visionaria e immaginifica.
Di lui ci restano un paio di foto e musica per riempire quattro cd.
36
«Un ragazzone, grosso e dal suono enorme… suonava musica da ballo, mai canzoni di
chiesa… aveva una tazza di latta legata al manico della chitarra. Quando gli davi qualcosa ti
ringraziava. Ma non accettava centesimi. Se lanciavi un centesimo nella tazza lui lo riconosceva dal
suono. Lo toglieva dalla tazza e lo buttava via».
Capitolo ventiduesimo
Robert Johnson: mithologically correct
2. Il bluesman postmoderno.
La fortuna di Robert Johnson iniziò negli anni Sessanta, quando la sua
musica fu ristampata in long playing, e i musicisti rock bianchi videro in lui
il trait d’union, il collegamento necessario tra musiche ed esistenze lontane.
Ancora oggi il doppio cd della Columbia con l’integrale delle registrazioni
è il disco di country blues piú venduto di sempre (oltre un milione e mezzo
di copie). Ma basta davvero la sua musica a legittimare una simile
persistenza nell’immaginario collettivo?
Probabilmente, per quanto geniale e innovativa, no. Il mito di Robert
Johnson è stato alimentato da una letteratura critica da subito fortemente in
sintonia con le derive johnsoniane. Greil Marcus, nel suo famoso libro del
1975, scrisse:
Quasi quarant’anni dopo la sua morte, Johnson rimane il piú rispettato di tutti i
cantanti di blues; a dispetto della distanza che può separare dal suo tempo e dai luoghi in
cui visse, la musica di Johnson suscita una risposta naturale da chi è apparentemente
cosí diverso da lui. Egli cantò del prezzo che dovette pagare per le promesse che cercò,
senza riuscirvi, di mantenere. Credo che il potere della sua musica derivi in parte
dall’abilità di Johnson nel dar vita alla solitudine e al caos del suo tradimento, o del
nostro. Ascoltando le canzoni di Johnson uno si sente quasi a casa in quest’America
desolata; uno si sente capace di ricavarne un po’ di forza, insieme alle promesse che non
abbandoneremo neanche se volessimo.
Al termine del nostro viaggio al centro del blues restano molte domande
ancora aperte; e molti problemi senza soluzione. Sulle grandi questioni,
come per esempio la nascita del blues, è possibile solo fare ipotesi. Sugli
aspetti piú legati agli sviluppi storici e stilistici una nuova generazione di
studiosi saprà, auspicabilmente, illuminare zone oscure, disincagliare
pregiudizi, sistemare e correggere punti di vista obsoleti.
Negli ultimi anni, a ogni modo, molte ipotesi alternative sono state
avanzate, e seppure con piccoli e accorti passi, alcuni ricercatori stanno
provando a ricostruire non già la storia del blues – che nella sua linearità
offre gli stessi problemi e le insidie di una qualsiasi altra disciplina artistica
– quanto la sua stessa natura. Ovvero: come si è arrivati ad avere del blues
la percezione che ne abbiamo oggi.
Il vero problema, com’è ormai evidente, risiede nei processi di
formazione del canone blues; del blues abbiamo soltanto la descrizione che
produttori, collezionisti, etnologi, etnomusicologi e antropologi bianchi
hanno tramandato. Questa musica ha ben piú di cento anni, ma abbiamo
iniziato a occuparcene con singolare ritardo, quando i grandi musicisti
erano morti e i loro lavori introvabili, o dimenticati. Il blues che
conosciamo attraverso i dischi prodotti nell’ultimo mezzo secolo, è una idea
di blues, non il blues. C’è dunque bisogno di una nuova visione: piú
periferica e al tempo stesso piú disponibile all’analisi non pregiudiziale di
elementi e fatti. Questo breve capitolo, e il libro che lo contiene, vogliono
essere un modesto contributo.
1. Cosa. Dove.
Non è possibile datare la nascita di qualcosa di cui non si è certi di aver
compreso la natura piú profonda. Quando pensiamo al blues, in verità,
quello che ci viene in mente è una idea complessa, articolata, a piú
dimensioni. Esiste un blues cantato e uno strumentale; un blues che ha una
certa struttura del verso e un altro che ne fa a meno; esiste un blues con una
certa progressione armonica, eppure i piú grandi interpreti sembrano spesso
ignorarla. Esiste un blues pianistico; un blues jazzistico. Un blues dei monti
e uno delle colline. Un blues della costa e uno del Delta. Ci sono musiche in
cui il blues è solo uno degli ingredienti. Allora: di cosa parliamo quando
parliamo di blues?
È assai probabile che – come nel caso del jazz – negli anni in cui
iniziarono a emergere musiche con caratteristiche simili a quelle che
attribuiamo al blues, queste venissero definite o chiamate con nomi diversi.
O non venissero definite affatto. Ma non ci può essere piú alcun dubbio che
musiche analoghe a quella che oggi chiamiamo blues nacquero in posti
diversi, e piú o meno allo stesso tempo. New Orleans o il Texas, il Delta o
gli Appalachi: in ciascuna di queste regioni forme musicali prossime al
blues sono state avvistate ben prima che W. C. Handy si imbattesse nel
bluesman girovago, o “Ma” Rainey nella ragazza tra il pubblico.
Curiosamente, sia Handy che la Rainey si mostrano stupiti, sorpresi: non
avevano mai sentito nulla di simile, hanno detto. Com’è possibile?
Abbiamo testimonianze ormai incontrovertibili: a New Orleans il blues – o
una musica a esso assimilabile – si suonava prima della fine del secolo; in
Texas i pianisti avevano già iniziato a sperimentare nuovi assetti ritmici
applicando la struttura armonica del blues a derivati stilistici del ragtime.
Buddy Bolden e i suoi sodali usavano il blues per esprimere la loro nuova e
potente identità musicale. La risposta è forse piú semplice di quanto possa
apparire: se ci si riferisce al blues rurale, nella sua forma piú tradizionale e
codificata, Handy e “Ma” Rainey hanno ragione; ma la forma a dodici
misure, con la progressione armonica ormai nota, già esisteva in una forma
strumentale.
L’origine del blues non può essere rappresentata con un grafico lineare,
né intesa in senso finalistico. Ha, invece, una struttura rizomatica;
prendendo in prestito l’idea del filosofo Gilles Deleuze possiamo
rappresentarla come una radice, le cui connessioni si sviluppano in un
numero infinito di modi, protendendosi nel terreno secondo una logica non
gerarchica. Il vantaggio è quello di poter collocare con piú precisione e
agilità alcune caratteristiche – come le blue notes, ad esempio – in un
contesto molto piú ampio, che tiene conto di un insieme di tratti stilistici e
morfologici, e non di una famiglia limitata di caratteristiche.
2. Come.
Se si guarda agli sviluppi che il blues ha conosciuto nei primi anni della
sua vita – collocandone la nascita, in via puramente ipotetica, negli ultimi
quindici anni del XIX secolo – si comprende come l’idea, il tentativo, il
desiderio di esprimere una propria visione del mondo abbia assunto l’unica
forma che potesse assumere: quella di un luogo aperto. Aperto alla
contaminazione, e non già rinchiuso nell’idea di purezza in cui il blues è
stato costretto dal canone. Anzi: il blues, o il corpus di musiche che con
questo termine rappresentiamo, ha cercato una sua via, totalmente
rizomatica, dentro linguaggi, prassi esecutive e orizzonti stilistici, mai
circoscrivendo limiti e confini, quanto piuttosto reagendo alla diversità,
introiettandola nel proprio impurissimo codice genetico e riutilizzandola
instancabilmente per creare nuove forme, lingue e dialetti.
Il blues è un laboratorio permanente di invenzione: una musica aperta e
permeabile. È un luogo del possibile, in cui l’impossibile può abitare perché
non esistono norme o regole; esse sono definite dalla funzione d’uso e dalla
risposta del pubblico. Non esiste blues senza pubblico, senza la costante,
febbrile relazione tra chi produce e chi riceve, restituendo. Non esiste
musica afroamericana, diremmo, senza questa biunivocità.
Il blues è tale solo se è capace di negare se stesso. Ed è per questo che
non finisce mai.
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Il libro
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