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Vincenzo Martorella

Il Blues

Einaudi
Premessa

L’ultima edizione di A Blues Bibliography, di Robert Ford, cita poco


meno di trentamila tra libri, volumi, articoli e saggi pubblicati nel corso
degli ultimi settant’anni sull’argomento blues. Non si può certo dire che sia
stata materia poco affrontata dagli studiosi di tutto il mondo. A cosa serve,
allora, un nuovo libro sul blues?
In Italia, intanto, serve a colmare una lacuna. Della messe di materiale
riportata da Ford, nel nostro paese è arrivato ben poco, e quel poco è stato
spesso tradotto approssimativamente. Né i contributi della pattuglia di
eccellenti studiosi italiani (Walter Mauro, Alessandro Roffeni, Luciano
Federighi, Fabrizio Venturini, Luigi Monge, Edoardo Fassio, e qualcuno
sicuramente dimentico) hanno potuto annullare il distacco.
Questo vuol dire che in Italia si è avuta scarsa, o nessuna, eco degli studi
– spesso fondamentali, addirittura decisivi – che la nuova generazione di
storici ed etnomusicologi, quella cioè formatasi sulle esperienze di Lomax,
Oliver, Charters e Oakley ha compiuto incrociando saperi, tecniche e
discipline. David Evans, Jeff Todd Titon, Robert Palmer, William Barlow,
Bruce Bastin, Lawrence Cohn, Paul Garon, Stephen Calt, Elijah Wald (e
altri) hanno illuminato il campo con una serie di lavori imprescindibili, i cui
esiti contribuiscono ad arricchire la nostra conoscenza e comprensione del
complesso e articolato sistema di saperi, tecniche, credenze, estetiche,
sentimenti, rivendicazioni, prassi esecutive, visioni poetiche che
costituiscono l’universo blues.
Vuol dire, inoltre, che in Italia la conoscenza del blues – genere musicale
seguito con costanza e passione da un nutrito numero di appassionati,
com’è testimoniato dalla quantità di festival, rassegne e manifestazioni che
ogni anno animano città, paesi e borghi – è ferma a uno stadio della ricerca
ormai superato.
Una Mappa sul blues, quindi, ha come scopo primario quello di fornire
al lettore italiano una disposizione metodologica nuova, che parta dalle piú
recenti acquisizioni della ricerca, e sia capace di costruire un quadro di
riferimento originale. Una Mappa, cioè, che si ponga non soltanto come
necessario aggiornamento sullo stato dell’arte, e perimetrazione del sapere,
ma sappia avanzare ipotesi innovative, organizzare il sapere acquisito in
nuovi concatenamenti, fare luce su aspetti e fasi storiche spesso poco
illuminate, allargare quanto piú è possibile lo spettro d’indagine.
Partendo da queste irrinunciabili premesse, abbiamo costruito la Mappa
sul blues tenendo conto di una serie di tracciati teorici, di scivoli storici sui
quali lanciare la trattazione; per rendere maneggevole la complessità frattale
dell’argomento – irriducibile a un approccio eminentemente storico, ma
multidisciplinare per vocazione – la materia del libro è stata divisa in tre
grandi aree: tre costellazioni autonome e indipendenti, legate però da una
relazione necessaria, che il lettore costituisce a partire da percorsi di lettura
assolutamente individuali e individualizzabili. Tre costellazioni che
compongono un unico ipertesto, nel quale muoversi a seconda
dell’itinerario individuato, del sentiero poetico o musicale o timbrico
imboccato. Una materia, insomma, che si presta a essere attraversata piú
che letta.
Prima di analizzare la composizione di ciascuna costellazione, alcune
considerazioni di ordine generale. Questa non è una storia del blues; ci
occupiamo delle sue vicende fino alla fine degli anni Trenta, ma senza
seguirne lo svolgimento storico, peraltro elementare e lineare, piuttosto
osservandone l’evoluzione. È, cioè, il blues in quanto idea, materia,
artefatto, sostanza artistica, visione poetica, elemento comunitario,
comunicazione sociale, stile, invenzione a essere analizzato.
In quanto genere musicale altamente ritualizzato, e costretto in
un’estetica inventata a posteriori, il blues è stato vittima di una mitologia
rischiosa, appannante. Le origini, l’ideologia, le prassi sono state avvolte da
una cortina di fraintendimenti e costruzioni ideologiche, i cui nefasti effetti
ancora oggi riverberano nelle storie, nei racconti, nelle descrizioni. Questa
Mappa intende discutere, e quand’è il caso abbattere, i falsi miti attraverso
una visione allargata e moderna, e una ricostruzione il piú possibile liberata
da stereotipi.
La mitologia piú radicata, e quindi piú difficile da abbattere, è quella
legata alle origini e alla nascita del blues. Proprio a questi temi è dedicata la
prima costellazione del libro. In essa, lungo cinque capitoli, si prova a dar
conto delle teorie, delle testimonianze, delle ricerche svolte fino a questo
momento. Nel contempo, si ricostruisce tutto l’humus musicale e culturale
che fa da culla alla nascita di questa poderosa forma espressiva; se ne
osservano, ad esempio, i prototipi, o i lontanissimi parenti, nella musica
africana, o i primi sviluppi, religiosi e profani, nel Nuovo Mondo. Molta
attenzione è poi rivolta alle tipologie di spettacolo itinerante che
costituirono una delle piú diffuse forme di intrattenimento popolare negli
Stati Uniti nel periodo tra il 1850 e il 1930. Vaudeville, minstrel e medicine
show, circhi e tent show non soltanto rappresentarono una fucina in cui
sperimentare stili e musiche, spesso di origine folklorica, non soltanto
furono la palestra in cui le prime cantanti del cosiddetto blues classico
scaldarono le corde vocali e appresero l’arte dell’interpretazione; ma, per il
loro essere spettacoli girovaghi, costituirono il piú plausibile mezzo di
diffusione del blues in un tempo in cui non esistevano mezzi di
comunicazione di massa: se tracce di blues appaiono, piú o meno
contemporaneamente, in Louisiana, Mississippi e Texas (zone geografiche
delle quali si esamina il complesso delle condizioni geografiche e sociali),
vuol dire che o siamo in presenza di una germinazione spontanea, o
qualcuno ha fisicamente trasportato gli embrioni del nuovo genere musicale
da una parte all’altra del Sud degli Stati Uniti, anche in zone periferiche e
remote, isolate e inaccessibili. L’ipotesi della germinazione spontanea,
peraltro, viene avanzata in questo studio, e si basa sulla considerazione che
probabilmente oggi chiamiamo blues musiche nate in zone diverse e con
fisionomie diverse.
La seconda costellazione si occupa di figure, forme e modelli. Figure del
discorso, nel senso foucaultiano, in quanto vengono presi in esame, e spesso
rovesciati, problemi storici e teorici («Occorre concepire il discorso come
una violenza che noi facciamo alle cose, in ogni caso come una pratica che
noi imponiamo loro», L’ordine del discorso). In un confronto dinamico con
la materia, in grado di smascherare pregiudizi e falsi miti, abbiamo
analizzato aspetti spesso sottovalutati dalla letteratura sul blues. Il ruolo
fondamentale, ad esempio, che l’industria discografica ha svolto nella
codificazione del genere (ai cui aspetti formali, spesso trattati in modo
contraddittorio, si dedica un capitolo provando a intavolare discorsi di
ordine teorico in maniera fruibile da lettori anche a digiuno di ogni nozione
musicale); quello delle cantanti, assolute dominatrici della scena almeno
fino al 1926, e spesso confinate ai margini della storia perché provenienti
dal vaudeville e non dal Delta del Mississippi. O, ancora, i protagonisti che
hanno operato dietro le quinte, ma il cui lavoro, a volte geniale e ossessivo,
è stato di fondamentale importanza: talent scout, discografici, collezionisti,
ricercatori, studiosi. O, ancora, gli strumenti del blues – molti e a volte
insospettabili – nel tentativo di ribaltare l’immagine stereotipata del
bluesman che esprime se stesso con la sua chitarra.
Di immagini stereotipate è pieno l’universo del blues. Come quella,
purtroppo assai difficile da estirpare, che i blues siano tristi e lamentosi. In
un capitolo, dedicato a di cosa, e come, parlano i blues, abbiamo ricostruito
non soltanto un panorama ampio delle tematiche affrontate dai bluesmen,
ma anche un modello teorico che, partendo dalle intuizioni di Milman Perry
sull’origine formulaica dei poemi omerici, abbraccia i risultati della
grammatica generativo-trasformazionale nel tentativo di spiegare a quale
livello operi, nei blues, l’uso di formule e versi preesistenti.
Un capitolo, poi, è stato dedicato a come il blues abbia funzionato da
modello e ispirazione per tutti i poeti afroamericani, a partire dal periodo
della Harlem Renaissance. Abbiamo, cioè, analizzato l’opera di due grandi
letterati, Sterling Brown e Langston Hughes, individuando nelle loro liriche
gli stilemi, gli schemi, gli approcci derivati dal blues.
L’ultimo capitolo, poi, affronta un problema assai delicato: quello del
rapporto del blues con le altre musiche di estrazione afroamericana.
Problema stranamente sottovalutato, se è vero che nelle storie del jazz il
blues viene sempre indicato come un progenitore necessario, mentre in
quelle del blues il jazz viene semplicemente ignorato. Certo, se si ascoltano
le registrazioni coeve di Louis Armstrong e Blind Lemon Jefferson è
difficile immaginare due musiche piú diverse. Quindi si è proceduto non
soltanto a chiarire, disambiguare i rapporti tra questi due generi, ma anche
ad analizzare la presenza del blues in altri stili; in particolare, il boogie-
woogie, genere pianistico interamente basato su forma blues le cui origini
possono aiutarci a datare l’origine stessa del blues. E il gospel: gli incroci
tra la musica sacra e quella del diavolo sono cosí stretti, frequenti e
simbolici da far immaginare come, per lunga parte della loro storia, siano
stati addirittura considerati come complementari.
La terza costellazione affronta il blues nelle sue declinazioni piú
autoriali, nella vita e nell’opera di alcuni musicisti fondamentali, o in
momenti decisivi della sua storia. Anche in questo caso, nella scelta cioè
dei modelli da analizzare, si è forzata la vulgata corrente che vorrebbe
musicisti come Tampa Red posti ai margini della storia che conta in quanto
colpevoli di aver contaminato il blues con altri materiali e aver dato vita a
degenerazioni di largo impatto commerciale. Ciascun capitolo offre sguardi
e analisi sulla musica, i testi, e costruisce panorami di riferimento rispetto
alle scene locali nelle quali si sono mossi e hanno operato i bluesmen, la cui
arte viene attraversata, e passata al vaglio, con una vasta attrezzatura
teorica.
Infine, il libro si conclude con una simbolica ultima stanza: il luogo per
giungere ad alcune conclusioni dopo aver elencato fatti e circostante,
testimonianze e documentazioni. Chiude il volume una nota bibliografica,
nella quale si elencano tutti i libri citati nel testo, e se ne indicano altri utili
per successive e ulteriori investigazioni. Si è invece ritenuto inutile
compilare una discografia. Dei musicisti citati esistono innumerevoli
collezioni e raccolte (quando incidevano non esisteva ancora il long
playing), basate tutte sugli stessi master. Alcune etichette, come la
Document o la Yazoo, hanno in catalogo numerose ristampe di eccellente
qualità; non essendo distribuite in Italia si rimanda il lettore ai rispettivi siti
internet (www.document-records.com; www.yazoorecords.com).
Per finire, alcune notazioni di carattere editoriale. Essendo questo un
libro in cui si è dato ampio risalto alle ricerche e agli studi sul blues degli
ultimi anni, si è sempre preferito riportare un passaggio originale in
citazione, piuttosto che riassumerne o parafrasarne il senso. I testi dei blues
sono stati lasciati in lingua originale (e tradotti in nota), cosí come le
citazioni da interviste, per mantenere la sintassi peculiare e il suono
meraviglioso di certe espressioni. Le traduzioni sono di chi scrive (tranne
dove diversamente indicato), e alcuni dubbi sono stati sciolti in virtú di
scelte di buon senso, come optare per afroamericano, in luogo di africano-
americano, che in italiano non ha alcuna sfumatura negativa o connotazioni
politicamente scorrette.
Da bambino, come molti, volevo diventare ala destra della Juventus o astronauta, o tutt’e due,
nonostante le differenze nella preparazione fisica e gli ovvi problemini logistici. Come (quasi)
nessuno, però, sognavo anche di pubblicare un libro per l’Einaudi, e questo, forse, faceva di me un
bambino particolare. Oggi che, a quasi cinquant’anni, riesco a realizzare il progetto, devo ringraziare
innanzitutto Flavio Caprera, senza il cui intervento forse nulla sarebbe accaduto. E Carlo Alberto
Bonadies, che ha accolto l’idea e rilanciato con altre. Monica Aldi e Maria Virdis hanno scelto la foto
di copertina, ed è esattamente l’immagine che meglio descrive il contenuto di questo volume. Enrica
Zaira Merlo, poi, ha reso il manoscritto un libro vero e proprio, e le sono infinitamente grato per i
suggerimenti e le chiacchierate.
Il mio debito verso colleghi e studiosi di tutto il mondo vorrei saldarlo facendo conoscere le loro
idee e il loro lavoro al pubblico dei lettori italiani. Ma un ringraziamento particolare va a Robert
Sacré, dell’Università di Liegi. E un abbraccio.
Scrivere un libro non si fa mai da soli, sebbene errori e omissioni siano sempre e solo a carico
dell’autore. In molti hanno contribuito alla nascita del manoscritto, suggerendo, correggendo,
controllando, monitorando e altre attività varie ed eventuali; in ordine del tutto casuale il mio
ringraziamento va a: Ana Bustinduy, Trevor Fullbrook, Antonio e Luciano Vanni, Alessia Petrilli,
Silvana Porcu, Massimo Carboni, Lori Albanese, Claudio & Antonella Paoloni (sperando di aver
chiuso tutte le parentesi), Mauro Pianesi e gli amici della Fonoteca Trotta, Gillian Atkinson della
Document Records, Chiara Veltri & Daniele Cianfriglia, Max Barbot e i Fratelli Caponi, Laura
Lazzaroni & Damon Pittman, gli studenti del IX Ciclo della SSIS di Bari, con i quali ho sperimentato
alcune idee presenti nel libro, Gianpaolo Chiriacò, Sergio Pasquandrea. E a tutti gli altri che in questo
momento dimentico.
Infine, la mia famiglia, in cui – circostanza che si offre alle piú diverse interpretazioni – il numero
degli animali (Chicca, Leila, Poldo, Patty, Totò e Dinah) è maggiore di quello degli umani. Con mio
padre saremmo stati in parità, ma non c’è piú. A lui, alla sua memoria, dedico questo libro.
IL BLUES
Introduzione

Per poter raccontare la storia, e le storie, del blues, cosí come quelle dei
suoi protagonisti, bisogna innanzitutto provare a capire cos’è il blues. E
questa è la domanda piú difficile cui dare una risposta univoca. Perché il
blues è una e mille cose al tempo stesso. È un genere musicale, innanzitutto,
con un decorso storico, uno sviluppo stilistico, un processo espressivo che
parte dal Delta del Mississippi e giunge fino all’Europa, invadendo la
popular music, permeando il sistema simbolico afroamericano,
costituendosi come ingrediente decisivo nella costruzione di un’identità
sovente negata.
Però il blues non nasce dal nulla, all’improvviso: è il frutto di un
travagliato e doloroso processo di adattamento degli schiavi africani alla
loro nuova terra, e porta dentro di sé tracce indelebili della cultura africana,
dei suoi riti e delle pratiche sociali e religiose. Adattamento vuol dire anche
provare a riflettere sulla propria condizione, sul proprio ruolo nella società,
riuscire a sopravvivere alla discriminazione, alla violenza, alla
segregazione: il blues, allora, diventa un sentimento, una disposizione
d’animo, un modo di guardare alle cose, di capirle attraverso un filtro
esistenziale ben preciso, dalle caratteristiche fortemente etniche. Non è un
caso, dunque, che l’origine stessa del termine blues sia ancora discussa. Ma
sembra ormai accertato che derivi dall’espressione «to have the blue
devils», ovvero essere in uno stato mentale incline alla malinconia.
L’espressione circolava fin dal XVI secolo, ma il termine blues inizierà ad
affacciarsi nella lingua americana come marcatore del relativo genere
musicale solo agli inizi del Novecento. Prima di allora, quindi, quello che
chiamiamo blues probabilmente esisteva già, ma veniva chiamato in altri
modi.
Il blues è anche una forma: un particolare sistema, cioè, di organizzare il
materiale musicale e il testo all’interno di un brano. Molte sono le
innovazioni che i primi bluesmen, sebbene rozzi e con nessuna educazione
musicale alle spalle, seppero incastonare nelle leggendarie dodici misure di
una strofa blues: dalla tripartizione della strofa cantata (due versi uguali e il
terzo, in rima, che conclude il ragionamento), al giro armonico,
all’intonazione, all’espressività vocale e strumentale, al fitto dialogo tra
voce e chitarra. Una disposizione formale aperta alle piú numerose varianti,
formulaica e modulare per poter essere utilizzata nelle circostanze piú
eventuali, ma anche cosí morbida e flessibile da assecondare ogni piú
minuta e profonda sfumatura.
Le prime testimonianze registrate del blues risalgono agli anni Venti: a
inaugurare la tradizione fu Mamie Smith col suo Crazy Blues, pubblicato
dalla OKeh nell’agosto del 1920. Vendette centinaia di migliaia di copie, fu
un successo clamoroso, e soprattutto inaspettato; ma il blues, il vero blues,
aveva già qualche anno alle spalle prima di essere catturato su vinile, e già
nella versione di Mamie Smith appariva come addomesticato, piegato a una
nuova esigenza di comunicazione e intrattenimento. Il problema, in realtà, è
che non avendone nessuna traccia registrata, non sappiamo come suonasse
il blues delle origini; e sono molti gli aspetti che ancora si devono accertare
con precisione.
Impossibile determinare, ad esempio, quando e dove è nato il blues, al
pari di altre grandi forme d’arte, come la tragedia greca o la commedia
dell’arte, o il jazz, per restare in un territorio musicale ed espressivo
contiguo. Tutto quello che possiamo fare è analizzare le testimonianze,
vagliarne l’attendibilità e la consistenza. Da queste, avremo un quadro non
sempre convergente, ma con elementi condivisi: il quando è una scheggia di
tempo che va dalla fine del XIX secolo, gli ultimi due decenni, ai primi anni
del secolo successivo. Il dove è, con ogni probabilità, il delta del
Mississippi: una vasta piana alluvionale che sorge alla confluenza di due
fiumi – il Mississippi, appunto, e lo Yazoo –, e si estende all’incirca da
Memphis a Vicksburg: una terra fertilissima in grado di produrre, dall’inizio
del XIX secolo, ingenti quantità di cotone, alla cui raccolta fu destinato un
gran numero di schiavi, e successivamente ex schiavi. Con ogni probabilità
l’epicentro fu molto piú ampio, fino a comprendere la Louisiana e il Texas,
ma su questo le opinioni discordano.
Su come suonasse il blues delle origini abbiamo soltanto dei testimoni:
viaggiatori, musicisti, persone che a vario titolo si trovarono in quella parte
degli Stati Uniti tra il 1880 e il 1910, talmente colpite da un’espressione
musicale assolutamente nuova e strana, suonata e cantata dai neri
americani, da tenerne nota e memoria nei propri taccuini.
La prima e piú celebre testimonianza su come suonasse il blues delle
origini l’ha fornita W. C. Handy nella sua autobiografia. Il grande
musicista, uno dei padri putativi del blues, si era trasferito a Clarksdale per
dirigere un’orchestrina. Una sera, in un punto imprecisato del 1903, si
trovava alla stazione di Tutwiler, a quindici miglia da Clarksdale,
aspettando il treno che l’avrebbe riportato a casa. Il convoglio aveva
accumulato nove ore di ritardo e Handy si appisolò su una panchina,
nell’attesa. Il suo sonno fu interrotto dal suono di una chitarra: un nero,
male in arnese, gli si era seduto accanto e aveva iniziato a intonare una
musica strana, «la piú strana che avessi mai sentito», scrisse Handy. La
chitarra emetteva un suono quasi umano, triste, e l’effetto era provocato
dalla lama di un coltello che scivolava sulle corde, «alla maniera dei
chitarristi hawaiani». Nella strofa, l’uomo cantava un verso tre volte,
sempre identico, seguito da una risposta della chitarra: «Goin’ where the
Southern cross the Dog». In una pausa, Handy gli chiese cosa volesse dire
quella frase, ma il musicista lo guardò divertito e non rispose. Solo dopo
comprese che il nero doveva andare a Moorehead, dove si incrociavano due
linee ferroviarie, la Southern e la Yazoo & Mississippi Valley, da tutti
chiamata “the Yellow Dog”. Stava semplicemente descrivendo la sua attesa
del treno per Moorehead, e lo faceva improvvisando una strana musica, mai
sentita.
Poche settimane piú tardi, Handy vide per la prima volta in azione una
blues band, che su richiesta del pubblico si alternò all’orchestrina da lui
diretta per eseguire qualche brano danzabile. Il gruppo, formato da
mandolino, chitarra e contrabbasso, suonava una musica ossessiva, fatta di
intere sezioni ripetute senza che si capisse dove iniziavano e, soprattutto,
quando sarebbero finite. Al termine dell’esecuzione, gli spettatori
sommersero i tre musicisti di una cascata di monete, e Handy in quel
preciso istante comprese «la bellezza di quella musica primitiva. Quella
notte – aggiunse – è nato un compositore».
Un’altra importante testimonianza è quella di Charles Peabody. A
differenza di Handy, questi non era un musicista, ma un archeologo, che su
commissione della Harvard University era andato a scavare un tumulo
indiano nei pressi della piantagione Stovall, nella contea di Coahoma. A
colpirlo fu il fatto che i neri assunti per l’attività di scavo accompagnavano
il lavoro eseguendo una fitta e diversificata serie di espressioni vocali:
«distici e improvvisazioni piú o meno fraseggiati cantati cercando di
intonarsi a una melodia piú o meno formata. Queste strofe erano di carattere
generale, con riferimento ad abitudini, costumi ed eventi della vita dei
negri, oppure venivano improvvisate al momento», come annotava in un
importante articolo pubblicato nel 1903 su «The Journal of American
Folklore». Sebbene non fosse un musicista, Peabody si impegnò anche a
trascrivere molti dei canti ascoltati, dei quali riportò il testo: alcune delle
formule presenti in quei canti sono state utilizzate per tutto il secolo
successivo, e lo sono ancora oggi.
Le affermazioni di Handy e Peabody, tutte riguardanti una zona molto
ristretta del Delta del Mississippi, non sono però le uniche. Gertrude “Ma”
Rainey, una delle prime e piú importanti cantanti di blues della storia,
affermò di aver ascoltato per la prima volta un blues nel 1902 in Missouri,
mentre era in tour con i Rabbit Foot Minstrels. Inserí quella canzone nel suo
spettacolo e, a chi le chiedesse che musica fosse, rispose: «This is the
blues!», per via della tristezza e della malinconia del testo.
Jelly Roll Morton, tra i piú geniali musicisti della storia del jazz,
sostenne invece di aver ascoltato il blues nello stesso anno, il 1902, ma a
New Orleans, eseguito da Mamie Desdumes, una cantante pianista assai in
voga nella Crescent City. Bunk Johnson, uno dei primi jazzisti di New
Orleans, addirittura ricordava il blues nella sua infanzia, quindi attorno al
1880, mentre il pianista Eubie Blake dichiarò che il blues era nato
addirittura a Baltimora.
Se è impossibile dunque rintracciarne un luogo di nascita, un luogo
d’origine il blues ce l’ha senz’altro. Quel luogo è l’Africa.
Parte prima
I miti dell’origine e della nascita
Capitolo primo
Origini. Mother Africa

Che il blues, come tutte le musiche nere, abbia radici e matrici africane è
un dato di fatto incontrovertibile. Ciascuna delle espressioni musicali nate
sul suolo americano dal contatto, dall’interazione e dall’integrazione degli
uomini deportati come schiavi con altri uomini, culture, forme espressive e
artistiche trovate sul suolo del Nuovo Mondo ha prodotto musiche legate e
imparentate tra loro filogeneticamente. Se un alieno ascoltasse il blues, il
jazz, il samba o il tango non avrebbe difficoltà a capire che sono musiche
figlie di una stessa madre, rami di uno stesso albero.
Nel caso specifico del blues, da anni ormai l’interesse di etnomusicologi,
storici e studiosi si è rivolto alla individuazione di tratti specifici, capaci di
creare una corrispondenza univoca tra blues e musica africana. Con risultati
sorprendenti, e qualche inevitabile passaggio a vuoto.

1. Africa Nera.
La ricerca delle radici africane del blues, e della musica nera in generale,
è un ricco e interessante campo di studi inaugurato molti anni fa, e ha
prodotto una discreta messe di studi, ipotesi e teorie. Già dagli anni Trenta
l’antropologo Melville Herskovits – al quale si devono le prime illuminanti
indicazioni sulla sopravvivenza e persistenza di africanismi nella cultura
statunitense –, pur senza voler esplicitamente realizzare uno studio di
carattere musicale, fece emergere nella sua ricerca alcune considerazioni di
eccezionale interesse sulla quantità di elementi stilistici e formali che dalla
musica del Dahomey (l’attuale Benin), la regione da lui studiata piú a
lungo, si erano trasferiti in quelle eseguite dalla popolazione di colore del
Nuovo Mondo. Grande intuizione, ma troppo generosa.
Quella di Herskovits fu infatti un’approssimazione tipica: considerare
cioè la musica di una determinata regione, piccola seppur importante come
quella del Dahomey, rappresentativa di piú vaste aree geografiche. Non si
teneva conto (ma era naturale, visto lo stadio ancora embrionale della
ricerca e la scarsità di dati e conoscenze) di come l’Africa fosse un
continente non solo straordinariamente vasto per dimensioni geografiche e
caratteristiche climatiche e sociali, ma anche estremamente complesso per
la varietà di lingue, dialetti, popolazioni, usi, costumi, pratiche artistiche e
religiose. Col passare degli anni, e il sommarsi dei risultati ottenuti da
ricerche e studi piú numerosi e specifici, la nostra percezione dell’Africa si
è fatta meno confusa, piú precisa laddove è stato possibile risalire a fonti e
testimonianze di una cultura, non va dimenticato, orale. Adesso, perlomeno,
sappiamo dove cercare.
L’Africa è tagliata in due dal deserto del Sahara; l’enorme distesa di
sabbia non divide semplicemente il continente in un Nord e un Sud: separa
piuttosto due grandi aree culturali. Da una parte, quella nord, l’area di
lingua e cultura araba (o afroislamica, per l’esattezza); dall’altra, a sud del
deserto, la cosiddetta regione subsahariana. A fare da cuscinetto la fascia
del Sahel, una lunga striscia di terra, per la maggior parte desertica, estesa
dal mar Rosso all’oceano Atlantico. Immediatamente al di sotto del Sahel,
verso sud, c’è la regione del Sudan (da non confondere con lo stato
omonimo nel nordest del continente): una lingua di terra altrettanto estesa
che avrà, come vedremo, grande importanza nelle teorie sulle radici
africane del blues.
Sudan viene dall’arabo bilâd as-sûdân, la terra dei neri. Proprio
nell’Africa nera, dunque, oltre la solitudine del deserto, vanno cercate le
tracce e i fossili che gli schiavi hanno portato con sé nel Nuovo Mondo. Un
patrimonio ricco e articolato, fatto di pratiche linguistiche, religiose,
musicali, estetiche e sociali. Su queste – nonostante il crudele tentativo,
perseguito con scientifica determinazione, degli schiavisti di separare,
smembrare e rendere innocuo ogni nucleo familiare, linguistico o di stessa
provenienza geografica – gli schiavi africani avrebbero costruito la loro
esistenza sulla nuova, e strana, terra in cui non avevano scelto di abitare.
Alcuni elementi di questo patrimonio sopravvivono in tutte le musiche
afroamericane come tratti espressivi e stilistici di matrice inalienabile, e
naturalmente anche nel blues. Eccone una breve lista: l’uso del call and
response, ovvero della dialettica di domanda e risposta tra solista e coro o
voce e strumento; la peculiare inclinazione all’esecuzione estemporanea,
improvvisata, creata dal nulla di un’ispirazione impalpabile e permanente;
una certa complessità ritmica, fatta di accentazioni imprevedibili, di schemi
spesso asimmetrici, di sovrapposizioni di ritmi; l’uso estensivo di riff,
ovvero brevi cellule melodiche che acquisiscono rilevanza soprattutto
ritmica; l’inestricabile relazione con la danza e il movimento del corpo, sia
di chi esegue che di chi ascolta; l’adozione di una poetica timbrica del tutto
particolare, frutto di tecniche strumentali reinventate, o adattate a strumenti
occidentali, e, in stretta relazione, la tendenza alla produzione di suoni
vocalizzanti, tendenti cioè a imitare le inflessioni della voce; l’uso di
intonazioni apparentemente “sbagliate”, come per esempio nelle blue notes;
e infine la tendenza comune a comporre e cantare canzoni dal forte
contenuto soggettivo, o di commento sociale.
A questi tratti peculiari se ne possono aggiungere altri, di carattere piú
generale, come la tendenza a una forma di canto molto vicina agli aspetti
rapsodici del parlato (speechlike song), o il particolare concetto di brano
musicale: l’idea africana di performance non ha nessuna forma o durata
predefinita, ma si adatta alle circostanze e alle esigenze del momento. I
blues hanno conservato questa caratteristica, abbandonandola solo in
funzione della registrazione discografica, che non permetteva durate piú
lunghe dei tre minuti. Ma il blues non ha tempo o estensione preordinata;
come nota, meravigliosamente, Mellers:

Per quanto la forma del blues possa essere rigida, non ha alcun senso di inizio, di
mezzo e di fine. I blues stanno sempre con noi; e cosí, per fortuna, si crea la possibilità
di qualsiasi arabesco creativo. In questo senso i blues sono non europei, senza il senso
del tempo post-rinascimentale. Qui la musica non finisce, si perde semplicemente.

Se considerassimo i tratti sopra elencati come comuni a tutta la musica


africana incapperemmo nella stessa generalizzazione di Herskovits. In
realtà, le radici piú profonde del blues provengono, secondo le risultanze
del lavoro di Gerhard Kubik, da una zona particolare: la fascia sudanica
centro-occidentale.
2. Semiotica della campana assente.
Non fu Herskovits il solo a sopravvalutare gli elementi musicali e
stilistici di una regione africana, generalizzandone la diffusione e
l’importanza nella creazione di quella che sarebbe diventata, appunto, la
musica afroamericana. Tutti noi siamo vittime di pregiudizi, false
conoscenze e attribuzioni eccessivamente ampie ed estese quando si parla
di musica africana. Per esempio: che il tamburo sia lo strumento
predominante negli usi del continente nero, il principale mezzo di
espressione musicale, sembra quasi un’ovvietà. Invece non è vero. Come è
vero solo in parte che tutte le musiche africane contemplino una accesa e
complessa struttura ritmica, elaborata in vorticosi e incomprensibili, per noi
occidentali, stratificazioni ritmiche. È il concetto di tutto a essere, per
statuto, improprio e impreciso quando si parla di Africa. Proprio la
mancanza di una spina ritmica particolare ha insospettito Kubik.
L’etnomusicologo austriaco, il piú autorevole e prolifico tra gli studiosi che
si sono misurati in questo difficile settore, partí, per la sua innovativa teoria
sulle radici africane del blues, da quella che lui stesso ha chiamato «una
strana assenza». Nel blues, cioè, cosí come nelle musiche nere sviluppatesi
nel Nord America, manca il cosiddetto time-line pattern asimmetrico.

Con questo termine, coniato da J. H. Kwabena Nketia negli anni Cinquanta, ci


riferiamo a formule per lo piú ad altezza unica, eseguite percuotendo un oggetto dal
timbro penetrante, come una campana, il corpo di un tamburo, bastoncini a concussione,
e cosí via, che servono come dispositivi per tenere il tempo, orientando i musicisti e i
danzatori. È stato A. M. Jones a scoprire per primo la loro struttura trascrivendo questo
tipo di pattern […] Questi pattern sono caratterizzati da una struttura asimmetrica,
irregolare, all’interno di un ciclo irregolare, e variano in ampiezza dal ciclo assai diffuso
di 8 impulsi alle piú complesse asimmetrie disposte in un’intelaiatura di 24 impulsi.

Proviamo a capire meglio. Il time-line pattern asimmetrico è una


figurazione ritmica ostinata, suonata da uno strumento a percussione dal
suono acuto, cosí da poter spiccare ed emergere anche in una tela fitta di
suoni percussivi e non; la sua funzione è quella di regolare il flusso di
informazioni ritmiche, costituendo una guida, un binario sul quale altri
strumenti possono improvvisare o, a loro volta, costruire altri ostinati. Un
buon esempio è quello offerto dalla musica per tamburi e percussioni degli
Ewe, una popolazione che oggi risiede nella parte meridionale del Ghana.
Ogni ensemble è diviso in due sezioni: in una gli strumenti suonano un
ritmo fisso, nell’altra un ritmo variabile. Tutta l’esecuzione ruota quindi
attorno alla campana, il gankogui: è talmente delicato il suo compito,
ovvero mantenere stabile il time-line pattern, che viene affidata ai musicisti
piú esperti, maturi e rispettati. Attorno a quel pattern si muovono tutte le
altre linee; i percussionisti Anlo-Ewe descrivono questa prassi con la frase:
«Whatever you play must fit the bell». Tutto ciò che viene suonato deve
essere in relazione con la campana, ovvero con l’ostinato principale del
gankogui.
Una delle caratteristiche piú interessanti dei time-line pattern
asimmetrici, sostiene Kubik, è la loro invarianza culturale.

Il loro sistema matematico non può essere modificato da fattori culturali. Esso è
immune da qualsiasi influenza sociale, culturale o ambientale. Si può cambiare la
strumentazione di un time-line pattern, la sua accentazione, la velocità, il punto di
partenza, e le sillabe mnemoniche usate per insegnarlo, ma non la sua struttura
matematica. Ogni tentativo di cambiarla dissolve il pattern. Per questo motivo i time-
line pattern sono formidabili marcatori diagnostici per rilevare le connessioni storiche
tra certi stili musicali della diaspora africana nel Nuovo Mondo e quelli di specifiche
zone linguistiche del continente africano.

Una simile prassi esecutiva è sopravvissuta nelle musiche caraibiche


(basti pensare al ritmo di clave nella musica cubana, suonato dalle claves,
due legnetti dal suono assai acuto e percepibile: una chiave che serve a
inquadrare, promuovere, comprendere e interpretare ogni microevento
ritmico), ma è di fatto estranea in quella statunitense. Come mai?

3. La fascia sudanica centro-occidentale.


I time-line pattern non sono diffusi in tutto il territorio africano sub-
sahariano. Anzi, Kubik nota come siano praticamente sconosciuti nella
maggior parte dell’Africa orientale, meridionale e in altre regioni. Da
questo dato, e dall’analisi di prassi esecutive di altre regioni del continente
nero, unitamente allo studio dei flussi di provenienza e destinazione degli
uomini prelevati e trasportati come schiavi in America, lo studioso formula
un’ipotesi affascinante: esiste una zona geografica africana che si può
ragionevolmente ritenere la zona di provenienza di alcuni dei tratti piú
caratteristici del blues rurale. Questa regione è la cosiddetta fascia sudanica
centro-occidentale, un’area che si estende dal Mali, attraverso il nord del
Ghana e della Nigeria, fino al Camerun centrale e settentrionale. Kubik
aggiunge altre possibili aree chiave: la Guinea, e la zona del Sahel che va
dal Mali alla Mauritania, e lascia fuori una regione ritenuta da molti studiosi
essenziale per la nascita e l’evoluzione del blues, Senegal e Gambia.
Cosa ha condotto l’etnomusicologo a una simile conclusione? Lasciamo
a lui la parola:

I profili che ottenni dalle mie registrazioni sul campo nel nord della Nigeria e nel
Camerun centrale e settentrionale mostrano un’accumulazione particolarmente densa di
tratti blues in certi generi che lí si ritrovano. Le scale pentatoniche prevalenti nelle
regioni piú interne della fascia sudanica centro-occidentale possono essere collegate in
modo convincente a diverse espressioni del blues.

Al contrario, Kubik ritiene le prassi esecutive di Senegal e Gambia


dominate da particolari atteggiamenti armonici che sarebbero in contrasto
con quelle sviluppate dai bluesmen del Delta.
I tratti blues ai quali lo studioso fa riferimento sono, in gran parte, quelli
elencati nel primo paragrafo. In particolare, Kubik ritiene fondamentali
alcune corrispondenze con pratiche rilevate nella fascia sudanica centro-
occidentale: l’uso predominante di scale pentatoniche; stile vocale
declamatorio, con intonazione spesso ondeggiante, con abbondanza di
melismi; la relazione tra voce umana e linee degli strumenti guidata dal
principio dell’unisono o dell’eterofonia, e sovente dall’uso di bordoni. Di
particolare interesse lo snodo teorico legato alla presenza di tecniche
melismatiche, dunque di origine islamica, nel patrimonio lessicale del
blues. Spiega Kubik:

Lo stile vocale di molti cantanti che utilizzano melismi, intonazione ondeggiante e


cosí via, è un’eredità di quella vasta regione dell’Africa occidentale che era stata a
contatto con il mondo arabo-islamico del Maghreb fin dal VII -VIII secolo d.C. Città
come Timbuktu e Gao si svilupparono nei punti di arrivo meridionali delle rotte
carovaniere sahariane, lungo l’ansa della parte mediana del Niger […] La tradizione
blues ha di conseguenza incorporato l’impatto secolare dei processi di transculturazione
che ebbero luogo tra il mondo arabo-islamico del Nord Africa e le culture autoctone
della fascia sudanica. Molti tratti che dai primi ricercatori sono stati considerati strani,
inusuali e difficili da interpretare, possono oggi essere meglio interpretati come una
componente stilistica arabo-islamica profondamente elaborata e trasformata. Ciò che
rende il blues differente dalla musica afroamericana dei Carabi e del Sud America sono,
dopo tutto, i suoi ingredienti stilistici arabo-islamici.

Sebbene Kubik lasci cadere l’ultima frase con una certa disinvoltura,
essa imprime un marchio importante alle nostre conoscenze sul blues. Le
influenze di tratti stilistici islamici nelle musiche di derivazione africana
erano state già individuate e studiate da altri musicologi, ma mai messe in
cosí forte, e convincente, relazione con le dodici battute.

4. Senegambia blues.
La fascia sudanica centro-occidentale contribuí in maniera
numericamente rilevante alla tratta degli schiavi. Lungo tutto il XVIII secolo
fu costante e numeroso l’afflusso sul suolo statunitense di uomini
provenienti dal Sudan occidentale. La destinazione piú frequente di questi
contingenti era la Louisiana; nel secolo successivo, afferma Kubik,
discendenti di quegli schiavi (deportati dal Senegal, dalla Guinea e dal
Mali) finirono in fattorie del Mississippi e del profondo sud del paese,
alimentando cosí la sopravvivenza dei tratti musicali africani tipici dell’area
di provenienza.
Stando però agli studi di Philip Curtin, furono gli schiavi deportati dalla
zona chiamata Senegambia a rappresentare la fazione piú consistente, senza
la quale non sarebbe stata possibile la ripopolazione del Nuovo Mondo. Per
questo, le tradizioni di quell’area geografica – comprendente i territori di
Senegal e Gambia, e posta all’estremo della fascia sudanica – non possono
non essersi trasmesse alle nuove culture generate sul nuovo territorio.
Prima, però, di proseguire l’analisi, andrà quantificato un ordine di
grandezza che ci permetta di comprendere la consistenza dei vari gruppi
etnici arrivati sul suolo americano.
Quando si parla di numeri e cifre, rispetto alla deportazione di uomini
dalle coste dell’Africa occidentale, è bene perimetrare le conoscenze. Le
stime piú attendibili sulla tragica dimensione della diaspora africana parlano
di undici milioni di uomini e donne catturati, imprigionati e deportati come
schiavi nel Nuovo Mondo nell’arco di quattro secoli. Undici milioni, cioè,
sopravvissero alle durezze inenarrabili e alla crudeltà di un viaggio in mare
aperto ammassati come sacchi e trattati come bestie; secondo alcune fonti,
altrettanti morirono durante le fasi di cattura e deportazione. Di questi
undici milioni di schiavi, solo cinquecentomila furono destinati ai territori
dell’America del Nord, e la quota di quelli provenienti dal Senegambia,
sebbene non precisamente quantificabile, fu sicuramente cospicua. Wolof,
Mandinka e Fulbe erano le etnie piú rappresentate in quel contingente e
tracce del loro passaggio sono assai ben visibili nella cultura americana.
Quindi, ci si è chiesti, com’è possibile che la loro influenza non si sia
trasmessa anche alla musica?
La ricerca di Michael Coolen si è svolta tutta in direzione del
rinvenimento di elementi assimilabili alle culture del Senegambia nelle
musiche afroamericane, e in special modo nel blues. Nel corso di lunghe
ricerche, i cui risultati sono apparsi in un paio di importanti articoli,
l’etnomusicologo ha puntato l’attenzione su un sistema, piuttosto che su
singoli elementi: il sistema è costituito dalla relazione tra uno strumento, lo
xalam, i musicisti che lo suonano e la loro ideologia (xalamkat e gewel) e
una delle musiche che eseguono, il fodet. Lo xalam fa parte della numerosa
famiglia dei liuti africani e, secondo molti, sarebbe il candidato ideale per il
ruolo di progenitore del banjo; come per molti componenti della famiglia,
liuti a puntale di diversa lunghezza e numero di corde, si hanno ampie
testimonianze della sua presenza sia su alcune navi negriere – dove,
secondo alcuni osservatori, gli schiavisti permettevano ai prigionieri di
suonare i loro strumenti come antidoto alla depressione –, che sul suolo
statunitense. I suonatori di xalam, chiamati xalamkat, condividono con i
bluesmen alcuni tratti piuttosto interessanti. Non sono musicisti di
professione, innanzitutto: svolgono un altro lavoro, nei piú svariati settori
(dall’agricoltura alla pastorizia all’artigianato); appartengono a una classe
sociale modesta, priva di qualunque riconoscimento formale (come, per
esempio, un’adeguata sepoltura); sono in grado di accompagnare qualsiasi
attività o rituale.
È possible fare un parallelo fra lo stile di vita degli xalamkat professionisti e quello
dei songsters e bluesmen del Texas e del Delta del Mississippi. Sia gli uni che gli altri
affermano con orgoglio di essere intrattenitori completi. Gli xalamkats (soprattutto i
cosiddetti gawulos), sostengono di essere capaci di cantare la storia corretta, di
raccontare la fiaba appropriata, di citare il proverbio adatto e, piú in generale, di fornire
la musica giusta in ogni circostanza: battesimo, promozione, funerale, comizio politico,
festa privata, matrimonio o qualunque altra funzione alla quale assistano, invitati o
meno.

Il fodet è la principale forma musicale nel repertorio per xalam del


Senegambia. Secondo Coolen ha forti somiglianze con il blues a partire
dalla struttura armonica: come nelle dodici battute, il fodet si articola su tre
diversi centri tonali, e le frasi di ogni singola strofa iniziano, come nel
blues, su ciascuno di essi. Inoltre:

1. Il fodet utilizza una forma ciclica, in cui frasi musicali sono suonate o cantate in
base all’uso alternato di tonica e centri tonali secondari. 2. Il testo delle canzoni ha una
forma identica, o molto simile, a quella dei blues. 3. Un cantante di norma inizia il fodet
su una nota acuta e gradualmente si muove verso note piú basse alla fine del fodet. 4.
Tradizionalmente, il pubblico del Senegambia preferisce una esecuzione “fredda”
(sumaiata) a una “calda” (kandita), di una certa canzone. L’esecuzione fredda si usa per
esprimere sentimenti piú profondi, e la musica è generalmente meno virtuosistica che
nell’esecuzione calda.

A sostegno della sua tesi, lo studioso riporta testo e struttura di un fodet


abbastanza diffuso, Foderi Alfa Yaya. In esso sono presenti quattro frasi
simmetriche:

1. Be mang kang
2. Be mang kang
3. Alfa Yaya mansolu
4. Be mang kang.

Nell’interpretazione di Coolen, la struttura del testo sarebbe fortemente


imparentata a quella di un blues: c’è un primo verso, be mang kang, questo
viene ripetuto, e il terzo, sebbene doppio, chiude la stanza completando il
senso del discorso.
L’ipotesi è suggestiva, e va ad accumularsi alle molte presunte scoperte
di antecedenti africani della peculiare forma blues AAB. Ma nessuna di
queste ha mai realmente individuato una reale e diretta discendenza. Lo
stesso Kubik, convinto che anche la struttura del verso e la sequenza
armonica abbiano chiari e inequivocabili antenati africani, ammette di
essersi imbattuto in un solo caso di forma AAB, durante una ricerca in
Nigeria. Troppo poco, evidentemente.
Sono, invece, senza alcun dubbio di origine africana alcuni strumenti,
dalla particolarissima foggia, conservatisi nella loro forma naturale senza
aver conosciuto cambiamenti o mutamenti. Appartengono alla famiglia
delle cetre monocordi, e nel Nuovo Mondo hanno assunto il nome di
jitterbug o diddley bow. In sostanza, è una corda, o un filo, fissata a una
parete (da cui l’altro nome col quale viene indicato: «one-strand on the
wall»), grazie a due viti e a oggetti in grado di offrire uno spessore per
allontanare la corda dal muro, come una sorta di ponticello. In Africa
invece spesso viene montata sul gambo di una foglia di palma e suonata da
due ragazzi: uno percuote la corda con due bastoncini di legno, l’altro altera
l’intonazione facendo scorrere sulla corda oggetti dalla superficie liscia.
Delle cetre monocordi si è occupato a fondo David Evans, il quale ha messo
in evidenza un elemento assai significativo: la tecnica dello scivolamento di
un corpo metallico sulla corda del diddley bow sarebbe l’antecedente piú
diretto della tecnica slide; questa non si sarebbe trasmessa al blues
attraverso l’esempio dei chitarristi hawaiani, come sosteneva W. C. Handy,
quanto per la familiarità con le prassi esecutive del jitterbug.
L’uso del diddley bow come antecedente della chitarra è testimoniato da
molti bluesmen, tra i quali B. B. King. Particolarmente interessante il
ricordo di Louis Dotson:

When you put it up side the wall, it’ll play. I’d say the house must give a sound to it.
Just like a guitar. When I started I didn’t have no radio and I had to have some music
some kind of way. So I put me up a one-strand and made my own music 1.

La casa come cassa armonica: idea estremamente suggestiva.


1
«Quando lo sistemi per bene sulla parete, suonerà. Direi che la casa deve dare un suono alla
corda. Come fosse una chitarra. Quando ho cominciato non avevo neanche la radio, ma volevo
ascoltare musica, in qualche modo. Allora ho piazzato la corda sulla parete e ho iniziato a farmi la
musica da me».
Capitolo secondo
Origini. Sacro e profano

Il blues, dunque, ha profonde radici africane, ma di fatto è una musica


interamente afroamericana, nata cioè sul suolo statunitense e prodotta da
uomini americani di discendenza africana, capaci di articolare pensieri e
riflessioni nella nuova lingua. Il blues e l’uomo afroamericano, come
scrisse Amiri Baraka, sono nati contemporaneamente, e sono due facce di
una stessa medaglia.
Il processo che ha portato alla nascita del blues, allora, è un lungo
susseguirsi di pratiche ed espressioni musicali che gli schiavi africani hanno
da subito iniziato a sperimentare nella loro nuova terra. Musiche profane e
religiose hanno segnato l’humus entro il quale il blues ha preso lentamente
corpo, si è progressivamente costituito sulla base di una visione del mondo,
segnando una prossimità, una contiguità, una connivenza del tutto
particolare. La musica sacra e quella secolare costituiscono il bacino di
esperienze, il laboratorio essenziale dal quale nasce il blues; la musica del
diavolo e quella del Signore cammineranno sempre fianco a fianco, a volte
cosí sovrapposte da essere virtualmente indistinguibili l’una dall’altra, tanto
che ce ne occuperemo di nuovo, fra qualche capitolo.

1. La musica degli schiavi.


Quando i primi schiavi africani toccarono il suolo americano non
credevano potesse esistere una terra cosí diversa da quella che avevano
appena lasciato, o tradizioni, usi e culture tanto dissimili. Con il loro
fardello di dolore, paura, smarrimento e l’inestirpabile risorsa di cultura,
tradizione e religiosità, da subito provarono a misurare il terreno, la distanza
col padrone, i margini di sopravvivenza, gli spazi per esprimere ciò che non
poteva andare perduto: il senso di appartenenza.
Nei limiti del possibile, ovvero a seconda di quanto generoso fosse il
loro padrone, essi iniziarono da subito a fare musica: era necessario per
mantenere vivo lo spirito, l’alito supremo del loro essere nel mondo. Con
significative differenze: sulla terraferma, dove il numero degli schiavi fino
al 1700 era ancora assai esiguo, i processi si svilupparono con molta
lentezza; sulle isole, nei Caraibi in particolare, o nelle enormi e
popolatissime piantagioni brasiliane, musiche e balli raramente furono
vietati, e tracce ne restano in molte testimonianze.
Oggi molto sappiamo di cosa e come suonassero gli schiavi africani
grazie al lavoro di Dena Epstein, una musicologa col pallino e la costanza
della bibliotecaria, che quelle testimonianze ha cercato e studiato per anni.
Le sue ricerche hanno permesso una comprensione chiara e inequivoca di
certe forme espressive, sgombrando al contempo il campo da pregiudizi e
dati palesemente falsi. Il problema, piuttosto, è che i resoconti e i racconti a
disposizione sono stati scritti da viaggiatori spesso a digiuno di qualsiasi
nozione musicale, e il cui sguardo era sempre venato da una paternalistica e
affettuosa condiscendenza, quando non da un disprezzo forte e
inattaccabile; o da romanzieri che, pur basandosi sull’osservazione diretta,
potrebbero aver lavorato di fantasia anche nelle descrizioni di fatti e
pratiche musicali. Sono le loro parole a farci da guida in un intricatissimo
dedalo di canti e funzioni, a partire dai cosiddetti corn songs, la cui
destinazione riguardava, evidentemente, le fasi di raccolta del granturco. In
un romanzo sulla vita nelle piantagioni, George Tucker scrive:

I motivi di queste canzoni non hanno varietà di melodie, e non richiedono piú
flessibilità vocale di quella che tutti possiedono, visto che tutti si uniscono al coro.
Qualcuno, che ritiene di essere adatto al compito, attacca il canto e da solo esegue
qualche strofa grossolana, talvolta in rima, talvolta in frasi brevi ed espressive, mentre
gli altri si uniscono in coro, e questo va avanti finché un nuovo improvvisatore non
prende il suo posto.

La testimonianza risale al 1796, e indica, sebbene con imprecisioni e


timidezze, alcuni meccanismi che ritroveremo nella musica afroamericana
del periodo post-schiavista, e naturalmente nel blues: la scarsa variabilità
dei modelli formali (che all’orecchio di un bianco poteva sembrare davvero
opprimente), l’improvvisazione su frasi brevi, spesso in rima, e
l’immancabile dialettica del call and response tra voce e coro. Tratti assai
tipici che si trasmetteranno a tutte le forme di worksong, ovvero di
accompagnamenti cantati alle fasi del lavoro; in essi si distinguevano,
essenzialmente due funzioni predominanti: la prima era quella di dare
sollievo alla dura fatica durante le lunghe ore di lavoro; l’altra era quella di
sincronizzare i movimenti di una squadra di lavoratori, operazione
essenziale quando, dopo la schiavitú, il lavoro si sarebbe spostato dai campi
alla costruzione di ferrovie o altre situazioni di pericolo, come vedremo
anche piú avanti.
Sincronizzare i movimenti, tuttavia, era essenziale anche per i rematori,
tanto che i boat songs, i canti di navigazione, hanno finito per costituire un
genere definito e circoscritto, puntualmente raccontato dagli osservatori.
William J. Grayson, uno strenuo paladino dell’istituto schiavistico,
descrisse un viaggio in canoa:

I cantori erano i rematori negri. Uno guidava l’esecuzione, il resto faceva il coro. I
canti erano in parte tradizionali, in parte improvvisati. Erano semplici e genuini, e
consistevano di un solo verso e il coro. Il cantore inseriva nelle sue rudi strofe ogni
argomento o avvenimento, come il luogo dove si era diretti, i passeggeri a bordo, la
moglie o la fidanzata a casa, il suo lavoro o il divertimento nei campi, o alluvioni […] le
voci erano generalmente buone, i brani piacevoli e vari, a volte allegri, a volte tristi.
Erano cantati con amore…

Altra categoria interessante, sebbene non direttamente collegata al blues,


è quella del cosiddetto patting juba; una pratica eminentemente strumentale
che consisteva nel percuotersi il corpo con le mani (le spalle, ma anche le
gambe) mentre si teneva il tempo con i piedi. Alto esercizio poliritmico, che
molto affascinò un paio di amici di Edgar Allan Poe, pronti a scrivergli e
raccontargli i loro incontri ravvicinati con questa modalità particolarmente
esotica. Beverly Tucker, in particolare, gli descriveva le impennate e le
improvvise sterzate del ritmo come meravigliosi accorgimenti da utilizzare
nel metro poetico. Da dove provenga il patting juba è difficile a dirsi; i
tamburi erano proibiti, sia perché contrari alla religione cristiana sia come
strumenti atti alla comunicazione segreta tra schiavi, ma questo non basta a
spiegare il formarsi di una simile tecnica. È, invece, da notare che se
l’impianto ritmico e percussivo nel blues si è quasi dissolto, o ha assunto
fisionomie diverse, il coinvolgimento del corpo ne ha sempre costituito un
elemento fondamentale: basti pensare all’abitudine di Charley Patton, poi
ripresa da John Lee Hooker, di usare il battito dei piedi al di là del semplice
tenere il tempo, proprio come risorsa timbrica e strumentale aggiunta, per
questo collocando una pedana di legno sotto le suole delle scarpe per
amplificarne il suono.

2. Forme vocali religiose (spiritual).


La conversione al cristianesimo di molti schiavi africani rappresenta uno
dei fenomeni piú importanti e complessi dell’intera storia americana. Qui,
evidentemente, ne tratteremo soltanto gli aspetti relativi alla produzione
musicale, altrettanto importanti nell’ottica di una sistemazione quanto piú
precisa ed esatta di elementi espressivi che si incastoneranno
nell’immaginario poetico afroamericano.
Il primo battesimo di un africano nel Nord America si registrò nel 1641,
prima che qualsiasi istinto alla conversione si aggirasse nelle coscienze dei
bianchi, per i quali bastava proibire i culti religiosi di provenienza degli
schiavi, e lasciar loro la possibilità di ballare e cantare la domenica dopo la
funzione per aver sistemato il problema. Non avevano a cuore le anime di
chi, trattato come bestia, l’anima non poteva averla. Profondamente
religiosi, invece, gli schiavi iniziarono ad avvicinarsi lentamente alla fede
dei bianchi per diversi motivi; la necessità di mascherare i propri riti,
proibiti, ricoprendoli di una facciata accettabile; il rispetto per il dio dei
vincitori, dal momento che, come osserva Amiri Baraka, lo schiavo per
molto tempo si sentí come un vinto, un prigioniero di guerra; infine, sempre
nell’analisi dello scrittore afroamericano, la religione attrasse gli schiavi
perché era l’unica cosa dei bianchi che potevaro fare propria.
Il battesimo, dicevamo. Di sicuro, provocò qualche grattacapo di tipo
teologico: avrebbe, cioè, conferito allo schiavo la libertà? Che senso aveva
battezzare, quindi rigenerare, un uomo se questo era comunque condannato
alla schiavitú? Al problema si applicarono, con grande energia, i missionari
metodisti giunti dall’Inghilterra a metà del XVIII secolo, in seno
all’eccezionale movimento religioso americano ricordato col nome di Great
Awakening, il Grande Risveglio. Tra loro c’era John Wesley, fondatore
della denominazione metodista e uno dei promotori del movimento di
emancipazione degli afroamericani. Scrive Cerchiari:

Uno degli strumenti fondamentali utilizzati da Wesley, accanto alla polemica sociale
[…] fu quello della conversione. Il metodismo wesleyano fece un uso sistematico della
predicazione, i cui toni accesi e infervorati saranno ripresi alla lettera dai primi membri
della Chiesa afroamericana.

Accanto alla predicazione, fu la musica a giocare un ruolo essenziale,


addirittura decisivo nel successo della scommessa wesleyana. I suoi
sermoni erano accompagnati dalle musiche di Isaac Watts, di carattere
moderno e meno ingessato rispetto agli innari utilizzati dalle altre
predicazioni. I testi, soprattutto, usavano una lingua moderna, vera, reale, e
per questa loro caratteristica divennero assai diffusi tra gli schiavi, come
illustra lo studioso italiano:

I predicatori itineranti si rivolgevano a comunità sia bianche sia nere, nelle campagne
del Sud, perché spesso le piccole congregazioni erano separate. Gli schiavi cercavano di
riprodurre i canti in modo consapevole, ma spesso li cantavano diversamente,
sovrapponendovi ritmi diversi da quelli originali, e, spesso, non essendo in possesso di
un vocabolario o di una competenza verbale sufficiente, tendevano a differenziare i testi
da quelli dei bianchi. Musicalmente, gli spirituals, nati in epoca schiavistica, iniziarono
a distinguersi dalle canzoni del folklore principalmente in ragione delle differenze
culturali fra bianchi e neri e della particolare disposizione degli afroamericani per i
ritmi. Mentre i coloni bianchi attribuivano piú rilevanza ai testi che alle musiche (poche
melodie, spesso usate con testi differenti), i nero-americani tendevano a sottolineare
maggiormente l’importanza della musica.

Una simile spinta andava a innestarsi in un momento di complessiva


ricerca di maggiore libertà: erano gli anni della Rivoluzione americana, che
culmineranno, nel 1776, con la Dichiarazione di Indipendenza delle tredici
colonie britanniche, primo passo verso la costituzione della
Confederazione. In questo clima di fervore, era naturale che si esprimessero
spinte robuste all’innovazione di ogni settore della sfera pubblica e sociale.
I camp meeting, riunioni di preghiera a cielo aperto, animate da una accesa
partecipazione e modelli predicativi che sovvertivano le regole costituite,
diedero alla pratica religiosa una nuova dimensione, illuminando la
necessità di una fede piú libera e svincolata dalle norme centrali di
denominazioni viste ormai come apparati burocratici. Questa religione
libera e liberata, dominata dalla figura del predicatore, e nella quale il
fervore partecipativo, a base di canti, danze e episodi di trance accorciava la
distanza tra sacro e reale, soddisfaceva i bisogni di tutti: degli schiavi,
innanzitutto, che metodisti e battisti non avevano lasciato certo fuori dal
gregge, assieme ai loro padroni; del proletariato bianco, povero e disperato,
alla ricerca di una salvezza almeno ultraterrena; ai pionieri, coraggiosi
esploratori alla ricerca di un passaggio a ovest per la conquista di nuovi
territori, cui dava un supporto di fede in una natura spesso ostile e in
condizioni di vita proibitive. In un simile scenario, la predicazione battista
si distingueva per i suoi caratteri fortemente libertari, dal momento che non
riconosceva nessuna autorità ecclesiastica centrale; anche in fatto di musica
e canti, l’impostazione era rivoluzionaria: si preferiva il canto libero, anche
su testi popolari, all’ingessato libro degli inni protestanti; infine, i Battisti
riconoscevano agli schiavi afroamericani la possibilità di diventare
predicatori, di essere leader della congregazione.
Tutte queste spinte, evidentemente, stavano conducendo l’esperienza e la
pratica religiose verso eventi eclatanti. Il primo si verificò nel 1794 quando
Richard Allen, un afroamericano libero (erano centomila, all’epoca, contro
un milione di schiavi) fondò la prima denominazione nera, a Philadelphia:
la Bethel African Methodist Episcopal Church, che nel 1801 pubblicò il
primo innario a uso esclusivo delle congregazioni nere. Era, di fatto, la
nascita dello spiritual, la prima forma musicale nera nata in America,
secondo la celebre definizione di Amiri Baraka. Sempre nel 1801 un altro
avvenimento contribuí alla definizione di un nuovo orizzonte espressivo,
ovvero il camp meeting a Cane Ridge, Kentucky. Migliaia di persone – le
stime dell’epoca parlano di trentamila fedeli – si recarono con ogni mezzo
in questo luogo perso in mezzo al nulla, colonizzato dai coraggiosi pionieri
della frontiera solo pochi anni prima. Spiega Don Cusic:

Nel corso di questi incontri la gente doveva cantare a memoria o imparare canzoni
semplici e ripetitive che richiedevano poco impegno per essere memorizzate, dal
momento che non c’erano innari. Nel camp meeting i canti erano nelle mani della gente,
cosí come l’attività esortazionale – pregare, soffrire e altri esercizi fisici – era pensata
dalla e per la gente. I cantori controllavano le canzoni, ma i fedeli si univano al coro,
ripetendo una breve frase o una coppia di versi che stimolava la loro fantasia. Questo
determinò lo sviluppo di canti con passaggi ripetitivi […] Le melodie venivano
modificate secondo le esigenze della strofa in modo che tutti potessero imparare
velocemente. Cosí il song leader conosceva i versi ma tutti conoscevano la strofa e si
univano nel canto su queste o sui versi ripetuti. Questa era democrazia in azione;
ognuno poteva sentirsi parte di questa religione e del suo cantare.

Tra i canti approntati per il camp meeting di Cane Ridge, ce n’era uno
destinato ad avere un qualche ruolo anche nella nascita della musica del
diavolo. È Roll Jordan, composto da Charley Wesley (fratello di John); per
la sua forma peculiare (ogni strofa ripete tre volte lo stesso verso, e a ogni
verso segue una risposta costituita da un breve ritornello), lo studioso
Stephen Calt ritiene abbia fornito uno dei primi scheletri al blues a venire,
anche in virtú del fatto che un simile schema è stato piú volte riutilizzato da
bluesmen di spessore, come Blind Lemon Jefferson o Skip James.
Se l’idea di attribuire un singolo precedente, ben definito, al blues è
sempre rischiosa e offre il destro a controdeduzioni, è invece
incontrovertibile che lo spiritual, la musica religiosa afroamericana, abbia
contribuito alla definizione, e alla diffusione, di una serie di modalità, come
abbiamo visto, e di poetiche comuni ai due ambiti, sacro e profano. Né può
essere smentita la provenienza anche chiesastica del blues: al di là della
celebre affermazione di Mahalia Jackson – «Rock’n’Roll was stolen out of
the Sanctified church», forte ma non fasulla –, sono molti i bluesmen a
indicare nella chiesa, nelle pratiche responsoriali, nella riappropriazione
afroamericana degli innari, musica e testi, l’origine del blues.
Nei primi cinquant’anni del XIX secolo si andò dunque cristallizzando un
repertorio religioso afroamericano imponente per quantità e assolutamente
sorprendente per profondità di ispirazione. Nel momento in cui si
impossessava di materiali bianchi, l’afroamericano li trattava e rielaborava
alla luce della sua originaria esperienza e tradizione, richiamando prassi e
tratti espressivi dalle ricchissime tradizioni africane e impegnando la
propria immaginazione e l’abilità inventiva nella pratica
dell’improvvisazione e della creazione estemporanea, come ci spiega questa
testimonianza dell’epoca:
Chiesi a uno di questi neri, uno dei piú intelligenti, il Sergente Prince Rivers del 1 st
Carolina Volunteers, dove prendessero quelle canzoni. «Le fanno loro, signore», rispose.
«Come fanno a farle?» Dopo una pausa, evidentemente alla ricerca del modo migliore
per spiegarmelo, disse: «Glielo dirò. Il mio padrone mi fece chiamare e ordinò che
avessi una porzione ridotta di cibo e cento frustate. I miei amici ne furono molto
dispiaciuti e, quando venne sera, all’incontro di preghiera cantarono questa storia.
Alcuni di loro erano dei bravi cantanti e ci lavorarono, ci lavorarono sopra finché venne
bene. E questo è il modo. [I’ll tell you, it’s dis way. My master call me up, and order me
a short peck of corn and a hundred lash. My friends see it, and is sorry for me. When
dey come to de praise-meeting dat night dey sing about it. Some’s very good singers and
know how; and dey work it in – work it in, you know, till you get right; and dat’s de
way]».

A raccontare questo piccolo laboratorio di creatività permanente fu il


colonnello Higginson, nel cui battaglione, al tempo della Guerra Civile,
erano presenti soldati di colore in gran numero; e la sua testimonianza
venne pubblicata in un libro fondamentale, la raccolta Slave Songs of the
United States, curata da William Francis Allen, Charles Pickard Ware e
Lucy McKim Garrison, e pubblicata nel 1867. Volume di importanza
fondamentale: non solo è il primo lavoro serio di catalogazione di spiritual,
ma ci permette di capire quali fossero i parametri creativi afroamericani alla
vigilia della Guerra di Secessione e la conseguente abolizione della
schiavitú (avvenuta, a livello confederale, nel 1865).
Da lí a poco gli spiritual, che già venivano intonati sui battelli, nelle feste
e in ogni luogo possibile, avrebbero iniziato a mescolarsi sempre piú
velocemente con stili e prassi della musica profana, dalle quali era già
difficilmente distinguibile, come ci raccontano osservatori e testimoni. Il
principio comune, e fondamentale per entrambe, era quello di elaborare in
tempo reale avvenimenti, fatti e situazioni trasformandoli in materia prima
per la creazione dei canti. Che fosse estemporaneo, o lavorato per bene,
come ci dice il sergente Prince Rivers, il canto era legato alla vita, alla terra:
guardava intorno a sé e si manifestava in forme semplici, affinché tutti
comprendessero e a ciascuno fosse data la possibilità di intervenire, cantare
e unirsi al coro.
Quando la musica degli schiavi diventa musica del proletariato
afroamericano, le differenze sono impercettibili.
3. Dopo la schiavitú. Peabody e la sua band.
Chissà se Charles Peabody, archeologo di buona fama e spiccata
curiosità, immaginava che un giorno sarebbe stato ricordato non tanto per i
suoi scavi, quanto per aver descritto, per primo, il blues nel suo stato
embrionale. Si deve proprio a un suo fondamentale articolo, da molti citato,
ma da pochi effettivamente letto, la prima testimonianza di una musica
secolare afroamericana fortemente imparentata con quello che si sarebbe
chiamato blues qualche anno dopo.
L’archeologo si trovò, nei mesi di maggio e giugno 1901 e 1902, a
scavare un tumulo indiano nella contea di Coahoma, a quindici miglia da
Clarksville, ovvero l’epicentro del Delta, il luogo che piú di altri viene
indicato come la probabile culla del blues. Alle sue dipendenze una piccola
pattuglia di operai di colore, dai nove ai quindici, provenienti appunto da
Clarksdale. Sebbene poco versato nella rilevazione etnomusicologica, e
indaffarato con lo scavo, Peabody prese nota dei comportamenti musicali
che osservava, trascrisse melodie, provò a capire, mosso dalla sorpresa e lo
stupore, con acume e apprezzabile precisione.

La musica dei Neri che abbiamo ascoltato può essere collocata all’interno di tre
categorie: le canzoni cantate dai nostri uomini al lavoro scavando o trasportando terra,
senza accompagnamento; le canzoni eseguite dagli stessi uomini negli accampamenti o
in marcia, con l’accompagnamento della chitarra; e le canzoni, senza
accompagnamento, dei Neri del posto […] I nostri uomini avevano la stessa
propensione sia per il canto sacro che per il «ragtime». I canti metodisti della domenica
erano ripetuti in motivi tristi, spesso condotti da un solo esecutore, il leader del coro,
con un ritornello cantato, «tutti»: erano inni di estrema malinconia. Da questi si passava
velocemente, con rapidi cambi, al «ragtime», i cui temi piú diffusi erano «Molly
Brown» e «Goo-goo Eyes».

Peabody non ci dice che tipo di accompagnamento la chitarra fornisse,


ma dalle sue osservazioni non è difficile vedere già all’opera il blues, o una
forma di worksong che sta rapidamente virando verso le dodici battute.
Assai significativo è il fatto che in una normale situazione di lavoro gli
operai afroamericani passassero dall’inno religioso al “ragtime” senza
soluzione di continuità, né avvertendo minimamente una frattura o una
incompatibilità tra i due repertori: evidentemente, non c’era differenza,
nella funzione d’uso. Era, invece, sempre in atto l’istinto improvvisativo.

Umanamente piú interessanti erano i distici e le improvvisazioni con ritmo piú o


meno fraseggiati e cantati su una melodia piú o meno approssimata. Si riferivano a un
argomento generale con riferimento agli usi, costumi e avvenimenti della vita dei Neri,
ma potevano anche essere improvvisati su un argomento di particolare interesse in quel
momento. Gli argomenti delle improvvisazioni potevano essere i piú vari, ma piú
frequentemente erano variazioni sul medesimo argomento.

Ma la sorpresa piú forte l’archeologo l’ebbe quando, alla fine di una


lunga giornata di lavoro, si accorse di essere diventato l’oggetto di una di
quelle improvvisazioni.

Riguardo a motivi piú appropriati, la copertura di questa quasi-musica era usata per
trasmetterci messaggi. Un sabato, mezza festività, un canto sbucò dalla buca:
Mighty long half day, Capta-i-n [Infinitamente lunga questa mezza giornata,
Capitano].
E una sera che il mio amico e io giocavamo a mumblely-peg [lancio di coltelli], la
nostra ultima occupazione prima di andare via dal lavoro, il leader del coro intonò una
canzone perché ascoltassimo:
I’m so tired I’m most dead, Sittin’ up there playing mumblely-peg [Sono stanco
morto, seduto qui su a giocare coi coltelli].

Reazione immediata a qualunque stimolo esterno degno di interesse:


ecco come si manifestava la poetica del nascente blues. Si attaccava, come
un insetto, alla realtà, per passarla al vaglio della sua lente. Nelle campagne,
invece, dove Peabody ebbe la possibilità di ascoltare la musica dei negri del
luogo, in maggior parte braccianti e contadini, fu colpito da altri elementi
espressivi, come quelli utilizzati da un uomo, chiamato “Five dollars” dagli
operai di Clarksdale, e “Haman’s Man” da Peabody, per il fatto che
dall’alba al tramonto seguiva nei campi il suo mulo Haman. Durante le
quindici ore di lavoro l’uomo riempiva l’aria di canti.

Inni alternati con terribili bestemmie all’indirizzo di Haman. Altre indicazioni


intonate nei suoi confronti fuse con pura musica africana, a volte con parole, a volte
senza. C’erano lunghe frasi senza ritmo misurabile, difficili da trascrivere in notazione
musicale.

Il canto senza parole di Five Dollars, o il grido, lo shout, del nero che
incorpora nel suo verso lo svolgersi del gioco di Peabody rappresentano
segni fondamentali: ci fanno capire, cioè, che le forme vocali
afroamericane, sacre o profane, non avevano nessuna funzione estetica
(tanto che quando Peabody chiede ai suoi operai di replicare le loro
mirabolanti improvvisazioni per sua moglie, questi, intimiditi e confusi,
accennano qualche brano popolare, ma senza particolare convinzione).
Erano, piuttosto, segnali vocali, prove di esistenza, tentativi di mettere le
mani sul mondo esterno attraverso un impossessamento espressivo di
profonda umiltà. Tutto il repertorio di forme vocali profane, che vedremo a
breve, rispecchia questa ineludibile funzione: non si canta perché altri
ascoltino, ma perché capiscano, o localizzino, o per parlare con se stessi e la
comunità.

4. Odom il sistematico.
Prima che la ricerca etnomusicologica professionale setacciasse le
campagne del Delta del Mississippi e i territori del Sud alla ricerca del vero
patrimonio folklorico americano, e dopo il tentativo – casuale ma
importante – di un dilettante, Charles Peabody, trovatosi al momento giusto
nel posto giusto, le informazioni piú preziose, quasi definitive, sulla musica
profana afroamericana le abbiamo dagli studi di Howard Odom.
Laureatosi all’Università del Mississippi, il giovane ricercatore rimase
affascinato dalle neonate scienze sociali, che pretendevano di analizzare i
comportamenti umani con le tecniche di un laboratorio di precisione. La
ricerca sul campo era il principale strumento di questo nuovo orizzonte
culturale, cosí il giovane Odom, da sempre desideroso di comprendere piú a
fondo la natura della popolazione afroamericana, recuperò un registratore a
cilindro, e si mise in viaggio per dimostrare che, in fondo, quella
afroamericana doveva essere una razza inferiore. La sua ricerca, pubblicata
dapprima in un celebre saggio (apparso in due numeri successivi del
«Journal of American Folklore», nel 1911), costituisce la piú generosa
miniera di informazioni sulla musica suonata e cantata dalla popolazione di
colore nelle contee di Lafayette (Mississippi) e Newton (Georgia), tra il
1905 e il 1908. Informazioni scritte, però, perché nessuno dei cilindri
registrati è stato mai ritrovato. Le uniche prove di come si suonasse il blues
prima di diventare il blues si sono perse per sempre con quelle registrazioni:
esse, per Odom, dovevano avere una semplice funzione mnemonica;
attraverso i cilindri doveva poter ricordare e analizzare, e infatti non ne
trascrisse o indicizzò il contenuto. Il pensiero che potessero essi stessi
costituire un documento decisivo non lo sfiorò neppure.
Cosa c’è, dunque, nel lungo e dettagliato resoconto di Odom? Intanto,
una cosa non c’è, e forse avrebbe dovuto esserci. Di fatto, non c’è – ancora
– il blues. Delle centoquindici canzoni trascritte e annotate dal ricercatore,
nessuna è un blues nominale, né alcuno dei musicisti interrogati e ascoltati
dà questa definizione per le forme che utilizza. Il termine blues affiora nel
testo di due canzoni; la prima, Look’d down de road, dice:

Look’d down de road jes’ far as I could see,


Well, the band did play «Nearer, my God, to Thee».
I got the blues, but too damn mean to cry! (× 2)
Now when you git a dollar, you got a frien’
Will stick to you through thick an’ thin.
I didn’t come here fer to steal nobody’s find.
I didn’t jes’ come here to serve my time.
I ask jailer, «Captain, how can I sleep?»
All ’round my bedside Police S. creeps.
The jailer said, «Let me tell you what’s best:
Go ’way back in yo’ dark cell an’ take yo’ rest».
If my kind man quit me, my main man throw me down;
I goin’ run to de river, jump overboard ’n’ drown 2.

Sebbene non sia un blues, questo brano contiene alcuni aspetti


significativi, come l’uso di coppie di versi in rima e la ripetizione di un
singolo verso. Questa metodica, in particolare, attirò l’attenzione di Odom,
il quale scrisse di essere stato assai sorpreso dall’esistenza di canzoni fatte
di un singolo verso, ripetuto molte volte. Componimenti destinati a uno
sviluppo inevitabile quando l’esecutore, stancatosi di quel verso, fosse
andato alla ricerca di un nuovo verso, in rima, da sostituire al precedente.
L’altra citazione del termine blues («I got de blues an’ can’t be satisfied»)
appare, assai significativamente, in un brano registrato col titolo di Knife-
song, il quale indica piú un insieme di canzoni accomunate dalla pratica
esecutiva dello slide ottenuto con la lama di un coltellino sulle corde che un
singolo brano.
Versi singoli ripetuti, coppie di versi in rima, ma mai la tipica struttura
del blues. Un’analisi comparata delle formule strofiche utilizzate nelle
centoquindici canzoni mostra la presenza di strutture AAAA, AAAB, AAA,
AB, AA, tra le altre. Da queste, necessariamente si è pervenuti, in un breve
lasso di tempo, alla tipica forma del verso blues AAB. Il processo di
derivazione, fin troppo evidente anche se non si hanno prove concrete, è
reso ancor piú chiaro da alcune notazioni circa l’aspetto musicale.

La musica può essere ridotta a poche combinazioni. Le armonie sono spesso in


tonalità minori, senza che si rifacciano a modelli studiati o movimenti alle tonalità
vicine. C’è molta ripetizione, sia nei testi che nella musica. Canzoni e strofe sono
adattate a sensazioni o stati d’animo. I versi sono cantati cosí come vengono al cantore,
o stuzzicano la sua immaginazione. La maggior parte dei brani sono costruiti sulla
ripetizione, ma non sono noiose né per chi esegue né per chi ascolta. Le canzoni dei
negri iniziano affrontando un tema, e finiscono con un tema completamente estraneo a
quello d’apertura, dopo che si è passati attraverso molti altri temi. È possibile spiegare
quest’atteggiamento con il fatto che quando inizia a cantare il negro non vorrebbe mai
smettere, e quindi spesso passa da una canzone all’altra senza interruzioni.

Non sapremo come suonasse quella musica, ma che fosse l’anticamera


del blues sembra incontrovertibile. La ricerca di Odom, però, ci dice altro.
Nella sua foga positivista, l’obiettivo era quello di catalogare, classificare,
razionalizzare. Cosí, quando mise mano a una possibile suddivisione in
generi del negro song, lo studioso scrisse che esistono tre grandi categorie:

La gran parte delle canzoni dei negri può essere divisa in tre classi generali, l’ultima
delle quali costituisce la classe dei folk songs comunemente intesi. Prima: i moderni
coon songs e le piú recenti canzoni del momento; seconda: canzoni largamente
modificate e parzialmente adattate dai negri; terza: canti creati dai negri o adottati
completamente da diventare folk songs della loro tradizione.

Le tre categorie non conoscono divisioni, né cesure esecutive o di


repertorio. Ciascun esecutore era in grado di eseguire canti e musiche
appartenenti a ognuna di esse. Questo è un aspetto fondamentale, che
tornerà utile tra qualche pagina.

5. Canti di lavoro.
Cosa cambia nella prassi del worksong prima e dopo la fine della
schiavitú? In buona sostanza, nulla, tranne lo scenario, gli attrezzi, e il
rischio collegato al lavoro svolto. Nella piantagione, o su una barca, non si
metteva in gioco la propria vita come nei cantieri per l’estrazione della
trementina, nelle grandi falegnamerie a carattere industriale, nella posa
delle rotaie che avrebbero reso le ferrovie un potente mezzo di
comunicazione per la nazione. Era talmente delicato il lavoro che il caller,
il cantante cui spettava il compito di scandire il tempo, aveva quasi status di
manodopera specializzata. William Ferris ha raccolto la testimonianza di un
caller di lunga esperienza.

When you’re lining track you say:


Oh, up and down the road I go,
skipping and diving for my forty-four.
Ha ha, way over.
Ha ha, way over.
Poor boys, pull together.
Track’ll line much better.
Whoa 3!

La stretta relazione tra canto di lavoro e blues è piuttosto evidente. Il


caller, detto anche chanter, e il bluesman usano versi familiari, adottano
lunghezze del verso a seconda dell’uditorio, insistono sulla fondamentale
funzione del call and response, improvvisano i testi a seconda delle
circostanze. La mancanza, per evidenti ragioni, di accompagnamento
musicale potrebbe spiegare perché le forme piú arcaiche di blues fossero
costruite su un solo accordo, su un bordone.
Ancora piú direttamente collegabile al blues è un altro tipo di canto di
lavoro: il field holler, eseguito nei campi e in forma solitaria (come il canto
del mulo visto prima). Che il field holler sia il diretto antenato del blues lo
afferma, senza esitazioni, Son House:

La gente si chiede spesso da dove viene il blues. Beh, quando ero ragazzo, la gente
cantava nei campi piú che da ogni altra parte. Quando andavano al campo iniziavano a
cantare vecchie canzoni. Uno urlava al vecchio mulo «Forza, muoviti!», e mentre
andava appresso al mulo iniziava ad arare e a cantare. Si cantava al mulo o a chiunque
altro, non faceva differenza. Le chiamavamo old corn songs, le vecchie canzoni del
grano, canzoni con lunghi motivi. E suonavano bene, altro che. Potevi sentirle a mezzo
miglio di distanza, per come cantavano forte. Specialmente appena prima del tramonto.
Sicuramente avevano fatto molta strada. Cosí iniziarono a chiamarle got the blues. Ecco
cos’è che chiamiamo blues. Quelle vecchie canzoni con frasi lunghe. Li sentivi parlare e
uno diceva: «Sapete, il vecchio tizio-e-caio sa veramente cantare il blues!» Non si
usavano strumenti. Solo la voce. Facevano anche le rime, come succede nel blues di
oggi, ma il metro e le frasi erano piú lunghe. Prima di ogni parola si emettevano lunghi
suoni, come un grido o un lamento. Cantavano della loro ragazza o di qualsiasi altra
cosa, il mulo, qualsiasi cosa. Parlavano di tutto, perché l’importante era cantare.

Il riferimento al long meter di Son House indica una modalità espressiva


e tecnica, ovvero lunghe frasi melodiche, cantate a tempo lento, con profili
assai melismatici e ornati. Nella solitudine del campo, il cantore ha tempo e
modo per articolare frasi il cui respiro è dettato soltanto dall’esigenza
poetica, o dalle necessità del fiato. È un dialogo tra sé e il mondo, che non
conosce la parola fine.

2
«Ho guardato in fondo alla strada, fin dov’è arrivato il mio sguardo | Be’, la band suonava
«Nearer, my God, to Thee». || Ho i blues, ma sono troppo povero anche per piangere! (× 2) || Quando
hai un dollaro, hai un amico | Che rimarrà al tuo fianco nel bene e nel male. || Non sono venuto qui
per rubare la scoperta di nessuno | Non sono venuto qui per scontare la mia pena. || Ho chiesto al
carceriere: “Capitano, come faccio a dormire?” | Il Poliziotto S. si muove furtivo intorno al mio letto.
|| Il carceriere ha detto: “Lascia che ti dica cos’è meglio: | Torna nella tua cella buia e riposati”. || Se il
mio uomo buono se n’è andato, il mio migliore amico mi ha gettato a terra. | Correrò verso il fiume,
salterò giú e annegherò».
3
«Mentre posi i binari dici: | Oh, cammino avanti e indietro per la strada, | Scattando e
precipitandomi a cercare la mia 44. | Ah, ah, tutto il giro. | Ah, ah, tutto il giro. | Poveri ragazzi,
lavorate insieme. | Sarà piú semplice posare i binari.| Oh!».
Capitolo terzo
Origini. Minstrel show e vaudeville: l’intrattenimento vagante

La prima apparizione del minstrel si registra verso la fine del 1820,


quando attori bianchi iniziarono a proporre imitazioni delle danze e delle
canzoni afroamericane all’interno dei loro numeri. Si tingevano la faccia di
nero con del sughero bruciato e procedevano a una pesante caricatura di
gesti, parole e modi di fare, sí che i personaggi sembrassero degli stupidotti
bonari e trogloditi. Il piú famoso, tra i primi attori di minstrel, fu Thomas
Rice, al quale si deve la popolarizzazione di Jump Jim Crow, un brano che
divenne una sensazionale attrazione a teatro, e simbolo della piú cruda
legislazione razziale negli anni a venire.
Tale fu il successo di Rice, e dei suoi travestimenti – abiti stracciati e
abbondanti, scarpe sformate e sfondate – che presto il blackface minstrel
divenne una forma di intrattenimento autonoma, basata su musiche, balli e
scenette derivate dalla cultura afroamericana. La lente sociologica
attraverso cui le compagnie di minstrel leggevano usi e costumi dei neri era,
evidentemente, quanto mai spessa e grezza. Gli afroamericani liberi
venivano dipinti come dandy di città, desiderosi di assomigliare ai bianchi,
dei quali scimmiottavano atteggiamenti e comportamenti. Gli schiavi delle
piantagioni, invece, erano sempre contenti, comici e infantili.
La dinamica minstrel, prima della Guerra di Secessione e della
conseguente abolizione della schiavitú, aveva innescato una serie di
elementi critici, nella società statunitense, dilaniata dalle problematiche
razziali e schiaviste. Come ha spiegato lo storico Robert Toll:

Questi artisti dalla faccia dipinta di nero erano come marionette mosse da un
burattinaio bianco. Il loro aspetto fisico proclamava il loro non-essere umani; essi
potevano essere utilizzati non solo per prendersi gioco di se stessi, ma anche per
comportarsi da esseri umani. Esprimevano emozioni umane come la gioia e il dolore,
l’amore, la paura, il desiderio. Il pubblico bianco si identificava con le emozioni,
ammirava l’abilità del burattinaio, simpatizzando bonariamente con l’aspirazione senza
speranza dei burattini di poter diventare umani. Allo stesso tempo tranquillizzato dal
fatto che non sarebbero mai potuti diventarlo. Per piú di mezzo secolo, il predominio del
fenomeno blackface minstrels sull’intrattenimento popolare segnò l’assuefazione agli
usi della supremazia bianca.

Le prime compagnie afroamericane di minstrel apparvero sulla scena


verso la fine del 1850. L’idea era quella di sfruttare la loro autenticità etnica
(loro erano davvero neri) per avere successo nel circuito teatrale. Non erano
imitatori, insomma, ma soggetti veri di quella rappresentazione che passava
sotto il nome di cultura afroamericana: i bianchi, finalmente, avrebbero
potuto osservare da vicino i veri balli e le vere danze dei neri. Lo schema
era piú o meno lo stesso: si parlava della vita nelle piantagioni, anche
cadendo nello stereotipo tipicamente bianco; al tempo stesso portavano
nella rappresentazione elementi reali e originali del folklore afroamericano,
ma, paradossalmente, anche gli attori di colore dovevano scurirsi
artificialmente il volto, affinché il nero fosse uguale per tutti.
Dopo la Guerra Civile le compagnie minstrel nere si moltiplicarono,
sebbene non fosse facile sopravvivere in un mercato ancora dominato dal
vecchio stile del blackface di prima della guerra, né spostarsi in un territorio
ferocemente razzista. La piú famosa, i Georgia Minstrels, era formata da ex
schiavi che provenivano da Macon, Georgia, e il loro successo clamoroso
nelle città del Nord aprí la strada perché altre compagnie nere fossero
scritturate. I Georgia Minstrels ebbero un successo poderoso, tanto che il
loro nome finí con l’indicare tutte le compagnie nere di minstrel, mentre
quelle bianche venivano chiamate “Nigger Minstrels”. Com’era prevedibile,
visto il successo che riscuotevano, le compagnie nere di blackface minstrel
iniziarono a essere rilevate da impresari bianchi, con mezzi maggiori e piú
adeguata capacità promozionale. Questo il destino che toccò ai Georgia
Minstrels, e ad altre compagnie di giro: nel 1880 tutte le migliori
compagnie nere erano gestite da impresari bianchi, i quali volevano che gli
spettacoli ricalcassero il vecchio formato del minstrel show anteguerra. Il
risultato fu che molti grandi artisti afroamericani, pur di avere la possibilità
di lavorare a condizioni e compensi maggiori, e nei teatri piú prestigiosi,
persero un po’ della loro indipendenza artistica: fenomeno che, peraltro, si è
protratto per tutto il XX secolo (e Spike Lee ha trasformato in film,
Bamboozled).
Figli di un’ideologia perversa, rozza e razzista, i minstrel show
giocarono comunque un ruolo decisivo nella nascita e, soprattutto, nella
diffusione del blues. Se già le piú oneste tra le compagnie bianche – fasulle
e caciarone degli Ethiopian delineators o dei darkies, come venivano
chiamati gli attori bianchi che si dipingevano la faccia di nero – provarono
ad aprire una finestra su usi e costumi delle comunità afroamericane,
riprendendo con cura e riproducendo quanto piú correttamente stili, danze e
canti della piantagione (i Virginia Minstrels definivano il loro spettacolo
«sports and pastimes of the Virgina Colored Race, through medium of
Songs, Refrains and Ditties as Sung by Southern Slaves»), alle compagnie
nere spetta il merito di aver portato alla luce un universo artistico e culturale
complesso e originale. Pescando generosamente in materiali che sentivano
vibrare nelle loro mani, cantati e suonati mille volte anche fuori da un
palcoscenico, questi artisti neri resero possibile l’emersione di pratiche
artistiche e musicali, altrimenti confinate per sempre nel microcosmo della
piantagione, con un intento quasi etnomusicologico. Alcuni di questi
eccezionali performer divennero celebri in tutta l’America. Billy Kersands,
eccezionale figura di innovatore, seppe recuperare la matrice percussiva
della danza afroamericana introducendo nei suoi spettacoli una forma molto
evoluta di tip tap; batterista di valore, se ne ricorda la bocca enorme (era
capace di tenervi tre palle da biliardo, come si vede anche nella copertina
dell’album dei Rolling Stones Exile on Main Street, sebbene non sia ancora
chiaro se nel collage di foto di Robert Frank l’immagine sia di Kersands o
di un suo imitatore), ma il senso del grottesco – W. C. Handy di lui diceva
che avrebbe fatto ridere anche un mulo – era ben temperato da una forte
attenzione agli aspetti dell’oralità afroamericana e alla sua riproduzione
priva di stereotipi. I suoi spettacoli rappresentavano un evento, come ci dice
l’anonimo estensore di una recensione apparsa sul «Wilmington
Messenger» del 13 gennaio 1906:

La notte scorsa i Kersands’ Minstrels hanno calcato le scene dell’Accademia della


Musica ed è stato uno spettacolo molto buono. Un minstrel show nero genuino, e il nero
è per natura un buon minstrel. La razza di colore ha partecipato in gran numero, ed è
stato un evento importante per la società. Gli uomini indossavano abiti da sera e cravatte
di seta e le donne vestivano ogni sorta di abiti festosi. Ben prima dell’apertura delle
porte, una grande folla si era ammassata all’esterno dell’Opera House. Il pubblico ha
assistito a un ottimo spettacolo. La metà dei posti dell’Opera House era stata riservata ai
neri.

Per oltre un secolo le compagnie di blackface minstrel girarono gli Stati


Uniti in lungo e largo, raggiungendo anche i luoghi piú lontani e periferici.
Tra le compagnie che hanno reso immortale questa forma di spettacolo una
menzione d’obbligo spetta ai Mahara’s Minstrel, in cui si fece le ossa
Handy, ai Rabbit Foot Minstrels, nelle cui file militarono “Ma” Rainey e
Jim Jackson, e alla compagnia Silas Green di New Orleans, i cui spettacoli
allietarono bianchi e neri dal 1904 al 1957 (nel 1949, anche Ornette
Coleman fece parte della compagnia).
Era però un successo a orologeria, e il conto alla rovescia era già
iniziato. I blackface minstrel show furono progressivamente soppiantati dai
vaudeville, veri e propri spettacoli di varietà, con numeri di danza, canto,
commedia ed esibizioni strumentali. Si abbandonava la gretta imitazione di
usi e costumi dei neri a favore di spettacoli molto piú bilanciati, quasi dei
musical, alla cui realizzazione si impegnarono presto le piú belle menti
dello spettacolo e della cultura afroamericane. Il primo di questi formidabili
spettacoli, A Trip to Coontown (traducibile come «Un viaggio a Negronia»),
esordí a New York nel 1898, con Sam Lucas, vecchia gloria del blackface,
attore protagonista. In quello stesso anno, e nella stessa città, esordí
Clorindy. The Origins of Cakewalk, libretto del grande poeta afroamericano
Paul Laurence Dunbar e musiche di Will Marion Cook, uno tra i piú colti e
preparati musicisti neri della prima metà del XX secolo, e tra i primi ad
avere studiato all’estero. Lo spettacolo mise a segno almeno due primati: fu
il primo show interamente scritto e messo in scena da artisti di colore a
essere rappresentato in un importante teatro per bianchi (il Casino Theatre,
a Broadway) e a prevedere numeri in cui ballerini cantassero e danzassero
contemporaneamente.
Il successo fu immediato. La qualità elevata degli allestimenti, la cura
nella realizzazione, la professionalità di una schiera di musicisti, ballerini,
entertainer e attori afroamericani colsero nel segno, tanto da creare una vera
e propria mania del vaudeville nel paese. Impresari e gestori di teatri
cercavano di accaparrarsi le compagnie migliori, per cui nacque anche una
nuova idea di managerialità: la circuitazione degli spettacoli. Tramontata
l’era delle rappresentazioni per natura itineranti, si cercò un sistema per
garantire che le esibizioni, nate e allestite in un certo teatro, avessero la
possibilità di replicare in altri teatri e in altre città. L’idea originaria, dalla
quale poi si sviluppò il circuito denominato TOBA , venne a un facoltoso
impresario, Fred A. Barrasso. Questi era nato a Memphis da Generoso e
Rosa, arrivati da Napoli nel 1893, con molti soldi nella valigia, a quanto
raccontano le cronache. Il rampollo trovò subito la sua strada nel teatro e,
dopo aver acquisito il Savoy Theater, diventato in breve tempo l’epicentro
del vaudeville a Memphis, ebbe il desiderio (e la lungimiranza) di voler
esportare gli spettacoli che produceva. Iniziò cosí a costruire un piccolo
circuito, attorno a tre stati, e si mise alla ricerca di personale, con questo
annuncio:

Si cercano artisti per il F. A. Barrasso Tri-State Circuit-Savoy Theater, Memphis,


Tenn.; American Theater, Jackson, Miss.; Amuse Theater, Vicksburg, Miss.; Royal Palm
Theater, Greenville, Miss. Atti unici, duetti, numeri novelty. […] Quindici settimane al
miglior salario che il Sud possa offrire. Ma dovete avere dei numeri o non se ne fa nulla.
Approfittatene subito. Salario sicuro. Pugili professionisti, tipo Jack Johnson; beoni,
vedi Carry Nation. Una volta raggiunto l’accordo, io pago tutte le spese di trasporto
all’interno del circuito. Scrivete o telegrafate. Il guardaroba dev’essere di prima classe.
Fred A. Barrasso, Proprietario e General Manager, 121 to 123 South Fourth Street,
Memphis, Tenn.

L’operazione prese corpo e non fu interrotta neanche dalla prematura


scomparsa di Barrasso, nel 1911. Il circuito rappresentò una enorme
conquista per l’azienda-spettacolo afroamericana: diede luoghi e condizioni
accettabili alle compagnie, e soprattutto – come hanno notato Abbott e
Seroff, autori di uno studio illuminante sui rapporti tra vaudeville e blues –
funzionò da terreno di coltura per l’affermazione del blues commerciale e la
sua diffusione.
Un ambiente particolare in cui il blues jest grew fu la rete, culturalmente
indipendente, dei teatri di varietà afroamericani, che iniziò a svilupparsi
inaspettatamente nel Sud e nel Midwest poco dopo l’inizio del secolo. Intorno al 1910 la
maggior parte delle comunità nere, in ogni città del Sud, aveva un piccolo teatro di
vaudeville. Non era niente di piú che intrattenimento commerciale fatto dai neri per un
pubblico di neri, ma una volta che questo contesto dinamico fu piú strutturato, il
palcoscenico fu pronto per accogliere una rivoluzione culturale. Questi piccoli teatri
costituirono la piattaforma principale per la formulazione concreta del blues popolare e
per la conseguente emersione dal suo rurale luogo di nascita nel Sud; si impose un tipo
di vaudeville culturalmente connotato, e il blues era uno dei componenti principali.

L’artista che piú di ogni altro legò il suo nome allo sviluppo (non certo
all’invenzione) del blues nell’ambito del vaudeville fu W. C. Handy,
rispettatissimo padre del blues, come egli stesso si autodefiní nel titolo della
sua autobiografia. Alle sue rimemorazioni dobbiamo alcune delle prime
visioni del blues all’opera, ma sono i brani da lui composti e pubblicati –
Memphis Blues, The Jogo Blues e soprattutto Saint Louis Blues – ad aver
creato la prima vera grande esposizione popolare per quei “frammenti” di
melodie blues, come amava chiamarli il compositore, attorno ai quali
costruí i suoi successi.
Nonostante, però, fosse stato uno dei primissimi testimoni di una
esecuzione blues, nel suo fortuito incontro con il musicista misterioso nella
stazioncina di Tutwiler, a pubblicare il primo blues a stampa fu –
naturalmente! – un italiano. Antonio Maggio, del quale si sa poco o nulla se
non che era un insegnante di musica a New Orleans, pubblicò il suo
strumentale I Got the Blues («Respectfully Dedicated to all those Who have
the Blues», recita il sottotitolo) nel 1908. Il brano in sé è un ragtime
piuttosto tipico dell’epoca; il blues è limitato a una strofa di introduzione di
dodici misure (in tonalità minore, peraltro), ma se musicalmente è lontano
dal blues, non lo è nello spirito: il titolo, e il sottotitolo, per la prima volta si
riferiscono alla condizione esistenziale dell’avere i blues. La stessa
introduzione riemergerà poi in un paio di brani di Handy, facendo nascere il
sospetto, in Paul Oliver, di un imprestito che i due autori fecero di una
melodia popolare. Il ricircolo di stralci melodici di provenienza folklorica
era evidentemente fatto consueto se si considera che Alabama Bound ha
avuto un percorso simile. Jelly Roll Morton sosteneva di averla scritta nel
1905, ma fu pubblicata quattro anni dopo a nome del musicista di New
Orleans Robert Hoffman. Abbott e Seroff ci ricordano come nel
frontespizio di quell’edizione si puntualizzasse che il brano era già
conosciuto col titolo di The Alabama Blues.
Il primo blues a stampa di W. C. Handy vide la luce nel 1912. Memphis
Blues non è esattamente un blues, quanto piuttosto un rag che lavora su una
progressione armonica simile a quella del blues. Nello stesso anno Hart
Wand pubblicò in proprio Dallas Blues, a dimostrazione che, da un lato,
l’espansione editoriale di spartiti e partiture ebbe favorevoli ricadute anche
sulla diffusione del blues; dall’altro, l’esistenza di spartiti favorí l’adozione
dei brani medesimi da parte di compagnie di vaudeville e artisti di giro.
L’importanza del vaudeville, soprattutto nella sua declinazione “sudista”,
non fu solo nel ruolo di spinta del mercato editoriale, che ancora si basava
esclusivamente su numeri di blues strumentali, anzi: una serie di eccezionali
performer, oggi totalmente dimenticati, calcarono le tavole dei palcoscenici
interpretando un sentimento popolare, di saldissimo legame con la
tradizione afroamericana, che molto assomigliava al blues.

Il movimento del vaudeville, nel Sud, fu una manifestazione di autodeterminazione


culturale ed economica. Si tenga conto della vulnerabilità dell’industria del nuovo
intrattenimento nero, prosperosa e visibile, nel Sud dell’America; le condizioni per gli
artisti afroamericani tendevano ad amplificare le occasioni di imprevedibilità ed
estemporaneità tipiche della vita quotidiana nel Sud. Era un movimento con una
importante componente intellettuale, e richiedeva azioni pensate e calcolate. Mai
nessuno affrontò questo aspetto del vaudeville piú esplicitamente di H. Franklin “Baby”
Seals, pianista, attore a tutto tondo e spalla, nonché compositore di quello che possiamo
considerare il primo pezzo di blues vocale pubblicato, Baby Seals Blues.

Pianista e intrattenitore, Baby Seals rinvigorí la scena del vaudeville in


virtú di una poliedrica attitudine allo spettacolo; nulla di ciò che passava tra
le sue mani poteva essere banale o approssimativo, risuonando di profonda
intelligenza e senso di appartenenza. Il suo fu un esempio molto imitato, e
dunque in grado di creare nuovi artisti capaci di misurarsi sullo stesso
terreno, ovvero il portare nella musica del vaudeville il blues, e le
manifestazioni del pensiero spettacolare afroamericano. Kid Love, la
pressoché sconosciuta Laura Smith, o l’eccezionale pianista Butler May, piú
noto con lo pseudonimo di String Beans, morto giovanissimo nel 1917,
riempirono i numeri dei loro spettacoli con espressioni e stili riferibili al
blues: non ancora quello formalizzato delle dodici battute (sarebbe arrivato
una decina d’anni dopo), quanto l’idea, il sentimento del blues dal quale
sarebbe derivato, e nell’ultimo capitolo vedremo come, lo stile quadrato e
codificato del cosiddetto classic blues. Basterebbe questa piccola galleria di
personaggi a individuare la caratura e l’importanza decisiva del vaudeville.
Come scrivono Abbott e Seroff:

Il fenomeno del varietà del Sud aveva recuperato molta della sua forza e vitalità dalla
gente comune; alcuni dei suoi esponenti piú autorevoli erano passati direttamente «dai
campi al palcoscenico». String Beans, Baby Seals, Johnnie Woods e Little Henry, Willie
e Lulu Too Sweet, Laura Smith – questi erano alcuni dei primi «diamanti blu nel fango»
che proliferavano intorno agli anonimi angoli di strada, nelle taverne, nei jukejoint, nei
depositi ferroviari, oltre che nelle baracche di campagna tipiche della letteratura blues.
Furono i padri e le madri del blues sui palcoscenici americani. Dalla strategica
piattaforma del vaudeville offrirono contributi fondamentali allo sviluppo della «grande
e nobile scuola di musica» americana. Il loro lavoro era pieno di originalità,
caratterizzato dall’autodeterminazione e dall’orgoglio della propria identità culturale
regionale, e fu sempre guidato dalle parole di Baby Seals, che il pubblico non si
stancava mai di ricordare loro: Oh cantali, cantali, cantali i blues, perché mi piacciono
davvero un sacco.

Prima che il blues diventasse il blues, e oggetto di attenzione mediatica e


commerciale, già circolava da anni grazie all’opera formidabile di un
manipolo di artisti lungimiranti, la cui influenza si sarebbe riverberata in
tutto il blues successivo. L’idea di un blues folkorico e in purezza, sembra
vogliano dirci Abbott e Seroff, è solo un’illusione. Nel Delta, però, la
pensano diversamente.
Capitolo quarto
Delta. Yellow Dog

L’incontro fortuito tra W. C. Handy e il misterioso e anonimo bluesman


nella stazione ferroviaria di Tutwiler, e quello ancor piú fortuito tra
l’archeologo Charley Peabody e gli operai improvvisatori di Clarksdale
hanno in comune un elemento fondamentale, forse decisivo: il Delta del
Mississippi. Che non è il delta vero e proprio del fiume, distante trecento
miglia, ma una regione alluvionale creatasi dall’incrocio tra due fiumi, il
Mississippi, appunto, e lo Yazoo. In questo fazzoletto di terra molti studiosi
– la maggior parte, per essere onesti – collocano la culla del blues, il luogo
in cui si sono cristallizzati tutti gli elementi stilistici e poetici confluiti in
seguito nel country blues.
Nessun luogo al mondo è uguale al Delta. Qui, tra la fine della Guerra
Civile e la Prima guerra mondiale vennero a crearsi condizioni economiche,
sociali e politiche talmente uniche da rendere la regione assai studiata da
storici, economisti e politologi. Qui, in quello stesso periodo, gli
afroamericani conobbero condizioni di vita disastrose, al limite dell’umana
sopravvivenza e sopportazione. Qui maturò un sistema, un atteggiamento,
una prassi esistenziale che permise loro di sopravvivere a difficoltà di ogni
tipo. Il blues, allora, altro non sarebbe che la sua traduzione musicale.

1. Un lungo tempo immobile.


Per provare a capire cosa è stato il Delta un secolo fa, si potrebbe
iniziare col capire cos’è il Delta oggi. Due rispettabili studiosi, Hall e
Wood, nei primi anni Novanta hanno deciso di ripercorrere il viaggio che
aveva portato Mark Twain lungo il Mississippi. Diversi i mezzi di
locomozione, i tempi e le circostanze. Sempre uguali, invece, certe
condizioni di vita e di sottosviluppo. Quando i due muovono verso il Delta
partendo dalla celeberrima Beale Street, la strada del blues a Memphis,
sulla leggendaria route 61 – una lingua d’asfalto lunga 2300 kilometri, da
Wyoming, Minnesota, a New Orleans – quello che si presenta ai loro occhi
sembra una ingiallita foto in bianco e nero.

La prima contea che si incontra, appena usciti da Memphis, è anche la piú povera
dello stato, e probabilmente la piú povera contea d’America. Oggi Tunica può vantare il
piú basso reddito pro capite della nazione.

Povertà, ma non solo: segregazione, scuole per bianchi e neri, come


fossero scheletri di un fossile rinvenuto per errore, o l’ultimo guizzo
dell’incubo prima dell’alba. Invece no. Ancora oggi il Delta rappresenta un
luogo ritagliato, dove da quasi duecento anni persistono strutture mentali e
di controllo immutate. Feroci disuguaglianze sociali, e razziali, povertà,
bassa scolarizzazione. La differenza sta nel cotone: per anni la sua
miracolosa raccolta ha salvato le apparenze; quando però il mercato si è
rivolto altrove, sono emersi i problemi, annosi e mai risolti, di una terra
inconsolabile.

Il Delta del Mississippi è considerato oggi come forse la terra piú depressa
d’America. Sta morendo sotto gli occhi di tutti. Città dopo città il reddito pro capite è
sceso a tal punto che lo stato e gli ufficiali federali provano imbarazzo nel rendere note
le cifre.

In questa terra di feroci contraddizioni, cotone, linciaggi e magiche


suggestioni sono nati molti tra i piú grandi interpreti del blues prebellico:
Charley Patton, Robert Johnson, Son House, Skip James, Tommy Johnson,
Ishmon Bracey, Bukka White, Mississippi John Hurt e molti altri. Difficile
pensare che sia stato solo un caso, o uno scherzo del destino.

2. Storia e geografia.
L’alveo del fiume Mississippi forma il confine occidentale di ciò che
comunemente viene chiamata la piana alluvionale creatasi alla confluenza
dei fiumi Yazoo e dello stesso Mississippi. Il confine orientale è costituito
da una serie di basse collinette che inizia poco dopo Memphis e corre fino a
Greenwood. All’interno dei confini si estende un’area lunga duecento
miglia e larga settanta. Queste settemila miglia quadrate di piana
alluvionale sono quasi completamente piatte. Ed erano molto selvagge,
come ricorda William Faulkner nel suo Big Woods.
Dal punto di vista geomorfico, il Delta è il risultato di secoli di alluvioni
e dei relativi depositi dal fiume Mississippi. È sempre stata una terra di forti
contrasti: povertà devastante e grande ricchezza dei proprietari terrieri;
inevitabili le tensioni e uno stato di costante apprensione, quasi di allarme.
Secondo Cobb, quella terra aveva troppo di tutto: c’era troppo sole, terra
fertilissima, vegetazione, e pioggia, per tenere l’elenco breve. Quando la
Guerra Civile terminò, nel 1865, la terra era ancora selvaggia; soltanto il
dieci per cento era stato bonificato per l’agricoltura, mentre il restante
territorio era ancora allo stato brado. Sebbene la schiavitú fosse stata abolita
ufficialmente con la firma della Proclamazione di Emancipazione nel 1863,
i bianchi mantennero un forte controllo sugli afroamericani: fisicamente, e
grazie ai codici legislativi di stampo segregazionista.
La coltivazione del cotone divenne presto la principale fonte di
ricchezza; le piantagioni funzionavano come piccole comunità e ciò rese il
Delta la regione piú produttiva dello stato. Leggi severissime rinforzarono il
sistema della mezzadria e ai fittavoli fu proibito di recedere dai contratti.
Pochi afroamericani poterono sfuggire a questa spirale di povertà.
La conformazione naturale del territorio e i forti interessi economici
legati alle risorse produttive generarono un sistema di sfruttamento della
manodopera assai rigido, secondo un modello diffuso, come rileva Saikku:

I fattori che contribuirono al successo dell’utilizzazione delle risorse naturali del


Delta non sono unici nella storia del Mississippi, del Sud o dell’America: lo
sfruttamento di popolazioni svantaggiate e dell’ambiente naturale all’interno di una
cultura globalizzante volta alla continua crescita economica è un tema ricorrente nella
storia moderna.

La trasformazione del Delta dall’Indipendenza ai primi del Novecento fu


caratterizzata non soltanto dall’incremento nell’uso delle risorse agricole,
faunistiche, forestali quanto piuttosto dalle trasformazioni sociali, come
quella che portò dalla schiavitú alla mezzadria.
Dal punto di vista ambientale e culturale, il Delta visse cambiamenti
robusti già dalla Guerra Civile. Gli anni tra il 1865 e 1930 videro la
rimodulazione del terreno da foresta sottosviluppata a nuovo regno del
cotone. Secondo Litwack, agli inizi del XX secolo le condizioni di vita degli
afroamericani peggiorarono sensibilmente: aggrediti fisicamente e
minacciati dalle leggi, per loro non sembrava esserci via di scampo.
Nel 1860, la popolazione delle cinque contee confinanti con il fiume
Mississippi – Tunica, Coahoma, Bolivar, Washington e Issaquena – contava
44 953 abitanti. Di questi, l’ottantotto per cento era di pelle nera. Questi ex
schiavi – nonostante le differenze di ceto sociale, economico, la mancanza
di qualsiasi forma di scolarizzazione e le forme spesso aberranti di razzismo
e discriminazione di cui erano oggetto dopo la Guerra Civile – si trovarono
a possedere piú di 15 milioni di acri di terra, divisi in piccoli appezzamenti
grandi, in media, tra i dieci e i venti acri. Ma era un possesso solo
apparente. Nella stragrande maggioranza erano fittavoli, e il sistema della
mezzadria poggiava esclusivamente sull’idea di sfruttamento del loro
lavoro, tanto che li dissuase dallo sviluppare tecniche di coltivazione e
raccolta piú produttive.
Bukka White raccontò la sua esperienza in un’intervista. Era cosí
nervoso nel viaggiare attraverso il Delta e impaurito dalla prospettiva di
essere chiuso da qualche parte e costretto a lavorare nei campi da avere
bisogno di un generoso bicchiere di whiskey per calmare i nervi. Nella
stessa intervista, White afferma che il blues ebbe inizio andando dietro a un
mulo. Camminare appresso al suo mulo gli dava buone sensazioni, talmente
buone da dimenticare di essere in un luogo e in una situazione che gli
facevano battere i denti.

3. La seconda schiavitú.
Dopo la schiavitú molti afroamericani, appena liberati, scelsero di
lavorare per una parte del raccolto, piuttosto che in cambio di una normale
paga per il lavoro svolto, poiché vedevano questa soluzione come un
passaggio obbligato verso l’indipendenza economica e la possibilità di
possedere le terre. I proprietari terrieri invece ritennero che questo potesse
essere un buon sistema per avere le terre bonificate e finalmente coltivabili.
Il termine sharecropping, che traduciamo con mezzadria, si riferisce al
lavoro di un pezzo di terra in cambio di una parte del ricavato ottenuto dal
proprietario terriero quando vende i prodotti raccolti dal mezzadro.
La Guerra Civile segnò di fatto la fine della schiavitú negli Stati Uniti e
pose i proprietari terrieri del Sud in un vicolo cieco. Come si sarebbe potuto
continuare a lavorare il cotone senza schiavi? Alla fine della guerra
l’economia nel Sud era talmente decimata che molti proprietari di
piantagioni non avevano risorse per comprare semi e fertilizzanti, quindi
tanto meno per assumere forza lavoro nuova. Allo stesso tempo, gli schiavi
liberati non avevano lavoro, né posti dove andare, e provavano a
sopravvivere coltivando minuscoli pezzetti di terra nella speranza che
producessero cibo sufficiente.
Era evidente che le due necessità si sarebbero incrociate. I possidenti
bianchi ipotecarono le loro proprietà o convinsero le banche locali a
concedere loro prestiti agevolati per comprare tutto quello che occorreva
per riprendere la coltivazione. Gli ex schiavi, quindi, accettarono di restare
nelle piantagioni, di piantare e raccogliere il cotone in cambio di metà del
suo valore.
Il problema, con il sistema dello sharecropping, era che essendo gli stessi
proprietari delle piantagioni a vendere a credito semi, fertilizzanti, cibo e
attrezzi ai loro fittavoli, potevano imporre ricarichi o sovrapprezzi
ingiustificati, o interessi astronomici sui pagamenti rateali. Qualche
possidente si comportava correttamente, ma la maggior parte sfruttava
talmente la situazione che alla fine della vendita dei raccolti al mezzadro
non solo spesso non rimaneva nulla, ma si trovava ancora in debito col
padrone.
Il sistema delle piantagioni, nato su basi cooperative, si trasformò ben
presto in un moderno feudalesimo. Le piantagioni piú estese stampavano
valuta propria e coniavano monete che i mezzadri avrebbero potuto
spendere nel negozio della piantagione, dove – naturalmente – i prezzi
erano ingiustificatamente alti. La moneta della piantagione veniva accettata
di solito nella città piú vicina, ma non aveva validità da nessun’altra parte.
Questo spiega come mai molti afroamericani restarono intrappolati nelle
piantagioni per molto tempo dopo la fine della schiavitú. A rendere tutto piú
oppressivo e intollerabile, i padroni assumevano sorveglianti bianchi
affinché le regole rigide venissero rispettate e i mezzadri fossero spinti a
lavorare il piú duramente possibile per mezzo di minacce e punizioni
corporali.
Nonostante la fertilità e le grandi opportunità di lavoro per tutti, gli
afroamericani riuscirono a realizzare una crescita economica prossima allo
zero. Nei primi anni del XX secolo, la discriminazione montante, i linciaggi
e i comportamenti brutali divennero all’ordine del giorno: servivano,
naturalmente, a mantenere una distanza, a ristabilire costantemente il tipo di
relazione schiavistica. I bianchi provavano a mantenere il sistema di vita del
Delta, che dipendeva dalla prosperità economica della razza dominante
ottenuta mediante il lavoro della popolazione dell’altra razza.

Molto è cambiato e molto è stato perso. Nei primi decenni successivi alla
emancipazione, una generazione di ex schiavi cercò e in parte raggiunse una
indipendenza economica nel Delta, e i bianchi permisero e qualche volta favorirono
questa evoluzione. Le due generazioni successive si imbatterono in prospettive ben
differenti. In seguito all’attacco sferrato dalla conclamata supremazia dei bianchi, tra il
1890 e il 1920 furono demoliti i diritti politici degli afromericani, venne attaccata la loro
fragile indipendenza economica, e il linciaggio divenne il loro solo incubo. Il Delta tra il
Mississippi e lo Yazoo, dal 1865 al 1920; una regione tumultuosa, due distinte – quasi
contrarie – epoche, e innumerevoli uomini e donne per i quali il cambiamento era la piú
chiara certezza. Affermando l’intensità delle loro speranze, comprendiamo la profondità
del loro disappunto e riportiamo alla memoria queste vite che giacciono in tempi ormai
dimenticati.

4. Alla fonte del blues.


L’economia basata sulla piantagione, nel dopoguerra, dimostrò di essere
un potente baluardo contro l’ascesa politica dei neri liberati e dei loro alleati
repubblicani durante la Ricostruzione. La Ricostruzione, all’indomani della
quale, con l’aumento improvviso di linciaggi e violenze, l’imposizione delle
leggi Jim Crow, che restauravano una segregazione assoluta, e la privazione
del diritto di voto ai maschi di colore, gli afroamericani nel Sud furono di
nuovo relegati in uno stato di inferiorità politica e legale. Il vecchio ordine
sociale preindustriale impose di nuovo la sua antiquata egemonia sulle
relazioni razziali, col risultato che l’economia del Sud crollò velocemente.
La fedeltà al modello della mezzadria inibí la ricerca di sistemi per
aumentare la produttività, piú nuovi sistemi di agricoltura commerciale, e di
diversificazione agricola cosí come di industrializzazione. Nel 1900 il
reddito pro capite nel sud era il 51 per cento della media nazionale.
Naturalmente, la popolazione di colore che viveva nelle piantagioni era il
gruppo sociale piú povero dell’intera regione.
Nel 1890 – quando, cioè, potrebbe essere nata quella musica cui, oggi,
diamo il nome di blues – un afroamericano su dieci viveva in Mississippi.
Approssimativamente, il 60 per cento della popolazione del Mississippi era
afroamericana (743 000 su un totale di 1 300 000 residenti). Nel 1910,
tranne la contea di Quitman, ferma al 76,5 per cento, in tutte le altre la
popolazione afroamericana superava l’80 per cento della popolazione totale.
Inoltre, la popolazione di colore aumentò del 50 per cento tra il 1900 e il
1930. I neri si spingevano nel Mississippi per l’espansione produttiva, lo
sfacelo delle altre regioni nel Sud e per sfuggire alle operazioni di pulizia
etnica promosse in altre parti dello stato dagli uomini incappucciati del Ku
Klux Klan.
Il Delta fu progressivamente un rifugio e una prigione per gli
afroamericani. La monopolizzazione della terra e del capitale fu
accompagnata da leggi sempre piú restrittive in merito alla mobilità e al
debito. Senza diritto di voto, erano completamente tagliati fuori dalla
politica locale e statale. In ogni occasione l’organizzazione produttiva e
statale distrusse ciò che rimaneva della loro autonomia, e provò a estrarre
da loro ancora piú lavoro per ancora meno compenso.
Nelle piantagioni gli afroamericani vivevano in minuscole baracche che
spesso non venivano riparate per anni. Famiglie numerose, con anche
quindici membri, erano costrette a vivere in una o due stanze. Non c’era
tubazione interna e il riscaldamento veniva ottenuto tramite legna e stufe a
carbone. Talvolta i vestiti erano ricavati dai sacchi per la farina o il
mangime. L’alimentazione, quando possibile, veniva arricchita con verdure
e latte, altrimenti, a causa delle norme restrittive che impedivano di
coltivare un orto o un giardino, si poteva contare solo sul cibo di bassa
qualità, scarsamente nutritivo e venduto a peso d’oro nel negozio della
piantagione: maiale salato, fagioli e piselli in scatola, grano e lardo. Morti
infantili, pellagra e rachitismo erano le conseguenze diffuse di un simile
regime.
Il bluesman Willie Foster cosí descrisse la sua nascita vicino Leland, nel
1922:

Non c’erano ospedali per i neri. Dovevi restare malato. Quando si stava per partorire
un bambino, si doveva urlare in strada: «Dite alla Signora Tale dei Tali di venire qui»…
mia madre stava raccogliendo il cotone a circa 500 piedi da casa quando ebbe le doglie.
Ecco dove sono nato, su quel sacco di cotone.

Il periodo fu inoltre caratterizzato da analfabetismo e nessuna possibilità


educativa. Nel 1880 la percentuale di analfabeti tra gli afroamericani era del
75 per cento, contro il 17 dei bianchi. Nel 1890 le scuole per bianchi
avevano un maestro ogni 53 alunni, mentre la quota raddoppiava nelle
scuole per neri. Visto l’alto numero di ragazzini impiegati nel lavoro nei
campi, le scuole per neri restavano chiuse durante il periodo del raccolto, da
ottobre a dicembre, e a febbraio spesso venivano chiuse ancora per la
preparazione della semina. La mancanza di scolarizzazione fu una delle
cause che portò alla grande emigrazione verso nord.
I neri conobbero una feroce segregazione anche nei centri urbani. Il
lavoro era rigidamente diviso secondo un criterio razziale, e perciò alle
persone di colore spettavano le mansioni piú umili o faticose.
Ecco perché, forse, il blues è nato nel Delta. Come sostiene Clyde
Woods:

Al suo livello piú profondo, il blues fu l’espressione della nascita di una cultura
afroamericana completamente consapevole del proprio spazio e tempo, e, soprattutto,
pienamente indigena. Nonostante molti afroamericani si spostarono a Nord, a Ovest e
addirittura in Africa, il Sud fu lo spazio di origine e l’unico luogo dove questa nuova
cultura poteva essere celebrata ogni giorno attraverso una vasta gamma di interazioni
con la natura, animali, ed esseri umani. Perciò il blues è stata la musica di argini, boschi,
campi, strade, prigioni, case e, inoltre, dei jukejoints, house parties, picnic e altri spazi e
funzioni non censurate in cui gli afroamericani esplorarono i parametri del ritmo
collettivo, danze, suono, spiritualità, libertà di parola e pensiero, e di innovazione.

5. Finché c’è danza c’è speranza.


Where there is dancing there is hope. Cosí recita un cartello in un
jukejoint di Clarksdale. Difficile definire cosa sia esattamente un jukejoint,
addirittura impossibile tradurre il termine in italiano. Resta il fatto che in
questi spazi, a metà tra un bar, una sala da ballo, un posto per mangiare cibi
veloci, fumare una sigaretta, bere liquore di qualità variabile, parlare senza
nessuno a metterti fretta, il blues abbia trovato un ideale brodo di coltura.
Per avvicinarsi alla vera natura di un jukejoint, tuttavia, bisogna calarsi
nella realtà segregazionista di inizio XX secolo, quando la dissoluzione della
Ricostruzione, nel Mississippi, durante i trenta anni precedenti, provocò lo
sviluppo di una rete di piccole città, che spesso nascevano attorno alle
fermate della rete ferroviaria in corrispondenza delle piantagioni. Cittadine
rurali che venivano letteralmente costruite sui principî della segregazione
razziale; questo, però, non portò alla creazione di spazi ben definiti, dal
punto di vista della razza, quanto piuttosto alla definizione di un duplice
paesaggio: uno, quello ufficiale, monitorato costantemente dalla cultura
bianca dominante, l’altro, piú nascosto e occultato, nato dall’opposizione
degli afroamericani, dalla loro sfida per ritagliarsi luoghi, spesso nascosti e
anonimi, entro i quali potersi difendere dalle quotidiane violenze e dagli
attacchi ingiustificati. Jennifer Nardone ha dedicato all’argomento un
saggio illuminante, permettendoci di comprendere un passaggio decisivo
per l’evoluzione delle dodici battute nelle complesse decisioni
architettoniche degli afroamericani. Scrive la studiosa:

Gli afroamericani svilupparono un sistema di comunicazione e movimento all’interno


dell’ambiente architettonico senza mai o quasi mai essere rilevati da parte della sempre
presente autorità bianca. Il ruolo della musica, soprattutto del blues, nella comunità nera
durante questo periodo, è un esempio chiave di come i neri rinegoziassero e
indebolissero costantemente la segregazione in ambito culturale. I jukejoint possono
essere considerati la manifestazione spaziale della cultura blues, e sono ancora oggi un
luogo significativo nella comunità afroamericana. Il Delta rimane un paesaggio
discriminato, a dispetto dell’abolizione ufficiale della segregazione; a loro volta, i
jukejoint continuano oggi a funzionare secondo i principî assimilati durante il periodo
della segregazione sancito dalle leggi Jim Crow.
Il jukejoint, allora, assume le sembianze di quello che Marc Augé
definirebbe un luogo antropologico: un luogo, cioè, occupato dagli indigeni
che lo vivono, lo occupano, che ha natura identitaria, di relazione («I luoghi
antropologici creano un sociale organico, sono la sede e la rappresentazione
materiale delle relazioni tra gli individui che li abitano e appartiene alla
storia di quella gente») e storica. Ma i jukejoint si oppongono alla
definizione augeana in un particolare: laddove l’antropologo francese indica
come caratteristica essenziale l’intelligibilità del luogo per chi lo osserva, il
jukejoint si nega allo sguardo, o meglio: esiste soltanto per gli occhi
dell’afroamericano. Agli occhi dei bianchi non c’è comprensione o
intelligibilità, perché i jukejoint non sono strutture permanenti, ma nascono
e abitano edifici originariamente pensati e dedicati ad altre funzioni. Figli
dell’etica segregazionista, e della paura per i continui attacchi fisici da parte
dei bianchi, questi spazi non hanno nulla in comune gli uni con gli altri, se
non il rituale sociale che in essi si celebra ogni sera. E non hanno nessuna
insegna, o cartello, o segnale. Inintelligibili, dal di fuori, come fossero spazi
normali e anonimi, quasi aluoghi impenetrabili.
La segregazione, secondo la precisa ricostruzione di Leon Litwack, non
era una novità, per gli afroamericani all’inizio del XX secolo; nuova era la
sua formalizzazione, la segnaletica ufficiale a indicare – per la prima volta
anche visivamente – la separazione fisica di luoghi, funzioni e
comportamenti, a codificare antiche e insuperabili differenze razziali. Ma,
ammonisce la Nardone, se considerassimo soltanto gli aspetti legati alla
forma di anonimato e all’intimità difesa da sguardi indiscreti come un
dispositivo per proteggere o nascondere attività ritenute illegali dai bianchi
perderemmo il senso piú profondo.

Sono edifici complessi, non perché offrano agli storici un nuovo esempio di
architettura afroamericana, ma in quanto simboli di una storia chiave nell’evoluzione del
paesaggio culturale del Delta del Mississippi […] La segregazione ha lasciato un
paesaggio fisicamente discriminato nel Delta, un luogo in cui la popolazione
costantemente deve rinegoziare la definizione dei propri spazi. I jukejoint sono uno
degli spazi in cui la negoziazione avviene sia in maniera tangibile che invisibile.
L’elemento piú importante di ciascun jukejoint è la condivisione di esperienze e il senso
di appartenenza al gruppo. Sono spazi di interazione tra persone, persone e spazi, spazi e
musica, musica e ballo, pubblico e privato, individuale e comunitario, spostando e
confondendo continuamente le linee di confine tra il tangibile e l’effimero.

Per quella generazione di afroamericani del Sud, affacciatisi al nuovo


secolo con qualche tiepida speranza e ricacciati nell’incubo e nel terrore con
sempre piú spavalda e crudele ferocia, il blues fu la forma di espressione
folklorica piú adatta a regolare la propria presenza nel mondo, e i jukejoint i
luoghi in cui, per la maggior parte, la musica e la cultura del blues poterono
svilupparsi e diffondersi.
Capitolo quinto
New Orleans. De Raal Bloos

Segni e tracce di blues, persi tra memorie di musicisti impazziti, atroci


disordini razziali, un celeberrimo quartiere a luci rosse, balli di schiavi
africani in piazza, e musica dappertutto. New Orleans è stata città uguale
solo a se stessa, e per le condizioni peculiari in cui crebbe e solidificò la sua
formidabile natura cosmopolita e multiculturale, non poté non essere la
culla del jazz, il luogo in cui – come raccontano gli storici – dal 1894 un
geniale musicista, Buddy Bolden, accese la miccia ibridando ragtime e
blues, infiammando la fantasia ed eccitando i sensi degli ascoltatori con una
miscela esplosiva di sensualità e frenesia. Un miscuglio irresistibile, nel
quale risuonavano la musica africana, i canti degli schiavi, le arie d’opera, i
balli francesi, i ritmi sincopati spagnoli, le grida dei venditori italiani: voci e
suoni di mille culture, tradotti e assemblati in un nuovo linguaggio,
vigoroso e vitale.
Torniamo indietro di poche righe. Se Bolden inventò il jazz mescolando
il blues al ragtime vuol dire che a New Orleans il blues lo si suonava
abitualmente, e prima che nascesse il jazz. Quindi ben prima degli incroci
fortuiti di Handy e Peabody. Che Bolden abbia inventato il jazz è notizia
incerta; c’è un altro musicista che per tutta la vita ne rivendicò la paternità:
si chiamava Jelly Roll Morton, e nel 1938 fu protagonista di una furibonda
querelle con W. C. Handy su chi avesse inventato cosa.
Che il senso del blues, tuttavia, aleggiasse a New Orleans prima del XX
secolo, è testimoniato da decine di musicisti e storici. Anche dal quotidiano
locale, il «New Orleans Times-Picayune», sul quale, nel 1839, si poteva
leggere questo dialogo romanzato, in odor di minstrel:

SAM JONSING : I feels bad – I’se got what de white folks calls de bloos, and de wos sort
at dat, dat’s what I has…
PETE GUMBO : De what you call ’em, Sam?
SAM JONSING : De bloos – the raal indigo bloos 4.

1. Jelly Roll Blues.


Fino alla fine dei suoi giorni Ferd Morton, in arte Jelly Roll, combatté
dure e sfiancanti battaglie: contro gli editori musicali, colpevoli, a suo dire,
di avergli sottratto milioni di dollari in diritti d’autore; contro i suoi
colleghi, ostinati nel non voler riconoscere che lui, Jelly Roll Morton, fosse
«The Originator of Jazz and Stomps», come recitavano i suoi biglietti da
visita; contro una salute già da tempo precaria, che non gli lasciava neanche
la forza per respirare e sedere al pianoforte. Contro gli spiriti maligni del
voodoo, che gli avevano rovinato la vita.
Personaggio romanzesco per eccellenza, Ferdinand Joseph Lamothe (o
Lemott, come si legge sul suo certificato di nascita) costellò la sua esistenza
di formidabili avventure e musica celestiale. Che abbia inventato il jazz, in
fondo, è solo un dettaglio, ma il suo contributo allo sviluppo e alla
diffusione della musica afroamericana è ormai incontrovertibile e assodato.
Nel 1938, all’epoca degli avvenimenti che andiamo a raccontare, il
musicista di New Orleans stava provando a tornare a galla, mentre gestiva
un localaccio, mezzo fast food, mezzo nightclub, a Washington. Per
rilassarsi dopo una giornata di lavoro, Morton era solito ascoltare la
trasmissione radiofonica di Robert Ripley, Believe It Or Not. Ripley era un
bizzarro personaggio, metà disegnatore, metà divulgatore, instancabile
viaggiatore ed esploratore, capace di creare un impero finanziario grazie
alle sue tavole, che raccontavano strani fatti e situazioni raccolte e osservate
in giro per il mondo. Per intenderci, una specie ante litteram di Forse non
tutti sanno che, la rubrica della «Settimana Enigmistica». Per far fronte alle
numerose richieste, aveva costituito un gruppo di disegnatori (tra questi, il
dodicenne Charles M. Schulz, creatore, qualche anno dopo, dei Peanuts), ai
quali affidare il lavoro materiale: mentre i quotidiani si contendevano le sue
tavole, infatti, e gli editori i suoi libri di disegni e avventure, nel 1930
Ripley inaugurò la sua trasmissione radiofonica, la cui ultima puntata andò
in onda nel 1948. Strano personaggio, aveva, al pari di Morton, una certa
ritrosia a fornire elementi veritieri sulla sua vita: data e luogo di nascita,
curriculum scolastico, trascorsi sportivi furono ammantati da un alone
leggendario, cosí come i suoi infiniti viaggi, anche in terre di fatto non
esistenti.
La sera del 26 marzo 1938, come d’abitudine, Jelly Roll Morton si
accomodò in poltrona, e accese la radio per ascoltare Believe It Or Not.
L’argomento della puntata era la musica, ma quanto udí era davvero troppo.
Ripley, presentando il suo ospite in studio, W. C. Handy, lo introdusse come
l’inventore del blues, del jazz e dello stomp.
Per Morton fu un colpo durissimo. La sua rabbia montò improvvisa,
insieme alla delusione e allo sconcerto per quelle parole, secondo lui,
palesemente fasulle e offensive: Jelly Roll aveva inventato il jazz, non certo
W. C. Handy, né, a sua memoria, Handy aveva inventato il blues. Decise
immediatamente il da farsi: avrebbe scritto una lettera a Ripley, inviata per
conoscenza ai piú importanti organi di stampa, al fine di ristabilire la verità,
la sua verità. Per cinque lunghi giorni arrancò sui tasti della macchina per
scrivere, cercando di dare ordine e senso al fiume di parole che gli scorreva
lungo le dita. Il 31 marzo imbucò tre copie della lettera: una per Ripley, una
per il quotidiano «The Baltimore Afro-American» e una per «Down Beat»,
già allora la piú importante rivista di jazz in circolazione. Il 23 aprile il
giornale di Baltimora ne pubblicò un sunto, sotto l’eloquente titolo: Handy
non è il padre del blues, sostiene Jelly Roll. Down Beat, invece, riportò la
lettera per intero, in due numeri consecutivi (agosto e settembre); la prima
puntata veniva annunciata in copertina col titolo: Handy è un bugiardo!
dice Jelly Roll. In realtà, Morton non usò mai il termine bugiardo, ma, oggi
come allora, forzare la mano per aumentare le vendite era prassi
consolidata.
Di cosa, esattamente, si lamentava Jelly Roll? In buona sostanza, la sua
lunga lettera puntava a rendere evidente che lui, e non W. C. Handy, aveva
inventato il jazz nell’anno 1902, e lo stomp qualche tempo dopo. A onor del
vero, Handy non aveva mai accampato l’invenzione del jazz, ma fu Ripley
ad attribuirgliela. Per sostanziare le sue dichiarazioni, il pianista elencò una
serie impressionante di date, fatti, nomi e circostanze attraverso le quali
provava a smontare ciò che Handy aveva, evidentemente, detto nel corso
della trasmissione. Inoltre, avendo avuto esperienza del blues sin da
piccolo, Morton ritenne suo dovere di musicista e, in un modo tutto suo,
studioso, ricostruire una ferrea cronologia del blues, nella quale,
ovviamente, Handy non compare se non come utilizzatore finale di melodie
preesistenti. Ecco qualche passaggio dell’accorata perorazione di Jelly Roll.

Il termine blues era noto a tutti. Ad esempio, quando avevo otto o nove anni ascoltai
blues intitolati Alice Fields, Isn’t It Hard To Love, Make Me A Palate On The Floor,
quest’ultimo lo suonavo alla chitarra […] Mr. Handy non può assolutamente provare di
aver inventato le musiche di cui si spaccia inventore. Egli, probabilmente, sfruttò la
possibilità di depositare materiale non protetto che, a volte, girava nei repertori delle
orchestre. Mi piacerebbe sapere come può una persona essere l’inventore di qualcosa
senza essere in grado di fare ciò che egli stesso ha creato.
[…] L’unica conoscenza che oggi una persona può rivendicare è quella che la storia
gli conferisce. Questo signore, senza dubbio, mostra solo avidità per una reputazione
che non merita. E che ottiene attraverso la violazione della proprietà di qualcun altro
che, si dà il caso, sia il sottoscritto. Per informazione di tutti, contatterò alcuni grandi
musicisti attivi all’inizio del secolo, John Robicheaux, Manuel Perez, Armand Piron, e
chiederò loro per quanto tempo hanno suonato il blues prima ancora di sentire nominare
Handy, per non parlare di composizioni a suo nome. Happy Galloways suonava blues
quando ero un ragazzino. Peyton, e la sua orchestra di fisarmoniche, l’orchestra di Tick
Chambers, Bob Frank e la sua piccola orchestra. Tutti suonavano blues. In seguito,
arrivò Buddy Bolden, il primo grande, e potentissimo, cornettista […] Quest’uomo
scrisse anche un blues che ebbe una vita molto lunga.

La posizione di Morton è piuttosto chiara. Come può Handy spacciarsi


per essere l’inventore del blues quando i blues venivano suonati a New
Orleans da molto prima che la figura del compositore di Memphis apparisse
sulla scena? Secondo il pianista – e, vedremo, anche secondo molti altri
testimoni – New Orleans pullulava di blues ben prima dell’inizio del secolo.
Jelly Roll, nonostante la data non sia certissima, era nato il 20 ottobre 1890;
quando dice di aver ascoltato il blues da ragazzino colloca l’avvenimento in
un lasso di tempo ampiamente dentro l’ultimo decennio del 1800.
L’apparizione di Bolden sulla scena musicale è situabile intorno al 1894:
quasi dieci anni prima degli avvistamenti di Peabody e Handy.

La prego, non mi fraintenda. Non sto rivendicando l’invenzione del blues, sebbene ne
avessi scritti molti prima che Mr Handy riuscisse a pubblicarne uno. Ho sempre sentito
suonare blues, da quando ero un ragazzino. Ad esempio, quando iniziai ad andare a
scuola, avevo il permesso di far visita a certi miei parenti che abitavano nel Garden
District. In quelle occasioni ho ascoltato molti di questi musicisti, che non sapevano
suonare altro che il blues – Buddie Canter, Josky Adams, Game Kid, Frank Richards,
Sam Henry e molti altri troppo numerosi da citare.

Li avrebbe citati, come vedremo, qualche mese dopo. Nel frattempo, il 7


maggio il «Washington Post» pubblicava la lettera di un anonimo lettore,
secondo cui Handy non poteva fregiarsi del titolo di padre del blues visto
che a New Orleans i blues «erano conosciuti, suonati e cantati» anni e anni
prima della pubblicazione di Memphis Blues. Per irrobustire la sua tesi,
l’anonimo indicava Mellows, un libro di Robert Emmet Kennedy, musicista
e studioso di New Orleans, in cui vengono trascritte canzoni afroamericane:
tra queste un blues intitolato Honey Baby. Sull’identità dell’estensore non
sembrano esserci piú dubbi: Roy Carew era un amico di Jelly Roll, forse
l’unico che il pianista avesse mai avuto; musicista dilettante, contribuí
grandemente, grazie ai suoi ricordi, alla ricostruzione di alcuni periodi della
storia del jazz a New Orleans.
Attaccato su piú fronti, Handy non fece attendere la sua violenta replica,
sotto forma di lettera scritta il 5 agosto e pubblicata sul «Down Beat» di
settembre. Se non lo conoscessi, dice Handy, penserei che Morton sia
pazzo, prima di ribattere punto per punto alle accuse del pianista. Il
passaggio piú importante della controffensiva è questo:

Ho avuto l’opportunità di ascoltare cosa suonassero i Negri in ogni città e villaggio


del Sud, e grazie alla mia conoscenza della musica Negra e alla mia eccezionale abilità
nel trascriverne gli elementi peculiari, ho creato un nuovo stile musicale che oggi
conosciamo col nome di “Blues”.

Senza mezzi termini, e senza le cautele che avrebbero caratterizzato la


sua autobiografia, Handy dichiarò a chiare lettere che il genere musicale
conosciuto come blues era una sua invenzione. Piuttosto forte, come
affermazione.
Nel frattempo, Jelly Roll Morton aveva iniziato quella che sarebbe stata
– paradossalmente – l’opera piú importante della sua vita. Alan Lomax,
giovane ed entusiasta ricercatore (ne parleremo piú diffusamente nel
capitolo X ) decise di registrare una lunga intervista al già malato pianista,
che sarebbe stata custodita, come documento di ricerca sul campo,
nell’American Folk Song Archive della Biblioteca del Congresso di
Washington, diretto dallo stesso Lomax. In sostanza, queste registrazioni
non erano destinate alla pubblicazione, ma solo alla consultazione. Tra il 23
maggio e il 14 dicembre di quell’anno, Jelly Roll si recò per tre volte nel
Coolidge Auditorium della Library of Congress, dove suonò, parlò e
raccontò la sua versione della storia del jazz riempiendo otto ore di nastri.
Lomax faceva domande, indirizzava la conversazione, provava a far luce
sugli aspetti che piú lo interessavano, mentre Morton snocciolava fatti,
nomi, circostanze, decine e decine di brani, dimostrazioni del suo stile,
ricordi dello stile di molti altri pianisti. Una performance irresistibile in un
teatro vuoto e destinata agli archivi polverosi della biblioteca. È, questo, un
aspetto che non può essere sottovalutato; Morton sapeva perfettamente che
nulla di ciò che stava consegnando alle matrici (registrate con un primitivo
Pronto Disk Recorder) sarebbe stato destinato alla vendita o alla libera
circolazione. Da straordinario performer, aveva bisogno del pubblico per
dare il meglio di sé; ma lí il pubblico non c’era; per Morton era forse
l’occasione, presentendo imminente la fine (sarebbe morto tre anni dopo) di
abbandonare gli abiti di scena, quelli del perfetto entertainer in qualsiasi
circostanza e occasione (dai bordelli di Storyville al vaudeville con
Kersand), e vestire quelli di un uomo che ricorda e racconta, piú a se stesso
che all’intervistatore, riabitando mondi e rivedendo persone che non
avrebbe mai piú rivisto. E dunque, perché mentire?

2. Il blues, da ragazzino.
Per tutta la sua vita, Morton fu considerato un inguaribile bugiardo, un
mentitore patologico; un cialtrone, un buffone. L’essersi attribuito la
paternità del jazz gli aveva alienato amicizie, procurato ostilità. I piú non lo
consideravano neanche, quelli bendisposti pensavano fosse un bizzarro
megalomane, da ascoltare con una punta di commiserazione. Lui stesso,
avvolgendo la sua vita in un’aneddotica da feuilleton, contribuí a rendere
piú denso e impenetrabile il confine tra verità e fandonia. Eppure, non tutto
è cosí come sembra. Da anni, infatti, molti studiosi – e addirittura un paio di
giornalisti vincitori di Pulitzer – hanno provato a verificare se davvero
Morton fosse un bugiardo patentato, o se ciò che raccontava corrispondesse,
almeno un po’, a verità. Lawrence Gushee, uno dei piú prestigiosi studiosi
di jazz delle origini, cosí affronta il problema in un suo celebre saggio:

Le registrazioni per la Biblioteca del Congresso sono sempre state considerate come
un insieme non verificabile o analizzabile di verità e finzione. Gunther Schuller, per
esempio, osserva: «Nel tentativo di separare i fatti dalle invenzioni nella vita di Jelly
Roll Morton, lo storico affronta un ostacolo insormontabile. Morton, uno dei personaggi
piú estroversi e brillanti che il jazz abbia mai conosciuto, fu costretto dalle sue
frustrazioni musicali e personali a esagerare e ingigantire la verità, tanto liberamente
quanto le circostanze lo consentissero, almeno nelle sue dichiarazioni pubbliche».
L’incapacità di ricordare con precisione date e sequenze corrette di eventi è un conto, e
tutti noi l’abbiamo sperimentata in assenza di una traccia scritta, ma esagerare e
ingigantire, quando non falsificare, è un altro. Le mie investigazioni e le ricerche che
piú avanti descrivo in questo saggio mi portano, infatti, a sostenere che la biografia orale
di Morton, in particolar modo quando racconta fatti nei quali partecipò direttamente, è
assolutamente attendibile, sebbene la maniera di raccontarli risulti spesso esagerata.

I fatti, no, non sono esagerati, né inventati. Bisogna dar credito a Jelly
Roll, e alla precisione con cui raffigura, racconta e riproduce sul pianoforte
un pezzo di storia che non c’è piú.
Oltre al blues di Mamie Desdunes (del quale parliamo piú avanti, nel
capitolo XI ), ascoltato quando era ancora un bambino, Morton cita quelli
suonati da Josky Adams, un pianista di qualche anno piú grande (della cui
sorella il piccolo Jelly Roll si era perdutamente innamorato). Soprattutto,
ricorda Game Kid.

At that time we had a lot of great blues players around. For an instant, we had one of
the famous ones at that time – nothing but blues – named Game Kid. Game Kid was one
of the favourites in the Garden District, work right, right in the section where the Robert
Charles riot began. Here’s one of the blues he played.
Could sit right here and think a thousand miles away,
I could sit right here, think a thousand miles away,
Since I had the blues, cannot remember the day 5.
L’indicazione relativa a Robert Charles ci permette di collocare il blues
di Game Kid in un tempo preciso, poiché fu l’elemento scatenante di una
sanguinosa rivolta razziale accesa da un violento scontro tra Robert Charles,
un afroamericano, e un poliziotto. La caccia all’uomo, che portò
all’uccisione di Charles e provocò un imprecisato numero di vittime, durò
quattro lunghissimi giorni, tra il 23 e il 27 luglio del 1900.
Non c’è alcun dubbio, ormai: se i ricordi di Jelly Roll sono esatti,
l’emersione del blues va retrodatata di almeno tre anni rispetto
all’esperienza di Tutwiler ricordata da Handy, e di due rispetto a quando
“Ma” Rainey ascoltò il blues da una ragazza tra il pubblico.
Bisogna, però, specificare che a New Orleans il termine blues poteva
essere riferito, oltre che alla forma musicale che conosciamo, anche a una
particolare attitudine esecutiva o espressiva: a tempo lento, con condotte
strumentali in cui il pathos e la sensualità soppiantavano il dato meramente
tecnico o l’esecuzione muscolare quando non virtuosistica. È il caso, per
esempio, di Make Me a Pallet on the Floor, citata da Morton nella lettera a
Ripley; si tratta di una forma pre-bluesistica, a sedici misure, con l’inusuale
IV-IV-I-I all’inizio del chorus. A questa sfumatura, che potremmo chiamare
bluesità, o blueing, come il titolo di un celebre brano di Miles Davis,
alludono molti dei testimoni che, come Morton, vissero quel tempo di
strepitosa creatività espressiva. Ma certo ciò non vuol dire, come afferma
piuttosto superficialmente Marybeth Hamilton, che durante tutta l’intervista
a Lomax Morton usasse i termini blues e jazz «piú o meno in maniera
intercambiabile»; è una sciocchezza colossale: basterebbe – cosa che la
studiosa evidentemente non ha fatto – ascoltare le esecuzioni al piano di
Morton per rendersi conto che quando suona, e canta, un blues si tratta
effettivamente di un blues, e non di altro. Morton era un musicista geniale,
talmente preparato che attraverso la sua ricostruzione siamo in grado di
ricostruire un pezzo importante di storia della musica americana. Sapeva
esattamente che differenza corresse tra ragtime, blues e jazz, tanto che si
autoproclamò inventore del jazz (non del ragtime, tantomeno del blues).
Se proprio non si vuol dar retta a Jelly Roll, c’è un’altra testimonianza
piuttosto interessante. L’ha resa, sempre ad Alan Lomax, Alphonse Picou,
uno di quei musicisti di New Orleans ai quali Morton si riproponeva di
chiedere ulteriori prove a sostegno nella sua querelle con Handy. Alphonse
Picou è un clarinettista leggendario; la sua fama è legata all’assolo
imperituro che sciorinò in High Society, banco di prova per generazioni di
clarinettisti e immortale esempio di eleganza e creatività. Nel corso di
un’intervista, nel 1948, Picou raccontò a Lomax come nacque il primo
blues mai scritto a New Orleans.

I used to play on – in the night clubs at Villere and Iberville and they had a woman, a
colored woman, working there, and she had a husband working on the railroad, putting
up tracks, you know? And while working, he was singing, you know, these songs, and
that’s where the blues come from – the first blues. So she invite me and the bass player
at her house. She says she’s got a wonderful blues. She says, if we get that, it’s going to
be very good for the band. So the next morning we went to her house and I caught on to
the melody and I wrote it down, from her, from her voice and, uh, with my instrument
and I wrote the music down. And that night we came and we played it. [Laughs] That
was the first blues ever known 6.

Il racconto di Picou è assai suggestivo: pare quasi riconciliare tempi e


luoghi, riportando il worksong alla base del blues e collocandone la nascita
a New Orleans. A pensarci, potrebbe non essere cosí strano.

3. Congo Square.
Per molti, moltissimi anni New Orleans è stata la capitale musicale
d’America, e ben prima che lo scettro le fosse soffiato dalle altre grandi
metropoli. Già nel XVIII secolo la città della Louisiana poteva vantare una
scena musicale invidiabile: alto e basso, sacro e profano, bianco e nero (con
stimolanti vie di mezzo) convivevano gomito a gomito, spesso
interlacciandosi o dando vita a imprestiti succosi. Nello stesso periodo, era
la città che ospitava la piú folta popolazione di afroamericani, schiavi e
affrancati, e perciò fu proprio a New Orleans che certi processi di
ibridazione, sintesi e contaminazione avvennero in netto anticipo rispetto ad
altre città americane.
Il simbolo di questa tradizione è senz’altro Congo Square, il luogo in cui,
già dalla fine del XVIII secolo, ogni domenica gli schiavi potevano ballare le
loro danze e suonare le loro musiche in pubblico e all’aperto, per il
divertimento e la curiosità di tutti. Percussioni, strumenti a corda, mani e
legni a portare il tempo: la musica africana, grazie a questa possibilità, ha
potuto conservarsi nei gesti e nelle voci, cercando poi una strada verso
l’interazione con altri generi musicali.
Non va, poi, dimenticato che dirimpetto New Orleans ha i Caraibi, dei
quali fortemente ha risentito le influenze e le suggestioni, diventate poi
spinta pragmatica alla confluenza quando, nei primi anni del XIX secolo, un
robusto contingente di neri caraibici, molti dei quali liberi, sbarcò in città
ampliando non solo il ventaglio di linguaggi a disposizione, quanto
l’ampiezza culturale del pensiero musicale.
Alla metà del XIX secolo, dunque, New Orleans era città diversa da ogni
altra, strenuamente impegnata, peraltro, a difendere la sua diversità.
Cosmopolita per circostanze storiche (le dominazioni spagnola e francese) e
flussi di immigrazione, la Crescent City viveva, addirittura scintillava
grazie all’apporto di un numeroso gruppo di culture, tutte ben strutturate
dentro il tessuto sociale e urbanistico: francesi, cubani, italiani (soprattutto
siciliani), americani del nord, americani del sud, sudamericani, creoli,
afroamericani, caraibici, tedeschi trasformarono la città in una polifonia
vivente, in un fantasmagorico caleidoscopio di idee, suoni e tradizioni,
spezzato soltanto dall’irrigidirsi delle leggi razziali, intorno alla fine del XIX
secolo.
Non sorprende, allora, che New Orleans contasse tre compagnie
operistiche quando altre città non ne avevano neanche una, o che ci fosse
musica da mattina a notte, per ogni occasione e circostanza: balli, danze
all’aperto, funerali, battesimi, picnic nei parchi o sui barconi che
navigavano il fiume; e – naturalmente – musica nei bordelli di Storyville, il
quartiere a luci rosse, dove, come ricorda il contrabbassista Pops Foster, «il
cliente sceglieva la ragazza e il pianista che gli piacevano, e il pianista
suonava qualche blues lento» ad accompagnare i piacevoli momenti
successivi.
La culla ideale, per una musica senza padri.

4
«SAM JONSING : Sto proprio giú, devo avere quella cosa che i bianchi chiamano il blues, e il
peggior tipo possibile, ecco che c’ho… | PETE GUMBO : Com’è che si chiamano, Sam? | SAM

JONSING : I blues, i veri blues dell’anima».


5
«A quel tempo in giro c’erano molti ottimi musicisti di blues. Uno, tra i piú famosi in quel
momento, era Game Kid, e non suonava altro che il blues. Era uno dei piú richiesti nel Garden
District, e lavorava proprio dove iniziò la sommossa per Robert Charles. Questo è uno dei blues che
suonava: Potrei star seduto qui con la mente mille miglia lontano | Potrei star seduto qui con la mente
mille miglia lontano | Ho i blues, e non riesco a ricordarmi che giorno è».
6
«Suonavo nei nightclub tra Villere e Iberville e c’era una donna, di colore, che lavorava lí; il
marito lavorava nelle ferrovie, mettevano in posa i binari, capito? Mentre lavorava, cantava quelle
canzoni, ed ecco da dove viene il blues, il primo blues. Una sera la donna mi invita a casa sua,
dicendomi che ha un bel blues e che se riusciamo a metterlo su potrebbe essere un buon numero per
la band. La mattina dopo andammo a casa sua, io presi la melodia dalla sua voce col clarinetto e poi
la trascrissi. E quella notte la suonammo in concerto. [Ride] Questa è la storia del primo blues che sia
mai stato scritto».
Parte seconda
Forme, figure e modelli dell’espressione
Capitolo sesto
Forme di una musica improvvisata

Di cosa fosse, di che forma avesse e di come suonasse il blues prima


dell’avvento della registrazione discografica non abbiamo nessuna idea: il
disco fissa su gommalacca un periodo che parte dai primi anni del
Novecento, mentre le ricerche etnomusicologiche di Lomax e altri studiosi,
avviate nei primi anni Trenta, pur riportando a galla reperti e fossili
musicali piuttosto interessanti non hanno svelato, né rivelato, in quali forme
si esprimessero i bluesmen che hanno inventato questo genere musicale.
Abbiamo solo delle testimonianze, e null’altro.
Il blues assume una forma codificata, standardizzata, a partire dagli anni
Venti. Questo però non vuol dire che prima non si usassero altre forme, o
che questa fosse condivisa da ogni bluesman a qualunque latitudine. Né,
soprattutto, che il blues sia nato in questa forma. Il meccanismo armonico,
melodico e testuale che andremo a smontare nel prossimo paragrafo è un
modello ormai universalmente condiviso, e ampiamente utilizzato, almeno
dal punto di vista del giro armonico, da molti altri generi musicali. Soltanto
scomponendolo nelle sue parti fondamentali avremo gli elementi necessari
per comprenderne il funzionamento, e per procedere alla ricerca di ulteriori
elementi di indagine.

1. Questioni di forma.
Dodici misure. Tre accordi. Tre versi, di cui due uguali e l’ultimo che
rima con il precedente. Uno spazio riempito per metà dal canto e per l’altra
metà da una frase strumentale. Volendo ridurre all’osso, la strofa tipica del
blues è tutta qui, in questa estrema economia di mezzi, in questo scheletro
essenziale, ma capace di produrre variazioni infinite e meraviglie altrettanto
infinite.
Quando ci si riferisce alla forma blues, ovvero a quel meccanismo
strofico condiviso, e in qualche modo convenzionale, che si afferma a
partire dagli anni Venti, e che abbiamo riassunto in pochi tratti poche righe
piú su, si indica una forma musicale che non esiste in nessun’altra cultura e
parte del mondo. Sebbene siano stati compiuti studi e ricerche tendenti a
identificarne gli antecedenti e i precursori, non sembra essere stato
individuato alcun parente prossimo, o stretto. La forma blues, come il blues,
affonda le sue radici in Africa (come abbiamo visto nel capitolo I ), ma al
tempo stesso è il frutto, originale e sorprendentemente singolare, della
creatività dell’uomo afroamericano.
Proveremo, dunque, a comprenderne e riconoscerne i meccanismi, gli
ingranaggi, le sezioni, le parti e i singoli componenti a partire da tre
macrostrutture: il giro armonico, la particolare disposizione del testo e
l’interazione tra quest’ultimo e la melodia.
Il giro armonico, cioè la successione degli accordi, può essere facilmente
sintetizzata nella matrice seguente:

A ogni quadrato della matrice corrisponde una misura (o battuta) e a


ogni numerale romano un accordo costruito sul relativo grado della scala
musicale: I indica l’accordo costruito sul primo grado della scala, quindi la
nota fondamentale della medesima (nella scala di Do, la nota do); IV si
riferisce all’accordo costruito sul quarto grado della scala (nella scala di Do,
la nota fa) e V contraddistingue l’accordo costruito sul quinto grado della
scala (il sol, sempre riferendoci alla scala di Do maggiore). Nel sistema
tonale questi tre particolari accordi sono i piú importanti e i piú
frequentemente utilizzati; in piú assolvono a specifiche funzioni di carattere
armonico: il primo, detto anche tonica, individua la regione di riposo,
quindi statica, che fa capo alla nota fondamentale della scala; il V, chiamato
accordo di dominante, segnala, al contrario, il momento di massima
tensione dinamica, e richiede il ritorno al I grado, allo stato di quiete. In
questa dialettica di tensione-distensione si inserisce l’accordo costruito sul
IV grado, detto anche sottodominante, a individuare gradi intermedi di
tensione e distensione.
Se dal punto di vista dell’utilizzo di materiali armonici la forma blues
non si configura come innovativa (I-IV-V sono tra gli ingredienti piú
comuni nella popular music), è invece del tutto unico lo schema formale
delle dodici misure, la dislocazione degli accordi, il meccanismo narrativo
sviluppato a partire da questa concatenazione. Naturalmente, nel corso dei
decenni allo schema su indicato sono state apportate numerosissime
variazioni e varianti; le piú diffuse indicano un IV a misura due (sí che le
prime quattro misure si snodino lungo la sequenza I-IV-I-I), e ancora un IV
a misura dieci, che serve a stemperare il ritorno verso l’accordo di base (V-
IV-I-I). È inoltre assai frequente l’apparizione di un V grado nell’ultima
misura, dispositivo il cui scopo è quello di preparare, lanciandolo, l’inizio
della strofa successiva: strategia narrativa che aumenta, nell’ascoltatore, il
desiderio che la ruota continui a girare, e che la macchina non si fermi,
come nell’esempio seguente:

Il meccanismo armonico della forma blues è quello che normalmente


viene importato in altri generi o stili: jazz, rhythm and blues, boogie-
woogie, rock and roll, country, soul, funky utilizzano della forma blues
esclusivamente la concatenazione di accordi. Non la struttura dei versi, né
l’interazione tra versi e melodia.
Facile capire perché. La struttura del verso, in un blues, è quanto di piú
unico, originale e misterioso sia apparso nella musica degli ultimi due
secoli. Come abbiamo già visto, la tipica stanza blues è composta di tre
versi: i primi due identici (il secondo può essere lievemente variato), e un
terzo che, oltre a concludere e completare il ragionamento, l’immagine o il
racconto dei primi due, rima con essi, secondo uno schema AAB.
L’esempio è tratto da Poker Woman di Blind Blake.

I love to gamble, gambling’s all I do


I love to gamble, gambling’s all I do
And when I lose, it never makes me blue 7.

Gli studiosi da tempo si interrogano sul perché di questa conformazione.


Per alcuni la ripetizione del verso serve a ribadire, rinforzare il concetto,
favorendo la partecipazione del pubblico. Per altri ha lo scopo di aumentare
l’attesa del verso finale, inchiodando l’ascoltatore in un inviluppo narrativo.
Forse, piú semplicemente, la ripetizione del verso è tempo: tempo che serve
al bluesman per creare estemporaneamente il verso di chiusura. Questo
spiegherebbe il perché della presenza di un meccanismo formulaico (come
vedremo piú nel dettaglio nel prossimo capitolo). Il blues, dunque, nasce
come forma poetica improvvisata, adagiata su una base, invece,
(relativamente) stabile.
Ciascun verso, inoltre, ha una suddivisione ulteriore in due frasi distinte;
la separazione viene marcata attraverso una breve pausa (durante la quale il
cantante prende fiato), o da una nota tenuta, o da un particolare intervallo
tra due note. Col che, suggerisce Jeff Todd Titon, è possibile formalizzare il
testo di un blues come la successione di stanze di tre versi, ciascuno dei
quali suddiviso in due frasi:

Nella forma blues assume importanza decisiva anche il modo in cui i tre
versi vengono collocati e posizionati all’interno della strofa. Ciascun verso,
infatti, si inscrive nella fondamentale pratica del call and response, uno
degli architravi del pensiero musicale africano: a ogni enunciato vocale, la
domanda o “call”, segue una parte strumentale, ovvero una risposta.
Quando il bluesman si esibisce in completa solitudine sarà lo strumento col
quale si accompagna a determinare la risposta strumentale.
L’enunciato vocale occupa piú o meno la metà dello spazio a
disposizione: finisce, cioè, solitamente sul primo quarto (quindi sul primo
accento) della terza misura, lasciando alla musica uno spazio
sostanzialmente analogo: testo e musica, cioè, ricevono lo stesso
trattamento, a indicarne la medesima importanza, e rilevanza, all’interno del
blues.

Questo solitamente non accade quando la forma blues viene presa in


prestito da altri stili o generi; anche le espressioni piú vicine, come
orizzonte estetico e cubatura timbrica, adottano strategie testuali diverse; se
si confrontano, per esempio, il testo di un blues classico e quello di un
brano in stile rock and roll di Chuck Berry, si nota come, nel secondo, il
testo è organizzato in maniera completamente diversa, sebbene la forma
armonica sia quella del blues e l’insieme dei gesti vocali, timbrici ed
espressivi alluda alle propaggini piú elettriche del blues, come il rhythm
and blues.
Sovrapponendo alla griglia armonica la struttura del verso e la sua
dislocazione nello spazio musicale si ottiene una rappresentazione molto
prossima a quello che accade in una strofa blues (in questo caso, la prima
stanza di Saint Louis Blues interpretata da Bessie Smith, nella trascrizione
di Graeme Boone).
L’aver accorpato tutti gli elementi prima analizzati singolarmente
consente una serie di altre riflessioni. La prima riguarda il modo in cui testo
e armonia concorrono all’elaborazione di un meccanismo narrativo assai
robusto. È facile notare come l’unico elemento difforme nella ripetizione
dei due versi è l’accordo di sottodominante a misura cinque e sei, mentre
tutto il resto è invariato: il passaggio al IV, piazzato proprio all’inizio della
ripetizione del primo verso, ne suggerisce una nuova interpretazione, una
versione rinnovata. Lo scarto maggiore è all’inizio del terzo enunciato, la
cui novità, e importanza all’interno del discorso, sono enfatizzate dal
momento di massima tensione armonica: il passaggio al V, l’eventuale
attenuazione sul IV e il ritorno al I, in attesa che tutto ricominci daccapo. Il
“call”, in ultima analisi, poggia sempre su un sostrato armonico diverso (I-I
o I-IV; IV-IV; V-V o V-IV): a restare immobile è l’armonia della “risposta”
strumentale, gravitante attorno all’accordo di base. Questo consente al
musicista di improvvisare con piú agio la figura strumentale da opporre al
verso.
L’altra riflessione ha come oggetto un ulteriore elemento di potente
evocazione: la scala blues. Intimamente connessa alla capacità di
penetrazione del verso è la maniera in cui la melodia viene costruita, quasi
scolpita all’interno di uno schema estremamente funzionale, dunque
abbastanza rigido. Di norma, le scale, ovvero la successione di note, che
vengono utilizzate nella costruzione di melodie e improvvisazioni sono
anch’esse un frutto assai interessante del processo di adattamento dell’uomo
afroamericano al Nuovo Mondo: talmente interessante da essere
praticamente estraneo alle modalità scalari della musica europea. La scala
piú utilizzata è la cosiddetta pentatonica, minore e maggiore: il nome stesso
suggerisce che, al contrario della normale scala di Do, composta da sette
note, questa ne comprende solo cinque, i cui rapporti intervallari generano
tensioni e contrasti assai pronunciati, e dal sapore inconfondibilmente
afroamericano. Altra scala molto usata è la scala blues, al cui interno sono
presenti le famose blue notes: la terza e la settima nota (mi e si, nella scala
di Do maggiore) vengono abbassate di un semitono (piú precisamente,
vengono collocate in un’area di altezza flessibile), conferendo un suono,
una grana armonica del tutto particolare alle melodie: il loro carattere, cioè,
si sottrae alla bidimensionalità maggiore-minore per assumere un carattere
indefinibile, come sono indefinibili la natura e lo spirito del blues.
Gli spigoli intervallari, le frizioni armoniche si assommano alla tecnica,
anch’essa tutta afroamericana, di collocare l’inizio di ogni frase nel punto
meno atteso, quindi mai esattamente all’inizio della battuta, né in
concomitanza del cambio di accordo: sebbene, come rilevato da Kubik, il
blues manchi degli aspetti pervasivamente poliritmici delle musiche di
origine subsahariana, compensa con una enorme tensione ritmica, ottenuta
dal contrasto tra il tempo di 4/4 assai articolato (spesso declinato come
12/8, e spesso non isometrico), e la funzione di destabilizzazione ritmica
affidata al verso cantato.
Ogni blues, dunque, funziona come un articolato sistema di segni;
ciascuna sua particella, ogni piú piccolo elemento costituisce un marcatore
di identità culturale, e di continuità col proprio passato. Articolato, certo,
ma al tempo stesso di estrema semplicità: un pattern di facile
appropriazione, e come tale strumento di interazione sociale. L’ha spiegato,
in maniera assai convincente, Susan McClary:

Questa semplice procedura si rivela estremamente elastica, capace di rafforzare i


soggetti, gli affetti e gli stili piú vari. Se i singoli accordi blues non agiscono sulla base
della deviazione per raggiungere i propri scopi espressivi […] sottoscrivono una potente
struttura retorica, e la dinamica che delineano è stata rifinita da numerose generazioni di
performer che hanno interagito con il pubblico. Mentre la nostra attenzione si concentra
sulle sfumature d’immaginario esibite in ogni nuova manifestazione del blues, il pattern
stesso, che ha lo scopo di facilitare, diviene il significante piú importante di tutto
l’insieme: riconosce una storia sociale, una genealogia che deriva da una moltitudine di
tributari. E con ogni strofa, ogni performance, inscrive nuovamente un modello
specifico di interazione sociale.

La forma blues, cioè, agisce da dispositivo per la conservazione e la


sopravvivenza di una memoria collettiva, di questa essendone un prodotto
condiviso e assimilato a ogni livello.

2. 8-12-16 e altre quantità.


Nel tentativo di analizzare le varianti cui la forma blues è stata sottoposta
nel corso degli anni, vanno osservate anche quelle che hanno agito sul
numero di battute del modulo, non soltanto sulla natura degli accordi
all’interno della matrice a dodici. Esistono blues il cui numero di battute
scende a otto, e blues il cui numero di misure sale a sedici (per non parlare
di tutti gli esperimenti cui i musicisti di jazz hanno sottoposto le dodici
misure). Ciascuno di questi offre una diversa prospettiva, e contribuisce a
puntare l’attenzione sulla domanda che, silenziosamente, ha preso corpo
lungo tutta la sezione teorica: dal punto di vista della forma, da dove deriva
il blues?
Naturalmente, è una delle domande cui è piú difficile dare risposta: forse
non lo sapremo mai, però è possibile fare ipotesi. Come si è già visto nella
prima sezione, il tentativo di far risalire per lo meno la struttura del verso
AAB a pratiche e modelli africani è troppo vago per poter essere accolto
come probante. Troppo scarsi i risultati, sebbene il tentativo di Kubik sia
encomiabile e indichi con rigore la direzione in cui moltiplicare ricerche e
sforzi.
Anni fa ebbe molta eco, e acquisí improvviso prestigio, l’ipotesi di uno
studioso sudafricano, Peter Van Der Merwe: egli faceva risalire la forma
blues a un’antica forma musicale europea, il passamezzo moderno, il cui
contenuto armonico si snodava attorno a questa sequenza: I7IV I V : I IV I-
V I. La danza, originatasi nel 1500, conobbe grande popolarità nei decenni
e secoli successivi, fino a, secondo Van Der Merwe, generare una forma
americana di passamezzo moderno, alla metà del XIX secolo, dalla quale
discese la forma blues e dunque il rock and roll. Il blues ha, dunque, radici
britanniche? L’idea è forte, e anche difficile da digerire. Al di là del fatto
che dal punto di vista morfologico la distribuzione degli accordi (e
soprattutto delle cadenze) è sensibilmente differente, è il presupposto a
offrire il destro a robuste controdeduzioni. Walser, per esempio, sostiene
che descrivere le canzoni di Little Richard come derivanti, in definitiva, da
un modello britannico, o il blues come discendente di una forma seicentesca
vuol dire travisare la natura dell’espressione musicale afroamericana,
banalizzando l’attività di alcuni tra i piú importanti musicisti del secolo.
Negus, invece, sottolinea le derive formalistiche, e astoriche, dell’idea
vandermerwiana, colpevole di ignorare totalmente le qualità timbriche e i
contesti di produzione e ricezione.
Sarà dunque opportuno non spingersi troppo indietro, e limitarsi a
setacciare i dintorni temporali della nascita del blues. Scavando in quella
determinata area temporale, per esempio, è possibile rinvenire, ampiamente
documentati su rulli di cera e spartiti, forme a sedici misure la cui
morfologia è assai affine: la successione armonica si snoda lungo la
progressione I-I-I-I IV-IV-I-I IV-IV-I-I V-V-I-I, ovvero una normale forma a
dodici misure in cui la seconda sezione – quella che ospita il secondo verso,
per intenderci – è raddoppiata, duplicata. Questo allargamento armonico
supporta una distribuzione dei versi assai particolare: la stanza ha la forma
AAAB, con quattro versi e il primo che si ripete tre volte.
Verrebbe dunque naturale ipotizzare che questa particolare versione a
sedici misure abbia generato, per semplice eliminazione di quattro misure e
relativa soppressione della ripetizione di un verso (con conseguente
diminuzione della ridondanza), la forma a dodici misure. La questione, in
verità, non è cosí semplice; intanto, perché le due forme (a dodici, AAB, e
sedici, AAAB) per un lungo periodo sono esistite contemporanee; poi,
perché forme blues a sedici misure (che alcuni studiosi chiamano pre-blues,
proprio per collocarle anteriormente al blues a dodici misure) restano
ancora molto a lungo nel repertorio dei musicisti del Delta. Un problema
virtualmente irrisolvibile, stante la scarsezza di materiale che abbiamo a
disposizione.
Nessuna incertezza, invece, sulla genesi delle forme a otto misure. Il piú
famoso esempio, How Long, How Long Blue, è quello registrato da Leroy
Carr, con Scrapper Blackwell, nel 1928. Ma la data di nascita va anticipata
di almeno qualche anno, dal momento che Carr si ispirò alla How Long,
Daddy, How Long registrata da Ida Cox, accompagnata dal banjo di Papa
Charlie Jackson, nel 1925: testo diverso, ma medesima forma, incentrata su
una progressione armonica che nelle prime quattro misure condensa le otto
della forma a dodici, per poi distendersi in una cadenza senza affanni:

Il testo ha una conformazione diversa: al posto della ormai familiare


struttura AAB troviamo ancora un verso triplice, in forma ABX, CDX,
EFX; ovvero: ogni stanza si chiude con lo stesso verso («how long, daddy,
how long»), mentre i due versi precedenti rimano tra di loro. La stanza
indica una suddivisione dello spazio armonico di tipo binario:

con ciascuno dei tre versi appoggiato su una coppia di accordi, e le ultime
due misure di stasi sull’accordo di tonica a lasciare spazio alla risposta
strumentale.
Se la versione Cox-Jackson è di innaturale bellezza, addirittura
modernista in quello scultoreo accompagnamento di banjo per accordi, con
molti spazi vuoti e la voce spesso a galleggiare nel silenzio (idea
formidabile e coraggiosa, per i tempi), quella di Leroy Carr è addirittura
insuperabile. Intanto, Carr annulla la distanza tra call and response
permettendo alla chitarra di Scrapper Blackwell di interagire costantemente
con le linee del canto e i poderosi schemi di accompagnamento al
pianoforte. Il testo, poi, è stato addirittura preso in prestito da Langston
Hughes, per una sua opera del 1934, The Blues I’m Playing:

Sometimes I feel so disgusted and I feel so blue


That I hardly know what in this world baby just do
For how long how how long baby how long
And if I could holler like I was a mountain jack
I’d go up on the mountain I’d call my baby back
For how long how long baby how long 8.

Il blues in otto misure sopravvive fino a Robert Johnson, il cui Come on


in My Kitchen vive di una spasmodica e inaudita tensione: ciascuna stanza
viene cantata in un tessuto armonico apparentemente immobile, bloccato
sull’accordo di tonica, mentre un V grado viene solo suggerito dalla
contromelodia della chitarra. Un esercizio di pura visionarietà.

3. Da forma a modello.
L’aspetto piú interessante della forma blues, cosí come l’abbiamo
definita nei paragrafi precedenti, è che non esiste in natura. Non esiste, cioè,
nella pratica dei bluesmen downhome, dei musicisti del Delta, per i quali la
quadratura, l’organizzazione formale, la regolarità erano optional di nessuna
utilità. Come vedremo successivamente, analizzando alcune registrazioni,
nel loro lessico non si rileva la simmetria, quanto il suo contrario;
atteggiamento comprensibile, se si pensa che i blues, in origine, erano
momenti di espressione totalmente improvvisati, creati estemporaneamente
e non scritti, composti e organizzati a tavolino.
Le dodici battute, e il rigoroso e cronometrico alternarsi degli accordi,
diventarono una necessità e si affermarono come struttura nel momento in
cui, per evitare una babele stilistica, bisognava: uniformare il linguaggio in
virtú del disco, che ne divenne il principale mezzo di diffusione; adeguare
l’espressione stilistica per adattarla a cantanti che provenivano da tutt’altro
tipo di repertorio; regolare misure e durate per il numero di musicisti
impegnati nell’esecuzione e nella registrazione. Mentre il bluesman con la
sua chitarra ha la libertà di allungare o accorciare ogni singolo percorso
metrico, l’esecuzione di una band non può rischiare l’entropia, quindi sono
necessarie la quadratura e la regolarizzazione. Dai primi blues a stampa di
W. C. Handy le dodici misure iniziano a incarnare l’idea di forma blues, che
nelle mani dei pianisti di boogie e negli arrangiamenti delle prime jazz band
assumono dignità e consapevolezza strutturale.
Questi processi, va ricordato, avvengono esternamente, lateralmente al
blues. Per il musicista del Delta il blues è ancora un fatto estemporaneo, che
si risolve tutto nel momento dell’esecuzione, e non in quello della
composizione. Musica di tradizione orale, il blues si inscrive in un universo
esteso di musiche improvvisate, dove il termine «improvvisazione» non va
inteso come una generazione spontanea di suoni, ma nell’accezione di
«stadio intermedio fra la riproduzione e la creazione», per usare la nota
definizione dell’etnomusicologa rumena Gizela Suliteanu. Ma, ammonisce
Giannattasio, quando si parla di musiche di tradizione orale concetti come
creazione, composizione, improvvisazione, variazione, interpretazione,
riproduzione non solo perdono la loro univocità di significati, ma si
sovrappongono o sconfinano l’uno nell’altro. Piú utile allora –
considerando anche che il valore innovativo dell’invenzione momentanea
può essere percepito dall’ascoltatore solo in relazione a qualcosa di stabile e
riconoscibile – affrontare il problema dell’improvvisazione a partire dalla
nozione di modello. Di questa, Lortat-Jacob ha dato una definizione
ampiamente condivisibile:

Un modello […] come il lessico di una lingua, è composto da elementi formali


debitamente memorizzati e di numero finito, nonché da regole combinatorie organizzate
in una grammatica e a partire dalle quali è possibile produrre un numero infinito di
enunciati musicali. Benché si tratti essenzialmente di una rappresentazione mentale, il
modello è dotato di una realtà acustica, essendo composto di suoni, modi, ritmi, gesti
tecnici che nel corso del suo apprendistato il musicista avrà integrato, cosí da essere in
grado di coordinarli durante la sua esecuzione.

La nozione di modello, rispetto a quella di forma, ci permette di meglio


penetrare nel lavorio di composizione estemporanea del bluesman, di
cogliere le necessità di un discorso asimmetrico e le derive del pensiero
performativo. Un modello definisce un campo di pratiche, ma non indica
regole. E di regole il bluesman ne segue poche, impegnato com’è a
districarsi tra una serie di problemi esecutivi e compositivi.
Ogni aspetto di una blues performance contempla il sovrapporsi di strati
solidi e strati liquidi: ovvero, elementi piú o meno stabili, fermi e altri
invece piú aperti all’elaborazione improvvisativa. Il segno essenziale del
blues, però, è che nessuno strato è sempre e soltanto solido, e nessuno strato
è sempre e soltanto liquido: ciascuno offre possibilità che il musicista deve
valutare ed elaborare in tempo reale. A partire dal testo. Abbiamo già visto
come, almeno in origine, i versi dei blues venivano creati all’istante: come
nell’antenato field holler, nel blues precipitano osservazioni immanenti,
fatti, sensazioni del momento, la reazione del pubblico, i corpi della gente
che ascolta o, piú probabilmente, balla. Il bluesman arcaico articola e
racconta in diretta storie e avvenimenti, immagini e sensazioni che possono
essere condivise con quell’ascoltatore in quel momento in quel particolare
luogo. L’attività versificatoria si delinea lungo uno strato liquido –
l’individuazione dell’argomento, la scelta della formula d’apertura di
ciascuna stanza, e la creazione del terzo verso – e uno solido, formato dalla
ripetizione del primo verso e dalla rima, due espedienti che permettono la
veloce elaborazione di un discorso di senso compiuto e l’altrettanto veloce
selezione di parole e formule (come vedremo piú in dettaglio nel capitolo
successivo).
Ciascun verso, poi, viene cantato utilizzando una melodia: una
successione di note che producono un profilo tematico riconoscibile. Il
bluesman probabilmente ha già presente quale sarà la conformazione
melodica del primo verso (la nostra ipotesi è che verso e melodia vengano
pensati contemporaneamente), ma al tempo stesso deve essere pronto a
modificare e variare la melodia a seconda del numero di sillabe del verso
della stanza successiva: se il verso è piú lungo, o ha un numero maggiore di
sillabe non può essere sovrapposto cosí com’è al tema melodico, ma questo
deve essere adattato al nuovo verso. Di strofa in strofa, cioè, è possibile che
la melodia cambi in relazione al verso. Un esempio classico, ed eclatante, è,
tra i tanti, Sweet Home Chicago, di Robert Johnson.
Al termine di ciascun verso, poi, il musicista deve creare la risposta
strumentale al canto; anche in questo caso la scelta può cadere su una
soluzione solida (il ripetere lo stesso riff lungo diverse strofe) o liquida, con
l’invenzione di risposte anche estremamente elaborate all’interno di ogni
verso. La lunghezza del verso e quella della risposta, evidentemente,
finiscono con l’interessare anche la lunghezza dell’intera sezione e la
permanenza su un singolo accordo: quasi mai, cioè, i blues di Charley
Patton o Son House durano dodici misure, ma si allungano e si accorciano
per adattarsi al proprio contenuto, e quasi mai ciascuna strofa ha lo stesso
contenuto armonico, visto che il bluesman, potendo scegliere se sostare per
due misure sul V, o usare il passaggio graduale V-IV, lo farà individuando
soluzioni diverse anche all’interno dello stesso brano.
L’idea di modello, insomma, permette di ricostruire con maggiori
dettagli le capacità inventive e permutative dei primi bluesmen. E consente
una comparazione con altri modelli, molto simili per nascita e sviluppo. È
difficile non cogliere le somiglianze e le coincidenze tra il blues e altre
espressioni popolari, come il tango, il flamenco e la salsa cubana: musiche
in cui l’improvvisazione gioca un ruolo fondamentale nell’elemento
musicale, testuale e soprattutto coreutico. Che il blues fosse musica usata
per la danza ormai è dato acquisito. Tutte le musiche nere hanno come
interlocutore privilegiato il corpo: che sia sacra o secolare, la musica degli
afroamericani non ha senso senza un corpo che danza. Non c’è
trascendenza senza il corpo, non c’è redenzione senza la comunità. Il blues,
appunto.

7
«Amo giocare, giocare è tutto ciò che faccio | Amo giocare, giocare è tutto ciò che faccio | E
quando perdo, non divento mai triste per questo».
8
«A volte sono cosí giú e mi sento cosí triste | Che a malapena so cosa fare in questo mondo,
baby | Per quanto tempo, per quanto quanto tempo, baby || E se potessi urlare come fossi un mountain
jack | Salirei sulla montagna e chiamerei indietro la mia piccola | Per quanto tempo, quanto tempo,
piccola, quanto tempo».
Capitolo settimo
Figure del discorso. Di cosa, e come, parlano i blues

Come sia organizzata la struttura del verso blues, l’abbiamo già visto in
precedenza. Ma, viene da chiedersi, di cosa parlano i blues? E, soprattutto,
come ne parlano? Il luogo comune del blues apparentato con la tristezza e il
lamento elegiaco è talmente diffuso da rivelarsi praticamente inscardinabile.
Per anni, si è pensato che le dodici misure e una certa, magari ben articolata
e strutturata, sadness fossero addirittura sinonimi. Ci sono voluti i primi seri
studi sull’articolazione poetica e immaginaria dei versi creati da almeno due
generazioni di bluesmen per aprire nuove prospettive e indicare orizzonti
alternativi. Alla tristezza si è cosí sostituita la rabbia esistenziale, la
denuncia, l’invettiva, il lamento, la ruminazione sulla propria, spesso
disperata, condizione. E, di fatto, si è sostituito un luogo comune all’altro.
Perché, in verità, la tavola argomentatoria dei blues è di enorme vastità, e
racchiude una miriade di sensi e significati, di riflessioni e punti di vista, di
prese di posizione e abbandoni. Un sistema, cioè, in cui l’atto stesso del
guardare la realtà, e ciascuna delle sue mille facce, diventa testo poetico,
struttura di senso, artificio significante.
Al vertice della piramide, però, come un centro di energia dal quale tutto
si irradia, c’è – quasi a sorpresa – l’amore.

1. Frammenti di un discorso amoroso.


Son House, nel suo modo cosí misterioso e arcaico di raccontare le cose,
ha piú volte provato a spiegare cos’è il blues, e di cosa i blues parlano. Con
frasi secche e spezzate, provenienti da regioni antiche del suo pensiero, ha
spazzato via decenni di commenti e ricostruzioni storiche, annientando, di
fatto, l’opinione comune secondo cui i blues sono il mezzo attraverso il
quale le generazioni afroamericane post-schiaviste hanno potuto esprimere
rabbia, indignazione e protesta contro la discriminazione razziale. Una
prima rimemorazione relega il blues nell’ambito della piantagione, in una
dimensione circolare di racconto e condivisione:

La gente continua a chiedermi dove è iniziato il blues. Tutto quello che posso dire è
che quando ero ragazzo cantavamo sempre nei campi. Non era proprio cantare, sapete,
era piú un urlo, ma le nostre canzoni erano fatte delle cose che ci accadevano a quel
tempo, e credo che sia quello il posto dove è nato il blues.

Il blues, come aveva già verificato Peabody, diventa quindi strumento di


elaborazione in tempo reale di una doppia funzione, di un duplice binario
sul quale scorre il tentativo di alleviare la fatica, la sincronizzazione dei
movimenti del lavoro, la necessità di raccordare la propria esperienza alla
realtà piú immanente.
Anni piú tardi, di fronte alle telecamere di uno special televisivo, il
bluesman espresse un punto di vista ancora piú forte, molte volte ripetuto
nelle piú varie circostanze con leggere modifiche e quindi da considerare la
sua versione definitiva:

Talvolta, sapete – non so chi abbia iniziato questa cosa, la faccenda del blues.
Sappiamo tutti che succede sempre cosí – il blues esiste, e viene fuori tra un uomo e una
donna che si amano. Uh-huh. E quando uno tradisce l’altro. E allora gli viene il blues,
cioè, se si amano. Sí. Viene il blues a tutti e due.

Un uomo e una donna che si amano. Punto. Altro non serve per mettere
in moto la profonda, instancabile negoziazione tra il blues e la realtà.
Nell’apparente genericità di una simile affermazione, Son House non perde
la lucidità dei riferimenti se, ancora qualche tempo dopo, afferma:

Il blues non è un gioco, come pensa la gente. Per esempio, i giovani oggi prendono
qualsiasi suono e ne cavano il blues. Ogni piccolo jump è buono per affermare che quel
pezzo è un blues, ma non è cosí. Esiste un solo tipo di blues, e si ottiene quando un
uomo e una donna si amano. Un uomo e un donna innamorati. Sono stato sposato
cinque volte, per il mio stupido egoismo, cinque volte, e ho una certa esperienza di
quello che dico. Blues, b-l-u-e-s, blues.
Se col blues non si scherza, sembra volerci dire Son House, non si
scherza neanche e soprattutto con i sentimenti, con l’amore. È il sentimento,
allora, che cementifica non solo l’unione tra un uomo e una donna, quanto
tra la voce e la chitarra, tra il blues e il suo mondo. Un’interazione binaria e
duale che viene interpretata a partire dall’idea di coppia piú naturale.
Addirittura piú categorico Robert Pete Williams, quando dichiarò che «è
l’amore che fa il blues. Non ci sarebbe amore, e non ci sarebbe blues se al
mondo ci fossero solo uomini».
Il problema, però, è che a scorrere i testi dei brani incisi da Son House
non è difficile accorgersi di come l’amore sia solo uno dei temi affrontati.
Per spiegare l’apparente contraddizione Jeff Todd Titon sostiene che il blues
primigenio fonda il suo contenuto testuale sull’argomento amoroso, e che
questo sia in grado di abbracciare e accogliere, grazie a un raffinatissimo
lavorio di costruzione metaforica, altri aspetti e storie. Attraverso
l’elaborato reticolo di situazioni che il rapporto tra un uomo e una donna
può offrire, cioè, il blues è in grado di parlare d’altro, innestando sulla
matrice di base situazioni diverse e complementari. La difficoltà di
mantenere accanto a sé il partner; il dolore e il rimpianto per la perdita di un
amante, o per la fine di un amore; il desiderio di un rapporto felice e
tranquillo; la soddisfazione sessuale e l’appagamento dei sensi; in
definitiva, il desiderio di un legame solido, gioioso e carnale: queste sono le
fondamenta su cui poggia il senso letterario e poetico del blues. Quando
arrivano i blues, cadendo come pioggerellina primaverile o camminando
per la stanza o infettando il cibo, il musicista sa che è arrivato il momento
di affrontare il problema della relazione con il/la partner; per questo, dice
Titon, molti blues cantano dei problemi d’amore, delle difficoltà, degli
impacci, degli inciampi. Avere il blues, allora, non è essere pervasi da un
generico sentimento di tristezza e malinconia, ma un complesso emotivo
assai piú denso e strutturato, un ventaglio ampio di sfumature, nessuna delle
quali prevalente, in cui si insinua, fluida, la riflessione amorosa, e la
sublimazione di una vasta gamma di stati emotivi.
L’idea della sublimazione, attraverso l’argomento amoroso, di
frustrazioni ed energie psichiche negative, e latenti, era stata già avanzata
da Paul Oliver, secondo il quale l’artista, piú o meno consapevolmente,
annega nell’idea dell’amore perduto la rabbia e la frustrazione per la sua
condizione esistenziale; nella comunicazione con l’ascoltatore il codice è
talmente condiviso da creare una solidissima alleanza, un legame
indistruttibile tra emittente e destinatario, in nome della comune lotta contro
il bianco oppressore e vessatore. L’amante infedele e violento, imbroglione
e bugiardo altri non sarebbe che lo schermo dietro cui si nasconde il bianco,
declinato in tutte le sue forme d’autorità. Perché, allora, l’ansia, se provata,
non viene manifestata apertamente e in maniera lucida e comprensibile? I
motivi potrebbero essere molti, riconosce Titon. Intanto, con l’affermazione
del blues nelle carovane viaggianti di minstrel e medicine show, il blues
serviva a divertire gli ascoltatori, non a inquietarli: lo spettacolo era un puro
momento di divagazione, e doveva essere accompagnato dalla leggerezza.
In seguito, quando i blues furono registrati, diventava probabilmente
rischioso per l’artista esprimere contenuti espliciti, vista la facilità con la
quale avrebbe potuto essere rintracciato e punito, attività per le quali,
evidentemente, bastava molto meno che incidere un disco di protesta. Né,
d’altronde, i blues emettevano messaggi in codice, la cui decrittazione
immediata spettasse al pubblico degli ascoltatori. O, perlomeno, se tali
messaggi c’erano, venivano nascosti con cosí tanta premura e precisione da
aver resistito alle analisi di studiosi e appassionati.
Un simile modello interpretativo convince, eppure non persuade. È
sufficiente, in effetti, ascoltare venti dischi scelti a caso dallo scaffale di
blues prebellico di un qualsiasi negozio per constatare come la varietà dei
temi trattati dai musicisti di blues fino alla Grande Guerra difficilmente
sopporti una riduzione cosí forte, sebbene perfettamente plausibile, e
sicuramente attiva, come quella esposta da Titon. Come ha precisamente
rilevato Federighi:

Il tema amoroso sembrerebbe rispondere alla natura profonda dell’idioma. Rispetto al


testo di protesta o documentario, il lamento o la schermaglia d’amore, e la celebrazione
erotica, meglio sembrano adattarsi alla formula stessa del blues, che per il suo carattere
fortemente individuale e liberatorio tende a privilegiare in misura significativa il caso
singolo, l’episodio intimo, l’incidente che colpisce e ferisce e si imprime nel profondo
della sfera emotiva. Una dimostrazione valida di questa tesi viene offerta dalla presenza
di un numero considerevole di blues che utilizzano l’elemento di vasto interesse sociale
come mero pretesto o luogo poetico, come sfondo su cui collocare (ed eventualmente
accentuare e rendere piú rilevante) il diverbio o il dramma sentimentale.
Attorno alla lirica amorosa, alla sua disposizione di ricettore ed elemento
trasformatore, si sono cosí sviluppate mille altre tematiche. Paul Garon –
autore di un saggio controverso, ma per molti aspetti coraggioso e brillante,
nel quale utilizza strumenti della psicoanalisi e richiama le tecniche creative
del surrealismo –, le chiama piuttosto immagini.

Il blues ha a che fare con l’intero spettro delle emozioni della vita, non solo con quei
sentimenti che caratterizzano la solitudine e il rifiuto – pertanto, in ultima analisi, è il
modo in cui il suo argomento viene trattato che dà al blues la sua incontestabile essenza,
certamente poetica, e dunque lontana da ogni ansia letteraria, morale ed estetica.

Non si può, come aveva fatto Paul Oliver, separare la dimensione poetica
con quella, attiva, della rivolta e della protesta. Il blues, costitutivamente
rivoluzionario nel suo essere espressione del desiderio usato come arma
contro lo sfruttamento, si nutre di immagini, e le rende potenti fionde per
lanciare dolorose sassate al sistema. Immagini che, come nella celebre
definizione di Saint-Pol Roux, altro non sono che fiammiferi accesi
sull’ignoto. Eros, aggressività, humour, viaggio, alcol e droghe, supremazia
maschile, liberazione delle donne, notte, animali, lavoro, la polizia e la
chiesa, crimine, magico: su queste immagini si esprime il sapere poetico del
bluesman. Immagini che richiamano e usano simboli, affondano la
creatività sovente in processi onirici, costruendo cosí una poetica
complessa, diversa da ogni possibile riferimento letterario ed estetico. La
forza del desiderio sull’urgenza della necessità, dunque, che si incanala in
una ruvida forza liberatoria.

2. Blues di un’esposizione.
Immaginate di percorrere i corridoi di una galleria d’arte, alle cui pareti
non sono esposti quadri, ma blues. Ciascuna sezione dell’esposizione
raccoglie e illustra un tema (un’immagine, per dirla con Garon) attraverso
alcune piú o meno celebri composizioni: un catalogo, non esaustivo ma
sistematico, e soprattutto multimediale; si guarda, anzi: si ascolta.
Un luogo cosí non esiste fisicamente, ma il Delta Blues Museum di
Clarksdale ne ha costruito uno virtuale: è sufficiente entrare nel sito e
accedere alla sezione podcast; qui si possono scaricare le puntate (oltre
quaranta, per il momento) su altrettanti argomenti. Mike Rugel, che
conduce lo show, con la sua pronuncia assai scivolosa, trasporta
l’ascoltatore negli archivi polverosi di blues, alla scoperta di incroci,
intersezioni, confluenze. Per ogni argomento, una manciata di blues e
notizie sempre di prima mano, e assai accurate, su contesti storici,
sociopolitici e musicali. Una maniera assai pregevole di sfruttare le nuove
tecnologie.
Passeggiando tra le opere, si rimane stupiti da quanto ampio sia stato –
ed è tuttora – l’orizzonte di indagine dei bluesmen. Non c’è evento o
avvenimento che non sia passato al setaccio: nonostante l’opinione corrente
tenda oramai ad attenuare l’importanza dell’aspetto cronachistico, quasi
giornalistico, del blues, i musicisti si sono sempre confrontati con la realtà,
anche con gli aspetti di piú scottante attualità e bruciante impellenza, dalle
elezioni presidenziali ai campioni neri dello sport. Particolarmente
affascinante, a tal proposito, la fioritura di blues attorno alle gesta di Joe
Louis; il boxeur non solo sconfisse Primo Carnera, in un match leggendario,
diventando il primo pugile di colore a conquistare un titolo del mondo, nel
1935, ma finí col rappresentare dapprima tutti i popoli africani, minacciati
dall’espansionismo coloniale fascista, poi tutto il mondo, quando affrontò il
tedesco Schmeling, dal quale fu prima sconfitto per poi riprendersi il titolo
in una memorabile rivincita. (Incidentalmente, notiamo come il mito del
pugile abbia affascinato anche Miles Davis, che a Jack Johnson dedicò un
album memorabile).
Accanto alle saghe presenti in maniera trasversale in molta musica
afroamericana del tempo (per esempio, quelle dedicate a John Henry –
simbolo stacanovista della forza del nero pronto a sconfiggere quella bianca
pur se moltiplicata dalla potenza meccanica di una macchina; oppure il
parassita boll-weavill, autore di una devastazione, assai poco metaforica,
delle piantagioni di cotone), o agli argomenti piú o meno futili (anche se di
propriamente futile i bluesmen non cantarono mai), come il gioco
d’azzardo o testi apertamente nonsense, gli artisti delle dodici battute
furono sempre acuti testimoni di un mondo e di una società che cambiavano
spesso a velocità consistente. Non a caso, qualche vecchio musicista ancora
ricorda che, in un primo momento, i blues venivano chiamati “reals”,
racconto di fatti veri: una sorta di gazzettino puntuale tramite cui
raccogliere, condividere e diffondere informazioni. Una sfumatura, questa,
che rivela la molteplicità di configurazioni, la ricchezza prismatica e
sfaccettata dell’approccio alla musica come racconto, testimonianza,
protesta, sublimazione, poesia, forza.

3. La formula segreta.
Una visita al museo dei blues, cosí come l’ascolto di un cospicuo
numero di incisioni fino alla Seconda guerra mondiale, costituisce
un’esperienza preziosa. Mette a contatto con un corpus poetico
assolutamente formidabile, permette l’appropriazione di tecniche musicali e
versificatorie, spalanca universi potenti. Allo stesso tempo, costringe a
misurarsi con un problema inevitabile, talmente macroscopico da non
richiedere alcuna capacità specialistica di ascolto o di analisi per essere
individuato. Basta cioè la semplice esposizione a un congruo numero di
incisioni per accorgersi che in moltissimi blues ricorrono le medesime frasi,
gli stessi modi di dire: spezzoni di discorso, azioni, relazioni tra uomini e
cose, sentimenti, riflessioni, viaggi e ritorni.
Talmente evidente era, sin dagli albori, questa caratteristica da non
essere sfuggita ai primi testimoni, e ai primi studiosi. Odum, difatti, parla
apertamente di formule.

La vera essenza del canto di lavoro, e quella da cui molti canti dei neri hanno avuto
origine, è la fraseologia del canto di lavoro. Le formule che lo tengono insieme sono
spesso espressioni semplici fatte di parole o frasi nate dal lavoro collettivo.

Sebbene molti studiosi abbiano preferito utilizzare altri termini


(«Favourite phrases», «frasi o versi di proprietà comune», «mattoni
standardizzati con cui ciascun bluesman costruisce differenti edifici»),
l’idea di formula ha finito con l’affermarsi, mostrandosi, forse, la piú adatta
a descrivere un meccanismo di assai peculiare fattura. La teoria formulare,
com’è noto, si deve a Milman Parry e al suo allievo Albert B. Lord; Parry la
elaborò per giustificare la presenza di molte ripetizioni nei poemi omerici;
Lord, invece, la sviluppò per rendere conto della composizione
estemporanea di canti epici nell’area balcanica, la cui esecuzione durava
addirittura alcune ore.
Il sospetto, cioè, era che nella costruzione delle strofe (la cui struttura
abbiamo analizzato nel paragrafo precedente) i bluesmen utilizzassero un
procedimento di composizione istantanea, o estemporizzazione o
improvvisazione formulare. Per «formula» Parry intendeva «un gruppo di
parole regolarmente impiegate in quel repertorio, in condizioni metriche
compatibili, per esprimere una data idea fondamentale». La composizione
per formule, dunque, consisterebbe nella costruzione di versi e semi-versi
con espressioni formulaiche finalizzate alla costruzione di un intero canto
attorno a dei temi centrali. Come lo stesso Lord sottolineava, l’abilità di
comporre rapidamente si appoggia non tanto sulla semplice
memorizzazione di un repertorio di formule molto vasto, ma piuttosto
sull’abilità di creare nuove frasi per analogia, usando i modelli stabiliti dalle
formule fondamentali.
Dal punto di vista funzionale, perciò, la formula costituisce un
patrimonio di espressioni piú o meno fisse in grado di attenuare la difficoltà
di versificare: necessità tecnica, dunque, che si trasforma anche in una
utilità pratica dal punto di vista della composizione dei versi.
La necessità di un bagaglio di tali formule è legata, ovviamente, alle
esigenze dell’improvvisazione, che non dà tempo al poeta di riflettere sul
modo in cui esprimere un’idea, né consente di correggere quanto detto in
precedenza tornando sui propri passi. Lord, inoltre, rispetto al maestro
seppe leggere con molta piú fluidità i processi inventivi, ponendo la
massima attenzione alla tecnica generativa della formula, che non è solo un
complemento necessario della memoria, ma il principale requisito che rende
“cantore” un cantore. Mentre il pensiero, almeno in teoria, è libero, scriveva
Lord, il verso cantato sottostà a imposizioni e restrizioni, diverse da cultura
a cultura a seconda del loro grado di rigidità, che determinano la forma del
pensiero.
Alcune formule, inoltre, possono costituire fra loro un «sistema»:

Un gruppo di frasi che hanno lo stesso valore metrico e che sono abbastanza simili,
come pensiero e parole, da non lasciare dubbi sul fatto che il poeta che le ha usate le
conosceva non solo in quanto singole formule quanto come formule di uno specifico
tipo.
Il sistema, in questo modo, agevola la pratica dell’improvvisatore che,
senza dover ritenere nella memoria ciascuna frase a sé stante ma
allacciandola al sistema, esercita uno sforzo mnemonico assai inferiore. Il
cantore, cioè, sostiene Lord, non deve ritenere a memoria un alto numero di
formule separate: è sufficiente che abbia compreso il meccanismo per
sostituire una parola chiave con un’altra.
Un tale sistema teorico di riferimento non poteva non attrarre – nel corso
degli ultimi anni – le attenzioni degli studiosi. Il sistema formulare di Parry
e Lord offriva una soddisfacente sistemazione, una risposta concreta,
misurabile, ai problemi sollevati dalla natura formulare dei blues. I punti
deboli, però, non erano pochi. Non ci volle molto per accorgersi che un
blues e un poema omerico, o un poema epico serbo, avessero molto poco in
comune. Al di là delle differenze macroscopiche, erano i settaggi del verso
a rendere molto piú libero il verso del bluesman rispetto agli intricatissimi
modelli a dieci sillabe dell’epica serbo-croata; il bluesman, il cui verso ha sí
una gabbia metrica, ma molto piú libera, sfrutta in pieno un sistema
generativo, che gli consente di elaborare un tessuto di versi formulari, e
non, ognuno dei quali attestato a una particolare configurazione ritmica, e
che possono essere adattati a un tema o a un’esecuzione a seconda del
soggetto della strofa o del brano, delle condizioni in cui viene
eseguito/creato, del pubblico cui è rivolto.
John Barnie è stato tra i primi a dare continuità sistematica allo studio
sulla formularità nel blues. A partire dalla fine degli anni Settanta l’autore
mise a punto un primo schema con al centro, come unità di misura
formulare, il mezzo verso, che si espande su un metro comprendente due o
tre accenti; formula, questa, che nel corso della performance viene alternata
con altre di diverso tipo.

Una cosí semplice forma del verso (opposta alla lunghezza indefinita e alla
complessità del verso epico narrativo) per la sua particolare disposizione delle formule
veniva facilmente e naturalmente memorizzata nella mente del cantante, con il risultato
che una volta cantata la formula iniziale le altre seguivano per associazione. Con il
passare del tempo, un raggruppamento di cosí particolare efficacia e utilità può entrare
per intero nella tradizione del blues e l’uso stesso tenderà a confermare il
raggruppamento come una convenzione del blues tradizionale.
Esempio tipico di questo meccanismo lo si può rinvenire in una strofa di
Blind Lemon Jefferson:

I’m sittin’ here wonderin’ will a matchbox hold my clothes


I’m sittin’ here wonderin’ will a matchbox hold my clothes
I ain’t got so many matches but I got so far to go 9.

La stanza, secondo Bernie, è composta in gran parte di mezzi versi che


ricorrono indipendentemente l’uno dall’altro; il mezzo verso 1a (ovvero la
prima metà del primo verso della stanza) appare, nella stessa posizione in
un blues di Lara Hardin e Roosevelt Scott; ma può trovarsi in diversa
collocazione, e soprattutto in diverso contesto poetico, in altri blues.
Un simile aggiustamento teorico, l’accomodamento necessario a
riequilibrare l’apparato teorico della formularità alla tipica stanza blues è
stato in seguito sviluppato fino alle sue estreme propaggini da Michael Taft.
Questi, facendo convergere sull’oggetto tutte le successive conoscenze
prodotte nel campo della semantica e della linguistica, ha costruito un
modello generativo-trasformazionale attraverso cui poter non solo
catalogare le formule piú utilizzate, ma collocarle in un preciso contesto
abile a rendere conto del sorprendente lavorio di invenzione e ri-
composizione istantanea adottato dal bluesman nel momento della
performance.
Alla base della sua idea di formula c’è la definizione di “predicazione”
nell’accezione di Leech: se una frase esprime un pensiero finito, la
predicazione può essere informalmente caratterizzata come il “pensiero
finito” che la frase esprime. Una predicazione (PN, nell’abbreviazione
utilizzata da Taft) consiste di un predicato (P) e di uno o due argomenti (A1
e A2). PN di norma è formata da una struttura del tipo A1-P-A2, che di
volta in volta genera parole o frasi specifiche; per esempio: “I (A1) –
walked from (P) – Dallas (A2)”. Questo è un esempio di formula, secondo
Taft, il quale ha buon gioco nel dimostrare che una formula siffatta venga
utilizzata e modificata dal bluesman variandone uno o piú argomenti o il
predicato.
Ciascun predicato e complemento genera parole o frasi che il blues
estrae dal suo lessico. La formula cosí ottenuta:

si pone come tassello minimo attorno al quale tutto il repertorio formulaico


viene costruito. Taft, inoltre (ma il suo approccio teorico è troppo vasto per
essere riassunto in poche righe) distingue tra le cosiddette formule-x, che
occupano la prima metà del verso, e formule-r, che occupano invece la
seconda metà del verso, individuando quindi molteplici segmenti del verso
che possono essere sottoposti a permutazione.
Vista all’opera, la teoria di Taft, che già anni prima aveva condotto un
lavoro enorme sulle concordanze nei blues, è notevole, perché non si limita
alla rilevazione di un mero sistema di sostituzioni e ricollocamenti, come il
pionieristico studio di Bernie, ma mostra l’esatta natura semantica della
formula. Una classica formula come «I wake up this morning» viene
considerata alla luce dei suoi elementi principali:

e in questo modo comparata e confrontata ai numerosissimi esiti


rintracciabili in altri blues. Ne deriva una comprensione assai piú vasta e
articolata – soprattutto: convincente e condivisibile –, un disegno preciso e
dettagliatissimo dello sciame di piccole/grandi invenzioni che il bluesman
attiva quando racconta storie a chi ha voglia di ascoltarle.
Non del medesimo parere, invece, David Evans; in un articolo del 2006,
il grande studioso ha criticato punto per punto il castello teorico costruito da
Taft, quasi collocando con precisione delle piccole cariche dinamitarde in
ogni angolo critico della struttura taftiana, provocandone quindi
l’implosione. La reazione di Evans – dura, spietata – è comprensibile: non
solo, infatti, fu uno dei primi a occuparsi della questione formulaica del
blues, ma ebbe la fortuna di essere allievo di Albert Lord, con il quale,
durante l’università, aveva approfondito i temi della lirica omerica, e grazie
alla spinta del quale aveva deciso di effettuare una decisiva ricerca sul
campo in Mississippi. Al lavoro di Taft, quindi, Evans ha opposto una
reazione solidissima. Il limite piú evidente del quale è l’idea taftiana di
formula come unità semantica, ovvero dotata di significato; secondo Evans
è piú giusto – anche rispetto al modello Parry-Lord – considerare la formula
blues come sintattica (un’unità dall’ordine delle parole e dalle strutture
grammaticali) o lessicale (definita quindi dall’uso di particolari parole).
A corredo, lo studioso elenca i punti fondamentali della sua procedura di
analisi, che ruota attorno alla scoperta di due principî, sempre attivi nella
costruzione di un blues: associazione e contrasto.

1. Le stanze del blues possono essere legate l’una all’altra in una canzone tramite
associazioni. Una parola o una frase verbale, un argomento o un’idea, o una struttura
sintattica usata in una stanza fa sí che il cantante scelga un’altra stanza contenente lo
stesso o simile elemento.
2. Le stanze del blues possono essere legate l’una all’altra tramite il contrasto. Una
stanza o un insieme di stanze associate contiene un argomento o un’idea che contrasta
con l’argomento o l’idea di un’altra stanza o gruppo di stanze. I tipici contrasti nel blues
sono: partire/ritornare; vantarsi/compatirsi; lodare/insultare; amare/odiare;
curare/maltrattare; fedeltà/rinuncia; dominio/sottomissione.
3. Alcune stanze dicono in sostanza «Io ho i blues» e esprimono l’insoddisfazione
generale del cantante. Ambiguità, confusione, insicurezza, disperazione,
preoccupazione, depressione, inquietudine e cosí via. Alcune stanze a volte hanno la
funzione di separare una coppia legata di stanze o un gruppo di stanze da un altro.
4. Strofe strumentali o pause hanno spesso anche la funzione di separare una coppia
legata di stanze o un gruppo di stanze da un altro. (Tali pause dovrebbero essere indicate
nella trascrizione di un blues).
5. I testi blues che rispondono a questi principî spesso mostrano modelli strutturali
simmetrici.

La critica di Evans si sviluppa con metodo, e tocca tutti gli aspetti della
teoria taftiana. Non ci intromettiamo nella discussione, naturalmente,
limitandoci a constatare come la genialità dei blues, la loro irriducibile
profondità, la creatività eccezionale che li ha nutriti resistano a studi e
teorie, sistemi e impalcature intellettuali, quasi a voler nascondere la loro
poeticamente sovrumana natura.

4. La poesia, dopotutto.
Ci si può scherzare su, come qualcuno ha fatto, ma certo Omero – se
solo fosse esistito – avrebbe potuto essere il primo bluesman della storia.
Blind Homer, lo potremmo ribattezzare; non vedente, relegato ai margini
della società, cantore di fatti, avvenimenti e stati d’animo, improvvisatore di
formule avvincenti. Di sicuro, Blind Homer e i bluesmen del Delta
condividevano un senso per la bellezza poetica, per la precisione
dell’immagine evocata, per quella relazione tra parola ed emozione in grado
di suscitare una profonda empatia tra esecutore e ascoltatore. Molte delle
strofe, nonostante il loro schema secco e ripetitivo e la loro natura
formulaica, contengono visioni straordinarie, intuizioni folgoranti,
immagini indimenticabili; ognuna di queste, relegata in un verso, o in
mezzo verso, viene subito dopo sostituita con altra immagine altrettanto
potente. Ecco: è la potenza di certe evocazioni a penetrare nell’anima di chi
ascolta; è lo stupore di fronte all’imprevedibile a rendere spesso
appassionanti le dodici battute. Atti poetici in cui la vita fa rima con musica,
e storie in cui vibrano e risuonano esistenze e avvenimenti, le strofe del
blues affrontano di petto l’ascoltatore, e quasi mai lasciano scampo.
Poesia sonora, ecco cos’è il blues. Legata indissolubilmente al suono
delle parole, alla pronuncia che di queste ci regalano Charley Patton o
Bessie Smith, Ishmon Bracey o Peetie Wheatstraw. Un legame cosí stretto
da rendere inefficace qualsiasi tentativo di trascrizione: senza la voce che lo
dice, e con quella struttura cosí ripetitiva, il blues vive nel momento, nella
performance, nel corpo a corpo instauratosi tra cantore e ascoltatore. Su
carta, inevitabilmente la sua suggestione trascolora, impallidisce, quasi
scompare. Proprio come poesia sonora, alla trascrizione dei testi del blues
dovrebbe essere accompagnato un supporto sonoro. Tra l’altro, come si
trascrive il testo di un blues? La tecnica usuale non rende certo attraente la
strofa.

I’m gonna buy me a banty, put him in my back door (×2)


’Cause he see a stranger coming, he’ll flap his wings and crow.

Una simile trascrizione annulla tensioni e dinamiche interne. Non tiene


conto delle prese di fiato del cantante, né della divisione dei versi nella loro
originaria scansione di mezzi versi, come avrebbe fatto Langston Hughes
nelle sue poesie di matrice bluesistica:
I’m gonna buy me a banty
put him in my back door
I’m gonna buy me a banty
put him in my back door
’Cause he see a stranger coming
he’ll flap his wings and crow 10.

Ma, al di là di ogni possibilità di iscrizione, i blues sono una delle


matrici piú forti – se non la piú forte – della poesia afroamericana del
Novecento. Forse verrà davvero il giorno in cui, come si augurava Franklin
Rosemont, il surrealismo dimostrerà che Peetie Wheatstraw o Robert
Johnson sono poeti come e piú di T. S. Eliot o Robert Frost o Allen
Ginsberg. Nel frattempo, sarà utile osservare come i blues siano penetrati
nella poesia, e nella cultura, afroamericana.

9
«Me ne sto qui seduto a chiedermi se una scatola di fiammiferi conterrà i miei vestiti | Me ne sto
qui seduto a chiedermi se una scatola di fiammiferi conterrà i miei vestiti | Non ho cosí tanti
fiammiferi ma ho di certo molta strada da fare».
10
«Mi comprerò un gallo, e lo metterò davanti alla porta sul retro | Mi comprerò un gallo, e lo
metterò davanti alla porta sul retro | Perché quando vede uno straniero che s’avvicina, sbatte le ali e
fa rumore».
Capitolo ottavo
Figure (2). Blues Poetry. Langston Hughes e Sterling Brown

Nonostante le sue umili origini e la sua natura spesso formulaica e


ripetitiva, il blues ha rappresentato una delle risorse piú floride e uno dei
giacimenti piú ricchi per la cultura afroamericana. A esso si sono rivolti
poeti e scrittori alla ricerca di strumenti e simboli potenti, di forme e figure
adatte a descrivere una peculiare e particolare visione del mondo:
soprattutto, un sapere profondo e antico, un codice inalienabile attraverso il
quale filtrare esperienze ed espressioni, un prisma interpretativo adatto a
leggere e rileggere il presente.
Strumentale, e funzionale, è stata la simultaneità di due fenomeni assai
importanti: da un lato, l’esplosione fonografica del blues, dal 1920 in poi;
dall’altro, l’inizio di un movimento, deciso e decisivo, di riformulazione e
risistemazione delle coordinate culturali e sociali del popolo afroamericano
avviato da un gruppo di valorosi intellettuali – poeti, scrittori, musicisti –
ricordato sotto la generica definizione di Harlem Renaissance. In quel
quartiere di New York venne avviata la prima grande riflessione
sull’identità nera dell’epoca post-schiavista, accompagnata da una
straordinaria fioritura di sperimentazioni artistiche tendenti a mescolare, e a
saldare, la primitiva forza dell’espressività afroamericana con le correnti
piú moderne delle arti contemporanee. Nel corso di un luminosissimo
ventennio Harlem divenne la fucina culturale di un intero popolo, alla
ricerca di sé e del proprio posto-nel-mondo.
All’interno di questo fervore culturale, poeti e scrittori iniziarono a
misurarsi col blues; non soltanto con le sue formule e gli schemi rigidi,
spesso riutilizzati in quanto tali, sebbene destinati alla pagina scritta e non
al canto, quanto con la piú ampia declinazione di motivi, temi,
rappresentazioni. Dai campi di cotone del Delta, dai bordelli di New
Orleans fino ad Harlem, il blues si trasforma in peculiare e inimitabile
forma d’arte. In poesia.

1. Black and beautiful: i blues di Langston Hughes.


Quando, nel 1927, per i tipi di Alfred Knopf veniva pubblicato Fine
Clothes to a Jew, Langston Hughes era già una delle voci piú innovative
della letteratura americana. Ma quel volume fece di lui il primo autore a
trasformare l’idioma del blues, le sue risorse linguistiche e le sue
suggestioni sonore in versi poetici. Un percorso che l’autore aveva a lungo,
e accuratamente, preparato e pianificato, studiandone le insidie cosí come le
avvincenti prospettive.
Il blues, come accennavamo introducendo il capitolo, è una forma
essenzialmente orale, che va ascoltata piuttosto che letta. La sua dimensione
è puramente aurale, si crea e si consuma nell’ascolto: per questo, il
trasferimento di tecniche, strutture e formule tipicamente associate al blues
sulla pagina scritta può creare uno sfasamento, uno straniamento, una
distorsione prospettica. Non soltanto: considerando il verso poetico del
blues, staccandolo quindi dalla sua controparte musicale – che non è un
semplice accompagnamento, quanto una componente essenziale – se ne
violenta, in qualche modo, la natura stessa, la forma profonda, la radice che
lo vede legato alla tecnica del call and response dei field holler, nonostante
la cristallizzazione della struttura operata dalle prime incisioni di “Ma”
Rainey, Bessie Smith, regine incontrastate della vita culturale di Harlem.
Un rischio, dunque, ma anche un’affascinante possibilità. Hughes
affrontò la questione ascoltando la voce del suo passato, della sua storia
personale, da una parte; dall’altra, facendo affidamento sulla sua
eccezionale capacità versificatoria e su una precisa, definita consapevolezza
culturale e sociale, dunque politica. L’aveva infatti già scritto, preparando il
suo colpo piú a effetto, l’assolo che zittisce la sala:

Noi giovani artisti creativi Neri intendiamo ora esprimere la nostra identità nera
senza paura o vergogna. Se i bianchi gradiscono ne siamo felici. Se non è cosí, fa lo
stesso. Sappiamo di essere belli. E anche brutti. Il tamburo piange e il tamburo ride. Se
la gente di colore gradisce ne siamo felici. Se non è cosí, neanche il loro disappunto ci
preoccupa. Costruiamo i nostri templi guardando al futuro, forti come sappiamo essere,
e stiamo sulla vetta della montagna, liberi dentro noi stessi.

Hughes sembra voler rivendicare l’individualismo creativo come unica


guida estetica per l’artista nero. La sua storia, peraltro, non poteva certo
dimenticarla. The Weary Blues, la raccolta che gli diede visibilità nel 1926,
prende il nome da un blues che aveva ascoltato da ragazzo:

I got de weary blues


And I can’t be satisfied.
Got de weary blues
And can’t be satisfied.
I ain’t happy no mo’
And I wish that I had died 11.

Come scrive Arnold Rampersad nella sua biografia di Hughes:

Durante una visita a Kansas City si rese conto di un ulteriore aspetto della cultura
nera dal quale avrebbe attinto piú avanti sia come artista che come uomo. In un teatro
all’aperto in Independence Avenue, Hughes per la prima volta ascoltò il blues da
un’orchestra di musicisti ciechi. La musica pareva piangere, ma le parole in qualche
modo ridevano.

Due sono gli aspetti di rilievo. Il primo riguarda la tecnica; il poeta non
si limita, cioè, a riportare su carta la struttura di tre versi AAB (cfr. supra,
pp. 80 sgg.), tipica della stanza blues: ne replica anche la lingua dialettale, il
vernacolo afroamericano, quella selva di suoni duri e regole grammaticali
infrante. Non si tratta di una semplice caratterizzazione, o di una replica
fedele: è invece il tentativo consapevole, e coraggioso, di trasportare una
forma d’arte mobile e improvvisata sulla pagina senza alterarne i contorni,
senza modificarne gli attributi, e dunque riconoscendola per quello che è.
Hughes, naturalmente, impiega tecnica e sensibilità sopraffine per sopperire
alla mancanza dell’elemento musicale, e lo sostituisce con un meccanismo
semantico-narrativo meravigliosamente costruito. Meravigliosamente, e
rispettosamente. Un altro bellissimo esempio è questo:
I’m gonna walk to the graveyard
’Hind ma friend, Miss Cora Lee
Gonna walk to de graveyard
’Hind ma dear friend Cora Lee
Cause when I’m dead some
Body’ll have to walk behind me 12.

L’altro aspetto di rilievo è il cogliere, nel tessuto emotivo e poetico del


blues, la sussistenza, la contemporaneità dell’elemento tragico e di quello
comico: una scoperta fondamentale, insostituibile anche nel lavoro di Ralph
Ellison, che ne farà addirittura il nucleo essenziale della sua poetica; per
l’autore di Uomo invisibile, il blues è una forma d’arte funzionale e una
delle sue piú importanti funzioni è quella di offrire la possibilità di
trascendere il dolore. La parola chiave è trascendenza ed Ellison ne trova
evidenza nella struttura stessa del blues: la giustapposizione fra tragico e
comico dà al blues quella tensione sottesa ed è anche alla base della
funzione trascendentale. Cantando il dolore, e al tempo stesso ridendone, lo
si affronta trascendendolo, lo si mette sotto controllo e lo si depriva del suo
potere demoralizzante.
Fine Clothes to a Jew segna l’ascesa definitiva di Hughes nel
firmamento poetico afroamericano, grazie anche alla sua innovativa tecnica
di riproduzione del lessico, della natura formulare del blues. A questi temi,
tuttavia, lo scrittore sarebbe tornato quindici anni dopo. Shakespeare in
Harlem segna un passaggio ulteriore, forse definitivo; a cambiare non è
tanto la qualità e l’applicazione tecnica, quanto lo sguardo, l’angolazione.
Se quindici anni prima i blues di Hughes si innestavano nella consolidata
tradizione del rapporto uomo-donna, ora si sono fatti politici, e parlano
dello sfruttamento economico del blues da parte dei bianchi, e del loro
tentativo di alienare al nero anche la sua cultura.

You have taken my blues and gone-


You sing ’em in Hollywood Bowl
And you mixed ’em up with symphonies
And you fixed ’em
So they don’t sound like me.
Yep, you done taken my blues and gone.
You also took my spirituals and gone.
You put me in Macbeth and Carmen Jones
And all kinds of Swing Mikados
And in everything but what’s about me-
But someday somebody’ll stand up and talk about me,
And write about me-
Black and beautiful
And sing about me,
And put on plays about me.
I reckon it’ll be
Me myself!
Yes, it’ll be me 13.

È evidente la scommessa stilistica: forzare la forma blues per accedere a


un piano narrativo piú dinamico nel quale conservare sia la profonda e
inesauribile capacità afroamericana di produzione di immagini e storie, sia
la rapidità, la secca e spigliata vena ritmica del blues cantato. Il risultato
complessivo della poetica hughesiana è entusiasmante. Ne rende bene la
grandezza Yusef Komunyakaa:

Sembra che Hughes si sia riproposto di portare via la poesia dalla pagina e lanciarla
nell’aria che respiriamo; desiderava portare la poesia nella vita di tutti i giorni. In
sintesi, voleva che i suoi canti blues emulassero l’improvvisazione presente nelle vite
degli Afroamericani:
To fling my arms wide
In the face of the sun.
Dance! Whirl! Whirl!
Till the quick day is done.
Rest at pale evening…
A tall, slim tree…
Night coming tenderly
Black like me 14.

2. «Sing yo’ song»: Sterling Brown e le voci del blues.


Intellettuale a tutto tondo, poeta e teorico, Brown dedicò al blues molte
delle sue energie. Ne scrisse a piú riprese, provando a coglierne il
perimetro, a individuarne la natura profonda contro le generalizzazioni che
da tanta parte dell’opinione pubblica bianca – e fasce abbastanza estese
della nuova borghesia nera – tendevano a banalizzare l’esperienza storica e
sociale sottesa alle dodici battute.
Come storico, Brown aveva le idee chiarissime: per lui il blues era il
frutto dello spirito creativo di un popolo, non la semplice testimonianza
discografica che l’industria spacciava come tale. Blues come sapere e
codice condivisi, schema di riferimento irrefutabile. Al tempo stesso, però,
lo scrittore era in grado di giocare una partita assai rischiosa sul piano delle
appartenenze, come quando divise, con rigore e forza, i domini secolari da
quelli religiosi, nell’esperienza musicale e culturale afroamericana:

Da un punto di vista sociale, quindi, i blues dicono molto di un segmento della vita
dei Neri. È inesatto, tuttavia, considerarli totalmente rivelatori del folklore nero, o del
folklore trapiantato nelle città, o delle classi sociali piú basse in generale. I blues
rappresentano il secolare, il profano, laddove gli spirituals e i gospel rappresentano il
religioso. Gli studiosi di folklore e di musica jazz sottolineano la somiglianza dei canti
religiosi con i blues. Ma ogni tipologia attira principalmente un certo gruppo. Molta
gente di chiesa non ha intenzione di ascoltare e non desidera avere dischi di blues in
casa. La maggior parte della classe media nera prova disgusto per i blues, naturalmente.
I pochi a essere interessati lo sono diventati per via delle interconnessioni fra jazz e
blues. Alcuni Neri non sono piú vicini al blues di quanto lo sia la Rapsody in Blue di
Gershwin.

Come poeta, il suo piú alto compito fu quello di elevare la stanza blues e
tutte le forme vocali afroamericane al livello di vere e proprie categorie
formali: utilizzandole nei suoi versi le accolse come riferimento ultimo,
conservandone la freschezza e l’autenticità. Nei suoi blues, cosí come in
quelli di Hughes, l’utilizzo del vernacolo è sentito come inevitabile. Il
contrario costituirebbe un tradimento.

Il dialetto, o il modo di parlare della gente, è capace di esprimere qualsiasi cosa di un


popolo. E il Nero è molto piú di un buffone o di un malinconico menestrello. I poeti piú
decisi a imparare come vive la gente, come parla, come si comporta, vale a dire, i poeti
migliori, potrebbero aver frantumato lo stampo. Ma prima di tutto dovrebbero credere in
ciò che stavano facendo. E questo era complicato in un periodo di mediazione e di lotte
della classe media per ottenere riconoscimento e rispetto.

In Southern Road, la sua raccolta piú famosa, Brown mette a reagire tutti
gli elementi che, da studioso accorto, ha rilevato nel tessuto del blues, nello
spirito che ne articola lo svolgimento. «Il blues, per me, è resistenza; è
stoicismo, è franchezza. Ecco perché piace ai ragazzi: perché vuol dire
essere onesti verso i fatti della vita».
A questi, e al modo in cui vengono vissuti dalle comunità afroamericane,
Sterling Brown, assieme a Jean Toomer (l’autore di Cane), dedicarono
molte delle loro energie creative: Toomer utilizzando, e rinnovando,
svariate forme espressive, Brown concentrandosi piú sul blues, sia come
struttura versificatoria che come elemento scatenante di immagini, visioni,
culture, anche politiche, come nella celebre The New Saint Louis Blues.
Quando Brown abbandona la forma del verso blues attinge ai suoi
significati piú ampi, alle rappresentazioni del mondo che esso veicola.
L’esempio che piú ci piace ricordare è il poemetto Ma Rainey, nel quale
Brown contestualizza l’importanza della cantante analizzandone non la sua
musica, o le sue celeberrime interpretazioni, ma il significato profondo che
la sua figura aveva nelle esistenze di chi assisteva ai suoi spettacoli. Il fine
ultimo era, evidentemente, la creazione di una letteratura afroamericana che
riconoscesse come padri fondatori i protagonisti del blues: esecutori e
ascoltatori, imprescindibili gli uni dagli altri, come le voci dal blues.

O Ma Rainey,
Sing yo’ song;
Now you’s back
Whah you belong,
Git way inside us,
Keep us strong…
O Ma Rainey,
Li’l an’ low;
Sing us ’bout de hard luck
Roun’ our do’;
Sing us ’bout de lonesome road
We mus’ go… 15.

11
«Ho un blues stanco | E non posso essere soddisfatto. | Ho un blues stanco | E non posso essere
soddisfatto. | Io non sono piú felice | E vorrei essere morto».
12
«Andrò al cimitero | Seguendo la mia amica, Miss Cora Lee | Andrò al cimitero | Seguendo la
mia amica, Miss Cora Lee | Cosí quando muoio | Qualcuno mi seguirà».
13
«Hai preso i miei blues e te ne sei andato. | Li canti a Hollywood Bowl | E li hai mescolati con
le sinfonie | E li hai sistemati (in modo) che non sembrano piú miei. | Sí, ti sei proprio preso i miei
blues e sei andato via. | Hai preso anche i miei spirituals e sei andato via. | Mi hai messo in Macbeth e
Carmen Jones | E in tutte le tipologie di Swing Mikados | E in tutto tranne che nelle cose che mi
riguardano. | Ma un giorno qualcuno si alzerà e parlerà di me, | E scriverà di me. | Nero e bello | E
scriverà commedie su di me. | Credo che sarò | Proprio io! | Sí, sarò io».
14
«Spalanca le braccia | Al sole | Danza! Volteggia! Volteggia! | Fino a quando non sarà terminato
il veloce giorno. | Riposati quando arriva la pallida sera… | Un albero alto, sottile… | Giunge
dolcemente la notte | Nera come me».
15
«O Ma Rainey, | Canta la tua canzone; | Ora che sei tornata | Nel posto a cui appartieni, | Fatti
strada dentro di noi, | Mantienici forti… | O Ma Rainey, | Piccola e minuta; | Cantaci della malasorte |
Che ci sta attorno; | Cantaci della strada solitaria | Che dobbiamo percorrere…»
Capitolo nono
Figure (3). Il blues nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

L’apparizione di Crazy Blues, di Mamie Smith, sebbene non sia stato il


primo disco di blues a essere pubblicato, come abbiamo visto, segna un
momento fondamentale nella storia dell’arte e dell’intrattenimento
americano. Da un lato, testimonia a un largo pubblico di afroamericani
l’esistenza di un genere musicale profondamente legato alle radici della
black culture; dall’altro, apre di fatto una nuova nicchia per l’industria
dell’intrattenimento: quello dell’acquirente di colore, fino ad allora
semplicemente ignorato dalle dinamiche promozionali e dalle strategie di
mercato.
Quel disco, però, inaugura una nuova storia del blues: un nuovo flusso
parallelo di nomi e fatti, avvenimenti e circostanze, spesso contrastanti con
quanto gli storici della musica afroamericana hanno ricostruito e raccontato.
Nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cioè, il blues mostra una faccia
diversa, i cui tratti sono disegnati da personaggi che quasi mai entrano nel
disegno virtuoso complessivo (in nessuna storia del blues certi musicisti
campioni di vendite vengono considerati altrettanto importanti dal punto di
vista artistico, secondo un certo canone costruitosi nel corso degli anni
Sessanta). Come abbiamo già visto, tutta una serie di dati e informazioni
non è stata accuratamente presa in carico dagli studiosi, per la ragione che
non è il mercato a fare la storia estetica di un genere musicale quanto,
appunto, l’adesione a un canone. Eppure, con questa storia seconda,
laterale, prima o poi bisognerà fare i conti.

1. Le macchine parlanti.
Le prime registrazioni pensate esclusivamente per l’intrattenimento
furono prodotte a partire dall’ultimo decennio del secolo, ma l’impedimento
maggiore alla loro diffusione era costituito dalla dimensione e dal prezzo
dei fonografi, i cui primi modelli erano impraticabili e costosissimi.
L’immissione sul mercato di macchine piú agili, e abbordabili, causò
un’impennata delle vendite, e il fonografo si rivelò determinante per il
divertimento della middle class bianca. Come acutamente nota Tim Brooks:

Il fonografo era un piccolo giocattolo per la media borghesia bianca, e nell’America


del 1890, rigidamente segregata, nessuno fu sfiorato dall’idea che questo mass medium
potesse penetrare nelle classi inferiori del sistema sociale. Nessuno, tranne le case
discografiche, costrette a trovare soluzioni alternative per sopravvivere. Un dollaro è un
dollaro, e molti tra i primi imprenditori del settore capirono che i loro clienti bianchi
avrebbero speso dei soldi per essere intrattenuti da artisti neri attraverso i juke box, e
che almeno qualche nero avrebbe pagato per ascoltare la “loro propria” musica.

Mamie Smith, si diceva. Secondo molti, Crazy Blues rappresenta la


prima registrazione di una voce afroamericana della storia. Non è cosí.
Dall’invenzione del primo fonografo – grazie al genio di Thomas A. Edison
– al 1920, l’anno dell’esordio discografico della Smith, molti, anche se non
numerosi, furono gli artisti di colore ad avere l’opportunità di una
registrazione, nonostante la chiusura, quando non l’aperta ostilità, delle case
discografiche: queste iniziarono a produrre centinaia di registrazioni in
molte lingue (dal cinese al cecoslovacco), ma ignorarono a lungo la musica
dei neri e le loro espressioni artistiche.
Il primo afroamericano a essere registrato – anche se l’attribuzione non
può essere definitiva e certa – fu George W. Johnson, un musicista di strada
che ebbe un paio di grandi successi e divenne uno dei musicisti piú noti del
suo tempo. Quando la tecnologia permise il passaggio dai cilindri di cera ai
dischi, altri neri si affacciarono alla ribalta dell’industria discografica.
Provenivano in maggior parte dal circuito del vaudeville e dei tent show,
come l’Unique Quartette e lo Standard Quartette. Al mondo del minstrels
show, invece, apparteneva Louis “Bebe” Vasnier, molto popolare a New
Orleans, dov’era nato, e in tutta la Louisiana.
Ma il passaggio decisivo si ebbe all’inizio del secolo, quando
l’avanzamento tecnologico riguardò la manifattura dei fonografi. La Victor
iniziò nel 1902 la produzione di macchine parlanti (vennero proprio
chiamate talking machines) il cui costo era decisamente piú abbordabile.
Talmente abbordabile che nell’arco dei dieci-venti anni successivi esse si
diffusero anche tra gli strati meno abbienti; in quasi ogni misera baracca
nelle piantagioni del Mississippi c’era una macchina parlante Victrola, e
qualche disco a 78 giri. Ciò provocò, evidentemente, la nascita di un nuovo
mercato, la cui esistenza, però, venne riconosciuta con molta, molta
lentezza. Gli afroamericani, cioè, possedevano l’hardware, sul quale girava
solo software bianco. Scrive Brooks:

Sebbene le etichette discografiche bianche fossero favorevoli a registrare artisti neri,


cercavano quelli che ritenevano in grado di attirare il pubblico bianco. Curiosamente, il
pensiero prevalente era che i neri non rappresentassero un mercato degno di attenzione,
cosí che certi generi musicali, reputati di nessun interesse per la maggioranza bianca,
furono ignorati […]
Nel 1915 il violinista Clarence Cameron White scrisse alla Victor, sollecitando la
compagnia a registrare i musicisti classici di colore. La compagnia rifiutò, sostenendo
che il pubblico nero non avrebbe sostenuto i propri musicisti, e che i bianchi cercavano
soltanto l’eccellenza (sottintendendo che gli artisti di colore non fossero bravi
abbastanza). L’anno dopo, il «Chicago Defender», un giornale per lettori afroamericani,
promosse una campagna per capire quanti neri possedessero un fonografo, affinché
l’informazione convincesse le compagnie discografiche ad assecondare i loro desideri.
Ma non se ne cavò nulla.

In verità, all’appello del «Chicago Defender» non ci fu nessun seguito,


né mai il giornale tornò sull’argomento. L’unica copia disponibile alla
consultazione nell’archivio digitale del magazine è danneggiata, proprio in
corrispondenza dell’articolo, quindi non è dato sapere cosa esattamente
contenesse, al di là di quanto citato (e poi ripreso) da altri studiosi. La
sensazione è che non fosse un appello, quanto un’inserzione pubblicitaria.
Qualunque cosa fosse, non si hanno dati precisi, o anche generici, sulla
diffusione delle macchine parlanti tra la popolazione di colore; secondo
molte testimonianze e rimemorazioni, non era difficile trovare uno di quegli
apparecchi nelle case dei neri.
Allo sviluppo di un software indirizzato esplicitamente al nascituro
mercato dei neri contribuí in misura determinante la Victor, che oltre a
costruire fonografi dominava il settore della produzione discografica. Nel
suo catalogo aveva già trovato posto l’eccellente Bert Williams, uno degli
artisti di colore piú noti a Broadway, ma l’evento che cambiò il corso delle
cose fu il successo del primo (anche in questo l’attribuzione è problematica)
disco di jazz, pubblicato dalla Victor nel 1917. Le due facce incise dalla
Original Dixieland Jass Band, sebbene di scarso valore artistico, resero
evidente la presenza di un cospicuo numero di uomini e donne di colore
pronti a spendere il proprio denaro per ascoltare, in casa propria, qualcuno
che suonasse la “loro” musica.
Facile a dirsi, molto meno a farsi. Le strategie delle case discografiche
pensate da bianchi non erano in grado di capire, comprendere e orientarsi in
una musica considerata volgare e squallida. C’era bisogno di persone che
conoscessero quel mondo, e quella musica. E che, possibilmente, avessero
la pelle scura.

2. Il cigno nero.
Mamie Smith, ancora e sempre lei. Attorno alla sua voce scaltra e
rapinosa, ai suoi dischi cosí veloci nel conquistare inimmaginabili
popolarità e fette di mercato, ruota molta parte della protostoria del blues su
disco. Perché sí, è vero, Crazy Blues (preceduto dalle già buone vendite di
That Thing Called Love, nel luglio del 1920) fu un successo inaspettato, ma
le cose furono leggermente piú difficili e complicate di come le si racconta.
Perry Bradford, un afroamericano proprietario di un negozio di musica, era
convinto della bontà delle sue composizioni; ancor di piú confidava
ciecamente nella bravura di Mamie Smith nell’interpretarle. L’idea era
giusta: irrompere nel mercato con un prodotto di grande qualità, in grado di
affrancare la musica afroamericana da quel guazzabuglio di coon song,
vaudeville e canzoncine buffe e dialettali in cui l’establishment era stato
abile a rinchiuderla. L’unico problema era quello di trovare una casa
discografica disposta a credere nell’operazione. La ricerca fu febbrile e
stancante: nonostante l’appoggio di Bert Williams, Bradford consumò due
paia di scarpe, come ricorda nelle sue memorie, collezionò una serie infinita
di insulti e porte in faccia (fors’anche di peggio), fin quando Fred Hager,
manager della OKeh, non acconsentí all’operazione. Hager, all’epoca
direttore musicale dell’etichetta, dovette respingere una forsennata attività
di dissuasione da parte degli stessi impiegati della ditta: lettere minatorie,
minacce di boicottaggio. Seppe resistere, il buon Hager, e il resto è storia.
Come è storia il fatto che la OKeh, fondata da Otto K. E. Heinemann, un
tedesco trapiantato negli States, si impose come la prima grande etichetta
discografica per il mercato afroamericano; grazie al successo di Mamie
Smith, e nell’intenzione di intensificare lo sfruttamento di quella inattesa
vena aurifera, Hager e il suo boss si affidarono a produttori e talent scout di
colore – Clarence Williams, pianista di grandi doti, per esempio – affinché
segnalassero artisti e autori di talento.
Le condizioni, dunque, erano favorevoli affinché potesse essere fondata
la prima compagnia discografica interamente gestita da neri. A capo della
Black Swan, questo il nome scelto per l’intrapresa, c’era Harry Pace, uno
dei personaggi piú affascinanti e complessi che la cultura afroamericana
abbia mai prodotto. Intellettuale raffinatissimo (all’università era stato
allievo prediletto di W. E. B. Du Bois, e per qualche tempo insegnò greco e
latino), attivo politicamente (fondò la prima sede, ad Atlanta, del NAACP , la
National Association for the Advancement of Colored People, una lega in
difesa dei diritti civili, nata nel 1909 su iniziativa, tra gli altri, dello stesso
Du Bois), Pace aveva a cuore anche le espressioni culturali dei suoi fratelli.
A Memphis incontrò W. C. Handy, e con lui costituí una società di edizioni
musicali, attraverso cui proporre alle case discografiche le opere di Handy,
naturalmente, e di altri autori afroamericani ignorati dal sistema produttivo
bianco. Quando la ditta si trasferí a New York, Pace e Handy dovettero
scontrarsi con una discriminazione ferocissima. Sulla spinta
dell’indignazione, Pace decise di mettersi in proprio, e iniziò a cullare il
progetto di fondare una sua società, la Pace Phonograph Company, che vide
la luce nel gennaio del 1921, con lui e un impiegato come forza lavorativa.
Nel maggio dello stesso anno il brillante imprenditore creò l’etichetta Black
Swan (in onore della piú importante cantante lirica afroamericana del
tempo, Elizabeth Taylor Greenfeld, nota appunto come “il cigno nero”), e
rese nota la sua politica culturale ed economica: «Black Swan nasce per
soddisfare una, crediamo, legittima e crescente domanda. In questa terra ci
sono dodici milioni di uomini di colore, e in questo numero si nasconde una
enorme quantità di talento e abilità musicali». Non era dunque soltanto una
questione economica e imprenditoriale: l’attività della casa discografica, nei
piani di Harry Pace, avrebbe dovuto svolgere un ruolo di indirizzo
nell’opinione pubblica, consentire un miglioramento delle condizioni dei
neri, essere un piccolo, ma potente mezzo per combattere la
discriminazione e la segregazione. Che il problema razziale fosse
eminentemente di natura economica, peraltro, Pace l’aveva capito da
tempo; fu per questo, quindi, che Black Swan fu interamente gestita da
afroamericani: dal presidente al consiglio di amministrazione (nel quale
sedettero Du Bois e altri personaggi di spicco della nuova borghesia di
colore) fino all’ultimo dei fattorini, la forza lavoro impiegata era
orgogliosamente nera. Gli aspetti piú propriamente musicali furono affidati
a Fletcher Henderson, il bandleader che di lí a qualche anno avrebbe
inventato il linguaggio orchestrale del jazz, e William Grant Still, che
sarebbe diventato tra i piú importanti compositori neri di musica colta.
Pace si industriò per inserirsi nella competizione scritturando Ethel
Waters, Alberta Hunter e Trixie Smith; il catalogo dell’etichetta, però, non
fu mai esclusivamente incentrato sul blues: anzi, la volontà era quella di
dare la piú ampia rappresentazione possibile dei talenti degli afroamericani
nel campo della musica, senza distinzioni di genere. Fu comunque il settore
del blues a procurare i maggiori incassi, grazie ai quali le finanze della
Black Swan poterono prosperare, almeno per qualche tempo.
I tempi stavano cambiando, per tutti. Cigni e brutti anatroccoli.

3. I dischi per la razza nera.


Con l’intensificarsi della pubblicazione di dischi prodotti da artisti di
colore per gente di colore, si iniziò a sentire l’esigenza – nella puritana e
tutto sommato ancora giovane società statunitense, diffidente a priori nei
confronti della musica, vista come arte minore, e ancor piú dei fonografi,
utili solo per riprodurre la grande musica classica, e non la chiassosa musica
moderna – di un termine in grado di identificare quella produzione, senza
equivoci. La OKeh aveva già utilizzato la formula “Colored Catalog”; fu la
stessa compagnia, poi, a usare l’identificativo di Race Records in inserzioni
pubblicitarie nei mesi successivi. Quella definizione – orribile, ma usata e
accettata da tutti – segnò per anni i dischi di musica nera. Come un marchio
d’infamia.
Infamia che, peraltro, sul nascente e vieppiú crescente interesse verso il
blues e la musica religiosa nera, i media bianchi riversarono non senza
acribia. I race record venivano tollerati come una brutta malattia, un
inevitabile contrattempo. Proprio mentre la Paramount – altra etichetta che,
come vedremo, avrà un’importanza capitale nella storia del blues riprodotto
– si affacciava decisamente sul mercato, la stampa sferrò un attacco
memorabile. Non si limitarono, i cronisti dell’epoca, a paragonare i race
record a un piccolo tumore, a una ferita che sfigura un bel volto. «È un
mondo completamente diverso dal nostro. Il modo di cantare è terribile, la
musica è spazzatura; quella roba può piacere solo a loro», scrisse un
rivenditore della OKeh di Saint Louis. Sulle colonne del «Talking Machine
Journal», invece, si potevano leggere articoli di questo tenore:

Centinaia di cantanti di “razza” hanno invaso il mercato con quello che è


generalmente considerato il peggior contributo alla causa della buona musica che sia
mai stato inflitto al pubblico. I testi di molti di questi “blues” sono peggiori della piú
infima burla e le melodie mancano di originalità, di ritmo aggraziato e di ogni
sembianza di una musica dignitosa.

Per navigare in un mare cosí agitato le case discografiche interessate al


mercato degli afroamericani avevano bisogno di un management il cui
desiderio di profitto fosse in grado di superare la non facile linea del colore,
come la chiamava Du Bois, e di dirigenti di colore abili nel capire in
anticipo, e in profondità, dove reperire artisti e repertorio. Il successo di
Bessie Smith, dominatrice delle vendite dal 1923 in poi, è sintomatico; la
cantante fu scoperta, cosí sembra, da Frank Walker, un impresario bianco
appassionato di hillbilly, che l’aveva sentita cantare in un localino. Quando
Walker fu ingaggiato dalla Columbia, una major del mercato discografico,
per avviare il catalogo di race record, si ricordò della grande Bessie e la sua
prima operazione fu proprio di registrarla. Con un colosso come la
Columbia sul mercato, Paramount, OKeh e la Black Swan, i cui successi
conobbero però un repentino rallentamento, iniziarono a contendersi la
leadership del settore.
La Paramount individuò con grande anticipo la possibilità di sfruttare le
musiche nere; M. A. Supper, a capo della divisione vendite, si era mosso in
anticipo: l’idea gli venne dopo aver constatato i successi della Black Swan:
questi erano la dimostrazione che oltre all’offerta esisteva una forte
domanda. Sebbene avesse già in catalogo musicisti di colore (Lucille
Hegamin, W. C. Handy) Supper decise di dedicarne una parte al blues e al
gospel. Mentre la Columbia registrava estensivamente Bessie Smith e Clara
Smith (nessuna parentela fra le due), Paramount si affidava ad Alberta
Hunter, e la OKeh a Sara Martin, brava ma non in grado di competere.
C’era bisogno di nuovi talenti, e di qualcuno in grado di individuarli.
Supper allora si affidò a J. Mayo Ink Williams, una delle personalità piú
avvincenti e controverse, ma decisive nello sviluppo del blues registrato (si
veda oltre, nel capitolo successivo). Grazie alle sue idee, e al fortissimo
impulso che seppe dare all’azienda, la Paramount inondò il mercato di
nuove proposte e di artisti eccellenti; nel 1924, sfruttando il successo di
Mamie Smith, l’etichetta fu in grado di produrre un disco di musica nera a
settimana, infittendo un catalogo le cui dimensioni assumevano caratteri
importanti, soprattutto dopo l’acquisizione della Black Swan.

4. Il canto del cigno.


L’etichetta di Harry Pace pubblicò il suo ultimo disco nell’estate del
1923. Molte le cause alla base del suo fallimento. Innanzitutto,
un’espansione economica, secondo molti osservatori, spericolata e precoce.
Grazie al successo di Ethel Waters, Pace aveva non solo spostato uffici e
assunto nuovo personale, ma anche rilevato un impianto di fabbricazione di
dischi, grazie al quale ammortizzare le spese di produzione e poter vendere
servizi a terzi, esponendosi a un investimento rischioso. Fu il momento, non
l’idea, a essere sbagliato: il successo della Black Swan aveva motivato,
come abbiamo visto, altre etichette a cimentarsi nel settore dei race record,
con conseguente aumento della concorrenza e restrizione dei profitti. Infine,
ma questo valeva anche per gli altri competitori, il successo su larga scala
della radio causò una crisi del mercato discografico, con conseguente
contrazione delle vendite, almeno nel primo momento di affermazione del
nuovo mezzo. Infine, Pace fu travolto dall’accusa di aver – nonostante la
sbandierata politica dell’all blacks – prodotto dischi incisi da bianchi sotto
pseudonimo.
Black Swan fu rilevata dalla Paramount, dunque, e il mercato assunse
una conformazione piú precisa, con Paramount e OKeh ai vertici e
Columbia a inseguire. Era però un mercato che non offriva sbocchi, e in
evidente situazione di stallo creativo: nonostante si fosse già compresa
l’importanza di cercare nuovi talenti fuori dai confini delle grandi città, a
essere registrate erano in larghissima parte cantanti di blues professioniste,
provenienti cioè dal circuito dei teatri e del vaudeville. Il primo musicista a
rompere questa dittatura fu Papa Charlie Jackson, un suonatore di banjo e
cantante che si era fatto le ossa nei minstrel show. Il suo fu un successo
immediato e di buona durata, tanto che la Paramount produsse suoi dischi
anche negli anni successivi. Ma a fare la fortuna dell’etichetta fu il suo
sistema di vendita per corrispondenza: al di là del fatturato, essa dava la
possibilità a chi abitava lontano dalle grandi città di avere un contatto, di
stabilire una relazione, di segnalare musicisti o cantanti particolarmente
abili. Fu grazie a una segnalazione che il nome di Blind Lemon Jefferson
arrivò sul tavolo di Mayo Williams.

5. La scoperta del blues rurale.


Sam Price era un pianista di talento (avrebbe inciso buoni dischi, in
seguito); all’epoca, metà degli anni Venti, lavorava in un negozio di musica
di Dallas, ed ebbe l’intuizione di scrivere una lettera al direttore artistico
della Paramount affinché reclutasse Blind Lemon Jefferson, un musicista
che aveva ascoltato da bambino, a Waco, e che aveva piú volte visto a
Dallas, dove era solito attraversare tutta la città a piedi suonando per le
strade o in piccoli locali dove poter raccogliere mance e spiccioli. Mayo
Williams, desideroso di bissare il successo di Papa Charlie Jackson, non si
fece sfuggire l’occasione, sebbene la clamorosa diversità di Jefferson
rispetto a tutto quello che era possibile ascoltare su disco o per radio gli
suggerí una giu sta prudenza. In effetti, quella voce roca e diseducata, quel
ritmo chitarristico saltellante e ipnotico, quell’espressività cosí ruvida,
autentica, aliena non erano facili da registrare e immettere sul mercato. Ma
la scommessa fu vinta e Blind Lemon Jefferson vendette con continuità fino
alla fine del decennio.
L’emersione di quel formidabile e misterioso talento ebbe una serie di
ripercussioni decisive, sia di ordine pratico che di carattere estetico e
filosofico. Innanzitutto, il successo indiscutibile di Jefferson scatenò una
smodata caccia all’oro, dove il metallo prezioso era rappresentato da
musicisti altrettanto sconosciuti e magari piú bravi di Blind Lemon. Di
fatto, dopo anni di blues professionistico, gli americani avrebbero
conosciuto un nuovo blues, originale e vero. A sua volta, il blues rurale
avrebbe smesso di essere musica di intrattenimento, eterea e improvvisata,
eventuale e situazionistica, per entrare nel novero delle inscrizioni: la
registrazione permetteva sí la diffusione, ma privava il musicista di un
pubblico reale cui raccontare storie, occhi da guardare e gambe da far
ballare. Il blues su disco si caratterizzava come strano ibrido, capace di far
vivere il blues altrove, ma anche di anestetizzarlo. In altre parole, sanciva la
fine di un modello di trasmissione orale, folklorico, per inaugurare una fase
commerciale, diffusiva, di puro profitto.
Emissari, talent scout, appassionati, etnomusicologi (come vedremo nel
dettaglio piú avanti) si riversarono allora in tutto il Sud degli Stati Uniti, in
cerca di bluesmen. Ma, nel frattempo, il business vero era costituito dalla
musica religiosa afroamericana: non solo il gospel dei raffinatissimi
quartetti vocali, ma soprattutto sermoni e prediche, accompagnati da canti e
musica, rappresentavano un sicuro investimento. Il caso piú eclatante fu il
successo del reverendo J. M. Gates, scritturato dalla Columbia, i cui dischi
andarono letteralmente a ruba. La ricerca, allora, divenne duplice: si
setacciava il Sud del paese per trovare bluesmen e uomini di chiesa: i dischi
si rivolgevano al medesimo pubblico. Per moltissima gente di colore, cioè,
ascoltare gli uni o gli altri rappresentava lo stesso tipo di esperienza. Né ci
fu il bisogno, da parte delle case discografiche, di istituire cataloghi
appositi: «Race Records» era l’etichetta adatta a contenere sia il sacro che il
profano, sia la musica sacra che quella del diavolo. In qualche modo, era la
stessa musica; se non altro, aveva lo stesso pubblico.
Fu proprio per questa strana e formidabile commistione che venne alla
ribalta la figura del predicatore girovago: una sorta di bluesman, che si
esprimeva come un bluesman, suonava e cantava come un bluesman, ma le
sue canzoni trattavano argomenti religiosi. Oggi, una simile ibridazione
potrebbe sembrare assurda, se non addirittura sacrilega, ma per la cultura
degli afroamericani il sacro ha sempre flirtato col secolare, il religioso col
profano; l’importante è che la musica – sia essa nata nei bordelli o in chiesa
– sappia avvicinare l’ascoltatore al proprio dio. Il gospel moderno non è
altro che la medesima tattica elevata a potenza: chiunque abbia fatto
l’esperienza – straordinaria – di ascoltare un coro gospel avrà ascoltato
moderno rhythm and blues, con influenze, e spesso arrangiamenti, jazz, e
sfumature di rap e hip hop; negli Usa è ormai fiorente il mercato della
cosiddetta Christian Music: declinata nei modi piú impensabili (anche il
rock duro, o il pop piú melenso), ha una funzione, assolta la quale non si
pone dubbi di origine stilistica. Tra gospel e blues, in verità, la relazione,
come abbiamo visto, era piú stretta, e il pubblico afroamericano non incline
alle nette suddivisioni di genere; a queste neanche molti bluesmen posero
grande attenzione, se è vero che molti di loro iniziarono da predicatori
evangelici girovaghi, o lo diventarono in seguito.

6. Blues explosion.
Il triennio dal 1927 al 1930 rappresentò il picco massimo della
produttività discografica in chiave blues e gospel. Le grandi etichette, cui si
erano aggiunte Gennett e BBC (acronimo di Brunswick-Balker-Callender,
aveva rilevato la Vocalion, mentre la Columbia aveva assorbito la OKeh nel
1926), si spartirono il Sud del paese come fosse il tabellone di una partita a
Risiko.
La Columbia setacciava la zona di Atlanta, con risultati certamente
interessanti. Frank Walker mise a segno i primi colpi scritturando Barbecue
Bob, nome d’arte col quale fu lanciato Robert Hicks (che poi registrò col
suo vero nome brani di carattere religioso); poi diversificò l’offerta
scritturando un eccentrico musicista, Washington Phillips, e un evangelista
girovago, Blind Willie Johnson, uno dei musicisti piú misteriosi e
affascinanti della musica afroamericana. La Victor, invece, affidatasi al
geniale Ralph Peer, scandagliava sistematicamente l’area di Memphis, dove
Peer – oltre a registrare musicisti di hillbilly e country bianco – scovò la
Memphis Jug Band, e in seguito tre fondamentali bluesmen come Tommy
Johnson, Frank Stokes e Ishmon Bracey. La Paramount, invece, non si
spostava da Chicago, dove chiamava a registrare i musicisti segnalati. A
capo del suo catalogo dei race record non c’era piú Mayo Williams:
l’ambizioso dirigente aveva dapprima fondato una sua compagnia (Black
Patti, dal nome d’arte della soprano Sissieretta Jones, forse la piú
importante cantante classica di colore della storia), al fallimento della quale
era stato assunto come talent scout dalla Vocalion; per la sua nuova etichetta
Williams registrò Jim Jackson, un istrionico entertainer che si era fatto le
ossa nei medicine show: Jim Jackson’s Kansas City Blues, registrato sulle
due facciate dello stesso disco, fu un successo immediato e clamoroso.
La grande espansione, i picchi di vendite, la diffusione della race music,
la sua capacità di penetrare un mercato assai codificato, e tutto quello che
un simile assetto determinò, suggerirebbero una prima lettura del fenomeno.
Se è vero che mai come in questo momento la black music è merce pregiata
– perlomeno dal punto di vista della produzione di profitto – è pur vero che
nei primi, decisivi sette anni di riproducibilità tecnica il blues vero, quello
cioè afferente al canone sul quale si è costruita la storia delle sue forme e
dei suoi sviluppi, semplicemente non c’è. Tranne pochi casi – Stokes,
Bracey, Tommy Johnson, Blind Blake e, naturalmente, Blind Lemon
Jefferson – i dischi prodotti riguardano generi musicali che con il blues
confinano, che con esso condividono le stesse radici, ma che poco
assomigliano all’idea di blues consegnata all’immaginario collettivo da
decenni di ricostruzioni storiche canoniche. Il disco, in definitiva, racconta
una storia diversa, in cui i grandi del blues appaiono come visitatori casuali
di un fenomeno nel quale i confini tra generi musicali sono molto piú
confusi e labili di come oggi siamo abituati a considerarli; una storia
diversa in cui non c’è differenza – per il pubblico afroamericano, ovvero il
referente privilegiato per il quale quella musica viene creata ed eseguita –
tra canzoni novelty, sermoni e quartetti vocali, sciocche filastrocche da
minstrel show e le allucinate elaborazioni dei bluesmen del Mississippi, o
tra questi ultimi e la cantanti professioniste dei primi anni Venti; una storia
in cui ai bluesmen del Mississippi i talent scout e i discografici bianchi
chiedono di registrare solo blues perché hanno bisogno di vendere quel
particolare prodotto, e non perché i bluesmen non sappiano suonare altro;
una storia, infine, in cui generi musicali, se percepiti come vicini, o simili, o
assimilabili dal pubblico per il quale sono stati creati, evidentemente
devono avere piú di qualche punto di contatto, e di qualche affinità.
Se si esclude Lonnie Johnson, il prodigioso chitarrista a suo agio in ogni
possibile contesto (dal blues downhome al jazz), che vendeva con regolarità
da almeno un lustro, gli ultimi anni del decennio si consumarono in
un’apoteosi di piccoli e grandi colpi di scena. Il piú importante fu la
scoperta di Charley Patton, il piú profondo, geniale e autentico interprete
del blues del Delta; a scoprirlo fu H. C. Speir, talent scout per la Paramount,
al quale si deve, in buona sostanza, il merito di aver scovato una serie
infinita di tesori musicali (al suo palmarès vanno aggiunti i nomi di Son
House e di molti altri, come vedremo). Patton incise, dal 1929, sessantasei
brani di buon successo per la Paramount. Niente di paragonabile, però, ai
due colpi messi a segno dalla Vocalion grazie alla lungimiranza di Mayo
Williams. Leroy Carr, un pianista di Indianapolis, con Scrapper Blackwell
che lo accompagnava alla chitarra, segnò un hit clamoroso al suo primo
tentativo, How Long How Long Blues. Ma a creare vero e proprio
scompiglio fu l’altra intuizione di Williams, il duo formato da Hudson
Whittaker, meglio noto con lo pseudonimo di Tampa Red, e Georgia Tom,
nome d’arte sotto cui si celava Thomas Dorsey (colui che, pochi anni dopo,
avrebbe posto le fondamenta del gospel moderno). La loro musica –
eccezionalmente frizzante, allusiva, sensuale, divertente, ammiccante,
ballabile e spensierata – aprí le porte a una produzione piú urbana, cittadina,
in cui il ritmo, elemento spesso solo implicito nelle performance dei grandi
bluesmen del Delta, giocava un ruolo essenziale e predominante. Non a
caso, per contrastare il successo di Tampa Red si puntò su piccole band,
come i geniali Mississippi Sheiks, o gli Hokum Boys: compagini dal suono
piú contemporaneo, attuale, nervoso e, sorprendentemente, in qualche modo
vicino alle pronunce ritmiche del country bianco.

7. La crisi.
Neanche Tampa Red fu in grado di evitare il collasso del mercato
conseguente alla grande crisi del ’29. Il decennio si aprí, dopo la sbronza
dei tre anni precedenti, su uno scenario impensabile: enorme contrazione
delle vendite, una società americana avvilita e infiacchita dalla depressione,
piccoli o piccolissimi margini di manovra. L’ecatombe, di fatto, era
questione di giorni. La prima a cedere fu la Paramount, seguita da un
nugolo di piccole altre etichette. Chi resisteva, grazie a un catalogo
previdente pieno di brani vivaci o denso di hit dell’ultimo biennio, provò a
giocare ancora qualche carta (la fantastica Memphis Minnie, Big Bill
Broonzy), ma erano tempi duri per tutti.
Dopo un complicatissimo gioco di accorpamenti, fallimenti e
acquisizioni, nel ’34 la mappa delle etichette discografiche impegnate nei
race record era drammaticamente cambiata (troppo, per darne conto in
questo nostro breve resoconto). Non cambiò, invece, il desiderio di scovare
nuovi artisti e dare nuovo impulso al mercato. Mayo Williams produsse due
musicisti dalle grandi potenzialità di vendita: Amos Eastman, i cui dischi
vennero pubblicati con lo pseudonimo di Bumblee Bee Slim, e Peetie
Wheatstraw, uno tra i piú geniali, e inquietanti, bluesman della storia.
Il 1937 fu l’anno della ripresa. I dischi ricominciavano a vendere, la
fiducia aveva sostituito l’ansia, e il pubblico desiderava una musica vivace,
spensierata. Si andava ormai imponendo il modello chicagoano, quello di
Tampa Red, per intenderci, ma la fine di quel decennio fece in tempo ad
assistere alla fugacissima apparizione di un talento infinito. Robert Johnson
fu scoperto da Speir, che prima gli fece un provino nel suo negozio, poi ne
consigliò la scrittura alla ARC . Le ventinove tracce incise da Johnson, che
ebbero un discreto successo, segnano di fatto la fine di un’epoca, e l’inizio
di un’altra. Rappresentano, cioè, la transizione tra il mondo rurale del blues
e il suo definitivo abbandono – stilistico, perlomeno – da parte dei
bluesmen successivi, e indicano il punto di non ritorno di tutto l’apparato
leggendario e misterico che col blues aveva sempre camminato fianco a
fianco. Non era però piú tempo per quelle diavolerie: il pubblico impazziva
per Washboard Sam, abilissimo suonatore di un’asse da bucato percossa
con dei ditali metallici, e già si prefigurava una musica diversa. Diversa dal
blues, a sua volta cosí diverso e simile da tutto il resto; e che a tutto quel
resto, in qualche modo, assomigliava in maniera davvero diabolica.
Capitolo decimo
Figure (4). Bluesbusters. Storie di talent scout, ricercatori, collezionisti e
visionari

Bluesbusters, ovvero gli “acchiappa-blues”. Se oggi possiamo ascoltare


il blues delle origini, i brani tradizionali sopravvissuti nelle prigioni, le
fulminanti esecuzioni dei grandi del Delta, e ne conosciamo le storie, le
idee, i pensieri; se oggi la vicenda del blues è ampiamente documentata su
dischi e antologie e alla portata di qualunque tasca e di qualunque mano; se
molti dei grandi interpreti del passato sono stati recuperati dal nulla di
piccoli villaggi dove nessuno sapeva chi fossero. Se, insomma, il blues oggi
è quel corpus di incisioni, studi e riflessioni che conosciamo nel modo in
cui lo conosciamo, il merito è di un manipolo di individui assai
bizzarramente assortito: ciascuno, con il suo bagaglio di conoscenze,
determinazione, ossessione, fiuto commerciale, ha contribuito
all’edificazione delle fondamenta dell’idea di blues.
A cominciare dai talent scout; spediti dalle etichette discografiche nel
Sud degli Stati Uniti a setacciare un mercato potenzialmente ricchissimo, e
armati solo del proprio orecchio e del colpo d’occhio, questi pionieri –
negozianti, appassionati, produttori – riuscirono nell’impresa di registrare
Charley Patton, Blind Lemon Jefferson, Robert Johnson, Blind Blake e tutti
i piú grandi musicisti downhome, dando cosí all’accezione “commerciale”
del blues riprodotto una patina di formidabile importanza.
Accanto a loro, e spesso contemporaneamente, si muovevano i
ricercatori, gli etnomusicologi, gli studiosi del folklore, desiderosi di
documentare le radici della musica popolare americana (quella che si
manifestava al di fuori delle logiche di mercato), di ricostruirne la genesi e
custodirne gli esiti attraverso una generosa e decisiva serie di field
recordings, registrazioni effettuate sul campo senza alcuno scopo che quello
della documentazione di pratiche ed espressioni artistiche rurali. La seconda
generazione di etnomusicologi, poi, è quella che, concentrandosi
esclusivamente sul blues, ha prodotto i primi studi scientificamente rigorosi,
e le prime visioni d’insieme.
La terza categoria – sebbene ognuna di esse condivida tratti e fisionomie
con le altre – è assai particolare: è quella, cioè, dei bluesbuster veri e propri:
quell’esercito di appassionati e visionari che, agli inizi degli anni Sessanta,
in pieno blues revival, percorse il Sud in lungo e largo per rintracciare i
grandi maestri del Delta, usciti prematuramente fuori scena e da tutti
dimenticati.
L’ultima, infine, ma non la meno importante, è rappresentata dai
collezionisti di dischi. Mossi, talvolta, da un’insana passione, hanno
sottratto al macero e alla distruzione decine di migliaia di 78 giri, bussando
di casa in casa. Da quei vecchi acetati, recuperati spesso fortunosamente,
sono state poi realizzate le ristampe attraverso cui possiamo ascoltare le
dodici battute lungo tutto l’arco del XX secolo.
Gente bizzarra, senza dubbio. E meravigliosa.

1. Cacciatori di talenti.
Tranne che in qualche caso, i loro nomi sono assolutamente sconosciuti
anche agli appassionati. Il piú famoso, come abbiamo visto, fu
probabilmente J. Mayo Williams, l’afroamericano che dopo aver portato ai
vertici del successo nel campo dei race record la Paramount, avviò una
carriera in proprio, come discografico, prima, come talent scout per altre
etichette, poi. Fama, la sua, che deriva dal fatto di essere stato il primo nero
a ricoprire un ruolo dirigenziale in una etichetta controllata da bianchi, e
probabilmente il piú importante produttore di blues nella fase pionieristica
dell’industria discografica. Personaggio di successo, fu agitato da mille
contraddizioni: afroamericano borghese, appassionato piú di football che di
musica (è stato inserito nella Hall of Fame della palla ovale, mentre il suo
amico Fritz Pollard di lui diceva: «Di musica non capisce nulla»), in un
periodo in cui l’indifferenza, o anche l’antipatia, verso il blues era diffusa
tra i neri beneducati, Williams mantenne l’eretica opinione che il blues
rappresentava un aspetto importante dell’eredità razziale. Quando i suoi
amici beffardamente si riferivano a lui e al suo seguito di bluesmen come
“Mayo Williams e i suoi cani”, lui rispondeva: «I miei sono cani di razza».
Abile nel trattare con il suo capo, Supper, al quale anda va bene qualunque
musica o artista vendesse molti dischi, e nel districarsi nelle logiche
aziendali, Williams interpretò il ruolo del talent scout in maniera, invero,
piuttosto statica: non si muoveva mai dal suo ufficio, in pieno South Side a
Chicago, aperto dalle dieci alle cinque; sosteneva che andare in certi
bordelli dove gli segnalavano pianisti di grande bravura fosse troppo
pericoloso. Erano gli artisti a dover andare da lui, e lui non negava
un’audizione a nessuno. A patto, però, che il cantante non fosse
sgrammaticato, volgare, o si comportasse in modo imprevedibile o
disdicevole: in quelle circostanze il produttore l’avrebbe allontanato,
segnandosi il nome in una poco invidiata lista nera. Negli anni successivi
Williams si mostrò molto meno sedentario e dotato di un acume assai
moderno nell’interpretazione del suo lavoro, come quando, di fatto, creò ex
novo una band piuttosto importante come gli Harlem Hamfats. Il suo
contributo alla storia del blues è stato decisivo, anche se incostante e
leggermente eccentrico.
Fondamentale, invece, è stato il ruolo giocato da Henry C. Speir, un
allampanato signore proprietario di un negozio di musica a Jackson,
Mississippi. Per dirla con le parole di Gary Wardlow, lo studioso che lo
rintracciò con la stessa meticolosità come fosse stato un bluesman del
Delta, «Speir ha rappresentato per il country blues degli anni Venti e Trenta
ciò che Sam Phillips ha rappresentato per il rock and roll degli anni
Cinquanta: un visionario musicale. Non ci fosse stato lui, le piú importanti
risorse naturali del Mississippi non sarebbero state sfruttate». A muovere il
talento di Speir non fu l’ambizione, né il desiderio di scalare le gerarchie
sociali (era bianco, e tanto bastava): piú modestamente, il buzzo degli
affari; nel piano superiore del suo negozio aveva installato un registratore e
per cinque dollari stampava un disco test in acetato col provino
dell’aspirante musicista. «Vanity recordings», li chiamava: dischi il cui
unico scopo era soddisfare la vanità del cliente, come una bella foto, o un
bel vestito. Ma quando Speir, nelle sue continue esplorazioni del territorio,
si imbatteva in musicisti interessanti – per lui, che cresciuto nel Mississippi
aveva sviluppato un certo orecchio per la qualità – proponeva loro di
realizzare un test gratis. Gli acetati, poi, li spediva alle case discografiche, e,
in base a questi, Paramount, Brunswick, OKeh decidevano di produrre i 78
giri. Per questo, Speir si definiva non un talent scout quanto piuttosto un
“talent broker”, una sorta di mediatore tra i musicisti e l’industria. Ma era
troppo modesto: a lui si deve la scoperta di tutti i piú grandi bluesmen del
Delta: Charley Patton nel 1929 (e attraverso questi Son House), Ishmon
Bracey e Tommy Johnson nel 1927, Skip James nel 1930. Al contrario di
Mayo Williams al tempo della Paramount, Speir si muoveva molto, alla
ricerca di talenti. Come ricorda Wardlow:

Andava in giro in cerca di talento. Eh, sí, era sempre a caccia. Aveva sentito parlare
di Charley Patton probabilmente attraverso Bo Carter, aveva sentito dire che era
veramente bravo. Cosí andò alla piantagione di Dockery in cerca di Charlie e gli fece
fare una audizione. Quindi lo portò a Jackson, lo mise su un treno che lo portò a
Chicago, da Chicago a Richmond, Indiana. In quel periodo la Gennett Company di
Richmond, Indiana, la Star Piano Company, stampava i master per la Paramount, perché
quelli della Paramount erano di qualità scadente. Pagavano, credo, 40 dollari a lato per i
master, in quei giorni, e gli stessi venivano poi spediti nel Wisconsin, e se ne ricavavano
i dischi. Dunque Charlie andò prima a Richmond, Indiana, e registrò circa sedici
facciate. Poi verso dicembre del 1929, visto che i suoi dischi vendevano davvero bene,
la Paramount chiamò di nuovo Speir per poterlo registrare di nuovo. Questa volta andò a
Grafton, Wisconsin, dove avevano appena aperto un nuovo studio. La Paramount in quel
momento aveva la sede a Port Washington, ma loro registrarono a circa tre miglia di
distanza, a Grafton.

Non era facile fare dischi, all’epoca, come si vede. Eppure Speir ebbe
l’occasione di farlo in grande, e in prima persona. Fu quando il proprietario
della Paramount, nel 1930, gli propose di rilevare l’etichetta: magazzino e
presse. Tutto, per una cifra abbordabile: 25 000 dollari. Speir non aveva
quel denaro (poco tempo prima aveva investito una somma simile in un
pozzo petrolifero, rivelatosi generoso e produttivo solo molti, troppi anni
dopo); tornò a Jackson, dove chiese aiuto a chiunque, Camera di commercio
compresa (avete idea di cosa avrebbe potuto significare una grande etichetta
discografica nel cuore del Delta guidata da un tipo come Speir?) Ottenne
solo rifiuti, purtroppo. La delusione, a ogni modo, non gli impedí di
continuare l’attività; mollò tutto solo nel 1944, quando, immalinconito
dall’anno e mezzo di blocco discografico imposto da Petrillo, il capo del
sindacato musicisti, ritenne l’industria discografica giunta al capolinea. Si
mise allora a vendere mobili. Non prima, però, di aver registrato nel piano
superiore del suo negozio il provino di un musicista abbastanza in gamba:
cantava in falsetto come Ishmon Bracey, ma aveva qualcosa di personale.
Ne segnalò il nome e l’indirizzo a Ernie Oettle, rappresentante di New
Orleans della ARC (American Recording Company), il quale convocò il
bluesman a San Antonio, Texas, nel novembre del 1936. Quel musicista si
chiamava Robert Johnson ed era entrato nel negozio di Speir per registrare
un disco da far sentire agli amici, per dimostrare a tutti quanto fosse bravo.
Come Elvis Presley.
Speir, nel corso della sua carriera di bluesbuster, incrociò piú volte Ralph
Peer, altro personaggio leggendario. Potremmo chiamarlo “il signore delle
camelie”: nell’ultima parte della sua vita, infatti, si dedicò anima e corpo al
giardinaggio e agli studi di botanica, tanto da divenire un luminare del
campo. Le camelie erano, appunto, il suo cavallo di battaglia. Ma anche nel
campo della musica Peer seppe raggiungere risultati di assoluta eccellenza;
anzi, la sua è una di quelle esistenze che gli americani definirebbero “larger
than life”: come altrimenti si potrebbe definire un uomo che supervisionò la
registrazione di Crazy Blues (e di molti altri classici del jazz e del blues); fu
il primo a registrare musicisti nel loro luogo di vita grazie a un rudimentale
studio di registrazione mobile inventato da uno dei geniali tecnici della
OKeh; decise di registrare ufficialmente tutti i musicisti dei quali Speir gli
mandava il test; setacciò il South degli Stati Uniti inseguendo bluesmen
misteriosi e le stelle del genere hillbilly; di fatto inventò il country bianco,
registrando e producendo i dischi di Fiddlin’ John Carson e della Carter
Family; scoprí jazzisti come Fats Waller e cantanti di blues come Sara
Martin; coniò il termine «race record»? Stancatosi del mercato discografico,
Peer fondò una società di edizioni musicali, grazie alla quale riuscí a
ottenere grandi ricavi nell’ambito dei diritti d’autore; al tempo stesso, però,
tenne aperto il suo catalogo a tutte le musiche: da Hoagy Carmichael a
Charles Ives, passando per il rock and roll, il blues e il jazz, Peer costruí il
primo esempio di ecumenismo musicale. Mica poco.
Nella famosa spedizione di registrazione ad Atlanta del 1923, con Peer
c’era Polk Brockman, che ad Atlanta ci viveva e per campare vendeva
mobili, almeno questo dicono le fonti. In realtà, vendeva dischi nel negozio
di mobili del padre, oltre a essere rappresentante della OKeh per il Sudest.
(Che si vendessero dischi in un negozio di mobili non deve stupire: per
almeno i primi venti anni del secolo i fonografi erano considerati
complementi d’arredo, e quindi venduti, con i relativi dischi, come tali). Fu
proprio costui a segnalare Fiddlin’ John Carson all’etichetta, e a far capire a
Peer l’importanza di quella scoperta. Brockman era meno dotato di Peer,
musicalmente (la moglie disse che l’unico suono che gli piaceva era quello
del registratore di cassa) e imprenditorialmente, sebbene sapesse usare le
macchine di registrazione, e non gli mancassero un certo fiuto e un sano
cinismo, come quando, presentendo l’affare, convinse il reverendo J. M.
Gates, dopo aver constatato il successo del suo primo disco, a incidere una
lunga serie di sermoni, poi pubblicati da cinque etichette diverse.
Di passaggio, va comunque segnalato che la nascita del country
modernamente inteso avvenne nel corso delle campagne di ricerca talenti
per irrobustire i cataloghi di race record. E, altrettanto di passaggio, non si
mancherà di considerare come Brockman (e Peer, nondimeno) fu
personaggio decisivo nella costruzione dell’identità della musica country, a
dispetto di una certa cupidigia e una tendenza all’ipersfruttamento dei
musicisti.
Peer e Brockman erano bianchi, ma questo non vuol dire che non ci
fossero talent scout di colore: erano solo molto meno numerosi, e spesso
facevano altri lavori (Clarence Williams, come abbiamo visto, era un
pianista di prim’ordine). Jesse Johnson, bluesbuster per la OKeh, prima, e
altre etichette in seguito, tra i cui tanti meriti c’è quello di aver dato un
contributo fondamentale alla costruzione della scena bluesistica di Saint
Louis, veniva da una famiglia piena di talenti: il fratello, James – detto
Stump per via della piccola statura – fu pianista di qualità, con all’attivo un
paio di buoni successi. Forse per quel tipo di esposizione fraterna Jesse
coltivò un debole per i pianisti: fu lui a scoprire l’eccellente Roosevelt
Sikes, il fenomenale Walter Davis e altri performer minori. Ma il suo fiore
all’occhiello fu senz’altro l’aver consegnato alla storia del blues riprodotto
la voce di Victoria Spivey; la cantante raccontò a Paul Oliver di essersi
recata al Deluxe Record Shop (il negozio di dischi che costituiva l’attività
primaria di Johnson) e di aver preteso di registrare un disco. Fu subito
accontentata, e di lí a breve la Spivey vide pubblicata la sua versione di
Black Snake Blues. Di fiuto Jesse Johnson ne aveva anche per le cantanti:
nel 1925 sposò Edith North, vocalist e pianista (tanto per chiudere il
cerchio) le cui registrazioni, sfortunatamente esigue, mettono in luce
un’artista completa, personalissima e assai originale.
2. La ricerca sul campo.
Ben prima che le presse stampassero Crazy Blues, studiosi e folkloristi
avevano inaugurato la stagione dei field recordings: registrazioni effettuate
sul campo, con apparecchiature portatili – e nei primi tempi poco o nulla
affidabili – per raccogliere in diretta, dalla viva voce dei protagonisti,
forme, espressioni, suoni e canti del popolo afroamericano. Il primo fu
Howard Odum, la cui ricerca produsse molto materiale cartaceo, articoli
accademici e libri, ma nessuna traccia sonora, dal momento che nulla di ciò
che il ricercatore registrò sui cilindri sembra essere sopravvissuto. I primi
suoni di quel mondo ci giungono, invece, dal lavoro pionieristico di
Lawrence Gellert, che a partire dal 1924 intraprese la raccolta di canti di
lavoro, field holler e piú in generale canti di protesta della gente di colore.
Attivista politico, esponente di spicco del movimento comunista, Gellert
provò a restituire un’immagine del popolo afroamericano diversa da quella,
ormai stereotipata, diffusa dagli stessi blues commerciali, raccogliendo (e
pubblicandone i testi) canti e musiche di aperta protesta, di rabbia e
ribellione, che mai nessun bianco avrebbe potuto ascoltare su disco o per
radio.
Il testimone di Gellert, nel tentativo di dimostrare che la musica folk
americana non fosse soltanto il retaggio di quella europea, fu raccolto da
John Lomax che, col figlio Alan, appena diciassettenne, nel 1933 intraprese
una delle spedizioni etnomusicologiche piú famose della storia. Partendo
dall’idea di realizzare un’antologia delle ballate e dei folk song americani,
Lomax prese in prestito dalla Biblioteca del Congresso (dove si era appena
dimesso Robert W. Gordon, altro importante ricercatore, il cui lavoro di
testimonianza fa il paio con quello di Gellert) l’apparecchiatura di
registrazione, la sistemò sui sedili posteriori della sua automobile, e partí
diretto a sud. Impossibile descrivere, anche solo sommariamente, i successi
straordinari che i Lomax misero a segno nell’arco dei loro viaggi.
L’intuizione che mosse le loro prime esplorazioni – cercare nei penitenziari,
luoghi solitamente isolati e meno raggiungibili dal mondo esterno – si
dimostrò talmente esatta da consentire loro non solo di accedere a un
repertorio, a forme, modelli e prassi di cui si ignorava l’esistenza, ma anche
di scoprire veri e propri talenti del blues. Come, e questa è storia assai nota,
Huddie William Leadbetter, piú noto col nome di Leadbelly. I Lomax lo
trovarono nel famigerato penitenziario di Angola, in Louisiana, dove
l’uomo stava scontando una pena detentiva (la seconda della sua vita) di
trentacinque anni. John Lomax prese molto a cuore la storia di Leadbelly e
si adoperò affinché il bluesman ottenesse la grazia con un pardon song, una
richiesta di grazia in musica; Leadbelly era già ricorso a questo
stratagemma: la prima volta aveva funzionato, funzionò anche stavolta. Da
uomo libero, il musicista divenne consulente, factotum e autista dei Lomax
nelle loro spedizioni di ricerca. Almeno fino al 1940, quando minacciò
Lomax padre con un coltello, e da quella volta i due non si rivolsero piú la
parola.
Se John Lomax rappresentava la tradizione di ricerca pura, il cui scopo
era principalmente quello di preservare le espressioni folkloriche prima
della loro scomparsa o che fossero irrimediabilmente compromesse dalle
musiche moderne, Alan Lomax è stato una delle figure piú innovative,
brillanti e centrali dell’etnomusicologia del XX secolo, disciplina alla quale
la sua instancabile produzione ha dato fondamentali contributi. Volendoci
limitare solo al blues, l’attività di ricerca, di analisi, di testimonianza di
Alan Lomax è stata indirizzata non soltanto alla scoperta di forme e
musicisti (il caso piú eclatante è la registrazione del giovane Muddy Waters,
quando ancora vive nelle piantagioni di cotone Stovall, vicino a
Clarksdale): lo studioso ha provato, verso la fine della sua carriera, a fare il
punto dei suoi numerosi viaggi, delle sue innumerevoli registrazioni in un
libro importante, The Land Where Blues Begun, nel quale convoglia le sue
idee e il suo punto di vista; questi non sempre sono condivisibili, ma
restano punti cardinali per una piú profonda, o alternativa, ricostruzione
storico-estetica. Come intervistatore, poi, Lomax registrò ore e ore di
chiacchierate con grandi musicisti: celeberrima quella con Jelly Roll
Morton, il cui risultato complessivo, però, mostra come l’etnomusicologo
tendesse a forzare la direzione del discorso, a imprimere la sua visione delle
cose sovrapponendola a volte a quella dell’intervistato. Piccole macchie,
impercettibili difetti che, in una produzione enorme, vastissima e di
eccezionale ampiezza, sono quasi invisibili.
Con Lomax, ben presto nominato capo dell’American Folk Song
Archive della Biblioteca del Congresso, e contemporaneamente a lui,
operarono altri notevoli ricercatori. John Weasley Work III nel corso degli
anni Quaranta realizzò un’importante raccolta di canti folklorici
afroamericani, ristampati recentemente in un formidabile CD (John Work
III: Recording Black Culture, prodotto da Evan Hatch per la Spring Fed
Records) e fu, con altri due docenti della Fisk University (Charles Johnson
e Lewis Jones) autore di una ricerca di decisiva importanza per la
conoscenza e la comprensione dell’ambiente nel quale il blues è nato e si è
sviluppato. In collaborazione con Alan Lomax, i tre impostarono un lavoro
di ricerca sul campo in una delle comunità afroamericane piú importanti
nella nascita del blues, Clarksdale e la contea di Coahoma. Volevano
misurare in che modo il crescente grado di urbanizzazione avesse cambiato
la fruizione di musica della popolazione; scoprirono che nei juke-box nei
bar per neri dell’intera zona si ascoltavano i grandi classici dell’epoca
(Count Basie, Fats Waller, Louis Jordan), come in un qualsiasi altro luogo
di Harlem o del South Side di Chicago. Non c’era un solo microsolco, in
quelle macchine, inciso da un musicista della regione. Nessuna
testimonianza concreta del fatto che proprio lí, non molti anni prima, forse
era nato il blues.
L’impagabile lavoro di Lomax e gli altri è stato poi continuato, sebbene
da prospettive e angolazioni affatto diverse, da un nutrito numero di
studiosi, ai quali si devono i primi seri studi sul blues e, soprattutto,
l’indicazione di un metodo e di una prospettiva. A Samuel Charters, e al suo
volume The Country Blues, pubblicato nel 1959, si attribuisce la paternità
dello studio sistematico del blues rurale, verso il quale indirizzò l’attenzione
e le ricerche di molti studiosi e appassionati. Il libro era accompagnato da
un album, realizzato dall’etichetta Folkways di Mose Asch, il cui scopo era
quello di riportare alla luce suoni, voci e blues che nessuno aveva mai, di
fatto, ascoltato. La compilazione fu effettuata tenendo conto dei musicisti
che piú avevano venduto nel periodo esaminato, e fu proprio quest’aspetto,
come vedremo piú avanti, a scatenare la reazione decisa di un manipolo di
collezionisti. Nel corso delle sue numerosissime ricerche sul campo
Charters ebbe la fortuna, e il talento, di scoprire, o riscoprire, musicisti a
lungo dimenticati, come Furry Lewis.
Di due anni piú anziano, e inglese di nascita, è Paul Oliver, il piú
importante storico del blues vivente. Di formazione artistica – è stato
grafico, ed è attualmente un’autorità in materia di architettura vernacolare –
lo studioso britannico ha imposto una sterzata decisa alle metodologie di
studio del blues, sorpassando le ricostruzioni, spesso poetiche e lievemente
imprecise, di Charters, per attingere a una profondità e completezza di
ricostruzione che ancora oggi rendono la sua The Story of Blues, tra le
migliori opere in circolazione. Oliver ha pubblicato moltissimo e, come
Charters, si è misurato con l’intero ventaglio delle problematiche legate al
blues: le origini africane, la lingua poetica, la differenziazione stilistica per
regioni. La sua produzione, le sue ricerche, le registrazioni sul campo
effettuate in anni di viaggi e ricerche costituiscono una pietra angolare,
ponendosi come inevitabile punto di partenza per gli etnomusicologi della
generazione successiva, come David Evans e Jeff Todd Titon.

3. Blues Mafia.
Sembrerà strano, ma del fiorente mercato discografico nato attorno al
blues tra il 1920 e il 1941, dei milioni di copie vendute, dei ricchi cataloghi
pubblicati dalle etichette discografiche all’inizio degli anni Cinquanta non
restava quasi piú nulla: a causa del deperimento della materia prima di cui
erano fatti i dischi, la gommalacca, la cui diffusione scarseggiò duramente
prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale; l’oblio generale nel
quale piombarono gli artisti un tempo famosi soprattutto nella propria
regione (come dimostra la ricerca nella contea di Coahoma cui si accennava
piú su); lo scarso interesse delle case discografiche a mantenere un archivio
dettagliato di chi e cosa fosse stato registrato e la sparizione, spesso dopo
due o tre cambi di gestione delle etichette discografiche medesime: per
questi, e altri, motivi – come la scomparsa fisica di alcuni tra i principali
protagonisti – il blues fu ricacciato in una sorta di dimenticatoio: una zona
oscura, relegata nei meandri di una rimemorazione flebile, quasi
inconsistente.
Per anni i 78 giri incisi da Charley Patton, Son House, Blind Lemon
Jefferson, per citarne solo un nugolo, scomparvero letteralmente dalla
scena, cosí come i musicisti che li registrarono. Se Patton e Lemon
Jefferson erano passati a miglior vita, di Son House nel 1950 non si sapeva
neanche se fosse ancora vivo; né si aveva una seppur pallida e approssimata
idea di che musica suonasse, o del colore della sua voce. E di quella di
Patton, Lemon Jefferson, Bracey, Tommy Johnson e gli altri. Nessuno
sapeva, tranne un piccolo e sparuto gruppo di strani e ossessivi personaggi,
accomunati da due, spesso insane, passioni: il blues e il collezionismo di
dischi. Non lo sapevano, ma grazie soprattutto alla loro opera le voci dei
grandi del blues sono giunte fino a noi.
Il primo si chiamava Harry Smith. Intellettuale prolifico, artista visuale,
antropologo a tempo perso, iniziò ben presto a raccogliere vecchi 78 giri; il
suo interesse era rivolto ai race record e alla produzione country e hillbilly,
e setacciando Seattle nei primi anni Quaranta riuscí in breve tempo a
mettere insieme una poderosa collezione, cui associava una profonda
conoscenza di musiche e musicisti, nonostante le scarse fonti a
disposizione. A New York, dove si era trasferito per sfuggire agli strali della
commissione McCarthy, in difficoltà economiche decise di vendere una
parte consistente della sua collezione a Mose Asch, per 35 centesimi a
disco. Ma tale e tanta era la qualità e la rarità del materiale che il
discografico chiese a Smith di compilare una robusta antologia. I sei long
playing della Anthology of American Folk Music, curati e annotati dal
collezionista, uscirono nel 1952 e rappresentarono un evento di formidabile
portata: costituirono, innanzitutto, l’inizio di quella che potremmo definire
archeologia sonora, voci e suoni che tornano alla luce dopo un’operazione
accurata e delicata di scavo e ritrovamento; nella loro ecumenicità – si
passa da Blind Lemon Jefferson alla Carter Family, per citare solo due
paletti di uno slalom costante tra blues e hillbilly – le scelte di Smith
desideravano testimoniare l’esistenza di un folk americano indivisibile, di
una sola musica in cui si mescolavano le tradizioni e le eredità africane ed
europee; infine, l’antologia indicava un metodo, un sistema, una possibilità:
sebbene il vero collezionista di blues fosse meno disposto a considerare
altre musiche al di fuori delle dodici battute, era il processo, la modalità
della ricerca e della pubblicazione a rappresentare un modello perseguibile.
Piú o meno contemporaneamente alla pubblicazione della corposa
antologia, un gruppetto di giovanotti iniziava a collezionare dischi. Nessuno
di loro, però, manifestava l’apertura d’orizzonte di Smith: erano
appassionati di blues, e cercavano solo dischi di blues, in un momento in
cui in giro ne erano rimasti davvero pochi. Pete Whelan nel ’52, Gayle
Wardlow nel ’54 iniziarono una vasta operazione di raccolta e recupero, la
cui modalità primaria era quella del porta a porta. L’idea era acuta: dove si
potevano trovare i vecchi race record se non nelle case dei neri che li
acquistarono e che non se n’erano ancora disfatti? La ricerca diede risultati
incoraggianti e, anche attraverso lo scambio con altri collezionisti, i due
riuscirono a costruire collezioni di un certo prestigio. Whelan, a New York,
divenne abituale frequentatore di una cerchia di appassionati, con i quali
discutere le proprie liste di ricerca, scambiare valutazioni e opinioni,
leggere le riviste dedicate al collezionismo; con Whelan c’erano Bernard
Klatzko, Nick Perls, per un breve periodo lo stesso Samuel Charters,
Stephen Calt, Don Kent, Lawrence Kohn, Ben Kaplan: avevano deciso,
scherzosamente, di chiamare Blues Mafia quella loro accolita; talvolta
venivano raggiunti da qualcuno del contingente di Washington, come Dick
Spottswood o Bill Givens. Di norma, si incontravano una volta alla
settimana, a casa di ciascuno: si faceva eccezione solo per James McKune,
il piú anziano e autorevole della compagnia, colui che per le conoscenze e
la strabiliante collezione era considerato il decano, il capo, l’esempio da
seguire; ma non potevano vedersi a casa sua, perché all’epoca McKune
abitava in una stanza dell’YMCA a Williamsburg; teneva i preziosi acetati
(non molti: trecento, ma tutti di primissima scelta) in una scatola di cartone
nascosta sotto il letto. Non era difficile incontrarlo al negozio di dischi di
Big Joe, un ritrovo di appassionati e feticisti; di solito il suo abbigliamento
prevedeva camicia bianca, pantaloni neri, calze bianche e scarpe nere, e
nessuno ricorda di averlo mai visto vestito in maniera diversa. Né era noto
ad alcuno da dove venisse, quanti anni avesse. Probabilmente, nacque
intorno al 1910, non a New York, dove arrivò in un momento imprecisabile;
di sicuro, aveva lavorato come redattore all’ufficio di Brooklyn del «New
York Times», per poi impiegarsi come portiere di un ostello e part time in
un ufficio postale. La fase del collezionismo iniziò piú o meno alla metà
degli anni Quaranta, quando ascoltò Charley Patton e decise di seguirne la
voce, come incantato. In tasca aveva sempre la sua “want list”: un elenco di
milletrecento dischi che sperava di poter possedere, prima o poi: l’aveva
pubblicata sul Record Changer, nel ’43, e anni dopo, sulle colonne dello
stesso giornale, qualcuno era disposto a pagare per quella lista quanto per
un raro 78 giri.
A scatenare l’azione della Blues Mafia fu la pubblicazione del libro di
Samuel Charters The Country Blues. L’autore, un tempo membro della
congrega, aveva chiesto aiuto ai suoi compagni “mafiosi”, affinché gli
permettessero di ascoltare alcuni rarissimi dischi presenti nelle loro
collezioni, e altrimenti irreperibili. Nonostante ciò, il libro, e l’antologia
discografica che l’accompagnava, nelle opinioni di McKune e dei suoi
accoliti, fallivano completamente il bersaglio nell’utilizzare il gusto degli
ascoltatori afroamericani come termometro della qualità di un certo artista.
A nulla era servito l’aiuto di Whelan e degli altri. Charters aveva tradito, e –
in un certo senso – doveva pagare l’affronto. L’offensiva iniziò con una
mossa a sorpresa di McKune: nonostante fosse il piú riservato, e incostante,
del gruppo, si mise in contatto con l’editore di «Vintage Jazz Mart» (per gli
amici, VJM ), una rivista inglese per collezionisti, al quale chiese spazio per
pubblicare una recensione del libro di Charters. Quello che doveva essere
uno scritto occasionale si trasformò in una rubrica fissa, intitolata The Great
Country Blues Singers, che McKune tenne fino al 1965. La prima puntata
iniziava cosí:

I collezionisti di cantanti di country blues Nero dovrebbero leggere ciò che segue. O
dovrebbero portarlo appuntato addosso perché gli altri possano leggerlo.
Questo saggio integra ciò che Sam Charters non ha detto, o non ha detto in maniera
esaustiva, nel suo libro The Country Blues.
Alla fine del suo libro Charters dichiara che era stato aiutato dall’ascolto dei dischi
blues di Pete Whelan, Pete Kaufman, Ben Kaplan. Ma da nessuna parte ammetteva che
il suo libro contraddiceva Whelan e me, o che poteva essere contraddetto da tutti gli altri
cultori del blues Nero primitivo.
Non pensiate che lo dica solo per lamentarmi. Ciò che Charters fece per i cantanti
autentici del country blues, lo fece bene. Ma scrisse numerose pagine sui cantanti del
blues popolare Blind Lemon Jefferson, Leroy Carr, Lonnie Johnson, Bill Broonzy,
Brownie McGhee, Lighting Hopkins.
Jefferson è un cantante di country blues. Fece molti dischi per la Paramount. Li ho
ascoltati tutti tranne cinque. Secondo la mia valutazione, basata sull’ascolto di dischi di
blues sin dal 1943, Jefferson fece un solo disco che può considerarsi grande: Jack O’
Diamond/Chock House Blues, in Pm 12373.
Lighting Hopkins è un cantante di country blues oggi. Ma ho dei dubbi sul fatto che i
suoi piú ferventi ammiratori possano affermare che fosse dello stesso livello di Blind
Lemon. Gli altri cantanti su menzionati, celebrati da Charters, al di là delle loro vendite,
non sono cantanti country.
Charters ha scritto il suo libro basandosi sulla vendita dei dischi. Questo avrebbe
senso, o potrebbe averne, se il libro fosse stato pubblicato per quei neri, di cinquant’anni
o piú, che avrebbero potuto cosí leggere tutto sui cantanti che loro stessi ascoltavano
trent’anni prima.
Pochi di questi hanno comprato il libro di Charters. È stato acquistato, direi,
soprattutto dai collezionisti di blues o dagli studiosi del folklore nero, potenziali
collezionisti di blues.
Questo è il punto fondamentale. Conosco venti persone che collezionano il country
blues nero. A tutti noi interessa sapere chi siano stati i grandi cantanti del blues country,
non chi abbia venduto di piú.
Rispetto a questo parametro, i cantanti che hanno venduto meglio, Charters può avere
ragione. Ma io scrivo per coloro che vogliono un riferimento di valutazione diverso per i
cantanti blues. Ed è la loro relativa grandezza, o competenza, come cantanti di country
blues.

La prima idea di canone blues nasce esattamente in questo momento, nel


momento in cui, cioè, un manipolo di collezionisti, straordinariamente
informati e in possesso di materiale altrimenti non ottenibile, che loro
soltanto possono ascoltare, propone una visione delle cose, orientando il
gusto. A farlo, però, non poteva essere la semplice, ma efficacissima,
invettiva di McKune. Serviva altro. E si materializzò poco dopo, quando
Whelan, insieme a un suo vecchio compagno di scuola, Bill Givens, creò la
prima etichetta dedicata esclusivamente alla ristampa di dischi country
blues degli anni Venti e Trenta, e le diede il nome di Original Jazz Library.
Il primo titolo del catalogo, con la celeberrima sigla OJL -1, fu dedicato
interamente a Charley Patton, colpevolmente ignorato da Charters; il
secondo, invece, fu provocatoriamente intitolato Really! The Country Blues,
e conteneva incisioni dei grandi bluesmen del Delta, quali Son House,
Tommy Johnson, Ishmon Bracey, Sam Collins.
Apparsi nel 1963, quei dischi provocarono una reazione a catena, quasi
una mobilitazione. Non soltanto assicurarono, nonostante le vendite non
fossero colossali, nuovi aficionados alla causa: furono in grado di
diffondere, per la prima volta dopo anni e anni, le voci dei grandi maestri
del blues. Si aprí allora un decennio di massimo fervore: un vero e proprio
blues revival, guidato dalle scoperte, dalle intuizioni, e dalle poderose
collezioni dei picciotti della Blues Mafia.
Nick Perls, per esempio, fondò nel 1967 un’etichetta che sarebbe
diventata fondamentale: la Yazoo. (Prima di lui, va detto, Pete Welding
aveva fondato la Testament, e Charles Strachwiz la Arhoolie, etichette
gestite da collezionisti e quasi esclusivamente dedicate al blues del Delta).
Iniziò a pubblicare l’anno successivo, con un programma assai piú serrato
della OJL : Perls non aveva nessun problema finanziario, essendo figlio di
una ricca coppia di galleristi e collezionisti di opere d’arte contemporanea.
Con le note di copertina di Stephen Calt ogni disco Yazoo rinforzava, come
un piccolo argine, il canone immaginato e costruito dai suoi amici. Nel
1979 Perls acquistò le collezioni di Whelan e Klatzko (che nel frattempo
aveva ridato vita a una vecchia etichetta non piú operante, la Herwin) e fino
alla sua precocissima morte per Aids, nel 1987 (aveva appena
quarantacinque anni), spese ogni microgrammo di energia per diffondere il
canone e investigare ogni angolo del pianeta country blues. C’era anche lui,
infatti, nella spedizione che il 23 giugno 1964 riuscí a ritrovare Son House,
del quale si erano perse le tracce da almeno vent’anni, a Rochester, nello
stato di New York, dove il bluesman viveva con la moglie. Perls, Dick
Waterman, fotografo e studioso, e Phil Spiro, un appassionato e bluesman
dilettante, misero fine a una ricerca durata mesi, per come fu raccontata in
un articolo a firma di Waterman sul «National Observer».
Il successo della spedizione mise in molti sulle tracce di bluesmen
scomparsi. O dei quali non si sapeva piú nulla. L’altro ritrovamento
eccezionale, quasi negli stessi giorni, fu quello di Skip James, a opera di
John Fahey (che con Ed Denson aveva già rintracciato Bukka White), Bill
Barth e Henry Vestine. Fahey, chitarrista con all’attivo già un disco per la
Fonotone di Joe Bussard, divenne un bluesbuster grazie a Dick Spottswood,
collezionista e studioso, che gli fece ascoltare – anche al telefono – un
brano di Blind Willie Johnson. Partendo da una labile traccia riuscirono a
trovare il bluesman a Tunica, dove era ricoverato in un ospedale. Henry
Vestine, anche lui chitarrista, avrebbe di lí a poco suonato con le Mothers of
Invention di Zappa, e partecipato alla formazione dei Canned Heat, la
celeberrima band che non solo prese il nome da un famoso blues di Tommy
Johnson, ma era composta da altri due collezionisti di blues come Al
Wilson e Bob Hite.
Mentre Tom Hoskins fu in grado di ritrovare Mississippi John Hurt, a
Gayle Wardlow si deve un’attività piú complessa e articolata. Egli, infatti,
non si limitò a rintracciare musicisti considerati scomparsi o dissolti nel
vuoto, come Ishmon Bracey, o a mettere insieme quella che oggi è
considerata la piú importante collezione di 78 giri di blues rurale al mondo;
Wardlow, sfruttando un indubbio fiuto per la ricerca documentale, è stato in
grado di trovare il certificato di morte di Robert Johnson, intervistare la
donna che era con lui nel corso della sua ultima notte, raccogliere una
massa di informazioni su Charley Patton (argomento, per altro, della tesi di
laurea di Fahey). E, come abbiamo visto, si deve a questo infallibile segugio
l’aver rintracciato H. C. Speir.
Nonostante l’accoglienza problematica da parte della Blues Mafia,
infine, il libro di Charters spinse sulla strada della ricerca etnomusicologica
George Mitchell, al quale si deve un eccellente lavoro di registrazione sul
campo di molti bluesmen famosi e non, tra i quali Buddy Moss, Peg Leg
Howell e Furry Lewis, musicisti che il folklorista recuperò da un profondo
oblio. Il meglio delle centinaia di ore di musica messe su nastro da Mitchell
è disponibile ora in una raccolta in ventisei CD pubblicata dall’etichetta Fat
Possum.

4. Gli angeli con il fonografo.


A scorgere attentamente i crediti nell’antologia di Henry Smith, si scopre
che il transfer dai vecchi 78 giri al long playing fu eseguito da un certo Joe
Bussard. Oggi, questo distinto signore risiede ancora a Frederick, nel
Maryland, dov’è nato settantadue anni fa. Nel piano interrato della sua
villetta conserva quasi trentamila 78 giri, una delle piú estese collezioni al
mondo. La sua è una storia di ordinaria ossessione, tanto da essere stata
filmata in un bellissimo documentario, dall’eloquente titolo Desperate Man
Blues.
Ma è una disperazione quieta, tranquilla. Nulla ha a che vedere con le
esistenze mancate dei grandi collezionisti raccontate da Evan Eisenberg:
Clarence, ormai vecchio e solo con ottocentomila dischi in casa, ammassati
dappertutto e neanche un buon impianto per ascoltarli; o il suo rivale, di
Brooklyn, che non può ascoltare la sua prodigiosa raccolta, forse la piú
vasta al mondo, perché è sordo.
Disperata, invece, fu la vita di James McKune, il decano, il capo
indiscusso della Blues Mafia, l’intellettuale dal quale tutto partí nel 1959.
Col passare degli anni iniziò a bere smodatamente, lui che era stato sempre
astemio; la sua omosessualità lo portava a frequentazioni non sempre
raccomandabili, e ormai sembrava aver perso la ragione. Lo si vedeva
passeggiare per strada, senza calze, con lo sguardo perso nel vuoto,
inseguendo chissà cosa. Nel 1965, alla fine della sua collaborazione con
VJM , abbandonò anche la stanza dell’YMCA , per rifugiarsi in un malandato
alberghetto, nei bassifondi. Quasi piú nessuno seppe piú niente di lui fin
quando, nel settembre del 1971, il suo corpo nudo fu trovato senza vita,
legato, in un albergo del Lower East Side. Gli inquirenti stabilirono che
McKune era stato ucciso da un uomo piú giovane di lui, apparentemente
agganciato per motivi sessuali. In tasca aveva solo una lettera di Bernard
Klatzko, e fu lui a essere avvertito. McKune pare non avesse parenti.
Della sua collezione non s’è mai piú trovata traccia.
Capitolo undicesimo
Figure (5). L’altra metà del blues

Lungo tutta la prima fase di registrazione, diffusione e popolarità, il


blues è una questione esclusivamente femminile. Sono le cantanti
provenienti dai teatri del vaudeville, e degli altri spettacoli itineranti, a
diventarne le celebrità piú immediate, ammirate e desiderate, a costituirne
l’immaginario, a rappresentarne la grana vocale. E l’avvento del disco ha,
probabilmente, soltanto accelerato e rivestito di una patina luccicante un
processo che proprio il sistema spettacolare itinerante aveva portato – prima
del fonografo, molto prima della radio – virtualmente in ogni angolo, anche
il piú remoto, della nazione. Certo, il disco consentiva la ripetizione, la
moltiplicazione della fruizione, del relativo piacere: permetteva un’idea di
possesso che il palcoscenico sembrava soltanto suggerire. Al tempo stesso,
però, privava della dimensione fisica, tattile: allentava la pressione della
voce, escludeva l’opulenza di scenografie e apparati, cancellava la
presenza, spesso indimenticabile, di queste indimenticabili vocalist.
Nell’eccesso della scena, e nel tripudio di spettacoli lunghi ore, la voce
delle cantanti ritagliava spazi in cui il pubblico e il privato sembravano
magicamente collassare l’uno nell’altro: voci potenti, capaci di farsi
percepire con chiarezza fino all’ultima fila di sedie, nelle tende o nei teatri,
sovrastando gli elaborati arrangiamenti dell’orchestra, il rumoreggiare
confuso e sordo della platea, stagliandosi nel totale sonoro con precisione
anche quando il blues richiedeva il sommesso mormorio di una frase
dolente e non la stentorea declamazione di versi piú robusti.
Nei loro blues, spesso frutto della propria creatività, queste splendide
protagoniste raccontavano, in fondo, se stesse: non avevano null’altro da
condividere con gli ascoltatori se non la propria esistenza, i vizi, le
stranezze, le storie d’amore quasi sempre malandate, gli episodi di violenza
e discriminazione. Lontane dall’etica della piantagione, ma non dalla
durezza della vita, alludevano a un presente articolato, duro, seppur
riscattato, nell’attimo smagliante e magico dell’esibizione, dall’opulenza
dei costumi e dalla fantasmagoria della scena. Era uno spettacolo,
dopotutto. E bisognava divertire.
Le regine di questa prima fase del blues provenivano tutte dalla
meravigliosa macchina produttiva, al tempo stesso periferica e
centralissima, delle compagnie itineranti; erano celebri e famose, applaudite
e apprezzate anche dall’America piú profonda e rurale; tutte avevano
un’impostazione vocale, una presenza scenica, un’abilità comunicativa tali
da renderle famose, seducenti, irresistibili. Quando entrarono per la prima
volta in uno studio di registrazione dovettero lasciare fuori della porta la
loro esuberanza, il personaggio che interpretavano sulla scena, la loro
dimensione fisica, per trasformarsi in pura voce, espressività naturale. Era
come cantare per un non vedente. E questo, in fondo, fece la differenza: le
piú abili a tradurre in carico vocale, in spessore emotivo, la loro potenza
scenica ebbero un successo travolgente; altre, seppur in possesso di ottimi
mezzi, restarono una voce tra le tante, un 78 giri qualunque dimenticato in
uno scatolone.
Tutte, tranne due. Le prime. Le piú misteriose.

1. Black Alfalfa. La strana storia di Ophelia Simpson.


Doveva fare un effetto particolare il canto di Ophelia, sugli spettatori del
medicine show del dottor Parker, nella Louisville di fine Ottocento. La
specialità della casa era un intruglio per curare la tenia, a base di alfalfa,
antico nome dell’erba medica; il vegetale andava cotto e preparato secondo
una ricetta evidentemente infallibile, tanto che il sedicente dottor Parker
riuscí ad accumulare una discreta fortuna vendendo il suo medicinale in
giro per il Kentucky e la valle dell’Ohio. Ophelia Simpson, per un salario di
cinque dollari alla settimana, cucinava, preparava l’intruglio, e cantava per
il pubblico. Ogni medicine show aveva due fasi ben distinte: quella
puramente spettacolare, oleo, in cui si esibivano diversi artisti, seguiva la
vendita vera e propria; nella carovana del dottor Parker, era la voce di
Ophelia, in arte Black Alfalfa, a catturare il pubblico con il suo modo di
cantare esacerbato, lacerante: bluesy, secondo la descrizione che ne fece
John Jacob Niles, al quale dobbiamo le poche informazioni sulla sfortunata
ragazza. Sfortunata perché quando Henry, il marito, fu trovato morto una
mattina d’inverno del 1898, dopo una violenta litigata, fu prelevata da due
guardie e imprigionata con l’accusa di averlo ucciso. Niles, a questo punto,
non è piú in grado di ricordare cosa accadde: se la donna fu liberata, dopo
un periodo di detenzione, o lasciata a marcire in un penitenziario. Sappiamo
solo che in carcere scrisse Black Alfalfa Jail-House Shouting Blues, tra i
primissimi esempi, se non il primo, di stanza blues col verso ripetuto e il
terzo in rima:

I ain’t got a friend in dis town


I ain’t got a friend in dis town
’Cause my New Orleans partner done turned me down
Po’ gal wishin’ for dat jail-house key,
Po’ gal wishin’ for dat jail-house key,
To open up de door and let herself go free.
Stony Lonesome no place for a dog,
Stony Lonesome no place for a dog,
Not even fitten for a razor-backed hog.
High Sheriff said: gal don’t be so blue,
High Sheriff said: gal don’t be so blue,
’Cause dat jail-house keeper goin’ to be good to you.
Jail-house keeper don’t matter to me,
Jail-house keeper don’t matter to me,
But tell me how high dat gallows goin’ to be.
Tole my rider fur to ride me slow,
Tole my rider fur to ride me slow,
And when he rode me fast I simply laid him low.
Put dat gun up beside of his heart,
Put dat gun up beside of his heart,
I said rough-ridin’ papa, we’re simply goin’ to part.
Lawyer said: gal, you better sing and pray,
Lawyer said: gal, you better sing and pray,
’Cause to-morrer dat Judgeman goin’ to put you away.
New Orleans partner why you don’t come back?
New Orleans partner why you don’t come back?
’Cause wid fifty dollars dat hangman’s rope’d slack.
Hangman, hangman, hang me slow,
Hangman, hangman, hang me slow,
’Cause dat rough ole rope is goin’ to hurt me so.
Wish I’d a-listened to what my mama said,
Wish I’d a-listened to what my mama said,
Next Monday mornin’ wouldn’t fine me dead 16.

La protagonista va incontro alla morte, per impiccagione,


rammaricandosi di non avere cinquanta dollari con cui provare ad
ammorbidire la corda del boia.
Di Black Alfalfa nessuno ha saputo piú niente, né alcuno si è dato la
pena di scavare in qualche polveroso archivio. Forse fu realmente
condannata a morte, come l’impaurita e disperata ragazza del suo blues,
forse fu liberata e inghiottita dalla paura e dal rimorso. Non lo sapremo,
forse, mai. Quel che resta è una toccante e suggestiva serie di versi: un
blues in piena regola, che lei sapeva cantare meglio di chiunque, grazie a
quello stile esacerbato e lacerante, come un grido.

2. Storyville blues.
Jelly Roll Morton, oltre a saperla lunga, aveva una memoria di ferro,
come anni di ricerche e documentatissime ricognizioni a posteriori hanno
dimostrato. I lunghi, entusiasmanti racconti che rese ad Alan Lomax nel
corso delle interviste per la Biblioteca del Congresso, piú che i
vaneggiamenti di un egocentrico erano testimonianze di prima mano,
racconti veritieri e precisi fatti da un autentico protagonista. Per essersi
incastonati nella memoria del formidabile pianista come gemme
risplendenti, i blues di Mamie Desdunes dovevano averlo proprio colpito. E
Morton non si lasciava colpire facilmente. Ma chi era, esattamente, questa
proto-blueswoman? Racconta il pianista:

Uno dei primi blues che abbia mai ascoltato l’ho ascoltato da una donna, che viveva
accanto alla casa di mia nonna, nel Garden District. Si chiamava Mamie Desdoumes.
Nella mano destra le mancavano le due dita centrali, e suonava con le tre che le
restavano. Suonava tutto il giorno un blues come questo, e cominciava la mattina presto,
appena si svegliava.

Anche Bunk Johnson, un valente trombettista addirittura al fianco del


leggendario Buddy Bolden, ricorda la cantante, come confidò ad Alan
Lomax:

Mamie Desdoumes la conoscevo bene. Ho suonato spesso con lei, e lei cantava
quegli stessi blues. Era una poco di buono. Una cantante blues, povera ragazza. Di solito
suonava, e bene, nelle sale da ballo di Perdido Street. Quando Hattie Rogers o Lulu
White dicevano in giro che Mamie avrebbe cantato nelle loro case, i bianchi si
riversavano a frotte e le puttane pulivano tutto per bene.

Nonostante avesse due dita mancanti alla mano destra, e fosse una “poor
gal”, una povera ragazza, i bianchi facevano la fila per ascoltare questa
donna, musicista a Storyville, il quartiere a luci rosse. Il suo cavallo di
battaglia, quello che Morton suona per Lomax – rievocando in un secondo,
con precisione mirabile tutta l’atmosfera della New Orleans di inizio
Novecento – raccontava la storia, triste e patetica, di una prostituta. Un
lamento, composto e accorato, nonostante tutto:

I stood on the corner, my feet was dripping wet,


Stood on the corner, my feet was dripping wet,
I asked every man I met.
Can’t give me a dollar, give me a lousy dime,
You can’t give me a dollar, give me a lousy dime,
Just to feed that hungry man of mine.
I got a husband, and I got a kid man too,
I got a husband, I got a kid man too,
My husband can’t do what my kid man can do.
I like the way he cooks my cabbage for me,
I like the way he cooks my cabbage for me,
Looks like he sets my natural soul free 17.
Mamie, una splendida ragazza creola, di cognome faceva Desdunes
(Lomax, e dietro a lui generazioni successive di studiosi, aveva mal
trascritto la pronuncia mortoniana come Desdoumes), ed era nata a New
Orleans il 25 marzo 1879, da una famiglia piuttosto in vista: il padre,
Rodolphe, era l’esponente di punta del Comité des Citoyens,
un’associazione che si batteva in difesa dei diritti dei creoli. La loro fama è
legata al celebre caso Plessy contro Ferguson: per protestare contro la
segregazione sui treni delle ferrovie della Louisiana, Homer Plessy,
membro del comitato con appena un ottavo di sangue africano nelle vene,
andò a sedersi di proposito nel compartimento riservato ai bianchi.
Arrestato, fu processato e la sentenza dimostrò il valore duramente
segregativo dei codici Jim Crow, e dell’idea del «separate but equal»: la
discriminazione dura si era estesa anche ai creoli, ovvero a coloro che
avevano anche sangue bianco nelle vene.
Mamie crebbe in un ambiente ricco di stimoli e musica, dal momento
che anche il fratello, Daniel, si era messo in luce nella Onward Brass Band.
Sposata con George Dugue, fu stroncata, nel 1911, da una tubercolosi
polmonare, ad appena trentadue anni.
Questo è tutto quello che sappiamo di lei, e dei suoi blues. Un mistero, il
suo, ben conservato nella memoria dei visitatori abituali di Storyville, tra
lusso, lussuria, piaceri e trasgressione: un blues appena accennato, ma che
ha continuato a risuonare, per molto molto tempo, nella musica di New
Orleans. E non solo.

3. Gertrude “Ma” Rainey.

When Ma Rainey
Comes to town,
Folks from anyplace
Miles aroun’,
From Cape Girardeau,
Poplar Bluff,
Flocks in to hear
Ma do her stuff;
Comes flivverin’ in,
Or ridin’ mules,
Or packed in trains,
Picknickin’ fools…
That’s what it’s like,
Fo’ miles on down,
To New Orleans delta
An’ Mobile town,
When Ma hits
Anywheres aroun’ 18.

Cosí il grande poeta afroamericano Sterling Brown racconta l’arrivo di


“Ma” in città (le virgolette fanno parte del nomignolo), l’attesa che si carica
di elettricità, l’avvicinarsi di gente con ogni mezzo, l’appuntamento
irrinunciabile con lei, “Ma” Rainey, e l’infinita collana di soprannomi e
nomi d’arte: Mama Can Can, Black Nightingale, The Paramount Wildcat,
The Golden Necklace of the Blues, The Songbird of the South e,
finalmente, Mother of the Blues. Certo, “Ma” non fu la madre del blues
(cosí come W. C. Handy non ne fu il padre): seppe però esserne
un’interprete divinamente credibile, e rappresentò il punto di congiunzione
tra la polverosa ispirazione downhome e la necessaria modernizzazione del
blues riprodotto. Soprattutto, fu la prima a cantare regolarmente il blues dal
1902, quando ne ascoltò uno da una sua ammiratrice, e decise che nessuna
sua esibizione si sarebbe chiusa senza uno di quei canti cosí «strange and
poignant», strani e dolorosi, come raccontò in una celebre intervista a John
Work.
Quando iniziò la sua breve carriera discografica, con la Paramount,
Gertrude Pridgett aveva ventisette anni, molti dei quali spesi sui
palcoscenici del South, nelle compagnie di minstrel, in cui aveva esordito
giovanissima. Nata a Columbus, in Georgia, il 26 aprile 1886, aveva
probabilmente ereditato il talento artistico da un nonno, ed esordito da
bambina. L’incontro con William “Pa” Rainey, attore, ballerino e cantante
di giro, fu il preludio al matrimonio, celebrato nel 1904, e alla formazione
di una celebre coppia, “Pa” & “Ma” Rainey: The Assassinators of Blues,
come si facevano chiamare dapprima nei Rabbit Foot Minstrels e in seguito
nel Tolliver’s Circus and Musical Extravaganza.
Ma Gertrude non aveva bisogno di una spalla, perché da sola riempiva la
scena, rendendola troppo piccola per chiunque altro. La sua era una figura
magnetica, irresistibile: non bella – una volta Little Brother Montgomery
confessò che mai aveva visto una donna piú brutta – “Ma” trasudava un
fascino corposo, fluido, sensualissimo. Sterling Brown, all’epoca giovane
ricercatore alla Fisk University, ne restò completamente annichilito.

“Ma” Rainey era una figura straordinaria. Non aveva bisogno di cantare alcun verso:
bastava che emettesse un sospiro e il pubblico sospirava insieme a lei. Lo teneva in
pugno. Ho ascoltato anche Bessie Smith, però “Ma” Rainey era la piú amata dal
pubblico. Bessie era la piú grande cantante di blues, ma la Rainey conosceva veramente
questa gente; era una donna del popolo; era molto semplice e immediata. Quella notte,
quando la vedemmo, aveva problemi con un ragazzo. Sai, le piacevano i giovani
musicisti, e arrivammo John Work e io – eravamo giovani per lei. Ci mandarono nel suo
camerino e non sapeva chi dei due scegliere. Ma nessuno dei due stava scegliendo lei!
Volevamo solo parlare, ma lei era interessata ad altro. Era molto diretta. Era il meglio
cui potessi aspirare. Era grande.

Una mangiatrice di uomini, dunque, e non solo. Donna di forti appetiti e


smodati desideri, sul palco come nella vita. Il suo personaggio era
dichiaratamente bisessuale; e voci sugli amori saffici della blueswoman
cominciarono a circolare sin dal 1913, l’anno in cui prese sotto la sua ala
protettrice Bessie Smith, cui era legata da un affetto quasi materno. Sebbene
l’argomento fosse tabú nell’America di quei tempi, “Ma” ebbe il coraggio
di parlarne nei suoi blues: Prove It on Me Blues, introduzione alle gioie
dell’amore lesbico, o Sissy Blues, nel quale lamenta la perdita del proprio
uomo, fuggito con un altro. Nel 1925 “Ma” dovette trascorrere una notte in
guardina per aver dato in casa sua un party molto trasgressivo: allertati dai
vicini per il baccano infernale, i poliziotti trovarono la cantante e diverse
giovani donne nude in atteggiamenti inequivocabili. Fu Bessie Smith a
tirarla fuori di prigione pagando la cauzione.
La grandezza di “Ma” Rainey, tuttavia, esulava dallo scandaletto
sessuale, o dal prurito di certi testi pesantemente allusivi. Era in gran parte
estranea al pur didascalico addobbo di scena – collane, anelli, orecchini e i
denti d’oro che davano al suo sorriso un bagliore accecante – al quale non
sapeva rinunciare e che costituiva un’inalienabile parte di sé. La sua
grandezza era nella relazione esclusiva, nel rapporto paritario e complice
che sapeva creare col pubblico, quella massa di persone che quando “Ma”
era in città la raggiungeva a qualunque costo e con qualunque mezzo. Era
una star, certo, ma al tempo stesso era una di loro: cantava i loro problemi,
le loro ansie e i loro dolori; la sua voce aveva conservato il sapore
inconfondibile del Sud, dei campi di cotone, l’intonazione aspra e dolente
dei field holler. “Ma” rappresentava l’evasione da una condizione sociale
svantaggiata, ma non la sua negazione. Regalava un meraviglioso viaggio
nell’illusione con i piedi saldamente piantati per terra. Tutto il mistero di
questa complessa relazione Sterling Brown riesce a sintetizzarlo in una
frase: «She jes’ catch hold of us, somekindaway», dice uno spettatore
allibito. “Ma” Rainey sapeva conquistarli, inuncertomodo, e non li mollava
finché non abbandonava il palcoscenico tra le urla e i pianti del pubblico.
Diva incontrastata del vaudeville, regina impareggiabile del
palcoscenico, “Ma” ebbe una carriera discografica molto meno leggendaria.
Fu breve, innanzitutto. Appena cinque anni, durante i quali incise con
generosità (almeno novantadue canzoni, quelle conosciute), ma la qualità
audio di ciò che è sopravvissuto è talmente scadente che quasi verrebbe da
maledire l’approssimazione con cui la Paramount produceva i suoi dischi.
Difficile, oggi, orientarsi in un groviglio di fruscii, schiocchi, rumori
impensabili cosí forti da creare una cortina sonora dietro cui annega la voce
della cantante; né la tecnologia moderna ha saputo fare molto per ripulire,
emendare, schiarire, equilibrare quelle pessime registrazioni. Eppure, la
voce di “Ma” Rainey gronda bellezza anche in condizioni cosí sfavorevoli.
Le prime sue registrazioni, a detta di molti le migliori, realizzate a Chicago
tra il dicembre 1923 e l’aprile dell’anno successivo, offrono un motivo
supplementare di interesse: Lovie Austin. Pianista e arrangiatrice, nata nel
1887 a Chattanooga, Tennessee (dove, sette anni dopo, sarebbe nata Bessie
Smith), fu una musicista di talento, sia nell’ambito del vaudeville che in
quello discografico, dove espresse il meglio di sé come accompagnatrice di
cantanti e pianista di casa per la Paramount. L’alchimia con “Ma” Rainey è
immediata, intensa. Le due si capiscono a perfezione, e la loro sintonia è il
valore aggiunto a quelle registrazioni.
Non ebbe mai vistosi cali, la carriera discografica di Gertrude Pridgett,
nonostante la feroce concorrenza. Ma le incisioni del 1928 si rivelarono le
ultime. La Depressione e una certa stanchezza allontanarono
progressivamente “Ma” Rainey dal suo pubblico, e il suo pubblico da lei. Il
tempo magico del vaudeville era finito, nel 1930 il circuito del TOBA aveva
chiuso i battenti e per le grandi regine del palcoscenico restavano solo
tournée in periferia, con compagnie minuscole in caffè e bettole. La Rainey
continuò fino al 1935, poi decise che era abbastanza. Comprò due teatri a
Rome, in Georgia, e li gestí con accortezza. Poi si convertí alla chiesa
Battista, e lasciò fuori dalla porta gli assassini del blues, le volpi, le collane
dorate e il can can. Sul certificato di morte, stilato nel 1939, alla voce
occupazione c’è scritto: casalinga.
Libera, infine. Come liberi, per un paio d’ore, erano i suoi ascoltatori,
capaci di slegarsi dalle ambasce della vita, grazie al suo canto. I versi di Al
Young dicono tutto:

I’m going to hover in the corners


of the world, Ma
& sing from the bottom of hell
up to the tops of high heaven 19.

4. Le regine del blues classico.


Quella di “classico” riferita al blues dei primi anni Venti è una
definizione piuttosto invecchiata: fu coniata dallo storico Rudi Blesh, nel
suo – per l’epoca modernissimo – Shining Trumpets, una storia del jazz
assai avvincente, e criticata, pubblicata nel 1946. Si riferiva, lo studioso, a
una fase mediana, quasi il movimento centrale di una sinfonia: dapprima
c’era il blues arcaico, piú strettamente legato alla tradizione dei campi e dei
canti di lavoro, il blues vero e proprio; poi il blues classico – che Blesh
indica, semplicemente, come “the blues” – contrassegnato dalle invenzioni
dei musicisti di New Orleans e dalle grandi cantanti dell’era discografica;
infine il blues post-classico, a sua volta suddiviso in tre fasi: il
contemporaneo, il decadente e l’eclettico, momenti in cui la musica perde
progressivamente in sincerità, in profondità mentre crescono la
sofisticazione e il degrado.
Non sorprende, quindi, che nel corso dei decenni successivi l’idea di
classicità applicata al blues abbia creato qualche frizione accademica,
qualche scintilla critica. Non foss’altro che per l’uso disinvolto che se ne è
fatto. Diatribe storico-critiche a parte, l’epoca del blues riprodotto, come
abbiamo già visto, fu dominata dalle cantanti provenienti dal vaudeville e
dal minstrel show: interpreti dai repertori vasti e permeabili a tutte le
sfumature della canzone leggera, dei quali i blues erano una parte, seppur
importante.
E dunque si ritorna a, e si riparte da, Mamie Smith. Dal momento, per la
precisione, in cui la trentasettenne cantante fu scelta da Perry Bradford per
incidere le prime canzoni indirizzate esclusivamente al mercato
afroamericano. I due si conoscevano da tempo, e collaboravano insieme da
quando Mamie, nata a Cincinnati, Ohio, nel 1883, si era ritrovata nel
quartiere di Harlem, a New York, appena ventenne, dopo aver girato per
anni con compagnie di vaudeville come cantante e ballerina. Nella grande
città Mamie seppe far valere la sua voce e il suo carisma, tanto da essere
notata da Bradford in uno dei locali piú alla moda di Harlem. Quando,
nell’estate del 1918, il produttore e arrangiatore allestí una rivista di buone
prospettive, affidò alla Smith una parte da protagonista. Non solo, le affidò
anche la canzone di maggior successo, Harlem Blues, che con qualche
ritocco due anni dopo divenne la celeberrima Crazy Blues. Fu proprio il
successo in sala a convincere Bradford dell’esistenza di un potenziale
mercato di colore. Se per il primo disco della ditta Bradford/Smith la OKeh
si astenne dal rivelare il colore della pelle della cantante (l’etichetta
recitava: «Mamie Smith, Contralto, with Rega Orchestra»), per Crazy Blues
non ci fu bisogno di sotterfugi. Il disco, come sappiamo, vendette 75 000
copie solo nel quartiere di Harlem, indicando la nuova strada per l’industria
discografica.
Mamie Smith, però, non fu soltanto la donna giusta al posto giusto.
Sebbene non si possano confrontarne le doti artistiche con quelle di “Ma”
Rainey o Bessie Smith, Mamie fu comunque interprete ragguardevole, in
possesso di un carisma debordante: se le prime quattro tracce registrate non
le rendono giustizia per via di accompagnatori rigidi e arrangiamenti statici,
il resto della sua produzione toccò spesso livelli di eccellenza. Soprattutto,
fu la sua carriera sul palcoscenico a fare di lei una regina. Era una vera e
propria star, e guadagnava proporzionalmente al suo successo. Nel 1922,
quando il suo nome campeggiava a caratteri cubitali sui manifesti dei suoi
spettacoli, tenne un tour in tutto il nord del paese, sconfinando fino in
Canada e registrando il tutto esaurito dovunque. Un articolo del «Norfolk
Journal and Guide» ci dice che Mamie Smith e i suoi Jazz Hounds si
esibirono nella cittadina omonima davanti a diciottomila spettatori paganti.
Un tripudio.
Per i tre anni successivi Mamie Smith collezionò un successo dopo
l’altro: i suoi dischi, realizzati con musicisti spesso di altissimo valore,
vendevano bene, e sul palcoscenico in poche potevano farle concorrenza.
Dal 1923, però, tutto iniziò a rallentare: Bessie Smith e “Ma” Rainey
chiedevano a gran voce il passaggio del testimone, e l’attenzione del
pubblico si era inevitabilmente indirizzata verso le due nuove sensazionali
interpreti. Mamie tornò in sala d’incisione di rado: nel ’24, per la Ajax, nel
’26 per la Victor, nel ’29 ancora per la OKeh. Poi la Grande Depressione la
costrinse a ingaggi di fortuna. Nel 1940 provò a tornare a galla, ma senza
successo. Gli ultimi due anni della sua vita li trascorse in un ospedale di
Harlem, dove si spense, senza un soldo, in un giorno imprecisato
dell’autunno 1946.
Victoria Spivey era una ragazzina quando vide un concerto di Mamie
Smith.

Il City Auditorium era stipato di almeno 3500 persone e per la prima volta nella mia
vita ho visto la regina del blues; sto parlando dei primi anni Venti e IO LA VIDI ! Quando
Miss Smith entrò su quel palco per un minuto non riuscii a respirare. Volgeva verso di
noi i suoi occhi grandi e scintillanti con quel delizioso sorriso mostrando i suoi denti
perlacei, con diamanti grandi quanto un dente. Poi guardai il suo vestito. Nient’altro che
lustrini, paillettes e strass, oltre a un mantello di velluto con applicazioni di pelliccia.
Eravamo tutti impazziti. Poi iniziò a cantare – e tirò giú l’auditorium. Tra un brano e
l’altro, mentre la band continuava a suonare, si cambiava d’abito in un minuto, e tornava
a tempo record per il pezzo successivo. La sua voce piena riempiva completamente
l’auditorium, senza l’uso di microfoni, come si fa oggi. Quello era cantare il blues! Fu
una grande ispirazione, che mi rinforzò nel desiderio di diventare una cantante.

Che a sua volta sarebbe diventata una regina del blues la piccola ce
l’aveva scritto nel nome: Victoria Regina Spivey nacque a Houston, Texas,
il 15 ottobre 1906, da genitori con qualche trascorso musicale. Fu una
ragazzina prodigio e altrettanto prodigiosamente iniziò a esibirsi in giro,
stringendo amicizia con Blind Lemon Jefferson e ascoltando i dischi dei
suoi modelli, Ida Cox e Sara Martin. Alle quali, però, non fu mai
stilisticamente fedele, poiché il suo pensiero artistico già si muoveva su
coordinate diverse: quando – dopo aver, di fatto, strappato un provino a
Jesse Johnson – incide il suo primo disco nel 1926, quello che si ascolta è
un suono fantastico, modernissimo, lontano da ogni possibile comparazione
con gli stilemi del canto femminile dei quali il blues classico si era fino ad
allora nutrito. Accompagnandosi al pianoforte, Victoria dispiegò un timbro
lamentoso e inquietante, un moan (in)credibile e acido, che ne sarebbe
diventato il marchio di fabbrica. Come i testi dei suoi blues, ossessivamente
incentrati su temi sinistri, oscuri, dark. Droga, sesso, violenza: tutto
trasudava una certa morbosità, come in Blood Thirsty Blues:

Blood, blood, look at all that blood,


Blood, blood, look at all that blood,
Yes I killed my man, a lowdown good for nothing cub 20.

Il successo fu immediato, e la qualità delle registrazioni di Victoria


crebbe esponenzialmente, fino a toccare vertici assoluti in occasione della
collaborazione con Lonnie Johnson: i due formavano un insieme
perfettamente equilibrato, la loro era un’espressività modernissima,
appassionante. Sebbene ancora molto giovane, la Spivey aveva imposto un
nuovo modello di blueswoman; come acutamente nota Chris Smith, fu la
Madonna (nel senso di Ciccone, naturalmente) del classic blues: iperattiva,
mossa da una robustissima autostima e fiducia di sé, a suo agio anche con
tematiche devianti. Un personaggio, questo, che la Spivey non ha mai
mollato, anche quando, come per tutte le sue colleghe, gli anni Trenta
ridimensionarono le ambizioni, i guadagni e gli spazi di notorietà. Victoria
si diede al cinema, e non smise mai di esibirsi o di muoversi nel campo
dello spettacolo, tanto che negli anni Sessanta, in pieno blues revival, si
esibí di nuovo con Lonnie Johnson (erano rimasti buoni amici, ma ciò non
le impedí di minacciarlo con un coltello), fondò una piccola etichetta
discografica con cui documentò il lavoro delle sue colleghe, e diede a Bob
Dylan la possibilità di apparire, come musicista, per la prima volta su disco.
Attiva fino agli ultimi giorni, si è spenta nel 1976.
Come la sua “discepola” Victoria Spivey, anche Ida Cox mostrava una
certa familiarità con testi duri, scomodi, a volte dichiaratamente macabri (si
piangeva spesso al capezzale di amanti trapassati di fresco). Ma era una
donna solare, aperta e bellissima; al contrario della Spivey, e di molte altre
sue colleghe anche piú famose, era una vera artista di vaudeville, raffinata e
completamente consapevole di cosa sapesse e potesse fare su un
palcoscenico: quella rimase la dimensione in cui meglio seppe dimostrare
un valore incorruttibile e una sapienza quasi miracolosa. Dal vivo, stando
alle testimonianze, era assolutamente irresistibile; Sammy Price, il pianista
al quale si deve la “scoperta” di Blind Lemon Jefferson, dichiarò di non
aver mai sentito una cantante migliore di Ida. Conscia del suo contralto
leggero e speziato, sceglieva con accuratezza i musicisti: molto registrò con
Lovie Austin e le diverse incarnazioni dei suoi Serenaders (per la
Paramount le incisioni furono all’incirca un centinaio), e molto suonò dal
vivo con Jesse Crumps, pianista e organista, nonché suo marito all’epoca,
col quale trovò l’esatto bilanciamento tra blues e una certa vena pop.
Vocalist tra le piú influenti, la Cox si ritirò quasi completamente dalle scene
negli anni Trenta, per poi tornare un paio di volte alla ribalta: una nel
’39-’40, l’altra nel 1961, quando incise un disco con, tra gli altri, Coleman
Hawkins. La salute, però, la stava abbandonando: l’età avanzava
implacabile (era nata in Georgia nel 1896) e le restarono pochi anni prima
di soccombere a un tumore.
Piú animale da palcoscenico che cantante da studio di registrazione fu
anche Sara Martin. Proprio per averla vista esibirsi su un palcoscenico
Mamie Smith la convinse a trasferirsi a New York e incidere dischi. Sara
non aveva paura del grande salto: da vera star del vaudeville, era convinta
di non avere nulla in meno delle cantanti di blues piú in vista. E la sua
prima registrazione, Sugar Blues, con l’accompagnamento pianistico di
Clarence Williams, fu uno dei maggiori successi del 1922. A quel tempo,
Sara aveva trentotto anni (era nata a Louisville, nel 1884) e una lunga e
stancante carriera alle spalle, ma fece ancora in tempo a segnare un record:
Longing for Daddy Blues rappresenta la prima registrazione in cui una
cantante è accompagnata da un chitarrista di colore, Sylvester Weaver. Era
il 24 ottobre 1923. La sua fama ebbe un picco l’anno successivo, grazie
soprattutto alle sue apparizioni teatrali e cinematografiche; dopo il 1928 la
sua discografia restò ferma. Anche la sua voce: una sera, sul palco di un
teatro di Detroit, aprí bocca ma non riuscí a emettere alcun suono. Era un
segno divino, pensò, e decise di smettere. Chiuse i blues fuori della porta e
cantò il gospel fino alla fine dei suoi giorni, il 25 maggio del 1955.
Alberta Hunter, invece, cantò blues fino a che ebbe voce in gola, lungo
molta parte di una carriera leggendaria, non a caso diventata il soggetto per
uno spettacolo di Broadway. Da Memphis, dove era nata nel 1895, la
cantante si spostò a Chicago, bruciando le tappe di un apprendistato iniziato
in postacci di terza categoria, e finito al Dreamland, il locale dove si esibiva
accompagnata dalla band di King Oliver, il re dei trombettisti di New
Orleans. Attrazione di prima grandezza, stella indiscussa delle notti
chicagoane, Alberta fu ingaggiata dalla Black Swan di Harry Pace,
desiderosa di replicare, su disco, il fascino irraggiungibile che la cantante
esprimeva sul palcoscenico. How Long, Sweet Daddy, How Long, inciso
nella primavera del 1921, fu un successo, ampiamente superato dai brani
registrati per la Paramount qualche mese dopo: Downhearted Blues, scritto
a quattro mani dalla stessa Hunter e da Lovie Austin, divenne un classico, e
la versione di Bessie Smith, pubblicata l’anno dopo, raggiunse cifre di
vendita inimmaginabili. Bella, brava – con una voce ricca di chiaroscuri, un
timing rilassato e capacità interpretative molto al di sopra della media – e
determinata: nulla poteva fermare l’ascesa di Alberta. Richiesta da
numerose case discografiche, incise utilizzando diversi pseudonimi
(Josephine Beatty, May Alix, Helen Roberts), fu la musa dei jazzisti (al suo
fianco suonarono Louis Armstrong, Fletcher Henderson, Eubie Blake, Fats
Waller, Duke Ellington, Earl Hines) e, per prima, produsse un disco
accompagnata da una band di musicisti bianchi (Original Memphis Five).
Diva del cabaret, protagonista di trasmissioni radiofoniche, Alberta Hunter
esportò il suo debordante talento in Europa, dove primeggiò a Londra,
Monaco, Parigi, e tornò spesso alla ricerca di stimoli e di migliori
condizioni professionali. Sopravvissuta alla crisi generale degli anni Trenta,
trascorse poi gran parte del periodo bellico a cantare per le truppe
americane. Cominciava a sentirsi stanca, e dopo aver prestato opera come
infermiera volontaria, nel 1957 decise di abbandonare le scene, diplomarsi e
dedicarsi alla cura dei malati. Dopo vent’anni di carriera dovette lasciare il
posto per sopraggiunti limiti di età, e dunque non trovò di meglio da fare
che tornare a cantare. Il critico Ken Romanowski, che ebbe la fortuna di
vederla cantare nel 1982 (due anni prima della sua scomparsa), ne ha in
seguito raccontato il carisma ipnotico, l’incredibile capacità di comunicare
l’essenza di ogni canzone avesse scelto di eseguire, l’abilità nel parlare
all’anima dell’ascoltatore, e chiude il suo ricordo con una domanda: «A un
tratto mi chiesi: “Se vederla cantare a ottantasette anni mi fa quest’effetto,
cosa sarebbe successo se l’avessi vista esibirsi a trentacinque?”
Probabilmente mi avrebbe ucciso».
Se della vita di Alberta Hunter conosciamo pressoché ogni dettaglio,
poco o nulla invece si sa dell’esistenza della sua coetanea Clara Smith
(nacque nel 1895, o l’anno prima, in South Carolina), una delle interpreti
piú famose del suo tempo. Nonostante la grande popolarità, e la fama che la
precedette quando, arrivata a New York da stella del vaudeville, fu subito
messa sotto contratto dalla Columbia, i suoi primi venti anni restano
ostinatamente oscuri. E non che ne avesse ancora molti da vivere, visto che
fu stroncata da un attacco cardiaco quando di anni ne aveva appena
quaranta. In quello spicchio di vita l’ennesima Smith di questa storia (e non
sono ancora finite) riuscí a costruirsi un alone quasi leggendario, grazie a
una voce indimenticabile e a un modo di cantare completamente diverso da
quello delle sue colleghe; questo aveva una qualità dolente, misteriosa, e
insieme estremamente sensuale che le valse l’appellativo di “Queen of the
Moaners”. Era sui tempi lenti che Clara dava il meglio di sé: pienamente in
possesso delle regole del ritmo, liberava una potenza inusuale, in un canto
che profumava di terra. Non a caso, ebbe la possibilità di incidere in duo
con Bessie Smith, e solo lei avrebbe potuto reggere il confronto: quando le
due carismatiche blueswomen si ritrovano in studio di registrazione, il 4
ottobre 1923, sostenute dal pianoforte di Fletcher Henderson, tra loro c’è
un’amicizia che dura da tempo. Il risultato sonoro è pregevole: sebbene
nessuno potesse impensierire Bessie, Clara offre un contrappunto assai
sensuale e preciso. L’esperienza – come la precedente frutto della fervida
immaginazione di Frank Walker, talent scout della Columbia – venne
ripetuta due anni dopo, il 1° settembre 1925, e produsse l’eccellente My
Man Blues, in cui le due si contendono lo stesso uomo, in un crescendo
irresistibile. Poche settimane piú tardi, il fattaccio; Bessie e Clara avrebbero
dovuto esibirsi sullo stesso palcoscenico la sera del 21 ottobre, nel corso di
una “blues night” promozionale organizzata dalla Columbia, ma prima di
andare in scena tra le due scoppiò un violentissimo, e fisico, alterco.
L’incidente non ebbe nessuna ripercussione sulla carriera di Clara, anzi: dal
1926 le sue registrazioni (saranno in tutto centoventi) divennero
progressivamente piú mirate, e anche coraggiose, vista l’audacia con cui la
cantante rischiava strumenti desueti, come il violoncello o l’organo a canne.
Sul palco, invece, nessun rischio apparente: la sua era una routine vincente
e avvincente, come ricorda lo scrittore Carl Van Vechten in un suo articolo
apparso su «Vanity Fair»:

Quando giunge sul palco tra le pieghe blu elettrico del sipario alle sue spalle, è
avvolta in un mantello da sera nero con applicazioni di pelliccia bianca. Non avanza, ma
esita, girando il suo viso di profilo. Il pianista suona un tipico pezzo di Blues. Clara
inizia a cantare:
«Sono preoccupata tutto il giorno; tutto il giorno sono triste; sono cosí terribilmente
sola, non so cosa fare, cosí lo chiedo a te Dottore, vedi se puoi trovare qualcosa nella tua
borsa per pacificare la mia mente. Dottore! Dottore! (I suoi toni diventano intensamente
patetici; lacrime scendono sulle sue guance.) Scrivimi una ricetta per questo blues, per
questo vecchio e maledetto blues! (Recipe for the Blues)».
(La sua voce svanisce in un doloroso lamento di angoscia e lei nasconde la testa tra i
tendaggi del sipario.) La voce di Clara Smith assume incredibilmente il colore del
sassofono; e poi del clarinetto. Sa essere potente, ma anche malinconica. E fa lacrimare
sangue da ogni cuore. I suoi gesti espressivi ed essenziali sono pieni di significato. Che
artista!

L’attività in studio di registrazione andò progressivamente diradandosi,


ma Clara Smith non smise mai di lavorare e di esibirsi, fino a quando il suo
cuore non resse piú.
Tener testa a Bessie Smith, in quegli anni, era affare abbastanza difficile
e, date le inclinazioni combattive della regina del blues, anche pericoloso.
Tra le poche che ci riuscirono va annoverata Ethel Waters. Cantante, e –
nella seconda parte della sua lunghissima carriera – attrice e icona della pop
music, lasciò un marchio indelebile nel blues degli anni Venti, tanto da
spingere lo storico inglese Bruce Crowther ad affermare che, in un
panorama abitato da Bessie Smith, Louis Armstrong e, appunto, la Waters,
proprio quest’ultima fu la piú influente per le vocalist a venire. Certo, Ethel
era, a differenza degli altri due, imitabile: aveva una deliziosa grana vocale,
pronuncia perfetta e una credibile padronanza ritmica; il suo stile era il
frutto di un istinto abbagliante e di una predisposizione assoluta al canto e
alla musicalità. Veniva da un’infanzia poverissima (era nata a Chester,
Pennsylvania, nel 1896), ma seppe riscattare la propria esistenza grazie al
talento e all’abilità di trasformare in positivo ogni esperienza e possibilità di
lavoro, anche di secondo e terz’ordine, come i circhi e i tent show. Durante
l’apprendistato incrociò il suo percorso con quello di Bessie Smith. Le due
vocalist si trovarono di fronte in un club, ad Atlanta. Bessie chiese
espressamente al gestore che la Waters non cantasse blues, ma repertorio di
altro genere. E cosí fu. Ethel, però ebbe la sua rivincita poco tempo dopo,
quando, scoperta da Harry Pace, iniziò a registrare, con grande successo,
per la Black Swan. Fu l’inizio di una carriera trionfale, nella quale il blues,
sebbene avesse occupato uno spazio, a conti fatti, relativo, le permise di
diventare una stella di fama internazionale.
Lucille Hegamin, invece, non ebbe moltissima fortuna al di là dei confini
nordamericani; ciononostante, fu una delle piú intense e versatili cantanti di
blues degli anni Venti. Veniva da Macon, in Georgia, dov’era nata nel 1894,
e fu, dopo Mamie Smith, la seconda cantante afroamericana a registrare
race record. Accadde nel novembre del 1920, per la piccola etichetta Argo,
in seguito a un rifiuto della Victor (che aveva respinto, dopo un provino,
anche Mamie Smith). Per la voce sottile e agile, nient’affatto priva di
carisma e sensualità, per la pronuncia swingante e per la fine capacità
interpretativa, Lucille Nelson (questo il vero cognome) era la preferita dai
pianisti, con i quali riusciva a costruire un dialogo intenso e fitto: Jelly Roll
Morton e Tony Jackson suonarono per lei; e anche Bill Hegamin, che finí
con lo sposarla. La carriera della bella Lucille ebbe un’impennata quando fu
chiamata in una delle due compagnie che portavano in tour Shuffle Along, la
rivista scritta da Noble Sissle ed Eubie Blake, la prima all-black, che stava
riscuotendo un successo colossale in tutto il territorio nordamericano. Nella
seconda metà degli anni Venti continuò comunque a registrare, senza però
segnare picchi particolari fin quando, per motivi che non volle mai rendere
pubblici, abbandonò lo show business e, come Alberta Hunter, divenne
infermiera. Negli anni Sessanta Victoria Spivey la convinse a un breve
ritorno in sala di incisione, che non ebbe però seguito. In una carriera
fortunata, l’unico ricordo che doveva far fatica a digerire riguardava la
grande gara canora di blues che si tenne all’Inter-Manhattan Casino di New
York. Alla presenza – cosí si dice – del futuro sindaco Fiorello La Guardia
in giuria, e con Noble Sissle presentatore d’eccezione, si sfidarono Lucille,
Trixie Smith, Daisy Martin e Alice Carter. Era destino che le Smith
dominassero, in quegli anni, e vinse Trixie.
La vittoria aveva fatto sperare qualcosa di piú per la carriera di Trixie
Smith, che non fu risplendente come quella di molte altre sue colleghe, ma
che inevitabilmente indicava un fatto incontrovertibile: Trixie rendeva
molto meglio dal vivo che in studio di registrazione. Nonostante fosse stata
ribattezzata “The Southern Nightingale”, l’usignolo del Sud (era nata ad
Atlanta nel 1895), i primitivi macchinari coglievano la sua voce sottile con
molta difficoltà, e con altrettanta difficoltà la trasmettevano all’ascoltatore.
Sul palco, invece, Trixie emanava una purissima carica fisica: di bella
presenza, aveva frequentato la scuola del minstrel show dopo, a quanto si
dice, aver frequentato per qualche tempo la Selma University. Arrivata a
New York trovò subito un ingaggio discografico, con la Black Swan, e la
vittoria ottenuta sbaragliando la temibile concorrenza ne aumentò la
popolarità. Ma la sua carriera scivolò via senza grandi impennate, se si
eccettuano alcune incisioni con accompagnatori di assoluto valore (Louis
Armstrong, tra gli altri), e il merito – tutto rivolto ai posteri e ai curiosi – di
aver per prima registrato una canzone in cui compare il termine «rock and
roll», My Man Rocks Me (With One Steady Roll). Dalla metà degli anni
Venti non registrò quasi piú nulla fino alla fine del decennio successivo,
quando si ritrovò brevemente in sala di incisione. Ma per lei, alle prese con
l’alcol, fu il canto del cigno, anzi dell’usignolo: si spense di lí a poco, nel
1943.
Rosa Henderson ed Edith Wilson condivisero un percorso tra loro simile.
Forse perché erano coetanee e corregionali (nacquero nel 1896, nello stato
del Kentucky, rispettivamente a Henderson e Louisville), forse perché non
era possibile evadere dalla palestra del vaudeville: ebbero però un grande
successo, furono le beniamine del pubblico e dei jazzisti (Fletcher
Henderson fu accompagnatore di entrambe), e furono sempre
consapevolmente cantanti di vaudeville prestate al blues. E viceversa. Nei
loro repertori trovava spazio il brano comico, quello recitato, il blues
cantato con classe cristallina (Rosa Henderson aveva uno stile
singolarmente, e sorprendentemente, moderno e ancora oggi l’ascolto di
quelle vecchie matrici procura ben piú di un brivido). A differenza di Edith,
Rosa incise copiosamente, ma la sua carriera si spense altrettanto
velocemente di com’era iniziata: agli inizi degli anni Trenta, si stancò della
crisi che attanagliava il mondo della musica e trovò un lavoro in un grande
magazzino. A differenza di Rosa, Edith si riciclò come attrice, mietendo
successi anche all’estero: in particolare in Inghilterra dove si recò spesso. Si
spensero in tarda età, e Rose in mezzo a qualche affanno.
Berta “Chippie” Hill fu riscoperta da Rudi Blesh, a metà degli anni
Quaranta; lavorava in una panetteria, dopo aver abbandonato la musica. E la
sua vita, come avrebbe detto Francis Scott Fitzgerald, ebbe la disperata
possibilità di un secondo atto. Aveva iniziato a incidere tardi, nel 1925,
eppure mise insieme una serie di registrazioni brillantissime, in cui si
avvalse di un Louis Armstrong scintillante, e nel pieno della forma
(avrebbe, di lí a poco, iniziato la serie leggendaria di registrazioni con gli
Hot Five e gli Hot Seven). Un timbro scuro di contralto la rendeva attraente
e comunicativa, ma i suoi dischi non vendevano quanto la OKeh sperava. Si
esibí ancora a Chicago, fin quando, a trent’anni (era nata nel 1905 a
Charleston, nella Carolina del Sud), decise che era abbastanza. Aveva un
marito, sette figli ed era arrivato il tempo di prendersi cura della famiglia.
Nel 1946 l’incontro con Blesh, e un nuovo inizio. Dischi, tour, un ritorno a
New York, e qui il suo destino si compí, investita e uccisa da
un’automobile. Pochi mesi prima era sopravvissuta a un altro incidente.
Troppi secondi atti, nella sua vita.
A Sippie Wallace bastò un solo secondo atto, che giunse a coronamento
di un’esistenza ricca e movimentata: basti pensare che fu nominata per un
Grammy Award nel 1982, alla ragguardevole età di ottantaquattro anni.
L’usignolo del Texas (era nata col vero nome di Beulah Thomas, a Houston,
nel 1898) proveniva da una famiglia particolare: il padre predicatore
battista, i fratelli George junior e Hersal pianisti d’eccezione, cui si deve, se
non l’invenzione, lo sviluppo di alcuni stili del boogie-woogie (come si
vedrà piú avanti). La sua carriera iniziò piuttosto casualmente, quando, viste
le sue frequenti incursioni nelle tende dei minstrel show e la sua abilità nel
ballare e cantare (sapeva suonare anche l’organo e il pianoforte, ma
l’avrebbe dimostrato in seguito), le chiesero di diventare ballerina di fila.
Altrettanto casualmente, nel 1923, iniziò la sua carriera di cantante; fu
Ralph Peer, talent scout della OKeh, ad accorgersi del suo grande talento
quando il fratello George, per dimostrare un paio di nuovi brani, le chiese di
cantarli. Iniziò cosí un percorso luminescente, attraverso il quale Sippie
raggiunse le vette del canto blues dell’epoca. Pur non incidendo moltissimo,
la cantante texana impresse una direzione inconfondibile ai suoi blues,
mossi da un ritmo nervoso e scattante, e da una sapiente capacità di dosare
gli effetti espressivi; Sippie era in grado di muoversi a suo agio nei contesti
piú diversi: dal duo col pianoforte alla jazz band, sapeva in ogni circostanza
trarre e dare il meglio. Fino al 1929 il suo nome gareggiava, in popolarità e
bravura, con quello delle grandissime (Bessie Smith, Ethel Waters, Ida Cox,
Alberta Hunter); poi gli anni Trenta, col loro carico di disillusioni,
portarono Sippie ad allontanarsi dalla scena. A metà del decennio è a
Detroit; scompaiono suo marito e il fratello George (Hersal era morto
avvelenato dieci anni prima) e Sippie si dedica alla musica sacra: organo e
canto gospel fino a quando Victoria Spivey non convince anche lei a tornare
alla ribalta. È davvero l’inizio di una nuova vita. Sippie Wallace è, negli
anni Settanta, ancora piú attuale che quarant’anni prima; incide con Bonnie
Raitt, scrive blues ancora piú profondi e decisi, e si gode una vecchiaia
inopinata. Morirà il giorno del suo compleanno, il 1° novembre 1986.
Quando si dice la classe.
Classe, bellezza, coraggio, doti interpretative ne avevano anche molte
delle numerosissime interpreti di blues che restano confinate nel
dimenticatoio, tritate da un’industria discografica che nell’arco di un
decennio lanciò, sfruttò e bruciò decine e decine di cantanti. Qualcuna,
almeno, ci piacerebbe conoscesse la limitatissima fama di una citazione.
Lizze Miles, per esempio, fu una delle piú brillanti interpreti dello stile di
New Orleans, inaugurato da Mamie Desdunes (di altre, meno fortunate,
come Esther Bigeou, Tillie Johnson, Mary “Mack” McBride si conservano
poche tracce), che cantava anche in patois, il dialetto creolo. Lucille Bogan,
invece, è passata alla storia per aver cantato alcuni tra i testi piú spinti e
piccanti dell’intera storia della musica: l’alternate take di Shave ’em Dry
non è mai stata messa ufficialmente in commercio per la rudezza del testo,
che confina col turpiloquio (ma lei e i musicisti si stavano divertendo,
ridono tutto il tempo e dicono, in effetti, qualsiasi cosa). Prestigio seppero
raccogliere anche Martha Copeland, Lillian Glinn, Mattie Hite, Maggie
Jones, le cui carriere discografiche sono ben documentate e offrono molti
spunti di interesse.
Infine, ci piace ricordare Fannie May Goosby. Di lei non si sa
praticamente nulla, ma le undici registrazioni che ci restano sono di una
cantante di gran classe, probabilmente autrice del suo materiale, e in
possesso di robusti mezzi vocali. Incise dapprima nel 1923, durante la
spedizione ad Atlanta organizzata da Peer e Brockman per la OKeh. Poi di
nuovo a New York, poche settimane dopo, e infine nel 1929, per la
Brunswick. Non è molto, ma abbastanza per rimpiangere di non poterne
ascoltare di piú.

5. Fine di un regno.
Al termine di questa lunga carrellata tra voci, volti e desideri di un
ventennio formidabile, c’è da chiedersi come mai la presenza femminile sia
stata limitata al periodo del cosiddetto blues classico. Cosí centrale e
decisiva da determinarne un’estetica (se è vero che Robert Johnson
perfezionò i suoi blues ascoltando i dischi di “Ma” Rainey e Bessie Smith),
essa è poi scivolata nel nulla, con poche eccezioni, ben difese da una cortina
impenetrabile. Secondo alcuni studiosi, la musicologa Susan McClary tra
questi, l’universo femminile nel blues ha scontato gli effetti di un canone
che, come abbiamo visto, collocava nell’opera dei musicisti del Delta
l’origine del vero blues, e ascriveva al registro delle stranezze e delle
bizzarrie della storia l’avvento delle cantanti degli anni Venti, il cui
apprendistato negli spettacoli itineranti, e i cui repertori permeabili a
qualsiasi genere musicale di intrattenimento, testimoniavano l’impurità
dell’espressione e l’opportunismo della scelta stilistica. Come se l’onta
della commercializzazione delle dodici battute pesasse esclusivamente sulle
loro corde vocali, regine, principesse, imperatrici e usignoli sono state a
lungo dimenticate: soprattutto, hanno cantato una sola stagione. Quella,
però, fu l’unica stagione in cui si crearono i presupposti per una cosí
massiccia presenza femminile. Il blues è stato da sempre un fatto quasi
esclusivamente maschile perché nato in una società e in un periodo in cui le
differenze nella condizione dei sessi erano ben delineate, come ricorda con
precisione la McClary:

I cantanti di blues scelsero spesso di vagabondare nella regione, suonando nelle


strade, nei locali, o nelle feste, a seconda delle occasioni che si presentavano. Quindi,
molti di loro rimanevano strettamente legati alla, e sostenuti dalla, comunità. Le donne
non avevano accesso allo stesso tipo di mobilità, e poche divennero musiciste itineranti.
Per la crescente instabilità che viveva la popolazione nera del sud, al passaggio di secolo
– la migrazione di massa verso le città del nord a causa della povertà, le leggi Jim Crow,
i linciaggi – anche le donne erano spesso costrette a lasciare la loro terra. In linea di
massima, comunque, cercavano la sicurezza di un lavoro stabile. Come Daphne
Harrison ha dimostrato, molte delle cantanti che vennero celebrate come regine del
blues erano giovani donne migranti che si resero conto di poter sbarcare il lunario
esibendosi negli spettacoli di varietà itineranti, nel vaudeville, nei club dei centri urbani,
e (dopo l’iniziale rifiuto da parte dell’industria discografica che poi accettò di provare
con le cantanti nere) attraverso il nuovo medium costituito dalla registrazione
discografica.

L’esplosione della creatività femminile nel blues riprodotto degli anni


Venti mostrò non soltanto prassi esecutive, risorse espressive, tratti stilistici
di assoluto valore, fece molto di piú: rivelò, attraverso i testi, spesso scritti
dalle stesse blueswomen, il loro punto di vista. E, come abbiamo visto,
spesso riguardava la natura delle relazioni tra uomo e donna, e non soltanto
dal punto di vista sentimentale. Come sottolinea Hazel Carby:

Quello che è stato chiamato «Classic Blues» […] è un discorso che articola una lotta
culturale e politica sulla relazione tra i sessi: una lotta contro l’oggettificazione della
sessualità femminile all’interno di un sistema patriarcale, ma che prova anche a
riscattare il corpo femminile come soggetto sessuale e sensuale del canto delle donne
[…] Le cantanti di blues occupavano uno spazio privilegiato; avevano oltrepassato i
confini domestici e portato la loro sensualità e sessualità dal privato nella sfera pubblica.

Il progetto di liberazione, morale e sessuale (che non si fa fatica a


classificare come femminismo ante litteram) fu progressivamente
cancellato dallo spegnersi stesso di un momento storico, di una congiuntura
sociale ed economica cosí favorevole e strana da non trovare piú, di fatto, le
condizioni per verificarsi di nuovo.
Si dovrà aspettare solo qualche anno perché l’eco delle voci di Bessie,
“Ma”, Clara, Ida, Alberta, Victoria e tutte le altre regine del blues torni a
farsi ascoltare nella musica, nei corpi e nella coscienza degli afroamericani:
spetterà alle grandi interpreti del soul farsi carico di una tradizione
inalienabile e forte. Austera e dignitosa. Incancellabile e rigogliosa.
Luminosa e sensuale. Come le voci, le storie, le vite di queste artiste.
Semplicemente meravigliose.
16
«Non ho un amico in questa città | Non ho un amico in questa città | Perché il mio uomo di
New Orleans mi ha cacciato. || Povera ragazza desiderosa della chiave di quella prigione | Povera
ragazza desiderosa della chiave di quella prigione | Che le permetterebbe di aprire la porta e di essere
libera. || Stony Lonesome non è un posto neanche per cani | Stony Lonesome non è un posto neanche
per cani | Non è adatto neanche a un maiale. || Lo sceriffo le ha urlato: ragazza non essere cosí triste |
Lo sceriffo le ha urlato: ragazza non essere cosí triste | Poiché il tuo carceriere sarà buono con te. || Il
carceriere non mi preoccupa | Il carceriere non mi preoccupa | Ma dimmi quanto sarà alto il patibolo.
|| Dissi al mio cavaliere di cavalcarmi lentamente | Dissi al mio cavaliere di cavalcarmi lentamente | E
quando mi cavalcò velocemente io lo disarcionai. || Misi quel fucile su, vicino al suo cuore | Misi
quel fucile su, vicino al suo cuore | Dissi al ganzo che ci andava pesante: ci stiamo semplicemente
separando. || L’avvocato disse: meglio se canti e preghi | L’avvocato disse: meglio se canti e preghi |
Poiché domani il Giudice ti condannerà a morte. || Amico di New Orleans perché non torni? | Amico
di New Orleans perché non torni? | Poiché con 50 dollari la corda del boia si allenterebbe. || Boia,
boia, impiccami lentamente | Boia, boia, impiccami lentamente | Poiché quella ruvida corda mi farà
tanto male. || Avessi ascoltato quello che diceva mia madre | Avessi ascoltato quello che diceva mia
madre | Il prossimo lunedí non mi troverebbe morta».
17
«Ferma in un angolo, i miei piedi bagnati fradici | Ferma in un angolo, i miei piedi bagnati
fradici | Chiedevo a ogni uomo che incontravo. || Mi daresti un dollaro? O qualche spicciolo | Mi
daresti un dollaro? O qualche spicciolo | Per sfamare il mio uomo affamato? || Ho un marito, e ho
anche un ragazzo, | Ho un marito, ho anche un ragazzo, | mio marito non può fare quello che può fare
il mio ragazzo. || Mi piace il modo in cui mi fa l’amore, | Mi piace il modo in cui mi fa l’amore, | è
come se liberasse la mia anima». (Nei testi blues il riferimento ai genitali è spesso contenuto in
metafore alimentari. Cabbage, in questo caso, è riferito alla vagina, e to cook my cabbage si riferisce,
evidentemente, all’atto sessuale).
18
«Quando Ma Rainey | Arriva in città | Gente da ogni dove | Per miglia intorno | Da Cape
Girardeau, | Poplar Bluff, | Si accalca per ascoltare | Ma cantare i suoi blues | Giungono con i loro
catorci, | O cavalcando muli, | O stipati nei treni, | La marmaglia delle scampagnate | Questo è quel
che sembra, | Scendendo per miglia, | Fino al delta di New Orleans | E la città di Mobile, | Quando
Ma arriva | Da ogni dove intorno».
19
«Sto per librarmi negli angoli | del mondo, Ma | e cantare dal profondo dell’inferno | fino alle
vette del paradiso piú alto».
20
«Sangue, sangue, guarda quanto sangue, | Sangue, sangue, guarda quanto sangue, | Sí, ho
ucciso il mio uomo, un vile principiante buono a nulla».
Capitolo dodicesimo
Figure (6). Gli strumenti del diavolo

L’immagine del bluesman solitario, accompagnato soltanto dalla sua


chitarra, si è incrostata all’immaginario delle dodici battute, diventandone
figura e rappresentazione, se non addirittura luogo comune. Scavando nel
corpo sonoro della musica del diavolo, però, ci si accorge di quanto ricca,
estesa e molteplice sia stata la varietà di strumenti musicali con i quali si è
suonato il blues, e quanto altrettanto ricca e varia sia la composizione di
gruppi e band che l’hanno registrato e portato in ogni angolo del South.
In questo capitolo analizzeremo tecniche, prassi esecutive e formule
espressive legate agli strumenti piú utilizzati nel blues prebellico. A
cominciare, naturalmente, dalla chitarra.

1. Sei corde per dodici battute.


Quando Oscar Schmidt e John Dopyera arrivarono sul suolo americano,
a distanza di una quarantina d’anni l’uno dall’altro, tra i sogni chiusi nella
valigia di cartone c’era quello di cominciare una nuova esistenza; di certo,
nessuno dei due immaginava di legare il proprio nome al suono del blues.
Furono gli strumenti creati da questi due geniali artigiani, infatti, a costruire
la particolarissima grana timbrica delle dodici misure: chitarre dal suono
personale, robusto, addirittura quasi amplificato, come nel caso di Dopyera.
Parte del fascino misterioso del blues si deve alle chitarre usate per
registrare i capolavori degli anni Venti e Trenta. Quasi tutte erano Stella,
National, Gibson e Martin.
Oscar Schmidt, tedesco di Sassonia, fondò la compagnia omonima nel
1871, a Jersey City. La produzione di strumenti musicali iniziò, a pieno
ritmo, nei primi anni del nuovo secolo: chitarre, mandolini, banjo, venduti
attraverso una serie piuttosto fitta di dettaglianti, di venditori porta a porta
e, soprattutto, attraverso i cataloghi di vendita per corrispondenza, come
Sears and Roebuck o Montgomery Ward. Richard Sears, un ferroviere,
aveva egregiamente sfruttato il geniale sistema di vendita (inventato, di
fatto, da Benjamin Franklin) e col socio Alvah Roebuck mise in piedi un
colosso commerciale: spesso soltanto il servizio postale poteva arrivare
nelle contee e nelle regioni piú sperdute della nazione, dove non c’era
neanche un negozio al dettaglio. Vera bibbia dei consumi, il catalogo Sears
and Roebuck già nel 1895 contava oltre cinquecento pagine. In due di esse
venivano mostrati e venduti strumenti musicali, a prezzi assai abbordabili.
Le prime chitarre prodotte da Schmidt, con il marchio Stella, costavano due
dollari, una somma alla portata anche delle tasche piú vuote. Le Sovereign,
invece, erano destinate agli acquirenti con maggiori possibilità di spesa.
Il suono delle Stella è uno dei marchi di fabbrica del blues del Delta. La
chitarra che Blind Lemon Jefferson abbraccia nell’unica sua foto conosciuta
è una Stella; Blind Blake, Charley Patton, Tommy Johnson, Blind Willie
Johnson, solo per citarne alcuni, hanno affidato la loro sovrumana tecnica
esecutiva agli strumenti costruiti da Oscar Schmidt: chitarre caratterizzate
da una straordinaria risonanza, da un volume corposo e una nota metallica
rimasta ineguagliata.
Ottime per le registrazioni, le Stella, come tutte le chitarre acustiche,
avevano qualche problema nelle esibizioni dal vivo. Queste non avvenivano
– come oggi saremmo portati a pensare – su un palcoscenico o in sale
dotate di acustica all’uopo e amplificazione adatta, ma agli angoli delle
strade, nei chiassosissimi tent show, nei picnic tra gente che balla, mangia e
parla, nei jukejoint o nei bar. Ancora qualche anno e sarebbe stata inventata
la chitarra elettrica. Nel frattempo, però, c’era bisogno di soluzioni. L’idea
l’ebbe un immigrato slovacco, John Dopyera, arrivato sul suolo americano
nel 1908, dal villaggio di Dolna Krupa. John aveva talento per la liuteria e
lo mise immediatamente a frutto aprendo, con il fratello Rudy, un piccolo
negozio di riparazioni, nel quale, come ricorda il figlio, iniziò a costruire
banjo nei primissimi anni Venti.

Un giorno un chitarrista di vaudeville, George Beauchamp, si fermò davanti al suo


negozio per parlare di un problema che stava affrontando. Mr Beauchamp sosteneva che
la sua chitarra acustica non riuscisse a produrre un volume sufficiente rispetto agli altri
strumenti dell’orchestra. Dalla discussione nacque l’idea di inserire all’interno della
cassa della chitarra una placca vibrante in alluminio che ne amplificasse il suono. Dopo
mesi di esprimenti produssero una chitarra a tre coni, la chitarra hawaiana interamente
in metallo. Papà e Mr Beauchamp decisero di iniziare, in quella che era già la ditta
National, la produzione di queste chitarre in serie.

Il sogno americano di John Dopyera assunse le forme di una stranissima


chitarra dal corpo metà di legno, metà di metallo, e un meccanismo di
amplificazione del suono che si ispirava a quello del fonografo Victrola. I
coni di alluminio, cioè, agivano come la pelle sulla cassa armonica del
banjo, o il sottile disco di mica al quale la testina del fonografo trasmetteva
gli impulsi: amplificavano il suono. La National a tre coni aveva un largo
disco in metallo giusto al centro della cassa armonica, e un suono mai
sentito prima d’allora, grazie ai tre risuonatori. Il primo bluesman a
registrare il suono della chitarra resofonica fu Tampa Red, nel 1928.
Dopyera e Beauchamp finirono ben presto con l’avere opinioni
divergenti sui destini dell’azienda e sulle strategie da adottare. Beauchamp
insisteva per l’adozione di un solo cono, per abbassare i costi di produzione
e aumentare le vendite. L’idea, in effetti, non era peregrina, tanto che
Dopyera iniziò a svilupparla dopo aver abbandonato la National, la ditta che
aveva fondato (un po’ come Steve Jobs e la Apple). Insieme al fratello
Rudy, cui il brevetto è attribuito solo per problemi legali, John fondò la
Dobro (dalle iniziali di Dopyera Brothers) e riuscí a riottenere il controllo
della National. (A onore di Beauchamp va detto che dopo l’allontanamento
dalla National si mise in ditta con l’immigrato svizzero Alfred
Richenbacker, fornitore dei dischi di metallo per la National, con l’intento
di creare la prima chitarra elettrica. Di fatto ci riuscirono, ma, come si suol
dire, questa è un’altra storia).
Nonostante il prezzo, meno accessibile delle Stella ma piú a buon
mercato delle Martin (azienda fondata dal liutaio tedesco Christian
Frederick Martin), le National si diffusero capillarmente: a metà degli anni
Trenta se ne producevano sessanta al giorno. Piú maneggevole (il corpo era
piú piccolo, dal momento che non serviva ad amplificare il suono), e dal
volume potentissimo, la chitarra di Dopyera aveva un suono evidentemente
metallico, ma era in grado di produrre anche tinte piú sfumate; soprattutto,
sapeva enfatizzare gli elementi ritmici, trasformando il gioco di pollice del
musicista in una sezione ritmica vera e propria. Blind Boy Fuller, Peetie
Wheatstraw, Bo Carter e Scrapper Blackwell, tra gli altri, legarono i propri
blues ai risuonatori delle chitarre National.
Il mercato delle sei corde si dimostrò fiorente e redditizio almeno fino
alla grande crisi del ’29. Molti i marchi a contendersi il predominio: oltre a
quelli già citati, non si può non nominare la Gibson, ai cui strumenti molti
bluesmen si rivolsero, o le Regal, costruite sfruttando il principio del
risuonatore, o ancora le Stromberg-Voisinet, un esemplare delle quali fu
certamente utilizzato da Charley Patton. In pochi anni i costruttori di
strumenti a corda seppero erigere aziende in ottima salute, e di grandi
prospettive; Oscar Schmidt addirittura aprí fabbriche anche al di là
dell’Oceano, mentre si moltiplicavano succursali e marchi. Il tutto in
neanche cinquant’anni.
Le prime testimonianze della presenza della chitarra sul suolo americano
risalgono al XVIII secolo, e sulla sua provenienza non esistono dubbi:
colonizzatori ed esploratori europei portarono la chitarra – spagnola, con
corde rivestite di seta, e inglese, con corde di metallo – e ne favorirono la
diffusione. All’inizio del XIX secolo, come ci racconta Jeffrey Noonan:

In questo Paese la chitarra veniva diffusa, insegnata e studiata quasi alla stessa
stregua degli altri strumenti europei colti. Gli insegnanti americani di chitarra (come gli
altri musicisti insegnanti) esaltavano le radici europee e insegnavano il loro strumento
attraverso tecniche formali – inclusa la notazione scritta – importate dall’Europa.

Per il suo costo accessibile, la maneggevolezza, il suono delicato, le


infinite possibilità (Beethoven la definiva una scatola musicale) la chitarra
penetrò velocemente in molte case nordamericane, secondo la ricostruzione
di Peter Danner.

Nella vita degli Americani del XIX secolo troviamo la chitarra non tra i lavoratori
itineranti o tra la popolazione rurale povera; né era uno strumento dei ceti elevati.
Piuttosto, troviamo la chitarra nel ceto medio, soprattutto tra coloro che non potevano
permettersi un pianoforte (il vero simbolo del decoro vittoriano), o tra coloro che si
trovavano appena oltre la fase pionieristica e non abbastanza competenti da esserne
pratici.
Vincendo le barriere sociali, la chitarra sorpassa la linea del colore,
livellando strati sociali e abitudini private.

Anche le giovani donne delle famiglie afroamericane borghesi ed emancipate


usavano la chitarra, cosí come il pianoforte, negli eventi mondani che si tenevano in
casa: «è raro che l’ospite, nelle famiglie con due o tre fanciulle, non ne trovi una o piú
che sappia suonare il pianoforte, la chitarra, o altri strumenti musicali; e costoro,
attraverso il canto e la conversazione… costituivano gli intrattenimenti delle loro serate
casalinghe».

Nel Sud degli Stati Uniti, però, le cose andarono diversamente. Sebbene
le grandi comunità di afroamericani avessero sviluppato negli anni tecniche
e stili espressivi su strumenti a corda immediatamente derivanti dai
prototipi africani (come abbiamo visto nella prima sezione del libro), la
chitarra fu adottata dai bluesmen per la sua ricchezza timbrica e per la
maggiore duttilità rispetto al banjo. I primi strumenti, presumibilmente,
apparvero in Texas e in California, portati da soldati spagnoli o attraverso il
confine col Messico. In un breve lasso di tempo, quindi, i musicisti
meridionali seppero elaborare un vasto repertorio di tecniche e prassi
esecutive in grado di conferire alla loro musica quella peculiare dimensione
timbrica che ne costituisce parte del fascino.
I bluesmen applicarono alla sei corde tecniche di varia provenienza,
molto spesso inventate dallo stesso esecutore in risposta a una necessità
esecutiva o espressiva. Quella del bending, per esempio, è ancora oggi
estesamente utilizzata nel rock: con l’idea di piegare la nota si spinge la
corda tastata tangenzialmente al manico: piú la corda viene curvata, piú la
nota si alza in maniera non convenzionale. La piú celebre di queste tecniche
è senza dubbio la cosiddetta tecnica slide. Consiste nel tastare le corde non
con i polpastrelli delle dita, ma facendo scivolare lungo di esse un aggeggio
liscio – la lama di un coltello o il collo di una bottiglia (da cui il nome
bottleneck) – con lo scopo di, da un lato, ottenere un suono in glissando,
senza soluzione di continuità nel passaggio da una nota all’altra con la
possibilità di intonare intervalli particolari, inferiori al mezzo tono;
dall’altro, le note cosí ottenute acquistano una grana molto simile a quella
della voce umana. Sulla provenienza di simile tecnica non dovrebbero
esserci dubbi: il racconto di W. C. Handy riguardo al suo casuale incontro
notturno col bluesman nella stazioncina di Tutweiler fa esplicitamente
riferimento allo stile esecutivo reso famoso dai chitarristi hawaiani. Spiega
Andrea Rebora:

La nascita non ufficiale di questo strumento risale grosso modo al periodo 1860-80, e
la sua paternità è oggi attribuita a tre diverse persone: James Hoa, Gabriel Davion e
Joseph Kekuku. Ognuno dei tre infatti, da testimonianze di amici e concittadini, o da
proprie affermazioni, rivendicò l’invenzione della tecnica slide. Le controversie che
ancor oggi ci sono in merito non tengono conto, a mio avviso, del fatto che è
probabilissimo che ciascuno dei tre abbia effettivamente e nello stesso periodo «creato»
la steel guitar a insaputa degli altri due ma casualmente, come derivazione della tecnica
tradizionale della chitarra; e probabilmente alla stessa scoperta saranno arrivati anche
numerosi altri chitarristi di allora rimasti nell’anonimato.

Joseph Kekuku diventò abbastanza famoso una ventina d’anni dopo


anche in Usa (l’arcipelago delle Hawaii fu annesso all’Unione, come
cinquantesimo stato, nel 1959, appena due anni prima della nascita del suo
piú famoso rappresentante, Barack Obama) e in Europa, grazie a tournée di
successo; ma la sua tecnica innovativa si era già diffusa velocemente sul
territorio americano: nel 1899 il catalogo Sears & Roebuck vendeva
barrette di metallo per chitarristi in cerca di nuove emozioni.
Non va, però, sottovalutata, nell’adozione di questa tecnica da parte dei
musicisti del Delta, l’arcaica prassi esecutiva del diddle bow, lo strumento a
una corda analizzato nella prima sezione del libro, o quanto meno una forte
influenza di pratiche esecutive arcaiche. Come puntualizza Robert Palmer:

Gus Cannon, nato nel nord del Mississippi nel 1883 e stabilitosi nel Delta vicino a
Clarksdale nel 1895, sentí per la prima volta una slide guitar «intorno al 1900, forse
poco prima». Il chitarrista era Alec o Alex Lee, che nacque verso il 1870 e trascorse la
maggior parte della sua vita nelle vicinanze di Coahoma Country. Le canzoni che
suonava con una lama includevano John Henry, probabilmente uno dei primi pezzi
suonati con la slide guitar, e Poor Boy Long Ways from Home, una canzone melodiosa di
un solo verso in cui ogni frase è ripetuta tre volte (AAA), e a cui rispondeva con la
chitarra slide.
L’incontro tra le due tecniche, probabilmente, si concretizza nell’uso del
bottleneck con le chitarre National, strumenti che perfettamente si
adattavano allo scivolamento, come si può vedere nella registrazione
filmata delle strepitose esecuzioni di Son House degli anni Sessanta. L’uso
del bottleneck, però, imponeva un’accordatura aperta, altro filone di grande
sperimentazione e innovazione dei bluesmen. Per accordatura aperta si
intende una intonazione delle sei corde della chitarra diversa da quella
standard (dalla prima corda, quella che produce la nota piú bassa: mi-la-re-
sol-si-mi). Inseguendo accordi piú ricchi o risonanti, la possibilità di poter
piú facilmente eseguire parti solistiche e di accompagnamento allo stesso
tempo, o sonorità piú personali, i musicisti alteravano l’accordatura dello
strumento, anche in assenza di bottleneck. Tra le accordature aperte, una
delle piú utilizzate è la cosiddetta Vestapol, o di Re maggiore (re - la - re -
fa diesis - la - re); Debra DeSalvo decritta l’origine del nome:

L’accordatura Vestapol era quasi sempre usata nella parlour music, musica per
chitarra suonata nei salotti buoni della borghesia, popolare dalla metà del 1800 fino
all’inizio del nuovo secolo. Ha preso il nome dalla pubblicazione avvenuta nel 1854
della partitura di un brano strumentale intitolato L’assedio di Sebastopoli, cosí chiamata
dopo l’assedio durato undici mesi di una base navale russa a Sebastopoli in Ucraina
durante la Guerra di Crimea.

Robert Johnson fu un vero specialista delle accordature aperte:


analizzando le sue registrazioni è possibile individuare molte varianti, come
la cosiddetta Open G, ovvero in sol, la preferita dai chitarristi che
utilizzavano la tecnica slide.

2. La rivincita del pianoforte.


A pensarci con attenzione, appare bizzarro che il pianoforte abbia potuto
rivestire, nella storia del blues, un ruolo tanto importante come quello della
chitarra. Strumento costosissimo, ingombrante e tutt’altro che
maneggevole, non trasportabile; limitato nella possibilità di applicare alla
tastiera le tecniche di piegamento delle note dei chitarristi (provate voi a far
scivolare un coltellino sui tasti); un suono certamente articolato ma
ancorato, piú della sei corde, a un repertorio e a un’immagine salottiera e
borghese.
Ciononostante, il paludato strumento, e i suoi ottantotto tasti, hanno
saputo creare una duplice via al blues: quella dei pianisti di boogie-woogie
(che tratteremo nel prossimo capitolo) e quella dei pianisti di blues veri e
propri, coloro cioè che hanno contribuito, con la precisione e la ricchezza
dei loro accompagnamenti, al successo e all’affermazione delle cantanti del
classic blues. Due strade piuttosto ben definite, non sempre sovrapponibili, i
cui esiti hanno segnato il raggiungimento di picchi espressivi assoluti nella
straordinaria storia del pianoforte nella musica afroamericana.
Piú fonti attribuiscono al ragtime il merito di aver favorito una via
pianistica alle dodici battute. Senza alcun dubbio, il suo successo incise
sulla percezione del pianoforte, sia dal punto di vista musicale che sociale,
diminuendone la distanza culturale. Ma anche il ragtime non sarebbe nato
se prima non si fosse verificata una situazione favorevole alla diffusione
dello strumento nelle case, nei salotti, nei locali pubblici e nelle chiese. Si
tace, cioè, o si sottovaluta, il fatto che, a partire dal 1870, il prezzo dei
pianoforti diminuí drasticamente grazie all’intuito di un geniale
imprenditore. Joseph P. Hale non aveva alcun talento o interesse musicale;
si era moderatamente arricchito vendendo vasellame e decise di investire
sui pianoforti perché gli sembrava un settore potenzialmente in grande
espansione. A partire dal 1860 iniziò a comprare parti separate, e poi ad
assemblarle in un pianoforte finito (la medesima operazione che si fa con i
componenti di un computer) che costava la metà, o addirittura un terzo
degli altri pianoforti. Hale vendeva i suoi strumenti a 160 dollari, senza
alcun marchio; anzi, lasciava scegliere all’acquirente quale scritta dovesse
comparire sulla ribaltina dello strumento e la realizzava con degli stampini.
Dopo appena cinque anni di attività Hale riusciva ad assemblare e vendere
cinquecento pianoforti all’anno. Nel 1876 decuplicò la cifra.
Grazie all’ingegno di Hale il pianoforte si trasformò da inavvicinabile
status symbol in lussuoso oggetto di arredamento alla portata di tutti. La
presenza di una tastiera di avorio ed ebano in molti salotti, locali pubblici,
punti di ritrovo, locali di culto favorí enormemente la possibilità di
esercizio e studio per la popolazione di colore. All’aumento
dell’esposizione al nuovo mezzo espressivo corrispose l’esplosione di
nuove forme musicali pianistiche, come appunto il ragtime e il boogie-
woogie.
I pianisti che per tutto un decennio accompagnarono le regine, ma anche
principesse e contessine, del blues classico provenivano da ambiti diversi e
complessivamente formavano un insieme piuttosto stratificato. Da una parte
i pianisti di jazz: musicisti già affermati, o che lo sarebbero diventati a
breve, per i quali il lavoro in sala di incisione con le cantanti era una
occupazione parallela, come per Fletcher Henderson o James P. Johnson.
Altri, invece, appartenevano a una nuova generazione professionale che
all’industria discografica, e a quella editoriale, puntava con decisione.
Abbiamo già visto come fu grazie all’intuito manageriale, e non solo
artistico, che Perry Bradford riuscí a creare la breccia decisiva per la nascita
dei race record. Bradford incarnava perfettamente l’apertura di orizzonte, e
un certo genuino rampantismo, necessari a sopravvivere nell’agitato mare
dello show business dell’epoca. Dall’età di quindici anni aveva iniziato a
esibirsi come pianista, cantante e ballerino nei minstrel show e dove
capitasse, trasferendosi dalla natia Alabama a New York. Qui aggiunse alle
sue occupazioni quella di autore, direttore musicale (per Mamie Smith,
naturalmente) e poi impresario discografico di successo. Al suo attivo anche
registrazioni con la sua band – i Jazz Phools – e altre cantanti minori (Ether
Ridley, Julia Jones, Louise Vant), senza però riuscire a bissare il successo
clamoroso di Crazy Blues.
Veniva da New Orleans, invece, Clarence Williams, figura addirittura
decisiva per le sorti della musica afroamericana nei primi trent’anni del
secolo. E non tanto per la sua particolare bravura strumentale (era un buon
musicista) quanto per la lungimiranza con cui costruí un vero sistema
attraverso cui produrre profitti per sé e possibilità di lavoro per i suoi
colleghi. Nella Crescent City il giovanissimo Williams aveva già appreso i
rudimenti dell’imprenditoria musicale: dopo essersi messo in ditta col
violinista Armand Piron e inciso i primi brani per la Columbia, arrivò a
Chicago con un discreto gruzzolo e il suo negozio di musica divenne subito
il punto di riferimento per i musicisti neri in città. Williams comprese
immediatamente che il mercato discografico e quello delle edizioni
avrebbero in breve tempo conosciuto una inimmaginabile espansione, e con
molto talento e intuito si tuffò nel settore conseguendo, in breve tempo, una
centralità indiscutibile. Compositore di grido, accompagnatore misurato e
sensibile, jazzista alla bisogna (anche se quando registra con Armstrong
Texas Moaner Blues, nel ’24, la distanza tra il trombettista e gli altri è
abissale), l’artista neworleansiano rivelò un talento imprenditoriale
strepitoso: oltre alle sue proprie edizioni, Williams divenne direttore
artistico della OKeh e la sua agenzia di management era in grado di
assicurare lavoro a molti musicisti. Figlio del suo tempo, e delle brucianti
accelerazioni stilistiche di cui tutti furono testimoni, riuscí piú volte
nell’impresa di scrivere e pubblicare grandi successi – come quelli che creò
per Bessie Smith – o addirittura pietre miliari del jazz (Royal Garden Blues,
per citarne una). Tanto che a un certo punto l’ambizione gli prese la mano e
sui suoi biglietti da visita si spacciava non solo come l’inventore del jazz,
ma anche del boogie-woogie. Due affermazioni palesemente fasulle,
soprattutto la seconda; per la prima avrebbe dovuto vedersela con Jelly Roll
Morton, che si autoproclamò inventore del jazz e dello stomp, con relativa
dicitura sui biglietti da visita, e qualche ragione e credibilità in piú. Sia stato
Williams o Morton, il destino si è divertito alle spalle di entrambi quando il
regista italiano Giuseppe Tornatore, probabilmente ignaro della questione,
per impersonare Jelly Roll Morton nel suo film La leggenda del pianista
sull’oceano scelse un attore che si chiamava proprio Clarence Williams III.
Richard M(arigny) Jones è un altro dei pianisti il cui nome piú
frequentemente ricorre accanto a quello delle cantanti. Veniva da New
Orleans, aveva suonato con i piú bei nomi del jazz in città (Piron, Joe King
Oliver) e appena arrivato a Chicago si impiegò nella ditta di Clarence
Williams, come manager. Autore di livello, musicista raffinato dal tocco
pertinente, fu tra gli accompagnatori piú sensibili e attenti (in certe sedute
Fletcher Henderson è palesemente svogliato), cosí come Porter Grainger.
Questi ebbe una sua fetta di notorietà per essere stato uno dei pupilli di
Bessie Smith. Fu direttore musicale e autore delle musiche per la commedia
Mississippi Days, uno show di grande successo nel 1928, che oltre
all’imperatrice del blues metteva in scena quarantacinque musicisti, e
autore di alcuni blues molto eseguiti, come Tain’t Nobody’s Bizness If I Do.
Sebbene avesse prestato la sua opera pianistica – non sempre ineccepibile –
per molte cantanti, è a Bessie Smith che è legata la sua fama, anche
relativamente alle cronache extramusicali. Grainger era omosessuale, ma
non seppe sottrarsi alle attenzioni della cantante, sempre ansiosa di
assaggiare nuove varianti di genere. Scomparve nel nulla, come dal nulla
sembrava essere venuto: sul suo conto non si hanno notizie certe, neanche
sulle date di nascita e morte.
La fine degli anni Venti preparò l’arrivo di due veri bluesmen pianisti
(oltre a Skip James, la cui opera analizzeremo in un altro capitolo). Leroy
Carr e Peetie Wheatstraw, musicisti geniali e innovativi, affidarono al piano
i loro blues modernissimi, originali, urbani. Forse, proprio per questo loro
essere troppo al di fuori della traiettoria indicata dal canone blues, restano
ancora parcheggiati in una sorta di limbo, preludio, si spera, alla loro
definitiva riabilitazione.
Leroy Carr, peraltro, come abbiamo già visto, fu tra i piú popolari
musicisti del suo tempo, e blockbuster invidiatissimo. Non solo, fu
probabilmente anche uno dei musicisti piú influenti del blues prebellico.
Elijah Wald sostiene che:

Non aveva niente a che fare con lo stereotipo del bluesman agli inizi. Pianista
raffinato, con una voce gentile, espressiva, era conosciuto per i suoi vestiti eleganti e
visse la maggior parte della sua vita a Indianapolis. Il suo primo disco How Long - How
Long Blues, del 1928, ebbe un effetto rivoluzionario paragonabile a quello del pop
crooning di Bing Crosby, e per ragioni simili. Le prime stelle del blues, sia che
provenissero dal vaudeville, come Bessie Smith, sia che fossero cantanti di strada come
Blind Lemon Jefferson, avevano avuto bisogno di voci potenti per proiettare la loro
musica, ma con l’aiuto di nuovi microfoni e tecnologie di registrazione, Carr sembrava
un raffinato tipo di città che conversava con pochi intimi amici.
I testi di Carr erano scritti con molta attenzione, univano poesia sentimentale e
beffarda ironia, e la sua musica aveva uno swing leggero e cadenzato che poteva, in un
attimo, scivolare in un trascinante boogie. Piuttosto che sui gruppi jazz che
accompagnavano Bessie Smith, o sul peculiare stile chitarristico di Blind Lemon
Jefferson, Carr cantava sul solido ritmo del suo pianoforte e sulla pungente chitarra del
suo abituale accompagnatore Francis (Scrapper) Blackwell. Quello che veniva fuori era
una novità, uno stile da club urbano che segnò una nuova era nella popular music.

L’impatto che Carr ebbe sul blues degli anni Trenta lo si può forse
misurare, piú che sul numero di copie vendute, sull’improvvisa apparizione
di epigoni e imitatori. La formula piano-chitarra assicurava un equilibrio
sonico ed espressivo inusuale, spingendo la musica in avanti, garantendole
però una pertinenza e una forza diverse. Bumblee Bee Slim e Bill Gaither
(il quale incise brani con lo pseudonimo di Leroy’s Buddy) provarono,
essendo musicisti di spessore, a replicarne i modi timbrici e le nuances
vocali; ma anche per due bluesmen come loro era difficile ripetere
l’introversione di versi come

I have the blues before sunrise, tears standing in my eyes.


I have the blues before sunrise, tears standing in my eyes.
It was a miserable feeling, now babe, a feeling I do despise 21.

Una tranquilla disperazione, cantata a mezza voce: queste le coordinate


di un bluesman atipico e brillante, nato a Nashville nel 1905 e vissuto per
buona parte della sua vita a Indianapolis, dove si spense nel 1935 distrutto
dall’alcolismo.
Se esistesse una galleria dei bluesmen ingiustamente dimenticati, Peetie
Wheatstraw ne occuperebbe un posto di rilievo. Diabolico e sulfureo,
geniale ed estroverso fino alla rudezza, Wheatstraw rappresentò un modello
difficile da imitare, eppure in molti ci provarono: tra tutti, Robert Johnson,
il quale, si dice, mutuò proprio da Peetie il suo côté demoniaco; e non solo
quello. Già, perché William Bunch, questo il suo vero nome, nato a Ripley,
Tennessee, il 21 dicembre del 1902, scelse come soprannome e marchio di
fabbrica “The Devil Son-In-Law”, il genero del demonio: a questa nuova, e
leggermente inquietante, identità, attribuí quasi tutti i brani da lui incisi
(oltre 160, nell’arco di appena un decennio). Fuori dal palco, stando alle
testimonianze di chi lo conobbe, la differenza tra persona e personaggio era
minima: caustico e abrasivo nei suoi blues, minaccioso ed egocentrico nella
vita normale, adottò un comportamento simile a quello che i rapper
avrebbero manifestato cinquant’anni dopo.
Aveva la stoffa del capobranco, Peetie. Stella indiscussa della scena
bluesistica di Saint Louis, eccellente pianista, dallo stile personalissimo e
innovativo, sapeva disimpegnarsi egregiamente anche alla chitarra: l’unica
foto che ci resta lo vede imbracciare una sei corde. Talento visionario, seppe
infondere nei suoi testi una vena umoristica assai moderna, e un’attenzione
alle vicende sociopolitiche tale da renderlo un geniale anticipatore delle
tendenze piú arrabbiate della musica afroamericana. Anche Ralph Ellison
rimase affascinato dalla sua capacità di affabulatore e dalla sua peculiare
visione delle cose: i due suonarono spesso insieme (lo scrittore era un
valente trombettista) ed Ellison finí con l’infilare il bluesman nel suo
Invisible Man col nome di Peter Wheatstraw, un personaggio sí minore, ma
non marginale.
La carriera discografica di Peetie iniziò nel 1930, con sedute di scarso
rilievo; già dall’anno successivo, però, il bluesman prese le misure alla sua
ispirazione e riuscí a costruire blues esemplari, per ricchezza melodica e
brillantezza dei testi. Dopo una pausa di due anni, dovuta alla Grande
Depressione, Wheatstraw tornò in studio di registrazione nel 1934: non
aveva perso tempo, e l’inattività forzata, almeno a livello discografico, gli
diede modo, e movente, di perfezionare la sua tecnica pianistica: il risultato
fu l’avvio di una lunga serie di piccoli capolavori. Padrone del suo stile,
pieno di vezzi personalissimi, come il celeberrimo gridolino in falsetto «Oh,
well, well», piazzato in mezzo al terzo verso della strofa, Peetie cantava di
whiskey proibiti e sequestri di persona, di donne e lavoro attraverso una
mirabile e fitta rete di riferimenti poetici, di vivide immagini e situazioni
mai banali; soprattutto, quasi mai in prima persona, conferendo cosí alle sue
strofe un sapore comunitario di grande impatto, la cui forza di penetrazione
nel gusto dell’epoca è ampiamente testimoniata dalla fama che arrise al
diabolico musicista.
Il successo arrivò immediatamente, e per Wheatstraw le registrazioni si
moltiplicarono; ma il bluesman fu sempre attento a non ripetere schemi, a
non cadere nel cliché: una delle sue innovazioni di metà degli anni Trenta
fu la composizione di “stomp”, ovvero blues con una piú marcata impronta
ritmica. E fu quando era ancora nel pieno dell’attività e all’apice del
successo che il diavolo ci mise lo zampino: il giorno del suo trentanovesimo
compleanno, il 21 dicembre 1941, Peetie Wheatstraw fu vittima di un
pauroso incidente stradale: l’auto nella quale viaggiava insieme ad altre due
persone si schiantò contro un carro merci in sosta. Fu ricoverato in
ospedale, dove spirò qualche ora dopo per le gravi ferite riportate alla testa.
In qualche modo, l’artista aveva percepito qualcosa: nel corso della sua
ultima registrazione, a Chicago, meno di un mese prima del tragico
incidente, aveva inciso brani dal misterioso contenuto anticipatore, quasi
come una premonizione: Hearse Man Blues, il blues dell’uomo del carro
funebre, o Bring Me Flowers While I’m Living: portatemi fiori mentre sono
vivo, non quando sarò morto – canta Wheatstraw – e borse di ghiaccio per
raffreddare la mia testa dolente.
Come una profezia.

3. «Violin, sing the blues for me!»


La presenza diffusa e l’abilità da sempre dimostrata dagli schiavi africani
nell’uso di spesso non meglio identificati strumenti ad arco è assai ben
testimoniata sin dalla metà del Seicento. Oltre alla forza, alla stazza fisica, e
alla resistenza alla fatica, il saper suonare il violino, o un suo antenato
africano, costituiva un optional assai valutato per lo schiavo, il quale
cessava di essere considerato esclusivamente come bestia da soma per
essere ammesso a suonare nei balli in casa del padrone; talvolta, come
pegno di riconoscenza, gli veniva concesso di suonare anche per i suoi
confratelli. Il violino costituiva una sorta di linea di demarcazione fra la
brutalità della condizione dello schiavo e il suo, seppur temporaneo e
drammaticamente parziale, superamento. La facilità di fraseggio, la sonorità
sinuosa e mobile, la possibilità di allestire robuste e intricate trame ritmiche,
capaci di incendiare la danza, resero lo strumento molto ricercato e diffuso.
Per la quantità e la qualità degli strumenti ad arco della tradizione africana,
gli schiavi impararono velocemente le tecniche del violino europeo, e ne
diventarono brillanti interpreti in brevissimo tempo, come testimonia, con
esemplare e toccante sincerità, l’autobiografia di Solomon Northup; questi
era un uomo libero, mulatto, figlio di schiavi; viveva nella zona di New
York quando fu rapito da due individui, e venduto come schiavo. Per dodici
lunghi anni sopravvisse grazie alla sua abilità di violinista.

Ahimè! Non fosse stato per il mio amato violino, non riesco a immaginare come
avrei potuto sopportare la schiavitú per lunghi anni. Mi ha fatto entrare in grandi case –
mi ha alleggerito i numerosi giorni di lavoro nei campi – mi ha permesso di rendere la
mia baracca piú confortevole – pipe e tabacco e paia di scarpe in piú, e spesso mi ha
consentito di stare lontano da un padrone duro, di essere testimone di situazioni allegre e
divertenti. È stato il mio compagno – il mio amico del cuore che festeggiava
rumorosamente quando ero felice, che diffondeva la sua dolce melodiosa consolazione,
quando ero triste. Ha annunciato il mio nome al Paese – mi ha fatto conoscere amici che
non si sarebbero mai accorti di me – mi ha dato un posto d’onore nelle feste annuali, e
assicurato il piú sonoro e affettuoso benvenuto da parte di tutti durante le feste da ballo
di Natale.
Per imparare le tecniche del violino gli schiavi venivano addirittura
mandati a New Orleans, diventata a partire dal 1840 la capitale
incontrastata di questo e altri strumenti. Come nota Marshall Wyatt, verso la
fine del secolo il violino era lo strumento piú diffuso anche nelle band che
stavano, di fatto, creando i presupposti per la nascita del jazz. A questo tipo
di sonorità fu, evidentemente, esposto Lonnie Johnson, il quale, prima di
diventare uno dei chitarristi piú brillanti della musica del XX secolo, iniziò
la sua carriera come violinista. E non dimenticò mai di esserlo stato, visto
che, da quando ottenne il suo primo contratto discografico con la OKeh nel
1925, registrò piú di venti brani con il suo primo strumento. Johnson era un
musicista versatile: sapeva suonare correttamente anche pianoforte e
harmonium, cantava con voce gradevole e senza incertezze, ma restò legato
agli strumenti con i quali aveva iniziato la sua carriera professionale
nell’orchestra del padre. Celebre il suo Violin Blues, inciso nel 1928, nel
quale, dopo aver cantato una strofa e prima di improvvisare, urla: «Violin,
sing the blues for me!», dimostrando come il violino avesse peculiarità
espressive e tecniche, quasi cantabili, da renderlo perfettamente adeguato al
blues. Johnson riassume, nella sua arte violinistica, molti dei tratti
sopravvissuti all’oblio cui i black fiddler sono stati condannati: facilità
nell’uso di bicordi – spesso accordi a tre note, ottenibili con piú facilità in
virtú della minore curvatura del ponticello –, sonorità molto vicina alla
grana della voce umana e una naturale e istintiva propensione
all’improvvisazione. Caratteristiche riassunte con precisione da Michael
Hoffheimer:

A differenza di molti violinisti rurali angloamericani, la maggior parte dei violinisti


di blues adottava una posizione semiclassica, tenendo lo strumento alto sulla spalla e
stringendo l’arco alla base invece che al di sopra del crine. La tecnica della mano destra
impiegava pesanti arcate, pochi string crossing e il tremolo dell’arco. La tecnica della
mano sinistra enfatizzava semplici diteggiature, note scivolate in terza e quinta
posizione, e pochi o nessun utilizzo di abbellimenti come trilli e gruppetti. La
caratteristica che maggiormente distingueva il violino blues era l’uso libero di un
vibrato molto ampio prodotto dallo scivolamento piuttosto che dalla semplice
ondulazione del dito che blocca la nota principale.
L’esempio di Lonnie Johnson fu probabilmente determinante per i
musicisti a lui successivi (soprattutto bianchi), ma la presenza di una forte e
sentita tradizione violinistica nel blues downhome è un dato negato soltanto
dalla cecità delle compagnie discografiche del tempo, per le quali il violino
era strumento troppo legato alla dimensione contadina e campagnola,
quindi poco abile a raccogliere quella necessaria elettricità di cui il blues
abbisognava per essere collocato sul mercato discografico. Altrimenti non
si spiega come mai Charley Patton, il sulfureo, dionisiaco e visionario
Charley Patton avesse deciso di portare con sé a Grafton, per la seconda
seduta di registrazione con la Paramount, un violinista: perché,
evidentemente, era normale suonare il blues con l’accompagnamento di un
fiddler. Henry “Son” Sims, nato ad Anguilla, Mississippi, nel 1890, non fu
un musicista trascendentale; sapeva suonare anche altri strumenti – fu lui a
insegnare i primi rudimenti della chitarra a Muddy Waters – ma grazie al
violino e alle string bands che formava divenne una presenza costante nella
zona di Clarksdale. Oltre ad accompagnare Patton, con esiti che molti critici
non esaltano, nella medesima sessione ebbe la fortuna di incidere quattro
brani a suo nome, nei quali canta e si destreggia al fiddle con
l’accompagnamento, attento seppur non estremamente partecipe, di Patton.
Di altra pasta, e di misurata, calibrata aggressività il duo formato da
Andrew (afroindiano di sangue cherokee) e Jim Baxter, rispettivamente
padre e figlio nonostante si esibissero sotto la sigla di Baxter Brothers: le
registrazioni del biennio ’27-’29 mostrano affiatamento e sincronia, e una
elegante vena timbrica nient’affatto disprezzabile. I due suonavano per la
maggior parte a casa loro, nella contea di Gordon, nella zona settentrionale
della Georgia, spesso per i balli dei bianchi; e a un gruppo di musicisti
bianchi, The Georgia Yellow Hammers, è legato il nome di Andrew: la
registrazione di G Rag, a nome della band, è una delle rare occasioni in cui
musicisti bianchi e neri suonano nello stesso disco.
Di eccellente livello si dimostrò anche la collaborazione tra Peg Leg
Howell e il fiddler Eddie Anthony. Nella “gang”, una string band
completata dall’altro chitarrista Henry Williams, i tre esploravano un
repertorio vastissimo, che pescava da vari giacimenti stilistici, con verve e
precisione ritmica; di grande interesse Beaver Slide Rag, incisa nell’agosto
del ’27, che pare annunciare, con clamoroso anticipo, il rock and roll
dipinto di country di Bill Haley.
Cosa fosse una string band dovrebbe essere ormai evidente, ma sarà utile
fare un doveroso passo indietro, perché quantunque il mito del bluesman
solitario sia duro a deperire, fu sempre W. C. Handy a testimoniare di come
il blues, appena qualche anno dopo il suo incontro con il chitarrista nella
stazioncina di Tutwiler, fosse genere musicale suonato da gruppi: insiemi di
musicisti la cui strumentazione prediligeva gli strumenti a corda (banjo,
violino, mandolino, spesso una chitarra tenore a fare le veci del basso).
Strumenti, evidentemente, di elementare trasportabilità, di poca o nulla
manutenzione e immediatamente pronti all’uso. Le string bands furono una
delle piú diffuse forme di aggregazione musicale afroamericane a partire
dagli ultimi anni del XIX secolo. Attive in un ampio ventaglio di contesti
(picnic, feste da ballo, danze campestri e, a un livello professionalmente piú
avanzato, minstrel show e vaudeville) potevano contare su un repertorio
vastissimo, nel quale il blues – come abbiamo già visto – rivestiva un ruolo
importante ma non unico: assieme alle dodici battute venivano suonate
canzoni di Tin Pan Alley, marce, temi ragtime e vecchie canzoni country.
Dalle non numerosissime registrazioni a disposizione è possibile cogliere
l’eleganza del gesto tecnico e la pulizia formale; le orchestre guidate dal
giamaicano Dan Kildare incisero blues già nel 1917, e facevano spesso
sfoggio di un violoncello.
Altri eccellenti violinisti, come Will Batts, Clifford Hayes, Milton Robie
e Charley Pierce si misero in luce in una particolare forma di string band
che prese il nome di jug band. Formazioni capaci di riscuotere enorme
successo e di vendere centinaia di migliaia di copie dei loro dischi, registrati
con strumenti eventuali, come bottiglioni, assi per lavare e kazoo.

4. La musica degli oggetti.


Per l’impareggiabile diversità timbrica, le suggestioni fortissime degli
strumenti adoperati, l’abilità nel manovrare aggeggi musicali spesso
autocostruiti, l’audacia nel cercare soluzioni tecnico-espressive: per tutte
queste, e moltissime altre, ragioni, le jug band rappresentarono uno dei
fenomeni piú interessanti emersi nel blues, e nella musica nera, dalla metà
degli anni Venti in poi. Ne riassume pregevolmente le caratteristiche James
A. LaRose:
Nei loro svariati repertori, attraverso l’uso di un’ampia gamma di strumenti a corda, e
vista la popolarità tra il pubblico multirazziale e interclassista, le jug band continuarono
la tradizione delle string band nere. Tuttavia, l’uso in queste band di pseudo strumenti
come jug, washboard e kazoo – oltre che nella consapevolezza del loro fascino
stravagante – aveva come riferimento un unico campionario di antenati afroamericani.
Tali strumenti avevano una vecchia tradizione nelle spasm bands, bande di bambini che
suonavano strumenti fatti in casa e marciavano dietro le jazz bands ufficiali nelle parate
di New Orleans. È evidente l’effetto novelty dell’imitazione, nella jug band, dove la
brocca, il lavatoio, e il kazoo potrebbero essere visti come sostituti di fortuna
rispettivamente di tuba, batteria e tromba in una jazz band. Inoltre, in Africa occidentale
ci sono strumenti simili al jug e al basso ottenuto con una tinozza, cosí come l’uso
ritualistico di vari voice disguisers – paragonabili al kazoo nelle jug band – per evocare
le voci degli spiriti o degli animali. Tali precedenti africani e afroamericani, e molti
esempi di un uso piú puramente musicale, meno autoreferenziale di tali strumenti da
parte dei musicisti neri che suonano tra di loro, suggeriscono, al di là dell’aspetto
romanzesco, una legittimazione storica di questi strumenti nella musica afroamericana.

Il jug è un bottiglione, o un qualsiasi contenitore di liquidi, con il collo


fino, dentro il quale poter soffiare aria. Di vetro, ceramica, latta o alluminio,
il jug aveva il compito di stabilire le note basse degli accordi, ovvero la
funzione che di solito veniva assolta dal basso tuba: non a caso, veniva
chiamato «the poor man’s tuba». Attraverso la tensione delle labbra – come
avviene, per esempio, per l’insufflazione d’aria in un flauto traverso –
l’esecutore aveva la possibilità di creare suoni intonati e di coprire, almeno i
musicisti piú bravi, un’estensione insospettabile. Allo stesso modo,
accompagnando la vocalizzazione di suoni all’emissione d’aria i jug blower
erano in grado di produrre effetti timbrici assai complessi. Tra i migliori
specialisti dell’epoca va segnalato Earl McDonald, un vero e proprio
virtuoso dello strumento. Incise molto con i Dixieland Jug Blowers,
capitanati dal violinista Clifford Heyes; venivano da Louisville e proprio
dalla cittadina del Kentucky si diffuse la pratica della jug band, poi ripresa
con grande fervore e innovazioni tecniche dai musicisti di Memphis. Le
ricerche di Fred Cox risalgono fino agli ultimi decenni del XIX secolo, e
mettono in luce due personaggi leggendari: B. D. Tite e Black Daddy, due
suonatori di banjo, da cui si è poi generata la scuola di jug di cui McDonald
è stato l’interprete piú brillante. Racconta Cox che i due si trovavano nella
Virginia del Sud, nella casa di Cy Anderson, un altro musicista, quando un
vicino si sedette sul patio e iniziò ad armeggiare con un jug, emettendo
suoni inauditi:

B. D. smise di suonare, si sedette accanto al jug blower, osservando e ascoltando,


affascinato dai suoni che udiva per la prima volta. Quando la band terminò il pezzo, B.
D. aveva tante domande, ma il vecchio disse solo: «Semplicemente, l’ho solo preso e ho
iniziato a soffiare». Il consiglio che voleva dare era abbastanza semplice: guardati
intorno per trovare il bottiglione giusto; un bottiglione è un bottiglione se vuoi del
whisky, ma se vuoi suonarlo, trovane uno che abbia la musica dentro.

Nella primavera del 1900 la band di Anderson con B. D. Tite e Black


Daddy fece finalmente il suo ingresso a Louisville, fondando di fatto la
scuola louisvilliana del jug. Oltre a McDonald, va ricordata l’abilità di
Charlie Polk, jug blower della Memphis Jug Band e di Gus Cannon, il quale
aveva elaborato un sistema per suonare il banjo e il jug simultaneamente:
un sostegno simile a quello che oggi i chitarristi usano per soffiare in una
armonica a bocca.
Nelle sezioni ritmiche delle jug band era facile trovare anche altri
strumenti ottenuti modificando oggetti di uso quotidiano, o semplicemente
variandone la destinazione d’uso. Con il termine generico di spoons, per
esempio, si indicano due oggetti simili percossi, come cucchiai – di legno o
metallo – oppure ossa animali: antiche tradizioni presenti in molte parti del
mondo. Purtroppo non ne restano tracce registrate, nel periodo prebellico,
ma i cucchiai hanno conosciuto un revival negli anni Sessanta.
Documentato, invece, in grande stile è il washboard, ovvero l’asse per
lavare il bucato. Di legno, o piú frequentemente di metallo a partire dal XX
secolo, veniva percossa con aggeggi di metallo (monete, apribottiglie), e
garantiva una pulsazione vivace e articolata non solo al blues, ma a tutte le
musiche nere del periodo, dal piú puro novelty al jazz: Baby Dodds, il piú
importante tra i batteristi del jazz classico, era anche uno specialista del
washboard, che suonava, con risultati entusiasmanti, nel gruppo
dell’altrettanto celebre fratello, il clarinettista Johnny Dodds, mentre con i
Washboard Rhythm Kings, gruppo a geometria variabile, suonarono e
incisero Jelly Roll Morton, Teddy Bunn, Red Allen e il funambolico
suonatore di washboard Bruce Johnson. Al contrario degli altri strumenti, il
washboard ebbe visibilità assai maggiore: permise, addirittura, ad alcuni
musicisti di ottenere fama e successo. Il caso piú eclatante è quello di
Robert Brown, nato a Walnut Ridge, Arkansas, nel 1910 e diventato famoso
nella seconda metà degli anni Trenta col nome d’arte di Washboard Sam.
Fratellastro di Big Bill Broonzy (stando a quanto disse il chitarrista: parente
o no, aiutò comunque Robert a ottenere il primo contratto discografico con
la Bluebird di Lester Melrose, e suonò in quasi tutte le centosessanta facce
che registrò), arrivò a Chicago passando per Memphis, in una sorta di
percorso obbligato per i bluesmen urbani degli anni Trenta, e riuscí
nell’intento di produrre una musica di grande impatto, che attingeva al
blues come ad altri repertori. Forse contrariamente alle sue stesse
aspettative, i suoi dischi da subito vendettero abbastanza, tanto da farne una
stella nel breve volgere di un paio d’anni. Vivace, smaliziato, attento anche
alle sfumature piú sottili, Washboard Sam era musicista, cantante e
compositore di talento; sin dalle prime incisioni mostrò un tratto sicuro, sia
nella tecnica del washboard (che percuoteva con ditali metallici e aveva
arricchito con piccoli campanacci e piatti) che nella composizione tout
court: amava le strutture leggermente asimmetriche, cui regalava un
sostegno ritmico appropriato ed elegante col suo strumento. You Done Tore
Your Playhouse Down, incisa il 4 aprile del ’36, è un bell’esempio di blues
per washboard, chitarra e contrabbasso, con una forma sbilenca (la quarta e
l’ottava misura sono in due quarti, il che provoca al contrabbassista, il cui
nome ci è ignoto, qualche problema nel seguire la struttura); Give Me
Lovin’, prodotta quattro mesi dopo con Black Bob al piano e Big Broonzy
alla chitarra, è un piccolo capolavoro di swing e anticipa di vent’anni gli
stilemi del rock and roll: un blues in sedici misure (vengono semplicemente
raddoppiate le prime quattro sul I grado), caratterizzato dalla dodicesima
misura in due quarti e un urletto nella decima che non può non ricordare
Little Richard. Black Bob ogni tanto si lascia sorprendere dall’asimmetria, e
quando Washboard Sam gli lascia spazio per l’assolo, il pianista opta per
l’eliminazione dell’anomalia e riporta la misura alla sua naturale durata di
quattro quarti. Curiosamente di Black Bob non conosciamo il vero nome, né
alcun altro dato biografico, nonostante gli sforzi di alcuni ricercatori; la sua
figura sembra svanire dopo il 1938. Di Washboard Sam, invece, sappiamo
molto: dopo la guerra, e un paio di sedute di incisione per la RCA ,
abbandonò la musica e fece il poliziotto a Chicago. Nonostante un breve, e
veloce, ritorno sulle scene, si spense nel 1966, in seguito a problemi
cardiaci.
Nelle jug band spesso compariva anche il kazoo. Strumento proveniente
dall’Africa, dove faceva parte di tutta una serie di aggeggi detti disguiser, la
cui funzione era quella di camuffare, snaturare, modificare la voce umana,
fa parte della famiglia dei mirlitons, e fu reinventato nella sua forma
moderna da un certo Alabama Vest, il quale si fece realizzare il prototipo in
legno da Thaddeus von Clegg, un orologiaio tedesco di Macon, in Georgia,
intorno alla metà dell’Ottocento. La produzione di kazoo in metallo, invece,
iniziò nel 1912, e continua ancora oggi nella stessa fabbrica d’allora,
rimasta l’unica attiva al mondo. Tampa Red fu il piú famoso tra gli
specialisti di questo strumento, anche se probabilmente Ben Ramey, della
Memphis Jug Band, gli fu superiore per inventiva e virtuosismo.
E proprio la Memphis Jug Band fu forse la piú famosa di queste
formazioni, assieme ai Cannon’s Jug Stompers.

Mentre i tre componenti della Jug Stompers utilizzavano solo chitarra, banjo,
armonica e jug, la Memphis Jug Band era formata sempre da cinque o sei musicisti e
usava diverse combinazioni di chitarre, armonica, pianoforte, banjo-mandolino,
mandolino, violino, contrabbasso, washboard e kazoo. Generalmente, le band tendevano
ad arrangiare le loro canzoni – un segno di professionalità – con espedienti pensati per
attirare l’attenzione come lo stop-time, che permetteva al jug o ad altri strumenti di
suonare brevi assoli. Spesso cantavano armonizzati, un altro segno di professionalità.

L’analisi di LaRose mette in luce sia le similitudini che le inevitabili


differenze tra i due schieramenti. Al di là della cubatura timbrica,
naturalmente piú ampia per la formazione di Memphis, i due gruppi
esprimevano due idee affatto diverse: piú incentrata sulla comunicazione
schietta e immediata quella guidata da Gus Cannon, piú indirizzata verso un
virtuosismo d’insieme la band di Will Shade. Quest’ultimo prestò spesso la
sua opera in jug band di ispirazione religiosa, come gli Holy Gost
Sanctified Singers e i Brother Williams Memphis Sanctified Singers.
Sermoni e musica nel piú puro jug style per avvicinare i fedeli alla chiesa.
L’ennesimo cerchio che si chiude.

5. L’arpa in cantina.
Per essere uno strumento piccolo, poco costoso, alla portata di tutti e di
umili origini, l’armonica a bocca indossa un nome altisonante: è conosciuta,
negli States, come harp, o French harp, e questo ha causato qualche
problema non già ai musicisti quanto ai traduttori italiani, spesso tratti in
inganno. Un esempio, tra i molti, è nel doppiaggio di The Blues Brothers, il
film di John Landis che narra le vicende dei fratelli Jake ed Elwood Blues,
impersonati da John Belushi e Dan Akroyd. Durante la conversazione in
orfanotrofio con Curtis (Cab Calloway), Elwood ricorda di quando lo stesso
Curtis gli cantava le canzoni di Elmore James e suonava l’arpa in cantina.
L’arpa in cantina? Strano. Infatti, è un formidabile svarione del traduttore,
caduto nel tranello. La frase originale, peraltro, non si prestava a essere
fraintesa: “singing Elmore James tunes and blowing the harp for us down
there”. Come si fa a soffiare in un’arpa?
Come si soffia in un’armonica a bocca, invece, i musicisti afroamericani
hanno imparato a farlo subito e bene, tanto da lasciare un’impronta
indelebile nella storia e nelle prassi esecutive dello strumento. L’armonica
nacque ufficialmente nel 1812, anno in cui l’appena sedicenne Christian
Friedrich Buschmann ne registrò il primo brevetto. L’idea di strumenti a
fiato funzionanti attraverso l’azione di ance libere non è tuttavia nuova,
tutt’altro: è vecchia di tremila anni, da quando cioè in Asia si costruiscono
veri e propri organi a bocca, mouth organ. Lo sviluppo del primo brevetto
di Buschmann portò a significative modifiche e migliorie: quelle del
tedesco Hohner fissarono le caratteristiche dello strumento cosí come le
conosciamo oggi. Questi, dopo aver impiantato la prima fabbrica in Europa,
nel 1862 sbarcò sul suolo americano, e già quindici anni dopo produceva un
milione di pezzi all’anno. Un successo enorme.
Piccola e alla portata di tutti, dunque, ma non semplicissima da suonare.
L’armonica, infatti, proprio per il suo peculiare funzionamento (soffiando e
aspirando si ottengono due note diverse) e le diverse filosofie costruttive
(diatonica e cromatica: la prima permette di suonare solo le sette note di una
determinata scala, l’altra di suonare tutti i dodici semitoni dell’ottava) offre
svariate possibilità sia al dilettante che al virtuoso, e a tutti l’opportunità di
misurarsi con una serie intrigante di peculiarità espressive. Per la sua
conformazione l’armonica è in grado di sviluppare inconsueti tappeti ritmici
(grazie al serrato alternare delle due fasi respiratorie), di piegare le note con
un effetto di bending proprio come la tecnica slide sulla chitarra, di imitare
una nutrita serie di suoni (quello del violino, tra i tanti: e questo spiega il
diffondersi dell’armonica nella musica di chiesa, dove il violino veniva
considerato strumento del diavolo), le caratteristiche della voce umana, o
macchine e macchinari di ogni genere.
Inevitabile, dunque, che la piccola armonica arrivasse tra le mani e le
idee dei bluesmen. Tra questi, molti specialisti dello strumento si sono
messi in luce a partire dalla metà degli anni Trenta. Sonny Terry
(all’anagrafe Saunders Terrell) e Sonny Boy Williamson (il cui vero nome
era John Lee Curtis) iniziarono a pubblicare nel 1937. Il primo disco di
Sonny Boy per la Bluebird, Good Morning School Girl, fu un successo
inaspettato, e lo impose all’attenzione di pubblico e musicisti. Per dieci anni
la sua tecnica articolata e la straordinaria espressività furono prese a
modello da tutti gli armonicisti, fin quando non fu vittima di un’aggressione
a Chicago, nel 1948, che pose fine alla sua sfavillante carriera, e alla sua
esistenza, a soli trentaquattro anni. Sonny Terry ebbe invece un percorso piú
lungo, segnato prima dalla collaborazione con Blind Boy Fuller, interrotta
alla morte precoce di quest’ultimo, nel 1941, e poi da quella pluridecennale
con Brownie McGhee, protrattasi fino agli anni Settanta.
Sonny Boy Williamson e Sonny Terry furono gli interpreti dell’armonica
blues moderna: a loro si ispirò il piú innovativo tra i suonatori di harp, il
portentoso Little Walter Jacobs, simbolo assoluto dell’armonica post-
bellica, e dunque al di fuori del perimetro di questo libro. Prima di loro,
però, tre formidabili musicisti tracciarono le linee di sviluppo stilistico dello
strumento. Il primo si chiamava DeFord Bailey, e fu una vera e propria
leggenda.
Nacque a Smith County, Tennessee, alla fine del 1899. A tre anni
sopravvisse alla poliomielite, e nel lungo anno in cui fu costretto a letto, la
sua creatività si mise al lavoro.

Fu a quel tempo che iniziò a sviluppare il suo stile musicale. Giaceva nel letto e
ascoltava i suoni dell’ululato dei cani, dello svolazzare delle oche, del vento che soffiava
attraverso le crepe del muro e, ancora piú importante, il rumore sordo dei treni che
passavano lontano. Finalmente guarí, sebbene la malattia avesse gravemente
compromesso la sua crescita e lo avesse lasciato leggermente gobbo.

In casa Bailey, peraltro, la musica era presenza costante e fondamentale.


Ognuno in famiglia sapeva cantare e suonare uno strumento; il nonno,
Lewis Bailey, era un fiddler eccezionale, e grazie alla sua bravura trascorse
la vita da schiavo in condizioni piú umane. Lo stesso DeFord da
adolescente ebbe un’esperienza simile, quando si ritrovò a fare il ragazzo di
casa dai Bradford, una delle famiglie piú importanti di Nashville. Quando la
signora Bradford lo sentí suonare, nella sua vita cambiarono molte cose.

One day I was in the yard and she heard me playing. She said, «I didn’t know you
could play like that. How long have you been playing?» I told her, «All my life». From
then on she had me stand in the corner of the room and play my harp for her company.
I’d wear a white coat, black leather tie, and white hat. I’d have a good shoeshine. That
all suits me. That’s my make-up. I never did no more good work. My work was playing
the harp 22.

Dopo una serie di vicissitudini e lavori occasionali, le porte del successo


si aprirono quando DeFord iniziò a esibirsi ogni settimana allo show
radiofonico The Barn Dance, che sarebbe poi diventato The Grand Ole
Opry. L’esposizione gli diede fama e successo, ma non una stabilità
economica, che il musicista cercava di ottenere con piú lavori simultanei.
Nel 1941, per ragioni non ancora completamente chiarite, fu allontanato
dallo show radiofonico, e DeFord mollò la musica, per mettersi a fare il
lustrascarpe. Non tornò mai sui suoi passi, continuando a esibirsi solo in
privato. Di lui ci restano pochissime registrazioni. Quelle ufficiali furono
diciotto, incise tra il 1927 e il 1928, ma ne furono pubblicate solo undici.
Negli anni Settanta, poi, l’anziano DeFord suonò, nella quiete del salotto di
casa sua, per il suo amico, e studioso di blues, David Norton, gran parte del
suo repertorio, oltre a cantare e suonare la chitarra.
Vero e proprio virtuoso dell’armonica, DeFord Bailey non solo innovò la
tecnica dello strumento, ma ne scoprí e realizzò molte delle risorse
espressive. Si esibiva spesso in solitudine, e dal suo strumento uscivano
suoni inauditi, come l’imitazione del treno in Fox Chase o Pan American
Blues. Bailey, però, aveva un’idea piú articolata e vasta dell’armonica; per
lui era uno strumento parlante, col quale poter dialogare e comunicare.
Come una volta ebbe a dire:

A harp ought to talk just like you and me… You got to learn how to make it talk in
all sorts of ways. I can make it say whatever I want to 23.

Un altro altissimo poeta dell’armonica fu Burl C. (ma tutti lo


chiamavano Jaybird) Coleman. Della sua vita sappiamo molto; almeno
quanto ha raccontato il fratello, Joe. Veniva da un paesino del sud
dell’Alabama, Gainesville, dov’era nato nel 1896. Presto divenne un
musicista di valore e la sua popolarità crebbe a tal punto che, si dice, solo le
esibizioni di Bessie Smith potevano competere con le sue, in quanto a
richiamo di pubblico. Oltre a suonare l’armonica era un cantante
personalissimo, dallo stile addirittura sperimentale, come testimoniano
alcuni dei brani che registrò a partire dal 1926. Mill Log Blues e,
soprattutto, Man Trouble Blues sono esecuzioni semplicemente
straordinarie, addirittura avanguardistiche. Jaybird scolpisce una materia
sonora a due strati: il verso cantato, libero, fluttuante, e la risposta
dell’armonica; entrambi non seguono la quadratura, ma occupano lo spazio
a seconda dell’ispirazione del momento. Con la voce, Coleman emette
suoni impensabili, rauchi, oscuri e lamentosi, con glissati simili a quelli
dello strumento, e con l’armonica improvvisa figure imprevedibili. Una
esecuzione davvero impressionante. Altrettanto impressionanti furono le
facce incise con la Birmingham Jug Band, tra le formazioni piú efficaci e
divertenti dell’epoca. In seno a un gruppo di eccellenti musicisti (anche se
non sapremo mai con certezza quali fossero i loro nomi) Jaybird adotta uno
stile piú convenzionale, ma non certo di minore appeal. Si spense nel 1950,
ma nessuno, neanche il fratello Joe, ricorda la causa.
Fu molto meno fortunato, ma non meno geniale, il quasi completamente
sconosciuto George “Bullet” Williams. Di lui si sa poco, e quel poco lo
raccontò Bukka White, col quale suonò spesso:

Me and a guy, he was playing with me, George Bullet Williams. I run up on him. You
about done heard talk of him ’cause they still got some of his old records. Some people
got them now. George Bullet Williams, the best harp blower I ever heard from that day
to this day. He’s from Alabama. I don’t know whether living or dead… Yeah, that’s
right. And I just don’t see how he could be living because George would drink
denatured, strained shoe polish. I’m telling you the honest to God truth, anything with
alcohol on it, he would drink it […] Yeah. I know if he living, he got an iron stomach…
I believe he’s dead now. Got to be dead. Uh-huh 24.

Nella sua – breve, presumibilmente – vita, l’elemento che piú si attaccò


alla memoria di chi lo conobbe era il suo consumo smodato di alcolici.
Beveva qualsiasi cosa, qualsiasi intruglio, per quanto velenoso fosse.
Williams era nato in Alabama, intorno al 1910, ma non si sa esattamente
dove. Incise poco, solo quattro facciate per la Paramount, a Chicago nel
1928; da queste si intuisce appena un musicista portentoso, che avrebbe
potuto sviluppare meglio il suo stile se solo non si fosse ucciso con l’alcol.
Ishmon Bracey lo dipinse come un virtuoso, capace di tutto, anche di
suonare col naso. E per Bukka White era il migliore. Secondo alcuni è
morto agli inizi degli anni Quaranta, secondo altri è impazzito. Non lo
sapremo mai. Uh-huh.

6. Squeezebox.
Alla stessa famiglia degli strumenti ad ancia libera appartiene anche la
fisarmonica, il cui ruolo nelle vicende del blues, in verità, è stato sempre
piuttosto sottovalutato. La ragione è semplice: poche, pochissime sono le
registrazioni effettuate con questo elaborato strumento, e scarse sono le
testimonianze dalle quali poter evincere una storia, o una tradizione, o uno
stile esecutivo. Un problema comune a diverse prassi e stili strumentali,
derivante da quella che Narváez chiama la «mediazione commerciale»,
ovvero il processo attraverso cui, da un lato, la produzione discografica ha
delineato i caratteri del repertorio (e di una certa idea di canone) blues;
dall’altro, canalizzato l’attenzione di studiosi e musicisti verso gli strumenti
piú rappresentati e registrati, cancellando, di fatto, quelli piú raramente
utilizzati. A leggere le interviste fatte dai primi ricercatori sul campo è
lampante l’assenza di qualsiasi riferimento alla fisarmonica. Certo, ma è
altrettanto lampante l’assenza di una qualsiasi domanda specifica
sull’argomento, almeno fino a quando Kip Lornell, incuriosito dal fatto che
Leadbelly avesse mostrato una certa abilità nel maneggiare lo strumento,
iniziò a chiedere a musicisti e testimoni se mai avessero visto qualcuno
suonare la fisarmonica.
Alla ricostruzione di un quadro inaspettatamente diverso, nel quale si
scopre un ruolo invece assai importante dello squeezebox (come vengono
gergalmente chiamati gli strumenti a mantice) hanno contribuito i lavori di
Jared M. Snyder. Alla sua tenacia, e alla profondità della sua ricerca, si deve
il recupero di una storia antica, e l’esatta collocazione di una prassi
strumentale di gran valore, nonostante i pochi riscontri su vinile.
Lo strumento, intanto, non è esattamente la fisarmonica cui siamo
abituati. È molto piú simile a quello che nelle nostre tradizioni popolari
prende il nome di organetto diatonico: una fila di bottoni per la mano destra,
appena tre per la sinistra. Le possibilità armoniche e melodiche, sebbene lo
strumento produca due note diverse quando il mantice viene aperto o
chiuso, sono abbastanza limitate: due ottave e mezzo, per la destra, e la
semplice alternanza di tonica e dominante per i bassi. Ciononostante
l’accordion (per essere esatti) conosce una diffusione assai significativa sin
da prima della Guerra Civile; molte sono le testimonianze dell’abilità con la
quale gli schiavi seppero confrontarsi con uno strumento nuovo, e fuori
dalla loro capacità produttiva. L’accordion risolveva molti problemi:
permetteva di accompagnare qualsiasi canzone da ballo (normalmente
costruita su progressioni armoniche semplici), e, soprattutto, dava al
musicista la possibilità di poter suonare da solo, di elaborare
simultaneamente una linea solistica e una di accompagnamento; di essere,
in buona sostanza, una one man band. Al tempo stesso, consentiva
l’espressione di una ricchezza timbrica inarrivabile, che lo rendeva quasi
indispensabile in alcune formazioni con chitarra e fiddle, organico spesso
utilizzato da Charley Patton per le serate danzanti (Homer Lewis era
l’accordionista).
Il blues, però, era una roba difficile da suonare, per l’accordion. La
natura dello strumento non permetteva di suonare le alterazioni cosí tipiche
della scala (terzo e settimo grado abbassati di un semitono), cosa che gli
armonicisti riuscivano a fare attraverso un uso spregiudicato dell’emissione
del fiato, e i fisarmonicisti cajun grazie all’introduzione di modifiche
costruttive; né consentiva il passaggio I-IV-V della progressione armonica,
o le inflessioni tipicamente bluesy ottenute glissando o tirando le note. I
musicisti, insomma, dovevano elaborare strategie e stratagemmi per poter
piegare le dodici battute alle miserie costruttive dell’attrezzo. A giudicare
dall’opera di Walter “Pat” Rhodes, il piú famoso tra gli specialisti di
accordion, ci riuscirono, seppur con qualche difficoltà. Mentre molti
giovani musicisti trovarono che il gioco non valesse la candela, adottando la
chitarra (Big Joe Williams, Blind Willie McTell, Muddy Waters e, come
abbiamo visto, Leadbelly), Rhodes proseguí la sua ricerca, che lo portò a
essere il primo e unico fisarmonicista del Mississippi a incidere dischi nel
1927.
È Rhodes un’aberrazione, una stranezza, un’eccezione o il frutto di un
movimento stilistico? Da questa domanda è partito Snyder per (ri)scoprire
un tesoro seppellito. Ma l’accordion, a nostro avviso, rappresenta molto di
piú di uno spicchio di storia. Nella sua sfida con le bizzarre tecniche di una
musica dell’anima, esso delimita il meraviglioso luogo della possibilità, un
luogo dove poter sperimentare e cercare soluzioni a problemi espressivi, e
di comunicazione. Nella sua imperfezione, nel suo essere tutto tranne che
adatto al blues, l’accordion ne costituisce lo strumento forse piú
emblematico, costretto com’era a piegare la sua propria natura per poterlo
suonare.
Ecco perché in copertina abbiamo scelto di mettere la foto di un anonimo
suonatore di accordion. Perché pensare il blues vuol dire non erigere
steccati; al contrario, richiede la massima disponibilità al confronto e al
dialogo, al rapportarsi con un’idea di altro talmente vasta da far tremare le
vene. Un accordion e un washboard, allora, esprimono, meglio di molte
parole, il senso di questo libro.

7. Banjo.
Banza, bangil, banjer, bangelo, banshaw, banjo, bandore, banjer, banjor,
banjar, banjay, banjaw, bangah. Sono solo alcuni dei nomi con i quali viene
chiamato lo strumento conosciuto ai nostri giorni come banjo, in documenti
risalenti al periodo 1678-1800. Che il banjo sia uno strumento di origine
africana è ormai un dato acquisito (come abbiamo visto nella prima
sezione), ma non lo era fino a quarant’anni fa, quando la musicologa Dena
Epstein inaugurò la ricerca che la condusse
a mettere a tacere numerosi miti che erano stati ampiamente diffusi, sebbene oggi sia
difficile credere che possano essere stati presi sul serio: che il banjo era stato
“inventato” dai bianchi negli Stati Uniti, che era stato reso popolare inizialmente da
gruppi di menestrelli, o che era sconosciuto agli schiavi nelle piantagioni. Deve essere
assolutamente chiaro che chi, grazie alla sua posizione, compreso lo stesso Thomas
Jefferson, poteva saperlo piú di altri, credeva che il banjo fosse uno strumento africano.
Sono stati prodotti documenti contemporanei che parlano di uno strumento simile al
banjo in Africa nel 1621, nelle Indie Occidentali Francesi nel 1678, in Giamaica intorno
al 1689, e continuamente attraverso le Indie Occidentali e il Sud degli Stati Uniti fino a
dopo l’avvento del minstrel show . Queste testimonianze sono il materiale grezzo sul
quale poter impostare una discussione sensata sul banjo e sul suo ruolo nello sviluppo
della musica popolare nera nell’emisfero occidentale.

L’evoluzione di questo strumento a quattro o cinque corde, costituito da


un lungo manico (di diverse lunghezze, a seconda del tipo o modello) e un
corpo centrale coperto da una pelle – dapprima animale, poi sintetica, come
per i tamburi – è assai complessa. Altrettanto lo è l’analisi delle relazioni,
degli imprestiti, dei travasi, artistici ed espressivi, tra musica bianca e nera
che il banjo ha inaugurato e incentivato dalla metà del XIX secolo in poi:
analisi che non rientra nei compiti di questo capitolo, nel quale piuttosto si
proverà a capire come mai uno strumento di chiara origine e derivazione
africana, diffusissimo già tra gli schiavi, prima, e i musicisti afroamericani
poi, abbia avuto, in definitiva, un ruolo marginale nella storia del blues,
contrariamente a quanto successo nella prima fase di vita del jazz, o nella
perdurante apoteosi targata country music-bluegrass.
Se il banjo, protagonista incontrastato dei minstrel show, del vaudeville,
della musica da ballo per via della sua forte connotazione ritmica, e delle
jug band per la proiezione sonora e la tessitura scintillante, è stato
soppiantato dalla chitarra come strumento d’elezione dei bluesmen, ciò può
essere spiegato in relazione a un paio di fattori. Il primo è di natura tecnica:
la particolare conformazione organologica rende scomodo, e poco attraente,
suonare degli accordi, mentre esalta i motivi veloci a note singole,
rendendoli irresistibili. L’altro è di natura piú espressiva: le sfumature
timbriche, molto spinte e rimbombanti, virano istintivamente verso un
approccio piú allegro e vivace, spesso avvertito come poco adatto al senso
del blues.
William Henry “Papa Charlie” Jackson si affidò proprio a questa vena
scanzonata e allegrotta, figlia di una lunga militanza sulle tavole dei teatri di
periferia per ottenere un successo tanto consistente quanto insperato. Come
abbiamo visto, se non fu il primo cantante maschio di blues a incidere (la
palma, del tutto platonica, va a Ed Andrews), ruppe comunque l’egemonia
delle cantanti e impose un nuovo modello; quello del musicista che si
accompagna da sé. Nato, probabilmente, a New Orleans e spostatosi a
Chicago all’inizio degli anni Venti (le notizie sulla sua vita sono poche e
parecchio lacunose), registrò quasi settanta tracce, per Paramount e OKeh;
molte di queste erano brani vispi e giocosi, spesso conditi da doppisensi
sessuali, e gli valsero vendite di tutto rispetto, se nel 1927 una pubblicità
della sua casa discografica lo dipingeva come «witty, cheerful, and kind
hearted man, who with his joyous sounding voice and his banjo, sang and
strummed his way into the hearts of thousands». Virtuoso del banjo, incise
anche alcuni blues classici, usando però la chitarra, quasi a voler
confermare una certa incompatibilità tra il rutilante cordofono e la
sommessa vena downhome.
Gus Cannon, protagonista a piú riprese di questo capitolo, del banjo
colse l’aspetto piú sciolto e rapace, quello capace di inchiodare
l’ascoltatore, quasi ipnotizzato dalla cascata di note emesse dallo strumento.
Oltre che con la sua jug band, l’eclettico musicista incise, con lo
pseudonimo di Banjo Joe, alcune pregevoli tracce con Blind Blake, nel
1927. I due non si erano mai incontrati prima, ma il risultato è di notevole
interesse: Cannon realizzò per l’occasione una versione di Poor Boy
applicando al banjo la tecnica dello slide. Tutto torna.

8. La dolceola, in fondo. O forse no.


Il dicembre del 1927 era appena iniziato quando una troupe della
Columbia, guidata da Frank Walker, allestí uno studio di incisione a Dallas,
Texas, per registrare artisti locali reclutati attraverso annunci sui giornali
della zona. Tra questi c’era Washington Phillips, il quale si presentò con
uno o piú strumenti che nessuno aveva mai visto. Ed eseguí una musica
celestiale, quasi ultraterrena. Non sapendo che nome dare a quello strano
strumento, Walker appose sull’etichetta del disco la dicitura «novelty
accomp.», a indicare che il musicista si era accompagnato da solo con uno
strumento bizzarro. Per anni si è creduto che si trattasse di una dolceola;
strumento della famiglia delle cetre, inventata agli inizi del XX secolo dai
fratelli Boyd, era una specie di pianoforte in miniatura: grazie a una piccola
tastiera venivano pizzicate le corde, e la prima registrazione conosciuta è in
un disco di Leadbelly del 1944, per mano di Paul Mason Howard. Ma la
musica suonata da Phillips sembrava suggerire altro, tanto che da anni
studiosi, esperti di organologia e musicologi si interrogano su che tipo di
strumento avesse davvero messo le mani questo enigmatico,
misteriosissimo musicista di blues religiosi, per realizzare le diciotto tracce,
due delle quali rimaste inedite, che sono il suo lascito musicale. Ancora
oggi la disputa non si è risolta: chi è ancora pronto a sostenere che si tratti
di una dolceola, chi invece indica una semplice cetra (fretless zither, per
essere precisi) sebbene con accordatura assai personalizzata da Phillips; chi,
addirittura – e oggi sembra la versione piú accreditata – sospetta che
suonasse due cetre, una per ogni mano, collegate con uno strano aggeggio
da lui stesso inventato. Qualunque sia la risposta, è certamente curioso
come un modesto contadino, nato in Texas nel 1880, predicatore girovago,
avesse potuto entrare in possesso di due strumenti abbastanza rari, e
inventarsi, dal nulla, una tecnica prodigiosa. Wash, come lo chiamavano gli
amici, registrò con misteriosa puntualità anche nei due anni successivi,
sempre il 2, il 4 o il 5 dicembre. I primi dischi vendettero bene (8000 copie;
a quel tempo un disco di Bessie Smith ne vendeva 10 000), poi la grande
crisi trascinò con sé anche il celestiale blues di Phillips, del quale si persero
le tracce. Dopo un’accuratissima ricerca di Michel Corcoran, sappiamo che
si spense nel 1954, ma poco altro resta di questo visionario musicista. Del
quale parleremo ancora, e molto presto.

21
«Ho il blues prima che sorga il sole, e le lacrime agli occhi. | Ho il blues prima che sorga il
sole, e le lacrime agli occhi. | Era un sentimento miserabile, piccola, un sentimento che disprezzo».
22
«Un giorno ero nei campi e mi sentí suonare. Disse: «Non sapevo sapessi suonare cosí. Da
quanto tempo suoni?» Le risposi: «Da tutta la vita». Da allora in poi mi fece stare nell’angolo della
stanza a suonare la mia armonica per i suoi ospiti. Indossavo un soprabito bianco, una cravatta nera
di pelle e un cappello bianco. Avevo un buon lustrascarpe. Tutta questa roba mi sta bene. Questa è la
mia divisa. Non ho piú fatto un lavoro vero. Il mio lavoro era suonare l’armonica».
23
«Un’armonica deve parlare proprio come facciamo io e te… Devi imparare a farla parlare in
tutti i modi possibili. Io posso farle dire ciò che voglio».
24
«Io e un tizio, suonava con me, George Bullet Williams. Mi imbattei in lui. Probabilmente
avrete sentito parlare di lui perchè hanno ancora qualche suo vecchio disco. Qualcuno li ha ancora.
George Bullet Williams, il migliore armonicista che abbia mai sentito. Veniva dall’Alabama. Non so
se sia vivo o morto… Già, proprio cosí. E non vedo come abbia potuto continuare a vivere perché
George beveva alcol denaturato, si scolava il lucido per le scarpe. Vi sto dicendo la verità, ve lo giuro
su Dio, qualsiasi cosa contenesse alcol, lui la beveva […] Già. Sono certo che se è vivo, ha uno
stomaco di ferro… Credo sia morto. Deve essere morto. Uh-huh».
Capitolo tredicesimo
Modelli. Il blues e le altre musiche

Washington Phillips, con il quale abbiamo chiuso il capitolo precedente,


non è stato soltanto un musicista ineffabile e peculiare dalle sonorità
celestiali e sconosciute, eccezionale nel senso piú letterale del termine.
L’eccezione sta anche nel fatto che egli non era solo un bluesman; anzi, per
dirla tutta, non lo era affatto: suonava musica religiosa fuori e dentro le
chiese, e quando doveva sferzare i costumi del clero usava il blues, la
musica del diavolo.
Nei primi trent’anni del XX secolo si assiste con frequenza sospetta a una
serie di incroci e sovrapposizioni (stilistiche, di genere, espressive) da
indurre un ragionamento, un’analisi dei rapporti che il blues intrattenne con
le altre musiche nere del periodo. E, anche, con le musiche successive,
come il rock and roll, il soul e generi affini.
Attraversare la fitta ragnatela di relazioni, rimandi e imprestiti diventa
necessario nel momento in cui si vuole depurare la visione del blues dai
cascami di una certa iconografia ormai invecchiata. Serve, soprattutto, a
dimostrarne la vitalità e il larghissimo e agile spirito.

1. Peccatori e santi.
Poche pagine fa, con una certa disinvoltura, analizzando la curiosa
connivenza, all’interno della categoria race record, di blues e sermoni,
musica profana e musica sacra, abbiamo avanzato l’idea che quella
convivenza fosse stata resa possibile dal fatto che, in qualche modo, era la
stessa musica; se non altro, aveva lo stesso pubblico. Affermazione
iperbolica, senza dubbio, ma il cui fondo di verità, se esiste, forse vale la
pena rinvenire: il rapporto e la relazione tra blues e musica religiosa
costituisce uno snodo, a nostro avviso, essenziale per potersi avvicinare alla
loro dimensione piú profonda.
La chiesa e il blues hanno a lungo rappresentato luoghi e tempi ritagliati:
l’una come territorio fisico inattaccabile, l’altro come spazio mentale e
psichico di sopravvivenza. Per molto tempo il bluesman e il predicatore
sono stati la voce della comunità afroamericana: attraverso loro è stato
possibile costruire parametri e modelli di espressione, l’articolazione di un
sapere sociale e di una consapevolezza politica, inscritte in una dimensione
allo stesso tempo artistica e spirituale. Era inevitabile che i predicatori, i
ministri della Chiesa diventassero figure cruciali nelle comunità, come
spiega acutamente Carter Woodson:

Durante il periodo della Ricostruzione, inoltre, i Neri avevano molte necessità da


soddisfare tanto che il predicatore Nero, spesso l’unico nella comunità a essere
sufficientemente dentro le leggi tanto da essere un riferimento per tutti, doveva dedicare
il suo tempo non solo al lavoro in chiesa ma anche a qualsiasi questione di tipo razziale.

I sermoni che il ministro dispensava dal pulpito non erano piú una
semplice lettura biblica, quanto la giuntura forte, inevitabile, tra lo spirito e
il mondo, le esigenze di preghiera e quelle di lotta. In essi si esprimeva tutta
la potenza linguistica e immaginativa, la facondia unita alla innata forza di
persuasione. Nessun argomento era intoccabile, o tabú: bisognava tirare le
linee guida della comunità con geometrica precisione, e a Dio piacendo.
Ecco perché, quando alla Columbia annusano l’aria e intuiscono il
colpaccio iniziando a registrare sermoni e canti, il successo è immediato:
per i fedeli, anche di congregazioni e chiese e comunità lontane migliaia di
miglia, quelle parole rimbomberanno per giorni e giorni tra le pareti di casa;
quei discorsi, quei moniti, quelle promesse e le voci stentoree che le
porgono si potranno ascoltare anche dieci, cento volte senza perdere un
milligrammo di suggestione.
Molto piú modestamente, ma con la medesima energia e con quel
plusvalore di contenuta dissolutezza, e di geniale creatività, il bluesman
dava voce ad altre aree dello stesso corpo sociale, mettendo in musica una
visione del mondo condivisa e condivisibile; ne garantiva circolazione e
movimento, con la propria possibilità di spostamento, o grazie alla velocità
di diffusione dei dischi. Un ruolo decisivo, se si pensa che normalmente il
bluesman parla per chi non ha voce, per chi non ha mezzi e strumenti per
farsi ascoltare, e delle cui espressioni e sensazioni si fa interprete e
testimone.
Similitudini forti, che finiscono col precipitare in comportamenti e stili
performativi. Molti sono gli elementi di stretta somiglianza, a partire,
secondo la classica indagine di Margaret McCarthy, dall’approccio alla
lingua utilizzata.

La lingua è, prima di tutto, estremamente concreta. Un vocabolario familiare,


quotidiano si esprime attraverso enunciazioni dirette. Inoltre, questo semplice
vocabolario viene reso piú colorito sia dal predicatore che dal bluesman, come si può
osservare dalle immagini vivide, le metafore originali, e la lingua figurativa che essi
usano. Nel sermone le verità bibliche vengono paragonate alle esperienze familiari
presenti nella vita dell’assemblea dei fedeli, e nel blues le tematiche sono espresse in un
linguaggio popolare, comune, facilmente comprensibile dagli ascoltatori.

L’elemento improvvisativo, dettato e condizionato anche dalla reazione


della congregazione/pubblico è un altro elemento di forte parentela. La
relazione simbiotica tra pulpito e fedeli vive delle stesse dinamiche che
regolano l’esibizione di un musicista semi-professionista: quando gli
ascoltatori reagiscono a fatica, o con lentezza, l’esibizione scorre senza
sussulti e brividi; viceversa, tutto può succedere, anche che un ministro urli,
gesticoli e si comporti come un invasato se l’energia di ritorno è elettrica e
trascinante. La spontaneità della partecipazione del pubblico, in chiesa
come in un jukejoint, i modelli di intervento, gli incitamenti, le interiezioni,
il dialogo ininterrotto formano poi quel repertorio decisivo e fondamentale
della musica afroamericana operante nelle mille forme del call and
response, l’ossatura delle musiche di derivazione africana.
Infine, lo spirito di affermazione di resistenza vitale: esso è al centro
delle due espressioni, e ne costituisce il cuore profondo, la ragione ultima.

L’affermazione è una attitudine tipica sia del predicatore che del bluesman. A
sostenerla c’è una elasticità che rifiuta di essere soppressa, e la caratteristica che il piú
delle volte nutre questa elasticità è l’umorismo – un umorismo che va oltre le tematiche
dolorose espresse in entrambe le forme, sia che si tratti di peccato, come nel caso di un
sermone, o di amore non corrisposto, come può essere nel caso dei blues.
Se il panorama delle similitudini è ampio e luminoso, quello delle
discordanze, delle dissonanze lo è altrettanto. Non va dimenticato, cioè, che
sebbene con sfumature di varia intensità, da una parte si celebrava il bene e
dall’altra si cantava il male; in chiesa si provava a tenere alla larga i fedeli
dal sesso extramatrimoniale, dal gioco d’azzardo, dall’alcol, dalle droghe,
dai comportamenti immorali, mentre nei blues gli stessi temi venivano
affrontati con approccio diverso. La musica del diavolo era tale non perché
incitasse alla danza, al canto o al divertimento – elementi senza i quali non
poteva esserci redenzione e trascendenza – ma perché regolava l’ottica della
visione del mondo a un livello considerato basso, pericoloso, vizioso e
precario.
Posizioni contrapposte, addirittura antitetiche e antagoniste, che però non
impedirono il crearsi di una fluida possibilità di dialogo, di contaminazione,
di ibridazione. Il fenomeno dei cosiddetti evangelisti girovaghi è una di
queste. Musicisti itineranti, il loro repertorio era spesso cosí ampio da
comprendere i blues; quando suonavano musica sacra lo facevano con una
rurale, rauca, diabolica, inconfondibile inclinazione. Blind Joe Taggart
incise tra il ’26 e il ’34; in strada o nei picnic, per le mance degli ascoltatori,
eseguiva i blues; in studio si limitava al repertorio religioso, quando
firmava col suo nome: sotto pseudonimo, invece, registrava anche la musica
del diavolo, e le facce con il nome di Blind Joe Amos testimoniano di un
musicista inventivo e originale.
Blind Willie Johnson invece non oltrepassò mai la linea del blues,
restando sempre aggrappato all’idea di redenzione attraverso la musica. La
sua esistenza è avvolta da una leggera cortina leggendaria, che sfuma fatti e
avvenimenti rendendoli approssimativi e imprecisi. Nacque vicino a
Brenham, Texas, nel 1897, e divenne cieco da bambino, quando la
matrigna, picchiata dal marito per l’ennesimo atto d’infedeltà, decise una
vendetta grottesca lanciando della soda caustica sul volto del piccolo Willie
piuttosto che su quello dell’uomo che la violentava. L’apprendistato
musicale era iniziato un paio d’anni prima, nella locale Church of God in
Christ, dove oltre alla chitarra costruitagli con una scatola di sigari dalla
madre naturale, morta prematuramente, apprese i rudimenti del pianoforte e
provò a coltivare il suo desiderio di diventare un preacher. La sua vera
palestra, però, fu ovviamente la strada. Per tutta la vita Willie Johnson si
esibí agli angoli delle strade, con un barattolo vuoto appeso al collo per
ricevere le monetine dei passanti. Il Texas era il suo palcoscenico: Marlin,
dove per molti anni si è creduto fosse nato, poi Dallas e infine Beaumont, la
sua ultima casa. Anche se non accolse mai nella sua musica il blues, le
trenta tracce che il chitarrista incise tra il 1927 e il 1930 incarnano un
lascito la cui importanza ancora non è stata misurata: una musica di
sovrannaturale potenza, impossibile da ignorare, i cui influssi sono ancora
oggi percepibili nel blues e in tutte le musiche nere.
In ogni aspetto della sua produzione Willie Johnson produsse miracoli;
la sua tecnica chitarristica, grazie a un uso dello slide di rara efficacia, è tra
le piú imitate del secolo, e la sua voce, cosí potente, rauca, selvaggia in certi
brani, e morbida e setosa, in altri, indica un totale controllo, la capacità di
usare una sorta di mascheramento, il coraggio di operare senza alcun
riferimento a tecniche e modi conosciuti.
Nel corso della sua prima seduta di registrazione (a Dallas, il 3 dicembre
1927 nello studio mobile allestito da uno stupefatto Frank Walker dove,
appena il giorno prima, aveva inciso l’incontornabile Washington Phillips)
cesellò otto pietre miliari, che avrebbero sfidato il tempo grazie alla presa
che ebbero sui musicisti a venire: Nobody’s Fault But Mine fu presa in
prestito dai Led Zeppelin nell’album Presence (la foto di Blind Willie
Johnson, invece, è in bella mostra sulla copertina di Led Zeppelin 2);
Motherless Children, pubblicata poi su Vocalion con lo pseudonimo di The
Blind Pilgrim, è entrata nel repertorio di Eric Clapton, mentre Bob Dylan si
affidò a Jesus Make Up My Dying Bed per il suo primo album, e If I Had
My Way I’d Tear the Building Down è stata eseguita da una miriade di
gruppi e musicisti, dai Grateful Dead agli Staples Singers. Quello stesso
giorno Willie registrò forse il suo piú alto contributo all’arte e alla
sensibilità umane. Dark Was the Night, Cold Was the Ground è una
preghiera senza parole: una riflessione sulla Crocifissione fatta di una sola
linea melodica, suonata dalla chitarra e doppiata dal moanin’, il canto a
bocca chiusa dell’artista. Tre minuti e venti secondi di purissima magia
sonica, di arte elevata a potenza, di perfetta e trascendente bellezza. Come
Mahler quando compose Das Lied von der Erde, Willie Johnson suona i
silenzi, il vuoto, misurandosi con un’idea sovrannaturale eppure tutta
terrena di estasi. Sul brano, che attualmente vaga nei meandri infiniti dello
spazio a bordo della navicella Voyager 1, in orbita dal 1977, Richard
Spottswood ha scritto:
Resisterò alla tentazione di eguagliare l’eloquenza emozionale di questa performance
con le mie parole; certamente, appartiene alla lista dei dischi piú grandi di ogni tempo,
capace di illustrare, con enorme potenza, l’appeal spirituale che una chitarra slide può
avere tra le mani di un maestro… una preghiera senza parole nella forma di un dialogo
intimo tra Johnson e il suo strumento, che assume lo status di performance solo in virtú
della presenza di un microfono.

I dischi di Blind Willie Johnson vendettero bene, ma la crisi interruppe i


suoi sogni di gloria. Con la seconda moglie, Angelina (dalla prima, Willie
B. Harris, aveva avuto una figlia, Sam Faye Johnson Kelly, che vive ancora
a Marlin) si trasferí a Beaumont. Cosa fece negli ultimi quindici anni di vita
non si sa con precisione: di sicuro suonò agli angoli delle strade, per quei
pochi spiccioli che tintinnavano nel barattolo semivuoto, e per qualche
tempo si esibí in coppia con Blind Willie McTell. Altrettanto sicuramente si
ammalò dopo che la sua casa prese fuoco. Per settimane lui e Angelina
continuarono a dormire tra le macerie carbonizzate, su un letto fatto di
giornali. Non durò a lungo: Blind Willie morí di polmonite, secondo la
testimonianza della moglie, il 18 settembre 1945. Il certificato di morte,
invece, indicava come cause del decesso febbre malarica e sifilide.
Non sapremo mai la verità. Sappiamo però che la sua arte resta scolpita
nella memoria musicale collettiva del nostro tempo perché costituisce un
corpus a un tempo universale e personalissimo, in grado, come nessun altro,
di raccontare, con tutte le sfumature, il tragitto compiuto dalla musica
afroamericana nei precedenti due secoli. Navigando su Internet, leggendo i
commenti di ascoltatori rapiti ed estasiati, è sorprendente notare come il
termine blues sia associato alla sua musica, nonostante con le dodici battute
non avesse mai voluto avere nulla da spartire; ma nel suo timbro vocale,
nello slide della chitarra, nelle blue notes profuse a piene mani e nelle
pentatoniche spiazzanti riverberano pratiche e tecniche antiche e preziose,
di cui il blues e il gospel sono i frutti piú autentici.
La drastica chiusura di Blind Willie Johnson al blues ci riporta alla
questione iniziale, ovvero la dicotomia apparentemente insanabile tra sacro
e profano, chiesa e blues. Scrive Mark Humphrey:

Le chiese nere, in virtú del potere che esercitavano nelle comunità, condannarono il
blues come corrotto e corruttore. Questo ci ha portato a percepire il bluesman come
stretto in una condizione dualistica: o si canta la “musica del diavolo” e si rischia la
dannazione eterna, o si rinuncia completamente alla musica mondana e si vive la
Cristianità. Questa è l’idea che molti di noi si sono fatti circa il dilemma morale che
affliggeva i cantanti di blues: prendere o lasciare. La scelta era o/o, mai e.

Eppure, la storia del blues è piena di and, di percorsi di andata e, a volte,


ritorno dal jukejoint al pulpito. Assai curiosamente, infatti, tutti i piú grandi
interpreti del blues del Delta hanno trascorso la propria esistenza, e suonato
la propria musica, oltrepassando piú e piú volte la sottile linea di confine tra
inferno e paradiso. Non deve stupire, dal momento che, come ha scritto
Portia Maultsby:

Molti bluesmen si formarono musicalmente nelle chiese nere. Questo, insieme ai loro
credo religiosi, spinse molti di essi a includere nel proprio repertorio canti religiosi. Di
solito, questi canti non venivano eseguiti in pubblico, ma venivano registrati e venduti
all’interno della comunità nera. In tal modo, il messaggio religioso dei bluesmen
raggiungeva tutti – sia praticanti che non.

Se per un musico di chiesa era problematico perdersi nei meandri delle


dodici battute, per i bluesmen suonare e incidere canzoni religiose era
invece del tutto naturale. Quando entrò per la prima volta in uno studio di
registrazione Blind Lemon Jefferson impresse nel vinile due canzoni di
chiesa, I Want to Be like Jesus in My Heart e All I Want Is That Pure
Religion, che furono pubblicate tempo dopo con lo pseudonimo di Deacon
L. J. Bates. Il sulfureo Charley Patton assunse il nome di Elder J. J. Hadley,
mentre Blind Boy Fuller diventò Brother George and His Sanctified
Singers. L’eccellente bluesman di Atlanta Robert Hicks, invece, adottò lo
stratagemma inverso: incise i blues con lo pseudonimo di Barbecue Bob, e
il gospel col suo vero nome.
Son House, come vedremo piú in dettaglio in seguito, condusse l’intera
esistenza diviso tra il ministero della chiesa Battista e la musica profana:
celeberrimo resta il suo Preaching the Blues, l’ossimorico tentativo di
trovare una mediazione possibile. Quando tornò alla ribalta, negli anni
Sessanta, dispensò sia le dodici battute che il repertorio religioso, ma non
dimenticò mai di essere ormai un uomo di chiesa. John Mooney, un
chitarrista e cantante di blues, che lo andava spesso a trovare negli ultimi
anni di vita, durante i quali si era ritirato da ogni attività pubblica, raccontò
che trascorrevano molto tempo a parlare di religione e filosofia, seduti al
tavolo della cucina. Ma non appena la discussione sfiorava il blues, era
regola imposta dalla moglie, Evie, che uscissero fuori di casa.
Skip James, uno dei musicisti piú violentemente originali della storia
della black music, seguí un percorso simile. Robert Wilkins, invece,
riscoperto nel 1964, lo stesso anno di Son House, non tornò piú indietro:
predicatore della Church of God in Christ, si lasciò definitivamente i blues
alle spalle: la sua chiesa, al contrario di quella Battista, era molto meno
tollerante verso la musica del diavolo.
La stessa musica, dicevamo. Certo, non è esattamente la stessa; è, però,
quella tra blues e musica religiosa una relazione biunivoca, valida in
qualunque direzione. Per il bluesman non è problematico cambiare segno
alla propria musica, né lo è per l’evangelista. Questa duplicità, questo stesso
insistere su un universo dettagliatissimo di norme e regole che possono
essere condivise, costituisce un unicum nella musica afroamericana,
segnando al tempo stesso una vicinanza, una prossimità addirittura
sorprendenti.
Forse non era la stessa musica, ma talvolta si assomigliavano molto.
Erano, come ha sostenuto Samuel Floyd, due espressioni diverse degli
stessi bisogni. O dello stesso dolore.
Nella sua autobiografia, I Know Why The Caged Bird Sings, la grande
scrittrice Maya Angelou racconta di quando, al tempo della sua infanzia,
tornando a casa dalla preghiera del sabato sera, si era soliti fermarsi in un
jukejoint nel quale risuonava un barrelhouse blues cantato a squarciagola
per coprire il rumore delle scarpe picchiate sul pavimento di legno. Non
c’era molta differenza, solo due modi diversi di esprimere lo stesso
tormento.

Per uno non abituato a quella musica, distinguere tra i pezzi cantati pochi minuti
prima (in chiesa) e quelli che venivano ballati nel locale vicino ai binari della ferrovia
poteva essere impossibile. Tutti chiedevano la stessa domanda. Per quanto ancora, Dio?
Quanto tempo?

Parole sante. Nel bene e nel male.


2. La mano sinistra di Dio.
Dai pochi riferimenti contenuti nella rimembranza di Maya Angelou è
agevole riconoscere il tipo di musica al cui ritmico incedere gli ascoltatori
stanno ballando: è boogie-woogie. Abbastanza curiosamente, questo genere
musicale pianistico è stato sempre ignorato dagli storici: a tutt’oggi sono
infatti pochissimi gli studi che se ne sono occupati con approccio
scientifico. Perché gli storici di blues, e non, dovrebbero occuparsi del
boogie? Perché, intanto, rappresenta un ibrido di eccezionale interesse: uno
stile esecutivo del tutto nuovo, interamente, o quasi, basato sulla forma
blues. Poi, perché proprio questo aspetto esclusivo potrebbe aiutarci a
datare la nascita del blues, o quanto meno della particolare progressione
armonica che abbiamo discusso qualche paragrafo fa.
Nelle sue linee essenziali, il boogie appartiene alla famiglia dei generi
pianistici afroamericani. Questi sono caratterizzati da una peculiare
distribuzione dei compiti tra mano sinistra e mano destra. Nel ragtime, per
esempio, alla mano sinistra del pianista è riservato il compito di produrre un
vero e proprio accompagnamento orchestrale, capace di scandire il versante
ritmico e armonico nel caratteristico andamento di marcia in due (gli
americani, onomatopeicamente, lo trascrivono oom-pah): sull’oom il
pianista piazza una nota di basso, e sul pah un accordo; la mano destra,
invece, ha la possibilità di creare temi, e improvvisazioni, dal forte sapore
sincopato: la frizione, lo scarto che si crea tra lo strato solido della mano
sinistra e quello liquido della destra costituisce la tipicità africana di tutte le
musiche pianistiche nere.
Dal ragtime, i cui primi esempi a stampa risalgono al 1897, e il primo
capolavoro assoluto, Maple Leaf Rag, di Scott Joplin, al 1899, l’evoluzione
piú diretta fu quella del cosiddetto stile stride, diffusosi ad Harlem,
all’inizio degli anni Venti, il cui maggiore interprete fu James P. Johnson.
Lo stride richiedeva maggior varietà ritmica alla mano sinistra (un oom-pah
assai piú articolato, come nella paradigmatica Carolina Shout di Johnson),
una piú moderna concezione degli accordi, e un lavoro della mano destra
sempre piú indirizzato verso quella che sarebbe diventata l’improvvisazione
a note singole di Fats Waller.
Il boogie è come un parente un po’ bizzarro, un figlioccio del ragtime
che non ha voluto studiare, nella celebre definizione di Roy Carew.
Svogliato e caciarone, conserva la dialettica delle due mani, la disposizione
dei due strati, ma piegandoli a una dimensione ritmica inaudita, serrata e a
suo modo virtuosistica. Serve a far ballare, e tutte le strategie performative
puntano a questo risultato. Vedremo, tra breve, come. E perché.
Intanto, bisogna collocare nello spazio e nel tempo questo blues
elettrizzato, percussivo e iper-ritmico, che fu capace di diventare una vera e
propria moda alla fine degli anni Trenta grazie alla pirotecnica vena
esecutiva di Meade Lux Lewis, Pete Johnson e Albert Ammons. Dal punto
di vista geografico sembra ormai ragionevole collocarne la nascita in una
zona compresa tra il nordest e il sudest del Texas. Il boogie nasce nei grandi
stabilimenti di deforestazione, di estrazione della trementina e di
costruzione delle ferrovie; quasi dei campi di concentramento in cui il
lavoro era durissimo, la paga infima e le condizioni di vita disperate. Per
sollevare lo spirito dei lavoratori, in una baracca leggermente piú ospitale
delle altre, il sabato sera si distribuiva alcol di pessima qualità (si
chiamavano barrelhouse perché il whiskey veniva versato direttamente dal
barile, barrel), giravano prostitute e si ballava. Si ballava forte, provando a
dimenticare, al suono di un pianoforte spesso scordato o con tasti mancanti,
azionato da musicisti che per coprire il rumore degli scarponi sul pavimento
di legno – proprio come racconta la Angelou – dovettero inventarsi uno
stile percussivo, esagitato, vitalistico e sensuale. Il blues, la sua
organizzazione armonica e simbolica, e il rumore del treno, essenziale
nell’immaginario di fuga e libertà dei neri, furono gli ingredienti principali.
Una musica quindi necessariamente ipnotica, ripetitiva e percussiva,
poliritmica e aggressiva, cui era vietata la raffinatezza timbrica, o il gesto
sfumato: doveva incitare il movimento, provocarlo, strapparlo quasi dalle
membra distrutte dalla fatica e dalle menti annebbiate dall’alcol.
Per incentivare la danza i pianisti di boogie inventarono figurazioni della
mano sinistra che rendevano esplicite, quasi icastiche, le movenze del
corpo: al posto dell’ingessato oom-pah della marcia costruirono intricati
pattern a otto note, veri e propri bassi ambulanti talmente infettivi e
irresistibili da trasferirsi di peso, anni dopo, nel rock and roll, e costituirne
la propulsione ritmica. Quei bassi danzanti si impressero nella memoria di
coloro che ebbero la possibilità, e la fortuna, di ascoltarli all’opera. Blind
Lemon Jefferson li integrò immediatamente nella sua musica; li chiamava
booga-rooga, e probabilmente li aveva copiati da Leadbelly. Questi,
addirittura, disse di aver visto un pianista suonare il boogie nel 1899. Dal
Texas il boogie si diffuse a macchia d’olio in tutto il sud del paese grazie
proprio ai treni, e a un circuito di barrelhouse che i pianisti percorrevano in
piccole tournée. Fu per questo, probabilmente, che nei primi anni della sua
esistenza il boogie veniva chiamato fast Western o fast Texas: nomi derivati
dai treni della nascente Texas & Pacific Railroad. Prima di diventare
boogie, peraltro, questa musica fu chiamata in molti altri modi, da fast blues
a Dudlow Joe, fino almeno al 1928, quando Clarence Pinetop Smith incise
Pinetop’s Boogie-woogie per la Vocalion, prima apparizione ufficiale del
nome. Il quale, a sua volta, deriva, come moltissime altre parole ormai
entrate nel lessico statunitense, dalla lingua bantu: la frase mbuki-mvuki si
riferisce al ballare selvaggiamente fino al raggiungimento dell’estasi,
indicando la necessità di spogliarsi dei vestiti che intralciano i movimenti.
Quando nasca il boogie è probabilmente impossibile da stabilire.
Abbiamo delle date, dei piccoli punti di riferimento. Una è quella di
Leadbelly, che fissa un primo paletto al 1899. Un’altra testimonianza, di
grandissimo valore, sebbene da qualcuno giudicata fallace, proviene dal
grande pianista Eubie Blake, il quale dichiarò di aver visto un pianista
suonare una musica assimilabile al boogie addirittura tre anni prima. Il
pianista si chiamava William Turk.

He had a left hand like God. He didn’t even know what key he was playing in, but he
played them all. He would play the ragtime stride bass, but it bothered him because his
stomach got in the way of his arm, so he used the walking bass instead. I can remember
when I was thirteen – this was 1896 – how Turk would play one note with his right hand
and at the same time four with his left. We called it «sixteen» – they called it boogie-
woogie now 25.

Turk era un omone alto e grosso; imparò a suonare il piano da


autodidatta e non incise mai. Nacque nel 1866; quando Blake lo ascolta
aveva trent’anni. La domanda è: quanto tempo prima aveva elaborato, o
copiato, quella tecnica assai peculiare? Se fosse possibile dare una risposta
avremmo un indizio forte per poter determinare, con buona
approssimazione, la presenza della forma blues e del walking bass tra le
possibilità dei pianisti nel Sud degli Stati Uniti. Sfortunatamente, non lo
sapremo mai.
Dopo aver girato in lungo e in largo per tutti gli stati del Sud, il boogie
divenne adulto e iniziò a penetrare in altri stili e altre musiche, come
dimostra la presenza delle tipiche figure di basso in brani di ragtime o pop
nei primi dieci o quindici anni del Novecento. L’arrivo nelle grandi città del
nord, il cambiamento di luoghi e funzione (non piú le barrelhouse, ma rent
parties, feste da ballo e serate danzanti) non ne modificò eccessivamente la
sostanza. Il ritmo del treno, il suo sferragliare incessante assunse quasi lo
status di metafora ossessiva, e di legame con un passato, seppur
recentissimo. Non deve stupire la forte fascinazione che i convogli sbuffanti
esercitarono sulla formazione dell’immaginario afroamericano, del cui
paesaggio sonoro furono costituenti essenziali. Scrive Paul Oliver:

Quando nacque il blues, il paesaggio era silenzioso. Il piú rumoroso dei suoni che
rompeva la quiete era il ruggito del treno a vapore mentre passava nelle pianure,
lasciando uno sbuffo di fumo contro il cielo blu. Un breve istante di eccitazione al suo
passaggio, un fischio acuto, profondo e lamentoso come un blues e tutto finiva lí. Si
racconta che gli ingegneri avessero intonato le trombe del fischio a vapore affinché
suonassero un blues, ma esso probabilmente suonava già cosí per le mani che
lavoravano i campi e usavano come orologio i treni che passavano.

La suggestione sonora presto fu elaborata e trasformata, come ricorda


Alan Lomax:

Anonimi musicisti neri, desiderosi di afferrare un treno e scappare lontano dai loro
problemi, incorporarono il ritmo della locomotiva a vapore e il lamento dei loro fischi
nella nuova musica ballabile, quella che suonavano nei jukes e nelle sale da ballo. Il
boogie-woogie cambiò per sempre il modo di suonare il pianoforte, cosí come quei
pianisti dalle grandi mani trasformarono lo strumento in una ferrovia poliritmica.

Né, come sottolineò Wilfred Mellers, va sottovalutata la simbologia


fallica del treno, «forte in testa e serpentino nel suo snodarsi», che si unisce
all’evidente carica sessuale di una musica tutta giocata sul ritmo
martellante. Honky Tonk Train Blues, di Meade Lux Lewis (diventato
celebre anche in Italia come sigla di una trasmissione televisiva nella
versione di Keith Emerson), ne rappresenta forse l’esempio piú
impressionante e paradigmatico. Tutto, in esso, è movimento parossistico, a
partire dalla peculiare figura di accompagnamento della mano sinistra, vero
basso cinetico ed esplosivo, fino alla convulsa e orgiastica linea melodica.
Inoltre, come nota Melissa Avdeeff, il brano risponde pienamente agli otto
marcatori del boogie stilati da John Tennison:

1. Ostinato – una linea di basso sincopata che traccia la pro-gressione di accordi nella
forma blues di 12 battute.
2. La pulsazione swing – la pulsazione swing può essere limitata alla mano sinistra
(pulsazione swing vera e propria) o prevedere la combinazione della mano destra e della
sinistra (pulsazione swing di interazione).
3. Sincope – come per la pulsazione swing, questa si può eseguire con ciascuna delle
due mani.
4. Interplay poliritmico – si ha l’interplay tra le due mani che suonano l’una contro
l’altra.
5. Condotta della mano destra, altamente percussiva, e spesso melodica – spesso in
staccato e ritmicamente complessa.
6. La mano sinistra è di frequente melodica e di contrappunto alla mano destra – può
dare la sensazione che piú di una persona stia suonando contemporaneamente.
7. Forte senso di tonalità.
8. Spesso la forma blues in dodici battute.

Honky Tonk Train Blues fu inciso per la prima volta da Lewis nel 1927,
per la Paramount, e dunque incarna perfettamente la fase di passaggio dal
boogie rurale a quello cittadino. Certo, il boogie suonato nella barrelhouse
di un accampamento texano di inizio secolo e in un appartamento di
Chicago degli anni Venti non poteva essere lo stesso. Una delle differenze
maggiori – come ci raccontano alcuni dischi incisi da Romeo Nelson e lo
stesso Clarence Pinetop Smith – risiedeva nel fatto che il pianista, diventato
performer a tutti gli effetti, aveva anche il compito di fornire elementari
indicazioni sui tempi e sui modi delle danze, e per far questo interrompeva
il flusso musicale per mezzo di un break, l’improvvisa e spesso
imprevedibile interruzione della musica che i jazzisti, da Louis Armstrong a
Jelly Roll Morton, avevano trasformato in frastornante effetto a sorpresa.
Il trascinante honky tonk di Lewis non fu però il primo brano registrato a
contenere il tipico basso boogie. Il riconoscimento spetta a un musicista
straordinario, George Washington Thomas junior. Fratello di Sippie
Wallace, e di Hersal, giovanissimo prodigio della tastiera, è considerato,
unanimemente, il musicista che prima, e meglio, elaborò gli stilemi del
boogie, rendendoli a disposizione di tutti sin dalla pubblicazione su spartito
di New Orleans Hop Scop Blues, apparso nel 1916, e nelle successive
composizioni. The Fives e The Rocks, accreditate anche a Hersal, sono i due
cardini dell’estetica boogie urbana; George registrò il primo con lo
pseudonimo di Clay Custer, segnando cosí la prima apparizione ufficiale del
boogie su disco. Se George fu il teorico della famiglia, Hersal era il talento
allo stato puro. Ma la sua carriera, che si preannunciava sensazionale, fu
troncata da una morte per avvelenamento da cibo, ad appena vent’anni.
La scuola stilistica dei fratelli Thomas produsse, seppur indirettamente,
uno stuolo di eccellenti musicisti. Tra questi, va segnalato Jimmy Blythe,
uno tra i pochissimi pianisti di blues a trovarsi a proprio agio in ogni
circostanza. Il suo Chicago Stomp, inciso nel ’23, è un boogie perfetto e
paradigmatico, moderno e addirittura visionario. Altrettanto interessante è,
nella veste di accompagnatore, Sunshine Special, di due anni piú tardi: qui,
al fianco della cantante Sodarisa Miller, Blythe esprime una profondità di
tocco e pensiero formidabili, riuscendo a piegare il boogie e il suo
ingombrante fardello in una dimensione piú cameristica. Una meningite
improvvisa lo uccise nel 1931. Non aveva neanche trent’anni.
Accanto a questa tradizione piú moderna, però, continuò a proliferarne
una piú rurale, dalla quale provennero, almeno stilisticamente, i campioni
del boogie degli anni Quaranta, ovvero Meade Lux Lewis, Albert Ammons
e Pete Johnson. Lewis e Ammons appresero i primi rudimenti, e i primi
trucchi del mestiere, da Jimmy Yancey. Personaggio degno di un feuilleton,
aveva già quarantun anni quando incise per la prima volta, nel ’39, e alle
spalle una vita spesa tra i palcoscenici del vaudeville nei panni di cantante e
ballerino; la sua compagnia, nel 1913, ebbe l’onore di esibirsi a Londra,
dinanzi alla regina e consorte, e i due coronati ebbero parole di
ammirazione per il giovane entertainer. Lasciato l’intrattenimento girovago
nel 1915, Yancey decise di imparare a suonare il pianoforte da autodidatta,
con l’aiuto di suo fratello Alonzo, e in breve tempo acquisí una padronanza
entusiasmante, tanto da essere uno dei pianisti piú richiesti in rent parties e
serate danzanti; attività divertente, senza dubbio, buona per arrotondare lo
stipendio di lavorante al Comiskey Park, lo stadio del baseball in cui
giocavano i White Sox. Sulle qualità di questo profondissimo esecutore
Wilfrid Mellers si sbilanciò:

Il piú grande pianista di barrelhouse: Jimmy Yancey. È significativo che Yancey sia
l’unico dei pianisti blues primitivi che suoni tempi relativamente lenti: l’unico che – in
un pezzo come il poeticissimo At the Window – si adoperi a suggerirci, sul pianoforte
meccanico e ben temperato, qualcosa della lamentosità espressiva della voce, della
chitarra e del clarinetto jazz. Suonava i glissandi con tale sottile controllo del colore che
facevano l’effetto di veri portamenti vocali.

Difficile non condividere l’entusiasmo di Mellers, anche se va ricordato


che il brano al quale si riferisce il musicologo inglese fu registrato
tardivamente, nel 1943. E, dalla fine degli anni Trenta in poi, il blues, il
boogie, il jazz e tutte le musiche afroamericane conobbero mutazioni che
oltrepassano il perimetro di questo libro.
Alla scuola piú tradizionale del boogie appartengono anche Cow Cow
Davemport e Roosevelt Sykes. Musicisti alla cui bravura si attaccò un
brano in particolare, come un bigliettino da visita sonoro: Cow Cow Blues,
per il primo, e 44 Blues per Sykes, il cui soprannome, Honeydripper,
alludeva alle sue qualità amatorie e i cui blues spesso avevano testi
licenziosi e sporcaccioni.
Resta ancora un piccolo dubbio da sciogliere, prima di passare oltre.
Come si può confondere i canti di chiesa, per quanto santificati e vitalistici,
con i torridi ritmi percussivi del boogie, come racconta Maya Angelou nel
suo ricordo? Cosa accomuna, per l’orecchio meno esperto, due musiche
all’apparenza cosí lontane? Ce lo racconta T-Bone Walker:

The blues? Man, I didn’t start playing the blues ever. That was in me before I was
born and I’ve been playing and living the blues ever since […] Of course, the blues
comes a lot from the church, too. The first time I ever heard a boogie-woogie piano was
the first time I went to church. That was the Holy Ghost Church in Dallas, Texas. That
boogie-woogie was a kind of blues, I guess. Then the preacher used to preach in a
bluesy tone sometimes. You even got the congregation yelling «Amen» all the time
when his preaching would stir them up – his preaching and his bluesy tone. Lots of
people think I’m going to be a preacher when I quit this business because of the way I
sing the blues. They say it sounds like a sermon 26.
Nell’intreccio di riti antichi e moderni, la comunità afroamericana ha
sempre cercato e trovato elementi di continuità, dritti e sicuri come binari di
una ferrovia. Il blues è uno di questi. Anche le chiese, soprattutto quelle
pentecostali, come la Holiness, cercavano di annullare le distanze, rendere
permeabili i diaframmi. Scrive Lawrence Levine:

All’interno della chiesa questo amalgama di suoni divenne per la prima volta
importante nelle sette della Santità e degli Spiritualisti che si svilupparono al passaggio
del secolo […] Musicalmente, essi tornarono alla tradizione del passato schiavista
lontano dal mondo della musica nera secolare che li circondava. Portarono in chiesa non
solo i suoni del ragtime, del blues e del jazz, ma anche gli strumenti. Accompagnavano
il canto, che giocava un ruolo centrale nelle loro funzioni, con percussioni, tamburelli,
triangoli, chitarre, contrabbassi, sassofoni, trombe e qualsiasi altro strumento sembrasse
musicalmente adatto. Lo spirito della loro musica venne sintetizzato anni piú tardi da un
patriarca della chiesa che parafrasò Martin Luther: «Non dovremmo permettere che il
diavolo abbia tutto questo buon ritmo».

La testimonianza piú sorprendente, però, è quella di Zora Neale Hurston.


La scrittrice e antropologa, in una ricerca per la Work Progress
Administration in Florida, annotò:

A Jacksonville c’è un pianista jazz che raramente ha una sera libera; gran parte del
suo lavoro deriva dal suonare nelle funzioni religiose della chiesa della Chiesa
Santificata, o nelle feste. Sostando fuori dalla chiesa è difficile capire quale tipo di
ingaggio stia assolvendo in quel momento.

La stessa musica.

3. Padre padrino.
L’estate del 1993 fu particolarmente fiacca per la Big Band Lumière,
l’orchestra diretta da Laurent Cugny. Piú che fiacca, minacciava di restare
inoperosa: neanche un ingaggio, neanche un concerto. Brutta gatta da pelare
per il musicista, jazzista di vaglia, teorico e oggi docente di jazz alla
Sorbona. Quando già gli animi di tutti s’erano rassegnati, arrivò la
chiamata, da un festival. Peccato, però, si trattasse di un festival di blues, e
pertanto la proposta andava valutata attentamente. Cosa motivava la
riluttanza, la prudenza di Cugny? Jazz e blues non sono quasi la stessa
cosa? Non nascono dalla stessa madre? Non sono l’uno il precursore
dell’altro, come spesso si legge? In realtà, no. La questione è molto piú
complessa di come appare, o è stata descritta. Cugny approfittò della
situazione per avviare una seria riflessione sul suo personale rapporto di
jazzista, bianco ed europeo, col blues, analizzando le differenze, le distanze,
i sospetti («ma suonate vero blues?», fu la domanda preoccupata
dell’organizzatore); gli studiosi, invece, non provano ormai neanche piú a
dipanare una matassa che per essere completamente sciolta avrebbe bisogno
di informatori, testimoni e osservatori dell’epoca.
Paul Oliver, in un suo articolo apparso su «Popular Music» nel 1990,
provò a fare il punto della situazione scrutinando tutte le piú importanti
storie del jazz apparse fino a quel momento; l’intento era quello di
verificare in che modo gli studiosi trattassero l’argomento, dunque
tratteggiassero la relazione tra i due generi musicali. In maniera quasi
univoca, il jazz veniva considerato come una derivazione del blues, e
dunque il blues come un precursore del jazz, con diverse sfumature. Stesso
punto di vista di Eileen Southern, peraltro, cui si deve la prima, organica
storia della musica afroamericana. Ma l’intento di Oliver era piú sottile;
tendeva, infatti, a mettere in crisi un postulato decisivo per accettare la
discendenza del jazz dal blues: che quest’ultimo fosse nato a New Orleans,
o fosse ampiamente disponibile in città affinché i primi musicisti di jazz ne
prendessero in prestito l’espressività, le funzioni ritualizzanti, l’intonazione
particolare, l’istinto vocalizzante nelle prassi esecutive strumentali, quando
non addirittura la forma. Su questo Oliver è intransigente: non c’è nessuna
prova, né alcuna testimonianza. Vero, ma in parte: come abbiamo visto, le
testimonianze dei musicisti di New Orleans puntano invece nella direzione
opposta: non basta leggere le storie del jazz, evidentemente. Né serve
compulsare quelle del blues, dove invece il jazz non entra affatto nella
narrazione e nello sviluppo dei fatti se non per enfatizzare la presenza di
jazzisti nelle registrazioni delle regine del blues classico, abituate ad avere
con sé in sala di incisione Louis Armstrong e i migliori solisti del tempo.
È pur vero che se si confrontano le registrazioni di Armstrong con gli
Hot Five e gli Hot Seven con quelle coeve dei grandi cantanti del country
blues – Blind Lemon Jefferson, ad esempio – ci si accorge che, dal punto di
vista dei linguaggi jazz e blues avevano già da tempo iniziato percorsi
diversi e tragitti che tendevano a divergere piuttosto bruscamente.
Nell’eloquenza strumentale, rivoluzionaria e virtuosistica di Armstrong,
seppur ancora irrisolta per il disequilibrio di quelle formazioni (la distanza
che corre tra Satchmo, come veniva affettuosamente soprannominato, e i
suoi prestigiosi sodali a volte è incolmabile) c’è poco o nulla della terragna,
ipnotica, ruvidissima e talvolta approssimativa tecnica esecutiva di alcuni
bluesmen; non c’era neanche un testo da cantare, una storia cui legare i
propri blues nella speranza che lasciassero la stanza (sebbene Armstrong
fosse vocalist superlativo). Verrebbe da dire che non c’era il blues, meglio:
non c’è un certo tipo di blues, una modalità particolare. Potato Head Blues,
incisa da Armstrong nel maggio del 1927, e Match Box Blues, registrata ben
tre volte da Lemon tra l’aprile e il maggio dello stesso anno, rappresentano
due capolavori dei rispettivi repertori; sono stati incisi nella stessa città,
Chicago (tranne la prima versione di Blind Lemon, la cui ripresa fu
effettuata ad Atlanta), eppure raccontano mondi lontani, legati a realtà,
situazioni e contesti distanti anni luce. Non solo: sembrano destinati a
pubblici diversi. In quel momento storico, e in futuro la distanza sarebbe
aumentata, il jazz e il blues non erano la stessa musica, forse perché, come
vedremo nell’ultimo capitolo, il termine blues ha finito con l’essere una
definizione a ombrello sotto al cui cono d’ombra sono precipitate differenti
idee e modalità.
Il rapporto tra blues e jazz andrebbe dunque ripensato a partire dalla
natura dei linguaggi. È proprio su questo terreno che si misurano le
incertezze piú gravi, quando non gli svarioni piú grotteschi. Se, forse,
nessuno oggi penserebbe mai quello che Ian Laing, prestigioso storico
inglese, scrisse nel 1947 («Il blues non è tutto il jazz, ma tutto il blues è
jazz»), c’è chi, come Elijah Wald, continua a fare una certa confusione
quando afferma:

Nei fatti non c’era una netta divisione tra blues e jazz. Tutti i musicisti di jazz della
prima generazione erano in grado di suonare il blues, come testimoniano le registrazioni
che Armstrong, King Oliver, Fletcher Henderson e centinaia di altri musicisti di jazz
realizzarono accompagnando le regine del blues.
Ma non è vero il contrario: se i musicisti di jazz erano in grado di
suonare il blues, i musicisti di blues non erano in grado di suonare il jazz
(tranne pochissime eccezioni, che vedremo a breve), né probabilmente
interessava loro. Andrebbe cioè analizzato con piú precisione il fatto che
già dal 1926 – dal momento in cui disponiamo di una buona registrazione di
un caposcuola del country blues – i linguaggi erano assai differenti, cosí
come le prassi esecutive, i ragionamenti espressivi e formali. Né va
dimenticato che il blues era esclusivamente un genere vocale, mentre il jazz
quasi esclusivamente strumentale, e che i bluesmen si esprimevano con una
strumentazione diversa. Ma, come ancora equivoca Wald:

Fondamentalmente, era una questione di strumentazione: se un musicista di blues


faceva una serata con qualche strumentista a fiato il risultato probabilmente avrebbe
potuto appartenere a quello che oggi chiameremmo “good-time jazz”, il tipo di musica
che si può ascoltare sui dischi della Clarence Williams’s Washboard Band, o della
Louisville Jug Band’s nelle registrazioni con Johnny Dodds ed Earl Hines.

L’approssimazione di Wald nel districarsi tra jazz e blues è sensibile:


basterebbe, per togliersi ogni dubbio, ascoltare cosa Hines aveva inciso con
Armstrong alla fine degli anni Venti per capire quale fosse l’orizzonte verso
il quale puntava con decisione il pianista. Allo stesso tempo, nessuna storia
del jazz annovera le due jug band di cui sopra tra le esperienze migliori
dell’epoca.
Qualche riga nei repertori enciclopedici piú completi riesce invece a
ottenerla una formazione assai interessante, gli Harlem Hamfats, che seppe
collocarsi in un crocevia stilistico nevralgico al volgere della seconda metà
degli anni Trenta. A sorprendere era, innanzitutto, che si trattasse di un
gruppo vero e proprio, che si muoveva secondo logiche di gruppo: prove,
coesione, familiarità e compattezza erano le caratteristiche esteriori di una
band potente, la cui musica sembrava sgorgare da un meccanismo a
orologeria. La strumentazione, poi, sebbene non fosse completamente
nuova per il blues dell’epoca, era certamente curiosa: tromba, clarinetto,
piano, chitarra, mandolino, contrabbasso e batteria; il suono complessivo
poteva facilmente alludere al blues, o al jazz di New Orleans, o alle string
band: nel migliore dei casi a tutte queste sonorità simultaneamente, e fu
proprio questa capacità di evocazione stilistico-timbrica una delle chiavi del
successo bruciante della formazione. L’altra era che ogni versante
linguistico – il jazz, il blues – era appannaggio di specialisti, di musicisti
madrelingua abili a mescolare accenti e dialetti. Gli strumenti a corda erano
appannaggio dei fratelli Joe e Charlie McCoy; venivano dal Mississippi e
sarebbero diventati già dagli anni Venti musicisti di spicco grazie alle
collaborazioni con Tommy Johnson e i fratelli Chatmon; Joe poi si sarebbe
trasferito a Chicago nel 1930 iniziando una relazione, professionale e
sentimentale, con Memphis Minnie adottando lo pseudonimo di «Kansas
Joe». Strumenti a fiato e sezione ritmica erano invece governati da musicisti
di New Orleans, dalla inconfondibile estrazione jazzistica: non erano
certamente dei fuoriclasse (tranne John Lindsay, il contrabbassista
subentrato ad Andrew Harris, tra i migliori specialisti dello strumento e
prestigiose collaborazioni alle spalle, come quella con i Red Hot Peppers di
Jelly Roll Morton), ma sapevano incanalare l’energia del gruppo verso
l’obiettivo, ovvero eccitare e far danzare il pubblico. Herb Morand,
trombettista proveniente dalla Crescent City, visse sempre ai margini del
jazz che conta, ma era musicista in grado di eccellenti performance, cosí
come Odell Rand e Chris Reggell, che si alternarono a sax e clarinetto. Il
pianista Horace Malcolm si mosse sempre in un ambito piú vicino alle
dodici battute (era nato ad Atlanta, e si era trasferito a Chicago dopo la
Prima guerra mondiale) e il batterista Pearlis Williams, mississippiano, era
un onesto portatore di ritmo.
Gli Harlem Hamfats furono una creatura di J. Mayo Williams. Il
visionario produttore aveva probabilmente avvertito nell’aria i segni del
cambiamento, la richiesta di un blues piú corposo e avvolgente, elettrico nei
ritmi e nervoso nelle strutture. Williams anticipò, di fatto, quello che
sarebbe successo di lí a pochi anni: l’affermazione, anche nel blues,
dell’idea di gruppo, e il passaggio da una dimensione rurale a una
pienamente, e consapevolmente, urbana. Per tre anni gli Harlem Hamfats
ottennero un successo inimmaginabile, aprendo la strada a nuovi
esperimenti e prestando la loro musica – precisa, inimitabile e
personalissima – a molti artisti, come la cantante Rosetta Howard, con cui
incisero copiosamente. La loro sintesi stilistica si pose come modello per
molto del blues successivo, al quale gli Hamfats indicarono una modalità
percorribile.
Alonzo Johnson, piú noto col nomignolo di Lonnie, fu invece l’unico
musicista capace di parlare i due linguaggi con competenza e credibilità,
tanto da aver accumulato, nel corso di una carriera lunghissima,
collaborazioni eccellenti con musicisti del calibro di Duke Ellington, Louis
Armstrong, King Oliver; paradigmatici, addirittura, i suoi duetti chitarristici
con Eddie Lang (all’anagrafe Salvatore Massaro, il padre era originario di
Monteroduni, un grazioso paese molisano), vertice assoluto di un’arte a
trecentosessanta gradi. Era nato a New Orleans, in una famiglia di
musicisti, e da subito aveva mostrato quel talento che ne avrebbe
caratterizzato l’evoluzione stilistica; musicista bulimico, suonava, come
abbiamo visto, anche il violino: quasi a non volersi piegare a una visione
limitata della sua musica, nelle prime tracce che incise saltò da uno
strumento all’altro (piú violino che chitarra, per la verità), aggiungendo alla
lista pianoforte, banjo, harmonium. La sua dimensione bluesistica era
amplificata da una vocalità robusta, cui non mancano sfumature raffinate, e
a una penna che gli permetteva di scrivere testi mai banali o scontati,
sebbene spesso pervasi da una sottile misoginia, notata da tutti gli storici. A
completare la sua arte, Lonnie era un accompagnatore formidabile, a suo
agio in ogni tipo di contesto grazie alla conoscenza e alla padronanza di
tutti gli stili piú in voga alla sua epoca. Ragguardevoli sono i dischi incisi
con Alger Texas Alexander, nei quali – proprio per le idiosincrasie del
cantante, tra i piú ellittici e originali della storia della musica nera –
Johnson mostra un’adesione millimetrica e un’attenzione spasmodica a ogni
piú minuscola svolta del cantante.
Come la storia dei linguaggi musicali afroamericani ha ampiamente
dimostrato, le relazioni tra jazz e blues – strettissime, contingenti e
necessarie – non produssero una musica comune, quanto piuttosto due
strade diverse originate dallo stesso punto, o, meglio, dallo stesso insieme
di punti. Il jazz ha preso in prestito dal blues, oltre alla forma in dodici
battute e relativo giro armonico, tratti espressivi piú che linguistici, che
hanno a che fare con l’intonazione, la vocalizzazione e la disposizione
all’espressione totalizzante: un sistema di codici, piuttosto che singoli
elementi. Grazie a questi si è evoluto dall’essere un elegante e modernistico
ragtime per diventare probabilmente la piú profonda, radicale e innovativa
forma d’arte del XX secolo.
25
«Aveva la mano sinistra come quella di Dio. Non sapeva neanche in che tonalità suonasse, ma
suonava di tutto. Suonava il tipico basso stride, ma lo annoiava perchè il suo stomaco andava nella
stessa direzione del suo braccio, e quindi utilizzava il walking bass. Ricordo, avevo tredici anni – era
il 1896 – come Turk suonasse una nota con la mano destra e allo stesso tempo quattro con la sinistra.
Lo chiamavamo “sixteen” – ora lo hanno chiamato boogie-woogie».
26
«Il blues? Fratello, non ho mai iniziato a suonare il blues, era dentro di me prima che nascessi e
suono e vivo il blues da sempre […] Naturalmente, il blues viene dalla chiesa, anche. La prima volta
che ho sentito un piano suonare boogie-woogie fu quando andai in chiesa per la prima volta. Nella
Holy Ghost Church a Dallas, Texas. Quel boogie-woogie era una specie di blues, direi. A quei tempi
il predicatore spesso usava un tono blues. E la congregazione urlava «Amen» tutte le volte che la sua
preghiera li accendeva – la sua preghiera e il suo tono blues. Molta gente pensa che io diventerò un
predicatore quando smetterò questo lavoro per il modo in cui canto il blues. Dicono che suona come
un sermone».
Parte terza
Kinds of blue(s)
Capitolo quattordicesimo
Il senso di Bessie per il blues

Gli americani, come si è già visto, usano una singolare perifrasi per
indicare personaggi dalle esistenze leggendarie, che eccedono se stesse:
«larger than life», piú larghi della stessa vita. E la vita, a Bessie Smith
andava davvero strettissima. Se esiste materia per la leggenda del blues,
quella è l’esistenza veloce, bruciante, consapevole, determinata e
inarrestabile di una delle piú eclatanti regine della musica nera. Leggendaria
fu anche la sua morte, coperta dal mistero e dal sospetto. Troppo stretta, la
vita, se si è larger than life.

1. The world in a jug.


Quando si presentò negli studi di registrazione della Columbia, dalle
parti di Columbus Circle, a New York, per incidere i suoi primi dischi,
Bessie Smith aveva un’età indefinibile; non perché non si riuscisse a
indovinarne gli anni dai lineamenti, dall’abbigliamento, dalla solidità dei
gesti e la maturità dei comportamenti (Frank Walker dichiarò che sembrava
una diciassettenne, alta e grassa, molto southern e assolutamente tutto
fuorché una cantante), ma perché si ignorava la sua data di nascita. Ancora
oggi, visto che l’anagrafe di Chattanooga, Tennesse, non dimostrò grande
perizia nel registrare le nascite dei cittadini di colore alla fine del XIX
secolo, non si sa con precisione, e forse non si saprà mai; la data piú
probabile è il 15 aprile 1894, il che rende Bessie Smith quasi trentenne in
quel febbraio 1923. Non piú giovanissima, dunque, ma di certo non una
sconosciuta, o una volenterosa dilettante. Bessie era già Bessie Smith pur
lontana dai microsolchi, forte di una popolarità incendiaria nata e rinforzata
sulle tavole degli spettacoli itineranti: era una star, amata, sognata e
desiderata da molti uomini, e quasi altrettante donne.
Orfana, aveva iniziato da bambina, sui marciapiedi davanti a casa, per
aiutare il resto della famiglia; col fratello chitarrista Andrew improvvisava
numeri per la strada, raccogliendo spiccioli. Grazie a un altro fratello,
Clarence, presentatore in una compagnia di minstrel show, riuscí a ottenere
un’audizione: fu assunta immediatamente, ma come ballerina di tip tap, e
questo le sarebbe tornato utile in futuro. La compagnia era quella di “Ma”
Rainey, come sappiamo, e per l’inesperta aspirante show-girl non avrebbe
potuto esserci miglior scuola. Della sua amicaprotettrice-amante (a quanto
si dice) Bessie prese il possibile; tesaurizzò ogni singolo gesto vocale,
movimento di scena, sfumatura, sfrontatezza, atteggiamento,
comportamento, senso dell’umorismo e un certo gusto per la vita
spericolata: soprattutto, provò a duplicare la forte umanità di Gertrude, quel
suo essere capace di sentire i problemi della gente e cantarli nei suoi blues.
Non faticò molto, in verità; Bessie aveva già tutto questo – eccessi compresi
–, le mancava un palcoscenico per esercitarsi ogni sera, e un’ala protettrice.
In piú, aveva una prepotente consapevolezza del proprio talento, e una
determinazione che nessun’altra poteva vantare o esibire. Aveva, infine, la
voce piú bella che si potesse ascoltare in giro, e tonnellate di anima. Era già
Bessie Smith, e tutti lo sapevano. Lo sapevano gli spettatori che riempivano
i teatri e ne assorbivano fino all’ultima stilla di bellezza, dolore e sensualità.
Nel 1922 la Smith aveva costruito un numero la cui scenografia era
un’enorme tromba di grammofono; lei cantava i suoi blues e spiegava al
pubblico adorante come aveva inciso i suoi dischi, anche se, all’epoca, non
ne aveva registrato neanche uno. Sapeva soltanto che voleva farlo. Piú di
ogni altra cosa. E il pubblico, annegato nel buio della sala, credeva a ogni
cosa.
Ci arrivò comunque tardi. Il fenomeno aveva già preso fuoco grazie alla
miccia accesa da Mamie Smith, e per qualche tempo Bessie dovette
rincorrere. Non fu facile, perché subí qualche partenza falsa. La piú nota, e
in qualche modo grottesca, assunse le sembianze di un provino fallito con la
Black Swan, nel 1921; l’etichetta di Harry Pace ritenne la cantante troppo
grezza per il pubblico cui si rivolgeva (o per quello che avrebbe voluto
costruire), e la scartò, consegnando alla storia una strepitosa prova di cecità
artistica. La Columbia, invece, annusò la grande scoperta, e la mise sotto
contratto; non è ancora del tutto chiaro se fu per iniziativa di Frank Walker
o di Clarence Williams, ma ormai poco importa: Bessie aveva un contratto
discografico. L’avrebbe onorato nel migliore dei modi.
Quando si presentò negli studi di registrazione della Columbia, dalle
parti di Columbus Circle, a New York, per incidere i suoi primi dischi,
Bessie però non aveva idea di cosa fosse, di cosa volesse dire: l’unica
esperienza era la finzione sul palco. Finzione, appunto. La realtà era assai
piú dura di come avrebbe potuto immaginarla. Lo studio era simile alla
scenografia del suo spettacolo: un’enorme tromba spuntava da una tenda,
spessa e pesante, dietro la quale si nascondeva il tecnico del suono. Lei
avrebbe dovuto cantare rivolta alla tromba, senza poter neanche guardare il
suo accompagnatore, Clarence Williams. Per niente facile. E infatti non le
riuscí. Provò tutto il giorno, con risultati scadenti. Le mancava il pubblico,
l’elettricità della sala, le luci, il movimento: era ingabbiata in una situazione
irreale, completamente diversa dall’esperienza naturale dell’esibirsi, del
comunicare. Senza le sue armi, senza il corpo che occupava la scena come
se questa fosse tagliata a misura della sua fisicità, appariva smarrita e
imbarazzata; cantare dentro a una tromba, poi, era la negazione stessa del
cantare. Al terzo tentativo del secondo giorno, finalmente, accadde
qualcosa. Bessie era riuscita a racchiudere il suo mondo in un blues, come
recitava il testo, ed era pronta a tappare la bottiglia («I got the world in a
jug, the stoppers in my hand»).
Down Hearted Blues era stato scritto da Alberta Hunter e Lovie Austin.
Non l’aveva scelto Bessie, naturalmente (sebbene il testo di quel brano
beffardamente racconterà cosa sarà la sua vita sentimentale negli anni
successivi, tra delusioni e tradimenti), ma Frank Walker; il produttore non
era riuscito a strappare la Hunter alla Paramount, né King Oliver alla
Gennett, e quella doveva essere la sua piccola vendetta. Bessie provò quel
brano insieme ad altri tre (uno, Gulf Coast Blues, di Williams, sarebbe
comparso nell’altra faccia del 78 giri), e quando la take fu buona, dopo due
giorni e diversi tentativi, fu subito chiaro che era avvenuto un piccolo
miracolo. Perché nonostante la tensione, l’inesperienza, lo spaesamento, la
delusione, la rabbia, Bessie cantò come se non avesse fatto altro che
incidere dischi. Neanche la minima incertezza a increspare la superficie di
una performance strabiliante, talmente perfetta da diventare paradigmatica.
Bessie cantava il blues e il blues non fu piú lo stesso dopo quel 16 di
febbraio del 1923. Down Hearted Blues, che nei piani di Walker avrebbe
dovuto essere il lato b di Gulf Coast Blues vendette in pochi giorni 750 000
copie, stracciando avversarie e concorrenti.
Cosa decretò l’immediato successo della cantante, e il successivo
dominio incontrastato nel decennio, è apparentemente facile a dirsi. La
ragione piú evidente è che non si era mai ascoltato nulla di simile, prima
d’allora. La ricca voce di contralto, speziata – come un vino di pregio – da
una miriade di sfumature, si stagliava netta nonostante la scadente qualità
della registrazione, ed era in grado di restituire una vastissima paletta di
sensazioni. Parlava al cuore e alla carne, sussurrava parole d’amore e
alludeva al sesso, indicava speranze e trasudava orgoglio; in piú, era capace
di rendere il dolore un’esperienza condivisibile, senza alcuna ritrosia.
Dall’alto di un magistero vocale irraggiungibile, Bessie sapeva parlare a
tutti, e per ognuno era come se la cantante avesse cantato solo per lui.

2. Istruzioni per riempire l’aria.


Difficile immaginare due cantanti piú distanti – stilisticamente, almeno –
di Billie Holiday e Janis Joplin. Eppure, per tutt’e due Bessie Smith costituí
un modello, una fonte di ispirazione. Janis Joplin addirittura disse: «Mi ha
mostrato l’aria e come fare per riempirla».
Certo, Bessie Smith riempiva l’aria, e ogni altra cosa intorno; per la sua
umanità cosí complessa (aveva un carattere dolce e generoso, ma sapeva
trasformarsi in una persona violenta e maleducata in un batter di ciglia), per
la sua esuberante fisicità. Soprattutto, perché aveva un senso speciale per il
blues, e seppe trasferirlo tutto intero nelle cose che interpretava. Bessie non
era stata divinamente toccata dal blues – li cantava come cantava qualsiasi
altro genere, e sempre con risultati spettacolari – ma capí che attraverso i
blues, attraverso quella inestricabile mistura di tensione umana e
sovrumana, profana e sacra, aveva lo strumento per riuscire a trasmettere il
suo pensiero. Ecco perché Bessie parla di tutto nei suoi blues: un posto
preponderante l’ebbe l’argomento amoroso (sarà cosí anche nel songbook
di Billie Holiday), ma non esclusivo; raccontava se stessa e la condizione
del suo popolo, i suoi problemi con l’alcol e lo sfruttamento, l’ingiustizia e
la povertà, il sesso e la disperazione. Ebbe il coraggio di dare voce ai neri
del nord e del sud. Diede loro la sua voce affinché potessero usarla come
fosse la propria.
Bessie, cioè, era l’incarnazione piú esatta del concetto, tutto
afroamericano, di soul, qualcosa che va al di là dell’anima, e investe un
codice assai piú complesso di valori e comportamenti. Come nota in
maniera molto efficace la storica Buzzy Jackson:

La metafisica della musica popular americana inizia e finisce con il concetto di soul.
È l’aspetto ultramondano della musica, quella parte che è separata dagli aspetti
meccanici di melodia, tempo, ritmo e timbro. Il soul è ciò che si sente, non ciò che si
ascolta. Una canzone perfetta può essere soul, ma per avere il soul dev’essere cantata da
una cantante speciale. In una cantante il soul è una qualità sia innata che acquisita; la
comprensione profonda della vita implicita nelle sue canzoni parla sia a una sensibilità
personale al mondo sia, spesso, a una storia personale segnata da lezioni dolorose.

Ecco, la voce di Bessie era la voce soul per eccellenza. Dal vivo,
secondo le testimonianze dei fortunati che ebbero la possibilità di assistere
ai suoi concerti, o attraverso il medium freddo del disco, la sua voce
riempiva l’aria di senso, di elettricità. Ed era un’elettricità costituita da
particelle significanti, ognuna delle quali trasportava un microscopico
dolore o una minuscola speranza: insieme, mai una cosa alla volta. Il senso
di Bessie per il blues era questa forza miracolosa nel coniugare la vita, nel
declinare le esperienze di ciascuno come fossero di tutti, nell’essere chi
racconta e chi è raccontato. Allo stesso tempo. Senza alcuno sforzo.
Allo stesso modo, fu anche una cantante assolutamente straordinaria.
Nonostante la sua arte poggiasse su basi empiriche, nessuna come lei seppe
dare un senso cosí compiuto al canto blues. Nessuna, come lei, seppe
stipare tanta sorpresa nell’esecuzione di un blues; Bessie si era subito resa
conto che le gabbie della struttura del verso potevano e dovevano essere
scardinate, altrimenti due versi uguali piú un altro in rima avrebbero potuto
uccidere l’espressività, azzerare l’attesa. Per questo, i suoi blues vivono su
un accumulo di strategie diversificanti: sillabe allungate, versi la cui
lunghezza sfora e si allarga alla misura successiva, l’enfasi posta con abilità
su certe parole e non altre. Soprattutto nell’esposizione del verso ripetuto
Bessie dava fondo a tutto il suo repertorio di variazioni improvvisate,
dimostrando la vastità delle sue risorse – che comprendevano una miriade
di effetti vocali – e la genialità della sua creatività. E poi, l’assoluto
controllo ritmico; non le piaceva suonare con i batteristi («ci penso da me a
tenere il tempo», diceva, e la stessa cosa avrebbe detto, anni dopo, Chet
Baker), e la finezza del suo controllo dimostra come il tip tap avesse fatto di
lei una macchina ritmica.
Bessie fu Bessie per tutti gli anni Venti, fin quando non si trovò
invischiata, come quasi tutti i suoi colleghi, nella palude della Depressione.
Continuò a suonare in lungo e in largo, e stava proprio andando a esibirsi
nel sud, padre di tutti i ritorni, quando smise per sempre di cantare.
Un incidente d’auto la uccise nei pressi di Clarksdale, la culla del blues.
Sulle dinamiche si produsse molta letteratura, e per anni si è creduto che
Bessie fosse morta per omissione di soccorso, cioè per il piú vile degli atti
di discriminazione razziale. Le cose andarono diversamente. Bessie fu
soltanto vittima di una tragica catena di fatalità, e non del bieco odio
razziale. Aveva quarantun anni, e ancora voglia di cantare. La sua lapide,
nel cimitero di Mount Lawn, poco fuori Philadelphia, rimase anonima per
piú di tre decenni, fin quando Juanita Green, che aveva lavorato per lei
come cameriera, e Janis Joplin non misero a disposizione il denaro
necessario per una nuova lapide.
Cosa resta di Bessie Smith, oggi? Ralph Ellison scrisse:

Ci sono diversi livelli di tempo e funzione, per cui il blues che in un posto può essere
usato come semplice intrattenimento, in un altro può rivestire una funzione rituale.
Bessie Smith avrebbe potuto essere una «regina del blues» per la società in generale, ma
per la comunità nera, in cui il blues era parte di un modo di vita complessivo, ed
espressione fondamentale dell’atteggiamento nei confronti della vita, Bessie è stata una
sacerdotessa, una celebrante che affermò i valori del gruppo e l’abilità dell’uomo a
misurarsi con il caos.

Ma, come spesso accade, è nelle parole dei poeti che si racchiude il
senso ultimo di un’esperienza. E questa lirica di Sybil Klein è il finale
perfetto:

could kill you


with a smile
mean mama
in red satin shoes
wearing pearls
of misery blues-
swaying under soft
lights and hard times.
could love you
with a song
make you feel
what dying is,
what life ain’t
never gonna be-
black diamond star
she makes shadows
of things gone 27.

27
«poteva ucciderti | con un sorriso | donna bellissima | in scarpe di raso rosse | indossando perle |
di un blues tormentato | ondeggiando sotto luce | morbida e tempi duri. | poteva amarti | con una
canzone | farti sentire | che cos’è morire, | che cosa la vita non | sarà mai | stella nera di diamanti |
ricrea le ombre | delle cose passate».
Capitolo quindicesimo
Una gita a Grafton

In un mese imprecisato del 1930, probabilmente tra maggio e agosto,


Charley Patton, Son House, Willie Brown e Louise Johnson mossero da
Lula, Mississippi, alla volta di Grafton, Wisconsin. Nell’automobile,
guidata da Wheeler Ford – cantante del gruppo gospel Delta Big Four,
nell’occasione reclutato come autista, essendo astemio – c’erano tre
chitarre, una robusta quantità di alcol illegale e un discreto pacchetto di
sogni. Se a Patton l’esperienza non mancava (sarebbe stata la sua terza
registrazione), né gli difettava una certa autorevolezza e la consapevolezza
di essere il migliore, per Son House e gli altri si trattava della prima volta in
uno studio di incisione. Per alcuni l’ultima.
Arthur Laibley, produttore della Paramount, era andato fino a Lula, nel
maggio di quell’anno, per incontrare Patton: le vendite dei suoi primi dischi
erano state soddisfacenti, quindi era auspicabile un ritorno in studio.
Magari, disse il dirigente, porta con te qualcuno che conosci, che ha talento
e potrebbe registrare buona musica. Affinché tutto andasse per il meglio
lasciò cento dollari per coprire le spese di viaggio. I suoi compagni Patton li
scelse ascoltando il cuore, piú che il cervello. Son House era un debuttante
assoluto, anche se di enorme talento. Willie Brown aveva esperienza, ma
chissà se avrebbe retto la tensione; Louise era stata, e forse lo era ancora,
una sua fidanzata, suonava il pianoforte e cantava con grinta. Sí, poteva
funzionare.
Durante il viaggio verso Grafton, tra il divertimento e gli schiamazzi
alcolici, su quell’automobile sgangherata accadde di tutto. Louise e Charley
battibeccarono a lungo, tanto che la sera, arrivati a destinazione, la pianista
si infilò nella stanza di Son House. L’alcol, probabilmente, non vide mai
Grafton. Eppure, il giorno dopo erano tutti in studio: ognuno suonò per
conto proprio (tranne Patton, che si fece accompagnare dall’eccellente
Brown), ma ciascuno ascoltò gli altri e quando serviva fece sentire il
proprio supporto. Alla fine, come ricordò piú volte Son House, si
divertirono un mondo.
Secondo alcuni studiosi, quella gita a Grafton si trasformò in una pietra
miliare. Bernard Klatzko, addirittura, scrisse: «Fu quella la piú importante
seduta di registrazione della storia? La mia risposta è un enfatico sí!»
Ecco cosa accadde, allora, e chi ne furono i protagonisti.

1. Willie Brown e Louise Johnson.


In Crossroad Blues, il blues del crocicchio di Robert Johnson, c’è un
verso in cui il musicista nomina Willie Brown, consegnandolo
immediatamente ai fasti del mito:

You can run, you can run tell my friend Willie Brown
You can run, you can run tell my friend Willie Brown
’at I got the crossroad blues this mornin’, Lord, babe, I’m sinkin’ down 28.

Si è molto discusso se si trattasse del Willie Brown che Johnson conobbe


e col quale imparò a suonare, o di un altro Willie Brown, la cui figura
circolava negli stessi tempi e negli stessi luoghi confondendo storici e
studiosi. Di fatto, neanche del Willie Brown amico di Patton e maestro di
Johnson si sa molto. Di Louise Johnson (nessuna parentela con Robert),
addirittura nulla: né dove nacque, né dove morí. Il Delta arretrato delle
piantagioni, dei microcosmi autosufficienti, del razzismo estremo traeva
poco vantaggio dalla precisa registrazione di fatti, eventi, nascite e decessi.
Brown, però, ebbe la caratura per opporsi all’oblio. La sua presenza, il
suo essere una figura essenziale nello sviluppo di un linguaggio bluesistico,
le tecniche che contribuí a diffondere tra i musicisti della sua area fanno di
lui un nodo centrale nella rete di scambi e comuni elaborazioni stilistiche da
alcuni definita col nome di scuola. Se parlare di scuole nel Delta è forse
impreciso, è però importante riconoscere la disponibilità dei musicisti al
mettere in circolo conoscenze e acquisizioni, tanto che un musicista come
Brown, la cui discografia è eufemistico definire esigua, poté essere
influente e riconosciuto come fonte di ispirazione. Peraltro Brown era non
un frontman quanto un eccellente accompagnatore, talmente eccellente da
aver speso tutta la sua vita artistica in questo ruolo, spesso decisivo.
Di lui restano ancor meno tracce sonore. Quattro ne incise a Grafton, a
suo nome, ma ne vennero pubblicate solo due. Dieci anni dopo Lomax lo
registrò assieme a Son House, ma erano brani con funzione documentaria, e
non commerciale. In quei due giorni a Grafton diede fondo alla sua
peculiare tecnica sui bassi: quasi anticipando l’idea dello slap applicato al
basso elettrico, Brown sottoponeva l’ultima corda a strappi poderosi,
ottenendo un suono molto simile a un colpo di frusta (soprattutto in Future
Blues). Difficile capire se fosse una sua invenzione o l’avesse presa in
prestito da Patton: nelle sue mani assume un fascino sonico al quale è
impossibile sottrarsi. Come Patton, Brown cantava spingendo l’emissione
vocale al limite delle possibilità, sfiorando un timbro rauco molto, molto
moderno.
Louise Johnson non ebbe invece nessuna seconda opportunità. Le
registrazioni di Grafton sono tutto quel che resta di questa fantasmatica
figura di pianista e cantante di blues. Di lei si diceva fosse una donna
piccola ma assai graziosa, e le attenzioni dei musicisti sembrerebbero
confermarlo. Artisticamente, quel poco che resta è di livello eccellente.
Louise era pianista solidissima, con un senso ritmico assai elegante e
serrato, e un’idea di boogie che molto doveva a Cow Cow Davenport,
trattata però con grande personalità e precisione. Fu proprio Louise a
iniziare la serie delle registrazioni. Forse per l’emozione, forse perché era
nel loro modo di sentirsi parte di una piccola comunità, durante le
esecuzioni della pianista in studio rimasero anche gli altri compagni di gita,
e se si fa attenzione li si sente, tra fruscii graffi e altri rumori, incitare
l’amica.

2. Eddie “Son” House.


È impossibile calcolare, oggi, l’effetto che ebbe sul pubblico americano
la (ri)apparizione di Eddie Son House. Quando, nei primi anni Sessanta, le
telecamere di uno special televisivo mandarono in onda le immagini di
questo bel signore, a suo modo elegante, addirittura raffinato, il tempo
sembrò essersi fermato, o il musicista provenire da un tempo lontano, o da
un pianeta sconosciuto. Il suo modo di suonare la chitarra – completamente
staccato da ogni prassi strumentale conosciuta –, il canto misterioso e
seducente, i testi attraversati da immagini febbrili: tutto sembrava essere
riapparso da un luogo inaccessibile. A distanza di appena trent’anni il blues
del Delta e i suoi eroi erano stati semplicemente dimenticati, quando non
rimossi.
Dimenticato, come Eddie Son House. Di lui, come abbiamo visto, non si
sapeva nulla, neanche se fosse ancora vivo. E il suo ritrovamento, da parte
di Perls, Waterman e Spiro, fece notizia proprio per il suo carattere
addirittura bizzarro, esoterico. Anche la musica di House sembrò esoterica e
misteriosa. Eppure in quell’uomo mite e dolcissimo di esoterico non c’era
poi molto.
Eddie Son House nacque nel minuscolo villaggio di Riverton,
Mississippi, appena fuori Clarksdale, nel 1902. In casa si faceva musica,
grazie al padre musicista dilettante: con i fratelli aveva una band e si esibiva
nei balli del sabato sera, ma Son non era affatto interessato ai suoni lascivi e
ineleganti del blues. Voleva diventare un uomo di chiesa, e si impegnò per
raggiungere l’obiettivo:

All’epoca non suonavo la chitarra. Ero un uomo di chiesa. Ero cresciuto in chiesa e
non credevo in null’altro, e vedere un uomo suonare una chitarra e cantare il blues e
roba del genere mi faceva andar di matto. Non ero cresciuto con quella roba, ma in
chiesa, e per cantare nel coro. In quello credevo, a quel tempo.

Gli anni della post-adolescenza furono critici. Son House voleva girare,
vedere altri posti, diventare uomo lontano dalla famiglia. Per questo iniziò a
vagabondare, lavorando nei campi e ovunque capitasse. Fino all’incontro,
fatale, con la musica del diavolo. Un giorno, vicino a Clarksdale, vide due
chitarristi esibirsi per un pubblico numeroso. Uno dei due aveva una specie
di bottiglina infilata al mignolo sinistro e sfregandola sulle corde otteneva
un suono meraviglioso. Alla fine dell’esibizione House si avvicinò e chiese
al suonatore di slide se avesse voglia di impartirgli qualche lezione. Willie
Wilson accettò. Era il 1927, piú o meno. House apprese velocemente e,
com’è prevedibile, introiettò nel suo stile nascente le influenze di Williams
e dell’altro musicista, Rube (o Reuben) Lacy. Se del primo non è conosciuta
alcuna registrazione, di Lacy abbiamo un paio di tracce, che mettono in luce
un chitarrista potente, aggressivo, sostenuto dal feroce battere del piede per
segnare il tempo. Diviso tra il coro in chiesa e i miasmi del blues, Eddie
iniziò a comporre i suoi primi versi, a cercare le rime piú adatte e brillanti.
E sentí crescere il disagio di una vita divisa a metà tra la spinta religiosa e
una musica proibita.
Poco piú tardi – ormai bluesman a tempo pieno e dedito ai piaceri della
carne – Son House si ritrovò coinvolto in una rissa, a Lyon. Non si seppe
mai con esattezza cosa successe e perché un uomo si ritrovò al suolo,
cadavere, mentre la rivoltella tra le mani di House ancora fumava. Il
musicista, che dichiarò di aver agito per legittima difesa, fu accusato di
omicidio e rinchiuso nella terrificante Parchman Farm, una delle istituzioni
carcerarie piú dure e disumane della nazione. Dopo una breve detenzione, il
caso fu riesaminato e fu riconosciuta l’innocenza dell’accusato: liberato, gli
fu consigliato di non farsi piú vedere a Clarksdale.
Non si allontanò molto, in effetti, perché il primo treno che prese fu
quello per Lula, a una trentina di kilometri, per visitare una zia. E qui
avvenne l’incontrò che gli cambiò la vita, quello con Charley Patton e
Willie Brown. Con i due musicisti si instaurò presto una solida amicizia;
suonarono insieme, si scambiarono informazioni e consigli, girarono in
cerca di lavoro nella zona.
Quando Son House monta in macchina per il viaggio a Grafton, quindi, è
piú o meno un novellino, ma ha un talento purissimo, una visione peculiare
del blues, e una vena poetica ancora freschissima, non indurita. In quattro
canzoni (tre di queste occupano le due facce del 78 giri), Son House
esprime un universo formidabile, acceso da una forza interpretativa a tratti
parossistica, da un accompagnamento strumentale intricato e singolare, e da
una capacità forse ineguagliata di evocare immagini.
Preaching the Blues esprime con una precisione addirittura dolorosa il
suo stato d’animo: la lacerazione di chi si sente a metà del guado:

Oh, I’d-a had religion, Lord, this every day


Oh, I’d-a had religion, Lord, this every day
But the womens and whiskey, well, they would not set me free
Oh, I wish I had me a heaven of my own
[spoken: Great God almighty!]
Hey, a heaven of my own
Till I’d give all my women a long, long, happy home
Hey, I love my baby, just like I love myself
Oh, just like I love myself
Well, if she don’t have me, she won’t have nobody else 29.

In Dry Spell Blues, invece, affronta un problema di attualità, un fatto di


cronaca: la tremenda siccità che colpí il Delta, mettendo a rischio
l’economia locale e la vita di migliaia di persone:

Well, I stood in my backyard, wrung my hands and screamed


Well, I stood in my backyard, wrung my hands and screamed
Well, I couldn’t see nothing, couldn’t see nothing green
Oh, Lord, have mercy if you please
Oh, Lord, have mercy if you please
Let your rain come down and give our poor hearts ease
These blues, these blues is worthwhile to be heard
Oh, these blues, worthwhile to be heard
Lord, t’ain’t even likely that there ain’t no God 30

I dischi di Son House vendettero quasi nulla, ma per lui fu un’esperienza


fondamentale, anche perché ricevette quaranta dollari come compenso, una
cifra esorbitante. Al ritorno a casa si fermò a Lula per un paio di settimane,
poi andò a Robinsonville, per continuare a suonare con Willie Brown. La
routine era la solita: i balli del sabato sera, i picnic, le serate danzanti
all’aperto. Nulla sembrava increspare la normalità, fin quando un ragazzino
iniziò a farsi vedere spesso tra il pubblico. Voleva imparare il loro stile,
imitare il modo in cui suonavano e cantavano. Si chiamava Robert Johnson.
E il resto è leggenda.

3. Charley Patton.
Nonostante la statura – era alto appena un metro e sessanta – e la
corporatura esile, Charley Patton è una figura gigantesca, immensa. In molti
l’hanno definito il «re del Delta blues»; come tutte le definizioni, è
abbastanza approssimativa e complessivamente inutile, ma mette in risalto
perfettamente il ruolo centrale e insostituibile che Patton ebbe nella nascita,
nello sviluppo e nell’evoluzione del blues rurale. E non si fa fatica a
sottoscrivere le parole di Richard Spottswood:

La sua musica ha rappresentato l’esperienza degli afroamericani durante il periodo


Jim Crow in uno dei luoghi piú segregati della nazione. La sua è una voce proveniente
da un sottoproletariato che combatteva per sopravvivere allo sfruttamento sistematico,
alle siccità, alle inondazioni, alla discriminazione e alla depressione economica. A un
livello personale, è la voce di un uomo che traduce in canzoni l’esperienza, rendendola
comprensibile a chi gli vive accanto.

Patton nacque quasi certamente nel 1891, a Edwards, Mississippi. La sua


carnagione chiara, e i lineamenti curiosamente mescolati (ha tratti
messicani, altri ne vedono di indiani) per molto tempo nutrirono il sospetto
che il vero padre non fosse Bill Patton, quanto Henderson Chatmon,
patriarca di una famiglia numerosissima di musicisti, con i quali Charley
trascorreva la maggior parte del suo tempo. Poco piú di un sospetto,
comunque. I Patton e i Chatmon vivevano nella fattoria di Will Dockery, un
rarissimo caso di latifondista illuminato, il quale assicurò ai mezzadri
afroamericani condizioni di vita perlomeno umane, garantendo loro
assistenza e correttezza nel rapporto di lavoro. Il vero maestro per Charley,
però, non fu Chatmon, ma Henry Sloan, personaggio leggendario del blues
arcaico. Di lui non si sa nulla, se non che fu attivo nella zona di Drew e
Clarksdale attorno ai primi anni del Novecento, tanto che alcuni sostengono
fosse lui il musicista incontrato da W. C. Handy nella stazioncina di
Tutwiler.
La vita di Patton, dall’adolescenza in poi, fu la vita del musicista
professionista, in grado di suonare un repertorio vastissimo, adatto a ogni
circostanza e a ogni pubblico. Già a metà degli anni Dieci era una vera star
nei dintorni e la sua presenza era capace di richiamare un pubblico
foltissimo. Il suo stile era diverso da quello di qualsiasi altro. Cantante
aggressivo e ringhioso, dall’espressività ruvida, sul palco dava il meglio di
sé nelle elaborate e acrobatiche manovre cui sottoponeva la chitarra. Ben
prima di Jimi Hendrix, Patton suonava con lo strumento dietro la testa, tra
le gambe, a occhi chiusi, steso a terra, cavalcandola come fosse un pony e
in qualsiasi altra guisa immaginabile. Simili prodezze infiammavano la
fantasia di uomini e donne, e queste ultime spesso non restavano
indifferenti al fascino del piccolo grande uomo, la cui fama di
sciupafemmine è pari solo a quella di uomo violento, manesco, litigioso,
scorbutico, umorale, avaro e dalla limitata visione del mondo.
Se la figura dell’uomo Patton, attraverso il progressivo svelamento di
notizie e il ritrovamento di testimoni o persone ben informate, è stata
progressivamente depurata degli aspetti piú triviali e umanamente
discutibili, quella del bluesman acquisisce maggiore profondità e guadagna
sfumature di senso a ogni nuovo ascolto. Il lascito discografico non fu
esteso: sessantasei tracce sopravvissute (incise di piú, Patton, ma molte
matrici non sono mai state trovate), registrate in quattro sessioni tra il 1929
e il 1934; esse, però, continuano a trasmettere segnali vitali, degni di una
musica per molti versi immortale.
Patton fu un bluesman unico e ferocemente personale. Da qualunque
punto di vista si analizzino le sue performance, esse rivelano meccanismi,
dispositivi, idiosincrasie, gesti espressivi eccezionalmente complessi e
stimolanti, tanto da rendere difficile sezionarne l’opera, o dividere l’aspetto
del testo da quello esecutivo o strumentale. Patton costruí un linguaggio
poderoso e compatto, in cui ogni elemento contribuisce alla costruzione di
un tutto inscalfibile.
Dal punto di vista formale la libertà che il bluesman si concesse è
enorme. Sebbene i suoi blues osservino l’abituale struttura che conosciamo,
Patton variava di verso in verso la lunghezza delle sillabe, alterando di
conseguenza la lunghezza di ciascuna linea. Il fatto che questa fosse – come
abbiamo piú volte analizzato – una caratteristica comune a molti bluesmen
porta a pensare che la quadratura della forma non fosse avvertita come
obbligatoria dai musicisti; e né dagli ascoltatori, i quali evidentemente
riuscivano a danzare anche su frasi irregolari. Doveva esserci una costanza,
una regolarità: essa però non interessava il metro – ovvero la quadratura,
l’organizzazione – quanto il ritmo. Era una solida scansione, assicurata
dalle figurazioni chitarristiche a garantire la partecipazione fisica
dell’ascoltatore, ad attivarne la possibilità di interfacciamento con la
musica. A quest’aspetto Patton era molto sensibile; lo si evince, come ha
scritto con precisione Palmer, dallo stratificarsi di ritmi nel suo stile
esecutivo: la struttura metrica del verso confliggeva con i ritmi che il
musicista costruiva non solo con il plettro, ma anche strappando la corda
piú bassa, o addirittura percuotendo la cassa della chitarra, e battendo i
piedi sulle assi di legno, ottenendo cosí una sovrapposizione verticale di
(poli)ritmi di chiara provenienza africana.
Il blues, secondo Patton, serviva alla comunità, e a essa era rivolto. I suoi
testi parlano spesso di avvenimenti, persone e circostanze note soltanto a
chi viveva nella medesima zona, e totalmente inintelligibili da chi abitasse
anche solo a cento miglia piú in là. Una simile regionalizzazione, unita a
una pronuncia talvolta dialettale, spesso smozzicata per tagliare le parole e
renderle adatte alla lunghezza delle note, sovente impastata da qualche
bicchiere di troppo hanno fatto sí che ancora non si riesca a trascrivere
esattamente alcuni dei blues di Patton, il cui ascolto è reso problematico
dalla bassissima fedeltà dei pochissimi dischi originali ancora esistenti.
Ciononostante, Patton emerge anche come poeta e attento osservatore della
realtà: i salti logici che a volte si incontrano nelle sue strofe, poi,
rispondono all’esigenza creativa estemporanea, all’urgenza creativa febbrile
che caratterizzò sempre questo fenomenale musicista.
A Grafton, Patton incise poco, e non le sue cose migliori. Quelle le
aveva già messe su disco l’anno prima (Pony Blues, High Water
Everywhere), assieme a una manciata di brani religiosi incisi con gli
pseudonimi Elder J. J. Hadley e The Masked Marvel. La meraviglia
mascherata nel ’34 registrò ancora brani religiosi con la moglie, Bertha Lee,
sposata un paio d’anni prima. Per la vita che aveva condotto, a quarantatre
anni Patton si sentiva stanco e malato. Soffriva da tempo di una
malformazione cardiaca congenita e un infarto lo uccise nel 1934.
La sua musica resta tra le espressioni piú importanti e imitate del XX
secolo. Tracce si rinvengono in tutto il blues del Delta, e anche nello stile di
musicisti che esploderanno negli anni successivi a Chicago, come Howlin’
Wolf. Nonostante tutto, il piccolo grande Charley fu un maestro.

28
«Puoi correre, puoi correre e dire al mio amico Willie Brown | Puoi correre, puoi correre e dire
al mio amico Willie Brown | Che ho il blues del crocicchio, stamattina, Signore, bimba mia, e sto
affondando».
29
«Oh, avevo la religione, Signore, ogni giorno | Oh, avevo la religione, Signore, ogni giorno |
Ma le donne e il whiskey, beh, non mi lasciano libero. || Oh, avrei voluto avere un paradiso tutto mio |
[parlato: Gran Dio Onnipotente!] | Già, un paradiso tutto mio | Per dare a tutte le mie donne una casa
tanto tanto felice. || Hey, amo la mia ragazza come amo me stesso | Oh, proprio come amo me stesso |
Beh, se lei non ha me non avrà nessun altro».
30
«Beh, stavo dietro in giardino, ho incrociato le braccia e ho gridato | Beh, stavo dietro in
giardino, ho incrociato le braccia e ho gridato | Non vedevo nulla, nulla che fosse verde. || Oh,
Signore, abbi misericordia se puoi | Oh, Signore, abbi misericordia se puoi | Lascia che la tua pioggia
cada e dia sollievo ai nostri poveri cuori. || Questo blues, questo blues va ascoltato | Oh, questo blues
va ascoltato | Signore, è come se non ci fosse nessun Dio».
Capitolo sedicesimo
Tommy Johnson. Il diavolo e l’acquavite

Nel film O Brother, Where Art Thou, dei fratelli Coen (in italiano,
Fratello dove sei?, 2000), si racconta – in chiave omerica – la fuga di tre
galeotti attraverso il Mississippi del 1937. Nel loro peregrinare, alla ricerca
di un’inesistente refurtiva, incontrano personaggi bizzarri e improbabili,
fatti di leggenda oppure offuscati dalle nebbie del mito. Tra questi, un
elegante uomo di colore: è un bluesman, e mentre canta per loro Hard Time
Killing Floor Blues, racconta di essersi venduto l’anima al diavolo, una
notte, in cambio di una abilità sovrumana nel suonare la chitarra. Il suo
nome è Tommy Johnson.
Per disegnare gli elementi basilari del personaggio Ethan e Joel Coen
hanno dichiarato di essersi ispirati al vero Tommy Johnson. Eppure, ancora
oggi è facile imbattersi in siti internet in cui la figura di Tommy viene
assimilata a quella del piú famoso Robert Johnson (nessuna parentela tra i
due), come se spettasse a quest’ultimo il copyright del patto faustiano col
demonio in cambio dell’immortalità musicale.
Tommy Johnson fu un musicista sorprendentemente unico e innovativo.
È proprio grazie a personaggi come lui che il blues spesso fa rima con
mistero, e con paradosso: sebbene sia uno dei musicisti la cui esistenza è
stata, con buona approssimazione, ricostruita almeno nello scheletro
generale, la sua musica, la fonte della sua ispirazione, restano
misteriosissime. Tommy Johnson non era un solitario, condivise musica ed
esperienze con molti bluesmen della zona attorno a Drew, nel Delta, che
David Evans ha dimostrato essere stata una sorta di reticolo artistico i cui
principî stilistici erano abbastanza fermi da essere condivisi. Basta, però,
ascoltare Cool Drink of Water Blues, il primo brano registrato da Tommy
Johnson, per essere proiettati in un mondo completamente autonomo, in un
laboratorio espressivo di singolare, e leggermente inquietante, bellezza.
1. Gasoline.
Cool Drink of Water Blues, con cui Johnson decise di inaugurare la sua
carriera discografica, ha la forza di un capolavoro incompiuto e la
minacciosità di una bomba inesplosa. La Victor decise di registrarlo dopo
che H. C. Speir aveva realizzato un provino dal risultato convincente.
Chitarrista per molti versi limitato, Johnson si era fatto accompagnare da
Charlie McCoy, appena diciannovenne ma già affermato come sideman, per
avere supporto armonico e tessiture compatte.
Il 3 febbraio, a Memphis, dunque, Johnson iniziò a costruire il suo
personalissimo universo artistico fingendo di raccontare una vicenda
realmente accadutagli, di fatto confessando, in un doloroso outing, la sua
dipendenza dall’alcol:

I asked for water, and she gave me gasoline


I asked for water, gave me gasoline
I asked for water and she gave me gasoline.
Lord, Lordy, Lord
Crying, Lord, I wonder will I ever get back home
Crying, Lord, I wonder will I ever get back home
Lord, Lordy, Lord
I went to the depot, looked up on the board
I looked all over, «How long has this east-bound train
been gone?»
«It’s done taken your fairo, blowed its smoke on you»
«It’s done taken your fairo, blowed its smoke on you»
Lord, Lordy, Lord
Lord, I asked the conductor, «Could I ride these blinds?»
(Want to know, can a broke man ride the blinds)
«Son, buy your ticket, buy your ticket, ’cause this train ain’t
none of mine»
«Son, buy your ticket, train ain’t none of mine»
«Son, buy your ticket, ’cause this train ain’t none of mine»
Lord, Lordy, Lord
«Train ain’t none of mine» 31.
Basta osservare la trascrizione del testo, suddivisa in stanze, per capire
che ci si trova in presenza di un blues quanto meno anomalo. In nessuna
strofa, cioè, è presente la tripartizione abituale, con i due versi uguali e il
terzo in rima. Sembra quasi che il musicista abbia attinto a una serie di
forme strofiche pre-blues, e le abbia conformate alla sua urgenza espressiva.
La prima stanza, riferendoci al verso, e non alla rima, ha struttura AAA; la
seconda AA; la terza AB; la quarta AA; la quinta AB (il secondo verso è
parlato); la sesta AA (dove il verso è il B della stanza precedente). Il blues
si chiude con l’ennesima ripetizione della seconda metà dell’ultimo verso,
quasi a perdersi nel silenzio del vinile. Una condotta cosí sbilenca nella
gestione del testo si riverbera – e non potrebbe essere altrimenti – nella
progressione armonica: tranne che nella prima stanza, in cui il passaggio al
V non è chiarissimo ma quanto meno intuibile, nel resto del brano Johnson
e McCoy passano dal I al IV in maniera spesso casuale: evidentemente il
giovane accompagnatore non è in grado di seguire l’improvvisazione
strutturale del geniale compagno, e prova, presumibilmente, a leggere gli
accordi dalle mani dell’altro. Questi, perso nel suo lucido delirio, lascia che
la musica scorra, e non dà segno di preoccuparsi: il senso di imprevedibilità
si trasmette anche alla durata delle misure, spesso di 6/4 nella misura di fine
frase.
In questo galleggiamento problematico, Johnson canta esibendo un
falsetto sovrumano: tutte le invocazioni al Signore, e ciascun passaggio
sensibile del testo vengono sottolineate con questo cambio di registro,
modernissimo e atavico nel medesimo tempo, con un effetto di raggelante e
sinistra stranezza.
Il gasoline cui si fa riferimento nel testo è uno dei tanti surrogati del
whiskey ai quali, nel corso dei lunghi anni del Proibizionismo, si fece
ricorso per soddisfare il desiderio alcolico. Johnson divenne un forte
bevitore da giovane. Come confesserà, in maniera ancora piú brutale e
drammatica in Canned Heat:

Crying, mama, mama, you know, canned heat killing me


Crying, mama, mama, crying, canned heat is killing me
Canned heat don’t kill me, crying, babe, I’ll never die
I woked up, up this morning, with canned heat on my mind
Woked up this morning, canned heat was on my mind
Woke up this morning, with canned heat, Lord, on my mind 32.

Il titolo del brano fa riferimento alla pratica di estrarre alcol da un


liquido infiammabile per il barbecue, lo Sterno Canned Heat, ancora
regolarmente venduto negli Usa. Nel corso del brano, Johnson allude anche
all’alcorub, alcol denaturato da annusare, e al jake, un medicinale. Di questi
devastanti ritrovati il bluesman faceva uso pesante e continuato, che ne
minò ben presto la salute.
Eppure Johnson, nonostante gli abusi alcolici, riuscí a campare fino a
sessant’anni. Forse fece davvero un patto col diavolo.

2. Crossroads.
Molto prima del suo piú famoso omologo, o di Peetie Wheatstraw,
Tommy Johnson confessò di aver stipulato un patto col demonio a suo
fratello LeDell, predicatore. Questo fu il suo racconto:

If you want to learn how to make songs yourself, you take your guitar and you go to
where the road crosses that way, where a crossroads is. Get there, be sure to get there
just a little ’fore 12 that night so you know you’ll be there. You have your guitar and be
playing a piece there by yourself… A big black man will walk up there and take your
guitar and he’ll tune it. And then he’ll play a piece and hand it back to you. That’s the
way I learned to play anything I want… 33.

Dopo quest’incontro, Tommy non si separò mai da un ciondolo con un


piede di coniglio e, a quanto dicono i testimoni, la sua abilità chitarristica a
un certo punto migliorò drasticamente. Come Charley Patton, col quale
collaborò, era capace di suonare in ogni posizione: con la chitarra dietro la
schiena, tra le gambe, sdraiato sul pavimento. E, naturalmente, è assai
probabile che imparò dal piú anziano collega trucchi e segreti del mestiere.
La questione del crocicchio e del patto col diavolo, però, merita una veloce
riflessione, poiché mette in campo un altro fondamentale giacimento di usi,
superstizioni e riti magici afroamericani che è il vodu, una delle piú
importanti e potenti religioni dell’Africa Occidentale sbarcata nei Caraibi
nel XVIII secolo, e da lí penetrato in Louisiana nei primi anni del XIX . Il
grande uomo nero al quale Johnson non vende l’anima (non lo dice affatto)
ma suona un blues è una divinità africana chiamata Èsú dagli Yoruba e
Lègba dalle etnie del Dahomey: un semidio dispettoso e imbroglione,
guardiano degli incroci, ovvero delle barriere mistiche, come ha chiarito
Henry Louis Gates. Èsú è stato assimilato, sincretisticamente, a Satana
durante la schiavitú, provocando un equivoco ancora ben radicato nella
cultura afroamericana. Piú che momenti di invocazione satanica, gli incontri
ai crocicchi, come dimostra il piede di coniglio indossato da Johnson,
alludono all’hoodoo, la cui ombra – basti pensare al mojo, ovvero una
borsetta contenente gli amuleti adatti a un particolare sortilegio – è ben
presente nella cultura del blues molto di piú di quanto si possa immaginare.
Aveva davvero bisogno di migliorare la sua abilità chitarristica,
Johnson? A giudicare dalle registrazioni, probabilmente sí. Di certo non gli
mancava una fertilissima immaginazione e la capacità, davvero diabolica, di
alterare forme e strutture in giochi caleidoscopici. Lonesome Blues è un
esempio prodigioso di questa sapienza combinatoria:

Won’t you iron my jumper starch my overalls


I’m gon’ find my woman said she’s in this world somewhere
Well it’s good to you mama sure Lord killin’ me
Well it’s good to you mama sure Lord killin’ poor me
Well it’s good to you mama says it’s sure Lord killing me
I wonder do my rider think of me
I wonder do my rider think of poor me
cryin’ if she did she would sure Lord feel my care
I woke this mornin’ said my mornin’ prayer
I woke up this mornin’ said my mornin’ prayer
I woke this mornin’ babe I said my mornin’ prayer
I ain’t no woman speak in my behalf
I ain’t no woman now speak in my behalf
I ain’t no woman to speak in my behalf
Won’t you iron my jumper starch my overalls
Won’t you iron my jumper starch my overalls
I’m gon’ find my woman said she’s in this world somewhere
She don’t like me to holler tried to murmur low 34.

Anche in questo caso le stanze hanno diversa natura. La prima è identica


alla sesta, senza il primo verso, e sono due stanze regolari; Johnson
abitualmente inizia con una strofa strumentale, ma poiché entra al secondo
verso anche nell’altra take è proprio quel tipo di effetto che cerca. La
seconda ha la forma pre-blues AAA, la successiva ancora regolare (AAB),
le due successive ancora AAA e l’ultima è un altro piccolo gioiello
estemporaneo di Johnson: inizia a cantare il primo verso, poi per qualche
ragione si ferma e prosegue solo con la chitarra, chiudendo in un sussurro,
come dice il testo, l’esecuzione. Dal punto di vista strofico il blues ha
tredici battute (si allunga di una in corrispondenza del primo verso: I – IV –
I – I – I) tranne che nella quinta stanza, in cui probabilmente Johnson si
confonde e ne suona quattro. Quella per le lunghezze irregolari era una sua
fissazione. Bye Bye Blues è costruita su un ciclo di undici battute, ottenuto
sottraendo una battuta al primo verso. L’idea non è casuale: anzi,
dev’essergli piaciuta molto, o la sentiva congeniale, tanto da riutilizzarla in
Lonesome Home Blues, inciso per la Paramount nel dicembre 1929.
Anche nei blues piú autobiografici, Johnson utilizzava materiale già noto
e usato da altri bluesmen, rimettendo in circolo versi e stanze composte da
altri. Era prassi consolidata, e Tommy sfruttava la sua fenomenale capacità
combinatoria per ottenere sempre nuove prospettive. Certo, la sua vita, oltre
all’alcol, offrí spunti interessanti; donnaiolo impenitente (LeDell dichiarò di
aver perso il conto delle mogli collezionate dal fratello: a una di queste,
però, dedicò la celeberrima Maggie Campbell Blues), inaffidabile e
fortemente balbuziente (come, in futuro, B. B. King e John Lee Hooker)
incarnò la figura del musicista dissoluto, disperato e insoddisfatto. Ancor
piú insoddisfatto lo diventò quando né la Victor né la Paramount lo
chiamarono di nuovo a registrare. I suoi dischi avevano avuto un qualche
ritorno commerciale, ma fu probabilmente l’inaffidabilità legata ai problemi
con l’alcol a fare di lui un indesiderato: nell’ultima seduta di incisione era
talmente ubriaco che la chitarra dovette suonarla Ishmon Bracey.
Proprio con Bracey trascorse gli anni successivi, suonando in giro per il
Delta, fin quando l’alcol ebbe la meglio. Morí di infarto, dopo aver suonato
in casa di LeDell.
Di lui ci resta una sola immagine. D’altronde, il diavolo fa le pentole,
non le fotografie.

31
«Ho chiesto dell’acqua e lei mi ha dato benzina (× 3) | Signore, oh Signore || Piangendo,
Signore, mi chiedo se tornerò mai a casa (× 2) | Signore, oh Signore || Sono andato al deposito, ho
guardato l’orario | Ho guardato tutt’intorno, “Da quanto tempo è partito il treno verso est?” || “È
andato, con su la tua ragazza, soffiandoti il fumo in faccia” (× 2) | Signore, oh Signore || Signore, ho
chiesto al macchinista “Posso salire su questo treno senza pagare?” | (Vorrei sapere se un uomo
distrutto può viaggiare senza pagare) | “Figliolo, compra il biglietto, perché questo treno non è mio” |
Signore, oh Signore || “Figliolo, compra il biglietto, perché questo treno non è mio” | “Figliolo,
compra il biglietto, perché questo treno non è mio” | Signore, oh Signore || “Il treno non è mio”».
32
«Grido, ragazza, ragazza, ragazza, lo sai, il canned heat mi sta uccidendo (× 2) | Se il canned
heat non mi uccide, grido, bimba, non morirò mai || Mi son svegliato stamattina pensando al canned
heat (× 3)» (trad. A. Roffeni).
33
«Se vuoi imparare a comporre canzoni per conto tuo, prendi la chitarra e vattene dove una
strada ne incrocia un’altra, dove c’è un crocicchio. Arriva lí giusto un po’ prima di mezzanotte.
Prendi la chitarra, siediti e suona un pezzo… Devi andarci da solo, sederti e suonare. Un enorme
uomo nero arriverà lí e prenderà la chitarra, e l’accorderà. Suonerà un pezzo e ti renderà la chitarra.
Questo è il modo in cui ho imparato a suonare tutto quello che voglio…» (trad. F. Venturini).
34
«Stira la mia maglia, inamida la tuta | Andrò a cercare la mia donna, dicono che è da qualche
parte nel mondo || Buon per te, ragazza, il Signore mi ucciderà (× 3) || Chissà se la mia ragazza pensa
a me (× 2) | Se l’ha fatto avrà sentito, Signore, la mia protezione || Mi son svegliato stamattina e ho
detto le mie preghiere del mattino (× 3) || Non ho una donna che parli per me (× 3) || Stira la mia
maglia, inamida la tuta (× 2) | Andrò a cercare la mia donna, dicono che è da qualche parte nel
mondo || A lei non piace quando urlo, ho provato a mormorare piano».
Capitolo diciassettesimo
Skip James, l’uomo migliore che abbiate mai incontrato

Il brano Hard Time Killing Floor Blues, che il Tommy Johnson di O


Brother, Where Art Thou? canta ai galeotti in fuga davanti a un focolare, in
realtà, non apparteneva al repertorio di Johnson, ma a quello di Skip James,
uno dei bluesman piú enigmatici, elusivi, geniali e visionari della storia. Al
contrario di Tommy Johnson, morto troppo presto per goderne i vantaggi,
James fu rintracciato dai bluesbuster, come abbiamo visto in precedenza, ed
ebbe la possibilità di un secondo atto durante il blues revival; concerti,
nuove registrazioni, una vita diversa da quella che aveva condotto nei
trent’anni che separarono la sua prima e unica seduta di registrazione nel
febbraio del 1931 dalla riscoperta nel 1964, durante i quali abbandonò la
musica, fece lavori umili e per un certo periodo divenne predicatore. Non
durò a lungo: appena cinque primavere, alla fine delle quali James perse
definitivamente la sua lunga battaglia contro il cancro, ma sufficienti per
fare (un po’ di) luce su uno degli artisti piú singolari del XX secolo. Uno
che, quando era in vena di modestie, diceva di se stesso: sono uno degli
uomini migliori che abbiate mai conosciuto.

1. Grafton, Wisconsin.
Nehemiah “Skip” James nacque nei pressi di Bentonia, Mississippi, nella
piantagione Woodbine, il 9 giugno del 1902. Il padre, musicista, distillava e
vendeva whisky di contrabbando; per questo salutò moglie e figlio quando
si accorse di avere le forze dell’ordine alle calcagna, e sparí nel nulla (ma
non per sempre). Il piccolo Skip visse con la madre, prese lezioni di chitarra
e studiò il pianoforte a scuola, sviluppando nel giro di pochi anni stili
esecutivi completamente diversi sui due strumenti. Da adolescente si mise
in viaggio: si allontanò da Bentonia per fare mestieri diversi tra il
Mississippi e l’Arkansas. Dopo qualche anno fece ritorno a casa, rilevando
l’attività del padre; mentre produceva alcol di contrabbando giocava
d’azzardo e governava un piccolo gruppo di prostitute. Suonava, anche, ma
quella era una passione sotterranea, laterale. Sarebbe esplosa nel 1931,
quando finalmente si trovò a incidere i primi – e ultimi – brani della sua
precedente vita artistica.
Quando si presentò negli studi di Grafton, nel Wisconsin, James aveva
già un matrimonio alle spalle, e un fardello di dolore assai pesante. La sua
fresca moglie, Oscella Robinson, figlia di un pastore locale, con la quale si
era trasferito a Dallas, l’aveva piantato per il suo migliore amico. Deluso,
Skip tornò di nuovo a casa, e iniziò a frequentare Jackson, scambiando idee
e invenzioni con i musicisti del luogo. L’esatta percezione della sua distanza
dai modelli correnti, la convinzione di essere non migliore ma diverso dagli
altri musicisti, la consapevolezza di avere una propria modalità espressiva e
un proprio stile rinforzarono la sua vocazione musicale. Era talmente
diverso dagli altri, Skip, che una volta, mentre suonava per strada, gli
diedero dei soldi perché smettesse: la sua musica era, a volte,
insostenibilmente minacciosa, piuttosto che divertire provocava un
opprimente senso d’angoscia.
Gli studi di registrazione a Grafton raccontano un pezzo fondamentale di
storia della popular music americana. Nacquero dalla conversione di una
modesta fabbrica di mobili, la Wisconsin Chair Company, in un complesso
comprendente studio di registrazione e pressa per la stampa dei dischi, dopo
che la ditta era entrata nel mercato della riproduzione acustica costruendo
per Thomas Edison una serie di mobiletti per i suoi fonografi. Grafton
divenne anche il quartier generale della Paramount, fondata nel 1917 da
Otto E. Moeser, l’etichetta cui era affidato il compito di collocare sul
mercato i dischi registrati e stampati. Nonostante la scadente qualità dei
dischi fosse un problema già all’epoca, negli studi di Grafton passarono
molti tra i musicisti piú importanti degli anni Venti e Trenta, tanto che alla
chiusura dello stabilimento, avvenuta negli anni Quaranta, in molti si
chiesero che fine avessero fatto le preziose matrici in metallo, dissoltesi nel
nulla e mai piú rinvenute. Probabilmente furono vendute come materiale da
riciclare; altri, invece, sostennero che, assieme a molte delle copie di dischi
stipate nel deposito, subirono l’ira degli impiegati i quali, per vendicarsi
della perdita del lavoro, le gettarono nel vicino fiume Milwaukee.
Sembrava cosí verosimile che nel 2006 una puntata della trasmissione
televisiva americana History Detectives, sul canale pubblico PBS , mandò
una squadra di sommozzatori a scandagliare il fondale del fiume alla ricerca
di eventuali dischi e matrici. Nulla venne riportato alla luce, ma lo
spostamento di una diga adiacente allo stabilimento, avvenuta nel 2000,
potrebbe aver modificato il letto del fiume ed eventualmente spazzato via,
definitivamente, tesori sommersi.

2. Il blues secondo Skip James.


Tesori sommersi sono, nell’accezione piú piena, le pochissime copie
esistenti di Devil Got My Woman, il primo brano che Skip James incise in
quel febbraio del 1931. Secondo «78 Quarterly», la bibbia dei collezionisti,
ne esistono solo otto copie (e per i dischi di James è già abbastanza: altri
sono addirittura assai piú rari), alcune delle quali completamente
inutilizzabili. Quella usata per la prima ristampa su LP della Yazoo, e poi –
probabilmente – per tutte le successive in CD apparteneva a Nick Perls. Ma
se il valore economico di una copia è quantificabile (intorno ai 30 000
dollari), quello artistico è inestimabile. Come proiettato in una dimensione
ultraterrena e privatissima, lontano dal pubblico, che forse in fondo
disprezzava, Skip James si trovò nelle migliori condizioni per esprimere la
sua arte profonda e originale, talmente personale ed egocentrica da
costituire un unicum nella storia musicale del secolo appena passato.
Devil Got My Woman non si sottrae al mito, anzi lo rafforza in virtú di
una materia sfuggente, oscura, difficile da afferrare. Almeno, cosí è
sembrato a generazioni di commentatori che ne hanno rilevato la forma
imprevedibile, la struttura impalpabile, e la tensione improvvisativa. In
verità, il brano ha una sua forma assai ben definita e peculiare, e
nell’immaginarla James dà ulteriore prova del suo genio. Originato dal
dolore per la dissoluzione del matrimonio, si inerpica su un’impalcatura
sghemba, ma regolare; dopo un’introduzione di sette misure, nella prima
parte giocata su un movimento cromatico discendente, arriva la prima
stanza, basata su due versi poggiati su un pendolo armonico elementare V -
I; il primo verso occupa tre delle cinque misure (due sul V, le restanti sul I);
il secondo verso, invece, funziona come il primo, ma è lungo sette misure, e
nella sesta e settima James ripete la figura chitarristica usata
nell’introduzione. La seconda stanza procede nello stesso modo, con la
differenza sostanziale che a misura sei e sette del secondo verso il musicista
anticipa il primo verso della stanza successiva. Sarà cosí anche nella terza
stanza, mentre la quarta elimina la codetta interna per restare sui due versi
di cinque misure, cui se ne aggiunge uno che chiude il blues con una breve
sezione strumentale. Volendo raffigurare lo schema:

Una struttura siffatta ci permette di entrare meglio nel laboratorio


creativo di Skip James. Anche perché, confrontando tutti i diciotto brani che
incise in quei due giorni di febbraio 1931, ci si accorge di come la forma
blues canonica fosse per lui null’altro che una possibilità come un’altra, non
certo una regola da osservare o un dogma da seguire. Piú interessato alla
densità emotiva che allo sviluppo lineare, attratto piú dalla profondità che
dalla superficie, l’artista di Bentonia costruí un lessico tutto incentrato sulla
ripetizione e sulla gestione estemporanea dello spazio; sarebbero elementi
comuni nel blues, ma nel suo caso la sfida è tutta nell’alterare in tempo
reale versi, lunghezze e progressioni armoniche per ottenere il suo scopo:
stordire l’ascoltatore, sorprenderlo, rendergli l’ascolto non una formalità
passiva quanto una partecipazione quasi coatta. Il versante emotivo è quello
sul quale James gioca la scommessa piú violenta. A partire dall’accordatura
della chitarra, in re minore, i suoi blues non hanno quasi mai nulla di
allegro: quando vuole davvero eseguire un pezzo brillante e spensierato sin
dal titolo, I’m so Glad, non usa la forma blues. Di fatto, non la utilizzò
spesso, in quei due giorni a Grafton; preferí lavorare su formule piú piatte:
un solo accordo, spesso, o con quasi impercettibili movimenti armonici,
oppure i suoi blues peculiarissimi, con le prime otto misure solo sul I grado,
e le successive quattro che modulano regolarmente. Spazio e tempo
appiccicati a una progressione armonica semplice gli permettevano il
guizzo, la decisione improvvisa; soprattutto, erano il dispositivo attraverso
il quale egli poteva lavorare sulla dimensione a lui piú congeniale:
l’accumulo emotivo. Sembra che nella sua musica non ci sia scampo, né
redenzione.
Visionario James lo era anche nelle condotte strumentali e vocali. Era
lontano da ogni stile di canto conosciuto per via di una tessitura acuta, quasi
da controtenore: all’apparenza leggera, agiva però in profondità,
attaccandosi all’attenzione dell’ascoltatore; questa grana peculiare gli
consentiva anche poderosi e affascinanti salti d’ottava, emotivamente
potentissimi. Chitarristicamente, come si è già accennato, era in possesso di
una tecnica naturale e originalissima, fatta di note singole, passaggi serrati,
sovrapposizioni ritmiche: il suono, ottenuto pizzicando le corde con le
unghie, era di cristallina efficacia; nella già citata I’m so Glad il virtuosismo
è lampante, e la tecnica impiegata assai personale. Altrettanto lo era al
pianoforte, anzi: probabilmente – senza però scomodare, com’è stato fatto,
Thelonious Monk – James declinò un linguaggio pianistico decisamente
unico: fratto e imploso, non implicava alcuna idea o funzione di
accompagnamento: era, piuttosto, l’esplosione continua di frammenti
motivici e ritmici, in risposta alle frasi del canto, quasi mai
contemporaneamente. James, cioè, aveva bisogno di pensare a cosa
improvvisare sul pianoforte, spesso a una sola mano, e farlo mentre cantava
gli risultava difficile; per questo, o ripeteva una piccola cellula fonetica con
la voce (come l’hey hey hey in Little Cow and Calf Is Gonna Die Blues) o
costruiva l’espressione sull’alternanza serrata delle sue voci. Al piano
preferiva forme blues canoniche, che però stirava e allungava a piacimento,
rendendole di fatto rassicuranti dal punto di vista armonico, quanto
inquietanti da quello metrico; il tempo, invece, restava quasi
miracolosamente regolare, segnato spesso dal battere del piede captato dal
microfono.
Dal punto di vista poetico, James fu diverso da tutti gli altri. I suoi blues
vivono di immagini forti, sovente di una durezza anticipatrice di certo rap
violento e metropolitano (come quando in 22-20 Blues afferma che se la sua
ragazza non farà presto ritorno a casa con la sua pistola la taglierà in due).
Che fosse uomo violento anche nella vita è quanto sembra emergere dai
racconti di chi lo conobbe. Secondo Stephen Calt, che ne ha composto una
biografia acclamata, in gioventú James ebbe molti scontri a fuoco, e
probabilmente uccise qualcuno. Secondo altri, aveva problemi psichici; per
alcuni, invece, era un uomo mite, bastava non dargli fastidio.
Chi fu veramente Skip James non lo sapremo mai. Sappiamo che la sua
musica fu soltanto sua, e diversa da quella di chiunque altro, e che il blues
per lui era un congegno eccentrico di linguaggio. L’aveva detto, Skip, una
volta: «It’s just Skip’s music… I don’t sing other people’s songs. I don’t
sing other people’s voices. I can’t» 35.

35
«È solo musica la mia musica, la musica di Skip. Non canto canzoni di altri. Non canto come
canterebbero altri. Non posso».
Capitolo diciannovesimo
Memphis, il blues e i paperi del Peabody

Chissà se i paperi del Peabody reagiscono alla musica come le mucche


del Wisconsin. Secondo un celebre studio, i bovini americani producono piú
latte se esposti all’ascolto di musica classica (ben il 7,5 per cento in piú).
Per i palmipedi, la questione è un po’ diversa: non devono produrre nulla se
non intrattenimento. Da quasi ottanta anni, una pattuglia di cinque
bellissimi anatroccoli esce dall’ascensore – due volte al giorno: alle 11 e
alle 17 – e, marciando al suono della King Cotton March di John Philip
Sousa su un lungo tappeto rosso tra due ali di folla vociante, si infila nella
fontana dell’albergo, giusto al centro della hall. Nei primi anni Venti l’Hotel
Peabody di Memphis aveva risorse tali da poter ordinare un unico,
gigantesco blocco di travertino dall’Italia, e farselo arrivare per mare come
fosse la cartolina ingiallita di un lontano parente. La sua insegna luminosa
domina uno dei luoghi fondanti del blues: Beale Street, la lunghissima
strada dove vizio, musica, gioco d’azzardo e prostituzione costituivano le
attrazioni piú eclatanti (altre ce n’erano, ma erano meno pubblicizzate); e
dove il blues conobbe una delle stagioni piú fertili e creative. Mentre i
paperi marciavano, il blues macinava battute e versi. La domanda resta: e se
al posto di Sousa gli anatroccoli avessero marciato sulle note di Memphis
Minnie?

1. Al bar da Virgilio.
Sebbene possa, sulle prime, apparire strano, Memphis, la capitale del
Tennessee è l’origine, il punto iniziale di una terra uguale a nessun’altra, il
Delta. Come disse, con un pizzico di sarcasmo, David Cohn, con
un’espressione divenuta celeberrima: «Il Delta inizia nella hall dell’Hotel
Peabody, a Memphis, e finisce nel Catfish Row, a Vicksburg». Oggi ci si
impiegano quattro ore e mezzo, in automobile, per coprire le
duecentosettanta miglia. Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX ,
probabilmente il viaggio era assai piú disagevole e lungo; ciononostante,
Memphis fu meta desiderata di molti afroamericani in fuga dalle condizioni
disumane delle piantagioni. Per loro rappresentava un piccolo paradiso a
portata di mano, un sogno che può non trasformarsi in incubo, la vita,
insomma, a prezzi di saldo.
Grazie al porto fluviale, al cotone e al commercio di legname, e piú tardi
alla ferrovia, Memphis divenne una città prosperosa e in costante crescita
alla fine dell’Ottocento, nonostante una violenta epidemia di febbre gialla
avesse mietuto migliaia di vittime e spinto alla fuga non meno di
venticinquemila abitanti. Beale Street divenne, ben presto, la strada in cui si
raccolsero negozi e commerci di ogni natura e provenienza: secondo un
diffuso modo di dire, gli ebrei controllavano i banchi dei pegni e i negozi di
alimentari, i greci possedevano i ristoranti e gli italiani gestivano teatri e
saloon.
Uno di questi rivestí un ruolo di primo piano nella creazione di una
scena musicale memphisiana. Lo fondò un napoletano, Virgilio Maffei,
giunto in città da New York a cavallo tra Otto e Novecento, con dieci
centesimi in tasca e nessuna prospettiva concreta. L’italiano, che per la
bassa statura venne soprannominato Pee Wee (ma, a quanto si dice, era
temibile nella boxe e nella lotta), riuscí ad aprire il suo saloon; qui, oltre a
vendere bevande e a ospitare intrattenimento musicale, impiantò il primo
telefono a pagamento di Beale Street. Si rivelò una mossa lungimirante,
perché Maffei e i suoi dipendenti allestirono un servizio di segreteria
telefonica gratuito per i clienti piú affezionati, cosí da rendere il locale il
punto di ritrovo obbligatorio per i musicisti della strada: impresari e
proprietari di locali che avessero voluto contattare un musicista non
dovevano far altro che chiamare il P. Wee’s Saloon e lasciare un messaggio.
Era difficile, per altro, trovarlo chiuso; in una strada che non dormiva mai,
il locale di Maffei era sempre aperto, al motto di: «Non possiamo chiudere,
non è ancora stato ammazzato nessuno!»
Fu proprio al bar di Virgilio (parafrasando una canzone di Ligabue) che
W. C. Handy scrisse Memphis Blues, il primo vero blues dato alle stampe
nel 1912. In verità, quel brano Handy l’aveva scritto tre anni prima, sul
bancone dei sigari di Maffei. Dopo essersi trasferito in città, fu ingaggiato
dal comitato per l’elezione a sindaco di Edward H. Crump. Con l’idea di
attirare il voto afroamericano, Handy pensò di comporre un brano usando
quella strana musica folk nera che aveva ascoltato e annotato durante i suoi
viaggi. Nacque cosí Mr Crump, il cui testo, in maniera del tutto imprevista,
si rivelava palesemente contrario ai propositi di bonifica di Beale Street da
parte del candidato sindaco. Evidentemente nessuno se ne accorse e Crump
vinse le elezioni, seppur con scarto minimo. Tre anni dopo, Handy
ripubblicò il brano, col nuovo titolo, e Memphis Blues divenne non solo
l’inno non ufficiale della città, ma le conferí anche il blasone di prima vera
città del blues.

2. Furry, Frank e Sleepy.


Il blues di Memphis si caratterizzò, sin dalla sua prima emersione, per
una peculiare commistione di suoni e stili. La città, infatti, era diventata una
sorta di attrattore, una enorme calamita capace di richiamare a sé i
bluesmen dal vicinissimo Delta cosí come musicisti da nordest e dalle altre
zone limitrofe. La sua natura ancora non pienamente urbana – con quel
certo residuo, cioè, di ruralità ben percepibile – prese le forme di una
musica dal sapido contenuto ritmico e dalle modalità di organizzazione in
band sconosciute nel blues del Delta (come le jug band che abbiamo
analizzato qualche pagina fa). Dal punto di vista vocale è esatta l’analisi di
Barlow: i bluesmen di Memphis tendevano a un’esposizione piú controllata
e fluida, mantenendo elevato il livello di intensità dell’espressione; sul
versante chitarristico, invece, si prediligevano assetti piú serrati dal punto di
vista ritmico, ottenuti con figurazioni corpose, segnate da poderosi bassi e
figure a note singole, in uno stile molto vicino a quello del banjo.
Frank Stokes è stato uno degli esponenti piú genuini dello stile
memphisiano, che peraltro aveva grandemente contribuito a creare. Nato a
Whitehaven, nel Tennessee (poco fuori Memphis) nel 1888, e cresciuto a
Tutwiler, in Mississippi, era tornato in città alla fine del secolo; di lavoro
faceva il maniscalco, ma la musica costituiva qualcosa in piú di un hobby,
tanto che fu da subito una delle attrazioni di Beale Street grazie alla sua
voce risonante e profonda, ai contenuti sociali dei suoi blues e alla buona
tecnica chitarristica. Quando poi uní il suo nome in ditta con quello di un
altro chitarrista, Dan Sane, la sua musica si fece piú danzereccia,
attraversata da un ritmo contagioso e leggero. I Beale Street Sheiks, come si
facevano chiamare, incisero diversi dischi per Paramount e Victor, moderni
per la snellezza dell’ispirazione e le sottigliezze del suono complessivo.
Altrettanto moderno, quando non addirittura modernista, Walter “Furry”
Lewis fu un altro dei bluesmen cui la vita riservò una seconda opportunità.
Quando Samuel Charters lo rintracciò, neanche lui ricordava perché da
piccolo gli fosse stato affibbiato quel nomignolo. Era originario di
Greenwood, Mississippi, dov’era nato nel 1893, e si era stabilito a Memphis
con la famiglia prima che scoccasse il nuovo secolo. Tutto quello che c’era
da imparare lo imparò a Beale Street: il repertorio, gli stili strumentali, i
personaggi da seguire. Fece amicizia con Jim Jackson (l’autore del
fortunato Goin’ to Kansas City), e lo seguí in un medicine show,
specializzandosi nell’arte dell’intrattenimento. Quando non era in tour si
spostava da un capo all’altro degli States saltando sui treni e viaggiando a
scrocco, ma un incidente, nel quale perse una gamba, lo rese piú stanziale e
dall’inizio degli anni Venti la sua figura cominciò a emergere
prepotentemente. Non c’era ambito stilistico che non lo vedesse all’opera
con curiosità e voglia di carpire trucchi e segreti: si esibí con una jug band,
collaborò con Gus Cannon e Will Shade; nel frattempo, da una parte
elaborava il suo personale mondo a dodici battute, che avrebbe prodotto
frutti prelibati qualche anno dopo, dall’altra si procurò un lavoro stabile:
faceva lo spazzino per conto del dipartimento sanitario della città, e
mantenne l’impiego per i successivi quarant’anni. Nel ’27, su
interessamento di Jackson, Furry ebbe la prima opportunità di registrare due
facce per la Vocalion, a Chicago. Le sue cose migliori, però, le mise su
disco l’anno dopo, incidendo per la Victor a Memphis. Dal punto di vista
timbrico si avvantaggiano della peculiarità della registrazione: voce e
chitarra sembrano provenire da punti diversi della stanza, e lo sdoppiamento
conferisce una spazializzazione bizzarra alla musica. Lewis, però, ci mette
del suo: l’interplay tra chitarra e canto è prodigioso, e fonde la grana acuta
della voce con la tessitura ragtime dell’accompagnamento; armonicamente,
Furry inventa soluzioni inaudite, smorzando le modulazioni (I Will Turn
Your Money Green), addirittura sostituendo accordi (Cannon Ball Blues),
per un blues il cui quoziente di modernità fa apparire queste registrazioni
come fossero state prodotte l’altro ieri. Dopo altre due sessioni, Lewis fu
risucchiato dalla Grande Depressione e sparí dalla scena. Vi fece ritorno
grazie a Charters, quasi trent’anni dopo. Fortunatamente.
Stessa sorte toccò a John Adam Estes, detto “Sleepy” senza che se ne
sappia il vero motivo. La sua resurrezione non cancellò i disagi, le ombre di
una vita difficile, le miserie che inseguire i blues può provocare se non sei
dal lato giusto della scena. Morí com’era vissuto: cosí povero che la bara e
il funerale dovettero pagarlo due suoi celebri ammiratori, Ry Cooder e
Michael Bloomfield. Perché avesse fan cosí importanti è facile da capire;
Sleepy Estes – seppure in un modo periferico e in qualche modo lontano
dall’iconografia canonica del bluesman – ha gettato le basi per
l’appropriazione moderna del blues grazie alla sua musica futuribile; basti
pensare, ad esempio, che The Girl I Love She Got Long Curly Hair,
attribuita a Hambone Willie Newbern, incisa da Sleepy nel 1929 costituisce
il prototipo di tutte le successive versioni (da Robert Johnson ai Cream,
passando per John Lee Hooker, alcune col titolo di Rollin’ and Tumblin). In
quella sessione, accompagnato da Yank Rachell al mandolino e Jab Jones al
piano, Estes estrasse dal cilindro un gioiello grezzo, ma di insopportabile
bellezza. Il prestigio non gli riuscí spesso, in una vita passata a suonare per
le strade spesso in compagnia del suo fidato sodale Hammie Nixon. Viaggiò
molto, ma gravitò sempre attorno a Brownswille, la cittadina dove si era
trasferito con i genitori all’età di undici anni (Sleepy dichiarò di essere nato
nel 1903 a Ripley, Tennessee); qui aveva trovato un circolo di musicisti
assai affiatati – Newbern, che lo spinse sulla strada della musica, Sonny
Boy Williamson, Jab Jones, Son Bonds e Noah Lewis – con i quali avrebbe
collaborato a lungo. I testi dei suoi blues costituiscono una sorta di
“Antologia di Brownswille”: ritraggono fatti, persone e avvenimenti presi
di peso dalla quotidianità, e parlano di gente che Sleepy conosceva davvero.
Una che conosceva bene, ad esempio, era Lizzie Douglas, ma tutti la
chiamavano Memphis Minnie.

3. La donna con la chitarra.


Di lei, Big Bill Broonzy diceva che suonava come un uomo. Non voleva
mancarle di rispetto, né esprimere un commento maschilista; al contrario,
era un pensiero di grande ammirazione. Perché Memphis Minnie non solo
suonava come un uomo, ma anche meglio.
Lo stesso Broonzy raccontò, nella sua autobiografia, di un contest, una
gara, o meglio un duello tra lui e Memphis Minnie. Era il 1933. In una sala
gremita, alla presenza di una giuria d’eccezione – Tampa Red, Sleepy Estes
e Richard M. Jones – i due musicisti si batterono per una bottiglia di
whiskey e una di gin. All’una e mezza del mattino Tampa Red diede inizio
alla sfida; chiamò sul palco Big Bill, tra il rumoroso tripudio della gente in
sala, che infilò i suoi due brani con grande sicurezza. Poi fu la volta di
Memphis Minnie. Quando salí sul piccolo palcoscenico il pubblico si
acquietò all’improvviso; attaccò con Me and My Chauffeur, provocando
venti minuti di applausi tambureggianti. Poi cantò Looking the World Over;
appena l’ultima vibrazione della chitarra si spense Sleepy John e Richard
Jones salirono sul palco, la sollevarono e la portarono in trionfo per tutta la
sala.
Forse il racconto di Big Bill era, almeno in parte, frutto di un incrocio di
fatti e situazioni, ricordi accavallati e sovrapposti. Ma la sua ammirazione
per Memphis Minnie era genuina. Impossibile, peraltro, non amare questa
prodigiosa artista capace di irrompere in un mondo prettamente – e spesso
grettamente – maschile con forza, acume e sensibilità sorprendenti. Lungo
una carriera costellata di successi (e matrimoni: tre, tutti con
partner/chitarristi, anche se il primo è messo in dubbio da Paul Garon),
Minnie attraversò il blues rurale del Delta portandolo fino alle inevitabili
conseguenze dell’elettrificazione, nei primi anni Quaranta. Proprio per
questo, la sua figura è piú spesso collegata alla scena chicagoana, dove fu
indiscussa regina, che non a quella di Memphis, ma i suoi blues restano la
migliore e piú perfetta sintesi tra nuovo e antico, rurale e urbano.
Nata ad Algiers, in Louisiana, nel 1897, si spostò presto a Walls, poco
fuori Memphis. Giovanissima, iniziò a collezionare esperienze formative,
ma soprattutto suonava dove c’era la possibilità, e si faceva vedere spesso a
Beale Street. La prima seduta di registrazione, nel 1928, produsse brani di
successo, come Bumble Bee Blues, dalle sfumature allusive e dai doppi
sensi feroci; soprattutto, mise in luce l’eccezionale affiatamento tra Minnie
e Joe McCoy, suo accompagnatore e marito. In seguito, la musicista
avrebbe affrontato temi assai piú seri, nei suoi testi, allargando lo spettro
della sua analisi e la capacità di introspezione.
Memphis Minnie continuò a registrare fino alla metà degli anni
Cinquanta, quando un infarto la debilitò definitivamente. Uscí di scena in
silenzio, e trascorse gli ultimi anni di vita in una casa di riposo. Non cosí la
sua musica, che invece ha continuato a germogliare nella coscienza e
nell’apprezzamento di musicisti e pubblico. La sua When the Levee Breaks,
ripresa in una celebre versione dai Led Zeppelin, è lí a testimoniare la
grandezza di una donna straordinaria.
Capitolo ventesimo
Ragtime a dodici corde

La caratteristica stilistica piú sorprendente del blues prodotto nella terra


chiamata Piedmont è la derivazione dal ragtime. Terra di strepitosi
chitarristi, agilissimi e virtuosi nell’organizzare esecuzioni mirabili, la
regione che dal Mississippi si estende a est, dunque verso l’Oceano,
passando per i monti Appalachi, rappresenta una delle tre macrozone
espressive delle dodici battute, le cui dinamiche pervengono a un altissimo
tasso di virtuosismo e di enfasi ritmica. Blind Blake, Blind Boy Fuller e
Blind Willie McTell ancora oggi sono modelli virtualmente irraggiungibili
per un musicista normale; ciononostante, la loro musica seppe raggiungere
un pubblico vasto, rapito ed eccitato da ritmi veloci e puntuti.

1. Piedmont.
In un bellissimo e suggestivo saggio apparso una decina d’anni fa, lo
studioso Andrew M. Cohen ricavò una geografia stilistica del blues a partire
dalle mani dei chitarristi: attraverso cioè la loro posizione sulla chitarra, e
modi e tecniche di produzione del suono, determinò una mappatura delle
zone d’origine e influenza. Di fatto, ricalcò una tripartizione già nota a
storici e appassionati – Delta, Texas, Sudest, ma seppe conferirle una nuova
rigorosità, e sostanziarla con una visione innovativa. Ecco la sua
descrizione:

Area orientale. Uso questo termine come equivalente del piú comunemente usato
Piedmont, vale a dire le ondulate colline sedimentarie che costituiscono la tobacco
country a sud e a est dei monti Appalachi. Ci si può aspettare che i chitarristi folk-blues
neri dal Delaware alla Florida, a est di una linea che collega Knoxwille ad Atlanta e
prosegue da queste verso nord e verso sud, estendano il loro pollice destro nel suonare, e
la maggior parte di essi suoni i bassi alternativamente con il pollice. Una larga
maggioranza dei chitarristi neri in questa regione suona con il pollice esteso, cosí come
usa fare la maggior parte dei chitarristi bianchi della regione. La parte centrale di questa
regione – le due Virginia e le due Carolina – è la parte del paese dove i bianchi e i neri
hanno vissuto per piú tempo fianco a fianco. Questo fatto può anche contribuire a
spiegare perché esista in proporzione piú materiale condiviso in questa tobacco country
che nella cotton country.

Incroci di tecniche e sovrapposizioni culturali sono assai tipiche


dell’area orientale, come la definisce Cohen. La storia – e la geografia –
della regione peraltro raccontano di condizioni peculiari e diverse, capaci di
creare un terreno favorevole alle ibridazioni piú spericolate e inattese. La
ragione può essere rintracciata nei differenti modelli di sviluppo economico
e sociale manifestatisi sin dalla prima fase della colonizzazione, quando la
manodopera degli schiavi afroamericani e quella dei poveri bianchi era di
fatto equiparata, garantendo migliori condizioni di vita per entrambe le
razze, e soprattutto la possibilità che le due culture, con il relativo corollario
di pratiche sociali ed espressive, potessero se non sovrapporsi quanto meno
influenzarsi in un gioco di infiniti rispecchiamenti. Non va dimenticato che
gli Appalachi meridionali furono il luogo fondativo del cosiddetto hillbilly,
ovvero il nucleo piú antico del country bianco americano, e che gli
imprestiti formali e stilistici tra folk bianco e nero, innumerevoli, attivarono
ampi interscambi tra i due linguaggi, rendendoli egualmente fruibili da
ascoltatori di ogni colore, per i quali un buon musicista era tale al di là della
razza.
In questo sistema piú aperto, i bluesmen hanno elaborato un linguaggio
in grado di processare una serie corposa di influenze esterne, riunificandole
in un preciso progetto estetico; come Reverend Gary Davis ebbe piú volte
modo di precisare, il loro obiettivo era quello di fare in modo che la chitarra
potesse emulare la ricchezza espressiva del pianoforte. Per questo
elaborarono una tecnica estremamente raffinata in grado di trasferire
l’articolata dinamica del ragtime, ma anche del piú moderno stride, sulle
dodici corde; una tecnica di finger picking, ovvero con le corde pizzicate
dalle dita e non da un plettro, capace di distribuire le due parti fondamentali
dello stile ragtime: l’alternanza di bassi e accordi sul registro grave, ed
eventualmente un rinforzo melodico su quello acuto. Il pollice esteso, nella
precisa descrizione di Cohen, serviva proprio a permettere movimenti di
agilità altrimenti impensabili con le altre soluzioni posturali della mano.

2. Virtuosi.
Funamboli della chitarra, modelli irraggiungibili di perizia e abilità, i
grandi interpreti del cosiddetto Piedmont blues non si limitarono
all’elaborazione di uno stile esclusivamente legato al virtuosismo. Nella
loro musica è sempre possibile trovare il guizzo profondo, l’idea geniale, e
anche gli attributi tipici del blues rurale.
Blind Blake, che di tutti fu probabilmente il piú dotato tecnicamente, è
allo stesso tempo un enigma irrisolvibile. Di lui si sa talmente poco che le
enciclopedie preferiscono non stilare neanche la lista delle ipotesi: si sa, con
certezza perché lo testimoniano i dischi incisi, che fu attivo per sei anni a
Chicago dove conquistò una grande notorietà. E nient’altro. Difficile
peraltro individuare il suo vero nome: secondo alcuni si chiamava Arthur
Blake, come lui stesso dichiarò in un duetto con Papa Charlie Jackson,
secondo altri il vero nome era Arthur Phelps. Di sicuro quando arrivò a
Chicago e iniziò a registrare per la Paramount era già un chitarrista
eccezionale. Nel ’27 la sua musica era già perfettamente definita, in virtú
della tecnica fluida e magistrale e dell’aspetto leggero e divertente dei suoi
blues, frutto di un fitto reticolo di influenze. In uno di questi, il celebre
Southern Rag, diede prova di parlare correttamente il geechie, ovvero il
dialetto della popolazione Gullah, nell’omonima regione della Georgia, il
cui dialetto è rimasto miracolosamente vicino alla madrelingua africana.
Nel corso del soggiorno chicagoano Blake operò anche come sessionman
per molti artisti (“Ma” Rainey, Gus Johnson, tra gli altri), ai quali prestò
l’elettrizzante spina ritmica della sua musica. Nonostante il successo e la
fama – rivaleggiava in popolarità con Blind Lemon Jefferson – agli inizi del
decennio successivo la crisi economica segnò la sua carriera in maniera
letale. Da quel momento di Blake, o Phelps, si sono letteralmente perse le
tracce. Scomparso nel nulla.
Alla sua tecnica si ispirò Reverend Gary Davis, uno dei musicisti piú
importanti del dopoguerra, la cui attività in sala di registrazione iniziò
abbastanza tardi, nel 1935, e proseguí con molto piú successo e
riconoscimento dopo il secondo conflitto mondiale, quindi al di fuori dei
limiti temporali di questo volume. A lui si deve inoltre il merito di aver
instradato Blind Boy Fuller (all’anagrafe Fulton Allen), che diventerà in
seguito uno dei bluesmen piú ammirati e registrati della storia.
Ammirato, anche in tempi recenti, è stato Blind Willie McTell, tanto da
far dire a Bob Dylan che nessuno ha mai cantato il blues come lui. Fu un
personaggio singolare, come nota acutamente Michael Gray:

McTell ribalta tutti gli stereotipi sui musicisti di blues. Non è un ruggente primitivo,
né un diabolico sciupafemmine robertjohnsoniano. Non perse la vista durante una
violenta lite in un juke joint o saltando da un treno merci. Non si rifugiò nella musica
per evadere dall’aratro trainato da un mulo nel Delta. Non morí di morte violenta, o da
giovane. Piuttosto, non vedente dalla nascita senza che per questo si sentisse
handicappato, quest’uomo distinto e pieno di risorse diventò un perfetto musicista
professionista e disse la sua attraverso una lunga serie di registrazioni discografiche.

Istruito e raffinato, il bluesman georgiano seppe costruirsi un’identità


musicale assai precisa, grazie a travasi e calchi stilistici, come nel caso di
Blind Blake; a differenza di questi, però, i suoi blues mantennero
un’adesione piú marcata al country blues, e misero in risalto doti vocali e
interpretative di gran classe ed efficacia.
Capitolo ventunesimo
Tampa Red: il blues di Chicago e l’arte del doppio senso

Si attribuisce a Muddy Waters l’invenzione, tra molte virgolette


d’obbligo, del Chicago Blues: un suono amplificato, un blues dall’anima
elettrica, un ritmo coinvolgente lontano dalla pacata riflessione elegiaca del
Delta: una musica che sotto la pelle antica sentiva l’evolversi dei tempi, e
velocemente a essi si adattava. Muddy Waters si trasferí a Chicago, da
Clarksdale, nel 1943, e quando arrivò nel ghetto si accorse che il blues del
Delta non lo suonava piú nessuno: al suo posto c’era il «Bluebird beat». La
Bluebird era una sottoetichetta della Victor, di grande successo, gestita da
Lester Melrose, un tipo senza scrupoli che era riuscito ad arricchirsi usando
modi e tecniche al confine del lecito e all’epoca gestiva tutta la musica nera
in città. Per lui incidevano tutti i migliori, e tutti provenivano dal Sud:
Tampa Red, Sonny Boy Williamson, Big Bill Broonzy, Washboard Sam. La
peculiarità del «Bluebird beat» era il ritmo: Melrose comprese che un
bluesman e la sua chitarra non erano piú adatti al ritmo di vita di una
metropoli, e iniziò a utilizzare una sezione ritmica (in estrema sintesi, il
senso dell’urban blues è questo). Il nuovo tempo scandito, piú eccitante e
moderno, veniva in parte mutuato dal jazz, e si identificava in una completa
rilettura dei canoni ritmici operata da quei musicisti, come Louis Jordan o
Lionel Hampton, che si muovevano, con grande scioltezza, tra jazz e
rhythm and blues.
Ma aveva radici piú profonde e già una piccola storia da raccontare: la
storia di Tampa Red, e la sua splendida invenzione.

1. «The Great Migration».


Il blues sviluppatosi a Chicago tra la metà degli anni Venti e la fine dei
Cinquanta rappresenta una delle piú alte e coinvolgenti forme di musica
nera del secolo scorso. Esso è il frutto non soltanto di un’evoluzione
costante e inarrestabile, riguardante tutti i parametri musicali ed espressivi,
delle dodici battute, ma anche e soprattutto di profondi cambiamenti sociali,
economici e lavorativi degli afroamericani. E non poteva non essere
Chicago – fondata da un haitiano di origini africane, e sin dalla sua nascita
considerata un porto sicuro da schiavi fuggitivi e neri liberi – a diventarne
la capitale, soprattutto dopo la colossale emigrazione di migliaia di
afroamericani dagli Stati del Sud: un movimento enorme, per durata e
dimensioni, che gli storici hanno chiamato, appunto, The Great Migration.
Si calcola che tra il 1910 e il 1970 sette milioni di afroamericani
lasciarono gli stati del Sud: il piú grande esodo volontario di una
popolazione che la storia ricordi. Nella prima fase, fino cioè al 1940, i
migranti furono un milione e seicento; molti di questi si diressero verso
Chicago: la capitale dell’Illinois, che nel 1860 contava un centinaio di
abitanti di colore, nel 1915 ne ospitava cinquantamila. E il numero
raddoppiò in appena un anno. Di questa nuova popolazione, una buona
percentuale proveniva dal profondo Sud: Louisiana, Mississippi e Alabama
erano connesse a Chicago dalle ferrovie di recente costruzione: a fronte di
una giornata di scomodissimo viaggio, e di un biglietto dal costo neanche
proibitivo, si potevano raggiungere condizioni di vita nettamente migliori. E
una seppur pallida speranza.
A sua volta, Chicago aveva enorme bisogno di manodopera, dopo che il
primo conflitto mondiale aveva bloccato l’emigrazione dall’Europa. Le
fabbriche piú grandi mandavano propri agenti negli stati del Sud a reclutare
nuovi operai, e addirittura un quotidiano, il «Chicago Defender», il piú
importante organo di informazione gestito da neri dell’epoca, lanciò una
potentissima campagna d’opinione volta a spingere il piú alto numero di
afroamericani lontano dagli stati ancora semischiavisti, e addirittura fissò
una data, il 15 maggio del 1917, per il grande esodo. Chicago, insomma, era
il paradiso a portata di treno, ma non tutto andò per il meglio.

2. Bronzeville.
Una cosí numerosa invasione di nuovi abitanti creò non pochi problemi
alla città nata sulle rive del lago Michigan. I neri furono inurbati nella parte
sud della città, il South Side, come ancora oggi è chiamato: una specie di
ghetto sovrappopolato che non conobbe nessuno sviluppo urbanistico
sebbene il numero dei neri lí stabilitisi era aumentato del 148 per cento tra il
1910 e il 1920. The Black Belt, la striscia nera, era fatta di case fatiscenti,
dove spesso mancava la luce elettrica e il sistema fognario semplicemente
non esisteva. Eppure, questo non scoraggiò gli ultimi chicagoani, che a
poco a poco si impossessarono della realtà e la trasformarono – sebbene a
costo di enormi sacrifici e sofferenze – in qualcosa che piú assomigliava al
loro modo di vivere e alle loro tradizioni. Non a caso, il termine ghetto fu
presto sostituito con quello di Bronzeville: la città degli uomini di bronzo.
Con l’ironia, e l’autoironia, l’uomo afroamericano ha sempre saputo
affrontare le situazioni piú difficili. E il blues non poteva sottrarsi al ruolo
di fedele interprete della vita di tutti i giorni.
Nell’esodo di centinaia di migliaia di persone che abbiamo appena
descritto furono molti i bluesmen coinvolti, tanto che Chicago fu anche
definita la seconda capitale del Delta. Questi avevano spesso un lavoro
regolare e la sera, o nei weekend, animavano feste private o suonavano per
la strada. E fu proprio una strada a diventare uno dei simboli del blues di
Chicago. Maxwell Street era una lunga, e larga, striscia di asfalto che fu
trasformata dai commercianti ebrei in un mercato, riconosciuto
ufficialmente dalla municipalità nel 1912. Sui banchetti, sulle carrette
trainate a mano dai venditori, nei negozi che fiancheggiavano la strada si
poteva trovare di tutto, ogni genere di mercanzia legale e illegale: accadeva
sovente che la strada fosse animata da inseguimenti, pestaggi e cariche della
polizia. Agli angoli piú affollati, sui marciapiedi i musicisti di blues
installavano la loro strumentazione e suonavano per le mance. La vita
scorreva veloce e il blues la doveva rincorrere.

3. Tampa Red e l’invenzione del rock and roll.


Negli annali del blues il nome di Tampa Red non può mancare, ma la sua
musica viene trattata con quella punta di risentimento che si riserva al
musicista colpevole di aver dissipato il suo talento. Chitarrista di eccellenti
qualità, e bluesman dallo stile accorato e rurale, a un certo punto fece
sterzare la sua musica verso espressioni piú facili e soluzioni piú
orecchiabili. La pietra dello scandalo fu un brano del 1929. S’intitolava It’s
Tight Like That, a nome del duo Tampa Red e Georgia Tom, e ottenne un
successo clamoroso. Tampa Red, che si era trasferito a Chicago qualche
anno prima seguendo il flusso migratorio alla ricerca di condizioni
lavorative migliori, con quel brano, in realtà, aveva inventato il rock and
roll, ma nessuno poteva saperlo.
Forse non lo seppe mai neanche lui. La sua carriera fu lunga e generosa
(nessun bluesman dell’epoca superò la ragguardevole cifra di
trecentotrentacinque dischi a 78 giri pubblicati), ed era iniziata proprio a
Chicago. Prima di trasferirsi nella Windy City, Hudson Woodbridge, questo
il suo vero nome, non aveva dato evidenti segni di talento. Nato in Georgia,
probabilmente nel 1904, alla morte dei genitori si spostò a Tampa, Florida,
dai nonni, assumendone il cognome, Whittaker. Tampa divenne poi la prima
parte del suo nome d’arte, mentre Red derivava dalla capigliatura rossastra
e la carnagione chiara. La tecnica chitarristica l’aveva appresa dal fratello, e
munito di una vocalità appena passabile, puntò a nord in cerca di successo.
In città incontrò Thomas Dorsey, e la sua vita cambiò. Dorsey, georgiano
come il collega, era un pianista di eccellenti qualità; dopo l’apprendistato in
chiesa, e i mille mestieri abituali, studiò composizione al college e a
Chicago iniziò a farsi vedere nel circuito del blues che conta, collaborando
con molte cantanti, come “Ma” Rainey, Bertha “Chippie” Hill e Trixie
Smith. Grazie a Trixie venne a contatto con quella produzione
vaudevilliana, umoristica e zeppa di doppi sensi che avrebbe giocato un
ruolo importante nella sua carriera qualche anno dopo: nel 1922 la cantante
aveva inciso un brano dal titolo profetico, My Man Rocks Me (with a Steady
Roll), allusivo e scollacciato, che Dorsey e Tampa Red portarono a
rinnovato successo.
It’s Tight Like That, incisa piú volte dagli stessi Tampa Red e Georgia
Tom e reinterpretata da numerosissimi musicisti, causò un piccolo
sconquasso nel mercato discografico dell’epoca. Mentre si apprestava la
crisi, contemporaneamente alla prima flessione dei consumi, questo allegro
motivo si infilò nelle orecchie degli ascoltatori, che ne comprarono
centinaia di migliaia di copie. Secondo Thomas Dorsey, il brano nacque
cosí, senza alcuna preparazione; i due rilavorarono un motivo circolante
(probabilmente Shake That Thing, di Papa Charlie Jackson, col quale
Dorsey aveva collaborato a lungo), ne ammodernarono l’impianto ritmico e
lo piegarono alla loro esuberanza, alla vivacità della vita della metropoli,
alle nuove esigenze di una popolazione inurbata e ghettizzata. A riascoltarla
oggi, tuttavia, quella canzoncina rivela alcune intuizioni formidabili. Il testo
non ha la caratteristica forma del verso blues: ogni stanza è costruita da una
coppia di versi, che occupa le prime quattro misure («Listen here folks,
gonna sing a little song | Don’t get mad, we don’t mean no harm»), e da una
risposta fissa, ripetuta cioè in ogni stanza successiva, che si spalma sulle
restanti otto («You know, it’s tight like that, beedle-um-bum, oh, it’s tight
like that, beedle-um-bum | Don’t you hear me talking to you, I mean it’s
tight like that»). Lo sviluppo narrativo è dunque affidato al primo distico,
unico elemento di novità, che viene eseguito dal duo con la tecnica dello
stop-time: gli strumenti, cioè, si fermano e segnano solo pochi accenti
fondamentali (la stessa cosa che accade in moltissimi brani rock and roll,
come Tutti Frutti di Little Richard), mantenendo un ritmo implicito. Per
soprammercato, in uno di questi stop-time, la chitarra di Tampa Red suona
la tipica scala walking del rock and roll (in Do: do - mi - sol - la - si
bemolle), dando cosí ancora piú forza a una delle piú potenti anticipazioni
musicali della storia. Se si ascoltano le prove successive, come Move it on
Over di Hank Williams (un divo del country, e molti musicisti country
inclusero nel loro repertorio le canzoncine piccanti, in tutti i sensi, di Tampa
Red e Georgia Tom), o Good Rockin’ Tonight, della stella del rhythm and
blues Wynonie Harris, entrambi incisi nel 1947, non si può non rinvenire in
It’s Tight like That la forza dell’archetipo generatore.
Se il rock and roll era ancora di là da venire, il testo assai allusivo,
sporcaccione della canzone inaugurò un nuovo fenomeno musicale,
chiamato hokum, del quale i nostri furono artefici ed esponenti di spicco.
Hokum è un termine intraducibile: Dorsey ricorda che il termine circolava
nell’ambiente, ma se ne ignorava il significato. Rispetto allo stile, è
evidente che la radice va cercata nei numeri comici del minstrel show, in
quell’umorismo certamente greve, per quanto assai funzionale, in cui si
riempivano le battute di terrificanti doppi sensi e allusioni a organi e
pratiche sessuali (da noi avrebbe preso piede nell’avanspettacolo). Molto
prima di Tampa Red il fenomeno aveva già attirato l’attenzione di studiosi e
osservatori, per i quali era facile constatare come molti blues si basassero su
questa mescola spericolata:

Il doppio senso nei blues è, non c’è neanche bisogno di dirlo, di natura sessuale. Non
che non ne esistano di altri tipi nelle canzoni dei Negri, ma quelli che rinvengono nei
blues sono quasi inevitabilmente di natura sessuale dal momento che i blues parlano
della relazione uomo-donna. Possiamo dividere i doppi sensi in due categorie generali:
(1) quelli il cui significato allude specificamente agli organi sessuali e (2) quelli che si
riferiscono all’atto sessuale o ad altri aspetti della vita sessuale.

La citazione non proviene, come potrebbe sembrare, dal lavoro di uno


storico, ma da un saggio pubblicato su «The Journal of Abnormal and
Social Psychology», nel 1927. Lo studioso, Guy B. Johnson, procede
nell’analisi dei termini piú comunemente usati (jelly roll per la vagina, cosí
come cabbage) e cataloga parafrasi, allusioni e metafore.
Tampa Red e Georgia Tom, dunque, non avevano inventato nulla di
nuovo: lo avevano semplicemente fatto meglio di chiunque altro. Certo, una
volta catturati nell’ingranaggio non seppero sottrarsi ai tonfi del cattivo
gusto, come una versione di How Long How Long, di Leroy Carr, in cui,
con la complicità di Frankie «Half Pint» Jackson, simularono orgasmi e
riprodussero gemiti di ogni tipo, o quando, come detto, rivisitarono My Man
Rocks Me (with a Steady Roll). A proposito di quest’ultimo brano, il
professor Johnson spiega che il testo allude al movimento regolare e
costante attraverso cui l’uomo esegue l’atto sessuale. A questo, in verità,
non era difficile arrivarci da soli.
Nonostante il successo e i buoni guadagni le strade dei due proto-
rockettari si separarono ben presto. Thomas Dorsey, in seguito a una forte
crisi, tornò da dov’era venuto, la chiesa, e di fatto inventò il gospel
moderno. Tampa Red, invece, continuò la sua brillante carriera, fondendo
stili ed espressioni, e ritagliandosi un ruolo chitarristico di assoluta
preminenza. «The Guitar Wizard», come lo chiamavano, otteneva dalla sua
National resofonica suoni e figurazioni formidabili, e per anni fu il migliore
interprete dello strumento a Chicago, dove diventò un riferimento certo,
non soltanto stilistico, per molti dei musicisti che arrivavano in città, e che
da Tampa Red trovavano consigli e dritte. Non riuscí mai, tuttavia, a
scrollarsi di dosso l’etichetta di musicista in qualche modo bislacco,
appiccicatagli dai costruttori del canone blues negli anni Sessanta; non si
sopportava il suo stile ondivago, l’ispirazione incostante, il debole per
soluzioni facilotte e preconfezionate. Eppure, Tampa Red incarnò, piú di
ogni altro, l’idea stessa di blues come luogo aperto a tutte le influenze,
capace di elaborare e trasformare ogni singolo apporto. Previde quale
sarebbe stato il futuro della musica nera con trent’anni di anticipo e
produsse musica dall’ampio, quasi sconfinato orizzonte. Figlio del blues
discografico – raccontava di essere stato letteralmente fulminato
dall’ascolto di Crazy Blues di Mamie Smith – ne espresse tutte le
contraddizioni, le speranze, i sotterfugi, la sincerità e la poesia. Fu artista di
enorme talento, ma probabilmente non si accorse neanche di questo.
Capitolo diciottesimo
Blind Lemon Jefferson e la stella solitaria

Chissà se l’aveva mai toccata la neve, Blind Lemon, prima di quella


maledetta notte, a Chicago. Il suo corpo fu ritrovato senza vita, coperto di
neve e assiderato su un marciapiede. Non si sa perché, o come mai, o di che
morte morí: un infarto, una rapina, forse si era semplicemente perso e la
neve, attutendo i rumori, l’aveva disorientato. Non si sa neanche la data
esatta, se non che era dicembre, e l’anno il 1929: nessun certificato di morte
fu stilato. A dicembre a Chicago può far molto freddo, e non si capirà mai
perché Blind Lemon Jefferson in una notte di tormenta decise di
avventurarsi da solo per le strade della città mentre il suo autista lo
aspettava. Già, Blind Lemon aveva l’autista perché in appena quattro anni
era diventato una stella del blues, uno di quelli che non seguono gli stili
altrui ma ne inventano di propri. Mayo Williams gli aveva regalato
un’automobile, una Ford da 725 dollari; a guidarla Lemon aveva assunto
Papa Sollie. Quella notte aspettò invano, in macchina.

1. «The Lone Star State».


Per via di quella stella solitaria che campeggia sulla bandiera dello Stato,
il Texas si porta addosso questo poetico soprannome. Di altrettanto poetico,
nella sua travagliatissima storia, non ci fu molto. Conteso da Spagna,
Messico e Stati Uniti, contrastato da questi ultimi per la ritrosia con cui si
decise ad abolire la schiavitú, il Texas ha sempre battagliato e guerreggiato
per affermare la propria indipendenza, almeno fino al 1870, quando fu
ammesso, con qualche ritardo, a far parte della Confederazione dopo la
Guerra Civile. Spesso si legge che a causa di simili e incerte condizioni
sociopolitiche la zona ebbe rispetto alla schiavitú un atteggiamento piú
blando, se non addirittura paternalistico. È vero solo in parte. Il governo
messicano era contrario alla schiavitú: ciononostante, all’inizio della
cosiddetta Texas Revolution, che porterà alla costituzione della Repubblica
Texana, gli schiavi presenti sul territorio erano cinquemila. Numero
destinato a crescere esponenzialmente nei dieci anni successivi: alla data di
annessione del Texas alla confederazione il numero si era sestuplicato, fino
a raggiungere, secondo le stime dell’Archivio statale, i quasi duecentomila
nel 1860, ovvero un terzo della popolazione complessiva. Le condizioni in
cui versavano gli schiavi non erano molto difformi da quelle in altri stati;
anzi, la durezza della segregazione e dei codici statali fece sí che quando,
finalmente, arrivò in Texas la comunicazione ufficiale dell’abolizione, con
un paio d’anni di ritardo, il 19 giugno del 1865, i festeggiamenti furono
enormi, e quella data, chiamata Juneteenth (dall’unione di june e
nineteenth), oggi è festa nazionale in trentuno stati, nonché un simbolo di
riconquistata libertà.
Non era facile, dunque, essere musicisti in un contesto cosí rigido.
Eppure la parte orientale dello stato è stata senz’altro una delle regioni piú
feconde per lo sviluppo del blues, e un giacimento stilistico di primaria
importanza. Come rileva Barlow:

Allo stesso modo che nel Delta, i primi bluesmen texani rappresentarono un aspetto
importante della rivolta afroamericana contro l’egemonia culturale dei bianchi nel
periodo post-Ricostruzione. Essi viaggiarono molto, lavorarono nei campi il meno
possibile, e cantarono lo sfruttamento e le privazioni della comunità nera. Attraverso la
loro musica e il loro stile di vita mantennero vivo lo spirito di resistenza.

“Ragtime Texas” Henry Thomas fu uno dei padri fondatori del blues
texano. Figlio di ex schiavi, nacque a Big Sandy, Upshur County, nel 1874,
e sin dall’adolescenza si costruí una vita girovaga, suonando dappertutto e
usando il treno per spostarsi. Quando finalmente arrivò il momento della
prima registrazione discografica, il musicista aveva un’età ragguardevole
per essere un novizio; soprattutto, il suo repertorio non era esattamente
all’ultima moda, o quello che i discografici si aspettavano, ovvero il blues
nella sua accezione piú pura. Thomas portava con sé mezzo secolo di
musica vernacolare afroamericana, mostrandone l’ampiezza e la
diversificazione. Nel corso di cinque sedute di incisione, a Chicago tra il
’27 e il ’29 registrò poco piú di venti brani: il loro assortimento permette
quasi di vedere lungo quale linea evolutiva si sia sviluppato il blues, dalle
stanze a un solo verso (AAA) a quelle piú regolari. Ma il blues era solo una
piccola parte del bagaglio espressivo di Thomas, il cui ricorso alle quills,
strumento ad ancia arcaico e di origine africana, rendeva la sua musica
antica e moderna al contempo.
Dopo il ’29, di Ragtime Texas non si ha piú alcuna notizia.

2. BLJ. Vita e morte di un genio.


Sulla vita di Blind Lemon Jefferson si sa qualcosa in piú, ma non
moltissimo, considerando la fama e l’esposizione che il musicista texano
riuscí a ottenere. Nacque il 24 settembre 1893 a Couchman, una piccola
comunità vicino a Wortham. Iniziò ad armeggiare sin da bambino con una
chitarra, tanto che già adolescente si esibiva dappertutto: balli, pic nic,
riunioni del sabato sera. Nel suo già vasto repertorio c’era spazio anche per
il gospel, e proprio con due pezzi di musica religiosa avrebbe iniziato la sua
breve, ma folgorante, carriera discografica qualche anno dopo.
Probabilmente, nella fase di apprendistato ebbe la possibilità di ascoltare
Ragtime Texas, e anche l’eccezionale Alger “Texas” Alexander. Sebbene
questi fosse di qualche anno piú giovane, iniziò prestissimo a girovagare
per il Texas, esibendosi ovunque capitasse col suo canto assai ancorato ai
field holler e alle tecniche piú arcaiche. Alger cantava, e sapeva fare solo
quello; quando incise – i suoi dischi ebbero peraltro notevoli riscontri di
vendita – si dovettero cercare chitarristi abili ad assecondare ogni curva,
ogni scarto della sua particolare vocazione, e Lonnie Johnson fu il migliore,
da questo punto di vista.
Lemon Jefferson forse trattenne nel suo stile vocale l’influenza di Alger.
Era in grado di ululare e urlare, come hanno raccontato i fortunati che
assistettero alle sue esibizioni, cosí come esprimere chiaroscuri
perfettamente dosati. Nonostante fosse un omone grande e grosso (pesava
piú di un quintale e per qualche tempo si guadagnò da vivere a Dallas
facendo il lottatore) e non vedente viaggiò per tutta la vita, mostrando
un’abilità enorme nel gestire il suo handicap. Alcuni studiosi hanno
addirittura messo in dubbio la cecità; in una foto pubblicitaria lo vediamo
con un paio di occhialetti dalle lenti chiare, e gli occhi semisocchiusi, per
cui si è pensato anche a una forma di ipovisione. Invece, come ha
dimostrato Luigi Monge in un pregevole saggio, Blind Lemon non solo era
non vedente, ma la sua condizione lo preoccupava a tal punto che il tema
della cecità – affrontato spesso in maniera criptica – era un sottotesto
costante della sua produzione lirica. Certo, a vederlo muoversi con
naturalezza per le strade di Dallas in pochi avrebbero scommesso sulla sua
menomazione, e raramente si faceva accompagnare o guidare da qualcuno,
a meno che non si trovasse in un posto a lui sconosciuto.
Le sue esibizioni richiamavano sempre una gran folla, e Lemon
accontentava tutti suonando musiche di ogni genere; dove le avesse apprese
è un mistero, ma sicuramente era dotato di una memoria formidabile, che
gli permetteva di incamerare testi e musiche con grande facilità. Il suo
palcoscenico principale, prima dell’exploit discografico, era il Deep Ellum,
a Dallas, il quartiere dei locali e dell’intrattenimento. La sua routine era la
seguente: iniziava verso le nove e mezzo del mattino e andava avanti fino
alle sei del pomeriggio. Al manico della chitarra aveva fissato una tazza di
latta, per ricevere le mance dei passanti. Ma guai a dargli spiccioli!

A big sound songster… a big, stout fella… he played dance songs, never did play a
church song… he had a tin cup wired on ta neck of his gittah. An when you give him
something, why, he’d thank ya. But he wouldn’t never take no pennies. You could drap a
penny in there an he’d know the sound. He’d take it out and throw it away 36.

Blind Lemon continuò a viaggiare molto anche durante la sua breve


carriera discografica. Spesso faceva la spola tra Chicago e Dallas, dove
viveva con la moglie (ne ebbe piú d’una). Tutto, insomma, sembrava andare
per il meglio. In banca conservava una discreta somma di denaro e, sebbene
la Depressione avesse iniziato a far splendere di meno la sua stella, avrebbe
avuto davanti ancora qualche anno di dignitosa carriera, senza quella
maledetta notte a Chicago.
La salma fu subito spedita in treno a Wortham e tumulata nel locale
cimitero, forse il giorno di Natale. C’erano centinaia di persone alle
esequie, nonostante fosse un giorno freddissimo.

3. Vecchia maniera.
L’apparizione di Blind Lemon Jefferson sul palcoscenico del blues ebbe
la potenza di un’epifania. Prima di lui, come abbiamo visto, pochissimi, e
senza esiti di rilievo, erano stati i musicisti a incidere solo con chitarra e
voce, materializzando cioè quella che avrebbe dovuto essere l’essenza piú
pura del blues. Ma l’industria discografica del tempo non aveva bisogno di
essenze o purezze: doveva produrre dischi che vendessero, e realizzassero
fatturato. E, dopo la sbornia del blues classico, e relative regine, o i blues
farciti di jazz della metà degli anni Venti, puntare su un musicista come
Blind Lemon era addirittura rischioso. Ecco perché la Paramount per
promuovere i dischi del musicista texano elaborò lo slogan: «Real old-
fashioned blues by a real old-fashioned blues singer». Blues vecchia
maniera cantato da un vero cantante di blues vecchia maniera.
Invece, Blind Lemon tutto era fuorché vecchia maniera. In realtà, non
aveva neanche una maniera, perché la sua musica era talmente varia, e il
suo repertorio talmente esteso, da rendere impossibile rinchiuderlo in una
categoria. Certo, Lemon era un bluesman, ma non solo. Incise per la
maggior parte blues, ma erano i produttori a decidere le scalette, non i
musicisti. E anche rispetto alla tradizione del blues, prima d’allora poco o
punto esplorata, Lemon era un vero e proprio innovatore. In ogni segmento
– forma, testo, tecnica chitarristica e vocale – il musicista fu in grado di
esprimere soluzioni innovative, che avrebbero costituito, negli anni a
venire, uno dei libri di testo sui quali si sono formate almeno un paio di
generazioni successive.
Una attenta analisi del corpus discografico jeffersoniano consente di
enucleare alcune caratteristiche della sua arte. La piú sorprendente è la
capacità di improvvisazione, estesa a tutti i livelli esecutivi. Quando si
confrontano due takes dello stesso brano è evidente il suo desiderio di
elaborare in tempo reale: modifiche al testo, ai singoli versi o addirittura
alla disposizione delle stanze; accompagnamenti chitarristici i quali,
sebbene costruiti attorno a una serie di moduli, subiscono variazioni e
modifiche significative. Per Lemon, cioè, la registrazione non costituiva il
congelamento di un brano nella sua forma definitiva, ma ne rappresentava
uno stadio dell’evoluzione. Il suo lavorio improvvisativo è ben osservabile
anche nell’uso di forme e strutture. Quando compone e suona un blues, usa
quasi esclusivamente la canonica forma del verso AAB, e l’altrettanto tipica
progressione armonica (speziata però da frequenti innesti di movimenti VI-
II-V). Sottopone, però, la struttura ad allungamenti, flessioni, torsioni e
dilatazioni dovute alla reazione estemporanea a uno stimolo, a un
particolare termine, al suono di una sillaba, o all’invenzione di un verso.
David Evans, in un pregevole studio, ha quantificato simili scostamenti
dalla norma. In Tin Cup Blues, ad esempio, Lemon suona una struttura
altamente irregolare, in cui ciascuna stanza ha lunghezza diversa, e le
misure di ogni stanza durano un numero di movimenti imprevedibile.
Cantante dallo stile flessibile e spesso assai ornato, e chitarrista dalla
tecnica virtuosistica e dal timbro ricco e pieno, Blind Lemon mostrò
un’attitudine spiccata anche nei suoi testi; in essi evocava immagini
fortissime, e spesso assai poetiche, dalla pasta visionaria e immaginifica.
Di lui ci restano un paio di foto e musica per riempire quattro cd.

36
«Un ragazzone, grosso e dal suono enorme… suonava musica da ballo, mai canzoni di
chiesa… aveva una tazza di latta legata al manico della chitarra. Quando gli davi qualcosa ti
ringraziava. Ma non accettava centesimi. Se lanciavi un centesimo nella tazza lui lo riconosceva dal
suono. Lo toglieva dalla tazza e lo buttava via».
Capitolo ventiduesimo
Robert Johnson: mithologically correct

Se l’aggettivo non suonasse troppo impertinente, o disinvolto, o aperto ai


piú vari e pericolosi malintesi, si potrebbe dire che oggi la figura di Robert
Johnson è ingombrante. Troppo carismatica, centrale, ineludibile, elusiva,
misteriosa, decisiva, profetica, individuale, solitaria, ossessiva, struggente,
lacerata, oscura, affascinante, diabolica per essere semplicemente
circoscritta criticamente, e troppo connotata storicamente per poterne
ricavare nuove suggestioni. La fortuna critica di Johnson travalica il
semplice apprezzamento, la mera collocazione storicostilistica per tracimare
nel campo nell’agiografia, del culto segreto e modesto di un personaggio
leggendario. Egli, per molti osservatori, è il blues: ne rappresenta le
sfumature piú segrete e implicite, i preziosismi lessicali e le dissipatezze
umane.
Umano, troppo umano (parafrasando Nietzsche) per non cedere alle
lusinghe della carne, dei piaceri proibiti e delle mogli altrui; insicuro e
ambizioso da chiedere aiuto al demonio per migliorare le sue qualità
musicali; cosí geniale da reinventare il blues e renderlo di pronto uso per le
generazioni successive attraverso un pugno di registrazioni; cosí sciocco da
morire per mano di un marito geloso ad appena ventisette anni. Insomma:
secondo una celebre definizione, Robert Johnson ha tutto per essere il
bluesman piú mitologicamente corretto della storia.
Al tempo stesso, ed è per questo che ne collochiamo la figura al termine
del nostro percorso, Johnson segna la fine di un’epoca, di una stagione –
brevissima: appena quindici anni dalle prime registrazioni di Blind Lemon
Jefferson – irripetibile. Dopo di lui, o contemporaneamente a lui, il blues
cambia, si evolve, cambia pelle, funzione e destinazione d’uso, sistemi di
diffusione e promozione, pratiche di ascolto: si dissolve, per trasformarsi in
qualcosa d’altro.
1. Biografia in polvere.
Robert Johnson è il musicista di blues sul quale piú si è scritto. Storici e
ricercatori si sono messi sulle sue tracce per estrarre dalle nebbie del mito,
dalla materia sfuggente di leggende e racconti fantastici i contorni di un
uomo in carne e ossa. Ciononostante, di lui continuiamo a saperne poco,
tanto che la sua biografia ruota attorno alle poche notizie certe. Nacque l’8
maggio del 1911 ad Hazelhurst, Mississippi, ma ben presto si trasferí con la
madre a Memphis, per poi tornare dalle parti di Robinsonville, a poche
miglia dal paese natale. Qui iniziò ad armeggiare con l’armonica per poi
passare alla chitarra; la decisione di diventare un musicista professionista la
prese da adolescente e intorno agli anni Trenta ebbe la possibilità di
frequentare Son House, Willie Brown e forse anche Charley Patton, che si
erano trasferiti dalle sue parti. Son House ha spesso raccontato di questo
ragazzino che passava il tempo a guardarlo suonare provando a rubare gesti
e posizioni sullo strumento. Ne aveva bisogno, secondo House, perché a
quel tempo era una piccola schiappa. Ma migliorò molto, e presto, nel
biennio 1930-31: non vendette l’anima al diavolo, ma studiò ferocemente
sotto la guida di un chitarrista, Ike Zinnerman. Quando Son House ebbe la
possibilità di ascoltarlo di nuovo, rimase stupefatto dai progressi del suo ex
allievo. Negli anni successivi Johnson suonò e girò molto; strinse rapporti
di amicizia e collaborazione con Johnny Shines e Robert Lockwood, sposò
un paio di donne, con molte altre ebbe relazioni piú o meno lecite, venne a
conoscenza degli stili pianistici derivati dal boogie, provò a trasferirli nel
suo linguaggio chitarristico, ascoltò molti dischi. E, finalmente, nell’ottobre
del 1936 ottenne il suo provino al secondo piano del negozio di H. C. Speir.
Da questo momento in poi la storia è nota. Speir passò la voce a Ernie
Oertle, dell’etichetta ARC , il quale offrí a Johnson la possibilità di registrare.
Il 23 novembre del 1936 Oertle e Johnson viaggiarono fino a San Antonio
dove il bluesman, nello studio di registrazione allestito presso il Gunter
Hotel, incise i suoi primi otto brani, piú le alternate takes. Tre giorni dopo
Johnson registrò ancora; questa volta abbandonò gli stilemi pianistici per
virare verso un’espressività piú vicina a quella del Delta blues.
Il primo disco pubblicato, con Terraplane Blues e Kind Hearted Woman,
uscí a marzo del ’37 ed ebbe un discreto successo, spingendo la ARC a
pubblicare nuovi titoli e a riconvocare Johnson in sala di incisione a luglio.
Il bluesman viaggiò fino a Dallas e qui in due giorni registrò gli ultimi brani
della sua vita. Nell’anno o poco piú che gli sarebbe rimasto da vivere
Johnson fece quello che aveva sempre fatto: suonò in giro. Fino al 16
agosto del 1938, quando morí, in una piantagione vicino Greenwood, per
cause non ancora chiarite. Avvelenato da una ragazza gelosa o da un marito
geloso; di polmonite da avvelenamento. Il certificato di morte, ritrovato da
Wardlow, parla di sifilide congenita.

2. Il bluesman postmoderno.
La fortuna di Robert Johnson iniziò negli anni Sessanta, quando la sua
musica fu ristampata in long playing, e i musicisti rock bianchi videro in lui
il trait d’union, il collegamento necessario tra musiche ed esistenze lontane.
Ancora oggi il doppio cd della Columbia con l’integrale delle registrazioni
è il disco di country blues piú venduto di sempre (oltre un milione e mezzo
di copie). Ma basta davvero la sua musica a legittimare una simile
persistenza nell’immaginario collettivo?
Probabilmente, per quanto geniale e innovativa, no. Il mito di Robert
Johnson è stato alimentato da una letteratura critica da subito fortemente in
sintonia con le derive johnsoniane. Greil Marcus, nel suo famoso libro del
1975, scrisse:

Quasi quarant’anni dopo la sua morte, Johnson rimane il piú rispettato di tutti i
cantanti di blues; a dispetto della distanza che può separare dal suo tempo e dai luoghi in
cui visse, la musica di Johnson suscita una risposta naturale da chi è apparentemente
cosí diverso da lui. Egli cantò del prezzo che dovette pagare per le promesse che cercò,
senza riuscirvi, di mantenere. Credo che il potere della sua musica derivi in parte
dall’abilità di Johnson nel dar vita alla solitudine e al caos del suo tradimento, o del
nostro. Ascoltando le canzoni di Johnson uno si sente quasi a casa in quest’America
desolata; uno si sente capace di ricavarne un po’ di forza, insieme alle promesse che non
abbandoneremo neanche se volessimo.

Vent’anni dopo, Gino Castaldo colloca Johnson in un continuum ancora


piú esplicito, che quasi rivela la natura del problema:
Vale la pena di sottolineare la figura di Robert Johnson come un vero anticipatore di
temi che poi saranno ricorrenti nella cultura del rock […] Robert Johnson esprime
pienamente la prima fase dell’innocenza, vissuta lungo le strade d’America, fuori dal
mercato della musica, a contatto con la gente. Ha inciso pochi brani e, potremmo dire,
per puro caso. La sua stessa biografia, misteriosa, sfuggente, troncata all’età di
ventisette anni da una morte oscura e quasi certamente violenta, sembra precorrere una
certa parte maudite della storia del rock.

Vista nell’ottica del passaggio e della trasformazione della musica da


blues in rock, la figura di Robert Johnson assume connotati giganteschi.
Anche a costo di qualche inesattezza o di una sostanziale sottovalutazione
di certi aspetti poco romantici o poco maledetti. Dire che Johnson incise
«per puro caso», o visse «fuori del mercato della musica» è assai
approssimativo, ma funzionale all’operazione di connessione della sua
opera, o di certi aspetti di essa, a ciò che sarebbe venuto dopo.
Ma Robert Johnson, piaccia o no, era un musicista professionista;
preparò le sue incisioni con estrema meticolosità, lavorando su tutti gli
aspetti del suo linguaggio e limandoli fino a farli diventare registrabili.
Nella sua ottica, anzi, il disco rivestiva un’importanza essenziale, avendone
compreso – in netto anticipo – la forza e le possibilità. Perché Johnson era
totalmente figlio dell’era discografica: studiò sui dischi, dai dischi imparò
l’arte del racchiudere tutto in tre minuti con precisione ed esattezza (al
contrario dei padri del country blues, chiaramente in difficoltà nei riguardi
del tempo). In un momento storico in cui i numi tutelari, i padri del blues
rurale erano già morti (Blind Lemon Jefferson, Charley Patton) o si erano
ritirati (Son House, Skip James) Johnson, che ne è certo l’erede designato,
muove il blues in avanti, e cosí facendo lo sradica dalla tradizione – il
rituale, la comunità, il ballo, la partecipazione – per proiettarlo in un futuro
prossimo, ovvero il disco, la radio e i mezzi di comunicazione di massa.
La sua idea di blues era assai piú meticcia e ibridata (o ibridabile) di
quella dei suoi predecessori. Piú volte fu ascoltato suonare con batteria e
pianoforte, o eseguire repertori vastissimi, nei quali facevano capolino il
jazz, l’hillbilly o le canzoni pop in voga all’epoca. Si avvertiva in lui una
tensione al superamento delle barriere stilistiche, l’idea di raggiungere
presto quello che in altre parti stava già avvenendo. Quasi come se sapesse
di non avere piú tempo. E nella sua musica la disperazione strisciante è,
forse, quella di chi si sente in ritardo a un appuntamento epocale.
Quasi a voler cercare il conforto di un presente familiare, Johnson
componendo il suo materiale aveva ampiamente attinto a brani preesistenti.
Usava, cioè, frammenti melodici appartenenti ad altri blues per costruire i
suoi. Ma in questa pratica, Johnson mostrò l’ultimo ghigno beffardo del
musicista di grande talento e totalmente postmoderno. L’aveva detto
Stravinskij: il genio non copia, ruba.
La dodicesima stanza

Al termine del nostro viaggio al centro del blues restano molte domande
ancora aperte; e molti problemi senza soluzione. Sulle grandi questioni,
come per esempio la nascita del blues, è possibile solo fare ipotesi. Sugli
aspetti piú legati agli sviluppi storici e stilistici una nuova generazione di
studiosi saprà, auspicabilmente, illuminare zone oscure, disincagliare
pregiudizi, sistemare e correggere punti di vista obsoleti.
Negli ultimi anni, a ogni modo, molte ipotesi alternative sono state
avanzate, e seppure con piccoli e accorti passi, alcuni ricercatori stanno
provando a ricostruire non già la storia del blues – che nella sua linearità
offre gli stessi problemi e le insidie di una qualsiasi altra disciplina artistica
– quanto la sua stessa natura. Ovvero: come si è arrivati ad avere del blues
la percezione che ne abbiamo oggi.
Il vero problema, com’è ormai evidente, risiede nei processi di
formazione del canone blues; del blues abbiamo soltanto la descrizione che
produttori, collezionisti, etnologi, etnomusicologi e antropologi bianchi
hanno tramandato. Questa musica ha ben piú di cento anni, ma abbiamo
iniziato a occuparcene con singolare ritardo, quando i grandi musicisti
erano morti e i loro lavori introvabili, o dimenticati. Il blues che
conosciamo attraverso i dischi prodotti nell’ultimo mezzo secolo, è una idea
di blues, non il blues. C’è dunque bisogno di una nuova visione: piú
periferica e al tempo stesso piú disponibile all’analisi non pregiudiziale di
elementi e fatti. Questo breve capitolo, e il libro che lo contiene, vogliono
essere un modesto contributo.

1. Cosa. Dove.
Non è possibile datare la nascita di qualcosa di cui non si è certi di aver
compreso la natura piú profonda. Quando pensiamo al blues, in verità,
quello che ci viene in mente è una idea complessa, articolata, a piú
dimensioni. Esiste un blues cantato e uno strumentale; un blues che ha una
certa struttura del verso e un altro che ne fa a meno; esiste un blues con una
certa progressione armonica, eppure i piú grandi interpreti sembrano spesso
ignorarla. Esiste un blues pianistico; un blues jazzistico. Un blues dei monti
e uno delle colline. Un blues della costa e uno del Delta. Ci sono musiche in
cui il blues è solo uno degli ingredienti. Allora: di cosa parliamo quando
parliamo di blues?
È assai probabile che – come nel caso del jazz – negli anni in cui
iniziarono a emergere musiche con caratteristiche simili a quelle che
attribuiamo al blues, queste venissero definite o chiamate con nomi diversi.
O non venissero definite affatto. Ma non ci può essere piú alcun dubbio che
musiche analoghe a quella che oggi chiamiamo blues nacquero in posti
diversi, e piú o meno allo stesso tempo. New Orleans o il Texas, il Delta o
gli Appalachi: in ciascuna di queste regioni forme musicali prossime al
blues sono state avvistate ben prima che W. C. Handy si imbattesse nel
bluesman girovago, o “Ma” Rainey nella ragazza tra il pubblico.
Curiosamente, sia Handy che la Rainey si mostrano stupiti, sorpresi: non
avevano mai sentito nulla di simile, hanno detto. Com’è possibile?
Abbiamo testimonianze ormai incontrovertibili: a New Orleans il blues – o
una musica a esso assimilabile – si suonava prima della fine del secolo; in
Texas i pianisti avevano già iniziato a sperimentare nuovi assetti ritmici
applicando la struttura armonica del blues a derivati stilistici del ragtime.
Buddy Bolden e i suoi sodali usavano il blues per esprimere la loro nuova e
potente identità musicale. La risposta è forse piú semplice di quanto possa
apparire: se ci si riferisce al blues rurale, nella sua forma piú tradizionale e
codificata, Handy e “Ma” Rainey hanno ragione; ma la forma a dodici
misure, con la progressione armonica ormai nota, già esisteva in una forma
strumentale.
L’origine del blues non può essere rappresentata con un grafico lineare,
né intesa in senso finalistico. Ha, invece, una struttura rizomatica;
prendendo in prestito l’idea del filosofo Gilles Deleuze possiamo
rappresentarla come una radice, le cui connessioni si sviluppano in un
numero infinito di modi, protendendosi nel terreno secondo una logica non
gerarchica. Il vantaggio è quello di poter collocare con piú precisione e
agilità alcune caratteristiche – come le blue notes, ad esempio – in un
contesto molto piú ampio, che tiene conto di un insieme di tratti stilistici e
morfologici, e non di una famiglia limitata di caratteristiche.

2. Come.
Se si guarda agli sviluppi che il blues ha conosciuto nei primi anni della
sua vita – collocandone la nascita, in via puramente ipotetica, negli ultimi
quindici anni del XIX secolo – si comprende come l’idea, il tentativo, il
desiderio di esprimere una propria visione del mondo abbia assunto l’unica
forma che potesse assumere: quella di un luogo aperto. Aperto alla
contaminazione, e non già rinchiuso nell’idea di purezza in cui il blues è
stato costretto dal canone. Anzi: il blues, o il corpus di musiche che con
questo termine rappresentiamo, ha cercato una sua via, totalmente
rizomatica, dentro linguaggi, prassi esecutive e orizzonti stilistici, mai
circoscrivendo limiti e confini, quanto piuttosto reagendo alla diversità,
introiettandola nel proprio impurissimo codice genetico e riutilizzandola
instancabilmente per creare nuove forme, lingue e dialetti.
Il blues è un laboratorio permanente di invenzione: una musica aperta e
permeabile. È un luogo del possibile, in cui l’impossibile può abitare perché
non esistono norme o regole; esse sono definite dalla funzione d’uso e dalla
risposta del pubblico. Non esiste blues senza pubblico, senza la costante,
febbrile relazione tra chi produce e chi riceve, restituendo. Non esiste
musica afroamericana, diremmo, senza questa biunivocità.
Il blues è tale solo se è capace di negare se stesso. Ed è per questo che
non finisce mai.
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Il libro

N
E S S U N A LT R O G E N E R E M U S I C A L E E P O E T I C O H A S A P U T O Q U A N T O I L

blues raccontare con tanta esattezza sentimenti e speranze di un popolo,


mettendone a fuoco tradizioni, culture e processi adattativi, formandone la
psicologia collettiva e interpretandone le ansie di cambiamento come lo spirito
disincantato e musicante. E nessun altro genere musicale ha saputo permeare di sé
tutta la musica del Novecento.
¶ Nella pur vasta produzione saggistica che negli ultimi vent’anni è stata dedicata al
blues si avvertiva la mancanza di un’opera di riferimento, in grado di ricostruire in
modo criticamente adeguato l’origine e i percorsi di questo grande genere musicale
dalla sua nascita fino alla fine degli anni Trenta, le sue personalità artistiche e
musicali piú affascinanti e misteriose.
¶ Questo volume nasce con l’ambizione di colmare tale vuoto, offrendo al lettore
tutte le informazioni necessarie e gli orientamenti metodologici piú attuali, anche se
controversi, e soprattutto di ricostruire, a partire da un approccio innovativo, gli
aspetti fondamentali della materia come le sue pieghe piú nascoste.
¶ Con linguaggio piano e comprensibile, Vincenzo Martorella disincaglia la storia
del blues dalle secche di una trattazione stereotipata, attingendo alle piú recenti
acquisizioni degli studi di settore, e conducendo l’analisi all’incrocio di una fitta rete
di saperi e conoscenze, nel tentativo di restituire una lettura del fenomeno blues ricca
e circostanziata, depurata dalle distorsioni e dalle conseguenze di certi approcci
superati quanto difficili da sradicare.
¶ Le diverse sezioni del libro ricostruiscono gli aspetti costitutivi della poetica e
dell’estetica blues, dalla storia agli stili, dai processi formali ed espressivi a quelli
stilistici. Particolare attenzione viene riservata all’origine e alla nascita della «musica
del diavolo», allo sviluppo della sua tipica forma in dodici battute, alle conseguenze,
sulla sua natura, della riproducibilità fonografica.
¶ Completa il volume una serie di ritratti critici dedicata ai piú leggendari
protagonisti della musica blues.
L’autore

Vincenzo Martorella, critico musicale e storico della musica, ha insegnato “Storia


della Musica Alternativa”, presso la SSIS dell’Università di Bari, e Twentieth-
Century Music History presso la New York University. Autore di quattro libri, e di
centinaia di articoli e saggi, ha diretto riviste e festival jazz. Collabora con la
Fonoteca Regionale O. Trotta di Perugia.
© 2009 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: foto Russell Lee / Bettmann / Corbis.
Progetto grafico: Fabrizio Farina.

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condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge
applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come
l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei
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rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore.
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Ebook ISBN 9788858411247

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