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In Forty years jazz has travelled from the Red Light district to the concert hall [1].
Morroe Berger
Le Origini
Il 1917 è considerato dagli studiosi, l'anno di nascita del jazz: questo in ragione di due avvenimenti
che vi avvengono e segnano l'inizio della vicenda ormai centenaria di questa musica. Si parla di
nascita "ufficiale", perché il jazz, come ogni autentica musica popolare, non ha un "primo" creatore:
il passaggio dall'elaborazione collettiva all'affermazione delle prime individualità di spicco non è
immediato, quindi non si può stabilire con certezza una "data": i primi passi di questa musica
risalgono alla fine dell'Ottocento, quando non esistevano ancora i mezzi tecnici per poter
documentarne i primi esperimenti e non era ancora nata la ricerca etnomusicologica, che avrebbe
in seguito permesso, grazie alla prassi della registrazione, di salvare dall'oblio moltissimo materiale
musicale di origine popolare, tra cui il blues rurale.
Tanto grande fu il successo che la Original Dixieland Jazz Band venne invitata a tenere concerti
all'estero: a Londra, già nel 1919. La parola jazz venne adottata rapidamente per indicare la
musica da ballo fortemente ritmata, dal notevole impatto commerciale: un affare per i gestori di
sale da ballo, gli editori musicali, le prime case discografiche. Le nuove tecniche di riproduzione
sonora fecero della musica un bene di consumo su larga scala. Nel 1919 vennero costruiti oltre
due milioni di grammofoni e nel 1922 si vendettero più di cento milioni di dischi. [4] Abbiamo citato il
fenomeno della emigrazione nera negli stati del Nord e della sua conseguente urbanizzazione. A
New Orleans, dove la mitologia colloca la nascita di questa musica, negli anni compresi tra
il 1910 e il 1920, viveva la più grossa comunità nera dell'intero Sud degli Stati Uniti; questa
popolazione, economicamente depressa, richiedeva forme di divertimento e spettacoli sportivi o di
varietà e si divertiva anche ad ascoltare cantastorie itineranti che proponevano un repertorio
folcloristico del tutto particolare: il blues, base musicale di tutta la musica afro-americana
successiva. Il jazz nacque come espressione di classi umili, bisognose di una espressione
musicale semplice, capace di esprimere in modo diretto sensazioni e sentimenti. Le sue origini,
vanno ricercate per un verso nella storia del varietà, contenitore di tutta una serie di "numeri" di
arte varia che videro all'opera professionisti o semi-professionisti assai diversi: mimi, maghi,
ballerini, domatori, imitatori, cantanti; e per un altro verso nel già menzionato blues. Questo è
certamente la forma di canto popolare più originale della comunità afroamericana, per la forza
espressiva del suo linguaggio. Sull'importanza del blues si è scritto molto; se ne sono messi bene
in evidenza i lasciti più strettamente musicali e artistici: il rituale schema strofico, l'antifonalità, la
struttura armonica relativamente semplice e l'atmosfera particolare che riesce a creare. Il blues
esprime l'aspetto profano del conflitto razziale, la condizione esistenziale difficile negli stati del
Sud. All'amore verso Gesù espresso nei canti spirituali si sostituiscono storie che raccontano
amori molto più terreni e materiali, fatti di tradimenti, fughe, gelosie, pesanti allusioni sessuali. Ma
non è solo questo. Stando ad Alessandro Roffeni: "Per poter esistere socialmente occorre, nello
stesso tempo, esistere culturalmente, ed una esistenza culturale che non abbia i connotati
dell'autonomia non è più tale; ed è appunto in queste espressioni creative che gli afroamericani
hanno saputo affermare la loro autonoma identità storica e culturale." [5] Il blues diventa l'unica
forma artistica ad avere anche una sua "funzionalità" costruttiva nel riuscire ad opporre resistenza
al razzismo e al capitalismo, cioè a quei vincoli sociali ed economici che permettono il perpetuarsi
dello sfruttamento. A questo aspetto è connesso il rifiuto del blues da parte della borghesia nera,
che lo nega come retaggio di un passato da cancellare, o peggio come sintomo di arretratezza
culturale ed economica.[6]
Secondo lo studioso Jain Lang tutto il jazz deriva dal blues, in ogni sua componente tecnica e
culturale. Le due forme più espressive della cultura afroamericana hanno poi preso strade diverse:
il blues rimanendo ancora per anni una musica da ghetto e diventando un fenomeno commerciale
di primo piano solo negli anni Sessanta; il jazz venendo immediatamente adottato dal mondo dello
spettacolo bianco e diffondendosi rapidamente in tutta America ed in Europa. Naturalmente le
influenze che portano alla nascita del jazz sono più ampie e non si limitano al solo blues e al
varietà, ma includono anche i canti religiosi delle Chiese nere, la musica bandistica, il ragtime…
L'attento lavoro dei ricercatori e degli studiosi, negli anni, ha messo in luce tutti questi aspetti e
molti altri.[7] Notiamo alcune linee evolutive che rimarranno costanti. Una prima è il contributo che
al jazz viene dato dai bianchi, un apporto che non si può disconoscere o sminuire, come ha fatto in
anni passati la critica più ferocemente "arrabbiata", nel tentativo di rafforzare la "supremazia nera"
sul genere. Esiste senza dubbio il problema del saccheggio e dello svilimento della musica operato
da numerosi musicisti e orchestre bianche e un sentimento di "privazione" che prova il nero di
fronte a questa condizione di perenne inferiorità e di evidente discriminazione all'interno del mondo
dello spettacolo. Joachim E. Berendt riferisce l'opinione di un musicista anonimo: "I nostri scrittori
scrivono come i bianchi, i nostri pittori dipingono come loro. Solamente i nostri musicisti non
suonano come i bianchi. Così abbiamo creato la nostra musica. Quando l'abbiamo avuta –si
trattava allora del Jazz vecchi stile- i bianchi sono venuti, l'hanno amata e l'hanno imitata.
Rapidamente essa ha cessato di essere la nostra musica…" [8] Commentando questo stesso
passo, Philippe Carles e Jean-Louis Comolli mettono in luce due aspetti conseguenti al "furto
perpetrato dai bianchi" ai danni del jazz: in primo luogo lo sfruttamento economico, costruito sulla
base di invenzioni e idee altrui, con le quali si possono costruire autentiche fortune (vedi il caso
di Frank Sinatra). In secondo luogo essi lamentano che "l'imitazione, la volgarizzazione"
provocano una deformazione e un filtraggio del patrimonio musicale, con nefaste conseguenze
sulla sua stessa natura ed originalità. Sono opinioni largamente condivisibili, se vengono riferite al
jazz prebellico, alle fortune commerciali legate allo Swing, ma perdono valore in riferimento al be-
bop. Certo, ci saranno sempre casi di commercializzazione della musica, ma il jazz, diventato
forma d'arte non è più un veicolo per la ricchezza: ci sono il pop e il rock. Comunque c'è un aspetto
che Carles e Comolli non rilevano, a proposito del "problema bianco": non sempre i bianchi hanno
"usato" il jazz per "fare soldi"; spesso lo hanno genuinamente assunto come modello espressivo.
D'altronde, le ingiustizie e i torti patiti dalla comunità afroamericana, l'oppressione, la miseria, la
disuguaglianza economica e sociale, l'infelicità della propria condizione esistenziale
l'emarginazione, sono gli stessi patiti dalle altre minoranze etniche. Ebrei, italiani, tedeschi,
polacchi, russi sono vissuti, negli Stati Uniti, in quartieri degradati, costretti a umili lavori e vittime
della discriminazione razziale. L'estrazione sociale dei primi musicisti jazz è simile sia per i bianchi
sia per i neri: le loro origini sono quasi sempre umili e la musica rappresenta sovente l'unica via di
fuga per migliorare la propria condizione di vita. Emblematico è l'esempio citato dei due italo-
americani della Original Dixieland Jazz Band, che hanno collaborato all'incisione del primo disco
di jazz della storia.
I primi musicisti di jazz bianchi sono nella stragrande maggioranza dei casi
provenienti dai paesi citati, cioè emigrati di serie B. Non è forse superfluo
ricordare che il giusto pedigree per avere successo in America è quello del
WASP; (White anglosaxon Protestant). Ci sono poi le altre due importanti
condizioni del carattere etnico e religioso a fare la differenza, oltre a quella
razziale. Nel 1915, ad Atlanta, in Georgia, viene ricostituito il Ku-Klux-
Klan [9] ad opera del pastore metodista Colonnello W. J. Simmons. Il
programma della setta segreta, di carattere decisamente nazionalistico,
annovera tra i suoi punti l'opposizione all'immigrazione negli Usa di cattolici ed
ebrei, allo scopo di salvaguardare la "purezza" della razza americana, e
diffonde l'odio razziale non solo nei riguardi dei negri ma anche contro gli ebrei e i cattolici. Questi
ultimi, ad esempio, venivano incolpati di sostenere l'uguaglianza e la fraternità tra tutti gli uomini. Si
potrebbe pensare ad una limitata e circoscritta diffusione di simili idee, nella società multietnica e
multirazziale americana; però i dati smentiscono questa ipotesi: nel 1923 il clan contava ben
quattro milioni di aderenti, concentrati per la maggior parte negli stati del Sud, con un più forte
retaggio culturale schiavista. E' un vero e proprio seguito di massa, che avrà un
forte peso anche successivamente, giungendo fino agli anni Sessanta, quando
piccoli gruppi ne porteranno avanti la filosofia. Un altro importante fattore che
emerge in questo rapidissimo sguardo sulle origini del jazz è il carattere
itinerante dei suoi protagonisti. Gli Stati Uniti si sono forgiati sul mito della
frontiera, che è contemporaneamente un dato reale, inteso come scoperta e civilizzazione
dell'occidente selvaggio, ma anche un aspetto dell'immaginario pionieristico: la terra promessa
come speranza di una vita migliore e come utopia di un mondo diverso, in cui trionfano la giustizia
e l'uguaglianza. Da essi trae origine il grande mito americano del viaggio con tutti i suoi
protagonisti, e tra essi i poveri e gli emarginati; anche loro alla ricerca di un futuro impossibile.
Impossibile perché l'America di cui stiamo parlando è una società dai violenti scontri di classe,
tenuta unita dal potere unificante del mito del successo. Gli uomini ai margini di questo sistema in
continua e rapidissima espansione sono gli "hoboes", i vagabondi. "Il soldato del reparto d'assalto
dell'espansione americana, l'uomo che portava il sacco-letto in spalla e che combatteva da
mercenario oltre i fortini della comunità, costruendo canali, strade e tracciati, arpionando binari,
abbattendo alberi, cercando petrolio, scavando miniere….fu l'hobo." Kenneth Allsop (1920 -
1973), l'autore di questa descrizione, è forse l'unico ad aver fatto uno studio approfondito su
questa figura, che definisce "un prodotto americano indigeno unico", "…per metà uno schiavo
dell'industria, per metà un avventuriero vagabondo…" Ma l'hobo ha una caratteristica peculiare,
per cui è impossibile ignorarlo, e che Allsop mette in piena luce. (L'Hobo) "era un viandante
selvatico e recalcitrante, malvisto dal cittadino ben sistemato che lo criticava e forse in segreto lo
invidiava. Nel suo campo d'azione, all' aperto, egli andava svolgendo una propria vita distinta e
una propria filosofia: duro, avventato, radicale, sardonico. L'essenza romantica dello "stile hobo"
ha impregnato la canzone, la letteratura e la mentalità americana." [10] Lo spirito dell'hobo impregna
ad esempio tutto il country blues, perché i bluesmen erano degli autentici hoboes che girarono in
lungo e in largo gli Usa facendo i clandestini sui treni e suonando la loro musica dovunque.
"Portavano il diavolo sulla schiena", cioè la loro chitarra, nella visione dei più puritani.
Il processo di sviluppo del jazz nel periodo prebellico può essere suddiviso in quattro
fasi, [12] seguendo la periodizzazione proposta dallo storico Eric J. Hobsbawm, interessante
perché particolarmente sensibile ai legami socioeconomici tra musica e ambiente.
Prima fase: il jazz diventa una base linguistica comune a tutta la musica afroamericana, mentre
alcuni dei suoi elementi (ragtime) vengono assorbiti nel patrimonio della musica commerciale.
Questo momento iniziale si colloca tra il 1900 e il 1917. In una seconda fase, fra il 1917 e il 1929, il
jazz conosce uno sviluppo rapidissimo; precisa sue caratteristiche, e autonome, forme espressive.
Nello stesso tempo, una forma di jazz molto annacquato diventa parte integrante della musica
leggera –da ballo e cantata- di tutto l'occidente. Terza fase, 1929-1941: le forme più autentiche di
jazz conquistano le minoranze culturali europee e i musicisti d'avanguardia. Un'altra forma di jazz,
meno annacquato, lo Swing, si conquista nuovamente uno spazio rilevante nella musica leggera e
da ballo. Dopo il 1941 c'è il vero trionfo internazionale del jazz e il suo deciso riconoscimento
artistico da parte dell'establishment culturale. Questa semplice suddivisione cronologica fornirà
l'ossatura al nostro discorso sul jazz della prima metà del Novecento. Lo stesso termine "jazz",
passato così rapidamente attraverso diverse fasi di sviluppo, si modifica e precisa, acquisendo
ulteriori significati. In parte, queste mutazioni di "senso" nell'uso della parola sono inevitabili
conseguenze della confusione semantica provocata dalla ancora non perfetta conoscenza degli
appassionati coevi riguardo al fenomeno "jazz".
Il Jazz "Attaccato"
Il pregiudizio nei confronti dell'espressione artistica della popolazione di colore era già radicato,
prima ancora della nascita del jazz. Il ragtime, antecedente diretto del jazz, nato alla fine del XIX
secolo, era una musica per pianoforte che associava elementi ritmici tipicamente neri con la
tradizione europea, ed era una musica scritta, raffinata. Eppure già nel 1899 si attirò la stessa
critica di essere "musica degenerata" [15] che quasi quarant'anni dopo fu pronunciata
da Goebbels a proposito dell'Hot jazz.
Fin dai suoi primi passi il jazz non fu considerato solamente come un'altra
espressione della musica leggera, ma elevato al rango di simbolo, e questo gli
attirò le attenzioni del mondo culturale. I giornali pubblicarono articoli in cui si
cercava di spiegare il fenomeno, o più spesso si lasciavano andare a pesanti
attacchi di stampo moraleggiante. Per molti anni il jazz non ha goduto di una
buona stampa, anche se singole voci si sono di volta in volta levate in sua
difesa. Hobsbawm insinua che dietro le parole dei moralisti, dei catoni censori
della musica sincopata, si annidi in realtà una tenace ostilità verso le
classi inferiori. Certamente questo assunto è valido per le parole del
rabbino Stephen T. Wise: "Quando l'America avrà ritrovata la sua anima, il jazz scomparirà, e non
prima; vale a dire che sarà relegato negli antri oscuri e scarlatti donde è venuto…" Gli antri oscuri
a cui si fa riferimento nel testo sono i bassifondi degradati delle grandi città, dove è costretta a
vivere la stragrande maggioranza della popolazione nera.
"Perché esiste la musica jass, e di conseguenza il jass band? E' lo stesso che chiedersi il perché
dei romanzi tascabili o della gomma da masticare. Sono tutte manifestazioni di cattivo gusto, un
gusto che non è ancora stato depurato dalla civiltà." Questo è l'incipit del conosciutissimo attacco
pubblicato dal quotidiano Times-Picayune di New Orleans nel 20 giugno del 1918. [16] Già queste
prime parole rivelano in chi scrive una mentalità da colonialista classico, portatore dei "giusti" valori
occidentali al buon selvaggio ancora ignaro; c'è inoltre la presunzione, tipica di un certo
paternalismo razzista, di sapere a priori ciò che è bene o male per un popolo considerato inferiore,
e dunque incapace di decidere per sé medesimo. E' il padrone dunque a sobbarcarsi questa fatica,
decidendo a priori. Acceso difensore dei valori morali, oltre che dello status quo politico- sociale,
l'ignoto giornalista prosegue la sua filippica: "…la musica jass è la storia sincopata e
contrappuntata dell'impudicizia. (…) Il jass offre un piacere sensuale più intenso di quello dei
valzer viennesi o dei sentimenti raffinati e rispettosi del minuetto del 18esimo secolo. (…) Sta a noi
essere gli ultimi ad accettare queste sconcezze nell'ambito di un consorzio civile."
E' curioso rilevare come i motivi addotti dai benpensanti americani per rigettare il Jazz, siano gli
stessi che portano la borghesia europea ad accettarlo così rapidamente, stanca di annoiarsi con i
valzer viennesi. I " ruggenti anni Venti", sono il momento del divertimento, c'è il desiderio e la
necessità di dimenticare in fretta gli orrori e le devastazioni provocati dalla grande guerra. Questo
non significa che l'Europa sia immune dalle critiche nei confronti del jazz, ma queste assumono un
carattere più pacato, sovente prendono la forma della curiosità per gli aspetti più folcloristici di un
paese lontano e ancora poco conosciuto. Una corrispondenza del 1926 dagli Usa, pubblicata dal
Corriere della Sera, aveva per titolo: Musicista dei vecchi tempi morto di crepacuore ad un
concerto di Jazz. Naturalmente simili reportages improntati sul tragicomico non aiutavano
minimamente i lettori ad accostarsi nella giusta maniera al fenomeno. Nonostante i giornali si
schierino contro il jazz, l'Italia, come il resto d'Europa, è assetata di nuovi divertimenti. Aprono i
primi locali notturni, rinasce la vita mondana. "Nei ritrovi notturni scivolano sottobanco le prime
dosi di Cocaina e si spendono biglietti da mille con una prodigalità che qualche anno prima
avrebbe fatto inorridire." Nasce un nuovo mondo fatto di ballerine, soubrettes, viveurs…[17] Già
nel 1920 un'orchestra italiana porta il nome di "Ambassadors jaz band" e nel 1922 il quotidiano il
Messaggero, commentando la nuova moda, scriveva: "…Abbiamo una spiccata tendenza ad
ammirare ogni novità che ci venga recata dall'estero, comprendendo nella parola "estero" anche le
civilissime tribù dei cannibali." Prosegue l'articolo a firma di un certo Labb.: "In quell'orchestra che
onora le sale dei ritrovi mondani e degli alberghi di lusso dove la società scelta passa la notte
ballando, lo strumento più delizioso per gli orecchi è una tromba d'automobile. Una modesta
tromba di automobile che riesce a far guadagnare parecchie centinaia di lire al giorno a chi la
maneggia." Certamente quello che veniva portato nei locali alla moda del nostro Paese era un
genere musicale che non aveva molto a che vedere con il jazz autentico degli afroamericani, che
proprio in quegli anni ne stavano forgiando le caratteristiche. C'è però chi, come Alfredo Casella,
tornato da un viaggio negli Stati Uniti, scrive: "Fra tutte le impressioni sonore che un musicista può
aver provato agli Stati Uniti, quella che domina ogni altra per la sua originalità,
la sua forza di novità e anche di modernismo, la sua enorme dotazione infine
di dinamismo e di energia propulsiva, è senza dubbio la musica negra, detta
jazz.(…). Arte fatta innanzitutto di ritmo, di un ritmo brutale spesso, altre volte
invece dolce e lascivo, ma ritmo sempre di una forza barbarica che
smuoverebbe un cadavere, ritmo che per la sua ostinazione, la sua tremenda
forza motrice, ricorda non di rado le pagine più eroiche di Beethoven o
di Stravinskij, ritmo infine che sembra -di fronte alla nostra decadente, super
raffinata musica europea- risuscitare la frenesia, la energia orgiastica
di Dyonisos." [18]
Dunque non mancano i pareri autorevoli, ed acuti, sul jazz, in Italia come in
Francia, di musicisti d'avanguardia come Darius Milhaud (Aix-en-Provence, 4
settembre 1892 - Ginevra, 22 giugno 1974) e il direttore d'orchestra Ernest
Ansermet (Vevey, Switzerland, November 11, 1883 – Geneva, February 20,
1969), e in molti altri Paesi d'Europa. Il clima dunque non è sfavorevole nel suo
complesso. Grazie a queste particolari condizioni molti musicisti americani
trovarono in Europa rifugio e lavoro, dopo che la crisi del 1929 aveva ridotto
drasticamente le possibilità di ingaggio nel loro paese. Finalmente negli anni
Trenta il vecchio continente potè apprezzare i migliori esponenti della musica
nero-americana: Louis Armstrong, Sidney Bechet, Duke Ellington; questo
contribuì grandemente a creare una piccola, ma agguerrita schiera di appassionati e musicisti del
jazz meno commerciale, che avrebbe contribuito enormemente allo sviluppo di questa musica.
La "Swing Craze"
Tra gli anni Trenta e la seconda guerra
mondiale nasce, si sviluppa ed esplode la moda
del jazz, con il fenomeno della "Swing craze", la
"pazzia" per la musica sincopata. Dapprima
sono le musiche nere utilizzate per gli spettacoli
di varietà a interessare il pubblico bianco, con il
loro fascino esotico e la forte carica
vitalistica. Shuffle Along, del 1921, è la rivista
che lancia la giovanissima ballerina Josephine
Baker (3 giugno 1906 - 12 aprile 1975), e
impone al mondo intero la novità della cultura
"negra". Contemporaneamente, George
Gershwin (Brooklyn, New York, 26 sett 1898 -
Hollywood, 11 lug 1937) riconosce nel jazz la più autentica forma di arte popolare americana e vi si
ispira per i suoi capolavori. Gli anni del conflitto mondiale sono scanditi dallo swing, una musica
che non conosce barriere, e viene suonata in Italia e in Germania come in Francia o Inghilterra e
che al termine del conflitto, sarà identificata come la musica della liberazione; perché i dischi di
swing arrivavano con i "liberatori" americani. Un'affermazione spettacolare, rapida che difficilmente
trova paragoni in altre forme artistiche. Il jazz diventa un "linguaggio comune" in America ed in
Europa prima di aver acquisito una sua fisionomia definita. Si fa un gran discutere su quale sia il
vero jazz, tra orchestre da ballo e tentativi sinfonici; questo perché gli esponenti migliori di questa
musica suonano ancora ad Harlem o nel South Side, il ghetto di Chicago. Il jazz nero si fa
conoscere molto lentamente. Sono i bianchi a diffondere e a commercializzare per primi questa
musica, come è bianco il primo "re del Jazz", Paul Whiteman (28 marzo 1890 – 29 dicembre
1967) . Dopo, e prima di lui, molti altri sono stati i "re" e gli "inventori" di questa musica. Alcuni,
come Jelly Roll Morton (October 20, 1890 – July 10, 1941) e Clarence Williams (8 ottobre 1898
– 6 novembre 1965), si fanno addirittura stampare i biglietti da visita con questa dicitura.
Il fulcro dell'attività di Marcus Garvey è ad Harlem dove hanno anche sede le riviste negre che
diffondono la Negro Renassaince letteraria. Harlem è dunque la capitale culturale del mondo nero,
e proprio in questo periodo è soprannominata dagli avventori la "Parigi Nera". I bianchi vi si recano
per assaporare nuove emozioni dal sapore esotico, i canti e i balli dei neri come manifestazioni del
"primitivo", gli afroamericani sono viste come creature semplici, "figlie della natura", il cui
messaggio è importante nella misura in cui aderiscono a questo stereotipo. Lo stile "jungle"
che Ellington pratica negli anni della sua permanenza al Cotton Club è una concessione alla
moda del primitivismo. Si tratta di musiche basate su un forte effettismo sonoro, dove gli strumenti
dell'orchestra "grugniscono, gemono, ansimano" accompagnando balletti e spettacoli con esotiche
evocazioni della giungla africana e scene erotiche. Secondo Walter Mauro lo stile jungle che
caratterizza i primi tempi dell'orchestra di Duke Ellington è dovuto all'indifferenza del compositore
verso i modelli culturali occidentali, il quale in questo periodo "non sarebbe ancora del tutto
emancipato" dal rapido processo di presa di coscienza. Questo è un aspetto della questione, però
non bisogna dimenticare i pesanti condizionamenti commerciali imposti alle orchestre di swing in
questi anni. Duke Ellington ha superato la crisi economica del ‘29 anche incidendo canzoni alla
moda e lavorando al Cotton club; ma, quando è diventato sufficientemente conosciuto ed
affermato, ha tentato subito di innalzare la sua musica alle vette dell'arte depurandola dalle scorie
imposte dal primitivismo. Il critico nero Leroi Jones ha sottolineato a questo proposito come la
musica di Ellington dichiaratamente "africana" nei suoi assunti ha assai meno a che vedere con
l'Africa della sua musica migliore, quella che può essere a buon diritto definita afroamericana. Lo
stile jungle invece, su di un piano squisitamente sociologico non è che una mistificazione del
concetto di Africa. Non si realizza quella sintesi di Africa-America che è l'unico modo di concepire
un recupero autentico delle radici, perché Ellington si basa su di un immagine mitica e favolistica
del continente nero, influenzato dall'immagine che di questo si aveva nella società bianca
americana, un'idea intrisa di paternalismo, per cui l'Africa era un paese arretrato, abitato da
popolazioni primitive secondo il metro di valutazione occidentale e che andavano civilizzate. La
loro cultura non era tale agli occhi del bianco e poteva venire considerata al massimo come un
aspetto folcloristico o un divertimento.
Duke Ellington attraversa indenne la crisi di coscienza provocata dal recupero delle proprie radici
storiche, non si pone il problema di definire la sua identità di fronte alle pressioni della cultura
occidentale. L'angoscia di Langston Hughes del "Continente nero", lo dipinge come una specie di
Paradiso perduto, ignorando volutamente ogni considerazione di carattere realistico. Si è parlato
di Duke Ellington per dimostrare che i fermenti culturali germogliati ad Harlem negli anni venti
sono stati la base di partenza in questo processo di riappropriazione culturale e di creazione
artistica e letteraria. Sono piccolissimi segnali che mostrano come alcuni esponenti della comunità
nera, in special modo quella cittadina dei ghetti del nord, si stanno affermando come intellettuali e
portavoce della comunità. E' un discorso che vale per Duke Ellington come per Marcus
Garvey e, con un'influenza molto più circoscritta, per Langston Hughes. Da qui a parlare di
consapevolezza il passo è ancora molto lungo. L'Autobiografia di Ellington è significativa da
questo punto di vista. Figlio di benestanti della borghesia di colore di Washington (il padre era
cameriere alla casa bianca), il giovane Edward Kennedy ebbe la possibilità di crescere in una
discreta agiatezza economica e ricevette una buona educazione generale. Queste origini,
sicuramente diverse da quelle della maggioranza dei suoi coetanei neri, lo portarono a non tradire
mai una certa fede nel sogno americano. "Ci sono migliaia di persone negli Stati Uniti che sono
nate povere e sono diventate milionarie o hanno raggiunto posizioni politiche molto potenti. E' una
questione di occasioni, competitività e fortuna", scrive Ellington nella sua autobiografia [25].
Duke Ellington e la sua orchestra fecero numerose tournées per il Dipartimento di Stato come
rappresentanti della cultura americana nel mondo. Naturalmente il governo degli Stati Uniti ha
ricavato un notevole vantaggio in termini di pubblicità interna e di ritorno di immagine a livello
internazionale, in anni di forte contrapposizione ideologica tra i blocchi. Il riconoscimento ufficiale e
prestigioso della dignità della musica e della cultura afroamericane sono un biglietto da visita di
rispettabilità che coprono il regime segregazionista ancora in vigore negli stati del sud e il
crescente fermento all'interno della comunità di colore per la conquista dei diritti civili. Senza
dimenticare la forte valenza simbolica di apertura liberale nell'eleggere a rappresentante di un
paese come gli Stati Uniti la musica di una sua minoranza. Durante una di queste Tournée,
nel 1963, in conferenza stampa Ellington, invitato a parlare della questione razziale negli USA,
dichiarò: "Dovunque ci sono diversi livelli di ricchezza e povertà, minoranze, maggioranze, razze,
fedi, colori e caste. Gli Stati Uniti hanno un problema di minoranze, i negri sono uno dei numerosi
gruppi in minoranza, ma la base di tutto il problema è una questione economica più che di colore."
L'atteggiamento di Ellington è cauto e moderato fino all'eccesso nei turbolenti anni Sessanta, la
prudenza delle sue parole tradisce la sua appartenenza ad una generazione precedente, quella
che negli anni Venti e Trenta lottò per conquistare una identità, ma che non riuscì a trasferire sul
piano politico e sociale le proprie rivendicazioni scegliendo di agire di preferenza nel campo
musicale o letterario. Ha ragione Walter Mauro quando afferma che Ellington agisce nell'ambito
della cultura negra comportandosi come un osservatore esterno, con un atteggiamento in parte
evasivo della realtà, che noi possiamo constatare in uguale maniera nelle sue suites jazzistiche,
sempre perfette dal punto di vista formale, e nelle sue dichiarazioni che invece sono capolavori,
non d'arte, ma di diplomazia.
La figura di Duke Ellington, per la peculiarità delle sue caratteristiche e per la longevità del
protagonista: nato nel 1899 e morto nel 1974, ha attraversato tutta la storia del novecento
americano e non si è identificata con un momento particolare della storia dei neri. Non può essere
dunque presa come modello di una valutazione del rapporto tra jazz e società americana degli
anni Venti e Trenta. Anzi, la sua atipicità va contrapposta a quella di tutti gli altri jazzisti, non solo di
quelli a lui contemporanei.
"Trombettisti in America"
Tra i jazzisti degli anni Venti, due figure sono emblematiche nel delineare il
contesto socio-culturale. Si tratta di personaggi apparentemente lontani tra
loro, entrambi stritolati dal sistema, sebbene in modo diverso: mi riferisco al
cornettista bianco Bix Beiderbecke (Davenport, Iowa, 10 ottobre 1903 - 6
agosto 1931) e a quello nero Louis Armstrong (New
Orleans, 4 ago 1901 – 6 lug 1971) (peraltro i due si
conoscevano ed apprezzavano
reciprocamente). Differenti per la provenienza
sociale: il primo è figlio di immigrati tedeschi,
economicamente ben inseriti; il secondo, cresciuto
nel ghetto nero di New Orleans ha un'infanzia
disagiata e conosce anche, in tenera età il
riformatorio. Differenze sociali che si riflettono in differenze
culturali: Beiderbecke era il prodotto di una sottocultura che emulava da
vicino la cultura ufficiale e viveva, nello stesso tempo una ribellione
esistenziale contro i simboli sacri della "sua" cultura che non lo
accettava. Armstrong invece era un rappresentante riconosciuto della cultura della sua gente, un
prodotto accettato della sua società. Armstrong non si ribellava contro qualcosa perché non
sentiva il peso di una "cultura ufficiale" ostile, suonava la musica afroamericana più bella mai
prodotta fino ad allora e il suo valore era immediatamente riconosciuto, su di un piano emotivo, dai
neri. Nella metà degli anni Venti incidono i loro pezzi più riusciti dal punto di vista artistico. A partire
da questo momento incomincia il declino; inspiegabile se si pensa alla loro giovane età (entrambi
hanno in questo periodo meno di trent'anni), e al talento di cui sono sicuramente dotati e di cui
hanno dato buone prove. Invece il loro declino è spiegabilissimo se osserviamo la loro vicenda
umana da un altro punto di vista: la società americana degli anni venti non è ancora pronta ad
accettare un fenomeno di rilevanza artistica "nero" e dalle origini umili e popolari. Certamente gli
afroamericani, e gli immigrati italiani, ebrei o tedeschi possono diventare musicisti e suonare, ma il
tutto deve venire all'interno delle forme classiche dell'intrattenimento e deve produrre risultati
interessanti soprattutto dal punto di vista economico. I musicisti devono insomma far divertire la
gente, farla ballare. Lo spazio per l'espressione pura è molto limitato e comunque si deve sempre
abbinare alle esigenze intrinseche di commercializzazione e vendibilità che un prodotto deve
avere. Pensiamo al caso di Bessie Smith (July, 1892 – September 26, 1937) che in quegli anni
registrò 170 blues, molti dei quali sono classici senza tempo della musica nera, vendendo circa
dieci milioni di dischi: una cifra enorme per l'epoca. [26] Ma è il successo commerciale la ragione per
cui alla Smith fu data l'opportunità di incidere così tanto; i numeri riportati non
possono lasciare dubbi. Se le possibilità di espressione dell'artista sono tanto
strettamente legate alla capacità di "vendere", non si può avere come risultato
che un appiattimento su melodie semplici, su musiche non elaborate e non
impegnative per la mente dell'acquirente, su liriche –quando il brano è cantato-
incentrate sui temi classici della canzonetta: amore, gelosia, buoni sentimenti
vari…Il risultato di queste imposizioni e limitazioni è l'alienazione dell'artista
che non riesce a percepirsi come tale e sentendosi un semplice intrattenitore
accetta dietro le pressioni del mercato di corrompere la sua musica a favore
della platea. Questa è la triste fine di Louis Armstrong, che, dopo aver
praticamente da solo cambiato le sorti del jazz, incidendone i primi capolavori
assoluti, si è sempre più ridotto al rango di entarteiner in spettacoli di varietà.
Armstrong si comporta come un Sambo, [27] il giullare nero che sorride sempre e lancia comiche
occhiate, ma questo accade perché lui si ritiene prima di tutto un uomo di spettacolo e mette
innanzi le esigenze del pubblico, che cerca di compiacere in ogni modo. Ed è il pubblico bianco di
tutto il mondo, non solo d'America a richiedere ad Armstrong "divertimento" e a decretare a
questo Armstrong una popolarità immensa. Scrive Arrigo Polillo nella sua storia del Jazz:
"Armstrong crebbe in un'epoca in cui il nero americano non poteva permettersi il lusso di fare
dell'arte, ma poteva al più divertire il prossimo. Non si prese sul serio perché non venne preso sul
serio se non da una pattuglia di intenditori; fece il giullare perché capì subito che quello era il ruolo
che la società gli aveva assegnato, e si preoccupò sempre di far contenta la platea, e anche il
loggione, perché gli avevano insegnato che ogni persona del pubblico (bianco, come fu quasi
sempre quello che si trovò dinanzi) era più importante di lui e meritava del riguardo." [28] Quando
parlo di influenze del contesto sociale mi riferisco proprio a questi condizionamenti che delimitano
il campo d'azione di un nero al varietà, all'intrattenimento; il ruolo assegnato dalla società, quello
che impedisce ad un'artista di fare arte. Il caso di Armstrong è emblematico ma non è certamente
isolato. Si potrebbe ricordare ancora Fats Waller (New York, 21 maggio 1904 - 15 dicembre
1943), le cui ambizioni di diventare concertista classico furono frustrate da un mondo che non
poteva accettare un pianista nero competere in un territorio di pertinenza esclusiva dei
bianchi. Waller dovette adattarsi a lavorare alla radio come interprete di canzoni di successo e
cantante oltre che pianista. Ancora dalla storia del jazz di Polillo: "fu proprio la comicità del suo
modo di cantare, con tutti quegli ammiccamenti, il roteare degli occhi, e quelle soppracciglia che
andavano su e giù, che assicurò a Fats una immensa popolarità internazionale." Secondo una
logica strettamente economica l'industria vende ciò che il pubblico vuole e
il Fats Waller clown, messe da parte le sue ambizioni di musicista serio,
ottiene fama e denaro. Con il suo gruppo incise quattrocento pezzi di cui solo
undici sono assoli di piano: i numeri rivelano meglio delle parole la situazione.
Naturalmente una simile situazione non può che portare all'alienazione: "…
doveva anzitutto far ridere il pubblico; se per poco si distraeva, e si metteva a
suonare seriamente, per sé solo, veniva presto richiamato all'ordine da qualche cliente: Come on,
Fats, sveglia Fats. -E Fats borbottava rassegnato- Sì, sì, eccomi." Il conflitto insanabile all'interno
della sua personalità tra il musicista serio e il clown non passarono senza lasciare tracce. Fu
ucciso dall'alcool, come Bix Beiderbecke. Non voglio andare alla ricerca di facili analogie, né
tantomeno tentare una lettura in chiave psicologica del loro abuso di alcool, come palliativo alle
frustrazioni artistiche. Comunque il caso di Beiderbecke resta emblematico: morì nel 1931 all'età
di ventotto anni, dopo aver dissipato in maniera sciagurata il suo enorme talento. Unico musicista
bianco a non copiare i neri ma a suonare in uno stile proprio esprime le sue potenzialità in
pochissimi pezzi. Per motivi economici deve accettare scritture in grosse orchestre da ballo, tra cui
quella di Paul Whiteman, famoso in tutta America come "re del jazz", ma che invece propone
musiche commerciali di tipo sentimentale, solo vagamente imparentate con il jazz autentico.
Riceve un compenso di 200 dollari la settimana, tre volte tanto la paga di Armstrong con
l'orchestra di Fletcher Henderson (Fletcher Hamilton Henderson, Jr. : Cuthbert, GA, 18 dic 1897 -
New York, 29 dic 1952) di qualche anno prima. Ma Beiderbecke era alla ricerca di qualcos'altro,
cercava la perfezione nella musica e il suo In a mist ( ), con i suoi echi debussiani, era un piccolo
quadretto musicale, assolutamente diverso da tutto quanto si era provato nel jazz fino ad
allora. Paul Whiteman ha detto di lui che "lottava per raggiungere la bellezza" e in un tempo
dominato dalle melodie facili, straripanti di sentimentalismo che Tin Pan Alley proponeva quella
non era una strada praticabile. I suoi sforzi assieme a quelli di Louis Armstrong e Duke
Ellington contribuirono a far diventare il jazz una forma d'arte. Molti, come lo
stesso Beiderbecke, Fats Waller o Bessie Smith pagarono invece un alto costo personale per
poter affermare questo principio. La loro lotta fu totalmente inconsapevole: nessuno di loro ha mai
rilasciato dichiarazioni che lasciassero trasparire questa difficoltà, non c'è una elaborazione teorica
dietro le loro opere. Si potrebbe quasi parlare di arte inconsapevole. Il jazz, come l'uomo di
colore tout court, manca di una coscienza. Bix Beiderbecke e il Louis Armstrong degli anni venti
ricordano l'omino di Chaplin stritolato dai meccanismi della macchina, solo che a stritolare il primo
e ad annichilire le capacità artistiche del secondo sono gli ingranaggi della società. Questa è la
conclusione di Leroi Jones che pure paragona i due trombettisti. [29] "L'incredibile ironia della
situazione era che ambedue stavano in posizioni analoghe nella sovrastruttura della società
americana: Beiderbecke, per l'isolamento che comporta ogni deviazione dalla cultura di massa; e
Armstrong, per l'estraniamento storico-sociale del negro in America". [30] Ma il grande trombettista
non è solo questo. E' anche ansia di riscatto e voglia di riuscire che emerge netta dalla sua
autobiografia. In essa Louis descrive la sua infanzia e i suoi primi successi a New Orleans, in un
crogiuolo dove si mescolano la violenza e il razzismo, la discriminazione e la vitalità della città più
interculturale e meticcia d'America [31]. Accusato di "ziotommismo", va riconosciuto
ad Armstrong di essere uscito dal ghetto e aver portato con sé il jazz in giro per il mondo.
Naturalmente questo è il lato sociale, il periodo artistico e creativo del Louis musicista "serio"
finisce con gli anni Trenta. Da lì in avanti rimarrà solo un validissimo intrattenitore.
Gli anni trenta sono caratterizzati dagli effetti della Depressione. Dapprima l'indigenza e la
disperazione causate dal crollo del mercato finanziario e da quello conseguente del mondo
produttivo, che si accompagnano ad una crisi politica, con il modello liberistico messo in
discussione visti gli esiti disastrosi cui ha portato. E' anche una crisi d'identità del mito americano,
la nazione del progresso e delle possibilità per tutti si interroga su cosa non ha funzionato nel suo
sistema e ha portato milioni di persone alla povertà. Solamente dal 1935 l'economia americana
mostra i segni della ripresa, si incominciano a sentire gli effetti positivi della nuova politica voluta
da Roosevelt e conosciuta come New Deal. La disoccupazione rimane alta, specialmente nella
popolazione di colore che per sopravvivere deve fare sempre più spesso ricorso ai sussidi statali
(nel 1935 è il 65% dei neri in età da lavoro a farvi ricorso). L'avvenire, dopo anni di incertezza,
appariva più roseo e tra i giovani c'era nuovamente voglia di divertimento e spensieratezza. Ecco
spiegato il successo dello "swing" [32], una musica eccitante, festosa, che aiuta a dimenticare le
difficoltà patite. Lo Swing non era altro che il jazz delle grandi orchestre negre di Fletcher
Henderson, Cab Calloway, Jimmie Lunceford e Count Basie adattato alle esigenze
commerciali: il ritmo era stato reso più scorrevole per permettere il ballo, le melodie erano costruite
su riffs semplici e di grande effetto, più "orecchiabili" per il grande pubblico. Nei repertori delle
orchestre erano sempre più presenti canzoni sentimentali del repertorio di Tin Pan Alley.
Il jazz, che già negli anni venti era riuscito a farsi vera e propria arte, nelle mani
di Armstrong o Beiderbecke, si piegava ad essere una musica di intrattenimento, un prodotto di
largo consumo, una moda, per dirla con Adorno; e dunque venne agevolmente accettata dall'
establishment, non provocò più quelle reazioni negative e scomposte che avevano perseguitato
l'autentico jazz "nero" del decennio precedente. Era una musica perfettamente funzionale al
contesto sociale in cui veniva prodotta e "consumata". Rispecchiava fedelmente l'ideologia dell'
epoca, era la colonna sonora della ripresa economica e della spinta in avanti, vera e propria fuga
dagli orrori della Depressione. E' un prodotto culturale di consumo immediato, nato da un bisogno
del pubblico e non da una ricerca artistica autonoma. Con la loro usuale analisi
ipercritica, Carles e Comolli rilevano come lo swing restituisce una immagine "dinamica" del
nuovo capitalismo americano. "Questo swing, con la regolarità di una macchina ben rodata, con
l'alternarsi rassicurante di tensioni e distensioni sempre rinnovate, con il movimento per il
movimento, diventa perfino l'emblema, il prodotto e il marchio di fabbrica del culto che l'ideologia
capitalista dedica ai comforts, al ritmo, al movimento, all'agitazione, in breve a tutto ciò che può
esorcizzare, non fosse che nominalmente, lo spettro della recessione".
[33]
Nonostante un'applicazione del modello marxista di struttura-
sovrastruttura troppo rigidamente deterministico, nessun critico o storico
del jazz, neanche il più neutrale politicamente, si sognerebbe di negare il
binomio tra commercialismo e scarsa propensione artistica dello swing.
Le orchestre bianche che si dedicarono al nuovo "affare" furono un
numero impressionante: l'avvento della radio aveva contribuito a rendere
la musica accessibile agli strati più popolari e portava via etere il suono
delle orchestre in ogni parte d'America.
[1] Morroe Berger "The New popularity of jazz". Saggio pubblicato in: Bernard Rosenberg, David
Manning White, "Mass culture. The popular arts in America", Chicago: The Free Press, 1957, pp.
404-407.
[2] Accredita questa etimologia tra gli altri Eric J. Hobsbawm, "Storia soociale del jazz", Roma:
Editori Riuniti, 1982, p.96. Questo lavoro fu pubblicato da Hobsbawm nel 1961, con il titolo The
jazz scene, sotto lo pseudonimo di Francis Newton. L'importanza dell'autore, uno dei maggiori
storici contemporanei, nonché la serietà metodologica e argomentativa, ne hanno fatto un'opera
fondamentale per lo studio su basi scientifiche del jazz.
[3] Eric.j. Hobsbawm, "Storia sociale del Jazz", op. cit., p. 96.
[5] Alessandro Roffeni, "Blues, ballate e canti di lavoro afroamericani", Roma: Newton
Compton, 1976, p.22.
[6] Afferma Roffeni a questo proposito: "Oggi come allora i portavoce della borghesia nera parlano
di andare avanti, di muoversi verso traguardi più elevati (per sé stessi) all'interno del sistema
vigente, e mai di mettere questo in discussione, di trasformarlo, di combatterlo. (…) si può
rintracciare un filo continuo… lungo cui si incontrano, a livello socio-istituzionale, le Chiese
autonome nere, le associazioni integrazionistiche come la NAACP, la NUL e il CORE, il movimento
per i diritti civili di Luther King ed il capitalismo nero travestito da nazionalismo culturale, e a livello
artistico-espressivo, organicamente legato al primo, i gospel songs, gli spirituals da concerto, il
jazz più svirilizzato richiesto dai dancings per bianchi, e financo il folk blues. Questo ininterrotto
filone socio-culturale, esprimente posizioni ed atteggiamenti oscillanti tra i piccolo- ed i medio-
borghesi, ha però sempre trovato il suo contraltare in un altro filo continuo attraversante il
procedere storico degli afroamericani, il quale ora si è svolto in netta antitesi rispetto al primo, ora,
invece, si è intrecciato ad esso dando vita a momenti e fenomeni complessi e di difficile
definizione. Comunque sia, esso ha saputo dare di sé manifestazioni memorabili: dalle sommosse
degli schiavi alle attività abolizioniste dei neri liberi, dal pensiero e dall'opera di Du Bois a quella di
Marcus Garvey, da Malcom X (Omaha, Nebraska, 19 maggio 1925 - New York City, New York, 21
febbraio 1965) ai black panthers dei primi anni; e, non certo ultimi per importanza, i canti del
diavolo intonati dalle umili masse nere non riconciliate e non piegate: i Worksongs, i blues." Ho
riportato questo lungo passo di Roffeni (op.cit), perché, nonostante sia viziato da un troppo rigido
schematismo nel trattare il problema delle due anime presenti nell'evoluzione storica della
comunità nera e, a mio giudizio, idealizzi troppo la funzione del blues come musica di protesta, (io
parlerei per il Blues di musica di resistenza passiva), l'assunto di fondo è corretto e in buona parte
condivisibile.
[7] Una bibliografia sugli studi pubblicati in Italia, comprendente anche gli autori stranieri tradotti, si
trova in: Gian C. Roncaglia, "Italia Jazz Oggi", Anzio: De Rubeis, 1995.
[9] Il Ku-Klux-Klan è una setta segreta nata nel 1866 in una cittadina del Tennessee, subito dopo la
fine della guerra di secessione; fu dichiarata fuorilegge nel !869. I dati riportati sul numero di
aderenti al clan sono stati desunti dall'introduzione di Carmen D'Eletto e Lucrezia Tesè a: Harper
Lee, "Il buio oltre la siepe", Torino: Loescher Editore, 1981, pp15-18. Il romanzo è, tra l'altro, una
splendida testimonianza sul clima di "conformismo razzista" degli stati del Sud ad inizio secolo.
[11] L'affermazione di Alan Lomax è riportata da Kenneth Allsop, op. cit., p.280.
[13] Winthrop Sargeant, "jazz hot and hybrid",New York: Da Capo Press, 1946, (prima ediz.), p.47
[14] Tin Pan Alley è una strada di New York dove hanno sede gli uffici di molti editori musicali. Per
estensione è diventato il soprannome dei luoghi dove viene composta la musica commerciale e di
un certo tipo di musica leggera, superficiale e poco impegnativa sotto l'aspetto della fruizione.
[15] "The musical Courier", 1899, citato da Leonard Feather in "The Book of Jazz", Meridian Book,
New York, 1959, p.8.
[17] Il viveur è un personaggio tipico di quel mondo composto da nottambuli che si danno alla
"bella vita". Petrolini lo accosta al fine dicitore, altro personaggio caricaturale: "ricercato nel vestire,
ricercato nel parlare, ricercato dalla questura." Michele Serra, "Questo strano secolo 1901-1960",
Milano: Rizzoli,1960.
[18] Le citazioni dagli articoli sul Jazz in Italia e la testimonianza di Casella sono tratte da: Adriano
Mazzoletti, "Il Jazz in Italia. Dalle origini al dopoguerra", Bari: Laterza, 1983. Il testo contiene
un'abbondante documentazione sulla campagna di stampa contro il jazz, pp.186-195.
[20] Il ghetto nero di Chicago che rimane impermeabile alle influenze esterne diventa la culla del
blues urbano, una musica rivolta espressamente ad un pubblico nero, con forti radici nella
tradizione. New York con la sua Harlem aperta ai bianchi e alle più disparate influenze culturali è
dalla metà degli anni venti la patria del jazz, un tipo di musica meno legata (almeno in questi anni)
al discorso razziale. Un interessante tema di ricerca potrebbe essere lo studio comparato dei vari
ghetti americani, che potrebbe mettere in evidenza la stretta relazione tra condizione sociale e tipo
di espressione artistica e culturale prodotta. Per rendere l'idea concreta della segregazione
razziale basta confrontare una mappa della città di Chicago che riporti segnate le zone residenziali
nere, la Black Chicago ed una che evidenzi i locali in cui si suona blues. Sovrapponendo le due
cartine si può notare come tutti i clubs sono rigorosamente all'interno dei quartieri–ghetto. Le
cartine si riferiscono agli anni 50 e sono tratte da: Mike Rowe, "Chicago Breakdown", New York:
Drake Publishers,inc,1975.
[21] Walter Mauro, "Jazz e universo negro", Milano: Rizzoli Editore, 1972, p.108. l'autore dedica un
intero capitolo, il quarto, all'analisi delle tematiche sviluppate in queste pagine: "Duke Ellington e la
cultura nera"; la citazione di Vic Bellerby è tratta dallo stesso lavoro di Mauro, p.108.
[22]Langston Hughes, op. cit. pp.11-46. Sul rapporto tra Hughes e il Jazz scrive la Piccinato
nell'introduzione: "Egli avverte in profondo tutta la forza eversiva, la potenzialità creativa di un
prodotto della cultura autenticamente afroamericana, che come tale circola e agisce al di fuori di
quella minoranza, fino ad essere uno dei pilastri della moderna cultura degli Stati Uniti." Langston
Hughes usa il ritmo e la tecnica del jazz in poesia per innalzare un monumento ad Harlem vista
come simbolo di tutta la minoranza Afroamericana.
[23] Charles E. Silberman, "Crisi in bianco e nero", prefazione di Roberto Giammanco, Torino:
Einaudi Editore, 1965, pp. 170-172, 182. Silberman analizza la figura di Garvey anche nei suoi
aspetti più spettacolari gli stessi che tanto facevano inorridire la buona borghesia nera che aveva
in ogni modo cercato di sottrarsi alle immagini stereotipate del negro "buffone infantile". Si era
infatti fatto proclamare presidente provvisorio della Repubblica Africana. I seguaci più fedeli
venivano ricompensati con titoli onorari come I Cavalieri del Nilo e altri simili; forse il fascino presso
le masse dei neri poveri e privi di cultura era dato proprio da questa scintillante esteriorità che
faceva un può sognare.
[24] Cit. in Fernanda Pivano, "America rossa e nera", Milano: Il formichiere, 1964, pag.362. Nelson
Algren è uno "scrittore della depressione", secondo la definizione della Pivano. Nelle sue opere il
jazz vi compare sovente con la abituale funzione di "colore". Ne parla con dovizia Minganti in un
saggio intitolato: "Il jazz nella letteratura nord-americana:appunti", tratto da: "X roads", op.cit.pp.16-
19. "…Con Nelson Algren negli anni cinquanta il jazz si contamina con certi suoi risvolti sociali (il
degrado urbano, la malavita, la droga) e con quello slang dei bassifondi… Quello di Nelson Algren
è un mondo in cui il jazz sgorga ininterrottamente dalla radio e dai grammofoni a gettone dei bar, a
contrappuntare gli umori, le psicologie. Frankie Machine (piccolo baro e ladro dei bassifondi), che
sogna di riabilitarsi entrando nell'orchestra di Gene Krupa, sia allena alla batteria ascoltando la
radio". (P.18).
[25] La precedente citazione e le seguenti affermazioni di Duke Ellington sono tratte dalla sua
"Autobiografia", Trento: Emme Edizioni, 1981, trad. di Elisabetta Mancini. Titolo originale
dell'opera: Music is my Mistress.
[26] Per ulteriori informazioni su Bessie Smith: "Bessie Smith, la regina del blues", a cura di Dario
Salvatori, Roma: Lato Side Editori, 1981. Le citazioni sui dati di vendita sono tratte
dall'introduzione dello stesso Salvatori, p.10. La stessa Bessie Smith sperimentò sulla sua persona
il cinico meccanismo dello spettacolo. Passata la moda del blues, i gusti del pubblico si orientarono
verso altre forme di canzone e lei fu dimenticata dall' industria discografica che non la fece quasi
più incidere.
[27] Sambo: negro infantile e tonto, perennemente sorridente, servile ed ossequioso nei confronti
dei bianchi. Nei minstrels (spettacoli itineranti di varietà), non poteva mancare un bianco dal viso
annerito che parodiava i canti e le gesta dei neri. Il primo fu un tedesco, johann Gottlieb Graupner
nel 1799. In seguito queste macchiette ebbero una diffusione enorme fino ad arrivare al nostro
secolo. L'ultimo bianco ad interpretare questa parte fu Al Jolson nel film "Il cantante di jazz" del
1927, che celebrò la nascita del film sonoro. La durata di questo clichè implica un perdurare del
pregiudizio e della stereotipizzazione del nero che va ben oltre l'abolizione della schiavitù.
[28] Arrigo Polillo, "Jazz.La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana", a cura di Franco
Fayenz, Milano: Arnoldo Mondadori Editore, I edizione 1975, riveduta e aggiornata nel 1997. p.
390.
[29] Leroi Jones, op. cit. p.153. Per quanto riguarda la diversità di stile: "Il tono delicato, meditativo
e il lirismo impressionistico di Beiderbecke, sono l'esempio più notevole di espressività del
prodotto lavorato; suonava jazz bianco… cioè una musica che è il prodotto di atteggiamenti che
sono espressione di una cultura particolare. Armstrong, naturalmente, suonava un jazz che si
collocava all'interno della tradizione afro-americana; il suo tono era franco, insolente,
aggressivamente dtrammatico. Nella sua esecuzione si affidava molto alla tradizione vocale del
blues, per amplificare l'efficacia espressiva della sua tecnica strumentale".
[31] Louis Armstrong, Satchmo. La mia vita a New Orleans, Roma, Minimum fax, 2004.
[32] Il termine "swing" indica una particolare qualità della musica jazz: la forte tensione ritmica e
l'andamento oscillante.
Il pubblico del jazz è cambiato costantemente nel corso della sua vicenda:
come del resto è cambiata rapidamente la musica. Non solo: il pubblico è
anche una fonte di conoscenza importante; spesso troveremo una categoria
particolare di persone, quella degli "appassionati", che ha condotto ricerche,
studi, dibattiti, prodotto materiali in modo disinteressato. Un esempio
emblematico: se sappiamo qualcosa sul jazz nel periodo del nazismo, lo
dobbiamo a Mike Zwerin che ha studiato l'argomento e agli appassionati da
lui interpellati, che avevano conservato la memoria storica dei fatti accaduti, anche i più
drammatici.
Il pubblico è fonte anche in un altro senso. Tutti gli autori "politicamente impegnati" si sono serviti
del pubblico come termine di paragone per giudicare il grado di compromissione commerciale della
musica. Come entra il jazz nel meccanismo del consumo e della cultura di massa? Questo è uno
dei nodi interpretativi del Novecento ed il jazz - assieme alle altre esperienze artistiche - naviga in
questo mare. LeRoi Jones, che vedeva la borghesia di colore come un esempio di mollezza e di
sottomissione nei confronti dell'America bianca, scriveva che questa classe ripudiava il blues non
attribuendovi valore, mentre ascoltava lo Swing delle grandi orchestre bianche, in cui si
riconosceva. Generalizzazioni del genere sono pericolose: lo Swing era una musica commerciale e
di massa e ideologicamente era in linea con il pensiero dell'America degli anni Trenta e Quaranta.
Però non si può negare che anche il proletariato nero la ascoltasse. Certamente il pubblico nero,
rurale o di recente inurbamento, "proletario" seguiva ancora il blues che continuava ad essere
voce della loro società; ma era nel contempo attratto dallo swing ed anche da quello bianco. Ecco
la testimonianza di un giovane ragazzo nero di provincia: Malcom Little, meglio conosciuto più
tardi come Malcom X (Omaha, Nebraska, 19 maggio 1925 - New York City, New York, 21 febbraio
1965): "I jukebox diffondevano a tutto volume le musiche di Erskine Hawkins, Duke
Ellington, Cootie Williams e tanti altri. Le orchestre più grandi, come queste, suonavano al
Roseland State Ballroom sulla Massachussets Avenue di Boston, una sera per i negri e la sera
dopo per i bianchi". [1] Il giovane Malcom, che non aveva ancora
intrapreso il cammino di crescita, era, come tutti i suoi coetanei,
affascinato dalle grandi orchestre swing, e subiva il richiamo delle
scorciatoie per dimenticare la propria condizione: "anch'egli scoprì quelle
affascinanti soluzioni che erano offerte ai neri per evadere dal lavoro di
fabbrica o dalla miseria della disoccupazione: il ballo, l'alcool, la droga, il
furto e il gioco oltre l'illusione di essere quasi bianco grazie alla stiratura
chimica delle criniere nere".[2]
Lo Swing faceva parte della vita dei giovani neri del ghetto come dei
borghesi "zio Tom". In Europa lo Swing era recepito dai giovani della
buona borghesia che vi vedevano qualcosa di radicalmente nuovo
rispetto alla cultura grigia e accademica del vecchio continente. Anche qui però non è possibile
generalizzare: per molti il jazz non era altro che un sottofondo per ballare fresco e giovane che
aveva sostituito i valzer o le varie musiche popolari. Il jive, che ancora oggi è uno dei numeri tipici
dei ballerini, è una figura di danza che si esegue su uno Swing veloce. Per altri, i cosiddetti
appassionati, il jazz diventa una ragione di vita; tanto che molti di essi continuarono a suonarlo
nonostante i divieti di regime imposti da fascismo, nazismo e comunismo. In Europa sorgono dei
jazz club, veri e propri circoli per iniziati, in cui i musicisti dilettanti e gli appassionati ascoltano e si
entusiasmano sui primi e rari vinili disponibili. Si potrebbe azzardare una ipotesi: che in Europa il
jazz non sia mai divenuto una musica di massa ma in un modo o nell'altro sia rimasto una musica
d'élite; più o meno allargata a seconda del periodo storico esaminato. Invece non ci sono dubbi sul
carattere elitario che assume il pubblico di jazz dopo la seconda guerra mondiale con l'avvento del
bebop. I tradizionalisti, amanti dello Swing o del "revival" dello stile "New Orleans" resistettero
alcuni anni e poi dovettero cedere il passo ai "Moderni". Uno scontro di fedi, uno scisma, per usare
una terminologia alla Gary Giddins, come nel jazz se ne sono visti diversi.
Nel momento in cui la musica cambia, diventa difficile, richiede uno sforzo di ascolto e
comprensioni maggiori, il pubblico cambia repentinamente, sia in America che in Europa.. Gli
esistenzialisti francesi che amano il jazz non sono poi così distanti dai poeti e dagli scrittori
della Beat Generation. Parigi è la capitale europea del jazz; qui trovano rifugio molti musicisti di
colore in fuga dall'America razzista, che non considera il jazz un'arte, cosa che avviene nei clubs
della capitale francese, dove giovani intellettuali e artisti sono affascinati dalla musica
afroamericana. Boris Vian, Sartre, Simone De Beauvoir, Juliette Gréco,[3] frequentano i locali
dove si suona jazz: testimonianze di questo interesse sono in molte opere letterarie del
periodo. Anche se il rapporto del movimento Beat con il jazz, è molto più
fecondo di contaminazioni tra suggestioni musicali e letterarie di quanto
non accada in Europa. Le nuove generazioni di intellettuali ribelli sia in
America che in Europa però riconoscono nel jazz la sua qualità di essere
una musica anticonformista. Eric J. Hobsbawm ha dedicato un capitolo
importante del suo saggio all'analisi del pubblico in America e in Europa,
con particolare attenzione alla "sua" Inghilterra. Fa notare Hobsbawm,
che già i ragazzi della Austin School di Chicago tra cui erano Bix
Beiderbecke, Pee Wee Russell, Bud Freeman e Dave Tough, erano
rampolli della buona borghesia americana: questo fatto è provato dalla
mancanza tra loro di cognomi italiani o slavi che vediamo costantemente
apparire negli altri capitoli della storia del jazz. Questi giovani avevano
pretese intellettuali, leggevano scrittori "impegnati" e si ribellavano contro la "rispettabilità" della
classe media, condividevano spesso l'idealizzazione del nero che in uno di loro, Milton Mezzrow,
arriva a dei livelli preoccupanti.[4] Gli amatori degli anni trenta sono spesso giovani con tendenze
radicali delle più facoltose e influenti famiglie dell'est, spesso appartengono ai ceti medi dei liberi
professionisti come avvocati e medici che rifiutano i loro diritti di nascita o addirittura accettano un
declassamento sociale volontario per avvicinarsi alla vita bohémien dei musicisti jazz.
Leggiamo direttamente Hobsbawm: "La loro protesta ha anche un senso politico, in quanto è
gente che rifiuta in blocco l'American way of life, senza peraltro sostituirle niente oltre la musica, la
filosofia esistenzialista d'avanguardia, oltre a un certo anarchismo personale".[5] Lo storico inglese
parla della generazione di appassionati degli anni Trenta, ma gli stessi scrittori della beat
generation, gli Hipsters che seguono il bebop, rientrano perfettamente in questa
descrizione, segno che forse l'evoluzione del pubblico non è poi caratterizzata da
discontinuità così nette tra il jazz pre-bop e, generalizzando, quello
avanguardistico bop e post-bop. Forse la conclusione che si può trarre al di là
delle contrapposizioni borghesia-proletariato, musica di massa/avanguardia
elitaria è un'altra: l'evoluzione del pubblico mostra una linea tendenziale che più
o meno rimane la stessa. Musica per un pubblico eterogeneo, costituito da un
numero elevato di persone dotate di una buona scolarizzazione. Nel novero dei
giovani che gli si sono accostati in passato, ma nulla vieta che una indagine
sociologica riesca a dimostrare che lo stesso vale oggi, è presente una quota rilevante di ribelli e
anticonformisti in rivolta contro il mondo. Ecco la conclusione cui perviene Hobsbawm per
spiegare questo aspetto protestatario insito nella natura stessa del jazz: "Trattandosi di una
comunità di ribelli, la comunità dei jazz-amatori finisce sempre col trovare delle affinità con altri
movimenti di opposizione, e qualche volta, come nei paesi anglosassoni degli anni trenta in poi, si
impregna totalmente di ideologie protestatarie. Normalmente però, trattandosi di un pubblico
eterogeneo e individualista, esso rimane ai margini della politica attiva, ed attrae tanto coloro che
vogliono sottrarsi alle convenzioni, quanto coloro che vogliono abbatterle. Il jazz degli anni venti
era completamente apolitico. Quello del ventennio successivo si orientò a sinistra, e senza dubbio
partecipò alle attività della sinistra, così come non è da escludersi che in molti paesi socialisti il
jazz sia vagamente antisocialista ed immischiato in attività antisocialiste".[6] Si è riportata questa
lunga citazione del solito Hobsbawm perché riassume quanto si è tentato di dire in questo
paragrafo e si dibatterà più a lungo in seguito, ma anche per mostrare in concreto come ci si possa
imbattere nel tema politico a partire da un argomento apparentemente neutro, al limite legato ad
una analisi di tipo sociologico sulla composizione, sul numero sulla divisione in classi del pubblico
del jazz. Hobsbawm tocca più volte i temi della critica, del pubblico, del rapporto tra jazz e politica;
senza mai farne l'argomento centrale della sua indagine. Non solo; abbiamo parlato di LeRoi
Jones e del suo Blues people: ebbene in questo testo che, secondo quanto recita il sottotitolo
dell'edizione italiana, è una "sociologia dei negri americani attraverso l'evoluzione del jazz", si parla
di pubblico, ma in una maniera del tutto differente. Jones è completamente assorbito dalla sua
contrapposizione universo bianco-universo nero tanto che l'analisi sul pubblico viene piegata ai fini
di una spiegazione e di un j'accuse al "sistema bianco" americano. Questo fa sì che un testo così
importante, denso di contenuti e spunti critici innovativi sia lacunoso da questo punto di vista. Poi
ci sono Carles e Comolli che insistono molto sul lato economico; e quindi il pubblico entra
nell'analisi come "insieme di consumatori" che acquista i dischi, come massa che balla lo swing
etc…L'interesse all'analisi del pubblico delle varie classi sociali che hanno seguito e seguono il
jazz, invece è interessante nella misura in cui rivela degli aspetti della società nel suo insieme.
Nella metà degli anni Settanta vedremo ad esempio un pubblico giovanile "contestatore" affollare
le manifestazioni estive in Italia; urlare slogans politici, provocare incidenti e determinare così la
chiusura di numerosi festivals. La radicalizzazione di molti musicisti è stata provocata anche dalla
presenza di questo tipo di pubblico che voleva ascoltare dei "compagni" fare jazz e che contestava
altri jazzisti dando loro del "fascista". Ecco uno dei risvolti possibili da elaborare nell'analisi del
rapporto jazz-politica-pubblico.
In quegli anni dire in Italia che il jazz non è musica di consumo, ma la "nobile espressione di un
intero popolo" era pacifico, mentre non lo era affatto per Leroi Jones in America [7]. Parlare invece
di jazz rivoluzionario era una pratica malvista in entrambi i continenti. Non a caso i nomi dei critici
che circolano quando si tratta di jazz politico sono in numero limitato. Crediamo si possa affermare
che il serbatoio sociale per la critica jazz è la middle class borghese, senza voler caricare questo
significato di una accezione negativa.
Pochi tra i critici borghesi sono stati vicini alle forme più acute di jazz politico.
Il pubblico del jazz dagli anni Quaranta è soprattutto frequentatore di clubs, dove si tengono
concerti e jam sessions.
Recentemente una tesi ha affrontato il pubblico dei locali che suonano jazz con un approccio
sociologico al tema, circoscrivendo la ricerca alla città di Roma e potendo così scandagliare
l'argomento in profondità [8], con la somministrazione di test agli avventori, e indagare specialmente
gli aspetti grazie ai quali il pubblico influenza direttamente la performance.
Il jazz del nuovo millennio vede aggiungersi il pubblico della "sala da concerto" a quello dei clubs,
anche se sembra aver smarrito definitivamente le strade dell'impegno sociale e
contemporaneamente perdura la crisi di ispirazione. Il già citato Gary Giddins, forse il più influente
critico contemporaneo, si pone molti interrogativi sul futuro della musica jazz.
Sta diventando una musica di statue di marmo? E' ormai un genere pronto per essere ingessato
nell'Accademia o nei finanziamenti pubblici delle rassegne estive sponsorizzate? Un segnale che
questo sta capitando è dato dal restringimento della storia del jazz alle sue figure centrali,
canonizzate dalle edizioni economiche che raccolgono i the best of, più venduti. E' la storia del
jazz che può essere ridotta ad uno scaffale porta cd. Questo va a discapito dei minori, quelle figure
che per i motivi più vari non sono assurte al ruolo di stelle. Curiosamente Giddins porta ad
esempio lo stesso Frank Newton caro ad Hobsbawm [9].
Per lo studioso americano la situazione non è ancora così rigida. Tra le molte visioni che si
possono avere del jazz un punto fermo deve essere considerato la libertà di espressione, che si
annida nel poter fare cose diverse, non finanziate dallo stato e snobbate dal mercato discografico,
magari consegnandosi alla marginalità economica pur di far salva la creatività.
Vedremo se il nuovo millennio si muoverà lungo questa linea ottimistica o darà ragione alle
Cassandre.
[1] Malcom X, Autobiografia, a cura di R. Giammanco, Torino: Einaudi, 1967, pp. 42-43.
[2] Carles e Comolli, op. cit. pag.183.
[3] Simone de Beauvoir nella sua autobiografia spesso parla di jazz: si veda ad es. "La forza delle
cose", Torino: Einaudi, 1978. pagg. 64, 159, 508, 548. Il rapporto tra jazz ed esistenzialismo è una
ulteriore testimonianza che di questa musica si interessano intellettuali anti borghesi. Ecco un
passo in cui il jazz viene utilizzato per screditare Sartre e la sua filosofia. Racconta De Beauvoir:
"Sartre che amava la gioventù e il jazz, era seccato di ciò che si diceva degli esistenzialisti.
Vagabondare, ballare, ascoltare Vian che suonava la tromba, che male c'era? Eppure era di loro
che si servivano per screditarlo. Che fiducia si poteva riporre in un filosofo che spingeva alla
dissolutezza?" Boris Vian, di professione ingegnere, aveva lasciato il lavoro per dedicarsi alle sue
brucianti passioni: jazz e letteratura. "…Per uno che ami a fondo l'ambiente del jazz, frequentarlo
significa rendersi liberi e non legarsi ad orari di lavoro." (G.A.Cibotto, introduzione a Non vorrei
Crepare, Roma: Newton Compton, 1993, di Vian, trombettista, scittore e critico, che scrisse
numerosi articoli sulle riviste specializzate (raccolti in Chroniques de jazz,1967 e ora anche tradotti
in italiano) e suonò nei clubs parigini. Sartre ha parlato di jazz con acume e in modo scevro da
luoghi comuni. Ne "La Nausea", ed. Mondadori, 1965, pp. 38-39.
[4] Nella sua autobiografia Mezzrow mostra di essere ossessionato dal colore della pelle: lui che
era appartenente ad una famiglia benestante della borghesia ebrea sceglie di vivere nel ghetto per
stare vicino ai neri, sposa una donna nera, diventa uno spacciatore e finisce anche in carcere dove
naturalmente suona la nella banda jazz. Non è solo più ammirazione per lo spiccato senso del
ritmo o del blues e neanche anticonformismo estremo: la sua considerazione nei confronti dei
musicisti jazz come Sidney Bechet rasenta l'idolatria. Milton Mezzrow, Bernard Wolfe Ecco i blues,
Milano: Longanesi, 1973.
[5] Eric j. Hobsbawm, op.cit. pag.358.
[6] Eric J. Hobsbawm, op. cit. pagg. 373-4.
[7] R.P. Jones, Jazz, Firenze, Vallecchi, 1973, p.4.
[8] Andrea Veneziani, Swingin' in Rome, dinamiche comunicative nei locali jazz di Roma, tesi di
Laurea della Facoltà di Sociologia dell'Università La Sapienza di Roma, anno accademico 2001-
2002, docente relatore Prof. Federico Del Sordo.
[9] Gary Giddins, Visions of jazz, New York, Oxford University Press, 1998, pp. 3-10.