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BLUES NERO & BLUES BIANCO

a cura di Ernesto Assante e Enzo Capua

MUDDY WATERS. OTIS REDDING,


JOHN MAYALL, YARDBIRDS, ANIMALS.
FLEETWOOD MAC. CREAM. TEN YEARS AFTER, CANNED HEAT

introduzione di M. Grandi

1981 SEMIR srl - Milano

SAVELLI EDITORI

Il blues nero e il blues bianco è un libro «necessario» nella storia del rock soprattutto per
l'innegabile influenza che la musica nera ha avuto ed ha tuttora sulla musica rock. Un'influenza
molto particolare, che in alcuni casi ha dato frutti positivi, ma che molto più spesso è stata solo il
segno dello sfruttamento da parte dei musicisti bianchi di schemi e idee musicali che fanno parte
della cultura dei neri. Per questo abbiamo preferito mettere l'accento, nello scegliere i nomi dei
personaggi delle biografie, su quei musicisti che hanno avuto più strettamente a che fare con il
rock, lasciando da parte invece quelli che, pur essendo fondamentali per la storia del blues, lo sono
solo lateralmente per il rock.
Così l'unico artista nero di blues che trattiamo è Muddy Waters: la sua influenza sui musicisti
del rock è indubbia, e ci sono da sottolineare poi le sue collaborazioni con musicisti come Johnny
Winter che lo hanno portato ad operare spesso più verso un audience rock che non verso quella del
blues. Una delle forme musicali nere più sfruttate dal rock è certo quella del rhythm'n'blues, e
proprio per fare un punto su questo genere musicale — oltretutto di gran moda negli ultimi tempi
— abbiamo voluto mettere a fuoco la figura di Otis Redding, l'artista nero che ha «portato» il
rhythm'n'blues al pubblico giovanile bianco, una delle voci fondamentali degli anni sessanta.
Passando sui territori del blues bianco, ci è sembrato naturale affidare l'immagine del genere
alla figura di John Mayall, anche se musicisti come Alexis Korner hanno ben altri diritti di
paternità. Ma visto che il nostro interesse è centrato in maniera particolare sui rapporti con il rock,
Mayall ha a-vuto un peso talmente notevole su generazioni di musicisti inglesi, che ci è sembrato
doveroso dare alla sua figura uno spazio maggiore.
Yardbirds, Animals, Fleetwood Mac, Ten Years After e Cream rappresentano i punti focali
dell'evoluzione del blues inglese, e a loro sono dedicati i rispettivi saggi, mentre invece per i
musicisti americani si è preferito analizzare i Canned Heat, perché sono loro ad aver creato, con
pochi altri, un linguaggio che partendo dal blues non ne ha snaturato la vitalità e i motivi di fondo,
ma ha fornito loro una nuova intonazione.
Nel volume, oltre all'introduzione generale, affidata a Marino Grandi, troverete altre due
introduzioni particolari, essenziali per spiegare alcuni fenomeni importanti, come il blues inglese
(nel pezzo su John Mayall) e il rhythm'n' blues (nel pezzo su Otis Redding). Le schede che
chiudono il volume completano il panorama sugli artisti del blues.
Ernesto Assante Enzo Capua
Introduzione
«Solo chi è segnato dallo stesso dolore, è veramente in grado di sopportare con me il mio
dolore» Sofocle, Edipo a Colono
Nonostante la lapidaria epigrafe, con cui ho aperto il discorso, non desidero affatto tracciare una
linea di demarcazione, manichea, tra bianchi e neri, con i bianchi (tutti cattivi) da un lato ed i neri
(tutti buoni) dall'altro, principalmente perché l'idea del buono e del cattivo, con le sue nette
separazioni, ci è stata inculcata dal sistema dominante che, però, non ha tenuto in giusta
considerazione il fattore «uomo», ovvero la sua unicità che lo rende, indipendentemente dal colore
della pelle, non sempre facilmente inquadrabile in rigidi schemi matematici.
Eppure in questo quadro, a sfondo universale, dobbiamo ammettere che il nero americano gode
di una posizione particolare, e forse unica, rispetto agli altri popoli: è riuscito, attraverso
l'esperienza della schiavitù, vissuta addirittura in un continente diverso da quello di origine, a
salvaguardare il contenuto del proprio patrimonio musicale sino a generare all'interno del sistema
oppressore una nuova cultura musicale, autonoma e in grado persino di incidere su quella
imperante sino a spingere gli stessi egemoni a tentare di assimilarla per renderla, senza riuscirvi,
più consona ai loro valori estetici.
Questo tentativo di appropriazione ebbe luogo già negli anni '30, con il travaso di brani country
tradizionali neri verso le rive dei vari Charlie Poole, Riley Puckett, Jimmie Rodgers, e con la
commercializzazione dello swing, da parte dei vari Paul Whiteman, Benny Goodman, Glenn Miller,
a scapito della creatività di Ellington & Co., ma per il nostro discorso di importanza basilare, è
quanto accade dagli anni quaranta in poi. Se la seconda guerra mondiale segna la fine della
depressione, segna anche l'inserimento del nero in quel ceto medio inferiore che lo aveva visto
impegnato in tutti i campi paralleli alla produzione bellica e allontana dalla sua mente i ricordi di un
passato che il benessere relativo sfuma ogni giorno in una sorta di rivalutazione del nero
impegnato in uno sforzo nazionale a difesa della «propria» patria.
L'acquisizione di una certa sicurezza economica e civile, con il godimento del diritto di voto,
l'accesso a qualsiasi lavoro, la casa, non sono però sufficienti a far sparire una delle piaghe più
appariscenti che l'inurbamento incontrollato a-veva creato: il ghetto. Per cui il cambiamento e la
ventata di speranza che lo aveva accompagnato vengono ben presto disillusi da un ambiente in cui
i problemi vengono amplificati, giorno dopo giorno, dall'incontro di persone che si agitano nelle
stesse avversità, oppresse, in particolar modo al termine del secondo conflitto, dalla
disoccupazione, dal sovraffollamento, dalla scarsità di servizi, dalla droga, dall'alcoolismo, dalla
violenza e dal ritrovamento anche qui di una ripresa della segregazione che, se al sud è alla luce del
sole, al nord è sommersa ma altrettanto viva e viscida.
Assieme a tutti questi immigrati, quasi a loro insaputa, il blues era rientrato nelle città: non è
più il country blues acustico, ma una musica ormai forgiata sulla falsariga delle big bands e dello
swing, in cui però la modificazione delle situazioni di vita ha prodotto le prime mutazioni, che
possono essere riassunte nell'uso sempre più frenetico degli ottoni che, assommato ad assordanti
sezioni ritmiche e all'urlo dei sax, obbligano il cantante ad urlare per farsi udire.
Questa nuova forma, che raccoglieva in parte le idee già accennate dagli shouters di Kansas
City alla fine degli anni trenta, chiamata rhythm & blues, e che ora aveva il suo epicentro nei
cantanti di Memphis, ribadiva la ricerca da parte del nero tesa a riacquistare la capacità di
comunicare attraverso la forza rituale della sua musica, affondando e rinnegando la levigatezza e la
vischiosità con cui il bianco aveva finito per contaminare lo swing, trasformandolo in una
decalcomania vendibile al supermarket della commercialità. Parallelamente, a Chicago e Detroit, si
assisteva ad una successiva variazione del r & b in blues urbano, rozzo, violento, e immediato come
solo l'elettrificazione degli strumenti era in grado di effettuare, con l'armonica in luogo del sax,
simbolo nuovo del dinamismo nevrotico del nero, lamento elettrico del disadattato spogliato della
sua personalità.
Quindi mentre le case discografiche bianche perdevano il controllo sulla nuova musica (anche
se in realtà introitando ancora soldi a palate con lo swing più deleterio ritennero inutile inseguire il
mercato di colore), le sorti di questa musica rimasero affidate ad un numero incredibile di piccole
etichette indipendenti che, data la loro artigianalità, erano impossibilitate ad ampliare la
promozione e la distribuzione al di fuori della città o della regione in cui erano ubicate. Il successo
riportato, nonostante la loro limitata diffusione, indusse le grosse compagnie a ripristinare il
mercato dei «race records», ma il chiaro rifiuto da parte del nero di questa etichetta del passato, le
convinse ad usare, con sempre maggior profitto, il nomignolo di r & b con cui, grazie anche alla
cronica incapacità di autogestione delle piccole etichette, riuscirono ad interessare un pubblico
sempre più vasto, anche se ancora limitato alla gente di colore.
Poco o nulla importa che Arthur «Big Boy» Crudup non abbia mai percepito i diritti d'autore: la
storia infatti narra che nel '54, con la registrazione da parte di Elvis Aaron Presley del brano
«That's Ali Right Marna», negli studi della Sun a Memphis, nasceva il «rock and roll», con cui il
business credeva di aver svuotato la carica violenta insita nel r & b originale, in modo da poterne
valorizzare commercialmente, senza pericolo alcuno, le doti ritmiche.
Ma c'è un fatto però che è sfuggito ai manipolatori di allora: la popolarizzazione delle nuove idee
musicali, la sua apertura verso il bianco non sono servite, almeno fino a quando il movimento del
rock ha mantenuto la sua carica di freschezza e istintività, ad addormentare la spinta innovatrice,
ribellista, contenuta nel blues originale, ma, anzi, l'ha diffusa ovunque facendo emergere
violentemente il malessere latente che affiorava nelle coscienze dei giovani. Fu proprio allora che i
giovani si resero conto di non identificarsi più nella realtà musicale dei padri, Perry Como, Eddie
Fisher o Bing Crosby, e intuirono che questa «nuova» musica rappresentava, al meglio, il loro
desiderio di uscire dal senso di oppressione da cui si sentivano soffocare. Per cui oltre al ricupero
della funzione rituale, attraverso la forza aggregante della musica che riunisce giovani che si
sentono uniti da un unico filo conduttore che esula completamente dal mondo delle persone
mature, fu anche a livello testuale, con temi come la solitudine, l'incertezza, la separazione, temi
estremamente aderenti alla realtà, che il blues rappresentò la sorgente di nuove forze in grado di
abbattere il tono dolciastro del sentimentalismo stantio delle canzoni convenzionali.
Tuttavia l'industria, colta di sorpresa da questa svolta imprevista, muove le fila e, nel giro di
pochi anni, riesce a prosciugare la ventata di tempi nuovi, a inscatolare il rock e, dopo averlo
sterilizzato succhiando l'energia sessuale di Chuck Berry per riconvertirla nelle nenie appiccicose di
Pat Boone, a esportarlo dovunque sino a che l'emulo, ormai evirato, eclissa la matrice. Se il boom
del «rock per educande» confina col blues nero tra le pieghe di una crisi profonda, a lungo andare
sarà lo stesso rock a sfaldarsi, a decomporsi in un manierismo avulso dalla realtà. In questo caso la
sferzata viene dall'Europa, dai nipotini inglesi che, appresa la lezione dai maestri di allora (Muddy
Waters, Sonny Boy Williamson, Willie Dixon, B.B. King ecc.) la amplificano con il loro desiderio di
vivere trasformando il blues in una musica dura, graffiarne, tesa e sofferta, in cui sembrano
riflettersi le contraddizioni, che gli anni sessanta fanno lievitare, di una società ormai non più a
misura d'uomo.
Se in Inghilterra è il momento del «British blues», che fa sì che anche questa volta il blues sia
nel mezzo di conflitti sociali in atto, il problema razziale in USA assume dimensioni nuove, ed una
violenza sconosciuta, con l'apparizione del movimento del Black Power e successivamente con la
nascita, ad Oakland nel 1966, del Black Panther Party For Self Defence. Politicamente il Black
Power rappresentava, con le rivolte dei ghetti di Harlem, Watts, Chicago, Filadelfia, il fallimento
dell'operazione di trapianto, dal sud al nord, della strategia dei diritti civili, orientata verso la
borghesia nera più che verso il nero povero, e il relativo perduto interesse nei riguardi di una
integrazione proiettata unicamente nell'assimilazione della cultura bianca dominante, a favore della
formazione di una forza autonoma «dei neri per i neri», con la creazione di centri di potere
autonomi.
Non è quindi un nuovo nero quello che appare: si tratta soltanto di un nero che è passato dal
riformismo al nazionalismo rivoluzionario, e che se è impegnato nel ricupero della sua identità
politica e culturale, lotta anche per scrollarsi di dosso le inibizioni e i timori che i colonizzatori gli
hanno inculcato impedendogli una visione coerente della realtà e una libertà di movimento
indipendente e cosciente. Queste circostanze (ricerca di identità e unità) non possono condurre che
a un declino di interesse per il blues, in cui i neri identificano, oltre ad un passato da cui fuggire
(schiavitù), un sentimento tendenzialmente individualista in stretta antitesi quindi con le idee di
collettività che lo animano.
Rinasce quindi il r & b, ma questa volta è una musica convulsa in cui, riallacciandosi al senso
comunitario insito nella chiesa e alle antiche tematiche «gospel», si stemperano le tetre e le
alienanti secrezioni delle grandi metropoli con l'umore delle chiese del sud, il tutto mediante le voci
dei cantanti che scivolano, su un tappeto di note acute, in un falsetto stridulo. Ma anche in questo
caso la storia si ripete. Sfruttando la capacità che il blues ha di stimolare il ballo, ampiamente
ricuperato dai neri come funzione sociale legata alle tradizioni africane, gli impresari riprendono in
mano i sentimenti del nero e trasformano la spontaneità espressiva in un fatto industriale, e
siccome neanche gli stessi neri sono in grado di mantenere il loro spirito genuino, allorché cedono
alla adulazione delle mode e gustano l'allettante sapore della ricchezza, la soul music,
completamente snaturata, diviene l'etichetta della musica del nero «sorridente e felice», creando la
parentela, apparentemente paradossale, tra consumismo e protesta.
Ma il fallimento si rivelò anche a livello politico quando ci si rese conto che, troppo spesso, i
modelli alternativi proposti si dimostrarono, più o meno, identici a quelli che si volevano abbattere;
ciò era dovuto al fatto che gente come Huey Newton o James Baldwin non avevano capito di essere
stati già fagocitati dalla società che li aveva generati, la civiltà americana, e di aver ormai perso i
rapporti con le radici del proprio popolo, appunto troncando i legami con un passato senz'altro
degradante ma anche depositario di antiche esperienze vissute a carattere popolare
Nel contempo il blues revival europeo aveva permesso di porre, finalmente, in una collocazione
più consona i rappresentanti «elettrici» (B.B. King, Lowell Fulson, Albert King, Otis Rush, Buddy
Gur, Freddie King ecc.), che tanti epigoni avevano già creato in tutto l'universo musicale, anche se
dai più, ormai, venivano considerati alla stregua dei vari Clapton, Santana, Bloomfield, Bishop,
Taylor ecc., per cui non appena l'industria avverte il calo di interesse nei riguardi della soul music e
intuisce che persino il blues può vendere, abbandona il carrozzone soul al suo destino e parte alla
conquista di questa terra vergine. L'industria avvia, oltre alla «gestione» del blues, la ricerca dei
personaggi da preparare per il pubblico che, nella stragrande maggioranza dei casi, è impreparato
a tutto salvo che alla figura dei «miti», dei «padri», dei «re» e di amenità varie.
Prende quindi il via la proposizione di tonnellate di blues, preparato a tavolino, eseguito da
artisti che non erano mai usciti dal circuito di colore e che, davanti a quella insperata fonte di
guadagno, non esitano affatto a diluire la propria musica per renderla bene accetta ai bianchi. Ma
ecco allora che a trarre maggior beneficio dal «blues revival» sono i gruppi bianchi. Ispirandosi allo
stile, edulcorato dei neri, hanno creato un movimento musicale che, se ha espresso valori assoluti
come Mayall e Korner, è terminato nell'orgia elettrica, senza capo ne coda, dell'hard rock dalla
quale, il business, ha saputo trarre vantaggi enormi.
Sepolto dall'esplosione hard, travolto dall'estasi westcoastiana, sfibrato dalla scomparsa di
alcune lucide menti, il blues ritorna nelle cantine di Chicago e nelle baracche del Mississippi, da cui
in realtà non si era mai allontanato. Quando però fallisce l'illusione di aver trovato nel rock la forma
musicale in grado di riunire attorno a sé il pubblico giovanile, grazie alle e-nergie della realtà
quotidiana, e fallisce non solo per il potere dell'industria, ma anche per le contraddizioni interne,
ecco riemergere, il blues, «nuovo» modello culturale a cui i giovani, soprattuto in Italia, si rivolgono
in alternativa alla vuotezza della disco music.
«Conosco.un sacco di neri che hanno smesso di fare blues e sono passati alla "disco", ma il
blues non morirà mai» Walter Horton '(giugno '78)

Ma, come per il jazz di qualche tempo prima, il blues viene ad assumere il ruolo di simbolo di
una musica importante non tanto per l'uso che se ne fa, quanto per il messaggio che essa stessa
contiene per la sola ragione di esistere, il tutto inserito in una condizione sociale politica e giovanile
in via di deterioramento e tendente sempre di più al raggiungimento dei modelli americani di
emarginazione e ghettizzazione. S'intuisce allora come sia possibile per l'industria raccogliere questi
brandelli di esigenze musicali e, approfittando anche della cronica assenza di cultura ed
informazione al riguardo, sia da parte della «stampa che conta» che da parte dei mezzi
radiotelevisivi, catturarli e trasformarli in moda rapida, da consumare in fretta e subito. Se a ciò
aggiungiamo il disperato desiderio di riappropriarsi di un potere unificante simile a quello crollato
con il rock, acquista una sua ragione il fatto che nessuno, o quasi, contesti gli abili professionisti che,
dietro lauti compensi, si spacciano per bluesmen e che pure non hanno più niente da dire o che
addirittura non hanno mai detto niente.
Convengo con Alessandro Roffeni, che il blues bianco è privo della poesia insita nel nero che,
maltrattato, sbeffeggiato, è ancora capace di reagire alle sconfitte ed alle ingiustizie, con l'ironia, il
riso, il sogno, con le risorse di una antica e amara saggezza legata indissolubilmente al suo popolo,
fruitore di un retaggio sociale ben diverso e complesso da quello del popolo bianco. Comunque, e
questo è un dato di fatto innegabile, è stato il bianco ad aver allargato a dismisura le possibilità di
avvicinarsi al blues più recente, sia pure usufruendo del maggior potere dei suoi mezzi di
comunicazione, ed è sempre dagli epigoni bianchi che sono partiti i primi passi della ricerca
dell'autentico valore del blues, anche se si è arrivati a questa riscoperta più per il fascino ideale che
si «voleva» vedere nel blues che non attraverso l'analisi delle sue strutture musicali.
Così, le loro composizioni, anche se non raggiungono le vette del pathos insito nei blues originali,
riescono a trasmettere un messaggio di solidarietà e di ricerca sociale, che travalica il senso stesso
della musica, intesa come somma di suoni disposti opportunamente all'interno, o all'esterno, di
cinque rette parallele senza fine.
«Se un bianco è disoccupato, se è oppresso da infinite preoccupazioni, è nelle condizioni di
spirito per fare del blues. In caso contrario, con l'esercizio, potrà diventare un buon strumentista, a
cui però farà sempre difetto il feelin'. Un ricco borghese, dalla vita tranquilla e colma di agi,
indipendentemente dal colore della pelle, non sarà mai un blues-man.» Johnny Shines, Milano,
ottobre 1978 (1).
Marino Grandi
Muddy Waters

.È uno dei pochi musicisti che sia diventato leggendario ancora da vivo. Non esiste alcun
bluesman che non si rifaccia al suo stile, che non reinterpreti un suo pezzo, che non ribadisca la
propria ammirazione e devozione alla sua figura. Muddy Waters è il punto focale del blues del
secondo dopoguerra, è il personaggio-chiave per comprendere lo svolgimento della più recente
storia della musica afroamericana. Non è bugiardo affermare che tutto passa attraverso lui.
McKinley Morganfield (questo il suo vero nome) è nato il 4 aprile 1915 a Rolling Fork, un paese
nello stato del Mississippi, secondogenito di Ollie Morganfield, un bracciante nelle piantagioni di
cotone, e di Berta Jones, con sangue indiano nelle vene. A soli tre anni perse la madre e venne
spedito a Clarksdale (la stessa cittadina dove e-rano nati Eddie Boyd nel '14 e John Lee Hooker nel
'17) per vivere con la nonna Della Jones. Di tanto in tanto tornava a Rolling Fork a casa di suo
padre, dove senti per la prima volta i blues. Ollie Morganfield, infatti, suonava la chitarra per
diletto e qualche volta si ritrovava con gli amici per improvvisare insieme qualche blues.
Il piccolo McKinley, soprannominato Muddy Waters (acque fangose) perché amava giocare nel
torbido fondale del Deer Creek che bagnava Rolling Fork, imparò presto a suonare l'armonica a
bocca e a 15 anni formò un piccolo gruppo con Scott Bowhandle alla chitarra e Henry Son (o Sonny)
Sims al violino (che aveva suonato a lungo insieme con Chaley Patton), ai quali saltuariamente si
univa Lewis Fuller al mandolino: la loro musica era quella tipica di una band campagnola acustica
di blues. Il gruppo si chiamava The Son Sims Four, ma Muddy ha sempre sostenuto di esserne
stato il leader e l'ispiratore.
In quest'epoca McKinley Morganfield lavorava nelle grandi piantagioni di cotone nella contea di
Coahama, e in particolare nella famigerata piantagione di Howard Sto vali. Il sabato e la domenica
tornava a Clarksdale per partecipare alle feste all'aperto e alle cene del sabato sera, dove suonava
e vendeva pesce. I tempi erano molto duri. «Le ho provate tutte», ha detto Muddy Waters a
Robert Neff e Anthony Connor, autori di Blues: «Tentai il gioco d'azzardo, feci e vendetti whisky.
Non ho mai derubato nessuno, ma ebbi gran successo con il whisky. Lo preparavo nella
piantagione Stovall. Avevo un piccolo alambicco nascosto fra i cespugli. Credo di non avere mai
avuto troppa inclinazione per il lavoro, avevo però questa inclinazione per la musica. Per potermi
mettere da parte forse diecimila dollari avrei dovuto vivere fino a 105 anni. Ci pagavano quasi
niente. Mi davano 75 cents al giorno, lavorando cinque giorni alla settimana. Invece guadagnavo
due dollari e mezzo suonando la chitarra il sabato sera a qualche festa o cena. È per questo motivo
che mi nascondevo dal padrone e facevo proprio tanto lavoro quanto ne facevano gli altri e così
arrivavo al sabato riposato.»
Nei locali dove si suonava regolarmente blues, cioè nelle bettole, nelle taverne e nei bar, Muddy
Waters ebbe l'opportunità di ascoltare e conoscere Èddie «Son» House, Charley Patton e Robert
Johnson. La vera ispirazione gli venne soprattutto dal primo chitarrista, il cui stile grezzo,
selvaggio e disperatamente emozionante lo conquistò nel profondo del cuore. «Stavo imparando a
suonare la chitarra da Scott Bowhandle e pensavo di saperla già suonare», ricordava Muddy
Waters allo studioso Don de Michael in un articolo apparso su «Downbeat»: «Ma quando vidi Son
House capii che non sapevo suonare assolutamente nulla. Son House suonò in quello stesso posto
per circa quattro settimane e io stavo lì ogni sera. Non mi si poteva mandare via da quell'angolo
dove ascoltavo tutto quello che facevi».
L'influenza di Robert Johnson, che non conobbe personalmente ma che ascoltò dal vivo in
diverse circostanze, è più facilmente avvertibile nello stile chitarristico, nella tecnica dello slide e
nel ritmo, mentre il tono e la forza della voce sembrano derivare direttamente da Son House.
Nel 1940 Muddy Waters si recò per un breve periodo a St. Louis; nel 1941 venne contattato
dagli studiosi Alan Lomax e John Work per registrare due blues per la Biblioteca del Congresso.
Muddy incise «Country Blues» e «I Be's Troubled», in cui si serviva di un tubetto cilindrico di
ottone da far scivolare lungo le corde nello stile hawaiano alla maniera di Robert Johnson. Lomax e
Work erano però andati nel Mississippi per registrare qualche brano di Robert Johnson, morto già
da tre anni in circostanze misteriose, e di Elmore James, peraltro al momento irreperibile.
Nel corso dello stesso anno Muddy Waters si unì alla compagnia di spettacoli di Silas Green di
New Orleans, in cui suonava e cantava qualche brano.
Lomax e Work ritornarono nel 1942 e il bluesman di Rolling Fork registrò un canto di lavoro
ambientato nelle piantagioni di Howard Stovall. Nel '43, abbandonato definitivamente il lavoro nei
campi, Muddy Waters decise di partire per Chicago e tentare la fortuna. Andò al nord insieme con i
numerosi emigranti che erano riusciti, attraverso i parenti partiti prima di loro, a trovare un
lavoro o che solo speravano di trovarlo nelle grandi industrie meccaniche durante il boom
economico degli anni della seconda guerra mondiale.
Fra questi emigranti c'era anche suo zio Joe Brant, che a Chicago lo portò in giro e gli fece
conoscere alcuni cantanti e musicisti di blues. A quel tempo i più noti erano Big Maceo e Tampa
Red, Sonny Boy Williamson n.l e soprattutto Big Bill Broonzy. Muddy Waters di giorno lavorava
prima in una car-liera, poi in una ditta di radio, infine come autista di camion per conto di una
piccola società che fabbricava tapparelle alla veneziana; la sera suonava nelle festicciole in casa di
privati o in piccoli clubs. I soldi erano pochi, anzi, più spesso si pagava in birra e whisky.
Nel 1945 Big Bill lo presentò e lo fece scritturare al Sylvio's, un locale piuttosto conosciuto sul
West Lake, dove si esibiva Sonny Boy Williamson e dove lo stesso Morganfield si costruì una buona
reputazione, duettando talvolta con il pianista Sunnyland Slim. Altre gigs le effettuava nei locali del
South Side di Chicago. Per festeggiare l'importante ingaggio al Sylvio's lo zio Joe Brant gli regalò
una chitarra elettrica.
Nel 1946, probabilmente grazie all'intercessione di Broonzy, Muddy Waters incise due brani
per la Columbia (mai pubblicati) e qualche mese più tardi venne a-scoltato da mister Goldberg, il
ta-lent-scout dei fratelli Chess, proprietari dell'etichetta discografica Aristocrat. Si dice che Muddy
stesse guidando il camioncino di carbone dello zio quando il suo amico Antra Bolton lo vide, lo mise
subito al corrente dell'ingaggio, gli prestò la macchina e lo convinse a recarsi negli studi della Chess
dove Sunnyland Slim aveva arrangiato per lui due brani, «Gipsy Woman» e «Little Anna Mae»,
che Muddy incise con lo stesso Sunnyland Slim al pianoforte e «Big» Crawford al basso. Il disco
passò quasi inosservato.
Qualcosa nello stile del chitarrista del Mississippi era intanto cambiato: non più il semplice e
duro fraseggio campagnolo, ma un suono più vicino al clima cittadino di Chicago ed eseguito con
maggiore estensione. La tecnica era invece inalterata nonostante il passaggio dalla chitarra
acustica a quella elettrica: nell'anulare della mano sinistra scorreva sempre il tubo metallico. E il
tono della voce e l'accento strascicato erano ancora quelli caratteristici del sud.
A quel tempo Muddy Waters guadagnava 38-40 dollari per sei giorni di lavoro alla settimana
guidando il camioncino della ditta, e 35 dollari per suonare sette sere alla settimana.
Nel 1948, senza passaggi di priprietà, l'Aristocrat diventò Chess e Muddy Waters, che nel
frattempo aveva inciso altri 14 brani (non tutti pubblicati) con «Big» Crawford al basso, «Baby
Face» Leroy Foster alla chitarra e poi anche alla batteria e Johnny Jones al piano, esordì nel 1950
con un disco comprendente «Rollin' and Tum-blin'» e «Rollin' Stone». Fu finalmente il grande
successo: si parla di circa 60mila copie vendute nel mercato destinato alla gente di colore di
Chicago, St. Louis, Gary, Memphis e il sud.
La nuova fama lo rese celebre nel giro dei musicisti e molte giovani leve si fecero in quattro pur
di suonare con lui: accanto al fedele «Big» Crawford, che morì nel 1955, sostituito da Willie Dixon,
si esibivano Little Walter Jacobs all'armonica (più raramente Big Walter Shakey Horton), Jimmy
Rogers alla seconda chitarra e saltuariamente un batterista. La band (chiamata The Headhunters,
i cacciatori di teste) ebbe un'immediata presa sul pubblico: la derivazione da Robert Johnson e il
Mississippi erano ancora evidenti e molto sinceri, ma Muddy era riuscito a imprimervi un ritmo,
una carica anche sessuale e un volume come nessun altro aveva fatto fino a quel momento. Nel
1951 per la prima volta comparve al suo fianco il pianista Otis Spann, nato nel 1931 a Belzoni, nel
Mississippi, presentato (ma non si sa esattamente con quale fondamento) come lontano cugino. Il
connubio fu comunque molto felice, perché Otis riuscì a completare il suono del gruppo e a
renderlo ancora più suggestivo e originale.
La migliore qualità unanimamente riconosciuta a Muddy Waters fu proprio quella di essere
riuscito a impostare una band. Probabilmente, se fosse dipeso solo dai suoi gusti personali, avrebbe
preferito tornare alla chitarra acustica, ma dovendo sovrastare i rumori e il clamore di un locale
frequentato di notte da gente vogliosa di sfogarsi e divertirsi, fu in un certo senso costretto a
optare per una formazione più numerosa e in versione elettrica. Da una parte della critica questo
passaggio viene tuttora considerato un tradimento per il blues originale, quello campagnolo, dei
padri Son House e Robert Johnson, e un avvicinamento alle forme di rhythm'n'blues prima e di
rock che cominciavano a svilupparsi.
Il cambiamento fu rivoluzionario nel campo della musica afroamericana perché la struttura del
blues, basata solitamente su 12 battute portate talvolta a 15, 16 o 18 a seconda delle esigenze
contingenti dell'artista (un verso più lungo, la maggiore enfasi, la ricerca di su-spence e perfino
l'incapacità di esprimersi con una lingua non propria ma soltanto imparaticcia) si prestava alle
improvvisazioni del cantante che si accompagnava da sé ma non di una band che non poteva
prevedere le improvvisazioni del leader. Muddy Waters riuscì invece a formare un gruppo di
musicisti che conosceva a memoria la struttura dei suoi brani e gli spazi in cui potevano estendere
il proprio suono oltre la semplice traccia e la narrazione. Su una solida base ritmica, la seconda
chitarra funge da controcanto mentre l'armonica ha il compito precipuo di riportare gli altri
strumenti al ritornello. Gli assolo, tutti programmati (ne sono però esclusi batteria e basso),
seguono un regolare svolgimento, forse con una particolare preferenza per l'armonica che non per
il pianoforte e le chitarre (quella di Muddy ormai si limita sempre di più a introdurre i pezzi e a
sottili-neare i momenti di maggiore tensione; delle altre due, una fa da semplice
accompagnamento).
In quest'opera furono bravissimi Jimmy Rogers (nato in Georgia nel 1924, chitarrista
perfettamente complementare di Muddy con un suono più pieno, più ritmato e anche più raffinato:
il suo «That's Allright» gli procurò una grande fama), Little Walter (nato in Louisiana nel 1930,
sulla strada con l'armonica a guadagnarsi da vivere fin da quando aveva solo otto anni, da tutti
considerato una personalità emergente, il primo ad amplificare il suo strumento; morì nel 1968 per
una trombosi dopo l'ennesima rissa) e Otis Spann (punto di forza fino al 1968; morì due anni dopo
di cirrosi epatica).
Abbandonato il regolare lavoro di camionista e dedicatosi interamente alla musica, nel 1954
Muddy Waters collezionò tre dischi nei primi dieci delle classifiche di vendita: «Hoochie Koochie
Man» in marzo, «Mad Love (I Just Want You To Love Me)» in maggio e «I'm Ready» in ottobre.
Nel 1955 e nel 1956 Muddy Waters inserì altri due brani fra i primi dieci delle classifiche di
vendita, «Mannish Boy» (la risposta a «I'm a Man» di Bo Diddley) e «Forty Days and Forty
Nights». Poi il mercato cominciò a tirare specialmente per la nuova ondata di rhythm'n'blues e per
il blues-man di Rolling Fork cominciò un periodo di transizione (e non crisi, come sostengono altri),
in cui si dice che avesse addirittura perduto un certo interesse per la musica.
Ogni sera un'esibizione di sei o-re per sette sere alla settimana, inclusi dei concerti negli stati
del sud, soprattutto una totale partecipazione personale ai blues suonati e cantati: alla lunga si fece
sentire anche la stanchezza fisica. Così, seppure lentamente, Muddy cercò di eclissarsi concedendo
maggiore spazio alla band, lasciando in alcuni brani la parte vocale a Otis Spann o al nuovo
armonicista James Cotton e la parte solista al secondo chitarrista, infine apparendo solo per
eseguire quattro o cinque pezzi.
Nel 1958 Muddy Waters venne per la prima volta in Europa, a Londra e a Leeds. Ma i suoi
concerti furono disastrosi. Era stato invitato a suonare nei folk clubs, dove la sua musica elettrica
trovò una platea assolutamente impreparata e un'amplificazione altrettanto inadeguata. Invece
tutte le successive tournée, dal 1963 in poi, lo hanno consacrato al pubblico di qualsiasi età e di
qualsiasi paese.
Dei musicisti che in quegli anni dettero vita al cosiddetto «British blues», McKinley Morganfield
viene considerato il padre adottivo: fra gli altri suonarono e incisero con lui Alexis Korner, Cyril
Da-vies, Rory Gallagher, Steve Winwood dei Traffic, allora con lo Spencer Davis Group, Charlie
Watts dei Rolling Stones, Mitch Mitchell poi con Jimi H'endrix, e più tardi negli Stati Uniti Paul
Butterfield, Mike Boomfield e Buddy Miles. Nel proprio gruppo Muddy ha allevato fra gli altri gli
armonicisti Junior Wells («Il vecchio Muddy mi aiutò davvero molto. Molti pensavano che io fossi
suo figlio», ha detto a Neff e Connor), Henry Strong, George «Harmonica» Smith, James Cotton,
George «Mojo» Buford (che si faceva chiamare Muddy Waters Jr.) e Carey Bell Harrington; i
chitarristi Pat Hare, Buddy Guy, Luther «Georgia Boy» Johnson («Se non era per Muddy Waters
non sarei mai arrivato dove ora mi trovo. Mi insegnò un sacco di cose. A quel tempo mi arrabbiavo
sovente e molto con lui, ma più tardi compresi che aveva ragione. Era per me come un padre,
proprio come un padre», ha detto a Neff e Connor), Matt «Guitar» Murphy, Sammy Lawhorn, Pee
Wee Madison, Luther Johnson «Guitar jr.» e John Primer; i bassisti Calvin Jones e Ernest
Johnson; i batteristi Francey Clay, Clifton James, Willie «Big Èyes» Smith, S.P. Leary e Sam Lay; i
pianisti Joe «Pinetop» Perkins e Lovie Lee.
In un certo senso le tournée in Europa e la nuova fama ebbero un benefico effetto non solo sul
musicista ma anche sulla platea americana. Dopo le splendide performance alla Carnegie Hall di
NewYork nel 1959 con James Cotton e Memphis Slim e al Newport Jazz Festival nel I960, Muddy
Waters e la sua band venivano ingaggiati soprattutto in occasione dei grandi festival e per i
concerti in colleges e università. Il pubblico e gli appassionati non erano più i neri ma quasi
esclusivamente i bianchi.
Nel 1963, oltre Pepper's di Chicago, Muddy si esibì in Europa con l'American Folk Blues
Festival (con Otis Spann, Willie Dixon, Bil-lie Stepney, Memphis Slim, Big Joe Williams, Lonnie
Johnson, Victoria Spivey, Matt Murphy e Sonny Boy Wiliamson n.2): in questa circostanza si
presentò in due differenti vesti, acustica come nel Mississippi ed elettrica come a Chicago. Ma
stavolta il pubblico, abituatosi al suono urbano dei nascenti gruppi locali come i Blues Incor-
porated, Yardbirds, Animals e Rolling Stones, preferì nettamente lo stile chicagoano.
Nel 1964, tenuto come base il Pepper's, Muddy tornò a Newport e in Europa con l'American
Folk Blues and Gospel Caravan. Nel 1965 si spostò al Big John's di Chicago e replicò a Newport. Nel
1966 ancora Big John's e prima apparizione al festival di Berkeley. Nel 1967 tornò al Sylvio's di
Chicago che aveva riaperto i battenti. Nel 1968 tournée europea con concerti al Paris Jazz Festival
e al London Jazz Expo. Nel 1969 partecipò ai festival di Ann Arbor e Grant Park. A fine anno
Muddy Waters venne coinvolto in un pauroso incidente stradale e dovette rimanere per cinque
mesi lontano dalle scene. Tornò nel maggio 1970 e da allora la sua attività non ha più conosciuto
soste. Fallita poi la casa discografica Chess, Muddy ha trovato un nuovo ricco ingaggio con la
Columbia per la neonata etichetta Blue Sky grazie all'interessamento di un suo pupillo, il chitarrista
albino texano Johnny Winter. Gli ultimi album (Hard Again e Muddy Mississippi Waters Live)
sono stati giudicati dalla critica specializzata meno importanti dei primi (Folk Singer e Muddy
Waters At Newport) ma migliori di quelli intermedi (After The Rain e They Cali Me Muddy
Waters) e più tradizionali rispetto a certi esperimenti mai rinnegati dal musicista anche a distanza
di tempo e sempre stroncati dai puristi (Brass and The Blues e Electric Mud).

Il lato discografico è il rovescio della medaglia di Muddy Waters. Tanto apprezzata la sua figura
umana, tanto esaltate le sue qualità musicali, tanto seguiti i suoi concerti, quanto discussa la sua
produzione sul vinile. Chiari esempi sono altri due album: The London Muddy Waters Sessions e
Fathers and Sons. Il primo, che ha pure il grande merito di avere recuperato vecchi brani come
«Walkin' Blues» (di Robert Johnson) e «Key To The Highway» (di Jazz Gillum), ha subito una
successiva manipolazione con l'inserimento di un'intera sezione di fiati che ne hanno stravolto
l'originale intento. Il secondo, un'esauriente ed esaltante raccolta dei maggiori successi registrati
dal vivo, viene bistrattato per la presenza di musicisti bianchi, creando una sorta di razzismo alla
rovescia. Muddy Waters non ha mai fatto mistero del suo completo disinteresse a questioni di
pelle, tant'è vero che nel suo gruppo hanno militato per anni musicisti bianchi come gli armonicisti
Paul Oscher e Jerry Portnoy e i chitarristi Bob Margolin e Rick Kreher.
I dischi pubblicati per la Blue Sky, comunque, rendono giustizia al grande bluesman. I pezzi
nuovi sono diventati rari, ma almeno quelli vecchi recuperati non perdono a tanti anni di distanza il
loro vigore. L'apparizione poi nel film L'ultimo valzer, diretto da Martin Scorsese, l'ha consacrato
definitivamente' al grande pubblico e soprattutto a quello dei giovanissimi come uno dei grandi
della musica. «Mannish Boy», scritta nel 1955, viene osannata alla stessa stregua di «Get Back»
dei Beatles e «Satisfaction» dei Rolling Stones.
Un successo finalmente di grandi proporzioni, magari tardivo, ma pulito, perché Muddy Waters
ha continuato sempre per la propria strada. Non è stato lui ad andare incontro ai gusti e alle
esigenze del pubblico, ma è stato il pubblico a riconoscere i meriti di uno straordinario artista.
Generoso come pochi altri («Ho dato molti più aiuti di quanti ne abbia ricevuti» è solito ricordare),
Muddy Waters ha lanciato Chuck Berry e Howlin' Wolf presentandoli personalmente alla Chess; ha
prima valorizzato e poi lasciato andare per la sua strada chiunque volesse tentare una propria via
(gli stessi Jimmy Ro-gers, Little Walter, Otis Spann, Sammy Lawhorn, Buddy Guy e Junior Wells)
pronto a riassumerli poi nella band; ha perfino fatto da accompagnatore (per lo stesso Otis Spann,
Luther Johnson «Guitar jr.» e la cantante Victoria Spivey). Nella sua casa di Chicago ha o-spitato
lo zio Joe Brant fino alla sua morte nel 1963, e nel seminterrato il vecchio cantante di St. Louis
Jimmy Oden e per un certo tempo anche Otis Spann.
In questo seminterrato si improvvisavano continue jams con altri amici - musicisti: Roosevelt
Sykes, Little Brother Montgomery, Sunnyland Slim, Robert Jr. Lock-wood, Jump Jackson, Little
Walter, Jimmy Cotton, i fratelli Myers e naturalmente Jimmy, Otis e Muddy. Tutti pronti a
suonare, cantare, parlare e bere, come se fossero a casa propria nel Mississippi.
Fabio Treves

Discografia
Down At Stovall's Plantation (Tes-tament, s.d.)
Back In The Early Days (doppio) (Syindacate Chapter, s.d.) Good News voi. 3 (Syindacate
Chapter, s.d.)
Live At Newport 1960 (Chess, i960)
Folk Singer (Chess, 1964) The Real Folk Blues (Chess, 1966) More Real Folk Blues (Chess,
1966)
Brass and The Blues (Chess, 1966) Sail On (Chess, s.d.) Muddy Waters (doppio) (Chess, 1977)
The Best Of Muddy Waters (Chess, s.d.)
Muddy Waters Sings Big Bill Broonzy (Chess, 1964) They Cali Me Muddy Waters (Chess, s.d.)
Electric Mud (Chess / Cadet, 1968) After The Rain (Chess / Cadet, 1969)
Fathers and Sons (doppio) (Chess, 1969)
Can't Get No Grindirr (Chess, 1973)
Live At Kelly's (Chess, s.d.) Unk In Funk (Chess, s.d.) The Muddy Waters Woodstock Album
(Chess, 1975) The London Muddy Waters Ses-sions (Chess, 1972) Muddy Waters and Howlin'
Wolf (Chess s d )
Hard 'Again (Blue Sky, 1977) I'm Ready (Blue Sky, 1977) Muddy «Mississippi» Waters Live
(Blue Sky, 1978)
Antologie
Super Blues (con Little Walter e Bo Diddley) (Chess, 1966) The Super Super Blues Band (con
Howlin ' Wolf e Bo Diddley) (Chess, 1964)
Folk Festival Of The Blues (con Buddy Guy, Howlin' Wolf e Sonny Boy Williamson) (Chess,
s.d.) American Folk Blues Festival (Fontana, s.d.)

Otis redding :
il rhythm’n’blues e la soul music
Nel suo rigoroso trattato II popolo del blues, Leroy Jones non da' un peso eccessivo al
rhythm'n' blues. Forse perché più direttamente interessato alla musica che aveva accompagnato il
nero schiavo (il blues e la folk song) e a quella che aveva insito un sentimento eversivo (jazz e
free). O forse ancora perché convinto, come molti, che il blues dopo gli anni quaranta ha cominciato
a perdere una sua ragione di continuità.
«Il rhythm'n'blues, l'espressione contemporanea del blues di città, era stata la fonte della
nuova rinascita della musica popolare. Il rock'n'roll è il suo prodotto. [...] Non vi è dubbio che il
rock'n' roll è una palese commercializzazione del rhythm'n'blues, tuttavia questa musica per lo più
si basa su materiali così estranei alla cultura della borghesia americana semintel-lettuale da
risultare piuttosto interessante...» Nelle parole in cui Leroy Jones esaurisce l'argomento, si nota
come l'intellettuale di colore non avesse ancora valutato a fondo né compreso definitivamente,
quale peso potesse avere la musica dei neri in un'America che ormai sembrava aver accettato,
almeno a parole, di convivere con la popolazione di colore su un piano di parità sociale.
Tutti presi a seguire le evoluzioni delle nuove correnti jazzistiche, molti critici hanno smesso di
interessarsi del blues, considerando questa espressione come una forma di folk-song d'archivio.
Ma anche dopo gli anni quaranta, il blues ha continuato la sua evoluzione, abbandonando
chiaramente l'abito antico conosciuto nelle comunità rurali o nelle città prima e dopo la
Depressione.
L'elettrificazione del blues ha significato, probabilmente, uno dei momenti musicali più
importanti degli ultimi quarant'anni, soprattutto se si considera oggi, retrospettivamente, il
fenomeno. Il blues ha acquistato un ritmo nuovo, esattamente quando le città hanno incominciato
a pulsare a un ritmo differente. Così, il rhythm' n'blues non può essere considerato solo come una
esemplificazione o una commercializzazione dei blues primitivi. Peraltro, negli anni quaranta e
negli anni cinquanta, eiste-va una schiera gigantesca di blues-men classici ancora attivissimi e
forse mai il grande pubblico internazionale si è interessato al blues tradizionale come negli anni
sessanta, quando, gia^ie alla diffusione degli artisti rock, il genere è arrivato in ogni angolo del
mondo.
Ma il grande fenomeno che ha caratterizzato la musica nera alla fine degli anni quaranta è stato
quello di essersi arricchita di nuovi ritmi, di aver accettato le infiltrazioni di certi standard
americani e, in pratica, di incominciare realmente a far parte della vita culturale degli Stati Uniti.
Certo, nei primi decenni del novecento il blues era una realtà, ma una realtà confinata al pubblico
di colore. A livello di diffusione, le incisioni e-rano relegate nei race records, i dischi riservati alla
popolazione di colore. Dischi dei negri per i negri. C'erano bianchi tra il pubblico, certamente. Erano
degli amatori. Si pensi che per tutti gli anni cinquanta, ancora, nelle classifiche a-mericane si faceva
distinzione per una classifica particolare di rhythm' n'blues. In queste classifiche, così significative
tra gli anni '40 e gli anni '50, è scritta la storia più gloriosa di questo genere musicale. Essere nella
classifica rhythm'n' blues voleva dire aver venduto un numero di copie considerevole, ma
infinitamente meno di quante ne vendessero gli artisti di c&w o gli artisti pop dell'epoca.
La classifica rhythm'n'blues diventò un modo più elegante per continuare a dire ancora race
records, un termine che era diventato scomodo per un'America che, a parole, diceva di aver ormai
accettato e integrato la popolazione di colore. Anche i critici bianchi e non proprio politicamente
impegnati sono d'accordo: «R & b fu una maniera gentile di dire race music, come la musica nera è
stata chiamata per lungo tempo. È venuto fuori dal jazz, dal gospel e dal blues ed è lontano, molto
lontano dalla pop song che dominava le classifiche prima dell'avvento di Elvis. Il r & r è nato
soltanto quando i bianchi hanno cominciato a intrigare con la musica nera. ...Elvis è stato il primo a
combinare il suono dei neri con il suo background c&w. Quello era il r & r. Dopo di lui centinaia di r
& r men bianchi cominciarono a incidere classici r & r. Solo raramente gli originali vendettero più
delle copie dei bianchi. Così come raramente un artista bianco entrò nelle classifiche r & b,
altrettanto difficile fu vedere un nero far parte delle charts nazionali.» (Lillian Roron in Rock
Encyclopedia).
Alla base del rhythm'n'blues c'è una stratificazione profonda delle diverse tipologie della musica
dei neri americani. Né il jazz, né il blues, né il gospel e lo spiritual erano esclusi da questa nuova
forma. Più raramente vi si potevano scorgere certi piccoli particolari dedotti dalla popular song
americana o dal c&w. Il nuovo interprete di queste canzoni, già negli anni quaranta, si chiamò
shouter. Letteralmente significa urlatore e gli shouters erano così chiamati per la loro
caratteristica inflessione sonora che si adoperava in ogni modo per gareggiare con la potenza degli
strumenti accompagnatori, tra i quali spiccavano i fiati, la batteria e, più tardi, anche la chitarra
elettrica.
Certamente questo fu il primo grande passo per avvicinare la musica dei neri alle grazie della
popolazione dominante. Il r&b era una musica più moderna del blues, sebbene ne fosse un
derivato. Aveva un ritmo più incitante e poteva tranquillamente essere usato come musica da
ballo. Ci sono state una miriade di bands di r&b che si sono consolidate la fama proprio come
«dance bands». Ma si consideri anche che, se il blues non avesse attraversato questo momento,
probabilmente non avremmo mai avuto il r & r, o certamente non sarebbe stato lo stesso ritmo
che conosciamo.
I primi shouters si esibivano facendo risaltare realmente tutte le componenti che formavano
questo nuovo ritmo. In certe vecchie incisioni di Joe Turner, Jimmy Whi-terspoon o Otis Rushing,
sono ancora riconoscibilissime le porzioni blues da quelle jazz o gospel. Ma, in meno di un decennio,
il r & b stratificò talmente le sue influenze da diventare una delle espressioni musicali più ricche ed
affascinati di questo secolo. Già dagli anni quaranta si era ingenerata una certa confusione nel
definire lo stile. Chiaramente molti consideravano Witherspoon un cantante di jazz (come succede
tuttora). Lo era, in un certo qual senso. Ma non nel modo in cui Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan lo
sono state. Witherspoon, nella sua musica, accentuava la dominante jazzistica; come Turner
evidenziava quella bluesistica o Willie Mae «Big Marna» Thornton quella gospel. In definitiva, il r
& b può essere considerato l'ultima propaggine del blues urbano. Come il jazz, ha risentito
enormemente del cambiamento di vita e di ritmo delle grandi città americane. E soprattutto del
ritmo di produzione. Una musica che riflettesse la realtà urbana degli anni '40 e '50 non poteva
essere simile a quella di due decenni prima. Ed era pur vero che, in quella data, la maggior parte
della popolazione di colore viveva nei grandi agglomerati metropolitani.
Il r & b fu un modo di gridare i blues in modo diverso. Di liberarli dalla loro intonazione
sommessa e rassegnata e di creare una nuova pop song per la gente di colore.
Dietro a tutto (ma evidentemente fattore primario) l'industria discografica che, spessissimo,
era gestita dai bianchi. Ma si deve anche riconoscere che mai come in quegli anni i neri ebbero la
capacità di gestirsi la loro musica. Negli anni venti e negli anni trenta i race records facevano
totalmente capo alle grandi industrie bianche (Columbia e Rea soprattutto) che a-vevano scoperto
in quel materiale un enorme potenziale commerciale. Solo molti anni dopo la Grande Depressione
si incominciò a intrav-vedere la prospettiva di creare etichette gestite dai neri per le incisioni degli
artisti di colore. La Battle di Detroit e la Chess di Chicago sono solo i nomi più importanti.
Nel capitolo de II popolo del blues intitolato «La continuità del blues» Leroy Jones sintetizza il
passaggio dalle forme tradizionali del blues al r & b in questa maniera: «Quando le grandi
orchestre da ballo e da spettacolo incominciavano a trasformarsi in jazz bands, le più autonome
forme di blues erano già discese in quella sottocultura nella quale si preservò la loro funzione di
espressione collettiva. Nei parties, nei club e nei cabarets frequentati da soli negri, il blues
conservò sempre la sua importanza. [...] Kansas City, una città piena di bische e di night club
divenne il quartier generale delle grandi orchestre blues e dei loro shouting blues singers. Joe
Turner e Jimmy Rushing furono i primi shouters che con le loro urla sovrastavano il frappe della
sezione ritmica e la voce lacerante degli ottoni. [,..]Le orchestre blues e gli shouters del Southwest
ebbero una notevole influenza su tutta la musica negra. Lo shouter diede vira a un tipo di blues
che si sviluppò nelle città alla fine degli anni trenta, chiamato rhythm'n'blues: un insieme di unità
ritmiche che esplodevano sotto le urla dei cantanti.»
Joe Turner, Jimmy Rushing, Wy-nonie Harris, Jimmy Witherspoon, Bullmoose Jackson, B. B.
King, Muddy Waters, Smokey Hogg, T-Bone Walker e Bo Diddley furono, ognuno con accenti
diversi, gli iniziatori di una nuova corrente musicale che ha guidato le sorti della musica nera fino
agli anni settanta. Fin da quel momento il r&b si qualificò come un intricato campo di forze
interagenti in cui era assai arduo individuare tutte le sorgenti, le ispirazioni e le dominanti. Era una
musica devastante, forte, sincera e profonda che non poteva lasciare indifferenti.
«Un aspetto che non va sottovalutato a proposito del r&b è che proprio in quel periodo le più
grosse case discografiche bianche | tersero il controllo sulle incisioni della nuova musica, il che
spiega la sua limitata diffusione al di fuori delle comunità nere.» (Leroy Jones).
«Le grandi case discografiche, nei due o tre anni che seguirono la C.uerra, persero
completamente il controllo del settore dei dischi di Mues. C'erano invece centinaia di piccole case
che incidevano blues: molte appartenevano ai negri, molle erano al sud. La Chess Record (
lompany di Chicago e la Savoy Kecords di New York, e in una (erta misura anche la Atlantic Re-
cords di New York, hanno inciso alcuni dei migliori blues del dopo-IV terra. Pochi cantanti
firmavano contratti in esclusiva: cantanti come Lowell Fulson o Smokey Hogg incidevano
contemporaneamente per una mezza dozzina di case.» (S. B. Charters in The Country Blues).
Che il r&b abbia avuto una diffusione limitata presso le comunità bianche è vero fino a un certo
punto. Va detto che spesso il processo è stato lento, ma l'interesse che destò il r&b soprattutto
negli interpreti bianchi non ha precedenti. Accadde piuttosto che molti standards r&b furono
conosciuti per i remakes fatti da cantanti bianchi, prima che per gli originali. Ma questo fenomeno,
cui fa riferimento Charters, rimane piuttosto limitato agli anni quaranta, perché, nel decennio
successivo, le sorti del r&b saranno soggette a ulteriori cambiamenti.
Fu soprattutto negli anni cinquanta, a cavallo tra il primo e il secondo decennio, che il r&b
incominciò a integrare altre forme musicali e, soprattutto, forme musicali non tutte derivanti dal
patrimonio musicale nero. Il sorgere sempre più frequente dei gruppi vocali sostituì in maniera
sempre più massiccia l'attività dei primi shouters. Questi erano sempre attivissimi, ma il loro ruolo
nelle grandi orchestre era ormai considerato classico. Prima di diventare soul music, il r&b si
ammorbidì, si tinse di bianco e conobbe la pop song.
D'altro canto il r&b vero e proprio, quello sanguigno e potente degli shouting singers era
venuto a contatto con la musica dei bianchi, il c&w, in maniera sempre più consistente. E con
sempre più insistenza i bianchi incominciarono a mischiare le loro melasse sviolinate con un ritmo
più sostenuto. Il rock'n'roll è una combinazione di questi due elementi. Gli artisti neri che si
votarono anima e corpo al r&r furono Bo Diddley e Chuck Berry, anche se per comodità molti si
sono ostinati a coinvolgere in quella corrente anche Muddy Wa-ters. Il r&r, a livello di mercato, è
stato un'esclusiva dei bianchi (che spesso hanno plagiato il repertorio dei neri), perché Berry e
Diddley non hanno mai venduto quanto Elvis o Jerry Lee Lewis. Negli anni in cui infuriava il r&r, i
cantanti e i musicisti neri che riempivano le classifiche r&r erano quelli che provenivano da un
background tipicamente gospel.
L'inflessione gospel, fino a quel momento, era stata solo parzialmente utilizzata per le
espressioni musicali che non fossero state spiccatamente religiose. Ma, tra tutte le espressioni
musicali dei neri d'America, gospel e spiritual erano quelle più immediatamente legate all'uso della
voce e, spesso, erano intonate a cappella, senza, cioè, l'accompagnamento di alcuno strumento. Solo
raramente, anche negli anni quaranta, i cantanti di gospel si erano avvicinati al r&b.
Sporadicamente, singers come Sister Rosetta Tharpe avevano adottato certe inflessioni comuni
agli shouters. Ma certo è che, presso le comunità nere, il gospel aveva un peso e una popolarità
enormi, se, nei primi anni cinquanta, per una esibizione di Rosetta Tharpe e Marie Knight si
riunirono 15.000 persone in u-no stadio di Washington.
Negli anni cinquanta, per la prima volta in maniera decisiva, la gospel song (o almeno
l'intonazione della gospel song) cominciò ad essere utilizzata per scopi, diciamo, profani.
Commerciali. Fu un linguaggio che, lentamente, ma progressivamente incominciò a farsi strada
nelle classifiche di rhythm'n'blues.
Le case discografiche reclutavano questi artisti tra i giovani cantanti di chiesa e approfittavano
della profondità della loro voce e della loro caratteristica impostazione per lanciare un repertorio
diverso. Più sporadicamente, ma ciò potrebbe anche rientrare in una casistica comune, brani
gospel diventarono degli hits nelle classifiche r&b. Sam Cooke esordì come cantante gospel nel
gruppo dei Soul Stirrers. La sua carriera è stata esemplare per comprendere appieno quanto, in
fondo, le sorti del gospel, del r&b, del soul e del pop, a un certo punto, si sono intersecate in
maniera inscindibile.
Sam Cooke, uno dei più geniali e non considerati artisti di colore della fine degli anni cinquanta,
fino alla sua morte (avvenuta nel 1964 a Los Angeles) ha praticato tutti gli ambienti musicali
compresi tra il blues e la popular song americana. Si esibì con i Soul Stirrers a partire dal 1950,
quando, Robert Harris, la voce tenore del gruppo, gli lasciò il suo posto. Con la sua voce
caratteristica, Cooke segnerà per sei anni le incisioni di un gruppo gospel, ormai inevitabilmente
legato a certi umori pop. Non era più musica religiosa. Non solo: Cooke divenne l'idolo di migliaia e
migliaia' di ragazze, proiettando finalmente sull'audience quella sensualità (e sessualità) che i
gospels, fino ad allora, avevano espresso sempre in forma contenuta. Nel 1956 fu Bumps Blackwell
che incoraggiò definitivamente Sam Cooke verso la pop song.
Da quel momento incominciò la sua grande fortuna, anche se Sam Cooke non potrà mai essere
etichettato come cantante di gospels, di r&b o di pop. «Lovable, You Send Me» e «Summertime»
furono le sue classiche espressioni pop. Ma come non riconoscere in quella voce atipica (che così
tanto ha anticipato quella di Smokey Robinson) la vibrante intensità dei gospels, la scandita
intonazione dei r&b e, infine, la cantilenosa e pressante urgenza dei blues? E a ben comprendere
«Only Sixteen» e «Wonderful World» sono stati stupendi momenti di passaggio, nella sua carriera.
L'espressione di Sam Cooke (e in misura più piccola quella di moltissimi contemporanei che,
come lui, incidevano per l'etichetta Speciality e Veejoy; Jerry Butler è solo un nome più famoso
degli altri) è in realtà un crocicchio focale di esperienze musicali incrociate e inscindibili. I coretti
doo-wop, la spontaneità del c&w, la semplice intonazione della canzone leggera: niente di tutto
questo manca nelle canzoni di Sam Cooke nel periodo post-Soui Stirrers.
Quando, nei primissimi anni sessanta, Cooke fu scritturato dalla Rea, la sua forma musicale
aveva già raggiunto una maturità e una profondità sbalorditive. È lui, senza dubbio, quello che per
primo fece pronunciare la parola «soul music».
In quel periodo Cooke incominciò a incidere titoli che avevano uno spessore diverso. Si
trattava, solitamente, di sue composizioni che, gradatamente, si staccavano dalla vecchia
impostazione pop. Tre brani, in particolare, riassumono la tendenza che egli spalancò alle
generazioni di colore degli anni sessanta: «Bring It On Home To Me», «A Change Is Gonna Come»
e «Shake». Gli eredi, i veri protagonisti della soul music degli anni sessanta, non esiteranno a
riconoscere in Sam Cooke l'unico, vero, grande ispiratore di tutta una nuova generazione di artisti.
La gospel song sarà il punto di partenza che stabilisce lo spessore e l'intensità della nuova
musica. Ma le radici, al solito, sono molto più profonde. Tutto il fermento era partito dagli anni
cinquanta; Ray Charles aveva già tentato all'epoca di stabilire una nuova misura per la musica di
colore, vagando disperatamente tra il jazz, il blues, il r&b e la gospel song.
Sam Cooke è stato una guida illuminante verso la soul music, ma non la sola. Ci furono un sacco
di piccoli fenomeni musicali che guidarono la musica nera verso la stagione d'oro degli anni
sessanta. Le preziose trance di Ray Charles, la stupenda fusione che gli Staples Singers operarono
tra folk, blues e gospel, le evoluzioni vocali dei Pilgrim Travellers, la sensuale ispirazione dei
Moonglows e degli Spinners... Quando Sam Cooke incise «Shake», la sua carriera stava certamente
avendo una svolta decisiva. Non ebbe il tempo di approfittare dell'intero movimento che aveva
creato. Morì quando la parola soul music non era ancora una realtà molto evidente.
Oggi, a distanza, quando si parla di soul music, si usa ricondurre il fenomeno ai soli nomi di Otis
Redding, Aretha Franklin...Wilson Pickett, al massimo. In effetti la soul music è stata la nota
dominante della musica nera per tutti gli anni sessanta. Shake di Sam Cooke può essere
considerato un momento di rottura, almeno quanto «Free Jazz» di Omette Coleman lo fu per il
genere musicale che discendeva da Ellington. Otis Red-ding mosse il suo stile proprio da «Shake».
Aretha Franklin ha ripreso dal repertorio di Sam Cooke «A Change Is Gonna Come», «Bring It On
Home To Me», «Good Times», «You Send Me». Da questo punto nasce uno dei «miracoli» della
soul music. Ogni interprete si faceva carico dell'intero repertorio della canzone nera,
riproponendolo in una chiave assolutamente devastante. Il procedimento assomigliava a quello
adoperato da Archie Shepp: un recupero massiccio di tutte le forme musicali nere in un
agglomerato jazz di stampo universale.
Ray Charles, accompagnato dal coro delle Raeletts, ricrea lo spazio della canzone blues. Allarga
gli spazi delle dodici battute. Otis Redding rende particolarmente duro il rapporto con il r&b
esasperando la forma degli shouters. Aretha Franklin sublima la sua educazione gospel nelle
raffinatissime produzioni curate per lei da Jerry Wexler dopo il suo contratto con il gruppo
Atlantic, nel 1966.
Il mercato della soul music, negli anni sessanta, è stato determinante perché ha svincolato
definitivamente la musica nera dalle o-diose etichette, «race records» prima, «r&b records» poi.
Due grosse case discografiche assunsero il monopolio dei nuovi artisti. Il gruppo Motown,
fondato da Berry Gordy a Detroit, già alle soglie degli anni sessanta, e quello Atlantic, con le
consociate Stax e Volt, che si preoccupò di promuovere tutti quegli artisti spesso contraddistinti
con l'etichetta «Memphis Sound».
La Atlantic, fondata dai figli dell'ambasciatore turco, i fratelli Ertegun, seguì immediatamente
u-na politica avventurosa e coraggiosa. Jerry Wexler, che fu uno dei produttori portanti della
compagnia, spiega: «Fu molto semplice. Registravamo la musica nera, eseguita da artisti di colore
per un pubblico di colore. Molti artisti neri erano disgustati dal modo in cui la loro musica era
smerciata e manipolata dalle grandi compagnie. E alcuni di noi erano dello stesso identico parere.
Chiaramente all'inizio anche noi incontrammo la difficoltà di avere una promozione legata
esclusivamente alle emittenti di colore.»
Per tutti gli anni sessanta, Motown, Atlantic, Stax e Volt imposero al mercato le migliori
incisioni di r&b e soul music mai prodotte. Le due etichette non avevano problemi concorreziali. La
Motown di Detroit, fin dall'inizio, si creò uno stile personalissimo che poi avrebbe conservato, senza
sostanziali cambiamenti, attraverso gli anni. L'incidenza della pop music americana sul suono
Motown fu determinante. Il soul Motown aveva un tipo di colorazione del tutto particolare: poco
aveva ereditato dagli shouters che non fosse mediato in soft-blues.
Il gruppo che immediatamente fece salire i crediti dell'industria fu quello di Smokey Robinson
& The Miracles. Il leader lavorò tanto e così assiduamente — come compositore e come vocalist,
band leader e funzionario del gruppo — che in meno di cinque anni fu considerato uno dei più
«classici» cantanti a-mericani. Le canzoni di William «Smokey» Robinson, contraddistinte dal
caratteristico falsetto e impostate su affascinanti e tristissime storie d'amore espresse da simboli
indimenticabili, sono state riprese in questi ultimi vent'anni da decine e decine di musicisti bianchi
e neri. Attorno a questa figura centrale, il «Motown sound» — lanciato nella seconda metà del
decennio con lo slogan «The Sound Of Young America» — imponeva i preziosi gruppi vocali che
avrebbero fatto la storia di un genere che molti si ostinavano a chiamare soul, altri pop: The
Supremes, Marvin Gaye, The Marvelettes, Martha1 Reeves & The Vandellas, The Four Tops, The
Temptations, Mary Wells, The Contours, (Little) Stevie Wonder, Gladys Knight & The Pips.
La Tamia Motown aveva il suo nucleo di compositori (Holland-Dozier-Holland...), di
arrangiatori e di musicisti. Non erano tantissimi, non lo sono mai stati, ma hanno imposto uno stile
che ancora dura e vende.
Il «Memphis sound» fu quello diffuso dalla Stax Records, l'etichetta fondata nella città da Jim
Stewart, un disc jockey country o-riginario di Memphis, e da sua sorella Estelle Axton. Iniziarono
registrando Rufus Thomas e sua figlia Carla e si allargarono grazie all'interessamento di Jerry
Wexler. Anche loro lavorarono con un nu-' leo di musicisti quasi fissi: Mar-Keys, Booker T. & The
MG's, William Bell, Rufus & Carla Thomas, Otis Redding, Sam & Dave, Wilson Pickett, Al Jackson,
Steve Cropper, Eddie Floyd, Bar--Kays e una coppia di compositori indispensabili: Isaac Hayes e
David Porter.
E poi ancora, interpreti e show-men sublimi e senza patria: James Brown, Aretha Franklin,
Nina Simone... i loro stili sono stati tre tracce differenti, tre modi di parlare con l'anima, di sudare
sul palcoscenico fino all'ultima goccia.
James Brown, fiero di negritudi-ne, diventò un leader. Le folle lo osannarono. Nessuno, come
lui, a-veva esasperato la funzione e la potenza degli shouters. Lui è stato l'ultimo grande urlatore
tra i cantanti di colore. «Ditemi, siete pronti per uno show di soul super-dinamite? È arrivato il
momento della star signore e signori. È il momento di introdurre il giovane che ha collezionato più
di 35 classici del soul, brani che non moriranno. Brani come «Try Me», «Out Of Sight», «Papa's
Got A Brand New Bag», «I Feel Good», «Sex Machine», «Superbad» e «Soul Power». È arrivato il
momento di presentare il più grande entertainer del mondo, Mr. Dynamite, The Amazing Mr.
Please Please in persona, il più infaticabile lavoratore dello show-businness. Ladies and gentlemen,
the star of the show: James Brown!
E lui ogni volta saltava in scena, preceduto dal solito rituale. E per lunghi, interminabili quarti
d'ora si strozzava sul quel microfono fino a possedere l'anima della sua gente.
Aretha Franklin, colei che incontestabilmente è considerata la Lady Soul, proveniva dalla
chiesa e da sei anni (1960-66) sprecati a incidere materiale ambiguo per la Columbia quando, nel
1966, con uno dei lanci più spregiudicati e positivi della storia della musica recente, fu catapultata
nei vertici più alti che la soul music abbia mai conosciuto, per popolarità e copie vendute. «I Never
Loved A Man (The Way I Love You)», la prima di una lunga serie di produzioni curate da Jerry
Wexler, è tuttora uno dei migliori album mai registrati nel settore.
Con i successivi album, almeno fino al 1971, Aretha si è qualificata come l'interprete più sublime
di un mercato che ormai era diventato gigantesco. Lei afferrava qualsiasi canzone le piacesse e, con
l'aiuto di musicisti come Roger Hawkins, Spooner Oldham, Tommy Cogbill, Chips Moman, Cornell
Dupree, King Curtis (e perché no, Duane Allman), la filtrava attraverso lo specchio della sua anima.
Non importava se il brano era di derivazione pop, country o se apparteneva a qualche vecchio
compositore Atlantic (Don Covay, Spooner Oldham...): lei lo scandiva di nuovo, completamente. Ne
ricreava la struttura, lo rendeva aggressivo, devastante. Fino a «Soul '69», quando con una
spregiudicatezza e un'abilità spaventose amalgamò tutto in una esplosiva miscela funky, risultato
di una poderosa sezione di fiati jazz e di una esperienza illimitata di vocalist.
Non ci fu nessun'altra cantante che ne uguagliasse i meriti. Nessun altro produttore che, come
Wexler, facesse centro ogni sei mesi con un nuovo microsolco. Ancora oggi, insieme con Patti
Labelle e Mavis Staples, è venerata come una delle migliori voci soul, anche se, forse, a livello di
interpreti soul, nessuno mai ha raggiunto e l'integrità professionale e umana di Nina Simone. La
sua carriera "è stata la più atipica di quegli anni di soul.
Nella schiera foltissima delle incisioni di Nina Simone è assolutamente impossibile indicare un
periodo più creativo di un altro, perché la Simone non ha avuto il Jerry Wexler che le ha risolto
una carriera, ma si è sempre espressa con la medesima intensità, con quella voce virile e afro
standard tipo Bee Gees, Beatles, Léonard Cohen, Duke Ellington, Giancarlo Menotti, Saint-Saéns,
Irving Berlin, Randy Newman, Billie Holiday, Bessie Smith, Burt Bacharach, Billy Strayhorn, Bob
Dylan, Jesse Mae Robinson, Jacques Brel... e Aretha Franklin.
Nelle sue stupefacenti riedizioni, «The High Priestess Of Soul» come la chiamavano, immette
tutta l'anima nera che molti dei suoi colleghi avevano perduto. Senza dubbio, insieme con James
Brown, è stata la più vicina alle vicende e alle lotte dei neri negli anni sessanta. James Brown
gridava «I'm black & Fm proud», lei incoraggiava «To be young, gifted and black». E spesso in
certe sue intonazioni («Rags And Old Iron», «Summertime», «Four Women», «Funkier Than a
Mosquito Tweeter», «Dambala»...) c'è un profondo, nostalgico e accorato richiamo africano.
Altrettanto difficile è paragonare l'operato di Nina Simone a quello di altri cantanti di soul. Non
c'è nulla in lei che assomigli agli standard Motown o a quelli della Stax/Volt. Eppure si è servita di
entrambi. Non ha avuto la popolarità di Aretha Franklin, ma, almeno fino al 1974 (dal 1958) non
ha mai concesso un millimetro della sua ispirazione alle classifiche. E non è un caso che soltanto un
paio di brani, dei suoi, abbiano scalato le charts («I Put A Speli On You» e «Ain't Got No/I Got
Life»).
Negli anni settanta le diverse correnti di soul che si sono ramificate dalle varie città e dai vecchi
stili si sono progressivamente allontanate dall'intensità immediata di Otis, Aretha e Nina Simone. E
anche gli show sono diventati assai più convenzionali di quelli creati da Sam & Dave e James
Brown.
Il lancio definitivo per il soul degli anni settanta, ripetitivo, meccanico e largamente
elettronizzato, è partito da Philadelphia, sotto la spinta di personaggi (compositori, produttori,
musicisti e business men) come Kenny Gamble, Leon Huff e Thom Bell. Prima di creare il celebre
catalogo Philadelphia International, Gamble & Huff incominciarono a crescere con la Nep-tune
Records e i nomi di Billy Paul, O'Jays, Three Degrees, Bunny Singler e The Vibrations. Come la
Motown di Detroit, anche l'etichetta di Gamble & Huff incominciò a caratterizzare il proprio
materiale: uno dei luminosi primi esempi fu «Western Union Man» di Jerry Butler, un artista che
già dagli anni cinquanta lavorava per l'etichetta Veejoy.
Più tardi, con Harold Melvin and The Blue Notes, Intruders, MFSB, Tramps, People's Choice,
Stylistics e Teddy Pendergrass (dopo la sua dipartita dal gruppo di H'arold Melvin), la Philadelphia
International ha costituito una delle maggiori spinte verso la creazione di un mercato nero
definitivamente destinato al ballo, agli effetti da discoteca, ai prodotti stereotipati che poco hanno
lasciato all'immaginazione e all'improvvisazione. E — si tenga in conto — Teddy Pendergrass e Billy
Paul sono oggi degli interpreti sofisticatissimi. La disco music è scesa molto, molto più in basso.
Otis Redding«Senza dubbio alcuno è stato grazie a Otis se il giovane pubblico bianco è in grado,
oggi, di apprezzare la soul music allo stesso modo dei neri»
Jerry Wexler
Quella di Otis Redding è stata una carriera esemplare di soul man: per le influenze ricevute e
per lo stile deteminante che si era creato fino alla sua morte, avvenuta nel 1967.
Era nato a Dawson, Georgia, il 9 settembre 1941 ma fin da piccolo era vissuto a Macon. Suo
padre, come quello di Aretha, era un Reverendo di chiesa battista e Otis si era fortificato
esibendosi come gospel singer. Ma fin da giovanissimo non aveva nascosto la sua tentazione per il
r&b e il r&r, per i dischi di Little Richard, particolarmente. Ma adorava anche James Brown, Sam
Cooke, Dee Clark. Little Richard era il suo preferito perché anche lui era di Macon. Fu nel 1957 che
Otis, grazie all'interessamento di Phil Wal-den (che poi divenne suo manager) iniziò la sua carriera
di cantante professionista. Ricorda Walden:
«Fummo molto vicini, troppo, senza dubbio. Quando iniziammo il nostro rapporto eravamo
sempre insieme e diventammo subito degli ottimi amici. L'agenzia non andava ancora molto forte.
Avevo affittato un piccolo ufficio che avevamo tappezzato di foto di artisti, per fai credere che
avevamo bisogno d' clienti. Quando il telefono suonava, rispondevo imitando una voce di donna, e
lasciavo che il cliente aspettasse, dicendo che Mr. Wal-, —
den era occupato. Qualche minuto dopo riprendevo la cornetta con la voce al naturale. [...] Otis
aveva enormemente bisogno di soldi per sposarsi, ma il giorno in cui dovetti pagare il terzo
trimestre del college avevo sessanta dollari in meno. Lui non esitò a darmi tutti i suoi risparmi.»
Le cose cambiarono in pochissimo tempo: Otis divenne uno degli artisti r&b meglio pagati
d'America e Walden Enterprises l'agenzia più prospera del paese in quel genere di affari.
Le prime due facciate, Otis le incise per la Bethlehem («Shout Bamalama» «Fat Girl»), la
stessa etichetta che aveva guidato l'esordio di Nina Simone. Fu Joe Galkin, qualche tempo dopo,
che raccomandò il talento di Otis a Jeviy Wexler. La prima seduta di registrazione negli studi Stax
di Memphis avvenne quasi per caso: tre quarti d'ora di tempo avanzati da una seduta per Johnny
Jenkins. Con Booker T Jones, Steve Crop-per, Al Jackson e 'Duck' Dunn, Otis incise «Hey Hey
Baby», un classico di Little Richard, e una stupenda ballata di sua composizione, «These Arms of
Mine». Otis incominciò a incidere per la Volt, una nuova etichetta di cui la A-tlantic aveva la
distribuzione.
Pain In My He art, il primo album ufficiale di Otis (era il 1963), era già un sacrosanto prodotto
di soul. C'era una selezione notevolissima di brani dedotti dal repertorio di Little Richard, Rufus
Thomas, Ben B.King e Richard Berry. Le versioni di «Louie Louie», «Pain In My Heart», «These
Arms Of Mine», erano soul ballads intense e adulte. Nel 1964 Otis registrò per la Volt «Come To
Afe», «That's How Strong My Love Is» (ripresa poi anche dai Rolling Stones, da Candi Staton e da
Bryan Ferry) e «Mr. Pitiful», con la collaborazione di Booker T & the MG's e la sezione ritmica dei
Mar-Keys. Nello stesso anno fu registrato quello che è considerato uno dei più classici numeri della
soul music e del suo repertorio, «I've Been Loving You Too Long». E poi tutti gli altri titoli: canzoni
travolgenti da urlatore soul, «Respect», «l Can't Turn You Loose». «Satisfaction» fu registrata in
occasione della prima tournée europea. Otis rimpianse di aver inciso il brano degli Stones e
ammise che si trattava della cosa peggiore che avesse mai fatto. Ma l'operazione sortì il suo effetto
e «Satisfaction» rivelò la sua forza al pubblico europeo. L'album Dictionary of Soul ebbe
addirittura più fortuna in Europa che negli Stati Uniti. Vi erano dentro delle riprese stupefacenti di
«I'm A Htog For You Baby» dei Coasters e «You're Stili My Baby» di Chuck Willis; in più la
disinvolta «Fa Fa Fa Fa Fa (Sad Song)» di Redding Cropper, «Day Tripper» di Lennon-
McCartney; «Try A Little Tenderness», il suo soul in forma di ballata che ebbe più fortuna insieme
con «I've Been Loving You Too Long».
Prima di incidere King And Queen nel 1966, in duo con Carla Thomas, Otis scoprì e produsse
Arthur Conley con Sweet Soul Music. King & Queen comprendeva versioni esplosive di «Bring It
On Home To Me» di Sam Cooke, «Knock On Wood» di Eddie Floyd e «Tramp» di Lowell Fuslon. Il
1967 fu l'anno dello Stax-Volt Tour, una tournée organizzata sui nomi di Booker T & The MG's,
Mar-Keys, Eddie Floyd, Sam & Dave, Rufus & Carla Thomas, di cui Otis era la vedette. La
tournée fu un trionfo. Jerry Wexler e Tom Dowd registrarono i concerti di Londra e Parigi e vi
ricavarono un celeberrimo album doppio.
In America di tutti questi bagliori europei arrivarono solo eco vaghissime. Ma tanto bastò
perché John Phillips, uno dei produttori del festival di Monterey, lo convocasse alla manifestazione.
Nonostante che quell'anno fosse richiesto agli artisti di suonare gratis (era il primo anno che da
festival folk-jazz si allargava a nuove au-diences), Otis, sotto la spinta di Jerry Wexler, vi
partecipò. Era il 17 Giugno 1967. Quel sabato sera Otis, immancabilmente accompagnato da
Booker T & The MG's e dai Mar-Keys, cantò esattamente come aveva fatto da quattro anni a
quella parte: la sola differenza era che quel pubblico, che quella sera decretò il suo trionfo, non
aveva mai sentito parlare di lui. Da allora, con la sua nuova orchestra, The Bar-Kays, Otis girò
l'America in lungo e in largo. Nel 1967, dopo che Elvis per dieci anni consecutivi ne era stato
vincitore, Otis Redding fu votato come miglior voca-list maschile nel pool del Melody Maker.
Per conquistare definitivamente l'America, Otis compose in gran segreto, a Macon, una
canzone che avesse la stessa forza di «I've Been Loving You Too Long» che l'aveva spinto in alto.
Fu in quel periodo che il Vice-Presidente Humphrey lo invitò per una tournée da organizzare in
Vietnam per le truppe americane. Otis chiamò in studio Si ève Cropper per fargli ascoltare «The
Dock Of The Bay». Registrarono la ritmica e la voce, rimandando al lunedi successivo, quando Otis
sarebbe rientrato da Madison, l'aggiunta degli ottoni. Quando si trattò di decollare per Madison, il
pilota del piccolo aereo personale di Otis avvertì che le condizioni atmosferiche erano terribili. Otis
insistette perché si prendessero delle misure di sicurezza e si partisse comunque.
L'aereo decollò e tutto andò relativamente bene fino a quando non giunsero nei pressi di
Madison. Ma, a cinque chilometri dal-l'aereoporto, l'aereo si schiantò sulla superficie ghiacciata del
lago Pomona. Tutti morirono, tranne due trombettisti dei Bar-Kays, Ben Cauley e James
Alexander. La cerimonia funebre si svolse nell'auditorium municipale di Macon, dove erano accorsi
ammiratori e amici dai quattro angoli degli Stati Uniti. Jerry Wexler parlò dopo il sindaco e il
senatore della Georgia, Leory Johnson.
«Otis Redding era un principe naturale — disse Wexler — quando eravate con lui e con le sue
straordinarie capacità umane. E, non so per quale magia, le sue incisioni traboccane di queste
medesime qualità. ...«Dock of the Bay» è il suo epitaffio e prova che un cantante può seguire la sua
coscienza e avere un successo commerciale.»
Per lui Joe Simon cantò «Jesus Nearer to the Cross» e Johnny Taylor «I'il Be Standing By»,
accompagnato all'organo da Booker T. Dietro la salma, Joe Tex, Johnny Taylor, Joe Simon, Roger
Redding, Earl Sims, James Brown, Little Richard, Fats Domino, Wilson Pickett, Sam & Dave, Percy
Sledge, Aretha Franklin, Stevie Wonder, Arthur Conley, Don Co-vay, Solomon Burke, Mabel John
e... molti, molti altri.
«Dock of the Bay» non ebbe mai quella sezione di ottoni aggiunta. Fu pubblicata così, come una
ballata soul, semplice, spoglia:
Roamed 2000 miles from Georgia
Never to go back home again
Oh sitting on the dock of the bay
Watching the tide roll away
Sitting on the dock of the bay
Wasting my time
(Ho errato per 2000 miglia dalla Georgia/Senza mai tornare a casa, Oh/Seduto sulla riva della
baia/A guardare la marea che scende/ Seduto sulla riva della baia/ A sprecare il mio tempo).
Peppe Videtti
Discografia Ray Charles
The Ray Charles Story (Atlantic, s.d.)
Ray Charles In Person (Atlantic, 1960)
Greatest Hits (London, s.d.) James Brown
Live At The Apollo (Polydor, 1962)
Cold Sweat (Polydor, s.d.) Mr. Dynamite (Polydor, s.d.) Sex Machine (Polydor, s.d.)
Booker T & The MGs
Melting Pot (Stax, 1972) Green Onions (Stax, 1962)
Sam & Dave
Soul Men (Stax, 1967)
tìold On, l'm Corning (Stax, 1966)
Wilson Pickett
The Best Of W. P. even (Atlantic, s.d.)
Greatest Hits (Atlantic, s.d.) Aretha Franklin
I Never Loved A Man The Way I Love You (Atlantic, 1967) Aretha Now (Atlantic, 1968)
Aretha Arrives (Atlantic, 1967) Lady Soul (Atlantic, 1968) Live In Paris (Atlantic, 1968) Soul 69
(Atlantic, 1969) This Girl's In Love With You (Atlantic, 1970)
Live At Fillmore West (Atlantic, 1971)
Spirit In The Dark (Atlantic, 1970)
Otis Redding
Dictionary of Soul (Ateo, 1966) Pain in my Heart (Ateo, 1965) Live in Europe (Ateo, 1966)
Live at the Whisky a Go Go (Ateo. 1968)
Soul Ballads (Ateo, s.d.)
Smokey Robinson & The Miracles
Going To A Go Go (Motown,
1966)
Away from A Go Go (Motown,
1967)
One Dozen Roses (Motown, 1971) Special Occasion (Motown, 19681 Fly High Together
(Motown, 1972) Live 1958-1972 (Motown, 1972) Anthology (Motown, 1974)
Diana Ross & The Supremes
Meet The Supremes (Motown, 1964)
We Remember Sam Cooke (Motown, s.d.)
I Hear A Symphony (Motown, 1966)
A Go-Go (Motown, 1966) Sing Holland-Dozier-Holland (Motown, s.d.)
Live At The Talk of the Town (Motown, 1968)
Sam Cooke
The Two Sides of Sam Cooke ( Special ty, 1970)
With The Soul Stirrers (Special-ty, 1964)
The Best of Sam Cooks (RCA, 1962)
Sings Billie Holiday (RCA, 1976) Stevie Wonder
Music of my Mind (Motown, 1972) Talking Book (Motown, 1972) Innervisions (Motown,
1973) Vulfillingness' First Finale (Motown, 1974)
Songs in The Key of Life (Mo-lown, 1976)
Nina Simone
The Amazing Nina Simone (Col-pix)
At The Town Hall (Colpix) At The Carnagie Hall (Colpix) At Newport (Colpix) At Village Gate
(Copix) Sing Ellington (Colpix) Wild Is The Wind (Philips) /.e/ It Ali Out (Philips) In Concert
(Philips) / Put A Speli On You (Philips) l'he High Priestess of Soul (Philips)
Pastel Blues (Philips) Silk & Soul (RCA) Sings The Blues (RCA) To Love Somebody (RCA)
Nina And Piano! (RCA) Emergency Ward (RCA) It Is Finished 1974 (RCA) Baltimore (CTI)
Mavis Staples
Only for the Lonely (Stax) Mavis Staples (Stax)
Staples Singers
For What It's Worth (Epic) Soul Folk in Action (Stax) Respect Yourself (Stax) Be What You
Are (Stax)
O'Jays
Back Stabbers (PIR)
Ship Ahoy (PIR)
Harold Melvin & The Blue Notes
Harold Melvin & The Blue Notes
(PIR)
Black & Blues (PIR) Billy Paul
360 Degrees of Billy Paul (PIR) War of the Gods (PIR)
Spinners
Pick of the Litter (Atlantic) Marvin Gaye
Live on Stage (Motown. 1969)
Take Two (Motown, 1966)
I Heard it Through the Grapevi-
ne (Motown, s.d.)
That's the Way Love Is (Motown,
1970)
Let's Get it on (Motown, 1973) Diana and Marvin (Motown, 1974) Live! (Motown, 1974) I
Want You (Motown, 1976)
Joe Tex
Soul Man (Atlantic, s.d.) Arthur Conley
Sweet Soul Music (Atlantic, s.d.)
Al Green
I'm Stili In Love With You (London, 1972)
Nex to You (London, 1970)

JOHN MAYALL

Unicamente discreto come strumentista, culturalmente mediocre, una pericolosa propensione


per il cattivo gusto, assommata ad una notevole dose di egoismo, eppure, nonostante ciò, non si
spengono ancora i fuochi sonori che John Mayall, nel corso di una attività quasi ventennale, ha
acceso lungo le scogliere inglesi prima che l'andropausa gli ottenebrasse la mente. C'è un fatto, in
realtà, che spinge a rinnovare il ricordo di Mayall, è il ripetere quanto la sua musica sia servita alla
riscoperta, e alla divulgazione, del blues neroamericano nella sua forma, quella elettrica, a noi più
vicina. Se a ciò aggiungiamo l'abilità incredibile di band leader che ha sempre tratto il meglio dai
partners, e il fiuto innato nello scoprire, e valorizzare, talenti (Eric Clapton, Peter Green, Mick
Taylor, ecc.) che a loro volta hanno finito per fungere da elementi trainati del nuovo rock della
seconda parte degli anni sessanta, il quadro di questo azzimato musicista acquista contorni più
chiari e definiti.
Alfiere quindi, unitamente ad Alexis Korner, del fenomeno che ha assunto il nome di «British
Blues», vive oggi una maturità triste, condita di ricordi, mentre il suo nome è scivolato, al contrario
di quello di Korner, nel dimenticatoio e i giovani lo guardano ormai come un reduce, un relitto del
tempo passato da cui è impossibile cavare «il vento del blues». L'unico modo per fare capire
l'importanza, e la grandezza, del multiforme Mayall ritengo sia quella di ripercorrere la sua
carriera discografica, integrandola però con brevi flash su alcuni aspetti del blues revival inglese,
visto anche, come movimento di ricerca che ha creato una scuola, uno stile, un modo di «sentire e
fare» musica.
Il «British Blues» è un fenomeno che prende corpo lentamente, sino ad esplodere, negli anni
sessanta, ma le sue radici risalgono probabilmente al 1949, allorché Huddie Leadbett-er, meglio
conosciuto come Leadbelly, sbarca in Europa a Parigi. Anche se nel dicembre dello stesso anno
Leadbelly muore al New York's Belle vue Hospital, il blues, pur velato in questo caso dalle matrici
folk, ha ormai attraversato l'oceano, e per giunta senza essere al traino della solita jazz band, per
portare sul vecchio continente la musica del neroamericano. Se a ciò assommiamo le altre tournée
di artisti di colore, Josh White (1950), Big Bill Broonzy (1951), Lonnie Johnson (1952), acquista
una sua certa logica il fatto che, nel '56, il brano «Rock Island Line», una vecchia canzone imparata
da Lonnie Done-gan ascoltando i dischi di Lead-belly, raggiunga i vertici delle classifiche di vendita.
Nasceva in tal modo lo skiffle che, originariamente, era il termine applicato alle «Jug Band» di
Chicago negli anni venti, i cui strumenti, autocostruiti, rimpiazzavano la sezione ritmica di una jazz
band tradizionale, mentre le voci si sostituivano agli strumenti solisti. In contrasto con il rock, che
invocava l'elettrificazione, la strumentazione delle skiffle band era completamente acustica
(poggiava, essenzialmente, su chitarra, basso e washboard), ma la loro durata fu molto breve, visto
che nel '58, se non prima, le band finirono per confluire tutte nelle prime timide formazioni di rock
inglese.
Ma il momento magico è proprio il 1958, allorché il gruppo di Muddy Waters, con Otis Spann al
piano, visita per la prima volta la Gran Bretagna e porta con sé gli umori densi di sudore, rabbia e
violenza, del nero urbanizzato ed elettrificato.
A questo punto facciamo un passo indietro e spostiamoci sulle colline di Macclesfield, Chesire,
piccolo paese nei pressi di Manchester, dove il 29 novembre 1933 viene alla luce John Mayall. Dal
padre, tranquillo suonatore di chitarra in un gruppo jazz, eredita l'amore per la musica che riesce
ad ampliare, in maniera considerevole, attingendo sempre dalla discoteca paterna. A 14 anni, dopo
aver già appreso l'uso della chitarra e dell'ukulele, orienta i suoi interessi verso il pianoforte, che
inizia a percuotere nello stile boogie ricavato dall'ascolto dei dischi di Big Maceo, Albert Ammons e
Pinetop Smith.
Terminati gli studi nel '49, alla Manchester School of Art, lavora, per circa due anni come
installatore di vetri, prima di essere inviato, per l'espletamento degli obblighi di leva, in Corea. Qui
ha la possibilità, anche grazie ai contatti con militari americani, di migliorare il suo stile chitarristico
su una chitarra, acquistata in Giappone durante u-na licenza, che, adattata a nove corde, a volte
impiega ancora oggi. Tornato in patria riprende gli studi, interrotti, al liceo artistico di Manchester,
sino a che nel '56, sull'onda dello skiffle e di un certo jazz annacquato, forma il suo primo gruppo
«The Powerhouse Four», ma la band, «impegnata» più che altro a suonare nelle feste dei colleges,
era imperniata su ragazzi volonterosi più che su «musicisti in embrione», per cui il suo
scioglimento non provoca alcun rimpianto se non in John, che vi credeva con fede.
Siamo quindi arrivati, anzi in realtà ritornati, al 1958 e all'approdo di Waters, che con il suo
bagaglio di blues elettrico sanguigno e viscerale, funge da elemento catalizzatore nella reazione
chimica che sta per innescarsi in Gran Bretagna. Per John l'evento Waters significa infatti un tuffo
tra i dischi di Elmore James, J.B. Lenoir, Little Walter, Sonny Boy William-son 2°, alla ricerca di
quello stimolo autentico di far musica che non riesce, ancora, ad uscire dal cervello e a
concretizzarsi. Assistiamo quindi, nella Manchester basata sul binomio carbone-industria, alla
nascita dei «Blues Synda-cate» ('61), ma le voci che giungono da Londra, nei riguardi di gente che
si agita, per uscire dalla stretta cerchia di un certo jazz tradizionale e dai canoni prefissati del
nascente rock inglese, spingono John a recarvisi.
Qui avviene l'incontro con Alexis Korner, gnomo senza età, nato vecchio o, forse sempre
giovane, che già dal '54, assieme all'armonicista Cyril Davies, lottava, sia al Roundhouse che in tutti
i Pub del sottobosco musicale, per introdurre il buon sapore del blues, sia pure mescolato al jazz,
tra i gusti degli appassionati di musica. Se riflettiamo sul fatto che Korner viene da lontano (Chris
Barber Band, Ken Colyer Skiffle Group, ecc.), e che sia il pubblico più esigente che la critica di
allora erano concordi nel riconoscergli la serietà, e la validità, del suo ricupero bluesistico al di fuori
di; ogni contatto con il beat nascente o con il rock and roll, diviene chiara l'importanza dell'incontro
tra John e un siffatto personaggio.
Se a ciò aggiungiamo che nei «Blues Incorporated» di Korner ruoteranno Long John Baldry,
Mick Jagger, Keith Richard, Eric Burdon, Charlie Watts, Jack Bruce, John Surman, Ginger Baker,
Robert Plant, ecc., l'affratellamento tra i due è sicuramente vantaggioso per Mayall, che cattura le
matrici di Korner non tanto per riproporle pari pari, quanto per impiegarle u-nicamente come
ceppo su cui poi innestare, e sviluppare, la propria inventiva musicale al di fuori di ogni imitazione
sterile. Ciò lo si nota, soprattutto, nell'uso dei fiati, che John inserisce con maggior cura, e
nell'impiego di chitarristi in grado di trasferire, in emozioni e-lettriche vibranti, lo slancio e le
tensioni provenienti da un blues in via di mutazione, che Korner, eccessivamente legato a trame
tradizionali, è incapace di cogliere.
Soddisfatto dell'esperienza londinese, John decide di stabilirvisi ma, visto che i compagni del
gruppo non intendono lasciare Manchester, si vede costretto a scioglierlo ripartendo da zero.
Nascono, dopo circa due anni «on the road», i «Blues Breakers» (1963) che, i-spirandosi
chiaramente alla Chicago anni cinquanta, ben presto si impongono come la band che, mescolando lo
skiffle con le radici nere, riesce a convertire il tutto in un amalgama sonoro asciutto, privo di
ridondanti simboli delle swing band. È logico che, in questo periodo di assestamento,
importantissimi risultano i tour che John ha la fortuna di intraprendere con John Lee Hooker (da
cui apprende l'arte di muoversi sul palcoscenico), e con Sonny Boy Williamson 2° (che gli sarà
mentore per le sonorità dell'armonica).
Dopo alcuni cambiamenti (Berme Watson, chitarra, Martin H'art e Keith Robertson, batteria),
che come vedremo saranno uno dei temi dominanti del personaggio Mayall («Penso che, variando
in continuazione i componenti del mio gruppo, riuscirò a non entrare mai in crisi di stagnazione né
come musicista, né come compositore»), la band giunge all'esordio discografico John Mayall Plays
John Mayall registrato dal vivo il 7 dicembre 1964 al Klooks Kleek di Londra, con la seguente
formazione: John Mayall (voce, armonica, chitarra, organo), Roger Dean (chitarra), John McVie
(basso), Hughie Flint (batteria) e Nigel Stanger (sax), il cui apporto è però limitato a quattro brani.
Al primo ascolto balza in evidenza la sonorità della band, molto graduata nella dinamica ma
tendenzialmente monocorde, soprattutto per merito del rock che, ancora incollato agli abiti dei
musicisti, rende la musica troppo accelerata e contratta. Nonostante ciò si può notare lo sforzo di
una certa identità di ricerca (i testi non sono riedizioni di blues più o meno famosi, ma opera di
John), e la passione ingenua che vi viene profusa, sino a condurre, fuori dal sentiero del già sentito,
brani come «Runaway» e «I Need Your Love».
Anche se, con il debutto di John, Korner è ormai in procinto di esaurire il suo ciclo vitale non
essendo riuscito a reinterpretare il blues in una chiave più consona agli anni, la presenza dei
Beatles e dei Rolling Stones, in quello stesso periodo della scena musicale inglese, relega gli sforzi di
Mayall all'interno dell'anonimato «elitario» dell'underground, ma non gli impedisce di proseguire
imperterrito la ricerca verso un blues che ponga in miglior risalto la nervosa matrice di questa
nuova musica.
L'incontro con Eric «Slowhand» Clapton e Jack Bruce esuli, il primo dagli Yardbirds e il secondo
dalla Granam Bond Organisation, gli permette di creare, durante una serie di memorabili concerti
al Marquee e alla Roundhouse, un a-malgama sonoro estremamente compatto e permeato di
delirante tensione.
Occorre, a questo punto, aprire una breve parentesi, prima di inoltrarsi nella ricerca attorno a
Mayall, in quanto sono necessarie alcune precisazioni nei riguardi dell'entrata del bianco nel blues.
Infatti se uno dei più gravi ostacoli alla penetrazione del bianco nel blues era costituito dalle parti
vocali, decisamente legate alla espressività soggettiva ed inscindibile dalla condizione di nero, il
bianco ha cercato non tanto di imitarne il canto, quanto perlomeno di immedesimarsi nello spirito
del brano e renderlo, il più possibile, aderente alla realtà di chi sta vivendo una esperienza, se non
uguale, perlomeno simile.
Quello che però il bianco ha dato al suo blues è, secondo me, la rivalutazione, a livelli
logicamente più ampi rispetto a quelli che il nero poteva coprire, in considerazione anche degli
enormi mezzi di comunicazione a sua disposizione, di strumenti (chitarra-armonica) che, sino ad
allora, solo pochi musicisti avevano cercato di elevare al di fuori del ruolo puramente
d'accompagnamento. Che poi l'ascoltatore, fruitore superficiale ed epidermico, si sia fermato alle
espressioni tipo «suonare l'armonica come Mayall» o «suonare la chitarra come Clapton», (non
sapendo assolutamente chi fossero B.B. King, Sonny Boy Williamson 2°, Freddie King), ciò
appartiene al gioco della disinformazione musicale diffuso e alimentato, non solo nel nostro bel
paese, dai mass media discografici.
In questo mosaico si inserisce, inoltre, il nuovo impiego a cui viene destinato il basso in veste di
solista (Jack Bruce, Tony Reeves), svincolando dallo schematismo obbligato, che lo vuole
rigidamente legato alla batteria nell'unico scopo di «tenere il tempo», introducendo nuove ricerche
sonore lungo itinerari insoliti, ma la cui validità, già sperimentata nel jazz, acquisterà, giorno dopo
giorno, concretezza. Quindi se è giusto riconoscere l'azione tonificante del «british blues», è
analogamente valido ricordare che se gli «elettrici» si rivolsero esclusivamente alla musica del
dopoguerra, vi fu anche chi, con minor gloria e minor fortuna, cercò di raschiare il fango che
copriva la figura del bluesman di campagna, il girovago cantore che, da piantagione a piantagione,
si spostava attraverso gli stati del sud. Aggrappandosi ad una cultura aliena, inseguendo lungo
forme metriche inusitate il fantasma di Blind Boy Fuller, questi novelli cantastorie si ingegnarono
di immettervi qualcosa di personale, per cui almeno Mike Cooper, Jo Ann Kelly, Gordon Smith,
Dave Kelly, Duster Bennet, Sam Mitchell, Tom Robinson, meritano di essere ricordati soprattutto
per la serietà profusa.
«Fin dal nostro primo incontro (con Eric Clapton, n.d.r.) capii di aver trovato qualcuno che era
realmente interessato al blues. È stato il mio primo partner a sapere cosa è veramente il blues.»
Testimonianza diretta, di questa affermazione di John, è il secondo album Blues Breakers: John
Mayall With Eric Clapton, che, registrato nel marzo del '66, vede la band poggiare, oltre che sui
predetti Mayall e Clapton, sul rientrante John McVie al basso, il solito Hughie Flint alla batteria,
mentre ai sax sono presenti Alan Skidmore, Dennis Healey e Johnny Almond. Sottratta ad ogni
benché minima tentazione virtuosistica, trattenuta in un giuoco di timbri asciutto, l'opera è
caratterizzata dal potenziale di espressività che scaturisce da Clapton, novello genio della lampada
sollecitato da Aladino Mayall, che modula il tono chitar-ristico per estrarre affreschi dal fregio
vivido come «Have You Heard», «Another Man», «Parchman Farm», questi ultimi due innervati
dal fraseggio pulito dell'armonica e dalla «magra» voce di John. Se a ciò aggiungiamo, l'arguta
rivisitazione di classici come «Ali Your Love» (Magic Sam), «H'ideway» (Freddie King), il saggio
uso dei fiati, dalla cui ortodossia affiora il volto di T. Bone Walker, e il pulito ed emotivo giro di
boogie che John trae dal piano con naturalezza straordinaria, il LP assume effettivamente la
statura del documento sonoro di un'epoca.
Ma la personalità di Clapton è troppo forte e, il suo tentativo di porsi come polo d'attrazione
della band, liberandosi in parte dalla tirannia dell'egocentrico Mayall, lo porta in conflitto con il
leader, sino a far maturare in lui l'idea di uscire dal gruppo. Unitosi a Jack Bruce e Ginger Baker,
Clapton formerà il trio dei Cream, mitico supergruppo di «hard blues» che attraverserà, come una
cometa sfolgorante, il cielo della pop music, ma la luce sarà così intensa da bruciar loro gli occhi e
prosciugare il cervello. Il discorso di John non subisce però rallentamenti; anzi, con l'innesto di un
nuovo chitarrista Peter Green (ex Shotgun Express), e la sostituzione del batterista Hughie Flint
con Aynsley Dunbar, il lavoro di ricupero e di restauro del blues elettrico continua nella sua forma
più pura e definita, articolato com'è su quattro musicisti, visto è considerato che anche i fiati sono
stati congedati.
Con Hard Road, registrato tra l'ottobre e il novembre 1966, la favola del blues inglese si fa
realtà, perché il risultato sonoro, di una band così esiziale, è folgorante, per lo sviluppo delle idee
esposte, e per la sintesi di quelle appena accennate, ma che s'intravedono oltre le dodici battute. Se
John si muove a suo agio, cavando dall'armonica l'anima del blues, resosi finalmente conto del suo
ruolo («Leaping Cristine», «You Don't Love me»), Green introduce smaglianti modulazioni sonore
che instaurano e mantengono («The Same Way», «Dust My Blues», «The Supernatu-ral», «The
Stumble») un colore ed un incisività profonda nei brani, mentre Dunbar rivela quelle doti di
fantasia che riescono, in alcuni frangenti, a trascinare il basso di McVie fuori dai soliti sentieri
puramente ritmici.
Rileggendo oggi quelle sonorità, l'album acquista una doppia importanza: la prima è che su
questo modello sonoro verranno impostati le decine di gruppi, noti e non, che cercheranno di
diffondere il british blues» ma che, non riuscendo ad andare oltre, finiranno per annegare nelle
ripetizioni, in quanto incapaci di correggere e ampliare i suoni originali. La seconda riguarda la fine
di un certo far musica sulle orme del blues di Chicago in quanto, dal prossimo lavoro globale, l'asse
musicale portante si sposta verso lidi più vicini al jazz,vuoi per modifiche interne e vuoi per l'eterno
variare del leader.
Nel maggio del '67 anche Green, desideroso di nuovi spazi, lascia la band, seguito poco dopo da
Dunbar che, nonostante gli sforzi di Peter per legarlo a sé, opta per un gruppo proprio (Aynsley
Dunbar Ketaliation), mentre Mick Fleet-wood lo rimpiazza nei Blues Breakers, per andarsene però
quasi subito sulle tracce di Green che, con Bob Brunning e Jeremy Spencer, sta ponendo la prima
pietra, nell'ufficio di Mike Wernon, per erigere l'edificio sonoro dei Floot-wood Mac.
Nuovamente solo John, prima di apprestarsi a ricomporre l'ennesimo mosaico umano, realizza
un progetto ambizioso: un album «solo» in cui può suonare tutti gli strumenti, con l'eccezione della
batteria di Keef Hartley in 8 brani. L'opera, The Blues Alone, registrata il 1° maggio del '67, è
un'atto d'amore verso se stesso, anche se ha in sé i germi della autocelebrazione; nella lunga
carriera di Mayall non può però far testo in quanto episodio a se stante e ritengo giusto
menzionarla soltano per dovere di cronaca.
Risale più o meno a questo periodo l'incontro, avvenuto a Londra, con Paul Butterfield,
armonicista americano che aveva iniziato, anni prima, in Usa un lavoro di ricerca e di riscoperta,
del blues analogo a quelo svolto da Korner e Mayall in Gran Bretagna. I due incidono anche un
extended play John Mayall's Blues Breakers With Paul Butterfield in cui però Paul appare
stranamente in ombra, forse soffocato dalla preponderanza di Mayall, o forse svuotato di ogni
scintilla personale dalla fretta della registrazione. Ma la nuova band bussa alla porta, i tempi sono
maturi e se con John è rimasto il solo Me Vie (ancora indeciso se seguire o meno Green & Co.),
sulla strur-tura articolata in Mick Taylor (chitarra), Keef Hartley (batteria), Chris Mercer e Rip
Kant (sax), Mayall erige, il 12 luglio 1967, Crusade.
È confortante seguire la naturalezza con cui Mayall rilegge le pagine dei maestri (Otis Rush,
Willie Dixon, Freddie King, Sonny Boy Williamson 2°, Buddy Guy), anche se già esposte mille volte,
ed incanala su lidi bluesistici l'ancora grezzo, ma promettente, Mick Taylor, mentre cerca nel
contempo di snellire la violenza insita, nella mancanza di fantasia, di Keef Hartley. !È possibile
notare uno spostamento, anzi un ritorno visto che nell'album con Clapton i fiati si erano già
affacciati, dell'asse musicale dalla essenzialità chitarristica assoluta di Hard Road verso spiagge più
jazzate anche se, pur cercando di evitare gli equivoci di un r&b stantio, siano proprio da collocare
nei passaggi fiatistici quelle frivolezze, da big band, che poco, o nulla, si confanno alla compattezza
dell'opera.
È altrettanto vero che, dalla straodinaria temperatura di quella musica, mastro John ha cavato
episodi memorabili per la tensione che è riuscito ad accumulare in ogni brano, ora triste nel ricordo
del «maestro» Lenoir «The Death of J.B. Lenoir», ora tenera in «Oh Pretty Woman», ora intensa
in «Checking up with my baby», ora implacabile in «Man of Stone». Involatosi Me Vie verso
l'orizzonte di Green, John intraprende una lunga, e oculata, tournée attraverso l'Europa che, oltre
a fungere da elemento cementante tra i singoli elementi del gruppo, gli permette di «provare» ben
tre bassisti (Andy Fraser, Paul Williams, Keith Til-lman) e sostituire Rip Kant con Dick Heckstall
Smith (ex Graham Bond Organisation) al sax. Da questo raid europeo la Decca ricava due album di
gran pregio, The Diary of a Band voi. 1 e voi. 2, in cui è possibile, considerando che le registrazioni
sono dal vivo ed eseguite in locali fuori dal grande giro degli spettacoli, toccare con mano la fisicità
di una musica che prende a prestito qualcosa dal passato, per stravolgerlo in un presente infuocato
dai riffs densi e corposi.
Se gli LP hanno in sé l'embrione di un certo blues jazz in continua evoluzione, anche perché la
chitarra di Taylor e l'armonica di Mayall sono ormai in grado di convivere senza farsi schiacciare
dagli ottoni, «My Own Fault» su tutto, una impostazione di tal genere lascia presupporre, da parte
di John, un successivo sviluppo che, puntualmente, avviene nell'aprile 1968 con la registrazione di
Bare Wires. L'apparizione di questo album corrisponde con l'apparizione, su «Me-lody Maker», del
titolo «English got the blues», e coincide con l'anno d'oro del blues inglese che esce, dall'anonimato
in cui aveva vissuto per essere sottoposto anche agli strali della critica che sino ad allora lo aveva
tranquillamente ignorato.
È logico che, il lavoro di riproposizione del blues, non poteva che dare origine a due correnti di
musicisti: la prima era formata da chi portava avanti, con sincerità d'intenzioni, il ricupero delle
matrici; alla seconda invece si accodavano, unicamente, coloro che seguivano la «nuova musica»,
esclusivamente, perché era facile da contraffare e spacciare per «blues revival».
Se a ciò assommiamo il rifiuto dell'accettazione da parte dell'ambiente jazzistico che guardava,
con la puzza al naso, questo tentativo che, partendo da un rock in crisi di identità, cercava di
risalire alle radici del blues senza passare dal jazz, non possiamo che concludere questo flash
rendendoci conto delle difficoltà che il «british blues» ha incontrato, di fronte al rifiuto dalla critica
più retriva che si aggrappava unicamente alle note negative per non ammetterne il valore.
Ma torniamo a Mayall per scoprire che, a 33 giri, girano con lui Mick Taylor, Chris Mercer,
Dick Heckstall Smith, Henry Lowther (violino/cornetta), John Hiseman (batteria), Tony Reeves
(basso), impegnati a proiettare, le nuove tendenze del leader, verso l'incon-iro tra blues e jazz.
L'impasto sonoro è perfetto e ruota attorno al-l'organo di Mayall che funge da catalizzatore sia per
la chitarra di Taylor, che ormai spazia con sicurezza, che per il violino di Low-ilier, che crea
atmosfere insolite a cui però ben si accomunano gli altri musicisti. Mentre la sezione ritmica si
avvale di un Reeves, che (a perdere al suo basso la rigidità della scansione ritmica, e di un I l
iseman, pimpante ma senza eccessi, gli ottoni sotto la guida di Smith si mantengono asciutti, senza
fronzoli, e, i riffs, nei quali vengono impiegati, sono sì robusti ma senza per questo prendere il
sopravvento e rischiare di cancellare l'impronta della chitarra o dell'armonica. Per cui se «Sandy»
riposa stille ali di un'atmosfera ipnotica, soprattutto per il duetto violino/basso, «Open up a new
door» è il gusto supremo del blues-jazz inteso come lavoro corale, e se Look in the mirror» gode
del fascino del basso di Reeves, che insegue la musica in caldi assolo prima di cederla al sax di
Smith, «I'm a stragager» vive sulle note dell'orbano di John che srotola un picco-In gioiello di
sensibilità sonora, un affresco del blues inglese nelle sue pieghe e nelle sue emozioni più vere.
Nonostante Bare Wires rappresenti una tappa fondamentale nella evoluzione del blues inglese,
Mayall il 14 luglio 1968 all'Olympia scioglie i Blues Breakers (dalle cui rovine nasceranno i
Colosseum) e si reca in Usa per un viaggio di tre settimane. Il contatto con la realtà californiana, e
il mutuo scambio di impressioni con Bob Hite e Henry Vestine dei Canned Heat, arricchisce e
trasforma la sua percezione musicale. Ritornato in patria forma un gruppo con Mick Taylor
(chitarra), Steve Thompson (basso), Colin Alien (batteria), con cui registra, il 3 settembre 1968,
Blues from Laurei Canyon. Non è un'opera fulgida, in quanto le impressioni californiane non sono
ancora state assimilate appieno e quindi la musica ne risente, rimanendo a mezz'aria tra le
intenzioni e la realtà. C'è una sterzata verso coste sonore più soffici, c'è sì l'abbandono dei fiati
pulsanti, ma c'è anche uno sfasamento tra i musicisti che le note, affidate alla chitarra di Taylor,
non riescono a colmare, e si nota persino una certa superficialità che stupisce, conoscendo la
pignoleria di Mayall, anche a livello testuale, per cui piccole perle, come «Medicine Man» o «First
Time Alone», non sono in grado di risollevare il tono generale del LP.
Stanco, deluso, confuso, Mayall abbandona definitivamente l'Inghilterra e si stabilisce in
California, muta anche casa discografica (passa dalla Decca alla Polydor), taglia praticamente i
ponti con il vecchio mondo ed inizia a ricercare se stesso. Nell'estate del '69, dopo il passaggio di
Mick Taylor ai Rolling Stones, l'Inghilterra improvvisamente si rende conto di avere un morto in
casa: il «british blues». Anche se la fine è ingloriosa, con tanti cervelli all'ammasso perduti
all'inseguimento delle copertine colorate e delle classifiche, adesso che l'industria è riuscita ad
«assumere e spettacolarizzare» il british blues, direi che vale la pena di ricordare che il blues
inglese, nei suoi risvolti più veri, non ha mai cercato di essere una moda, ma piuttosto è stato il
frutto di fede sincera, di una convinzione che ognuno porta con sé senza dimenticare mai. Basta
guardarci attorno per ritrovare i sopravvissuti di quegli anni, (Dave Kelly, Bob Hall, Jo Ann Kelly,
Pat Grover, Gordon Smith, ecc.) che praticano ancora oggi quella fede come esperienza di vita e,
poco importa che la camicia di Gordon sia sempre la stessa da «Long O-verdue» a «Takin' Time»:
l'importante è che il suo messaggio non sia affatto banale, oggi come allora.
Fra la «spinta» elettrica, oramai completamente disseccata, ritengo utile ricordare i Fleetwood
Mac della formazione primitiva (Peter Green, John Me Vie, Jeremy Spencer, Mick Fleetwood),
che, con l'episodio di Blues ]am at Chess, fondono, al meglio, la loro sensibilità musicale con quella,
originale, di Willie Dixon, Walter Horton, ecc. Sempre tra gli esuli dai Blues Breakers vanno
menzionati la Aynsley Dunbar Retaliation, per i primi due corposi LP, i Colosseum (Hiseman,
Smith & Co.) con Daug-hter of time, mentre il gruppo di Keef Hartley non ce la fa ad uscire dal
solco delle sonorità bigban-distiche stucchevoli e prive di fantasia. I Savoy Brown, lucida creatura
del chitarrista Kim Simmonds, si mantengono su livelli di eccellenza sino a Blue matter (terzo
album), per crollare, assieme ai Chicken Shack di Christine Perfect e Stan Webb dopo il secondo
LP, nella vuotezza di idee senza fine. Rimangono, tra i più noti, i Ten Years After morti,
discograficamente parlando, dopo Undead, i Groundhogs, autoseppellitisi nell'hard dopo Blues
Obituary.
Nel frattempo la Decca ripesca, con grande intelligenza, tra i vecchi nastri di John e, sfruttando
la notorietà che il personaggio va assumendo, pubblica un'antologia, Looking Back, relativa al
periodo, estremamente interessante, compreso tra il '64 e il '67. È con Thru The Years che uscirà
tre anni dopo l'opera antologica più importante del Mayall di sempre: undici brani, tra cui spiccano
«Stormy Monday» teso sulle corde di Clapton «Doublé Trouble» che Green riporta alla luminosità
più vivida, che illustrano la progressiva crescita della musicalità mayalliana attraverso le
successive bands che l'hanno e-•strinsecata.
«È tempo ormai per una nuova via della musica blues» e, se una tale affermazione, non rimane
confinata tra le tante interviste e affermazioni, vere o false, è merito, ancora una volta, di John che
stravolge completamente ogni precedente concezione musicale, sia nella scelta dei partner che
nell'indirizzo sonoro.
Sparito anche il batterista Colin Alien, approdato negli Stone The Crows, John richiama a sé
Johnny Almond (sax/flauto), vecchio compagno di un tempo (Blues Breakers con Clapton), ripesca
dall'anonimato il chitarrista acustico John Mark, conferma al basso Steve Thompson e, rinnegando
la batteria, registra, il 12 luglio 1969 al
Fillmore East di New York, l'album dal vivo The Turning Point. L'opera è decisamente unica
per valore e originalità, soprattutto per l'atmosfera che una strumentazione, quasi completamente
acustica, instaura, immergendo il blues in una atmosfera soffice, ma non appiccicosa, delicata, ma
non banale, luminosa, ma densa di umori. Le idee sono collocate lungo una sequenza, quasi
irripetibile di plasticità sonora, con brani che variano dalle ballate intense come «California» (con
Almond al limite dell'asfissia) o «The Law Must Chan-ge», in cui ognuno ha potuto dare il meglio di
sé, e partecipare a questa esplosione di fantasia ritmica, senza ambiguità.
In effetti se il sax saggio di Almond si è ben fuso con gli arpeggi della acustica di Mark e il basso
pulsante di Thompson, pur gravato dal doppio lavoro ritmico dovuto all'assenza della batteria, è
riuscito a scavarsi degli intermezzi solistici di pregio, l'armonica di Mayall taglia e cuce i pezzi, gli
uni agli altri, in un grande patchwork che abbraccia non solo il blues, ma la musica stessa aldilà di
ogni divisione e concezione tradizionale. La nuova via che Mayall auspicava è ormai tracciata, ma,
nonostante le enormi:1 |possibilità potenziali insite nella band, la tappa successiva, Empty Rooms,
pur distando solo sette mesi dalla precedente, rivela la stasi del leader. In realtà l'energia si è
dissolta, le liriche assumono toni più pacati e intimisti, con atmosfere fuggevoli decisamente
crepuscolari, l'immagine sonora è confusa, velata dalla malinconia che sembra incombere persino
sui musicisti. Non è senz'altro un passo avanti, anzi questa latente cupa intonazione non viene
fugata dalla tournée europea, per cui il 2 giugno 1970 John scioglie il gruppo. Mentre Johnny
Almond e John Mark rimangono uniti e formano il gruppo dei Mark-Almond, Steve Thompson,
prima di raggiungere Colin Alien negli Stone The Crows, è costretto ad alcuni mesi di inattività per
un'infezione alle mani. Mayall conclude il tour europeo con un concerto al Festival di Bath in cui
appare al fianco di Rick Gretch e Alex Dmochwsky (basso), Peter Green alla chitarra solista, e
Ainsley Dunbar alla batteria.
Al ritorno negli Usa John si vede circondato dai dirigenti della Polydor, che, memori delle
positive recensioni di alcuni concerti, lo inducono a stringere i tempi nella registrazione di un nuovo
album. Ma Mayall non è affatto in condizioni di incidere, risente molto probabilmente del vuoto
creativo, seguito alla fine del periodo intimista e che la presenza, scelta con astuzia di artisti come
Don «Sugar-cane» Harris (violino) ex zappia-no, Harvey Mandel (chitarra) e Larry Taylor (basso)
usciti dai Canned Heat, non può assolutamente riempire. Registrato il 27 e 28 luglio 1970, Usa
Union è l'opera della insicurezza sonora, della frammentarietà dei temi, parto frettoloso di una
mente svagata che pure aveva all'occhiello il violino tagliente di Don e due pezzi, «Pretty girl» e
«Possessive Emo-tions», in cui l'ensemble funziona a dovere. In questa situazione di stallo
psicologico, aggravato da una condizione musicale decisamente sfocata, l'unico rimedio per
ricaricarsi, ridarsi il giusto tono e ricuperare alcune vibrazioni perdute, può essere una «riunione»,
in un unico palcoscenico, di tutti coloro che hanno suonato con John facendolo grande e diventando
essi stessi leader e, addirittura, continuatori di un certo sviluppo musicale appreso con lui. Dal
cilindro, dell'illusionista Mayall, sbuca il coniglio bianco di Back To The Roots che, registrato tra il
15 e il 25 novembre 1970, pur segnando il ritorno di Clapton, Hartley, Thompson, Mick Taylor,
Almond, la conferma di Mandel, Larry Taylor, Harris, l'aggiunta di Jerry Me Gee e del batterista
Paul Lagos (ex Kaleidoscope), lascia il rimpianto per la mancanza, voluta o meno, di Green, McVie,
Dunbar, Bruce, Fleetwood.
Nonostante l'altalena di stili, ovvio risultato di personalità che ormai possono assecondare il
leader con maggiore difficoltà, a qualche scivolata, «Accidental Suicide», si contrappongono gioielli
come «Pri-soners Of The Road», in cui Clapton ritrova se stesso, «My Chil-dren», dove sullo
evocativo organo di John si inseriscono il sax e il flauto di Almond, «Home Again», con il piano
martellante del leader che duetta, sullo sfondo dei frammenti della solista di Clapton, con il basso
profondo di Taylor, «Mar-riage Madness», nella cui triste e pacata armonia sbocciano i fiori intensi
di sax, armonica e chitarra solista (Mick Taylor). Ma appena gli «amici» se ne vanno la breve
primavera si offusca e persino la sua prima tournée italiana (febbraio '71) non riesce a fornire una
immagine concreta, anzi è un peccato vedere Mandel e Taylor, lontani dalla vena genuina, cercare
aiuto in un Mayall che ha ormai smarrito l'estro di un tempo. La crisi, maturata in Europa,
raggiunge l'acme dopo il rientro in Usa allorché John scioglie la band e, tenendosi il solo Larry
Taylor al basso, risucchia dall'ambiente country Jerry Me Gee e, attraverso un pugno di
registrazioni, 7-9 luglio 1971, confeziona Memories. Opera delicata, sembra indicare, sia per la
scelta acustica che per l'ese-guità dei musicisti, la ricerca di una purezza spirituale che, in questo
caso, John intende realizzare attraverso una raccolta di flashback che riportano alla mente i
momenti salienti della propria esistenza. È ovvio, a questo punto, che l'album non può che
rimanere episodio, u-mile e sottile, al di fuori dei grandi circuiti commerciali ma in cui, cristalli
sonori come «Fighting Line», «Grandad», «Wish I knew a Wo-man», appaiono esiti fortunatissimi
d'una elaborata maturità.
Nello stesso periodo la Decca immette sul mercato un altro mazzo di nastri che, oltre a fare la
felicità dei collezionisti e appassionati, gettano una nuova luce su un periodo ('65 '68) che è rimasto
memoriabile per le diverse esperienze sonore che si sono susseguite. L'antologia Thru The Years
appare ancora attualissima, calda, densa di umori, soprattutto per merito di brani come «Greeny»,
«Out Of Reach», «Please Don't Teli», che riducono alla mente le infinite possibilità di cosa
avrebbero potuto ottenere artisti come Green e Dunbar incanalati lungo i sentieri ancora sani di
Mayall. È chiaro che la parentesi acustica ha reso poco, o niente, alla Polydor per cui, le pressioni
su John, affinché produca materiale «valido», si fanno sempre più pesanti. Prende forma, nella
mente di Mayall, la spinta verso la creazione di una musicalità che realizzi la «fusione» più intima
tra blues e jazz, sì da ottenere come risultato una forma tale da essere appetitibile a tutti i palati.
Per realizzare ciò, è però necessario avere nell'organico musicisti che abbiano vissuto quella
musica come esperienza diretta, per cui, dopo molto darsi da fare, riesce a mettere a punto il
nuovo gruppo che appare così articolato: Larry Taylor (basso), Freddy Robinson (chitarra), Ron
Selico (batteria), Clifford Solomon (sax), Blue Mit-chell (tromba). L'album che li presenta è Jazz
Blues Fusion, registrato dal vivo a Boston ( 18 novembre 1971) e New York (3-4 dicembre 1971),
ed indica decisamente una nuova svolta nella musica di John, con il recupero di un certo jazz
tipicamente hard-bop anni '50, sin troppo manieratola cui però fanno da contraltare, la grande
energia che sprizza dalla sezione ritmica (Taylor/Selico) e gli splendidi fraseggi in punta di blues di
Freddie Robinson.
Istrione, come da tempo non lo si vedeva, il leader guida il gruppo in «Good Time Boogie», e lo
rilancia nella Jam ribollente di «Exerci-se In C Mayor», in cui gli scambi di ruolo tra i solisti e
l'improvvìsa-zione fanno il resto.
Il raggiungimento di un tono musicale elevato, al primo contatto tra musicisti diversi, può
generare pericolosi atti di autoincensamento, ed è proprio quello che capita a Mayall convinto, dal
successo dell'album e dei concerti, di poter riuscire in ogni momento a far vibrare le corde del
pubblico, pigia sull'acceleratore e, aggiunti altri fiati (Charlie Owens, Ernie Watts, Fred Jackson),
sostituito il finissimo Selico con il pesante Hartley, sforna un altro live, Moving On, registrato il 10
agosto 1972 al Whisky a Go Go di Los Angeles. Dove nel primo si poteva trovare il gusto
dell'invenzione qui c'è la routine, la musica scorre ormai su binari ormai prossimi ad un certo soul
scontato e ciò, oltre a dipendere dalla sezione fiatistica eccessivamente nutrita, dimostra quale
strada si può imboccare allorché le idee sono assenti, diversamente da quanto era accaduto con
Bare Wi-res.
Le ambiguità di certi progetti sonori (Moving on ed in parte Jazz blues fusion), articolati ormai
molto più su artisti già affermati, cioè in grado di fungere da spinta per il leader, anziché basarsi su
giovani a cui trasmettere eccitazioni da plasmare, se potevano essere il primo (o definitivo?)
sintomo dell'inaridimento personale del leader, diventano una realtà impietosa allorché John
festeggia, con un doppio album, i suoi dieci anni di attività: Ten Years Are Gone, e credo che
peggio di così non sia possibile festeggiare un anniversario. La musica è ormai arenata sulla
spiaggia del facile consumo, il suono ha perso in spessore, spontaneità e freschezza, il blues è ormai
talmente diluito che, con le dodici fatidiche battute, è possibile riempire quattro facciate senza
riuscire, mai, a farlo sentire per davvero. Nonostante la rentrée di Freddy Robinson, alla chitarra
solista, e di Don «Sugarcane» Harris, riemerso con il suo violino dal tunnel della droga, le uniche
cose salvabili sono ridotte a spezzoni di brani live come «Burning fire» e «Dark Of The Night»,
questa ultima con il lungo medley della chitarra di Robinson.
Rimaneggiata la formazione con la partenza di Mitchell, Harris, Hartley, Gaskin, Robinson,
rimpiazzati dal vecchio Larry Taylor al basso, da Soko Richardson (batteria) e da due chitarristi
Hi-Tide Harris e Randy Resnick, John registra, a Los Angeles nel marzo-aprile del '74, l'album
Latest E-dition. È raro sentire così fortemente e con tanto disagio il senso di un decadimento, di
una stanchezza, di un proporre cose nuove ma senza idee, senza «feelin'», neppure compensato da
quell'abilità intrinseca di reinventare la musica, anche quella più trita. Se i due chitarristi si
comportano come avulsi dal contesto, Richardson alle percussioni fa rimpiangere Hartley (il che è
tutto dire), Red Holloway al sax e eccessivamente caramelloso (evidentemente i cinque anni
trascorsi all'Hotel Parisian Room di Los Angeles, hanno fatto decadere la versatilità in routine),
Taylor al basso fa quello che può, ma una rondine non fa primavera, visto che John è ormai «out»
ad ogni livello.
Stendo un velo pietoso sulla tournée italiana (maggio '74), per considerare il suo passaggio alla
Blue Thumb e la conseguente apparizione di un nuovo LP: New Year, New Band, New Company.
D'accordo per l'anno (è il 1975), per la band e la compagnia, ma la musica è sempre quella, o
meglio, con l'inserimento di voci femminili scivoliamo verso il baratro della disco music per
ambienti «in». Stroncato dalla critica inglese («i suoi concerti erano senz'altro in grado di far
rivoltare J.B. Lenoir nella tomba») e da quella americana (per lo spettacolo al Santa Monica Civic
Center), John promette un ripensamento e, legatosi alla Abc, si sposta a New Orleans e chiede
aiuto ad Alien Toussaint, mago di sala e maggiore responsabile del successo di molti artisti. Ma c'è
un piccolo particolare che Tohn ha scordato: un mago può abbellire, valorizzare, evidenziare,
illuminare le idee altrui, ma occorre che le idee ci siano, per cui, vista la latitanza mentale di
Mayall, appare inutile lo sforzo dello scaltro Toussaint.
Il risultato, Notice To Appear, registrato il 15 ottobre 1975, è una vuota mistura di brutto rock,
più soul stantio, più blues scadente, in cui appare persino una patetica versione, per anacoreti, di
«Hard Day's Night» dei Beatles. Il fallimento delle registrazioni di New Orleans costringe Mayall
all'ennesimo ricupero nel tempo: dalle ombre del passato cattura, per l'ennesima volta, Johnny
Almond, John Mark, Blue Mitchell, John Me Vie (addirittura), per tentare, con le incisioni del
maggio '76, una nuova impossibile fuga dalla realtà. Nasce in tal modo A Banquet Of Blues che, a
parte la lunga «Fan-tasyland» che ricorda in alcuni tratti le atmosfere dall'album The Turning
Point, scade per la cronica mancanza di energia e la pigrizia perniciosa nella solita banalità. Meno
male che quasi contemporaneamente a queste immagini moderne, scattate con le macchine più
costose e sofisticate, la London a-mericana contrappone dei dagherrotipi che, pur essendo stati
immortalati con mezzi di fortuna, sprizzano energia, passione, perizia strumentale, feelin', qualità
assenti da troppo tempo nelle opere di Mayall.
L'album Frimai Solos raccoglie infatti registrazioni dal vivo che risalgono, al 1966 (prima
facciata) e al 1968 (seconda facciata), e che colgono Mayall dapprima in quartetto, con Jack Bruce,
Eric Clapton e Hughie Flint e, successivamente in due formazioni del periodo Bare Wires e Blues
From Laurei Canyon. In particolar modo interessanti sono le incisioni con Bruce & Clapton, sia per
il duetto basso/chitarra in «It Hurts To Be In Love», anticipo di quanto i Cream porteranno
all'eccesso, che per il lavoro corale di «H'ave You Ever Loved A Woman» che fa nascere la facile
constatazione di come sia oggi sempre più raro ascoltare pagine di cosi vibrante intensità, anche
perché Mayall allora appariva molto più preoccupato di «costruire» le sonorità anziché di
addobbarle.
Ma dopo questa riedizione d'epoca, densa di umori vitali, la realtà ritorna sulle onde di Lots Of
People, registrato dal vivo al Roxy di Los Angeles il 24 novembre 1976, in cui John, contando
sull'apporto del pubblico «f sul calore che emanano i musicisti, cerca di nascondere la banalità e la
sprovvedutezza dei brani, articolati su una sezione di fiati mostruosa (tre sax, due trombe, un
trombone) e sul solito coretto femminile. Un tentativo di ripresa iniziato con «Hard Core Package»
(1971) e proseguito con «Last of British Blues» (1978), quello cioè di ricucire scampoli di blues
(«Arizona Bound»), raccogliendo i fili dispersi tanto tempo fa, naufraga miseramente con il
passaggio alla Djm. Quindici strumentisti, un back-up femminile a 3 voci, l'abbandono completo di
piano e chitarra, sono le premesse di Bottom Line (1979), che si tramutano nell'esaltazione delle
convenzioni musicali più scipite, nel ribaltamento del buon gusto, nella esposizione dei più vieti
luoghi comuni di certa disco music odierna e a nulla serve il ridimensionamento che John effettua
nella realizzazione di No Kore Interview, che altro non fa che confermare la progressiva perdita di
significati a cui conduce il bisogno di essere attuali a tutti i costi.
Se gloriosa è stata l'uscita di scena di Jim Morrison, di Janis Joplin e di Jimy Hendrix, entrati di
diritto nell'olimpo degli eroi, decisamente ingloriosa, dopo una lunghissima agonia, si sta rivelando
la fine di Mayall che ormai, oggi, altro non è che un ricco signore abbronzato, più vicino ai
cinquanta che non a se stesso, intento a dipingere quadri sdraiato sul bordo della piscina nella sua
villa di Los Angeles, ed il cui orientamento musicale, da circa otto anni a questa parte, ha finito per
farlo assumere a simbolo dello sputtanamento più commerciale di chi, passato dalla parte
dell'establishment, ha iniziato a costruire il monumento a se stesso.
Per cui ritengo giusto conservare John Mayall come il sogno della seconda metà degli anni
sessanta — primissimi anni settanta, circoscritto alle sue trasgressioni sonore dei vecchi bluesmen,
alle prese con giovani, da plasmare, vogliosi di musica ma digiuni di blues, e che nonostante ciò,
sotto la guida, dettero una risposta nuova alle tensioni latenti, magari involontariamente, timida
protesta, contro tutto e tutti, per un mondo migliore. In mezzo a tutto ciò, alla nostra nostalgia un
po' ipocrita, c'è lui, John Mayall, che ha reso reale un fatto che è sotto gli occhi di tutti, ma che
nessuno mette in luce: l'estrazione del blues dalla radice nero americana e la sua riproposizione,
attraverso l'appropriazione di quegli stilemi elettrici, così vicini alla sensibilità dei giovani e che il
jazz non assimila mai, che gli hanno permesso di condurlo al di fuori dei soliti sterili, e quasi
esclusivi, ambienti jazzistici.
Marino Grandi
Discografia
Lavori personali :
John Mayall Plays John Mayall (Decca, 1964)
Blues Breakers: John Mayall With Eric Clapton (Decca, 1965) 2 A Hard Road (Decca, 1967)
The Blues Alone (Ace of Clubs, 1969)
Crusade (Decca, 1964) The Diary of a Band Voi. 1 (Decca, 1968)
The Diary of a Band Voi. 2 (Decca, 1968)
Bare Wires (Decca, 1968) Blues From Laurei Canyon (Decca, 1969)
Looking Back (raccolta di inediti) (Decca, 1970)
The Turning Point (Polydor, 1970) Empty Rooms (Polydor, 1970) Usa Union (Polydor, 1970)
Back to the Roots (2 LP) (Polydor, 1971)
Memories (Polydor, 1971) Thru The Years (raccolta di inediti) (Decca, 1972) Jazz Blues Fusion
(Polydor, 1972) Moving on (Polydor, 1973) Ten Years Are gone (2 LP) (Polydor, 1973)
Latest Edition (Polydor, 1975) New Year, New band, New Company (Blue Thumb, 1975)
Notice To Appear (ABC, 1975) Banquet Of Blues (ABC, 1976) Primai Solos (raccolta inediti live)
(London, 1977) Lots Of People (ABC, 1977) Hard Core Pakage (ABC, 1977) Last Of British Blues
(ABC, 1977) Bottom Line (DJM, 1979) No More Interview (DJM, 1979)
Antologie personali:
The World of John Mayall Voi. 1 (Decca, 1970)
The World of John Mayall Voi. 2 (Decca, 1971)
The Best of John Mayall (Decca, s.d.)
So Many Roads (raccolta olandese di singoli pre Crusade) (Decca, s.d.) Pop History Voi. 8
(Polydor, s.d.) Thru The Years (2 LP) (London^ 1972)
Down The Line (2 LP) (Decca, s.d.)
Beyond the Turning Point (Polydor, 1971)
Looking Back ( LP) (Polydor, s.d.) Empty Rooms IT urning Point (2 LP) (Polydor, 1974) John
Mayall Profile (Teldec, s.d.) Something New (Karussel, s.d.) Blues Roots (Decca-Roots, 1978) The
Best of John Mayall (2 LP) (Polydor, s.d.)
Hightlights (2 LP) (Karussel, s.d.) Blues Giants (2 LP) (Nova, s.d.) The Legends of Rock (2 LP)
(Decca, s.d.)
Collaborazioni:
John Mayall's Blues — Breakers with Paul Butterfield (Decca, 1967) Eddie Boyd — Eddie Boyd
and His Blues Band (Decca, s.d.) Champion Jack Dupree — From New Orleans to Chicago (Decca,
1976)
Canned Heat — Livin' The Blues (Liberty, 1969)
Keef Hartley Band — Halfbreed (Deram, 1969)
Blue Mitchell — Blues' Blues (Ma-instream, s.d.)
Shaky Jake Harris — The Devil's Harmonica (Polydor, 1972) Sonny Terry & Brownie Me Gree
— Sonny & Brownie (A&M, s.d.)
Antologie varie:
R&B (Decca, s.d.)
The World of Blues Power Voi. 1
(Decca, s.d.)
The World of Blues Power Voi. 2
(Decca, s.d.) f
Raw Blues (Ace of Clubs, s.d.)
Blues Now (Decca, s.d.)
Hard Up Heroes (2 LP) (Decca,
s.d.)
History of British Blues Voi. 1 (2 LP) (Sire, s.d.) Rock Party (Polydor, s.d.) Bombers Sampler
(Polydor, s.d.) Anthology of British Voi. 1 (2 LP) (Immediate, s.d.) Anthology of British Voi. 2 (2
LP) (Immediate, s.d.)
British Blues
Savoy Brown — Gettin To The Point (Decca, 1968) Chicken Snack — O.K. Ken? (Blues
Horizon, 1968)
Aynsley Dunbar Retaliation — Doctor Dunbar Prescription (Liberty, 1968)
Ten Years After — Undead (Deram, 1968)
Duster Bennet — Jusa Duster
(Blue Horizon, s.d.)
Gordon Smith — Long Overdue
(Blue Horizon, s.d.)
Dave Kelly — Keeps It In The
Family (Mercury, s.d.)
Mike Cooper — Oh Really!? (Pye,
s.d.)
Groundhogs — Blues Obituary (Liberty, 1969)
Jo Ann Kelly — ]o Ann Kelly (Epic, s.d.)
Fleetwood Mac — Originai (CBS, 1971)
Fleetwood Mac * — Blues ]am At Chess (2 LP) (Blue Horizon, 1969) Long John Baldry — Long
John's Blues (United Artists Usa, 1964) Keef Hartley — Halfbreed (Deram, 1969)
Colosseum — Daughter Of Time (Vertigo, 1970)
Graham Bond — Solid Bond (2 LP) (Warner Bros, 1970) Alexis Korner — Bootleg Him (2 LP)
(Rad Sraksp, 1972) Killing Floor — Originai (Spark, 1973) .
Brunning Sun Flower Blues Band — Bullen Street Blues (Saga, 1968) Key Largo — Key Largo
(Blue Horizon, 1970)
Jellybread — First Slice (Blue Horizon, 1969)
Dharma Blues Band — Dharma Blues (Mayor Minor, s.d.) Paul Williams & Friends — In
Memory of Robert Johnson (King, s.d.)
* Apparso anche suddiviso in due album (7-63219 e 7-63220); il doppio album è stato
ristampato su Sire (Sas), con il titolo Fleetwood Mac In Chicago.
Antologie:
How blue Can We Get (2 LP) (Blue Horizon, s.d.) Tramp (Spark, s.d.) Firepoint (Spark, s.d.)
In Our Own Way Oldies but Goodies (Blue Horizon, s.d.) Anthology of British Blues Voi. 1 (2 LP)
(Immediate, s.d.) Anthology of British Blues Voi. 2 (2 LP) (Immediate, s.d.)
History of British Blues Voi. 1
(2 LP) (Sire Sas, s.d.)
The World of Blues power Voi. I
(Decca, Spa, s.d.)
The World of Blues power Voi. 2
(Decca, s.d.)
Raw Blues (Ace of Clubs, s.d.)
Blues Now (Decca, s.d.)
R&B (Decca, s.d.)
Super Duper Blues (Blue Horizon,
s.d.)
YARDBIRDS

Non si potrà mai capire a fondo un fenomeno come quello degli Yardbirds, se prima non ci si
addentra, almeno per qualche attimo, nel duplice meandro che costituisce la base, l'humus dal
quale ha preso forma il beat inglese dei primi anni Sessanta.
Due sono infatti i fenomeni musicali che danno origine al beat inglese, ed entrambi sono di
matrice americana: il rock'n'roll e il rhythm & blues.
Il rock'n'roll bianco (quello di Elvis Presley, di Jerry Lee Lewis, di Eddie Cochran, di Gene
Vincent, dello stesso Chuck Berry, nero di razza ma superbianco nell'espressione rock'n'rollistica)
confluisce in quel settore del beat inglese che parte dai Beatles e prosegue con i Who, gli Hollies, gli
Small Faces, i Kinks, i Troggs, ecc.
Il rhythm & blues nero (quello di John Lee Hooker, di Sonny Boy Williamson, di Muddy
Waters, di Howlin'Wolf, di Bo Diddley) confluisce in quel settore del beat inglese che parte dai
Rolling Stones e prosegue con gli Animals, i Them, e appunto gli Yardbirds.
Se il rhythm & blues americano costituisce dunque l'influenza principale di questo secondo
settore del beat inglese, ciò si verifica però attraverso una importantissima mediazione: quella del
cosiddetto «blues revival» inglese, un fenomeno meglio conosciuto sotto l'etichetta di «british
blues».
All'origine del blues britannico ci sono due fanatici, Alexis Korner e Cyril Davies, provenienti dal
mondo del jazz e letteralmente pazzi dello stile blues di Chicago, che ha i suoi lontani precursori in
Blind Lemon Jefferson e Robert Johnson, e i suoi massimi epigoni in Elmore James, Muddy
Waters, Sonny Boy ' Williamson. Dal 1954 al 1962, a Londra, Korner e Davies fanno vera e propria
opera di apostolato, attraverso un locale da loro creato, il Roundhouse. Nel 1962, i due aprono un
nuovo locale, l'Eal-ing Rhythm & Blues Club, e fondano una formazione stabile di blues revival, la
leggendaria Blues Incorporated, dalla quale Davies presto si distaccherà per formare la sua Ali
Stars.
Nella Blues Incorporated e nelle Ali Stars si faranno le ossa alcuni giovanotti destinati a
diventare le prime star del beat inglese influenzato dal r&b: da Mick Jagger e Charlie Watts a Eric
Clapton a Jack Bruce e Jeff Beck a Graham Bond e John Mayall (questi ultimi due saranno i due
grandi epigoni puri del british blues, il primo con la sua Organisation, il secondo con le successive
leggendarie formazioni dei suoi Bluesbreakers).
Con l'esplodere in Inghilterra del beat e dell'era dei complessi, a partire dal 1962, cominciano a
sorgere da ogni parte gruppi influenzati dal r&b americano e dalla scuola del british blues. Nel giro
di pochi mesi si formano i Rolling Stones, le bands di Zoot Money, di Graham Bond, di Geòrgie
Fame, di John Mayall, di Long John Baldry, e gruppi meno noti come i Che-ynes, i Downliners Act,
Gary Farr and the T-Bones, Ray Anton and the Peppermint Men, i Roosters, i Metropolis Blues
Band.
Nel 1963, la Metropolis Blues Band comprendeva cinque membri, tutti poco piùWche
adolescenti: e-rano il cantante e armonicista Keith Relf (nato a Richmond il 22 marzo 1944), il
bassista Paul «Sam» Samwell-Smith (nato a Londra l'8 maggio 1944, il chitarrista ritmico Chris
Dreja (nato a Surbiton 1*11 novembre 1944), il batterista Jim McCarty (nato a Li-verpool il 25
luglio 1944 e il chitarrista solista Anthony «Top» To-pham). Ma qust'ultimo abbandona quasi
subito il gruppo per proseguire i suoi studi, e viene sostituito da Eric «Slowhand» Clapton (nato a
Londra il 30 marzo 1945), che militava allora nel già citato gruppo dei Roosters.
Con questa formazione, la Metropolis Blues Band muta il suo nome in quello di Yardbirds. La
sua prima sortita discografica, non molto caratterizzata in verità, è dello stesso 1963, in qualità di
gruppo accompagnatore (in un LP dal vivo) del grande vecchio blues-man e armonicista nero
Sonny Boy Williamson.
Nel 1964 i Rolling Stones, dopo essere stati per quasi un anno l'at-i razione principale del
Crawdaddy Club di Richmond (uno dei locali leggendari del r&b britannico di quegli anni) prendono
il volo per nuovi trionfi. Al proprietario del Crawdaddy, lo svizzero - polacco Giorgio Gomelsky, si
pone di colpo il problema di come poterli degnamente sostituire. Infine sceglie proprio gli
Yardbirds, e accetta anche di diventare il loro manager (parecchi anni dopo, Gomelsky farà
riparlare di sé come tutore di un gruppo assolutamente diverso, quello dei surrealisti freak-sballati
Gong di David Alien).
La prima incisione ufficiale degli Yardbirds è Five live Yardbirds, registrato dal vivo al
leggendario Marquee Club londinese, e prodotto da Gomelsky. L'album, che esce nel 1964,
contiene tutti classici r&b americani (gli autori sono Chuck Berry, Howlin' Wolf, Bo Diddley, John
Lee Hooker, gli Is-ley Brothers, ecc.) e nessun brano originale. Lo stile è ancora ingenuo (loro
stessi lo battezzano rave up), ma l'energia elettrica è fresca, coinvolgente, a tratti straripante.
I due primi singoli del gruppo, «I wish you would» e «Good morning little schoolgirl» vanno
incontro a un vero e proprio fiasco, e il gruppo entra in crisi. Soprattutto Gomelsky e Samwell-
Smith premono per un parziale cambiamento del repetorio: la base resti sempre il r&b, ma il
repertorio sia originale, e più aperto ad influenze pop/beat. Su questa questione E-ric Clapton, che
tiene alla sua immagine di musicista r&b puro e alieno da velleità di successo mondano, rompe
definitivamente con gli Yardbirds e si unisce ai Blues-breakers di John Mayall (seguiranno i
Cream, i Blind Faith, De-rek & The Dominos, i dischi solisti, tutta una carriera destinata ad
imporre Clapton come uno dei più grandi chitarristi della storia del rock).
Clapton viene sostituito da Jeff Beck (nato a Richmond il 24 giugno 1944). In un primo tempo,
gli Yardbirds avevano puntato su Jimmy Page (giovane ma già quotato musicista di studio, che
aveva collaborato ai dischi dei Rolling Stones, dei Kinks e di altri gruppi beat), ma quest'ultimo
aveva chiesto più denaro di quanto il gruppo potesse permettersi. Lo stesso Page aveva però
presentato loro Jeff Beck, che fu accettato dopo che, esibendosi insieme con Clapton, dimostrò di
avere sì il blues nelle vene, ma di essere anche disponibile ad aprirsi verso forme espressive
maggiormente orientate verso il pop. Beck aveva suonato con le Ali Stars di Cyril Davies, e poi con
vari gruppi r&b, tra cui i Tri-dents.
Il 1965 è l'anno in cui molti gruppi beat si evolvono verso sonorità più tipicamente pop, meno
legate alle matrici americane delle origini: i Beatles, ad esempio, abbandonano il rock'n'roll per i
climi più elaborati del LP Rubber soul; i Rolling Stones cominciano a scrivere tutto materiale
originale e reinventano completamente il r&b con canzoni come «Satisfaction» e «Get off of my
cloud», e l'anno dopo con il LP Aftermath. E proprio nel 1965, gli Yardbirds decidono di incidere su
singolo «For your love», una canzone pop (che con il r&b delle origini aveva in comune soltanto un
certo stile formale) scritta da un ragazzotto di Manchester, Graham Gouldman (che una decina di
anni dopo a-vrebbe raggiunto a sua volta la celebrità come leader del gruppo pop dei 10 cc).
Il 45 giri «For your love» degli Yardbirds dilaga a sorpresa nelle classifiche internazionali: tra i
primi dieci posti per vari mesi negli Usa, ai primi posti in Inghilterra, Svezia, Olanda e Germania.
In Italia, la canzone sarà supervo-tata per settimane alla trasmissione radiofonica «Bandiera
gialla» di Boncompagni e Arbore, l'unica ad occuparsi, in quel periodo, esclusivamente di rock
music.
Sempre nel 1965, gli Yardbirds fanno la loro prima tournée americana. Si esibiscono prima dei
Beatles in un concerto a Parigi. Inoltre, viene loro assegnato uno spazio fisso quotidiano
nell'ascoltatissimo programma «Zowie One», mandato in onda dalla leggendaria Radio Caroline, la
prima stazione radiofonica (rock) pirata della storia, che trasmetteva da una nave ormeggiata
oltre il limite delle acque territoriali inglesi.
Il 1966 è l'anno del trionfo, e segna anche il momento più alto della musica degli Yardbirds.
Anzi, sembra proprio che il gruppo, per la tecnica eccezionale e il gusto spericolato della
sperimentazione sonora, sia di gran lunga il più avanzato di tutto il movimento beat/rock del
periodo. Singoli a dir poco geniali come «Stili I'm sad», «I'm a man», «Heart full of soul», «Shapes
of things», «Over under sideways down» propongono soluzioni sonore affascinanti e assolutamente
inedite, tutte indelebil- \ mente marcate dalla tagliente, ; eccezionale chitarra d'acciaio di Jeff
Beck. Il rhythm & blues, il beat rock si fondono con influenze orientaleggianti, addirittura con
suggestioni tratte dal canto gregoriano. Tutto questo forma lo stile definitivo, avanzatissimo sia dal
punto di vista tecnologico che da quello dell'ispirazione, che gli Yardbirds insistono nel definire
rave up (e che, affermano, significa la creazione di un clima sonoro sempre più teso e nervoso, che
raggiunge un apice destinato a fare entrare sia chi suona che chi ascolta in una sorta di trance
emozionale). Il successo dei singoli viene ripetuto anche dai due LP For your love e Havingit rave
up witb the Yardbirds, che escono sempre nel 1966.
Eppure, proprio il successo scatena all'interno del gruppo divergenze e tensioni di carattere sia
umano che artistico. In particolare, Keith Relf sembrava geloso della popolarità di Beck, e nello
stesso tempo si mostrava restio ad assecondare quest'ultimo nella sperimentazione continua di
nuove tecniche, preferendo ripiegare su un suono più collaudato. Era stato proprio Relf ad
impuntarsi, spalleggiato da Gomelsky, perché il gruppo accettasse di esibirsi al l'estivai di Sanremo
del 1966: una partecipazione che invece Beck giudicava alquanto sputtanante per l'immagine che
gli Yardbirds si e-rnno costruita. Ma Relf l'aveva spuntata, e così il gruppo andò a Sanremo
interpretando due pezzi: •<Pafff...bum» (scritta da Reverbe-li-Bardotti con testo inglese di
Samwell-Smith) cantata in coppia con Lucio Dalla; e «Questa volta» (di Satti-Dinamo-Mogol)
cantata in un orribile italiano in coppia con Hobby Solo.
Come primo risultato delle tensioni che squassavano il complesso, l'aul Samwell-Smith, che fino
ad allora si era assunto il ruolo del paziente mediatore tra Relf e Beck, lascia definitivamente gli
Yardbirds alla fine del 1966, per abbracciare l'attività di produttore (tra le altre cose, produrrà nel
1970 Mona bone jakon, l'album della «resurrezione» artistica di Cat Stevens). Samwell-Smith
viene sostituito da Jimmy Page (nato nella regione del Middlesex il (9 gennaio 1944), stanco del
suo redditizio ma anonimo lavoro di session-man, un uomo che il gruppo poteva ormai
finanziariamente permettersi.
Con la nuova formazione, il gruppo compare in una scena del film Blow Up di Michelangelo
Antonioni. Spronato da Keith Relf, Jimmy Page, che era stato preso in qualità di bassista, comincia
sempre più spesso a suonare la chitarra solista, invadendo lo spazio di Beck. Contemporaneamente
la casa discografica del gruppo, temendo anch'essa le implicazioni commerciali della sempre più
spinta (magnifica) mania sperimentale di Jeff, preme per un suo definitivo allontanamento. Lo
stesso Beck comincia a disertare i concerti e gi altri impegni della formazione, finché lascia il
gruppo definitivamente alla fine del 1966 (dopo due singoli come solista, fonderà il leggendario Jeff
Beck Group con Rod Stewart e Ron Wood, poi il supergruppo Beck, Bogert & Appice con i due ex
Vanilla Fudge, dopodiché inizie-ranno le sue discontinue e magistrali esibizioni con musicisti
orbitanti intorno al rock-jazz...Tra tutta la sua produzione discografica, e-straiamo i due primi
leggendari Truth e Beck-Ola, e l'affascinante There and back del 1980.
Il primo album senza Beck, con Page alla chitarra solista, fu Little games (1967), prodotto da
Mickie Most, un vecchio volpone che aveva già provveduto a riciclare in chiave di pop
raffinatamente commerciale anche un altro gruppo leggendario della prima ora rhythm & blues, gli
Animals, Tranne qualche sprazzo geniale, Little ga-mes è il più brutto album del gruppo, e lo
stesso pubblico lo punisce decretandogli un clamoroso disinteresse, che si estende anche al nuovo
singolo «Goodnight sweet Josephine».
Dopo una terza tournée americana avvenuta nella primavera del 1968 (la seconda era di circa
un anno prima), il gruppo si scioglie definitivamente, non senza aver fatto uscire un ultimo album
registrato dal vivo in un teatro newyorkese, e decisamente migliore del precedente.
Keith Relf e Jim McCarty, prodotti dal vecchio compagno Samwell-Smith, formano i
Renaissance, una formazione particolarissima che mischia in maniera delicata e cristallina elementi
folk, pop, orientali, classici e barocchi: dopo l'album lllusion, altri musicisti totalmente estranei
subentreranno a quelli originari. In seguito Relf avrebbe suonato con i Medecine Head, McCarty
con gli Shoot. Chris Dreja abbandona del tutto il mondo musicale e inizia l'attività di fotografo.
Jimmy Page, dopo l'ultimo concerto d'addio degli Yardbirds avvenuto nel luglio 1968 al Luton
College of Technology, rimane il proprietario legale dell'etichetta. Così mette insieme alcuni musi'
cisti, impone alla formazione il nome di New Yardbirds e corre a mantenere un impegno
contrattuale assunto prima dello scioglimento del gruppo originale per una tournée nei paesi
scandinavi. Tornato in Inghilterra, rimaneggia i New Yardbirds ingaggiando tre nuovi musicisti:
sono il cantante Robert Plant, il batterista John «Bonzo» Bonham e il bassista John Paul Jones.
Dopo qualche settimana, il gruppo cambia nome seppellendo definitivamente il passato, e assume
quello di Led Zeppelin.
La crisi artistica degli Yardbirds si inserisce nella crisi di tutto il movimento beat, incalzato dalle
novità musicali che si succedono e che ne superano ormai lo sforzo generoso. Sotto i colpi del nuovo
rock-blues elettrico/elettronico e dilatato dei Cream e della Jimi Hendrix Experience, e poi del
rock barocco dei Jethro Tuli e dei King Crimson, entrano in crisi e si sciolgono gli Small Faces, i
Troggs, i Them, gli Animals...Perfino i Beatles pongono termine nel 1969 alla loro avventura.
Incalzato dal prorompente evolversi del rock in tutte le sue nuove forme, compreso l'hard-rock dei
Deep Purple e degli stessi Led Zeppelin (ma anche dalla evoluzione politica della gioventù a partire
dal Sessantotto), il beat/rock «doveva» fatalmente entrare in una crisi irreversibile: di identità
prima ancora che di creatività.
E gli Yardbirds, i più avanzati di tutto il movimento,forse proprio per questo sentirono sulla
propria pelle in maniera ancora più turbolenta l'esplodere di tutte queste contraddizioni,
La loro influenza, comunque, sarebbe risorta a partire dalla seconda metà degli anni Settanta,
con l'apparizione della «new wave rock»: marcatamente influenzati dagli Yardbirds si sono rivelati,
tra gli altri, gli inglesi Dr. Feelgood e gli americani Aerosmith e Cheap Trick.
Manuel Insolera
Discografia
The Yardbirds with Sonny Boy Williamson (Columbia/Emi, 1963) Vive live Yardbirds
(Columbia/ Emi, 1964)
For your love (Columbia/Emi, 1965)
Having a rave up with the Yardbirds (Columbia/Emi, 1966) Over under sideways down
(Columbia/Emi, 1966)
Greatest (Columbia/EMI, 1967) Greatest (Columbia/Emi, 1967) Little Games (Columbia/Emi,
1967) Live at Anderson Theatre, N. Y. (Columbia/Emi, 1968) Rock Generation, Voi. 1 & 2 (Byg
records 1972 - i due LP contengono materiale inciso dal vivo al Mar-quee Club nel 1964) Greatest
Hits (Epic, 1972)

ANIMALS
Alla fine degli anni Cinquanta a Londra l'unico gruppo che rivisitava i blues afroamericani era
l'orchestra jazz di Chris Barber. Ne facevano parte fra gli altri Alexis Korner e Cyril Davies, il
primo cantante e chitarrista, il secondo cantante, chitarrista e in seguito anche armonicista. Barber
li aveva contattati per la prima volta nel '59, al tempo in cui aveva deciso di introdurre alcuni pezzi
di blues nello spettacolo che aveva allestito insieme con la sua donna, la cantante Ottilie Patterson.
Qualche tempo dopo, nei primi anni Sessanta, i bluesmen di passaggio a Londra, Come Muddy
Waters, Sonny Ter-ry e Brownie McGhee, Menphis Slim, Champion Jack Dupree, Otis Spann,
Speckled Red, John Lee Hooker, Little Brother Montgomery, Sunnyland Slim e Howlin' Wolf, che
si esibivano al pub Roundhouse in Wardour Street, nel quartiere di Soho, per qualche pinta di
birra, cominciarono a richiamare numerosissimi appassionati.
Sull'onda di questi concerti, si formarono nuovi gruppi nel tentativo di riproporre i blues dei
musicisti neri d'oltreoceano in versione elettrica e urbana, più adatta all'atmosfera di una
metropoli come Londra. Lo stesso spirito giunse anche nella provincia e in altre città. John Mayall
era originario di Manchester, Manfred Mann veniva addirittura dal Sud Africa e gli Animals da
Newcastle-on-Tyne.
Newcastle-on-Tyne è un porto sulla costa orientale dell'Inghilterra, a circa 70 chilometri dal
confine con la Scozia. Nel '62 e '63 Newcastle era ancora isolata dall'ondata della musica pop che
aveva investito Liverpool e che stava per raggiungere Londra e da quella blues che si sviluppava in
direzione opposta. Ma si era sempre respirata aria americana, perché i marinai che tornavano dai
viaggi negli Stati Uniti portavano con sé dischi di blues, rhythm'n'blues e rock'n'roll, per il piacere
di giovanissimi appassionati come Alan Price.
Nato a Fairfield, Durham, il 19 aprile 1942, Price a soli 14 anni aveva già imparato a suonare
con la chitarra e il pianoforte gli spartiti che suo fratello maggiore gli portava di ritorno
dall'America. Nel '57 Price formò la sua prima band, specializzata in skiffle, uno stile ibrido a metà
fra il jazz, il blues e il boogie-woogie, allora molto in voga. Nel '60 nacque invece l'Alan Price
Combo, con lo stesso Price alle tastiere, Bryan James «Chas» Chandler al basso, Hilton Stuart
Patterson Valentine alla chitarra e John Steel alla batteria. Di questo periodo non rimane alcun
documento discografico, ma si suppone che il gruppo si sia esibito solo in pub, in piccoli club e in
occasione di feste locali. L'ingaggio più famoso fu quello di supporter a Jerry Lee Lewis per una
tournée in Gran Bretagna.
La svolta avvenne due anni più tardi, nel '62, quando al gruppo si uni il cantante Eric Burdon.
Nacquero così gli Animals. Si dice che il nome venne attribuito alla band dallo stesso pubblico,
rimasto impressionato dall'aspetto selvaggio dei musicisti, dal loro comportamento frenetico e
dall'energia sprigionata durante le esibizioni.
Eric Victor Burdon, nato l'il maggio 1941 a Walker-on-Tyne, cresciuto a Newcastle dove aveva
frequentato la scuola d'arte, patito di rhythm'n'blues, collezionista accanito di dischi americani,
piccolo, basso e tozzo, con il viso arcigno e lo sguardo di fuoco come quello degli operai della zona,
contrastava nettamente con gli altri componenti del gruppo, tutti bravi ragazzi, la frangia di capelli
sugli occhi come unica stravaganza, un'aria da tranquilli impiegati di banca. Ma tutti quanti, e
specialmente Burdon, Price e Chandler che avevano le personalità più spiccate, si sentivano legati
dagli stessi gusti musicali: un amore sfrenato per la musica nera.
Si racconta che Burdon abbia sentito per la prima volta dischi di rhythm'n'blues da un marinaio
che viveva nell'appartamento accanto al suo e che si sia innamorato pazzamente di questo stile
musicale. E quando qualcuno gli disse che la sua voce somigliava a quella di Ray Charles, il «nano»
di Newcastle ne esasperò la forza, il tono e la potenza per renderla ancora più simile a quella del
suo idolo. Fu in parte anche la fortuna degli Ani-mais. Davanti ai primi ammiratori, soprattutto nel
Club a Go Go dove nel '63 si esibì in un concerto anche il cantante e chitarrista nero Bo Diddley,
Eric Burdon cantava, si muoveva e si comportava come se quella fosse la sua ultima apparizione in
pubblico. Nello stesso tempo, a questo straordinario temperamento non faceva riscontro una
eguale abilità tecnica. Alan Price a parte, gli altri musicisti non uscivano dalla mediocrità:
l'autodidatta Chandler improvvisava, invece che sostenere con la base ritmica, Valentine d'altra
parte preferiva e-vitare rischiosi assolo per dedicarsi a un regolare accompagnamento e Steel non
nascondeva influenze jazzistiche che si rivelavano originali ma poco adatte al suono complessivo del
gruppo.
Nel '63 la fama degli Animals varcò i confini di Newcastle e si diffuse anche a Londra grazie
all'attenzione di Mickie Most, un produttore che riuscì a procurare loro un promettente contratto
con la casa discografica Emi. Most, il cui vero nome è Michael Hayes, era emigrato in Sud Africa
dove aveva formato una band specializzata nell'interpretare brani di successo negli Stati Uniti: con
questo semplice metodo, nel mercato locale 11 suoi brani raggiunsero la prima posizione nelle
classifiche di vendita. Ritornato a Londra nel '62, si era tuffato in veste di produttore nella
nascente scena di revival del rhythm'n'blues. Gli Ani-mais furono i suoi primi (e dorati) protetti.
Paradossalmente le prime due incisioni vennero prese in prestito da Bob Dylan: «The House of
the Rising Sun» e «Baby Let Me Take You Home» (arrangiata da Price dall'originaria «Baby Let
Me Fol-low You Down») erano infatti apparse nel primo album di Dylan nel '62. Ma al momento
del lancio sul mercato i dirigenti della Columbia si opposero all'uscita contemporanea di queste due
canzoni, giudicando «The House of the Ri-sing Sun» troppo lunga e noiosa, e optarono per un 45
giri con «Ba% Let Me Take You Home» come lato A e «Gonna Send Back To Walker» come lato B.
Era il marzo '64. Il singolo divenne presto un grosso successo commerciale in tutta l'Inghilterra. Il
primo concerto nel sud venne dato nel famoso locale Crawdaddy nel quartiere di Richmond, a
Londra, e in aprile gli Animals vennero ingaggiati per accompagnare Chuck Berry in una tournée in
tutto il paese. In giugno venne fatto uscire un secondo 45 giri contenente «The House of the Rising
Sun» e «Talkin' 'bout You». Fu un successo sensazionale non solo in Inghilterra ma anche negli
Stati Uniti, con echi perfine in Italia, e decretò la gloria dei cinque ragazzi di Newcastle.
Ma la scelta delle canzoni prodotte dalla Columbia, pur rispecchiando lo stile grintoso
caratteristico degli Animals, non fu interamente gradita da Eric Burdon, sempre teso alla
riscoperta e alla rivalorizzazione dei suoi «maestri». Comunque, grazie al favore incontrato sia fra il
pubblico sia fra la critica, venne concessa la possibilità di registrare qualche disco EP (extended
playing) con «Boom, Boom» e «Dimples» scritti da John Lee Hooker, «Around and A-round» di
Chuck Berry, «The Ri-ght Time» di Ray Charles e «I'm in Love Again» di Fats Domino. Anche
questi brani furono vendu-tissimi: la vena blues di Burdon e compagni, e più in generale il blues
revival inglese, viveva allora un momento di grande e inattesa celebrità.
A quel tempo i maggiori concorrenti degli Animals erano addirittura i Rolling Stones, perché
entrambi i gruppi si ispiravano alla stessa matrice musicale (il blues, appunto), combinandola con il
rock ed elettrificandola potentemente. I Rolling Stones, però, crearono intorno a loro anche un
contorno spettacolare di grande richiamo e cominciarono gradatamente ad allontanarsi dai propri
modelli per imboccare una diversa strada, autonoma. Quello che invece mancò agli Animals fu la
vena compositiva. Alan Price era un musicista piuttosto bravo e originale, Eric Burdon un
interprete e un arrangiatore efficacissimo, ma nessuno dei due — pur componendo qualche brano
— si dimostrò mai al livello della fortunata coppia Mick Jagger-Keith Richard. Più naif, più sinceri e
più genuini ma meno prolifici, creativi e inventivi, gli Animals credevano che la musica fosse suf-
fuciente a parlare per loro. E tra i due gruppi, ma sarebbe più giusto dire fra le due fazioni dei fans,
nacque un'accesa rivalità.
Nell'agosto '64 venne pubblicato un terzo 45 giri con «I'm Crying» e «Take It Easy», nel
gennaio '65 uscirono «Don't Let Me Be Mi-sunderstood» (il rifacimento di una canzone di Nina
Simone) e «Club a Go Go», nell'aprile '65 «Bring It On Home» (originariamente di Sam Cooke) e
«For Miss Cauker» e nel luglio '65 «We've Gotta Get Out Of This Place» e «I Can't Believe It»:
tutti questi pezzi sfondarono anche negli Stati Uniti e gli Animals si sentirono pronti per la prima
tournée oltreoceano. A questa ne seguirono altre, finché nell'autunno '65 Alan Price decise di
lasciare il gruppo. «Ordine del dottore» fu la sua versione ufficiale del divorzio. Si dice che Price
soffrisse il male d'aereo e i continui viaggi negli Stati Uniti lo terrorizzavano. Ma a nessuno era
sfuggita la difficile coesistenza con Eric Burdon: troppo differenti i caratteri e le personalità dei due
musicisti per poter collaborare ancora a lungo.
L'ultimo brano inciso con la formazione originale fu «It's My Life», uscito nell'ottobre '65. Da
quel momento cominciò un periodo di vita travagliato per tutti i componenti della band. Price
venne sostituito da Dave Rowberry, tastierista dei Like Cotton Sound: a quel tempo risale la
canzone «Inside Looking Out», che riscosse ancora un discreto successo commerciale. Più tardi
anche Steel se ne andò, rimpiazzato dal batterista Barry Jenkins, già con i Nashville Teens, famosi
per una versione di «Tobacco Road». Alla fine del '66 gli Animals si sciolsero ufficialmente. Non
tutti continuarono la carriera di musicisti.
Si narra che al momento dello scioglimento Chas Chandler possedesse soltanto 1400 sterline
(meno di tre milioni di lire), due bassi elettrici e un appartamento in comproprietà a Londra.
Chandler poi cominciò a fare la spola fra Londra e New York vivendo di espedienti e con i diritti
d'autore dei dischi incisi con gli Animals. Durante una serata al Cafe Wha, al Greenwich Village di
New York, ebbe l'opportunità di ascoltare un giovane chitarrista nero che accompagnava Curtis
Knight. Si chiamava Jimi Hendrix ma suonava con lo pseudonimo di Jimi James. Chandler rimase
fortemente impressionato dalla forza di Hendrix, divenne il suo manager e lo convinse ad andare in
Inghilterra. In seguito ad alcuni disaccordi sulla conduzione della carriera di Hendrix, si mise a
lavorare come talent-scout e organizzatore per la Robert Stigwood Organisation. Nel febbraio '69
vide suonare gli Slade al Rasputin Club in Bond Street, a Londra, e li portò al successo.
Alan Price formò sul finire del '65 l'Alan Price Set, che sopravvisse un paio d'anni e con cui
incise due long-playing, valorizzando alcune composizioni del cantautore americano Randy
Newman, allora sconosciuto al pubblico inglese. Negli anni successivi Price partecipò a diversi
specials televisivi, di cui uno realizzato insieme con Geòrgie Fame. Da questa collaborazione nacque
l'album Fame and Price, Price and Fame Together, cui seguì due anni dopo, esattamente nel '73,
la colonna sonora del film O Lucky Man! di Lindsay Anderson, per il quale era stato invitato a far
parte anche del cast. L'avventura cinematografica gli portò fortuna, gli garantì un certo credito
anche in veste solista e gli concesse l'opportunità di creare nuove opere. Between Today and
Yesterday, il successivo album, era la storia se-mi-auto-biografica di un ragazzo della classe
lavoratrice del nord-est (perché no?, Newcastle), che riesce a riscuotere successo a Londra (A-lan
Price, senz'altro). Buona l'accoglienza di pubblico e critica, più fredda invece quella riservata ai
successivi dischi, che però confermavano la vena piuttosto fertile del musicista.
Eric Burdon nel '66 formò un nuovo gruppo, Eric Burdon and the Animals, che voleva essere la
continuazione ideale di quello appena sciolto. Dei precedenti compagni era rimasto solo Barry Jen-
kins alla batteria; gli altri erano Danny McCullough alla chitarra (che poi tentò senza fortuna la
carriera solista), Vie Briggs alle tasUle-re (ex Steampacket, poi divenne un produttore) e John
Weider al basso e al violino (in seguito entrò nei Family, negli Stud e nella band di Nicky James,
quindi fu il leader dei Moonrider, infine anch'egli tentò la versione solistica). Burdon fu ovviamente
il cervello del nuovo gruppo, che si spostava dal ro-ck-blues al rock puro e successivamente anche
all'acid rock. Nello stesso periodo Burdon faceva esperienze psichedeliche usando l'Lsd con tutto lo
zelo che prima aveva prestato per l'alcool.
Nell'estate del '67 Burdon modificò la propria immagine: non più il ragazzo ribelle, rude e
selvaggio, l'animale, ma un messaggero di pace, gioia e amore per tutti. Dopo il primo ellepì Eric Is
Here, che non cambiava sostanzialmente il suo stile ma che già lasciava intravedere i segnali di
quello nuovo, uscì Winds Of Change, un album fondamentale. Innanzitutto per il successo: uno dei
suoi brani, «San Franciscan Nights», uscito anche come singolo, raggiunse e mantenne a lungo i
primi posti nelle classifiche di vendita in tutto il mondo. Poi le risposte: a Jimi Hendrix con «I Am
Èxperienced» all'originale «Are You Èxperienced?», a Mick Jagger con un graffiarne e indelebile
arrangiamento di «Paint It Black» e al mondo intero con «Good Times», in cui Burdon rivelava la
sua nuova filosofia: «...Invece di bere avrei dovuto pensare...». Nel dicembre '68 fu dato alle
stampe un album doppio che avrebbe dovuto essere l'ultimo: Love Is, l'amore è, titolo
emblematico e conclusivo per la carriera del cantante inglese che aveva ormai trovato negli Stati
Uniti la nuova patria. Intanto la band aveva subito nuove modifiche: Dar.ny McCullough era stato
sostituito da Andy Summers e Vie Briggs da Zoot Money. Quest'ultimo aveva cominciato a
suonare nel '63 con i Blues Incorporated di Alexis Korner e quindi parlava lo stesso linguaggio,
inglese e bianco, ma blues, di Eric Burdon. O perlomeno ne aveva lo stesso bagaglio musicale. Più
tardi Zoot Money andò a vivere nella casa del suo amico Geòrgie Fame: così, seppure solo
indirettamente, le strade di Burdon e Price si incrociavano nuovamente.
Dopo Love Is Burdon si rifugiò sulla costa del Pacifico, chi dice per motivi sentimentali (la fine
del matrimonio), chi per motivi di salute (tossicomania o asma?). Eric tornò sulle scene nel '70
quando il produttore Jerry Goldstein gli presentò i Night Shift, un gruppo di musicisti neri attivo a
Los Angeles. Cambiato il nome in War, eliminata la sezione dei fiati a eccezione del clarinettista e
sassofonista Charles Miller, introdotto l'amico armonicista e cantante danese Lee Oskar con cui
suonava blues per pura passione e accentuato lo stile funky, Eric Burdon si tuffò in questa nuova
felice avventura. I primi album vendettero molto bene e il gruppo compì una prima tournée
europea nel '70, quando si esibì con Jimi Hendrix al Ronnie Scott's di Soho, a Londra, e una
seconda nel '71 (il road-manager era l'ex Animai H'ilton Valentine).
Ma Burdon non riuscì a portare a termine la serie dei concerti, abbandonò i War ormai lanciati
verso un successo sempre crescente e, non appena si riprese fisicamente, tornò ai vecchi amori,
coronando a tanti anni di distanza un suo antico sogno: registrare un intero disco con un vecchio
bluesman, nell'occasione Jimmy Witherspoon, un potente cantante rivelatosi con le orchestre di
blues jazzistico. L'album Guiltyl era dedicato ai prigionieri sfruttati di San Quintino, i brani si
intitolavano «The Laws Must Change», le leggi devono cambiare, e «Soledad». Nelle note di
copertina si leggeva: «Non lascerò che questa rivoluzione si spenga per sempre». Ma impegno
politico a parte, le attese andarono deluse: il disco non riuscì a legare questi due grandi cantanti di
blues. La differenza di pelle, cioè le diverse esperienze di vita e tradizioni culturali, non potevano
non lasciare traccia.
Nel '73 Eric Burdon tornò a esibirsi in Inghilterra con un trio di hard rock formato da Aaron
Butler alla chitarra, Randy Rice al basso e Alvin Taylor alla batteria. Fu u-n'operazione nostalgia
senza grandi novità. Nel '74 uscì Sun Secrets, nel '75 Stop che dimostra la classe di Burdon, ancora
capace di regalare ai suoi fans momenti di rock solido, pulito, preciso e semplice.
Ma la storia degli Animals non si conclude qui. Troppo forti i richiami commerciali o troppo
intensi i moti sentimentali, più probabilmente per tutti e due i motivi, gli originali Animals si
riunirono nel '77 per incidere un nuovo disco: Before We Were So Rudely Interrupted, prima che
venissimo interrotti così bruscamente. Sembra che le registrazioni risalgono agli inizi del '76,
quando casualmente i cinque componenti dei primi Ani-mais si ritrovarono tutti a Londra. Price,
Steel e Chandler perché vi abitavano stabilmente, Burdon per affari e Valentine in vacanza (viveva
negli Stati Uniti dove lavorava come produttore). Per scherzo venne abbozzata l'idea di un nuovo
ellepì: quando fu considerata seriamente, si riunirono tutti in casa di Chandler, spostarono i mobili
per fare posto alla strumentazione mobile dei Rolling Stones, provarono per un paio di giorni,
quindi in cinque giorni registrarono il nuovo disco. Ma la formula era ancora quella vecchia e
collaudatis-sima miscela che li aveva resi famosi nel passato. Fra le altre canzoni si rivisitavano
«It's Ali Over Now, Baby Blue» di Bob Dylan, «Many Rivers To Cross» del reg-gae-man Jimmy
Cliff e il blues di Percy Mayfield «Please Send Me Someone To Love». L'unico brano originale era
«Riverside Country», un lungo blues rilassato in cui Burdon e compagni dimostravano ancora
l'immutato feeling.
L'ultimo capitolo si chiama Darkness, Darkness ed è firmato da Eric Burdon da solo. È il maggio
'80. Il «nano» di Newcastle ora vive ad Amburgo, ma per registrare questo album si è recato in
Irlanda: il viaggio si è rivelato fortunato, l'aria quasi di casa gli ha fatto ritornare in mente i vecchi
maestri neri (nel particolare frangente Jimmy Reed e Chuck Berry) di cui compaiono un paio di
azzeccate interpretazioni: un semplice sottofondo di chitarra, basso, batteria e tastiere riesce a
porre in evidenza le qualità del canto di Burdon. Un canto nero.
Marco Pastonesi
Discografia
a) americana:
'The Animals (MGM, 1964) Get Yourself a College Girl (colonna sonora da film contenente
Around and Around e Blue Feeling) (MGM, 1964) The Animals On Tour (MGM,1965)
Animals Tracks (MGM, 1965) British Go Go (antologia contenente «The House Of the Rising
Sun» e «Bring It On Home») (MGM, 1965)
The Best Of The Animals (MGM,1966)
Animalization (MGM, 1966) Animalis (MGM, 1966) Eric Is Here (MGM, 1967) The Best Of
Eric Burdon and the Animals Voi. 2 (MGM, 1967) Winds Of Change (MGM, 1967) The Twain
Shall Meet (MGM,1968)
Everyone Of Us (MGM, 1968) Love Is (doppio) (MGM, 1968) The Greatest Hits Of Eric
Burdon and The Animals (MGM,1969)
In The Beginning (registrato dal vivo il 30 dicembre 1963 al Club a Go Go di Newcastle)
(WAND, 1973)
The Best Of The Animals (doppio) (ABKCO, 1973)
The Core Of Rock Voi. 2 (antologia contenente «Don't Bring Me Down» e «C.C. Rider» (MGM,
s.d.)
Before We Were So Rudely Inter-rupted (United Artists, 1977)
b) inglese
The Animals (Columbia, 1964) Animai Tracks (Columbia, 1965) The Most Of The Animals
(Columbia, 1966) Animalism (Decca, 1966) Animalization (Decca, 1966) The Twain Shall Meet
(MGM, 1968)
Love Is (doppio) (MGM, 1968) The Most Of The A?timals (MFP, 1973)
Eric Burdon and The Animals (MGM, 1973)
Eric Burdon and The Animals in Newcastle-on-Tyne December '63 (Charly, 1976)
The Animals and Sonny Boy Williamson in Newcastle-on-Tyne December '63 (Charly, 1976)
Before We Were Rudely Interrup-ted (Polydor/barn, 1977)
Eric Burdon
Declares War (MGM, 1970) (Polydor, 1970)
Black Man's Burdon (MGM, 1970) (Liberty, 1971)
Eric Burdon and Jimmy Witherspoon: Guilty! (United Artists, 1971) (MGM, 1971) The Eric
Burdon Band-, Sun Sec-rets (Capitol, 1974) (Capitol Est, 1975)
The Eric Burdon Band: Stop (Capitol SMAS, 1975) (Capitol Est 1975)
War Featuring Eric Burdon: Love Is Ali Around (ABC, 1976) Darkness, Darkness (Polydor,
1980)
Alan Price
Alan Price Set-, The Price To Play (Decca, 1966)
Alan Price Set: A price On His
Head (Decca, 1967)
Alan Price Set: This Price Is Right
(antologia americana dei precedenti
due dischi inglesi) (Parrot pass,1967)
The World Of Alan Price (antologia) (Decca, 1970)
Alan Price and Geòrgie Fame: Fame & Price, Price & Fame Toge-ther (CBS, 1971)
0 Lucky Man! (Warner Bros., 1973)
Between Today and Yesterday (Warner Bros., 1974) Metropolitan Man (Polydor, 1975)
Performing Price (doppio) (Polydor, 1975)
Shouts Across The Street (Polydor, 1976)

Fleetwood Mac
C'è chi lo definisce soltanto una moda, chi invece lo considera l'inizio di una nuova era, chi infine
ne parla con lo stesso rispetto che si prova per un'antica leggenda. Per tutti, comunque, il blues
revival inglese degli anni Sessanta è stato una scuola, un punto di riferimento e un'ondata creativa,
la risposta magari sentimentale, ma molto sincera allo stile crudo dei gruppi underground o
sperimentali dei musicisti elettronici.
L'uomo che riscoprì un ruolo fondamentale prima della riscoperta musicale e culturale del blues
e poi della relativa operazione commerciale fu Mike Vernon, un ingegnere che saltuariamente
partecipava alla produzione della casa discografica Decca. Vernon aveva conosciuto il blues a scuola
durante gli anni del liceo classico e vi si appassionò collezionando vecchi dischi di Eddie «Son»
House e Muddy Waters. Agli inizi degli anni Sessanta fondò la rivista «R&B Monthly» (Il mensile
del rhythnr n'blues) insieme con suo fratello Richard e all'amico Neil Slaven, an-ch'egli produttore
della Decca. Spesso tutti insieme andavano al Crawdaddy Club di Londra per a-scoltare gli
Yardbirds, in quel periodo gruppo leader del blues elettrico londinese. Si racconta che qualche
volta Mike Vernon abbia addirittura sostituito Keith Relf, il cantante degli Yardbirds che soffriva
di frequenti attacchi di laringite. Alla Decca Vernon ottenne carta bianca per lanciare sul mercato
discografico le bands inglesi di blues, come Ten Years After, Sa-voy Brown, Chicken Shack, Key
Largo, Jellybread e Fleetwood Mac, o musicisti solisti come John Mayall, Duster Bennett e Gordon
Smith, per citare solo alcuni dei nomi più noti; inoltre riuscì a produrre anche dischi di bluesmen a-
mericani in tournée in Europa, come Otis Spann, Champion Jack Dupree, Eddie Boyd, Curtis
Jones, Johnny Shines e Sunnyland Slim.
La scoperta di John Mayall, nel '63, si rivelò vincente: intorno all'egocentrico musicista di
Manchester si creò subito un certo seguito di critica, un alone di popolarità e un gruppo di musicisti
suoi discepoli. Di questi il più famoso fu sicuramente Eric Clapton, chitarrista già con gli Yardbirds,
che abbandonò i Bluesbreakers (gli innovatori del blues) di Mayall per incompatibilità di carattere.
Lo sostituì un certo Peter Green, uno dei quattro figli di una povera famiglia ebrea che abitava
nell'East End di Londra.
Peter, nato il 29 ottobre '46, aveva preso in mano la chitarra per la prima volta quando aveva
11 anni: era una piccola ed economica chitarra spagnola regalatagli da uno dei suoi fratelli. Il primo
contatto con il blues giunse ad un vecchio 78 giri di Muddy Waters ascoltato in casa di amici. Poi
conobbe anche lo stile di B.B. King, Buddy Guy e Freddie King, ma la svolta arrivò proprio da Eric
Clapton: per imitarlo investì i propri risparmi in una chitarra Les Paul, la stessa usata da Clapton.
Prima di unirsi ai Bluesbreakers, Green aveva fatto parte dei Peter B's Looners (ex Cheynes), la
band di Peter Bar-dens (in seguito con Van Morrison nei Them, Rod Stewart nei Shot-gun
Express e con i Carnei), che suonava rhythm'n'blues: batterista era Mick Fleetwood, un energico
ragazzone alto quasi un metro e 95 nato il 24 giugno '47. Più tardi, dopo che i Peter B's Looners si
erano fusi con i Shotgun Express, Green lasciò la nuova formazione per colpa di una sfortunata
storia d'amore con la bassista del gruppo, Beryl Marsden, e accettò di provare con Mayall. Per
tutti fu una sorpresa: soprattutto per Mike Vernon che apprese la sostituzione soltanto all'ultimo
minuto in sala d'incisione. Il long-playing inciso in quella circostanza, A Hard Road, è diventato una
pietra miliare nella storia del British Blues. Con Mayall e Green c'erano anche il bassista John
McVie (nato il 26 novembre '45, con Mayall fin dal '63). «L'incontro fu terribile», ricorda McVie.
«Mi disse di suonare in 12 battute e basta, ma non sapevo neanche che cosa fossero queste 12
battute. Poi mi diede una pila di dischi e mi ordinò di ascoltarli tutti e di afferrarne stile e
sentimento.» Del gruppo faveva parte anche il batterisa Aynsley Dunbar. Poco tempo dopo,
cacciato Dunbar, a Mayall serviva un altro batterista: Green suggerì di ingaggiare Fleetwood.
Fu Vernon a scoprire le potenziali doti del trio Green-McVie-Dunbar (e poi Fleetwood) nei
pochi pezzi registrati senza Mayall e durante le jam-sessions. Quando però si trattò di
abbandonare la sicurezza economica garantita dai dischi e dai concerti di Mayall e tentare una
propria strada, John McVie preferì rimanere. Al suo posto fu provato Bob Brunning, già con la
Sunflower Blues Band e successivamente freelance di grande prestigio, e i-noltre Vernon reclutò il
chitarrista Jeremy Spencer, nato il 4 luglio '48, leader del Levi Set Blues Group, che sembrava
aver imparato a memoria la lezione del grande chitarrista nero americano Elmore James. Ma
Brunning deluse (si dice che nei concerti non avesse occhi che per le belle ragazze) e McVie,
lasciato Mayall orientato verso formule più jazzate (era il periodo di «Bare Wires»), ritornò nel
gruppo. Come nome fu scelto Fleetwood Mac in onore di batterista e bassista, con Green che
volutamente preferiva mantenersi in ombra.
I Fleetwood Mac esordirono al Windsor Jazz and Blues Festival il 12 agosto '67 e poco tempo
dopo entrarono in sala d'incisione per il primo album, Peter Green's Fleetwood Mac, premiato da
critica e pubblico con un successo imprevisto: era un disco di blues puro, con alcune versioni di
vecchi pezzi dei maestri d'oltreoceano e altri brani scritti da Green o da Spencer nel rispetto della
tradizione. Quando uscì il 45 giri contenente «Black Magic Woman», si comprese però che il blues
era solo la matrice basilare con cui i Fleet-wood Mac costruivano poi la loro musica. Riadattata da
Carlos San-tana, «Black Magic Woman» è diventata poi un best-seller degli anni Sessanta.
Sfruttando il momento di popolarità, nel novembre '68 venne pubblicato l'ellepì Mr. Wonderful,
che rispetto al precedente presenta differenze più formali che sostanziali con il temporaneo
inserimento di un pianoforte (suonato da Christine Perfect dei Chicken Shack) e di un sassofono
tenore (di Johnny Almond, allora collaboratore di Mayall: di poco successiva è l'uscita di The
Turning Point, il celebre album di blues acustico), che resero l'atmosfera molto più simile a quella
originaria di Chicago. Contemporaneamente il 45 giri «Al-batross» entrò nei primi posti delle
classifiche di vendita: dopo due album di blues piuttosto rigoroso, «Albatross» — una melodiosa
canzone solo strumentale dall'aria hawaiana — stupì chi reputava i Fleetwood Mac capaci solo di
attenersi alle tradizionali 12 battute del blues. Il gruppo fece una tournée negli Stati Uniti e al suo
ritorno, all'inizio del '69, assunse un terzo chitarrista, il diciottenne Dan-ny Kirwan (era infatti nato
il 13 maggio '50).
Si trattò di una scoperta di Green e Fleetwood: lo stile chitar-ristico del ragazzo li impressionò a
tal punto che lo convinsero a lasciare i suoi compagni, a trovarsene dei migliori e — non riuscitovi
— a unirsi agli stessi Fleetwood Mac. Nacque subito il terzo LP_, English Rose, in cui comparivano
successi come «Black Magic Woman» e «Albatross», blues come «Stop Messin' Round» e
«DoctorBrown» e perle come «Jigsaw Puzzle Blues» (in cui Kirwan sperimentava le influenze da
Django Reinhardt) e «One Sunny Day» (un primo autentico rock-blues).
I Fleetwood Mac avevano allora due distinte anime: la prima era puramente blues, nel rispetto
della tradizione di Chicago, quindi urbana ed elettrica, con dichiarato a-more per Elmore James
(almeno da parte di Jeremy Spencer); la seconda era aperta a nuove esperienze musicali, che dal
blues prendevano soltanto lo slancio per sconfinare poi in altri campi anche più commerciali. E per
un certo tempo anche la produzione del gruppo seguì questi due differenti indirizzi. Così, subito
dopo aver inciso Then Play On (un album abbastanza leggero, certo più dei precedenti, con grande
spazio lasciato a Kirwan e negato a Spencer: il disco vendette bene non solo in Inghilterra ma
anche in America, dove superò per la prima volta le 100.000 copie), i Fleetwood Mac volarono a
Chicago e negli studi della vecchia agonizzante casa discografica Chess registrarono un doppio
album con Otis Spann, Willie Dixon, Buddy Guy, Walter Shakey Horton, J.T. Brown, Honeyboy
Edwards e S.P. Leary, ovvero il meglio (o quasi) che la capitale del blues nero potesse offrire.
Dopo altri tre emblematici 45 giri, «Man Of The World», «Oh Well» e «The Green Manalishi»,
caratteristici della nuova vena intimista, Green lasciò i Fleetwood Mac. Qualcuno parlò di crisi
mistica. Il manager del gruppo, Clifford' Davis, confessò che Peter si sentiva a disagio in una band
come i Fleetwood Mac che guadagnava molti soldi, mentre nel mondo c'era tanta gente che moriva
di fame. Quando lo stesso Green chiese agli altri componenti del gruppo di devolvere il ricavato di
dischi e con: certi alla gente bisognosa attraverso opere pie, molti si chiesero se a-vesse per caso
perduto il lume della ragione. In verità anche in passato Green aveva donato grosse somme di
denaro in beneficienza (si parla addirittura di 30.000 sterline, circa 60 milioni di lire). Qualcun
altro sostiene invece che questo improvviso amore per il prossimo fosse il risultato dei continui
«viaggi» di Green con l'Lsd.
Fleetwood, McVie, Kirwan e Spencer, anche se a malincuore, presero atto della sopraggiunta
incompatibilità, mantennero il nome della band e proseguirono per la loro strada seguendo la
seconda direzione e abbandonando il blues. Ma il passaggio fu graduale. Nell'agosto '70 nacque
«Kiln Hose», dove il posto di leader fino a quel momento occupato da Green venne scaricato sulle
spalle di Spencer, che però non possedeva la necessaria autorità e soprattutto una spiccata
ispirazione. Spencer colse l'occasione invece per rinnovare la passione per il rock americano anni
Cinquanta, mentre alla ribalta venne Kirwan con la sua raffinatissima tecnica chitarristica. Intanto
nell'organico della band entrò a far parte Christine Perfect, che nel '68 aveva partecipato alla
realizzazione del secondo album e si era sposata con John McVie: ufficialmente il suo ingresso
coincise con la nuova tournée organizzata negli Stati Uniti, mentre il suo esordio discografico
coincise con l'abbandono di Jeremy Spencer.
La crisi di Spencer era per molti versi simile a quella di Green, ma i modi con cui l'affrontò e gli
esiti finali si rivelarono assai diversi. Spencer si era improvvisamente reso conto dell'assurdità di
un certo tipo di vita e di musica finalizzato solo al «business». Da tempo il chitarrista aveva trovato
nella religione l'unico sicuro rifugio della propria esistenza: i suoi compagni lo prendevano in giro
per una Bibbia che Jeremy portava gelosamente con sé. Un giorno Spencer scomparve: avrebbe
dovuto suonare per il primo di quattro concerti al Whisky A Go Go di Los Angeles ma non si
presentò. Fu ritrovato cinque giorni dopo in una colonia dei Bambini di Dio con i capelli corti, i
vestiti puliti e il nuovo nome di Jonathan. Davis, il manager, si precipitò sul posto e vide Jonathan
tranquillo, sereno e convinto della propria scelta comunitaria e antimaterialista.
Per i Fleetwood Mac la nuova defezione fu un duro colpo: non si vedeva come poter uscire dal
tunnel in cui ci si era cacciati. Non esisteva infatti una nuova direzione musicale che potesse
confortare la scélta di abbandonare il blues e le vendite dei dischi non raggiungevano vertici
rassicuranti. Il mercato degli Stati Uniti, cui i Fleetwood Mac ora apertamente miravano, era
difficile e in buona parte sconosciuto. Comunque si cercò un sostituto di Spencer e da una selezione
di 24 chitarristi venne scelto Bob Welch, un californiano che aveva lavorato con The Seven Souls
(una band che accompagnava James Brown e Aretha Franklin) e con lo sconosciuto trio di rhythm
and blues Head West. Uno scarso curriculum vitae, quindi, ma una buona referenza, quella di Judy
Wong, moglie del bassista dei Jehtro Tuli
Glenn Cornick e amica comune. Bob Welch ebbe l'ottima idea di presentarsi ai nuovi compagni
con un paio di pezzi già pronti. Uno di questi, «Future Games», non solo fu inserito nell'album, ma
ebbe il privilegio di dargli anche il nome. Il long-playing, datato settembre '71, delinea l'apertura
del gruppo britannico ai gusti americani: un rock fluido ma vigoroso, con vaghi ricordi delle lezioni
di Crosby, Stills, Nash & Young e dei Grate-ful Dead. In particolare giunse all'acme la personalità
musicale di Danny Kirman. I suoi tre brani, definiti «ballate rock», erano però il frutto di un lavoro
meticoloso fino alla paranoia e di un'accuratissima ricerca che lo costringeva all'isolamento.
Sei mesi più tardi usciva soltanto negli Stati Uniti Bare Trees, che ricevette dalla critica
specializzata maggiori consensi dei due dischi precedenti, ma che almeno inizialmente vendette
meno. Bare Trees fu anche l'ultima apparizione di Kirwan con il gruppo. Ormai i rapporti interni si
erano incrinati: si dice che la frattura fosse tra Kirwan da una parte e Welch e Fleetwood dall'altra,
altri sostengono invece che l'attrito maggiore avvenisse fra Kirwan e Christine McVie.
Naturalmente la versione ufficiale del divorzio fu che la musica di Danny stava allontanandosi
troppo da quella che i Fleetwood Mac volevano suonare: dopo lunghe ed estenuanti tournée negli
Stati Uniti si sentiva la necessità di idee fresche. Danny, secondo i portavoce della casa
discografica, era contento di lasciare la band perché voleva incidere un disco da solo e già lavorava
a questo progetto. Le cose invece andarono diversamente: anche se sistematicamente smentita, si
è sempre avuta la certezza della cacciata di Kirwan, diventato fastidioso ed estraneo. Ma all'interno
del gruppo doveva esserci un male oscuro, forse strutturale, che determinava la fuga dei chitarristi
:*|)rima Peter Green, poi Jeremy Spencer, infine Danny Kirwan. Qualunque altro gruppo in
queste condizioni si sarebbe sciolto. La tentazione, già manifestatasi nelle altre due occasioni, si
ripetè al momento della partenza di Kirwan. Ma alla fine si cercò un nuovo sostituto.
Secondo il manager Davis ai Fleetwood Mac mancava completamente la figura del leader: dai
tempi di Peter Green quelli incaricati di assumersi l'onere della regia si erano rivelati incapaci e
avevano preferito rinunciare. L'esempio che poi veniva dai gruppi più in voga, come i Deep Purple,
la diceva lunga sul ruolo fondamentale del can-tante-leader-personaggio. Davis o-ptò per
DaveWalker, cantante già con ì'Electric Light Orchestra, Lidie Rac e i Savoy Brown (con cui aveva
partecipato a una tournée negli Stati Uniti proprio insieme ai Fleetwood Mac). Come chitarrista fu
selezionato Bob Weston, che a-veva a lungo militato nella band di supporto al cantante inglese
Long John Baldry. Il primo prodotto di questa nuova formazione fu l'album Penguin, in cui
sostanzialmente nulla cambiava rispetto ai precedenti lavori. L'unica novità consisteva nel
maggiore spazio riservato a Christine Perfect, che fino a quel momento aveva giocato un ruolo più
importante nei delicati rapporti interni che non nella realizzazione dei dischi. Il tentativo si rivelò
fallimentare: Dave Walker, imposto dal manager, venne praticamente boicottato dai nuovi
compagni e dovette andarsene. Anche il successivo album Mystery To Me, pubblicato negli Stati
Uniti nell'ottobre '73, non disse nulla di nuovo. Intanto l'inserimento di Bob Weston aveva creato
aspri dissapori interni. Jenny Boyd (sorella di Patti, ex moglie di George Har-rison e attuale
consorte di Eric Clapton) divideva il suo amore fra il marito Mick Fleetwood e il nuovo chitarrista:
la situazione alla lunga risultò insostenibile e venne posto un aut-aut. Ma Fleetwood era molto più
potente e fu Weston ad andarsene. Nel frattempo Clifford Davis aveva autorizzato una band di
boogie woogie formata dai semisconosciuti Elmer Gantry, Rick Kirby, Paul Martinez, David
Wilkinson e Craig Collinge a usare per una serie di concerti americani il nome Fleetwood Mac.
Nacque una lunga controversia legale, risol-tasi con la vittoria della formazione originale. Heros
Are Hard To Vind, un nuovo disco di routine, risente di questo stato di insicurezza: Welch,
Fleetwood e i due McVie sembravano finiti. Alla fine dell'anno anche Bob Welch preferì lasciare il
gruppo.
I Fleetwood Mac rimasero un trio solo per una settimana. Mick Fleetwood si trovava negli Stati
U-niti per trovare uno studio adatto a registrare il nuovo album. Nello Studio City di Van Nuys,
vicino Los Angeles, l'ingegnere Keith Ol-sen gli fece ascoltare la canzone «Frozen Love» del duo
Lindsey Buckingham-Stevie Nicks senza alcun motivo ben preciso se non quello di provare
l'impianto di registrazione. Fu un colpo di fulmine. Fleetwood telefonò subito al duo, concordarono
un appuntamento per l'indomani in un ristorante, quindi conclusero l'affare. Fino a quel momento
non c'era stata neppure un'audizione.
Buckingham e Nicks erano famosi a Birmingham, nell'Alabama, ma il loro peso in tutti gli Stati
Uniti era quasi irrilevante. Lindsey era nato in un'agiata famiglia californiana e aveva imparato a
suonare la chitarra ascoltando la collezione di dischi di rock'n'roll del fratello maggiore: Elvis
Presley, Buddy Holly, The Everly Brothers, Chuck Berry e Eddie Cochran erano i suoi eroi. Ma
strumentalmente non era mai riuscito a superare un'onesta mediocrità. Stevie (Stephanie), figlia
unica di un ricco e potente business-man, era nata a Phoenix, in Arizona, ma per il lavoro del padre
abitò anche in California, New Mexico, Texas e Utah. Imparò a cantare seduta sulle ginocchia del
nonno, un vecchio appassionato di country'n'western. Più tardi, andando contro i desideri dei
genitori, abbandonò la sicura laurea universitaria per una più improbabile carriera come cantante.
Il primo disco del duo Bucking-ham-Nicks risale al '73 e non si trattò di un grosso successo: si dice
comunque che più che le canzoni piacesse il sex-appeal dell'affascinante Stevie. L'incontro con i
Fleetwood Mac fu per loro un vero colpo di fortuna. E viceversa. Perché i Fleetwood Mac non
riuscivano a produrre più nulla di buono.
Nel Gennaio '75 la nuova formazione entrò in sala d'incisione e in una sola settimana registrò gli
11 brani di Fleetwood Mac, album dal titolo omonimo per confermare la continuità del gruppo. Se
inizialmente l'accoglienza riservata al disco fu soltanto tiepida, con il passare del tempo invece
l'album prese quota. Probabilmente fu Stevie Nicks la carta vincente: il suo ruolo di primadonna,
non solo cantante ma anche show-woman, sollevò Christine McVie, più introversa e meno
appariscente, dal difficile compito di leader. Christine potè così ritrovare il gusto di suonare,
comporre e cantare con rinnovato vigore. Perfetto si rivelò poi il connubio fra i due americani,
portati ali'easy listening, e la sezione ritmica inglese, più solida e compatta: anche nelle esibizioni
dal vivo tutto questo si tradusse in una maggiore presa sul pubblico. Rumours è il capolavoro:
cominciato nel febbraio'76 e ultimato dopo quasi un anno, è stato venduto in oltre 15 milioni di
copie in tutto il mondo. Eppure le premesse erano terribili: Fleetwood stava divorziando, la storia
d'amore fra Buckingham e Nicks era finita bruscamente, perfino i McVie avevano deciso di
lasciarsi. Ma proprio queste tensioni convinsero i musicisti a rimanere insieme. In questo senso
Rumours (originariamente intitolato Yesterday's Gone) fu un'esperienza catartica oltre che un
affare dalle dimensioni colossali. Il pubblico americano è stato conquistato dal rock tridimensionale
capace di legare la forza della base ritmica, le ispirate composizioni di Buckingham e la
contemporanea presenza di due donne.
Il successivo album doppio, Tusk, a dispetto del titolo (significa rischio), confermò lo stato di
grazia. Qualche critico, forse peccando di eccessivo ardore, paragonò l'opera al «doppio bianco» dei
Beatles: stessa varietà di pezzi, dalle canzoncine melodiose ai brani più sperimentali, tutti
comunque di facile ascolto e accattivanti.
Nel frattempo i componenti della prima formazione dei Fleetwood Mac sono tornati alla ribalta.
Peter Green, abbandonato il gruppo nel maggio '70, dopo aver inciso l'album The End Of The
Game considerato il suo testamento spirituale, lavorò per tre mesi in un cimitero, poi in un
ospedale, in un bar, in una stazione di servizio e trascorse diverso tempo in un kib-butz. Se non
fosse stato per un'apparizione pubblica nel '70 con Mayall, nel '71 con B.B. King e per un paio di 45
giri di nessun conto, lo si poteva dare per disperso. Nel febbraio '77 venne ricoverato nell'ospedale
psichiatrico di Maryle-bone Court a Londra. Dimessovi e apparentemente sereno, ha ricominciato
a suonare, ma i suoi nuovi dischi non sembrano possedere più lo smalto di una volta.
Anche Jeremy Spencer e Danny Kirwan, il primo ancora impegnato con i Bambini di Dio, il
secondo sempre scontroso e solitario, hanno ripreso la produzione discografica ma nella vena dei
grigi periodi di transizione dei Fleetwood Mac.
Meno fortunato ancora Bob Welch: uscito dal gruppo, ne formò uno nuovo, i Paris, con l'amico
Glenn Cornick al basso e Thom Mooney (ex-Nazz) alla batteria sostituito poi da Hunt Sales (già
con Iggy Pop). Dave Walker tornò invece nell'anonimato: fallì perfino nel tentativo di riformare un
gruppo con Andy Sylvester (ex-Chicken Shack e ex-Savoy Brown) e lo stesso Danny Kirwan.
Fabio Treves
Discografia
Peter Green prima dei Fleetwood Mac
A Hard Road (Decca, 1967) Raw Blues (vari artisti) (Decca, Ace Of Clubs, 1967) Eddie Boyd
and His Blues Band (Decca, 1967)
John McVie prima dei Fleetwood Mac
John Mayall Plays John Mayall (Decca, 1965)
Blues Breakers (Decca, 1966) A Hard Road (Decca, 1967) Raw Blues (vari artisti) (Decca, Ace
Of Clubs, 1967) Eddie Boyd and His Blues Band (Decca, 1967) Crusade (Decca, 1967)
Christine Perfect (McVie) prima dei Fleetwood Mac
Forty Blue Fingers Freshly Packed and Ready to Serve (con i Chicken Shack) (Blues Horizon,
1968) O.K. Ken (con i Chicken Shack) (Blue Horizon, 1969) Christine Perfect (Blue Horizon, 1969)
Fleetwood Mac
Peter Green's Fleetwood Mac (Blue Horizon, 1968) « Mr. Wonderful (Blue Horizon, 1968)
English Rose (Epic, 1969) The Pious Bird of Good Omen (antologia) (Blue Horizon, 1969) Then
Play On (Reprise, 1969) Blues }am in Chicago Voi. 1 (Blue Horizon,1970)
Blues ]am in Chicago Voi. 2 (Blue
Horizon, 1970)
Kiln House (Reprise, 1970)
The Originai Fleetwood Mac (Cbs,1971)
Greatest Hits (antologia) (Cbs, 1971)
Future Games (Reprise, 1971) Bare Trees (Reprise, 1972) Penguin (Reprise, 1972) Mystery
(Reprise, 1972) Mystery To Me (Reprise, 1973) Heroes Are Hard To Find (Reprise, 1974)
Vintage Years (antologia) (Sire,1975)
Fleetwood Mac (Reprise, 1975) Rumours (Warner Bros., 1977) Task
Jeremy Spencer da solo
Jeremy Spencer (Reprise, 1970) Jeremy Spencer and the Children (Columbia, 1972) Jeremy
Spencer band: Flee (Atlantic, s.d.)
Peter Green da solo
The End of The Game (Reprise,1970)
In The Skies (MS, s.d.) Little Drealer (MS, s.d.)
Danny Kirwan da solo
Second Chapter (DJM, 1975) Danny Kirwan (Usa) / Midnight In San Juan (Gb) (DJM
DJM1976)
Hello There Big Boy! (DJM, s.d.)
Bob Welch con i Paris
Paris (Capitol, 1976)
Big Town, 2061 (Capitol, 1976)
Bob Welch da solo French Kiss (Capitol, 1977)
Fleetwood Mac ospiti
Eddie Boyd with Peter Green's Fleetwood Mac: 7936 South Ro-des (Blue H'orizon, 1968) Olis
Spartii: The Biggest Thing Sirice Colossus (Blue Horizon, 1969)
Gordon Smith: Long Overdue (Blue Orizon, .1968) Tramp: Tramp (Danny Kirwan, Jo-Ann
Kelly, Dave Kelly, Bob
Hall, Bob Brunning e Mick Fleetwood) (Music Man, 1969) Tramp: ~Put a Record Ori (Mick
Fleetwood, Danny Kirwan, Dave Brooks, Dave Kelly, Jo-Ann Kelly, Bob Hall, Bob Brunning e Ian
Morton) (Spark, 1974) Buckingham & Nicks prima dei
Fleetwood Mac
Buckingham Nicks (Polydor, 1973)
Cream
Certamente vista la grande portata dell'eco musicale suscitata dal beat, non è possibile
affermare che la musica blues suonata dai bianchi, il «blues bianco» appunto, possa essere
considerata la grande scoperta o riscoperta del gusto musicale dei primi anni sessanta. È indubbio
però che esso racchiude in sé tutte le caratteristiche principali della musica pop di quel periodo. La
fucina di esperienze musicali che brucia nel periodo dell'after-beat di Londra, conta nei suoi
crogiuoli vari elementi primari.
Il primo di questi elementi è il blues americano, quello che vide le sue stars degli anni cinquanta
illuminare le fantasie e le immagini o-niriche di milioni di ragazzi. Entrato prepotentemente in
Inghilterra, esso muta il suo schema tradizionale in uno nuovo: «lo stile britannico». Il blues
subisce quindi un processo rinnovativo a contatto con l'ambiente culturale che si respira
nell'Inghilterra di quegli anni. Un fattore primario si evidenzia sugli altri: è suonato dai bianchi.
La sua caratteristica peculiare, che è quella di appartenere per tradizione e per cultura alla
gente di colore, crea però vari problemi a coloro che decidono di intraprendere la nuova strada. Si
levano voci da più parti, in special modo dalla critica più tradizionale, che si chiedono: «È possibile
per dei bianchi suonare il blues, penetrare nella sua quintessenza?» Questi aforismi finiscono
anche per influenzare il mercato discografico che rifiuta di aprire le sue porte al nuovo blues, il
quale a sua volta è costretto a rifugiarsi nell'underground delle innumerevoli cantine fumose e
cariche di birra. Qualcuno fedele ad una rigorosa imitazione dei vecchi bluesmen, riesce però ad
affacciarsi sulla scena: Mr. John Mayall.
Alla sua scuola e fra le fila dei suoi gruppi passarono tutti i musicisti che di lì a poco, per un
verso o per l'altro, avrebbero calcato e rinnovato le strutture del blues di quegli anni. Fra questi
anche Jack Bruce ed Eric Clapton, le colonne portanti di quello che di lì a pochi anni sarebbe stato
uno dei primi supergruppi della musica rock: i Cream. Infatti, pur essendo riuscito un personaggio
come Mayall ad imporsi all'attenzione del pubblico e dei mass-media, rimanevano
contemporaneamente emarginati dalla stampa e dalle multinazionali del vinile una moltitudine di
artisti e di piccoli gruppi che cercavano di imporsi nel nome del blues-bianco e del rinnovamento
artistico.
I Cream furono i primi a rompere l'accerchiamento che stampa ed organi ufficiali della musica
avevano creato intorno a questi tentativi innovativi, riuscendo a rendere attuale ed accettato il
blues bianco, introducendovi al contempo la sperimentazione e le possibilità innovative del pop.
Il nucleo del gruppo era composto da due «allievi» di Mayall: Eric Clapton, l'unico che abbia
avuto a quei tempi la possibilità di scrivere il suo nome accanto a quello del «maestro» sulla
copertina di un disco (Bluesbreakers John Mayall with Eric Clapton) e Jack Bruce bassista.
Fuoriusciti dal gruppo i due si unirono a Peter «Ginger» Baker per formare i Cream, il primo
supergruppo pop-rock della storia della musica contemporanea.
I tre avevano alle spalle una certa esperienza musicale. Jack Bruce (nato nel 1943), era passato
tra il 1963 ed il 1966 attraverso le fila dei maggiori complessi blues londinesi, dalla Graham Bond
Organisa-tion a Manfred Man fino ad approdare ai Blues freakers; Peter «Ginger» Baker (nato nel
1939) prima di arrivare alla batteria, aveva suonato la tromba per molti gruppi di jazz come le
band di Acker Bilk e Terry Lighfoot. Quindi era passato, nel 1962 a sostituire Charlie Watts nei
Blues Incorporated di Alexis Corner e nel 1963 nelle fila della Graham Bond Organisation dove e-
ra rimasto fino al 1966. Eric Clapton (nato nel 1945), aveva formato il suo primo vero gruppo nel
1963: i Rooster, affascinato dall'ondata blues aveva fatto parte fra il 1963 ed il 1966 della Line-up
di numerose band di grosso nome come Engineers, Yardbirds e Bluesbreakers.
Il loro disco di esordio uscì alla fine del 1966: Fresh Cream. L'album, edito dopo una trionfale
partecipazione del gruppo al Festival di Windsor nel 1966. denota un tentativo di espandersi nelle
direzioni dove il blues era ancora re e l'improvvisazione regina. Accanto a rivisitazioni di canzoni
appartenenti alla storia del blues, come «I'm so glad» di Skip James, «Four Till Late» di Robert
Johnson, «Rollin' and Tumblin'» di Muddy Waters e «Spoonful» di Wilie Dixon, completano fresh
Cream composizioni di Bruce e Brown. Per quanto riguarda un discorso sull'improvvisazione, che
di lì a poco sarebbe divenuta marchio registrato della premiata macchina Cream, pur essendo
rilevante, essa non era la componente principale del disco, ma allo stesso tempo più che sufficiente
per dimostrare la grande potenzialità del gruppo. Era già evidente che per l'epoca i Cream erano
qualcosa di molto speciale; non a caso il loro raggio di azione spaziava liberamente tra il recupero di
un blues a livello pressoché accademico e le originali composizioni firmate da Jack Bruce e Pete
Brown. Speciale, pur senza essere particolare ed innovativa per quei primi anni sessanta, era
anche la sezione strumentale composta dal celebre trio di chitarra, basso e batteria; era incredibile
che un trio fosse in grado di creare una musica ricca di un'atmosfera, che pur permeata di blues,
contenesse una vivacità e una freschezza tali da riuscire a svincolarsi dalle immancabili
classificazioni da «etichetta».
Tutto ciò, che nell'album di e-sordio il gruppo lascia intendere in potenzialità, si trova realizzato
in Unraely Gears, uscito nel 1967; qui il blues è ormai ghirlanda in margine a tutto il contesto
musicale che lo accompagna. Le linee melodiche si straniscono fino a divenire acide. La psichedelia
nascente influenza il gruppo anche per quel che riguarda la realizzazione grafica della cover: un
lavoro firmato da Martin Sharp, che già si era distino per delle splendide grafiche apparse sulla
rivista (underground) «Os». Anche la produzione respira aria nuova sotto la fertile mente del
newyorkese Felix Pappalardi. Per quanto riguarda le songs, la coppia Bruce / Brown continua a
rivelarsi affiatata ed a-datta al lavoro del gruppo, ma accanto alle loro sono presenti anche una
coppia di composizioni di Cla-pton; una con il testo di Sharp, l'altra scritta in collaborazione con
Pappalardi e la moglie Gail Collins. Nell'album due brani, «Sunshine of Your Love» e «Swlabr» (il
titolo fu ottenuto prendendo le lettere iniziali di quello che doveva essere il titolo originale della
canzone e cioè «She Was Like A Bearded Rain-bow»), evidenziarono la nuova strada musicale
intrapresa da Jack Bruce, che di lì a poco fu etichettata come «heavy riff». Tutto questo venne
recepito dalla gente, tanto che la audience del gruppo di estende fino a trainare l'album nelle prime
posizioni delle classifiche (l'unica cosa che a distanza di tanti anni è rimasta «importante»), grazie
anche ai giganteschi tours di concerti che portarono i Cream a suonare in mille angoli della terra.
Da quel momento ogni LP del gruppo vendette sopra il milione di copie.
Ma fu il loro terzo lavoro, il doppio Wheels of fire, che li consacrerà alla leggenda, che li
indicherà come uno dei gruppi leader del nascente pop, che farà sì che il nome Cream entri nelle
enciclopedie musicali. Lungo le quattro facciate lo stile si snoda, sicuro, conscio di far parte ormai di
un'epoca, su lunghissime tirate di basso chitarra che fecero impazzire tutta una generazione di
giovani fans e musicisti. Una delle caratteristiche che distinse i Cream da qualsiasi altro gruppo di
quel periodo fu senza dubbio il fatto che tutti e tre i componenti del gruppo suonavano
liberamente, senza costrizione; questa libertà viene esaltata nelle facciate di Wheels of fire
registrate dal vivo; la carica trascinante che il gruppo riusciva a donare al pubblico durante i
concerti è riportata interamente in questo disco; rimane ad esempio famosa la versione di
«Spoonful» che copriva quasi per intero la terza facciata. Accanto a questo però il long playing
mostrava anche le prime corde tirate del connubio fra i tre artisti: la parte «live» è testimonianza
del fatto che i concerti dati dal gruppo erano stati tanti, forse troppi. In alcuni punti, anche dove la
chitarra di Clapton sembra dare l'impressione di essere tirata per i capelli, si ha la netta sensazione
di assistere ad un lavoro di routine, perfetto e professionale finché si vuole, ma privo di felici
invenzioni.
Il gruppo si accorge di tutto questo; infatti la sperimentazione e la innovazione erano le
caratteristiche peculiari e basilari sulle quali erano state poste le fondamenta del fortunato
sodalizio, e con una coraggiosa decisione (visto che la commercialità era assicurata) si scioglie. Il
concerto di addio, dato a Londra il 26 novembre del 1968, fu commovente. La gente accorse in
massa per salutare coloro che avevano creato il «suono inglese pop» degli anni sessanta. Per
ragioni di contratto il trio dovette in ogni caso assolvere l'incombenza di costruire un quarto disco,
quello dell'addio o meglio dell'arrivederci Goodbye Cream.
In questo loro ultimo album risalta la vera ragione della separazione di Bruce, Clapton e Baker:
la povertà di materiale che i tre potevano incidere su vinile. Infatti la presenza di soli tre pezzi
nuovi in un 33 che segue un LP live dimostra come ormai le tendenze musicali dei tre erano
lontane anni luce una dall'altra così da costringerli ad un continuo recupero del passato. Tutto ciò è
stato poi chiaramente dimostrato nel corso delle carriere solistiche dopo lo scioglimento.
Un altro motivo della separazione va ricercato nel fatto che a differenza di altre formazioni, che
calcavano le scene nel medesimo periodo ed erano composte da adolescenti (per i quali il fatto di
suonare era semplicemente un altro dei modi possibili di stare insieme e divertirsi), i Cream erano
tre uomini adulti che avevano deciso di suonare insieme per mestiere. Quindi, arrivato il momento
in cui il feeling delle loro composizioni non era più accettato all'unanimità, ecco che subito venivano
a cadare tutte le possibilità di rimanere uniti.
Probabilmente contribuì a spezzare un filo già teso, anche la grande, gigantesca mole di impegni
di cui i Cream si gravarono per raggiungere il successo, primi fra tutti i tours americani pieni di
centinaia di date: furono probabilmente i concerti americani a lanciare il gruppo in testa alle
classifiche e ad esportarli su tutti i mercati discografici del mondo, ma verosimilmente allo stesso
tempo furono la macchina che logorò e sgretolò fisicamente e psichicamente i tre artisti.
Poche altre formazioni possono affermare di aver influenzato la musica di un'epoca in soli tre
anni. Infatti sono pochi i componenti delle line-ups tutt'oggi in voga che possono dire di non essere
stati influenzati in qualche modo dai Cream. Essi vantano nella storia del rock diversi primati: di
essere stati i primi ad incidere un doppio album con brani inediti (in quel periodo ogni LP era
soltanto un assemblaggio dei 45 giri più riusciti dell'artista, così da poter contare già all'uscita su
brani presenti nelle classifiche); di aver compilato per primi un disco le cui canzoni superarono
abbondantemente la soglia dei tre minuti cari all'industria discografica dei primi anni sessanta; di
essere stati ancora i primi a raggiungere in studio come sul palcoscenico un grado di
improvvisazione musicale fino ad allora sconosciuto. È indubbio che la critica musicale si sia lasciata
sfuggire più volte giudizi fin troppo favorevoli nei loro confronti, anche in occasioni in cui non c'era
bisogno di essere teneri, ma questa sopravvalutazione va considerata anche come il giusto
riconoscimento di un nuovo modo di intendere la musica, in special modo per quanto riguarda le
esibizioni dal vivo che da sempre sono lo specchio dell'anima di ogni band che si voglia considerare
tale. La numerosa genia degli imitatori che seguì lo scioglimento dei Cream deve far riflettere
anche sulla eco che il loro lavoro lasciò alle spalle. Strade, intenti e soprattutto musica
completamente diversi segnano le tappe della separazione di Baker, Bruce e Clapton.
Ginger Baker
Baker, dopo la fine dell'avventura dei Cream, forma insieme con Clapton i Blind Faith — era il
1969 — un supergruppo pieno di star del mondo musicale dell'epoca; erano infatti presenti oltre ai
due ex Cream, Stevie Winwood, reduce dall'esperienza con i Traffic, e Rick Grech, già bassista e
violinista dei Family. Il primo disco inciso con i Blind Faith risultò un grosso successo commerciale
(disco di Platino), ma l'unione durò l'arco di una stagione. Già nel 1970 Ginger Baker sta volando
verso nuove avventure. Insieme a Grech, Winwood, Wood e Graham Bond, forma gli Air Force che
partorirono due LP, Air Force I e Air Force II.
Nel 1971 Baker riuscì a realizzare un antico sogno, comprando un appezzamento di terreno in
Nigeria ad Akeya ed iniziando la costruzione di uno studio di registrazione. Nel frattempo completò
un album live dal titolo Fela-Ransome Kuti and Ginger Baker Live, quindi nel 1972
Stratavarious. Il 1973 vide l'inaugurazione del suo studio africano con l'incisione dell'album di Paul
Me Cartney, Band On the Run. Sempre nello stesso anno, vide la luce una raccolta a lui dedicata
dall'etichetta Rso dal titolo Ginger Baker at his best. Nel 1974 Baker insieme con i fratelli Adrian e
Paul Gurvitz, Snips, e Peter Lemer, formò la Baker Gurvitz Army: con questa band incise tre
dischi, Baker Gurvitz Army nel 1974, Elysian Encounter nel 1975 e Hearts on Fire nel 1976. Da
allora fino al 1979 Ginger fece la spola fra la Nigeria e l'Europa partecipando a qualche concerto o
cercando di promuovere artisti africani per etichette inglesi. Nel 1980 ha formato una nuova band
ed è partito per un lungo tour di concerti che ha toccato anche l'Italia.
Jack Bruce:
scioltisi i Cream, Jack Bruce si ripresentò al pubblico, nel 1969, con un ottimo album solo dal
titolo Song for a Taylor. Nel 1970 Bruce incise insieme con altri artisti «che contano» Things We
Like: i nomi che lo aiutano nel progetto erano in effetti altisonanti: John Me Laughlin, Dick Hac-
kstall-Smith, John H'iseman. Nonostante i nomi e l'effettiva bontà del prodotto, il disco uscì in
sordina e venne quindi dimenticato in fretta dal grosso pubblico. Dopo questa parentesi, Bruce
apparì spesso «on stage» in compagnia dei jazzisti Larry Coryell e Mike Mandell e dell'ex
batterista di Hendrix, Mitch Mitchell. Insieme con questi tre artisti registrò il suo secondo 33 giri,
Harmony Row. Il suo terzo lavoro da solo data 1974 ed è Out of the Storm. Dopo l'incisione di
questo album iniziò un breve sodalizio artistico con la tastierista jazz Carla Bley e Mick Taylor. Da
annoverare che insieme con la Bley ed a Paul Haines, Bruce aveva collaborato alla realizzazione
dell'opera jazz Escala-tor Over The Hill. Negli ultimi anni rinunciando alle session con personaggi
famosi, ha formato una propria band, con la quale tiene numerosi concerti. Pur essendo ormai
tramontato un certo modo di fare musica, caratteristico di personaggi come Bruce, occorre però
puntualizzare che il bassista rimane ancor oggi uno dei migliori artisti a calcare le scene del rock.
Eric Clapton:
Clapton, dopo aver condiviso con Baker l'esperienza dei Blind Faith, collaborò con la Plastic
Ono Band ed apparve nell'incisione dell'album Live Peace in Toronto. Trasferitosi a New York, il
chitarrista si unì al duo Delaney and Bonnie e con loro registrò il disco Delaney and Bonnie and
Friends on Tour. Nel 1970 uscì anche l'album solo di Eric Clapton dal titolo omonimo a cui oltre a
Delaney and Bonnie collaborano in vena di reciproci scambi George Harrison e Stephen Stills.
Clapton ricambierà il favore figurando negli album incisi dai due artisti nello stesso anno. Nel 1970
partecipò anche al disco di George Harrison Ali Things Must Pass. Sempre nel 1970 (senza dubbio
uno degli anni più prolifici della lunga carriera di Clapton) vide la luce uno dei lavori migliori in
assoluto dell'artista, quel Layla dedicato a Patty Boyd Harrison, moglie di George, che lascerà l'ex
Beatle per unirsi ad Eric nella vita privata. Alla registrazione del disco parteciparono, con la sua
nuova formazione Derek and the Dominos ed il chitarrista Duane Allman.
Dopo la morte di quest'ultimo (che lascerà un'impronta profonda nella vita di Eric), Clapton
attraversò un luogo periodo di depressione che lo condusse a lottare duramente anche con le
droghe pesanti. Di questo lungo periodo che durò fino al 1974 gli episodi importanti della carriera
del chitarrista furono pochi e deludenti: nel 1971 collaborò con Dr. John a The Sun The Moon and
the Herbs, con Stephen Stills a Stephen Stills II ed infine al Concert for Bangladesh organizzato
da Harrison; nel 1972 Derek and the Dominos in Concert, un deludente album dal vivo che
coincise con lo scioglimento della band; nel 1973 ancora un brutto disco dal vivo Eric Clapton's
Raimbow Concert e uno in studio, No reason to Cry.
Finalmente Clapton riuscì a venir fuori dall'impasse artistica con un 33 giri più che discreto, 461
Ocean Boulevard, che comprendeva anche la rivisitazione di un pezzo di Bob Marley, «I shot the
Sheriff»; questo 45 finì in cima alle classifiche catalizzando così di nuovo l'attenzione del pubblico su
di lui. Con la nuova band, che riuniva attorno a lui, George Terry alla chitarra, Dick Sims alle
tastiere, Cari Radle al basso, Jamie Oldaker alla batteria e la vocalist Yvonne Elliman, incise anche
There's One in Every Croud (1975) e E.C. Was Bere (1975); in questi ultimi due lavori, alla
formazione si aggiunse anche la vocalista Marcy Levy. Il 1977, con la pubblicazione di Slowhand, è
stato l'anno in cui Clapton dopo un lungo periodo si è riappacificato con la critica, che lo aveva
trattato duramente. L'anno seguente è stata la volta di Backless, un disco che è stato accolto con
favore anche dal pubblico, e infine quel Just One Night uscito nell'ottanta che conclude per ora le
fatiche dell'artista.
Giancarlo Zucchet
Discografia
Fresh Cream (Polydor, 1966) (ristampato Rso, 1977) Disraely Gears (Polydor 1967). Wheels of
Fire (Polydor, 1968). Goodbye (Polydor, 1969). Live Cream (Polydor, 1970). Best of Cream (Ateo,
1970). Live Cream (Polydor, 1972). Pop History (Polydor, 1972). Heavy Cream (Polydor, 1973).
Full Cream (Polydor, 1970). Starring the Cream (Polydor, 1971).
Rock Flashbacks (Polydor, 1975). Early Cream (Springboard, 1975). The Best of Cream
(Polydor, 1976). The Story of... Cream (Rso, 1978).

Ten Years After


Alvin Lee nasce il 19 dicembre 1944 in una famiglia di fanatici appassionati di jazz e blues di
Nottingham che gli inculcano una profonda passione per la musica nera e per il jazz in particolare.
A 12 anni il piccolo Alvin riceve in regalo per il suo compleanno uno strumento insolito alla luce
della sua carriera futura, ma indispensabile per un inizia a suonare in piccole orche-si esercita
appassionatamente e che inizia a suonare in piccole orchestrine. Ma il jazz viene ben presto
travolto nel suo cuore da una passione ben più forte: il r'n'r che Alvin scopre nel 1957 grazie ad El-
vis Presley ed a Chuck Berry. La folgorazione sulla via del r'n'r lo porta a comprare a più non posso
dischi r'n'r, e r'n'blues, ad iscriversi ad un club di fan di Elvis ed a lasciare il clarinetto per uno
strumento più adatto ai tempi: la chitarra.
Il maestro che gli trovano i genitori è però un jazzista che ama Django Reinhardt e così anche
nella chitarra Alvin si ritrova a possedere un'impostazione jazz con Charlie Christian ed il
chitarrista di Benny Goodman come punti indiscussi di riferimento personale. Appena appresi i
primi rudimenti, subito si lancia nella mischia e nel 1959, a soli 15 anni, lo ritroviamo alla chitarra,
unico bianco in un gruppo negro del quartiere giamaicano di
Nottingham. Da quel momento e per cinque anni ancora la vita di Alvin scorre così: finendo la
scuola e suonando la sera con qualche gruppo locale. Nel 1964 invece arriva il momento del salto:
Alvin conosce il bassista Leo Lyons (Nato a Nottingham il 30 novembre 1943 e quindi di un anno
più grande) ed insieme decidono di ripercorrere la strada dei Beatles: attaccare l'Inghilterra dal
Vecchio Continente.
Formano un gruppo che suona puro r'n'r e si recano ad Amburgo a suonare in un piccolo club.
Dopo parecchi mesi di Amburgo i due tornano in Gran Bretagna ed incontrano nel West End
londinese uno studente di musica che suona la batteria, di nome Rie Lee, nato il 20 ottobre 1945
(omonimo di Alvin ma senza nessuna parentela con lui) ed insieme formano un trio, gli Jaybirds
(terzo nome adottato dopo The Atomites e The Jaycats) che si esibisce con gran successo nella
zona di Nottingham e dintorni costruendosi una solida fama, grazie soprattutto al chitarrista
iperveloce. Nel maggio del '67 si unisce a loro il tastierista Chick Churchill.
Insieme i 4 decidono di provare a trovarsi qualche spazio a Londra e partono alla volta della
capitale del rock-blues, decisi a sfondare. Dopo innumerevoli concerti nei clubs e nei colleges, una
sera del luglio '67 ancora col vecchio nome di Jay-birds, vanno a trovare dei loro a-mici che
suonano al Marquee di Wardour Street, gestito allora da John Gee e «tempio» dei gruppi di blues-
rock.
Alvin e Leo Lyous 1970: «a... eravamo insieme con Rie e Chick solo da un mese e mezzo
quando andammo al Marquee Club dove alcuni amici nostri stavano provando per la serata.
Consideravo il Marquee come un piccolo tempio pop dove complessi come Rolling Sto-nes,
Yardbirds e Manfred Mann si erano affermati, e così la tentazione di suonare lì anche in un
pomeriggio, senza pubblico, era troppo forte. Durante una pausa del complesso salimmo in pedana
e facemmo subito un numero di Woody Herman «Woodchopers Ball» e lo allungammo con nostre
improvvisazioni finché Leo non mi colpì la schiena con la chitarra».
«Quatto quatto avevo visto il direttore del locale», spiega Leo stesso ravvivato nel ricordo.
«Credevo che ci sbattesse fuori».
«Feci cenno a tutti di proseguire», continua Alvin. «Dopo tutto eravamo in ballo. Con la coda
dell'occhio vidi il direttore, che poi era John C. Gee, appoggiarsi al muro ad accendersi una
sigaretta. Capii istantaneamente che stavamo suonando per una improvvisata audizione e ce la
misi tutta. Alla fine mi facevano male le punta delle dita».
«L'hai mai saputo che John è un patito di Woody Herman?» dice Chick rivolto ad Alvin.
«Scherzi?» risposte Alvin. E poi rivolto a me: «Vedi, quello era proprio il nostro giorno
fortunato. Patito di Woody Herman o no quello stesso pomeriggio John ci offerse il primo ingaggio.
Due giorni
dopo nel suo locale».
Proprio in quelle serate al Marquee nascono davvero i Ten Years After. La leggenda vuole
infatti che proprio durante le prove di quei giorni, i Jaybird ascoltano casualmente una
trasmissione di Radio Londra dedicata agli inizi del r'n'r ed intitolata appunto «Ten Years after»
dieci anni dopo, e decidono di adottarne il nome. Con la nuova sigla e pieni di entusiasmo i quattro
provinciali si esibiscono a Windsor reduci del successo ottenuto al Marquee, al settimo National
Jazz and Blues Festival aperto quell'anno anche ai gruppi di rock-blues. Risultano i veri trionfatori
della manifestazione insieme ai Cream, a Jeff Beck con Rod Stewart e Ron Wood, al «grande
padre» John Mayall, ai Chicken Shack ed ai Fleetwood Mac.
Alvin Lee nel 1970: «Nei mesi antecedenti al festival avevamo lavorato quasi ogni sera
ovunque. La maggioranza dei 20.000 presenti era formata dal pubblico che avevamo incontrato in
clubs e università differenti. Vedi, fino ad allora non avevamo avuto tempo di decidere nulla quindi
molta gente alla quale eravamo piaciuti non poteva tornarsene a casa ed ascoltarci sul giradischi. Il
festival di Windsor era per loro la volta tanto attesa per sentirci di nuovo. Quel giorno eravamo
proprio in forma e alla fine avemmo uno scroscio di applausi che ricorderò finché campo».
Durante le loro serate con ingaggio fisso al Marquee avviene l'ormai famoso incontro per il
produttore Mike Vernon, la firma del contratto con la Deram e, nell'autunno dello stesso anno,
anche l'incisione del loro primo disco.
Il titolo è, assai semplicemente,
Ten Years After e la produzione è dello stesso Vernon e di Gus Dud-geon. Il suono è un buon
blues elettrico con qualche scoperta venatura jazz nella chitarra di Alvin Lee, particolarmente
eccellente in due belle versioni di «I can't keep from crying sometimes» di Al Koo-per e di «Help
me» di Willie Di-xon. Non a caso proprio questo disco sarà l'unico della carriera del gruppo a
restare nella storia del rock perché costituisce una fedele testimonianza dei sani furori blues che
animavano allora la parte migliore della gioventù musicale inglese.
Non fa neanche a tempo ad uscire il primo album (uno dei primi ad essere immesso sul mercato
senza esser preceduto dal 45 giri di rito con un potenziale hit) che già dall'America arrivano le
prime ordinazioni di questi promettenti pargoli. È Bill Graham in persona, il più grande promoter
della West Coast, a proporre una lunga tournée tutta loro, la prima di una lunga serie (28 in tutto
fra il '67 ed il '75, record finora mai superato da nessun gruppo inglese) di tour americani. Uno
sbarco oltreoceano che avverrà all'insegna e nel nome della più o meno sincera passione per il
blues.
Jan Anderson dei Jehtro Tuli nel 1973: «Siamo venuti su assieme suonando materiali ispirati
dal blues. Ma nessuno di noi era veramente ispirato: si trattava solo di un modo di entrare nella
scena. Quando vi siamo riusciti abbiamo ovviamente cambiato genere: i T.Y.A. sono diventati più
rock'n' roll, i Fleetwood anche sono cambiati tantissimo. Niente più blues nel senso reale del
termine è rimasto in quella che si chiamava musica progressiva».
Giunge così anche per i T.Y.A. il sessantotto, l'anno dell'America. E non solo dell'America dalle
folle affamate di musicisti alla Cream (rock-blues nel senso di tanto rock e poco blues) utili per
grandi concerti, e possibilmente di bella presenza, ma anche dell'America - del Newport Jazz
Festival, dove partecipano presentando il loro repertorio più blues e ottenendo un grande successo
oltreché un contratto per un ingaggio che li riempie di felicità; due concerti da tenere a New York e
San Francisco insieme all'orchestra di Woody Herman, il creatore del loro primo cavallo di
battaglia «At the Woodchopper's ball». A questo punto l'incisione di questo brano anche su disco si
presenta irrimandabile ed ecco che esce il loro secondo album, Undead, (un album leggermente
sbilanciato verso il jazz) registrato dal vivo al Klooks Kleek Club, di nuovo prodotto da Mike
Vernon, contenente appunto il brano di Herman e la prima versione di «Going home», molto meno
carica d'effetto di quanto non risulterà poi eseguita dal vivo a Woodstock.
L'anno successivo, si apre con la pubblicazione del loro terzo album, Stonehenge, da molti
indicato come quello del declino. Un rock più violento lo pervade in molti punti e questo, se da un
lato fa più piacere ai fans americani, dall'altro suona quasi come un tradimento alle orecchie dei
fans inglesi del rock blues. Fra le altre canzoni l'album contiene anche quella «Hear me calling» che
sarà più tardi riportata al successo dagli Slade; «Speed kills» (la velocità uccide), una canzone sulle
anfetamine e «No title», una canzone-pretesto per quattro assolo dei membri del gruppo.
Cominciano così a farsi sentire i cambiamenti, le concessioni, che il gruppo è costretto a fare per
andare incontro al pubblico americano. Le strette forche caudine sotto cui bisogna passare
consistono nel recuperare integralmente il pubblico dei Cream, con l'appoggio di accorte campagne
di stampa che parlano di Alvin Lee come dell'erede naturale di Eric Clapton.
Per raggiungere questo scopo, i quattro non esitano a liquidare il produttore Mike Vernon,
appoggiandosi alla neonata Chrysalis di Chris Wright, un'agenzia di management che lavora
all'interno della Deram per i musicisti più vendibili, che mette a punto la strategia giusta per fare di
loro una delle più grandi attrazioni degli States.
L'occasione d'oro giunge quasi per caso in giugno, quando la loro agenzia di concerti americana,
la Premier Talent, gestita da Frank Barsalona, li offre per 18.000 dollari insieme al Jeff Beck
Group ad un certo Michael Lang, organizzatore del Music and Art Fair (più noto come Festival di
Woodstock), in cerca degli ultimi due gruppi da aggiungere al già nutrito cast.
I Ten Years After salgono sul palco di Woodstock davanti a mezzo milione di persone, alle
20.30 di domenica 17 agosto subito dopo Country Joe and the Fish, approfittando di un momento
di pausa della pioggia continua che ha fino a quel momento afflitto la giornata. Dalle 20.30 alle
22.00 passate si scatena una performance di blues progressivo fra le più entusiasmanti che la
storia del rock ricordi, un fiume di musica di cui gli undici minuti di «Going home» (ma sull'album
Woodstock I saranno solo 9'20") entreranno per antonomasia in ogni storia del rock scritta dopo
quel giorno. Il pubblico impazzisce ed i Ten Years After entrano nella leggenda del rock.
Il tanto intenso 1969 si chiude per loro con l'immancabile pubblicazione di un nuovo album,
dall'orrifica copertina. Si intitola Ssshh! e contiene fra gli altri «Bad scene», un brano che diverrà
ben noto ai giovani poppanti italiani solo qualche anno dopo, nel 1971, quando sarà adottato come
sigla d'apertura da «Per voi giovani», la prima trasmissione di musica progressiva alla radio
nazionale.
Nel 1970 sull'onda del successo di Woodstock il loro primo 45 giri, «Love like a man»,
anticipatorio del nuovo album, entra nelle classifiche di tutto il mondo, Italia compresa.
Il gruppo, che non sembra aver ben capito come gira come funziona la ruota del successo, viene
colto di sorpresa dall'attenzione del pubblico e si precipita a sfornare nuovi dischi. All'inizio
dell'anno esce «Cricklewood green» che vende bene dappertutto.
Poco dopo il gruppo viene invitato a partecipare alla risposta europea al Festival di Woodstock:
l'isola di Wight. Vi suonano la prima sera, dopo i Procol Harum, gli ELP e prima dei Doors, degli
Who e di Sly and Family Stone, esibendosi in una personale versione del classico «Sweet little
sixteen», cavallo di battaglia di Chuck Berry, che sarà registrata dal vivo e poi inclusa nell'album
Watt, pubblicato poco dopo.
La loro fama non fa che crescere ed il nuovo contratto discografico con la Chrysalis, diventata
nel frattempo etichetta indipendente, è all'insegna del favoloso e del megagalattico. Ogni tournée
va incontro ad un clamoroso successo ed ogni concerto si conclude immancabilmente con «I'm
going home» in una versione come al solito extralarge, strabordante di assolo di chitarra e di altri
orpelli graditissimi al pubblico. Man mano però le influenze diverse che avevano contribuito a
rendere originali le sonorità tipiche dei T.Y.A. (dal jazz al r'n'r, dalle grandi orchestre al blues tanto
citato) si stemperano e si scolorano in un rock sempre più hard e privo di mordente, con assolo
sempre più ad effetto e sempre meno rispettosi dell'ordine del discorso. Alvin è l'unico fulcro
dell'attenzione del pubblico; il resto della band sta in seconda fila e così nel '72 esce una compilation
Deram di vecchi brani del gruppo mai apparsi su album, intitolata dalla vecchia casa Alvin Lee &
Co., forse con un pizzico di malignità.
Ma, tanto per restare nel '71, va comunque segnalato uno sforzo particolare del gruppo nella
realizzazione di A space in time, primo album per la nuova etichetta dove c'è maggior spazio anche
per gli altri membri del gruppo, in particolare per il tastierista Chick Churchill. Ma Alvin Lee, da
leader autocratico quale è, mal sopporta queste insubordinazioni ed il gruppo entra in una
profonda crisi che rischia in gran silenzio di portarlo allo scioglimento nell'aprile di quell'anno.
Leo Lyons nel 1971: «Il fatto è che attorno a noi si costruì una reputazione così strana e falsata
che appena montavano in palcoscenico la gente reagiva per quello che aveva sentito di noi e da noi
su disco invece di stare calma ed ascoltare quello che volevamo dare di nuovo. Ogni esibizione
finiva con la ripetizione dei soliti brani che ci avevano resi famosi soddisfacendo il pubblica, ma
lasciandoci artisticamente completamente vuoti. Eravamo ridotti ad essere una copia di noi stessi,
anche se la definizione può sembrare ridicola».
Nel 1972 la crisi sembra sanata ed esce Rock'n'roll music to the world, album «forte»,
registrato in parte a Cap Ferrat in Francia con lo studio mobile degli Stones, che ristabilisce la loro
immagine di «heavy rock'n'roll band» tanto e-sacrata. Passano pochi mesi e di nuovo la situazione
del gruppo è in altomare. Si decide prudentemente di prendersi separatamente un periodo di sei
mesi di riflessione.
Alvin Lee si ritira così nella sua villa di campagna nell'Oxfordshire, dove in uno studio personale
registra insieme con Mylon LeFevre, un chitarrista folk che faceva parte degli Holy Smoke
(gruppo spalla di una delle tante tournée americane dei T.Y.A.) un album interamente acustico
intitolato On the road to freedom. All'album partecipano tutti i musicisti vicini di casa di Alvin
(l'Oxfordshire era in quel periodo il luogo di residenza preferito di molti grossi nomi) vale a dire
Jim Capal-di ed il suo ospite Steve Wing-wood, George Harrison (sotto lo pseudonimo di Harry
Georgeson), Ron Wood, Mike Patto e Mike Fleetwood. Il risultato è un album di buon country
(quasi del sud degli States), che risente moltissimo dell'esperienza del georgiano LeFevre, amante
del gospel ed autore di brani di successo per Mahalia Jackson, Merle Haggard, Johnny Cash e
perfino con l'Elvis Presley versione country. L'album, nonostante queste presenze autorevoli,
risulta dal punto di "ista commerciale un totale fiasco, tanto da far abortire il secondo album della
coppia che era già in cantiere.
Una sorte altrettanto impietosa arride all'impresa solista di Chick Churchill, un album dal titolo
You and me, che nonostante la presenza degli altri membri dei T.Y.A. (rigorosamente esclusi
dall'incisione solista di Lee), e di musicisti di valore come Cozy Powell e Martin Barren, viene
bocciato in pieno dal pubblico.
Prima di sapere i risultati clelle esperienze soliste (gli album verranno infatti pubblicati solo
nella seconda metà del '73) i T.Y.A. ripartono per le rituali tournée europee ed americane e
registrano un doppio album dal vivo, intitolato appunto Recorded live, contenente estratti dai loro
concerti europei di Amsterdam, Rotterdam, Francoforte e Parigi. Ma siamo nel pieno delle
esplosioni del glitter rock (per cui Alvin avrà più volte parole di fuoco, bollandole come «non
musica») ed i T.Y.A. invece indossano ancora gli stessi jeans sdruciti di sei anni prima. È inevitabile
che il loro astro imbocchi a questo punto una rapida parabola discendente.
All'inizio del '74 viene annunciato un tour inglese del gruppo ma un mese prima che si tenga la
prevista data inaugurale al Rainbow di Londra, il 22 marzo nello stesso locale, Alvin Lee si
presenta con un gruppo denominato Alvin Lee & Friends, comprendente Ian Wallace, ex Crismo
alla batteria; Mei Collins anch'egli ex Crismo ai fiati; Tim Hinckley alle tastiere; Alan Spenner e
Neil Hubberd, entrambi ex Grea-se Band, rispettivamente al basso e alla chitarra, più tre vocalisti,
Fran-kie Wilson, Dyan Birch e Paddy Me Hugh. Il concerto, preceduto da soli dodici giorni di
prove, viene accolto malamente dal pubblico e dalla critica, ma Alvin Lee, alla ricerca di una via
d'uscita dal cliché logoro dei T.Y.A., decide di pubblicarlo ugualmente su un doppio album intitolato
In flight, firmato come Alvin Lee & Co. Sembrerebbe la fine definitiva dell'esistenza dei T.Y.A., e
invece, alla data prevista, la tournée del gruppo parte ugualmente con Lee al suo posto, con meno
verve e meno voglia che mai. Quello del Rainbow sarà il loro ultimo concerto in Gran Bretagna, e
molti segni indicano che la fine è ormai vicina. Ciononostante esce ancora un album, l'ultimo, dal
paradossale titolo Positive Vibrations, firmato T.Y.A., le cui vendite vanno male.
Alla fine dell'anno Alvin annuncia un tour mondiale come Alvin Lee e Co. in compagnia dei già
citati Wallace e Collins, più Ronnie Leahy e Steve Thompson, ex Stone The Crows, rispettivamente
alle tastiere ed al basso. Uno spettacolo tutto incentrato su vecchi classici del blues e del r'n'r.
Ancora una volta, contro tutte le apparenze, lo scioglimento della band non viene annunciato,
poiché il manager e la Chrysalis stessa sono fortemente contrari a lasciar perdere un marchio così
prestigioso e vendibile. E mentre Alvin Lee si dà da fare a modo suo, anche gli altri si cercano
sistemazioni per il futuro. Leo Lyons, inizia la sua attività di produttore con gli Ufo, gruppo di hard
rock, di cui produce il terzo LP, Phenomenon, il primo per la Chrysalis. Nello stesso gruppo
entrerà qualche tempo più tardi, come membro aggiunto, anche Chick Churchill rimasto senza
lavoro.
Nel maggio del '75 Alvin Lee, per la prima volta con tutti i crismi dell'ufficialità, annuncia lo
scioglimento del gruppo e Rie Lee forma una sua band ed inizia a lavorare in proprio. Ma non è
ancora detta l'ultima parola: un mese dopo l'annuncio, i quattro sono costretti a tornare insieme
per onorare l'impegno preso di un'ultima tournée americana, la ventottesima in sette anni. Alla
fine di quello stesso tour, la Columbia americana che li aveva sotto contratto per gli States dichiara
rescisso l'accordo con i T.Y.A. per «scarse vendite». È il colpo di grazia. Senza più attendere che
venga dato un ennesimo annuncio ufficiale di scioglimento, la Chrysalis decide di non farli più
incidere perché considera il loro futuro ormai decisamente «incerto», e pubblica un tipico album
«coccodrillo» intitolato «Going home», che raccoglie pezzi dei loro primi tre anni di vita.
Il biondo chitarrista invece con i suoi Alvin Lee & Co. incide un nuovo album dal titolo Pump
iron, gestisce i suoi Spaces studios e pensa di scrivere un libro sulla sua esperienza con l'ausilio di
David Walley, l'autore di No commercial potential: the saga of Frank Zappa.
Leo Lyons prosegue la sua carriera di produttore con il quarto album degli Ufo, Force it, che
entra perfino nelle classifiche americane, e con una nuova cantante di nome Bridget St. John.
Rie Lee mette in piedi una sua società di distribuzione, lasciando Ì1 gruppo che aveva messo in
piedi poco tempo prima (ogni tanto però suona ancora per divertimento, come per esempio fa nel
corso del '76, con Mike Vernon, l'ex produttore dei T.Y.A.).
Chick Churchill prosegue nella sua attività di membro esterno degli Ufo ed al contempo lavora
come manager della Chrysalis, e cura arrangiamenti di musicisti celebri.
Verso la fine dell'anno infine Alvin Lee produce il disco degli Fbi, uno dei gruppi di pub rock più
famosi, colleghi di quei Kilburn and the High Roads da cui emergerà qualche anno dopo Ian Dury.
Nel '76 Alvin Lee & Co. incidono per la Chrysalis l'ultimo loro LP.
Leo Lyons invece produce il quinto LP degli Ufo dal titolo No heavy peting cui non partecipa
più Chick Churchill che ha definitivamente abbandonato la carriera di musicista di gruppo per
quella di arrangiatore.
Nel 1978, dopo quasi due anni di silenzio, esce l'ultimo LP di Alvin Lee per la Chrysalis, stavolta
realizzato tutto da solo nei suoi Spaces studios ed intitolato semplicemente Let it rock. Portato a
conclusione il vecchio contratto, Alvin Lee forma una nuova band, dal provocatorio nome di Ten
Years Later (dieci anni più tardi), formata, oltre che da lui, da Tom Compton alla batteria e da
Mick H'awksworth al basso.
Alvin Lee nel 1978: «In questo periodo, che sono tornato a parlare di tournée di sala di
incisione, mi sento veramente come rinascere u-n'altra volta. Tu non puoi capire quanto sia stato
brutto per me lasciare un mondo che mi aveva fatto sentire incredibilmente vivo, attivo e creativo
per così tanto tempo. (...) Gli eventi avevano cominicato a farmi sentire vecchio e superato. La
musica, che suonavo da sempre, non era più seguita, e per me risultava pazzesco e disumano
essere costretti a cambiare stile musicale, dopo anni di rock-blues. (...) Questo ritorno improvviso
a forme rockistiche violente, immediate e primordiali ha avuto su di me degli effetti positivissimi.
Mi ha fatto capire che ormai il rock'n'roll si è sedimentato nel patrimonio culturale della nostra
epoca, qualificandosi come la musica dei giovanissimi, anzi, la musica che meglio di ogni altra
interpreta ed esprime le loro ansie: (...) Il Punk-rock ad e-sempio dà molta importanza al levare
piuttosto che al battere. E questo fatto determina un nuovo stile chitarristico (...). Al di là di queste
ragioni tecniche, rimane soltanto un fatto: il punk-rock ha rivitalizzato tutta la musica dei giovani e
quello che conta ha portato di nuovo sulle scene musicisti che come me si sentivano ormai finiti,
vecchi (a soli trenta anni) superati come concezioni musicali. Questi ragazzi non hanno per niente
tecnica e stile. Una nostra presenza ha quindi un suo valore ed un suo scopo».
Andato presto alla malora, nonostante le baldanzose dichiarazioni di cui sopra, l'esperimento
Ten Years Later, Alvin Lee con il suo nome elevato ormai al rango di puro marchio di fabbrica
firma nel '79 con Robert Stigwood, proprietario della Rso, discografico dalle mani d'oro. Dopo pochi
mesi ecco che esce Ride on, album per metà di studio con brani nuovi -e per metà dal vivo con
vecchi successi di Alvin registrati durante i suoi ultimi concerti. Un grande tour americano da
maggio a luglio, preceduto da un fantascientifico party promozionale, viene organizzato per
rilanciarlo, ma, alla fine, anche quest'ennesimo tentativo di ripescaggio fallisce. La prestigiosa
rivista «La guide de la guita-re» pubblica alla fine del 1980 un inserto dal titolo «La galene des
vedettes» contenente le schede dei 100 migliori chitarristi del mondo: inutile però cercarvi
all'interno la scheda di Alvin Lee. Non c'è.
Si giunge così alle soglie degli anni '80 e sembra che la storia del rock abbia ormai steso un velo
pietoso sulle vicissitudini del «gruppo che non voleva morire». Ed invece no. Alvin «vecchia Volpe»
Lee è di nuovo in cammino, non vuol fare la fine di Clapton e Jeff Beck, artisti blues che non hanno
fatto a tempo a (non han voluto) saltare su altri treni più redditizi, e che, ogni tanto, qualcuno
ripesca dall'oblio nella speranza di risuscitare la fiamma di entusiasmi di pubblico ormai da tempo
spenti. In compagnia di Steve Gould, ex chitarrista dei Rare Bird, del bassista Mickey Feat e del
batterista Tom Compton, Alvin incide per l'etichetta Avatar, Free Fall, «caduta libera», l'ennesimo
strano miscuglio di rock'n'roll, blues, country ed easy listening privo di direttive di cui sono piene
tutte le sue produzioni dal '75 in poi.
«Come un caffè algerino: forte e smielato», lo ha definito il recensore del Melody Maker, ma
non per questo Alvin si scoraggia. È sicuro per l'ennesima volta di riagguantare il successo in breve
tempo e già pianifica nuovi massacranti tour per l'America e l'Europa (Italia compresa) che lo
riportino nel cuore dei giovani di tutto il mondo. E così lo vedremo ancora per tanti anni a venire,
presentarsi dicendo: «Signori e signore, io sono la chitarra più veloce del West», e poi, come il
capitano Achab nella tempesta, aggrappato con tutte le sue forze alla sua rossa leggendaria
chitarra, lottare da solo contro tutti, contro chi gli chiederà ancora, a venti anni di distanza, di
suonare «Going home».
Giacomo Mazzone
Le citazioni del T.Y.A. sono tratte da alcune interviste rilasciate a «Ciao 2001» nel 1970, nel
1971 e nel 1978. La citazione di Jan Anderson è invece tratta da The rock scene, di R. Robinson e
A. Twerling, Pyramid book, 1971 N.Y.
Discografia
Ten Years After:
Ten Years After (Deram, 1967) UrJead (Deram, 1968) Stonehenge (Deram, 1969) Ssssh!
(Deram, 1969) Cricklewood green (Deram, 1970) Watt (Deram, 1970) A space of time (Chrysalis,
1971) Alvin Lee & Company (Deram, 1972)
Rock & Roll Music to the World (Chrysalis, 1972)
Recorded Live (Chrysalis, 1973) Positive Vibrations (Chrysalie, 1974)
Antologia e apparizioni:
Goin' Home (Chrysalis, 1975) The Classic Performances of Ten Years After
(Chrysalis/Columbia, 1976)
Profile (Decca, 1979) Woodstock 1 (Atlantic, 1966)
Alvin Lee e Mylon Le Fevre
On the Road to Freedom (Chrysalis, 1973)
Alvin Lee & Co. In Flight (doppio) (Chrysalis, 1974)
Alvin Lee
Pump Iran (Chrysalis, 1975) Saguitar (Chrysalis, 1976) Let It Rock (Chrysalis, 1978) Ride On
(Rso, 1979)
Ten Years Later
Rocket Fuel (Polydor, 1978)
Alvin Lee Band Free Fall (Avatar, 1980)
Chick Churchill
You and Me (Chrysalis, 1973)
Ten Years After (45 giri più significativi)
«Love like a Man / Love Like a Man» (Deram, 1970)
«I'm going Home / Hear Me Cal- ling» (Deram, s.d.)
«I'd Love to Change the World / Baby Won't you let me Rock'n'roll With You» (Chrysalis,
1972)
«I'm Going Home / Bad Scene» (Deram, 1971)
Ten Years After (Bootlegs)
Fingers and Lips (Phonygraf, s.d.)
Going Home: Live in Amsterdam
(World White Ree, s.d.)
I'm Going Home
Live in Concert (Tya Records, s.d.)

Canned Heat
Un'imbarcazione da guerra della marina Usa naviga lungo un corso d'acqua che si inoltra nella
foresta cambogiana; a bordo ci sono dei soldati americani, per lo più giovanissimi, «ragazzini
fanatici del rock & roll già con un piede nella fossa», evidentemente stanno compiendo una
missione, ascoltano eccitati alla radio «Satisfaction» e si divertono a fare il surf mentre intorno a
loro infuriano i combattimenti; questo film è Apocalypse Now, ovvio, e sulla mitragliatrice del
piccolo battello campeggia una scritta: «Can-ned H'eat». Evidentemente Coppola ha ritenuto
opportuno citare oltre ai Doors, Jimi Hendrix, Bill Graham grande «patron» del rock californiano in
persona a far da presentatore, e i Rolling Stones, anche i Canned Heat... forse è una pura
coincidenza, ma il nome che leggiamo è questo: calore inscatolato = macchina che spara proiettili
caldi = un gruppo che è stato importante nella storia della musica rock prodotta dall'avvento dei
Beatles in poi.
Si formano nel 1966 in California; il nucleo originario è composto da Bob «The Bear» Hite,
vocal; Alan «Blind Owl» Wilson; Bottle Neck, vocal, guitar, harp; Henry «Sunflower» Vestine, lead
guitar; Frank Cook, drum; Larry «The Mole» Taylor, bass; il loro primo pezzo forte è «Rolling' and
Tum-blin'», un vecchio classico di Mud-dy Waters. All'inizio sono cinque hipsters perfettamente
sintonizzati sulla lunghezza d'onda della «Psychedelic Age» degli anni '66-70, e il loro campo
d'azione rimane la California, calda, sognante, e piena di promesse di quel periodo, la loro musica è
il blues rivisitato misto ad un duro rock psichedelico, tipico di quella stagione musicale. Quando il
batterista Cook viene rimpiazzato dal messicano A-dolfo «Fito» De La Parra nasce 1' hit «On The
Road Again» e siamo nell'estate del 1968. In italia diventano famosi proprio con quel pezzo,
trasmesso durante gli esigui spazi — mezza ora alla settimana — che la RAI concedeva alla musica
rock angloamericana nella ormai storica trasmissione «Count-Down».
In quegli anni dalle nostre parti, e un po' ovunque nei paesi dell'occidente, i giovani, gli
«studenti» respiravano aria di rivoluzione (si fa per dire); quindi una song che parlasse di vita sulla
strada, ancorata sulla grande tradizione del blues riproposto però in chiave moderna, sembrava
arrivare al momento giusto e nel giusto modo; quindi, in un certo senso anche loro, i Canned,
hipsters figli dei fiori, dell'amore e dell'Lsd potevano assurgere a ruoli simbolo di un'intera
generazione, di uomini in rivolta contro le istituzioni; qualche anno più tardi, certa intellighenzia
musicale nostrana potrà affermare senza indugi che i cinque non erano altro che «yan-kees» in
malafede con il blues, poco valorosi e asserviti-come-tutti al grande Moloch dell'industria
discografica d'oltreoceano o nel migliore dei casi che erano solamente degli abili mestieranti.
Ma nel '68 effettivamente le cose andavano diversamente dai giorni nostri ed il loro primo 45
giri di successo piaceva e «tirava» nella direzione giusta tanto da rendere una certa notorietà alle
cinque lattine sigillate anche nel dolce stivale mediterraneo, per via fors'anche delle difficoltà che si
incontrava a pronunciare correttamente la parola Canned Heat. Difatti per i meno esperti in
problemi linguistici la sua pronuncia era pressapoco questa: Chenne-dit.
Ma i tempi incalzavano veramente, i giovani della fine degli anni sessanta avevano bisogno di
valori «sani-e-puri», quindi giunse dall'America in confezione extra-fashion il film Woodstock, i
famosi tre giorni di pace-amore-musica, uno dei più grossi e meglio riusciti pacchi regalo della
storia dello spettacolo visto come bene destinato al consumo indiscriminato. Il film era quella
maratona interminabile di immagini di gruppi rock per ore ed ore sugli schermi dei cinema d'essai,
con il pubblico a sognare avventure di droga e sesso in quelle mitiche terre lontane al suono di
«Going Up The Country». Anche questa composizione recava la firma di Al Wilson e fece crescere
notevolmente la fama dei cinque californiani.
Siamo giunti al 1970, l'anno delle prime crisi ideologiche del «mo-vement», anno che segna
anche lo inizio di una serie continua di cambiamenti in seno all'organico del group: difatti Henry
Vestine forma una propria band e viene sostituito dal chitarrista di Detroit Harvey Mandel, artista
dal suono più a-sciutto e marcatamente «blues», a differenza del defezionano spesso attratto dalle
dimensioni oniriche della psichedelìa in musica. Dello stesso anno è un altro successo del gruppo, il
rifacimento di un brano di Wilbert Harrison, «Let's Work Toge"ther».
Nel frattempo la band o il suo manager si erano ricordati che in una remota provincia
dell'impero c'era fame di musica e «calde vibrazioni»; nasce un tour mondiale che vede una tappa a
Roma con un concerto al teatro Olimpico. Anche se ci si trovava sull'onda sessantottina, all'ingresso
del teatro non si verificarono incidenti: il prezzo del biglietto si aggirava intorno alle duemila lire. Il
tour italiano piacque abbastanza agli appassionati di allora e il gruppo venne consacrato totem
della stirpe del rock-blues progressivo, ma mentre cresce la fama della formazione sia in Italia che
all'estero arriva anche la sciagura che ne segnerà la fine artistica.
Un triste giorno del settembre 1970 si viene a sapere che Alan Wilson si è suicidato lasciandosi
trovare dentro ad un sacco a pelo al piedi delle gigantesche sequoie californiane, semplicemente
per «protesta» contro il degradamento dell'ambiente naturale causato dall'ignoranza e dalla follia
umana. Civetta cieca, questo era il suo soprannome, era un altro figlio scomodo dell'America del
benessere; dietro i suoi spessi occhiali da miope riusciva forse a vedere bene più in là dei suoi
compagni. Ci si accorgerà poi che l'anima più autenticamente blues del gruppo era proprio lui e che
i più alti e intensi momenti di poesia sono suoi e si possono ancora ascoltare in «Parthenogene-sis»
che compare nel doppio album Living the Blues del 1968, brano dove Wilson riesce ad incastonare
un vero e proprio gioiello di lirismo all'armonica nel bel mezzo di una composizione sbalorditiva per
via della sua, dati i tempi di uscita, stranissima struttura.
Ma la morte di Wilson non fece tanto rumore come quella di Hen-drix o Morrison, tanto per
citare i soliti citabili. Lo scorrere del tempo è però inesorabile e la vita all'interno della formazione
continua ad essere come sempre turbolenta; difatti già nel maggio del '70 Larry Taylor aveva
lasciato gli amici per andare a lavorare con John Mayall. Nel frattempo' rientra nell'organico Henry
Vestine e Joel Scott Hill cantante e chitarrista prende il posto del defunto Wilson, pur non
riuscendo mai a colmare il vuoto lasciato dall'occhialuto armonicista. Ma non finisce qui; Mandel
decide di intraprendere carriera solista mentre un altro messicano, Antonio De la Barreda, prende
il posto di Larry Taylor. Contemporaneamente entrano Ed Bayer alle tastiere e James Shane
chitarrista e cantante a rimpiazzare Mandel. Siamo intorno al 1973.
Le sostituzioni continuano e dal 1976 in poi la band risulterà così formata: Richard Hite, fratello
di Bob al basso; Chris Morgan e Gene Taylor rispettivamente chitarra e tastiere; Bob Hite canto; e
Fito De La Parra batteria. Complessivamente il gruppo sfornerà ben tredici LP, come titolare
unico, più tre lavori nati con la collaborazione di noti bluesmen di colore, John Lee Hooker,
Clarence Brown e Memphis Slim, questo a dimostrare quanto siano attaccati alle matrici blues i
musicisti in oggetto. Il gruppo ha anche modo di farsi valere sotto l'aspetto strettamente
strumentale; il brano che più tende a rendere l'idea di una direzione «solista» di questa band è
senza dubbio «Refried Boogie», della durata complessiva di 41', forse uno dei più lunghi in assoluto
della storia della musica Pop, contenuto in Livin' the Blues.
Il pezzo, registrato «live», mette in mostra le doti di Vestine, che si produce in torrenziali
«assolo», come pure Wilson, Taylor e De La Parra; il tutto però diventa un po' stancante e prolisso,
data l'eccessiva durata, e là dove i Cream erano riusciti a stampare in musica il «manifesto» del
rock-blues solistico (v. «Spoonful»), i Canned Heat trovano la loro Waterloo. Altri brani degni di
nota sono certamente «One Kind Favor» e «Pony Blues», sempre contenuti nel loro album doppio.
La tematica blues più vicina alle origini viene esplorata anche nell'album Live At Topanga
Corrai non riuscirà però a raggiungere le vette degli album nati dall'incrocio con i «padri» di colore
sopracitati. Quindi i Canned si rivelano discreti riusciti a stampare in musica il anche a darci il
brivido delle vertigini del solismo più esasperato, ma non saranno mai dei veri «grandi». Il resto è
storia dei nostri giorni, vale a dire che i Canned Heat non riuscendo a raggiungere mai la
dimensione eccelsa dello star group — questo a causa della difficoltà di rendere il loro messaggio
sonoro un prodotto facilmente imponibile a grandi masse di fruitori, sempre per via di quella
insistente «venatura» blues presente in ogni loro composizione — ormai rappresentano sì un buon
esempio ma anche un puro e semplice ricordo di quella che da molti viene definita «Page d'or»
della musica rock, tutto quel fermentare e nascere di «nuove cose» che va dal 1966 ai primi anni
settanta. Se se ne può negare l'importanza, non si può però negare l'evidenza di ciò che accade in
quegli anni e ancor oggi alcuni nostalgici affermano che la produzione successiva a quella
primigenia esplosione non è altro che una vuota e inutile ripetizione che non contiene in sé nulla del
«creativo» di quegli anni.
L'importanza della vicenda Can-ned H'eat si esaurisce nel breve arco di quattro-cinque anni,
quindi, con un destino comune a molti altri rilevanti nomi dell'universo rock e questo mi sembra
emblematico di una certa tendenza insita nella dinamica generale della musica da consumo.
I Canned Heat non sfuggono a questa legge perché riescono a salire qualche vetta grazie alle
loro indubbie qualità strumentali, ma la loro forza d'urto si affievolisce ben presto e la loro
creatività si disperde in indefiniti giri a vuoto intorno alla dinamica del blues genuino anche se, per
certi versi, l'opera di questo gruppo ha rappresentato, almeno nelle intenzioni, l'incarnazione
apparentemente ideale di quella fusione fra rock progressivo e blues genuino, fusione che è stata
poi il sogno forse mai realizzato di ogni musicista bianco che si sia avvicinato ai «padri» di colore,
vedi Eric Burdon, John Mayall, ed altri gruppi quali Fleetwood Mac del primo periodo, Chicken
Shack, Sa-voy Brown sino a giungere agli antesignani di questo genere quali i Cream e gli
Yardbirds.
Evidentemente questo gruppo lisa, come tutti coloro che hanno tentato la strada del
rifacimento del blues, si è trovato vittima dell'impossibilità di poter rinnovare realmente il
linguaggio di questa musica, vale a dire che, il blues suonato a mo' di rock è un ibrido destinato a
fallire miseramente nell'arco di brevi stagioni musicali.
Prima appendice: Henry Vestine.
Per quanto riguarda Henry Vestine si deve prendere in considerazione la sua collaborazione,
intorno al 1969, con Albert Ayler; il biondo chitarrista compare in almeno due albums del grande
sassofonista di colore. Si tratta di Music is the healign force of the universe e Last album. La
chitarra di Vestine in alcuni brani degli album citati si mette a duettare di volta in volta con il sax o
le cornamuse suonati dal barbuto Ayler. Ciò che colpisce immediatamente è la strana convivenza
fra un chitarrista bianco proveniente da un gruppo che cerca di fare il blues e un grandissimo
innovatore, un genio vero che già stava operando una delle più importanti trasformazioni del
linguaggio jazzistico degli ultimi dieci anni. Queste sono appunto le stranezze apparentemente
inspiegabili del mondo della musica se la si considera una camera a compartimenti stagni non
comunicanti fra loro.
Seconda appendice: Alan C. Wilson.
Riportiamo qui la traduzione della dedica che «Blind Owl» fece alle foreste di sequoie della
California poco prima della sua morte; lo scritto compare nell'interno di copertina dell'album
Future Blues.
Raccolto Spaventoso «Le sequoie delle foreste californiane sono gli esseri viventi più alti più
vecchi e più belli della terra. Le sequoie dominavano le foreste nell'emisfero settentrionale al
tempo dei dinosauri, quando non c'erano mammiferi, né fiori o foglie d'erba sulla superficie
terrestre. La glaciazione sterminò gran parte dell'immensa foresta che copriva gran parte
dell'Europa, dell'Asia e del nord America. Passeggiando attraverso le foreste di sequoie si fa
un'esperienza unica. I raggi solari sono catturati dagli alberi ad una altezza di cento piedi sopra
il terreno e si frantumano in scintillanti minuscoli bagliori che scendendo fra i torreggiami alberi
giocano sino a toccare il pavimento della foresta. Felci e fiori selvaggi si bagnano nel soffice
splendore di migliaia mute lucenti macchie che tremolano fra gli alti rami degli alberi che
oscillano maestosamente in un gentil vento. 2.000.000 di acri di foreste vergini salutarono la
civilizzazione dell'uomo bianco in Nord America. Negli ultimi cento anni 1.800.000 acri sono
stati tagliati e dei rimanenti 200.000 solamente 75.000 sono attualmente preservati dalla
devastazione nei parchi naturali. I rimanenti 125.000 acri di foreste saranno «raccolti» per
farne un uso del quale andrebbero benissimo anche altri tipi di alberi. Questo spaventoso
raccolto sarà fatto entro i prossimi dieci anni».
Claudio Cannella
Discografia
Canned Heat Rolling An Tumblin' (Liberty, 1967)
Boogie With Canned Heat (Liberty, 1968)
Livin' The Blues (Doppio Live) (Liberty/United Artists, 1968) Hallelujah (Liberty, 1969)
Cookbook (Antologia) (Liberty/ United Artists, 1970) Vintage (Janus/Pie, 1970) '70 Concert-
Recorded Live in Europe (Dal vivo) (United Artists/Li-berty, 1970)
Future Blues (United Artists/Li-berty, 1970)
Historical Figures And Ancient Heads (United Artists, 1972) The New Age (United Artists,
1973)
One More River To Cross (Atlantic, 1974)
Live At Topanga Corrai (Dal vivo) (Scepter/DJM, 1974) The Human Condition (Takoma/
Sonet, 1978)
Inoltre sono presenti in:
Woodstock (Cotillion, 1970 - Triplo dal vivo) Woodstock Two (Cotillon, 1971 - Doppio dal
vivo) Canned H'eat and John Lee Hoo-ker: Hooker'n'Heat (Doppio dal vivo) (Liberty, 1971)
Canned Heat and Clarence Brow-ne: Gate's On Heat (Blue Star, 1973)
Canned Heat, Memphis Slim & The Memphis Horns: Memphis Heat (Blue Star, 1974)

SCHEDE

Elvin Bishop
Chitarrista americano tecnicamente molto dotato, la cui importanza, nell'ambito della scena
blues-rock bianca statunitense, è relegata soprattutto alla sua attività come chitarrista solista nella
prima formazione della Paul Butterfield Blues Band. Col sopraggiungere di Mike Bloomfield
all'interno del gruppo, nel 1965, Bishop diventò secondo chitarrista, e in seguito, nel 1968, formò
una propria band, con la quale incise una serie di albums piuttosto interessanti, ma mai di grande
successo. Val la pena di segnalare due suoi LP post-Butter-field: Crabshaw Risiti g (Epic 1972),
che è una raccolta dei suoi brani migliori dal '68 al '72, e Let it flou) (Capricorn 1974), nel quale è
accompagnato da alcuni illustri personaggi del rock sudista, come Richard Betts, Toy Saldwell e
Charle Daniels.
Mike Bloomfield
Per una strana combinazione alfabetica il nome di Mike Bloomfield viene subito dopo quello di
Bishop in questo elenco: come già accennato in precedenza i due chitarristi lavorarono insieme
nella gloriosa Paul Butterfield Blues Band. Ma la statura di Bloomfield era decisamente superiore:
il suo stile, nitido e tecnicamente ineccepibile, quanto estremamente personale, fondeva l'eredità
del blues e del country nella nuova dimensione elettrica del rock. Non a caso fu subito notato da
alcuni grossi personaggi della scena rock americana, come Bob Dylan che lo chiamò per incidere il
suo Highway 61 Revisited e Al Kooper, col quale registrò Super session (Cls 1968,) (assieme con
Steve Stills) e The Live adventures of Mike Bloomfield and al Kooper (Cbs 1969). Nel 1967,
d'altra parte, Bloomfield aveva formato, con Nick Gravenites e Buddy Miles, un gruppo eccellente
ma dalla vita effimera: gli Electric Flag. Dei Flag è il caso di consigliare A Long Time Corning (Cls
1968) e An american music band (Cls 1969). Durante gli anni settanta la sua creatività e,
parallelamente, la sua importanza sono andate sempre più scemando, forse anche a causa dell'uso
eccessivo di droghe e di alcool. La sua recente scomparsa — probabilmente un suicidio — avvenuta
nel febbraio del 1981, ha contorni drammatici dovuti alla sofferenza di un musicista che si è sentito
sempre più dimenticato ed escluso.

Blues Brothers
I «fratelli blues» sono in realtà Dan Aykroyd e John Belushi, due «entertainers» americani
famosi per i loro spettacoli televisivi e appassionati di rhythm'n'blues. Nel 1978 decisero di metter
su una band rielaborando una serie di classici del genere da loro amato: il successo fu grandissimo,
e lo è tuttora, soprattutto dopo i films interpretati dalla coppia con una comicità effervescente e
paradossale (Animai house e The Blues Brothers). Per quel che riguarda la musica in senso
stretto, siamo di fronte al puro revival del rhythm'n'blues, fatto però con grande bravura (fra i
componenti del loro gruppo spicca il nome del chitarrista Steve Cropper), molta ironia e un pizzico
di nostalgia. La discografia comprende: A Briefcase Full of Blues (Atlantic 1978), The Blues
Brothers (Atlantic, 1980) e un trascinante Live (Atlantic, 1980).

Blues Project

Uno dei gruppi storici del blues-rock bianco di New York. La formazione originale
comprendeva: Al Kooper (tast.), Steve Katz (chit.), Tommy Dlanders (voce), Danny Kalb (chit.),
Andy Kulberg (basso, flauto), Roy Blumenfeld (batt.). La produzione migliore della band va dal '66
al '67 ed è rispecchiata in tre albums: Live at the Café a Go Go (Verve, 1966), Blues Project-
/Projeetions (Verve, 1967), e Blues Project at Town Hall (Verve, 1967). In seguito Al Kooper e
Steve Katz si distaccarono per andare a formare i Blood, Sweat & Tears, accentuando così la loro
spiccata propensione per il jazz. I Blues Project, comunque, si ricostituirono senza troppo
convinzione nel 1971: l'assenza di Kooper e di Katz si faceva sentire. Solo nel '73, e per un unico
concerto, il gruppo originale fu rimesso insieme (senza Flanders): se ne ha testimonianza in
Reunion in Central Park (Mca, 1973).

Graham Bond
«Graham era un crociato, un esploratore. Suonava inserendo un elemento d'improvvisazione
nella sua musica; un elemento che noi davamo per scontato nel jazz ma che, naturalmente, non era
mai esistito nella pop music. E il blues era l'anello di collegamento fra la musica improvvisata e il
pop». Queste parole di Jon Hiseman (da Music out-side di Ian Carr) possono dare un quadro
abbastanza preciso dell'importanza di Graham Bond nell'ambito di quel movimento che in
Inghilterra, nella metà dei sessanta, si proponeva di fondere le matrici blues e jazz nel rock. Bond
era un eccellente sassofonista (in seguito anche tastierista) ed aveva iniziato la sua carriera nel
quintetto di Don Rendell. Dal '63 al '69 la sua Graham Bond Organization fece da scuola ad alcuni
grandi musicisti del jazz e del rock in Inghilterra, quali: Jack Bruce, Dick Hecks-tall-Smith, John
Me Laughlin, Jon Hiseman, Ginger Baker e altri. Di questo periodo, veramente pio-neristico, è
assolutamente fondamentale la raccolta Solid Bond (Warner Bros, 1970). Anche nel suo caso gli
anni settanta segnano l'inzio del declino e delle difficoltà. Una morte violenta e misteriosa (fu
travolto dal treno nella stazione della metropolitana di Finsbury Park, l'otto maggio 1974) gli
strapperà per sempre ogni possibile rinascita artistica, ma certamente non il merito di condividere,
con Alexis Kor-ner e John Mayall, il ruolo di ««padre del Blues inglese».
Booker T. & the M.G.'s
Gruppo misto di rhythm'n'blues americano, che comprendeva due neri, Booker T. Jones (tast.)
e Al Jackson (batt.), e due bianchi, Steve Cropper (chit.) e Don «Duck» Dunn (basso).
Originariamente i quattro formavano la sezione ritmica di studio della Stax Records, ma un
quarantacinque giri da loro inciso, con enorme successo «Green O-nions», li spinse a continuare
nella strada intrapresa, anche se saltuariamente, come band autonoma. In effetti, dopo aver
prodotto una buona serie di hit negli anni sessanta, il gruppo cominciò a concentrarsi
maggiormente nel lavoro in studio, finché, nel '72, si sciolse definitivamente. Attualmente Cropper
e Dunn suonano nella band dei Blues Broters. Discografia consigliata: «Green Onions» (London,
1962) «Uptight» (Stax, 1968), «Soul Limbo» (Stax, 1968) e «Me Lemore avenue» (Stax, 1970).

James Brown
Assieme a Ray Charles, ad Otis Redding e a pochissimi altri si potrebbe definire il più grande
cantante che il rhythm'n'blues abbia mai avuto. Lo stile di Brown, rabbioso, irruento, fortemente
ritmico ha fatto scuola fra i grandi perfomers neri (e non solo tra loro) in questi ultimi 25 anni. Fin
dal suo primo hit, «Please, please, please» del '56, e passando per «It's a Man's, man's, man's
worid», «Night train», «I'm black and I'm Proud», «Sex Machine», James Brown si è costruito una
carriera densa di successi, vendendo milioni e milioni di dischi. Il suo pubblico è costituito
principalmente da gente di colore, che ha trovato in lui uno dei massimi rappresentanti della calda
e istintiva musicalità nera. Nei tardi anni settanta la vena di Brown si è infiacchita e il suo stile si è
più volte avvicinato ai ritmi piatti della disco-music: nonostante ciò rimane una figura importante,
anche per molti musicisti dell'attuale new wa-ve, che hanno più volte dichiarato di amarlo
incondizionatamente. Fra la sterminata discografia di James Brown vai la pena di segnalare alcuni
albums notevoli della sua produzione degli anni sessanta: Live at The Apollo (London, 1962; ris.
Polydor 1975), Papa's Gol a Brand New Bag (Pye, 1966), Plays James Brown (Philips, 1966), It's
a Man's World (Pye, 1966), Sex Machine (Polydor, 1969); e le raccolte: Soul brother (Polydor,
11973), Soul clas-sics Voi. II e III (Polydor 1975).

Jack Bruce
Prima e dopo i Cream: un bas-sista molto dotato che ha cercato di fondere — qualche volta
riuscendoci, molto spesso no — i linguaggi del blues, del rock e del jazz. Un nomade della musica
che ha vagato fra i Blues Incorporated di Alexis Korner, la Graham Bond Organiza-tion, i
Bluesbreakers di John Mayall, Manfred Mann, i Cream, i Li-fetime di Tony Williams, West-Bruce
& Laing, Carla Bley e Billy Cobham, mantenendo, fra alti e bassi, una propria identità stilistica di
ottima levatura. Fra la sua produzione «solo», vanno salvati almeno due albums: Song for a
Taylor (Polydor, 1969 e l'eccellente Things W e Like (Polydor, 1970).

Roy Buchanan
Probabilmente il più sottovalutato fra i chitarristi bianchi di derivazione blues. Pur avendo
dietro le spalle una carriera ricchissima (che inizia fin dal 1959) e godendo dell'ammirazione
incondizionata di molti musicisti, solo nel '72 Buchanan riuscì ad incidere il primo disco a proprio
nome. Riascoltandolo si avrebbe la grossa tentazione di sminuire l'importanza di alcuni famosi
chitarristi degli anni sessanta e settanta, che certamente gli devono molto. Indispensabile
l'antologia Roy Buchanan (Polydor, 1976), che contiene una versione assolutamente strabiliante di
«After Hours».

Paul Butterfield
Si è già parlato della Paul Butterfield Blues Band a proposito di Elvin Bishop e Mike Bloomfield,
i due chitarristi originali del gruppo. La figura di Butterfield, cantante e armonicista, è di
fondamentale importanza, dunque, nell'ambito del blues bianco americano degli anni sessanta. La
sua band fece da supporto a Bob Dylan durante la prima esibizione «elettrica» del cantautore
americano al festival di Newport del 1965: un avvenimento, questo, che suscitò molto scalpore fra
gli appassionati più intransigenti di folk music. Nel 1972, comunque, dopo circa otto anni di attività,
il gruppo si sciolse e Butterfield, pur avendo rimesso su un nuovo organico (i Better Days) non è
più riuscito a ritrovare la vena creativa dei giorni degli anni sessanta. Proprio di quel periodo,
quindi, sarà utile possedere: The Paul Butterfied Blues Band (Elektra, 1965), East-West (Elektra
1966) e The Resur-rection of Pigboy Crabshaw (Elektra, 1967).
Ray Charles
Soprannominato «The Genius» per le sue eccezionali qualità musicali, questo cantante/pianista
nero, cieco fin dall'età di sei anni, è stato un vero pionere della soul music. Dotato di una voce calda
e inimitabile, quanto estremamente duttile, Charles ebbe l'intelligenza di filtrare le tradizioni blues
e gospel in una dimensione più ritmica, per molti versi ««jazzata», dell'interpretazione vocale nella
musica leggera. Il suo stile, che traeva origine da quello di Nat King Cole, si impose in maniera
esplosiva negli anni cinquanta e sessanta, tanto da influenzare decine e decine di cantanti neri e
bianchi, persino in campo rock. Sono famose le sue interpretazioni di «Yesterday» e «Eleanor
Rigby» dei Beatles. La carriera di Charles,comunque, è costellata da una serie incredibile di
successi e da vendite di milioni di dischi. Solamente dopo la fine degli anni sessanta la sua creatività
ha cominciato ad incrinarsi, anche a causa degli abusi di droghe pesante (culminati con un arresto
per possesso di eroina), ed oggi non rimane che il riflesso un po' opaco dello splendore e della
vivezza che caratterizzavano ogni sua interpretazione. Discografia consigliata: Ray Charles (Extra,
1959) Ray Charles at Newport (Atlantic, 1962), What'd I say (Atlantic, 1959), Ray Charles in
Person (Atlantic, 1960), The Genius Sings the Blues (Atlantic, 1960), Genius + soul — jazz
(Impulse, 1960), A 25th Anniversary Show Business Salute to Ray Charles (Atlantic, 1972).

Chess Records
Senza dubbio la Chess Record è la più importante casa discografica di blues e rhythm'n'blues,
fin dagli anni quaranta quando Léonard e Phil Chess, proprietari e gestori di un night club nel
quale si esibivano costantemente Billy Eckstine e Gene Ammons, diedero vita alla Ari-stocrat, un
etichetta che si occupava solo di musica nera, che raggiunse il successo con il singolo di un giovane
bluesman, Muddy Waters. portato lì da Sunnyland Slim. Dal 1950 la Aristocrat divenne Chess e
negli studi dell'etichetta passarono i più bei nomi del blues americano, come Elmore James,
Howlin'Wolf, Wil-lie Dixon, Little Walter, Lowell Fulson. Gli anni migliori furono quelli del '54-'55,
quando i dischi di Water, Wolf, John Lee Hooker, Sonny Boy Williamson, Jimmy Ro-gers, Willie
Mabon e Eddi Boyd dominavano costantemente le classifiche rhythm'n'blues. Proseguendo nel
tempo la Chess allargò i suoi orizzonti, aprendosi anche al rock' n'roll nero di Chuck Berry ed al
soul, con Etta James, Dale Hawkins e Bobby Charles. Nel 1969 Léonard Chess morì e l'epopea della
Chess ebbe termine, anche se le incisioni dell'etichetta americana ora fan parte della storia della
musica nera.

Chicken Shack
Uno dei gruppi principali del blues revival in Inghilterra. Costituitosi nel '65 ;con qusta
formazione: Cristine Perfect (voce, tast.), Stan Webb (voce, chit.), Andy Sylvester (basso), Dave
Bid-well (batt.), il gruppo ebbe il suo momento d'oro sul finire degli anni sessanta, proprio in
coincidenza con l'inizio del decadimento della formula blues-rock inglese. Nel '69 la Perfect
raggiunse il marito John Me Vie nella nuova formazione del Fleetwood Mac e nel '73 la band si
sciolse definitivamente, a causa di alcuni attriti interni. Discografia consigliata: 40 Blue Fingers
Fre-shly Packed and Ready to Serve (Blue Horizon, 1968), O.K. Ken (Blue H'orizon, 1969), 100
Ton Chicken (Blue Horizon, 1969).

Clapton Eric
«Clapton è un Dio», si diceva a Londra negli anni sessanta e, se è pur vero che in quegli anni
questo chitarrista era una delle figure più importanti della scena rock mondiale, probabilmente si
tende a tut-t'oggi a sopravvalutarne il valore. Lo stile di Clapton, elegante ed essenziale come
pochi, traeva origine da quello dei grandi maestri del blues tradizionale, e generalmente veniva
contrapposto a quello di Jimi Hendrix, invece irruente e ridondante. In realtà, pur partendo da
basi analoghe, i due sviluppavano due tendenze completamente diverse: l'una, quella di
Clapton,misurata e pulita, quasi «scolastica», l'altra, quella di Hendrix, decisamente più
irriverente, «sporca», trasgressiva. Due tendenze che, comunque, hanno fatto scuola, anche se
Clapton, dopo i momenti d'oro con Mayall, Yardbirds, Cream (già analizzati nelle rispettive
monografie) e il breve episodio con i Blind Faith, ha avuto una carriera con fasi alterne e pochi
picchi di grande lucidità, più volte minata dall'abuso di eroina. Per un'accorta analisi del Clapton dei
settanta, vai la pena segnalare l'ottimo Layla & Other Assorteci Love Songs con i Derek and The
Dominos (Polydor, 1971) e i meno felici 461 Ocean Boulevard (Rso,1974) e E.C. Was Here (Rso
1975).

Joe Cocker
Cantante inglese dalla voce roca, calda, densa di sfumature «nere», per molti versi influenzato.,
nello stile, da Ray Charles. Cocker visse un momento di grande popolarità subito dopo la sua
esibizione al festival di Woodstock: la sua interpretazione di «With a Little H'elp From My
Friends» suscitò molta ammirazione. Dotato di grosse qualità vocali e di una particolare sensibilità
per il patrimonio musicale nero, Cocker riuscì a dare una veste nuova ed estremamente personale
ad alcuni classici del rhythm'n'blues, di Dylan, dei Beatles e dei Traffic. Ma la sua lucidità durò solo
pochi anni: dopo una tournée americana con i Mad Dogs & Englishmen, una band messa su dal suo
«padrino» Leon Russell, nel 1970 (dalla quale sono stati ricavati un doppio album live e un film),
Cocker rasentò il crollo psicofisico a causa della stanchezza, delle droghe e dell'alcool. Ritornato alla
ribalta dopo qualche anno, non seppe più ritrovare quelle dosi di grinta e originalità che l'avevano
imposto all'attenzione mondiale. Oggi, sebbene continui ogni tanto a produrre qualche disco e a
fare delle tournée, è forse poco più che l'ombra di quel grande cantante che era agli inizi della sua
carriera. Necessari, quindi, i suoi primi dischi: With a Little Help From My Friends (Regal
Zonophone, 1969), Joe Cocker (Regal Zonophone, 1970) e il live Mad Dogs and Englishmen
(A&M, 1971).

The Commodores
Gruppo formatosi negli anni sessanta, ma che ha raggiunto notorietà internazionale dal '70 in
poi. I Commodores sono stati il gruppo di punta della Motown negli ultimi anni, per via del loro
funky pesante e corposo, ma anche per una melodica vena soul che li ha resi molto graditi al
pubblico delle discoteche. Dal loro primo album nel 1973 i.1 loro stile non è cambiato di molto ed il
loro successo si è andato vivamente consolidando, di pari passo ad un raffinamento del suono e
degli arrangiamenti. Discografia consigliata: Machine Gun (Motown, 1973); Live (Motown, 1978).

Sam Cooke
Ancor prima di Ray Charles, il pioniere della soul music, di quel processo di trasformazione del
blues e del gospel verso il rhythm' n'blues, può essere sicuramente considerato Sam Cooke. La sua
prima esperienza musicale, agli inizi dei cinquanta, fu come cantante di un gruppo gospel (era figlio
di un pastore battista), ma ben presto si indirizzò verso la musica leggera. «You Send Me» fu il suo
primo grande successo, così come lo furono anche gli altri brani da lui incisi fino al 1964, anno della
sua morte, avvenuta in circostanze misteriose in un motel di Los Angeles. Fino a quel momento
Cooke aveva venduto circa 15 milioni di dischi ed aveva gettato le basi per una grande scuola di
interpreti: tutti, da Ray Charles ad Otis Redding, fino a Rod Stewart, hanno ammesso di dovergli
molto. Ancor oggi l'importanza di Cooke rimane viva e indelebile attraverso le interpretazioni dei
suoi brani, realizzate da famosi cantanti di rock e di rhythm'n'blues. Discografia consigliata: «Swing
Low» (Rea, 1961), «My Kind of Blues» (Rea, 1961), «Twistin' the Night Away» (Rea, 1962), «Mr
Soul» (Rea, 1962), «Night beat» (Rea, 1963), «The Soul Stirrers» (London. 1964), «At the Copa»
(Rea, 1964), «Ain't That Good News» (Rea, 1964), «Shake» (Rea, 1965), The Wonderful World of
Sam Cooke (Immediate, 9166).
Delaney & Bonnie
Delaney Bramlett e Bonnie Lynn: una coppia (erano marito e moglie) di musicisti fortemente
influenzati dal rhythm'n'blues. La loro fu la prima band bianca ad incidere per la Stax records: con
questa casa discografica registrarono un album accompagnati da Booker T. & the MG's. In seguito
formarono un gruppo assieme ad alcuni famosi musicisti di studio, quali Leon Russell, Jim Keltner,
Bobby Keyes, Jim Price e Duane Allman. Nel 1970 Eric Clapton decise di unirsi a loro: di colpo la
popolarità di Delaney & Bonnie raggiunse vette prima insperate. Ma dopo questa parentesi
luminosa l'interesse per la loro musica (e quindi la loro fama) cominciò a cadere precipitosamente,
fino a portarli, nel '72, al divorzio artistico e umano. Della loro produzione vai la pena segnalare:
Down Home (Staw, 1969), Accept No Substitute — the Originai Delaney and Bonnie (Elektra,
1969) e On Tour (con Clapton) (Atlantic, 1971).

Geòrgie Fame
Una delle figure principali del primo rhythm'n'blues inglese. Col suo vero nome, Clive Powell,
cominciò a cantare e a suonare il piano nei locali di Londra. Fu Larry Parnes, un impresario, a
lanciarlo e a dargli il nome di Geòrgie Fame. Dal '62 al '65, una volta liberatosi di Parnes, Fame
divenne l'attrazione principale, con i suoi Blue Flames, del famoso Flamingo, un club di
rhythm'n'blues: nel gruppo suonarono anche John McLaughlin e Mitch Mitchell. In quel periodo
registrò anche alcuni dischi e con un brano, «Yeh yeh», raggiunse la vetta delle classifiche. Nel '66
sciolse i Blue Flames e continuò da solo, cantando in grandi orchestre di jazz e incidendo altri due
hit: «Get Away» e «The Ballad of Bonnie and Clyde». Poi il declino: dapprima una corta e
sfortunata collaborazione con Alan Price (ex Animals), quindi un nuovo tentativo, senza successo,
nel '74, con una nuova formazione dei Blue Flames. Oggi di lui non si sa più nulla: le ultime notizie,
di qualche anno fa, lo davano come protagonista di una pubblicità in Tv per una marca di caffè.
Discografia consigliata: «R & B at the Flamingo» (Columbia, 1964), «Fame at Last» (Columbia,
1964), «Sweet thing» (Columbia, 1966), «Sound venture» (Columbia, 1966).

Four Tops
Quartetto vocale americano di rhythm'n'blues che ha avuto, fin dal 1954, questa formazione:
Levi Stubbs, Abdul «Duke» Fakir, Re-naldo Benson e Lawrence Payton. Prima di approdare alla
Tamia Motown, nel '64, passarono degli anni ad incidere, con scarso successo, per la Singular, la
Riverside e la Columbia. Ma, dal '64 in poi diventarono uno dei gruppi di punta della famosa casa
discografica di Detroit. Buona parte dei loro numerosi hit furono scritti da Hol-land / Dozier /
Holland, gli autori più famosi della storia del rhythm' n'blues. Nel '72, comunque, abbandonarono la
Motown per rimediare ad una certa diminuzione del loro successo, ma fino ad oggi non sono riusciti
a riprendere in mano quella popolarità che li aveva accompagnati per molti anni della loro carriera.
Discografia consigliata: The Four Tops Story (raccolta) (Tamia Motown, 1973).
Aretha Franklin
Sicuramente è la cantante più importante del rhythm'n'blues. Le origini della sua carriera
musicale somigliano a quelle di Sam Cooke: anche lei, figlia di un reverendo (C.L. Franklin),
cominciò cantando nel coro della chiesa battista di suo padre, a Detroit. All'età di 18 anni (era nata
nel '42), decise di abbandonare il gospel per la musica leggera. Dapprima, incoraggiata dal
produttore John H'ammond, firmò per la Columbia, ma nessuno riuscì ad indirizzarla nella giusta
dimensione musicale. Quando, nel '66, passò all'Atlantic le cose cambiarono notevolmente in
meglio: «I Never Loved a Man the Way I Loved You», il primo disco per la nuova etichetta, è oggi
considerato un caposaldo della storia del soul. La voce di Aretha, calda, limpida, dalla grande
estensione timbrica, sembrava non dovesse aver limiti, e così anche il suo successo che arrivò in
maniera travolgente. Da allora fino ai primi anni settanta la Franklin si impose in tutto il mondo
registrando una lunga serie di hit, fra i quali; «Chain of Fools», «Respect», «Baby I Love You», «T
Say a Little Prayer», «Think». In seguito (dalla metà dei settanta in poi), pur rimanendo un
personaggio di primo piano, non riuscì a ritrovare lo smalto e la grinta dei tempi andati. Si segnala,
comunque, una sua eccellente interpretazione del classico «Think» nel film The Blues Brothers.
Discografia consigliata: «I Never Loved a Man (the Way I Loved You)»
(Atlantic,1967),«ArethaArrives»(Atlantic,1967), «LadySoul»(Atlantic,1968), «Aretha in Paris»
(Atlantic, 1968), «Aretha now» (Atlantic, 1968), «Soul '69» (Atlantic, 1969), «This Girl's in Love
With You» (Atlantic, 1970), «Spirit in the Dark» (Atlantic, 1970), «Don't play that song» (Atlantic,
1970), Live at Fillmore West (Atlantic, 1971).

Funkadelic-Parliament
I Parliament erano una formazione vocale nata negli anni cinquanta, orientata verso il rhythm'
n'blues che ottenne notevoli successi alla metà degli anni '60, a-vendo come gruppo di spalla i
Funkadelic. Dal 1969 in poi gli elementi dei due gruppi sono diventati intercambiabili, sotto la
guida di George Clinton, una delle figure più interessanti nel panorama della musica nera odierna.
La formazione infatti è una delle prime ad essere riuscita ad attuare il cross-over tra la musica
nera ed il rock, con soluzioni spesso geniali e nuove, mettendo insieme le influenze di Hendrix,
James Brown e del Davis più funky, per dar vita ad una musica vulcanica e trascinante. La
produzione è però incostante e così accanto ad album eccellenti si trovano spesso episodi
autoindulgenti e noiosi, collegati ad uno sperimentalismo d'accatto ed ad uno sfarzo eccessivo.
Parliament e Funkadelic negli ultimi tempi riscuotono comunque un successo molto grosso,
soprattutto in epoca di new wave, per alcune soluzioni ritmiche ed armoniche nuove e
gustosissime, che stan facendo scuola per molti musicisti della nuova ondata, non ultimi persino
Eno e Byrne. Discografia consigliata: The Clones of Mister Funke-stain (Casablanca s.d.); Live
(Casablanca s.d.); Hardcore Jollies (Warner Bros. 1978); Motor Booty Affaire (Casablanca, 1978).

Marvin Gaye
Cantante americano di colore, di grande importanza nell'ambito dell'evoluzione della soul music.
Cominciò negli anni cinquanta cantando in vari gruppi vocali, quindi passò a lavorare alla Motown
come batterista di studio. Nei primi annisessanta iniziò ad incidere qualche 45 giri, finché arrivò al
successo con «Stubborn Kind of Fellow». Dal '63 fino ad oggi ogni suo brano ha raggiunto le zone
alte delle classifiche e nel '68, con una versione del classico «I Heard Throu-gh the Grapevine»,
diventò n.l in
America e in Inghilterra. Stranamente ciò produsse un cambiamento nelle sue direttive
musicali (probabilmente ci furono altre cause concomitanti) e negli anni settanta modificò il proprio
stile raffinando gli arrangiamenti e impegnandosi nella ricerca anche nei testi. Per fortuna tutto ciò
— contrariamente alle previsioni della sua casa discografica — gli apportò un successo commerciale
ancora maggiore. Tutt'oggi, sebbene non incida spesso, è uno dei personaggi di punta del soul:
sicuramente fra i più originali. Discografia consigliata: What's Going On (T. Motown, 1971), Let's
Get It On (T. Motown, 1973), Marvin Gay e Live * (T. Mot., 1974).

Al Green
Anche lui, come molti altri cantanti di colore, iniziò fin da piccolo in un gruppo gospel e dal '67 al
'69 (era nato nel '46) faticò ad imporsi pur avendo inciso un 45 di successo, come «Back Up Train».
Nel '70, con l'aiuto di un noto produttore, Willie Mitchell, cominciò la sua vera scalata alle
classifiche internazionali. Una scalata sostenuta da una voce particolare, dotata di grande
estensione e brillantezza, e da una serie di brani molto ben costruiti, come «Tired to Be Alone»,
«Let's Stay Toge-ther» e «Love and Happiness». Fino al 1973 Green vendette qualcosa come 20
milioni di dischi e in seguito, pur senza rinnovarsi musicalmente, ha mantenuto in maniera
costante il proprio successo. La sua «Take Me to the River» è stata onorata, in tempi recenti, con
tre differenti versioni dovute a grandi protagonisti del rock contemporaneo, quali Bryan Ferry,
Lou Reed e i Talking Heads. Discografia consigliata: Al Green Gets Next to You (London, 1970),
Let's Stay Togetber (London, 1972), I'm Stili in Love With you (London, 1972), Cali Me (London,
1973).

Peter Green
La vita e la carriera di questo grande chitarrista inglese di rock-blues rappresentano un caso
quasi unico nella storia del rock. Dopo aver iniziato a suonare come bassista nei Peter Bees di Peter
Bardens e in seguito come chitarrista negli Shotgun Express, un gruppo di rhythm'n'blues sempre
guidato da Bardens, arrivò a sostituire, nel '66, Eric Clapton nei Bluesbreakers di John Mayall. Per
lui fu un trampolino di lancio eccezionale: in breve divenne uno dei migliori solisti inglesi. Nel '67,
assieme Jeremy Spencer, John Me Vie e Mike Fleetwood, formò i Fleetwood Mac. Green, col suo
stile tagliente e originale, era la punta di diamante del gruppo: ma, nel 1970, in un periodo di
grande a-scesa per il successo della band, Peter decise inspiegabilmente di abbandonare tutto
quanto. Per molti anni sparì completamente dalla vita pubblica: si seppe che aveva lavorato come
benzinaio e come infermiere, quindi che aveva addirittura venduto tutte le sue chitarre. Sempre
nel '70, intanto, era uscito un suo album solo (The End of the Game), accolto in maniera
contrastata, che raccoglieva dei brani di sessions registrate in studio con altri musicisti. Poi, nel '79,
il ritorno, quasi in sordina, con un album piuttosto bello (In the Skies), bissato l'anno seguente con
un altro meno smagliante. Se la crisi non l'avesse attanagliato nel momento più inopportuno della
sua carriera, forse oggi Peter Green sarebbe una delle star più acclamate del mondo del rock.
Discografia consigliata: The End of the Game (Reprise, 1970), In the Skies (Pvk, 1979).

Groundhogs
Una delle prime formazioni di rock-blues inglese, guidata da Tony (T.S) Me Phee
(chit./voce/tast.). Originariamente (1963) il gruppo accompagnava i bluesmen americani in
tournée in Inghilterra ed addirittura incise un album assieme a John Lee Hooker (John Lee Hoo-
ker with the Groundhogs su Xtra). In seguito la band si sciolse e fu ricostituita nel '68 da Me Phee,
con Pete Cruickshank (basso), Ken Pustelnik (batt.) e Steve Rye (voce e arm.). Da quel momento
la formazione subì frequenti variazioni e vicissitudini: anche la musica, che nei primi album
rappresentava un ottimo esempio di fusione fra bluese rock, pian piano scivolò verso un rock più
duro e banale. Discografia consigliata: Scratching the Sur face (Liberty, 1968), Blues Obituary
(Liberty, 1969),Thank Christ for the Bomb (Liberty, 1970), Split (Liberty, 1971).

Isaac Hayes
La figura di Isaac Hayes non è certo tra quelle fondamentali nella storia del soul, ma il suo
successo commerciale, che per alcuni anni gli è stato favorevole in maniera strabiliante, lo ha reso
uno dei musicisti neri più popolari in assoluto. I dischi incisi da Hayes per la Stax negli anni
settanta — in precedenza era stato musicista di studio e produttore — hanno venduto milioni e
milioni di copie, pur essendo tutti costruiti in maniera analoga: grossi arrangiamenti orchestrali,
sezione ritmica e voce dal timbro grave in primo piano. Il suo lavoro più conosciuto (e spesso i-
mitato) è la colonna sonora di Shaft, prototipo dei film negri integrazionisti dei settanta. Dal '74 in
poi, comunque, Hayes è diventato sempre più autoindulgente e kitsch oltre misura, soprattutto nei
suoi spettacoli dal vivo: anche la popolarità è andata sempre più scemando. Fra i suoi albums si
possono segnalare: Hot Buttered Soul (Stax, 1969) e Shaft (Stax, 1971).

John Lee Hooker


Una delle colonne della storia del blues. Nato a Clarksdale, Mississippi, nel 1917, questo
musicista straordinario, dallo stile vocale e strumentale inimitabile, ha inciso non solo nella storia
del blues tar-dizionale, ma anche in quella del rock. La sua influenza è stata notevole in molti
gruppi, come gli Animals, gli Yardbirds, i Ground-hogs, i Canned Heat, che si sono ispirati al
linguaggio del blues: con questi ultimi due ha addirittura registrato degli albums di notevole valore
storico, quali esempi del rapporto fecondo che può intercorrere fra giovani musicisti bianchi e un
vecchio rappresentante della scuola tradizionale nera. La sua discografia è sterminata: comunque
qualsiasi album, degli anni cinquanta e sessanta soprattutto, può valere come testimonianza della
sua arte.

The Impressions
Gruppo vocale di colore in azione fin dal 1956. A quel tempo la formazione era: Curtis Mayfield,
Jerry Butler, Sam Gooden, Arthur Brooks e Richard Brooks. Dopo il primo hit del 1958, For Your
Pre-cious Love, Butler lasciò il gruppo per intraprendere una carriera solista e per qualche anno
Mayfield fu il suo chitarrista. Gli Impressions ritornarono nel '61 con Fred Cash al posto di Butler:
il successo arrivò con «Gypsy Woman». Nel '63 i fratelli Brooks se ne andarono e i tre rimanenti,
Mayfield, Gooden e Cash, divennero in breve tempo uno dei gruppi di maggior successo della soul
music. Basta ricordare alcuni brani famosi, come «Keep on Pushing», «I'm so Proud» e «People
Get Ready», per avere un esempio delle grandi capacità liriche e della bellezza delle armonie vocali
che gli Impressions sapevano offrire. I pezzi erano tutti composti da Mayfield, che era la mente del
gruppo, così quando egli se ne andò per continuare da solo, nel 1970, gli Impressions pur avendolo
sostituito con altri due cantanti (Ralph Johnson e Reggie Torian) non seppero più ritrovare la
compatta lucidità della loro musica nei sessanta, anche se non mancarono altri ragguardevoli
successi. Discografia consigliata: This is My Country (Buddah, 1968), The Young Mods' Forgotten
Story (Buddah. 1970), e le raccolte The Impressions' Big 16 (Hmv, 1965) e Big 16, voi. II
(Stateside, 1968).

Albert King
Questo chitarrista e cantante americano rappresenta uno dei rari casi di bluesmen influenzati
dal rock. Nato il 25 aprile del 1923, Albert King cominciò a diventare famoso quando, dopo anni
passati in semi-oscurità, firmò per la Stax records. Da allora ('67) si è sempre più avvicinato al
rhythm'n'blues e al rock, riuscendo qualche volta ad entrare nelle classifiche di vendita. Nel suo
caso non si può parlare di vera e propria commercializzazione, ma della modificazione di uno stile in
rapporto ai ritmi e ai nuovi suoni elettrici del rock. Discografia consigliata: Born Under Bad Sign
(Stax, 1967), Uve Wi-re/Blues Power (Stax, 1968).

B.B. King
Uno dei bluesmen più importanti e famosi in senso assoluto. Assieme a Muddy Waters può
essere considerato come il musicista di blues che più ha influito nella storia del rock. Nato il 16
settembre 1925 col nome di Riley King (B.B. gli proviene dal soprannome di «blues boy»,
affibbiatogli in gioventù), cominciò la sua carriera come disc-jockey in una radio di Memphis e in
seguito iniziò a registrare dei brani per piccole etichette. Nel '61 firmò per la ABC, quando già
aveva alle spalle una discreta serie di successi: da quel momento in poi, comunque, il suo nome
ebbe una risonanza mondiale e fu acclamato come uno dei migliori chitarristi esistenti. Il suo stile
era molto originale: vi si ritrovavano profonde influenze country-blues, ma anche una
predominanza del jazz nel fraseggio. Ovviamente influenzò la stragrande maggioranza dei
chitarristi rock e in un album (B.B. King in London) suonò con Peter Green, A-lexis Korner, Steve
Marriott e Rin-go Starr. Tutt'oggi continua a suonare dal vivo e a produrre dischi con una vitalità
davvero invidiabile. Discografia consigliata: Live at the Regal (Abc, 1965), Live and Well (Abc,
1969), Completely Well (Abc, 1969), Indianola Mississippi Seeds (Abc, 1970), Live in Cook
Country ]ail (Abc, 1971), B.B. King in London (Abc, 1971) e le raccolte The B.B. King Story (Blue
Horizon, 1968), The B.B. King Story, Chapter Two (Blue Horizon, 1969).

Freddie King
Anche Freddie, cosi come Albert e B.B. King (fra i quali, è il caso di specificarlo, non c'è nessun
rapporto di parentela), è un chitarrista blues americano. Cominciò a suonare, negli anni cinquanta
(era nato nel '34), a Chicago con numerose band, compresa quella di Muddy Waters. Le sue prime
incisioni risalgono al 1956, ma iniziò ad avere una certa popolarità dal 1960,quando firmò per la
Federai Record di Chicago. Da allora registrò una serie innumerevole di hit e di album che lo
imposero fra i maggiori chitarristi blues di tutto il mondo. La sua influenza in molti musicisti
bianchi di rock è stata notevole e i suoi rapporti con questa musica si sono fatti più stretti dal suo
passaggio alla Shel-ter record di Leon Russel, nel '71. Dal '74 incide per la Rso, con risultati meno
proficui, però, dal punto di vista artistico. Discografia consigliata: Freddie King is a Blues Master
(Atlantic, 1969), My Feeling for the Blues (Atlantic,1970), Gettin' Ready (Shelter,1971), Texas
Cannon-ball (Shelter,1972), Woman Across the River (Shelter, 1973), Burglar (Rso, 1974).

Gladys Knight (and the Pips)


Gruppo vocale di colore formato, nel '52, da Gladys Knight assieme al fratello Merald, alla
sorella Brenda e ai cugini William e Elenor Guest, tutti originari di A-tlanta (Georgia). Nei primi
tempi non ebbero alcun successo, così nel '57 Elenor e Brenda abbandonarono gli altri per sposarsi:
furono sostituite da un altro cugino, Edward Patten, e da Langston George. Il primo successo
arrivò solo nel '61 con «Every Beat of My Heart», seguito da «Letter Full of Tears», dopodiché il
gruppo continuò come quartetto a causa dell'abbandono di George. In seguito ci furono anni difficili
e turbolenti: i quattro ricominciarono a salire la china del successo verso la fine degli anni sessanta,
cioè col loro passaggio alla Motown. Negli anni settanta diventarono uno dei gruppi soul più
richiesti e affermati: il loro show live suscitava consensi unanimi. Nel '73 firmarono per la Buddah e
il loro successo aumentòulteriormente, fino a farli diventare una vera e propria istituzione nel
campo della soul music. Discografia consigliata: Neither One of Us (Tamia Motown, 1973),
Imagina-tion (Buddah, 1973); fra le raccolte: Anthology (T. Motown, 1974) e The best of Gladys
Knight and the Pips» (Buddah, 1976).

Al Kooper
Figura semi-leggendaria di musicista e produttore che ebbe un ruolo di notevole importanza
nel processo di fusione delle matrici blues e jazz con il rock in America durante gli anni sessanta.
Kooper iniziò, appena tredicenne, nel '57 con un gruppo chiamato Roy al Teens, ma la vera svolta
nella sua carriera avvenne nel '65 quando riuscì a suonae l'organo in «Like a Rolling Stone» di Bob
Dylan: a quel tempo, comunque, aveva già messo su uno dei gruppi più importanti del blues-rock
americano, i Blues Project. Dylan lo richiamò ancora per la storica session di registrazione di
«Blonde on Blonde» ('66) e in seguito produsse il primo album dei Blood Sweat & Tears ('Chili is
Father to the Man del '68), nel quale, oltre a comporre gran parte dei brani, cantava e suonava le
tastiere. Il '68 è anche l'anno della famosa Super session che Kooper registrò con Mike Blomfield e
Steve Stills. Poi arrivarono altre importanti collaborazioni con i Rolling Stones, Jimi H'endrix, B.B.
King, Taj Mahal e ancora con Dylan. Gli anni settanta però, dopo le ottime Live Adven-tures con
Mike Bloomfield, dimostrarono un certo scadimento delle sue qualità creative e Kooper, dopo
alcuni sfortunati album solo, si rifugiò nel ruolo di produttore, anche se con buon successo (vedi il
primo album dei Tubes, i Lynyrd Skynyrd e altri gruppi del Sud).Discografia consigliata: Super
Session (Cbs, 1968), The live Adven-tures of Mike Bloomfield and Al Kooper (Cbs, 1969), Kooper
Session (Cbs, 1970), e Easy Does It (Cbs, 1970).

Alexis Korner
Sebbene di solito lo si affianchi a John Mayall e Graham Bond quale capostipite del blues in
Inghilterra, Korner è stato il primo vero pioniere di quel movimento ed anche la figura chiave per
comprendere la nascita e l'evoluzione di buona parte dei gruppi e dei musicisti rock, blues e jazz
inglesi degli anni sessanta. Il non avergli dedicato una monografia a parte deriva dal fatto che, col
passare degli anni, rispetto a Mayall, la sua fama e la sua importanza sono risultate secondarie.
Eppure fu attraverso il suo leggendario gruppo dei Blues Incorporated (creato fin dal 1961) che si
formarono musicisti importanti, quali: Mick Jagger, Charlie Watts, Jack Bruce, Ginger Baker, John
Sur-man, Dick Heckstall-Smith, Danny Thompson, Alan Skidmore e molti altri. Korner, dunque, fu
il primo in Inghilterra a capire che si poteva far confluire la tradizione del blues in una forma
musicale più moderna, tenendo conto della strumentazione elettrica apportata dal rock'n'roll. Il
suo periodo più intenso e creativo, però, rimane quello degli anni sessanta: nel decennio
susseguente, Korner, una volta calato l'interesse per il blues-rock, si trovò sbilanciato e tentò
strade più commerciali formando i Ccs e gli Snape. Forte della propria esperienza e preparazione di
chitarrista e cantante, seppe resistere bene per qualche tempo, ma poi dovette cedere di fronte
all'avvento delle nuove generazioni. Oggi ogni tanto fa delle tournée riscuotendo un successo più
limitato ma sincero. Fra la sua produzione discografia va segnalato l'imperdibile Bootleg Himl
(Rak, 1972), che è una raccolta delle sue cose migliori dal '61 al '71.

Taj Mahal
Colto musicologo e valente po-listrumentista, Taj Mahal visse un momento di buona popolarità
sul finire degli anni sessanta a causa della qualità non indifferente della sua musica, nella quale egli
sapeva infondere, con gusto misurato, il linguaggio country-blues delle proprie radici nere accanto
alle influenze della musica indiana e del rock. Dopo una serie di album riusciti, però, il suo stile
divenne sempre più stereotipato e privo di sbocchi rivitalizzanti. Oggi è solo un buon musicista che
stenta adimporsi e a trovare una propria identità. Discografia consigliata: Giant Step/De Ole Folks
at Home (Cbs, 1969), Ooh So Good' n'Blues (Cbs, 1973).

Curtis Mayfield
Si è già parlato di Mayfield a proposito degli Impressions, il gruppo dove questo musicista
mosse i suoi primi passi. È il caso, comunque, di dedicargli una scheda a parte per via del successo
che egli ottenne al momento di intraprendere la carriera solistica, nel '70. In effetti, con i suoi primi
album solo, Mayfield si dimostrò un cantante e un arrangiatore d'eccezione: il suo falsetto misurato
e la cura raffinata con la quale strutturava i brani lo imposero in breve tempo come uno degli
artisti più originali ed evoluti del soul. Fu la realizzazione della colonna sonora di Superfly a
renderlo famoso e stimato in tutto il mondo: da allora Mayfield ha vissuto un po' di rendita, ma con
una eleganza e una classe davvero invidiabili. Discografia consigliata: Curtis (Bud-dah, 1970),
Curtis Live (Buddah, 1971), Roots (Buddah, 1971), Super jly (Buddah, 1972).

Buddy Miles
Batterista americano di colore, molto quotato sul finire dei sessanta e nei primi settanta, per
via del suo «drive» eccèllente e del suo stile prepotentemente funky. Uno stile, questo, maturato
come batterista della band di Wilson Pickett e, in seguito, negli Electric Flag di Mike Boomfield.
Dopo l'esperienza con i Flag, Miles formò un proprio gruppo, i Buddy Miles Express, dove potè
esplicare in piena libertà la sua propensione per il soul-rock. Quindi finì per lavorare, anche se per
pochi mesi, con Jimi Hendrix: un ruolo, questo, di grande prestigio i cui frutti si possono ritrovare
soprattutto nell'album Band of Gypsies, inciso dal vivo nel giorno di capodanno del 1970. Dopo la
morte di Hendrix, Miles formò di nuovo, con discreto successo, la sua band e nel '72 registrò un
ottimo album dal vivo in collaborazione con Carlos Santana. Dopodiché la sua fama cominciò a
scemare sempre più e il suo stile invecchiò visibilmente col passare degli anni: non bastò nemmeno
un tentativo di riformare gli Electric Flag per riportarlo ai fasti di un tempo. Discografia consigliata:
Expressway to Your Skull (Mercury, 1968), E-lectric Church (Mercury, 1969), Them Changes
(Mercury, 1970), Carlos Santana and Buddy Miles live (Cbs, 1972).

Wilson Pickett
Sebbene oggi si tenda a dimenticarlo, Wilson Pickett ebbe un ruolo di primo piano, negli anni
sessanta, fra i cantanti neri di rhythm'n'blues. La sua voce aggressiva, calda, trascinante, rivaleggiò
per molto tempo con quelle ben più famose di Otis Redding e di James Brown. Fu l'Atlantic Re-
cords a lanciarlo nel '65 con due hits ormai diventati classici: «In the Midnight Hour» e «Don't Fi-
ght It», per i quali fu accompagnato dai Booker T. & The Mg's. Il suo successo, però, divenne
sempre più grande negli anni seguenti con «Land of 1000 Dances», «Mustang Sally», «Cole, Cooke
e Redding» (un tributo ai tre grandi maestri) e le splendide versioni di «Hey Ju-det» e «Hey Joe».
Pickett rimase in auge fino ai primi anni settanta continuando a sfornare una buona serie di hit, ma
dal suo passaggio alla Rea nel '72 scivolò lentamente nel dimenticatoio. Discografia consigliata: In
the Midnight Hour (Atlantic, 1965), Exciting Wilson Pickett (Atlantic, 1966), Hey Jude (Atlantic,
1970).

Pointer Sisters
Bonnie, Ruth, Anita e June Pointer: quattro sorelle perfettamente affiatate e dalla splendida
voce. Provenienti da un'educazione musicale prevalentemente gospel, si indirizzarono verso i più
eterogenei stili musicali lavorando in sala d'incisione con molti artisti soul e rock. Esordirono come
gruppo solo nel '73 al club Troubadour di Los Angeles: il successo fu quasi immediato per via della
bravura ed eclettismo che le spingeva ad affrontare con disinvoltura brani di soul, jazz, rock,
country, funky. Recentemente la loro produzione, però, si è fin troppo avvicinata alla disco-music.
Discografia consigliata; The Pointer Sisters (Blue Thumb, 1973), That's a Plenty (Blue Thumb,
1974), Live at the Opera House (Abc-Blue Thumb, 1974), Steppin' (Abc-Blue Thumb, 1975).

Billy Preston
Uno dei più rinomati tastieristi della soul music. Si conquistò una grossa fetta di popolarità per
aver partecipato, con i Beatles, all'incisione di «Get Back» e dell'album Let It Be. In precedenza
aveva lavorato con musicisti del calibro di Little Richard e Sam Cooke: dopo averlo usato come
sessionman i Beatles gli offrirono di firmare per la Apple, con la quale incise due album di successo.
Ma le sue quotazioni salirono ulteriormente quando, nel '71, passò alla A&M: con «I Wrote a
Simple Song» raggiunse il primo posto nelle classifiche americane. Ha anche suonato con George
Harrison nel famoso concerto per il Bangla Desh e con i Rolling Stones nelle loro tournée del '75 e
del '76. Discografia consigliata: That's the Way God Planned It (Apple, 1969), Encou-raging
Words (Apple, 1970), I Wrote a Simple Song (A&M, 1971).
Alan Price
Tastierista inglese, membro fondatore degli Animals: dopo aver lasciato il gruppo, nel '65,
formò l'Alan Price Set. Con questa nuova band realizzò due ottimi album e riuscì ad entrare in
classifica con qualche hit, fra i quali si segnalano alcune eccellenti interpretazioni di brani scritti dal
musicista americano Randy Newman. Dopo la dissoluzione del «Set», Price lavorò assieme a
Geòrgie Fame, con risultati però non eccelsi. Ritornò in auge nel '73 con la colonna sonora del film
O! Lucky man. Le sue qualità di ottimo compositore e di strumentista ebbero occasione di brillare
ancora l'anno seguente con un album impegnativo, soprattutto nei testi che parlavano della storia
di un ragazzo della classe operaia inglese: Between Today and Yester-day. In seguito non riuscì
più a ritrovare la convinzione e la lucidità dei suoi tempi migliori. Discografia consigliata: The Price
to Pay (Decca, 1966), The Price on his Head (Decca, 1967), Fame and Price, Price and Fame,
Together (Cbs, 1971), O! Lucky Man! (W. Bros., 1973), Between Today and Yesterday (W. Bros.
1974).

Smokey Robinson
Dylan lo definì «il più grande poeta vivente d'America»: anche se questa affermazione potrà
sembrare esagerata, essa riflette indubbiamente le grandi qualità liriche di questo straordinario
cantante di colore. Robinson aveva appena 17 anni (era nato nel 1940) quando registrò il suo
primo 45 giri, «Got a Job», per la End Records col suo gruppo, i Miracles, formato da quattro
cantanti, Claudette Rogers, Bobby Rogers, Ronnie White, Warren Pete Moore e un chitarrista,
Marvin Tarplin: tutti amici e, più o meno, coetanei di Smokey. I Miracles diventarono in pochi anni
uno dei gruppi migliori della soul music, forti della loro bravura e dell'originalità delle loro canzoni,
basate sulla contrapposizione fra la splendida voce in falsetto di Smokey e i timbri molto più gravi
delle altre voci. Dal 1960 in poi, cioè da quando firmarono per la Tamia Motown, ben pochi
riuscirono a contrastare l'ascesa degli hit dei Miracles, sempre costruiti con estrema cura e
raffinatezza; brani come «Bad girl», «Way Over The-re», «You've Really Got a Hold on Me», «I
Gotta Dance», «Mickey Monkey», «Two Lovers», sono ormai dei classici del soul di tutti i tempi. I
testi di Robinson, d'altra parte, riuscivano ad essere molto poetici e profondi, integrandosi
magnificamente con la struttura musicale dei pezzi. Verso la fine dei sessanta, però, la magia dei
Miracles cominciò ad attenuarsi e Smokey, probabilmente stanco di fare lunghe tournée, si dedicò
maggiormente al suo nuovo ruolo di vicepresidente della Motown. Nel '72, comunque, dopo aver
abbandonato definitivamente i Miracles, iniziò una proficua carriera solistica che lo portò, col terzo
album (Quiet Storm), di nuovo in testa alle classifiche pur avendo ulteriormente raffinato e reso
più complesso il suo stile musicale. Ancor oggi Smokey Robinson rappresenta un punto di
riferimento fondamentale per molti cantanti di rock e rhythm'n'blues. Discografia consigliata:
Miracles from the Beginning (T. Motown, 1966), Going to a Go Go (T. Motown, 1966) e la
raccolta 1957/1972 (T. Motown, 1973), per il periodo con i Miracles; Smokey (T.M, 1973), Pure
Smokey (T.M., 1974), A Quiet Storm (T.M. 1975) e Smo-kin' (Live) (T.M., 11978) per il periodo
da solo.

Diana Ross
La carriera di Diana Ross — una delle più complete e duttili cantanti di soul music — ha inizio
nel 1960 col gruppo vocale delle Supremes. Solito contratto con la Motown e conseguente successo
quasi inarrestabile per tutti gli anni sessanta. La Ross, comunque, eratalmente brava che divenne
la star del gruppo: la sua personalità spiccava incontestabilmente, tanto che nel '69 decise di
abbandonare le altre due comprimarie per seguire la sua strada da sola. Questo distacco, d'altra
parte, le fu certamente proficuo, poiché la sua popolarità e le vendite dei suoi dischi aumentò
sensibilmente. Nel '73 interpretò con grande bravura la parte di Billie Holiday in Lady Sings the
Blues. In questi ultimi anni il successo di Diana è rimasto costante pur se la sua musica si è
sensibilmente avvicinata al funky e alla disco. Discografia consigliata: 1 Hear a Symphony (Tamia
Motown, 1966), Sing Rodgers & Hart (T.M, 1967), e le raccolte Greatest Hits Voi. I (T.M.. 1968),
Greatest Hits Voi. 2 (T.M, 1970), con le Supremes; Diana Ross (T.M, 1970), Everything is Every-
thing (T.M, 1971) e Lady Sings the Blues (T.M, 1973) da sola.

Leon Russell
Sebbene lo stile di questo multistrumentista (principalmente pianista) americano non abbia
mai a-vuto una collocazione definita, è evidente che il blues e il soul hanno avuto una parte
determinante nella sua formazione di musicista. Russel è conosciuto soprattutto come ses .onman
di alta classe, avendo egli lavorato con Phil Spec'or, i Byrds, Delaney & Bonnie, Joe Cocker, Bob
Dylan. Nel 1970 si costruì un grosso lancio promozionale aprendo, con Denny Cordell, la Shelter
Records, incidendo il suo primo album-solo e soprattutto accompagnando Joe Cocker nella famosa,
quanto estenuante (per Cocker), tournée con i Mad Dogs & Englishmen (film e disco annessi). Ael
'73, così, il suo album triplo Carney diventò disco d'oro, a-prendogli spazi enormi di popolarità. Col
passare degli anni, però, la sua immagine si è sempre più offuscata e, tutto sommato, forse vai la
pena ricordarlo per l'ottima performance nel Concerto per il Ban-gla Desh di George Harrison più
che per le prove discografiche a suo nome.

Savoy Brown
Gruppo inglese di derivazione blues, che ebbe un ruolo di una certa importanza nella seconda
metà degli anni sessanta assieme ad altre formazioni analoghe, come i Groundhogs o i Chicken
Shack. Fin dalle sue origini (1966) la band ha ruotato attorno alla figura del chitarrista Kim
Simmonds, cambiando più volte i suoi componenti. Nei loro primi album i Savoy Brown si
dimostrarono fra i più attenti seguaci della tradizione bluesistica, rivitalizzandola accuratamente
attraverso le sonorità del rock. Sus-seguentemente, negli anni settanta, attraverso varie
vicissitudini interne, si spinsero sempre più verso il rock duro, adeguandosi così alle necessità del
mercato. L'avvento delle nuove tendenze e direzioni musicali, però, finirà per relegare il loro stile
ad un passato ormai definito e storicizzato. Discografia consigliata: Shake Down (Decca, 1967),
Getting to the Point (Decca, 1968), Blue Matter (Decca, 1969).

Nina Simone
Così come molte altre cantanti di colore la prima educazione musicale della Simone (il suo vero
nome è Eunice Waymon) è stata quella del gospel. In seguito cominciò a lavorare nei clubs di
Atlantic city cantando blues e jazz: le sue prime incisioni, difatti, seguirono questa tendenza e il suo
canto era influenzato da Billie Holiday e Sarah Vaughan. Quindi si avvicinò al rhythm'n'blues
registrando dei classici indimenticabili, quali «Don't Let me Be Misunderstood» e «I Put a Speli on
You», con una bravura e una raffinatezza quasi ineguagliabili. Dal '67 ha cominciato a far parte del
«black power movement»: ciò l'ha portata verso un approfondimento dei temi politici nei testi e ad
una sempre più radicale crisi di rigetto nei confronti dell'industria discografica. Tut-t'oggi la
Simone è considerata una delle migliori cantanti soul. Discografia consigliata: Nina Simone Sings
the Blues (Rea, 1967), Silk and Soul (Rea, 1967), Nuff Said (Rea, 1969), To Love Somebody (Rea,
1969), Black Gold (Rea, 1970).
Sly and the Family Stone
Gruppo americano di funky, formato nel '68 da Sly Stone (voce, tast, chit.) assieme al fratello
Freddie (chit.), alla sorella Rosie (voce, piano), al cugino Larry Graham (basso) e a Cynthia
Robinson (tromba), Greg Errico (batt.), Jerry Martini (sax). Sly, che in precedenza era conosciuto
soprattutto come produttore, aveva formato questo gruppo con l'intenzione di fondere il ritmo
funky con certe sonorità rock: tentativo per alcuni versi riuscito, anche se in definitiva la sua
musica si indirizzava ai locali da ballo. I primi album racchiudono una certa freschezza e
dinamismo, puntando su degli hit ben costruiti, come Dance to the music, Stand! e I Want to
Take You Higher, che poi saranno i cavalli di battaglia della loro famosa esibizione al festival di
Woodstock. Negli anni settanta, coma al solito, le cose cominciarono a non andare per il verso
giusto, anche in senso commerciale, finché nel '75 il gruppo si sciolse. Discografia consigliata: Dance
to the Music (Epic, 1968) e Stand! (Cbs, 1970), . oppure il Greatest Hits (Epic, 1971).

Staple Singers
Quartetto vocale di colore, formato da Roebuck «Pop», Mavis, Cleo e Yvonne Staples, che
originariamente si era imposto come lino dei migliori gruppi gospel d'America. Col loro passaggio
alla Stax, nel '68, cominciarono a fare del rhythm'n'blues, e con grande successo. Arrivarono gli hit,
come «Heavy Makes You Happy», «Res-pcct Yourself» e «111 Take You There», le vendite di
milioni di copie e i dischi d'oro: gli Staples, comunque, hanno sempre dimostrato una capacità
interpretativa davvero notevole, anche se oggi si parla raramente di loro. Discografia consigliata:
Soul Folk in Action (Stax, 1968), We'll Get Over (Stax, 1970), Heavy Makes You Happy (Stax,
1971), Bealtitude: Respect Yourself (Stax, 1972).
Stylistics
Gruppo vocale di colore, formato da Russell Thompkins Jr., Herb Murrell, Airrion Love, James
Dunn e James Smith: cinque voci affiata-tissime che si affermarono, negli anni settanta, fra i
grandi esponenti della soul music leggera. Nel '74, però, dopo aver cambiato il loro vecchio
produttore (Thom Bell), gli Stylistics, pur mantenendo un notevole successo commerciale,
caricarono gli arrangiamenti con un'orchestrazione sovrabbondante: ciò fece perdere loro quel
soffuso e rotondo fascino che aveva caratterizzato la loro prima produzione. Discografia consigliata:
Best of the Stylistics (Avco, 1975).

Tamia Motown
E l'etichetta discografica più importante della soul music. Nata nel 1960 da un'idea di Berry
Gordy Jr. — dipendente della Ford di Detroit che si dilettava a scrivere canzoni — la Tamia
Motown (da Mo-tortown, che è il soprannome della città di Detroit) divenne in breve tempo
l'etichetta indipendente di maggior successo d'America. I fattori decisivi che contribuirono al
raggiungimento di questo importante risultato furono essenzialmente due: da una parte vi fu
l'accurata scelta degli artisti da ingaggiare, i quali si rivelarono ben presto tutti degli ottimi «hit
ma-kers» (basta ricordare, a questo proposito, Diana Ross, i Tempta-tions, Marvin Gaye, i Four
Tops e Stevie Wonder); dall'altra ci fu l'influenza determinante di una serie di produttori (Smokey
Robinson, Harvey Fuqua, Johnny Bristol, Berry Gordy) che riuscirono ad ottenere quel suono
caratteristico •— il famoso «Motown sound» — che si impose in tutto il mondo per le sue qualità
ritmiche e timbriche. Se a ciò si aggiunge, poi, il ruolo fondamentale avuto da quella vera e propria
«macchina di hit» formata dalla triade Eddie Holland — Lamont Dozier — Brian Holland, si può
arrivare a comprendere il perché dei milioni e milioni di dischi venduti dalla casa discografica in
questi ultimi venti anni. Non mancarono, a dire il vero, alcuni errori negli anni settanta (perdita di
alcuni artisti e trasferimento dell'etichetta nella West Coast) che produssero delle cadute di
successo, incrinando una formula che sembrava indistruttibile. Ma, in ogni caso, ci furono — e ci
sono tutt'oggi — dei musicisti come Marvin Gaye, Stevie Wonder e Diana Ross, che hanno
incrementato ulteriormente le loro vendite. Anche le produzioni di alcuni film, come Lady Sings
the Blues, Mahogany e Cooley High, si rivelarono degli investimenti altamente proficui.
Temptations

Uno dei gruppi vocali di punta della Tamia Motown. Originariamente formato da: Eddie Ken-
dricks, Otis Miles, Paul Williams, Melvin Franklin e Eldridge Bryant, subì in seguito numerosi
cambi di componenti. Iniziarono nel '59 come Distants ma, una volta capitati alla Motown, Berry
Gordy diede loro il nome di Temptations. I primi hits arrivarono un po' a rilento, ed erano firmati
da Smokey Robinson («The Way You Do the Things You Do» e «My Girl»), ma la vera svolta per il
gruppo avvenne nel '68 con l'acquisizione del-l'autore/produttore Norman Whit-field che rese più
sofisticati gli arrangiamenti dei pezzi: «Cloud 9» e «I Can't Get Next to You» furono i primi grossi
risultati di questa collaborazione. Da allora le cose andarono sempre meglio, con picchi di grande
risonanza artistica e commerciale: brani quali «Papa Was a Rolling Stone» e «1990» sono ancora
dei modelli imprescindibili per l'evoluzione del soul. Discografia consigliata: Greatest Hits Vol. 1
(Tamia Motown, 1967), Greatest Hits Voi. 2 (T.M., 1970), Masterpiece (T.M., 1973), 1990 (T.M.,
1974).

Ike & Tina Turner

Prima di incontrare Annie Mae «Tina» Braddock a St. Louis (e di sposarla) nel '58, Ike Turner
aveva lavorato come musicista, disc-jockey e talent-scout, e si era stabilito a St. Louis gestendo un
proprio «show» musicale. Nel '60 cominciò ad incidere in coppia con la moglie: i risultati furono più
che promettenti, ma dovettero cambiare spesso casa discografica prima di incontrare Phil Spector
sul set del film The T'N'T' Show (del quale stavano preparando la colonna sonora). Spector si
interessò subito a Tina e le fece incidere la famosa «River Deep, Mountain High» che divenne
subito un grosso hit in Inghilterra, ma ebbe uno scarso seguito in America: la produzione
dell'album omonimo fu addirittura abbandonata a metà da Spector, anche se poi il prodotto fu
finito lo stesso ed ebbe successo. Ike & Tina, quindi, arrivarono alla Blue Thumb, producendo una
serie di brani di rhythm'n'blues, fra i quali «I've Been Loving You too Long» di Otis Redding. Il
loro spettacolo dal vivo, d'altronde, impostato sulla prorompente carica sexy di Tina e delle Ikettes
(il trio di coriste del gruppo), stava guadagnando una vasta risonanza mondiale. Altri successi
giunsero nel '71, con le versioni di «Proud Mary», «Get Back» e «Honky Tonk Woman», e nel '73
con «Nutbush City Limits». Va segnalata, inoltre, la presenza di Tina in Tommy di Ken Russell,
nella parte di una «acid queen» quanto mai sensuale. Discografia consigliata: River Deep,
Mountain High (Philles - ris. 1966, A & M, 1971), The Hunter (Liberty, 1969), Her Man, His
Woman (Capital, 1970) e la raccolta The Very Best of Ike and Tina Turner (U.A. 1976).

War
Gruppo soul di colore formatosi nel '68 col nome di The Nite Shift. Furono notati una sera del
'69 in un club di Los Angeles da Eric Burdon e dal suo produttore Jerry Goldstein: quasi
immediatamente Burdon decise di farne la propria band, inserendo l'armonicista bianco Lee Oskar
e cambiando il nome in War. Gli altri componenti del gruppo erano: B.B. Dickerson (tast., basso),
Harold Brown (batt., pere., viol.), Papa Dee Alien (pere.), Charles Miller (fiati, piano), Leroy
Jordan (tast., batt.), Horward Scott (basso, tr.). Con la base calda e decisamente funky degli War,
Burdon realizzò due album e delle tournée di grande successo. Nel '71, dopo un crollo psico-fisico
dello stesso Burdon, il gruppo continuò da solo la sua strada aumentando considerevolmente la
propria fama e le vendite dei dischi che seguirono. Il loro soul-funky aveva ormai raggiunto uno
standard di popolarità davvero notevole, anche se stilisticamente non era riuscito ad evolversi.
Discografia consigliata: Eric Burdon Declares War (Mgm, 1970), e The Black Man's Burdon
(Mgm, 1970) con Eric Burdon; War (U.A. 1971) e Ali Day Music (U.A., 1972) da soli.

Edgar Winter — ]ohnny Winter


Se il blues è per antonomasia la musica dei neri, viva sensazione hanno destato nella loro
carriera di musicisti i due fratelli Winter, bianchi di pelle e persino albini di capelli. Cominciarono
insieme in un gruppo chiamato Black Plague, dove Edgar suonava le tastiere ed il sassofono e
Johnny la chitarra. Il più innamorato del blues era Johnny, che raggiunse il successo attorno al
1969 con due album editi da due etichette diverse contemporaneamente, ]ohnny Winter per la
Cbs e The Progressive Blues Experiment per la Liberty. Edgar, d'altra parte, si indirizzò verso il
jazz e il rhythm'n'blues con il proprio gruppo (i White Trash), pubblicando una serie di album
accolti con notevole interesse. La strada di Johnny invece si fece lastricata di successi e in breve
diventò uno deichitarristi più famosi di rock-blues, tanto da essere più volte contrapposto a Jimi
Hendrix. Soprattutto le sue performances dal vivo risultarono particolarmente incandescenti e
trascinanti, anche se lo stile di Winter, in definitiva, è quanto mai scolastico e accademico. Nei tardi
anni settanta, comunque, sia Edgar che Johnny continuarono ad incidere ripetendo, spesse volte
con stanchezza, le loro rispettive formule stilistiche. Discografia consigliata: Entrance (Epic, 1970),
White Trash (Epic, 1971) e Road-work (Epic, 1972) per quel che riguarda Edgar: The Progressive
Blues Experiment (Liberty, 11969), Johnny Winter and Live (Cbs, 1971), Stili Alive and Well Cbs,
1973) e Captured Live (Blue sky, 1974), per quel che riguarda Johnny.

Howlin' WolHowlin' Wolf è certamente uno dei più conosciuti blues man del dopoguerra,
famoso per il suo stile vocale «ululante» dal quale gli deriva il nome. Lo stile di Wolf è aggressivo e
corposo, e queste caratteristiche lo hanno reso famoso nell'area del rock. I suoi successi maggiori
sono stati incisi per la Chees tra il 1954 e il 1964, e molti dei brani di Howlin' Wolf han trovato
nuova vita nelle versioni che ne hanno dato gruppi come i Cream (Spoonful), Savoy Brown, Doors
(Back Door Man), Yard-birds, Little Feat, e molti altri ancora. Nel 1972 Wolf ha inciso un album su
richiesta dei Rolling Stones, con la collaborazione di E-ric Clapton, Stevie Winwood, Rin-go Starr,
celebrando così la sua lunga carriera e la notevole influenza avuta soprattutto sulle bande inglesi.
Discografia consigliata: Morning in the Moonlight (Chess, 1964), Poor Boy (Chess, 1965), London
Sessions (Rolling Stones Ree., 1972).

Hobby Womack
La biografia di Womack è un classico per i musicisti neri: terzo di cinque fratelli Bobby Womack
cominciò la sua carriera con loro, i Womack Brothers, cantando gos-pel, fin quando Sam Cooke gli
offrì il posto di chitarrista nel suo gruppo. I Womack Brothers divennero i Valentinos e raccolsero
buoni successi con brani come «Lookin' for a Love» e «It'All O-ver Now». Allo scioglimento del
gruppo Womack firmò un contratto con la Minit Records producendo un ibrido tra rhythm'n'blues
e rock'n'roll e lavorando come ses-sion man per numerosissimi musicisti di rock. Negli anni
settanta il suo successo si è confermato soprattutto per il suo notevole stile di cantante ed autore
di soul rock. Discografia consigliata: Understan-ding (U.A., 1972); Communication (U.A., 1973);
Looking for a Love Again (U.A., 1974).

Stevie Wonder

Wonder merita sicuramente il suo «meraviglioso» nome d'arte (il suo vero nome è infatti
Stephen Judkins) non foss'altro perché alla giovane età di tredici anni raggiunse, con il terzo 45
giri, il primo posto nella classifica americana. La statura musicale di Wonder è indubbia, il suo
incredibile gusto per le armonie, la grossa inventiva e soprattutto la novità delle sue proposte
musicali ne hanno fatto una delle figure più importanti nel panorama della musica nera e del rock.
Inutile è elencare la lunghissima serie di singoli di successo che dal 1966 in poi Wonder è riuscito a
piazzare nelle zone alte delle classifiche, mentre invece è fondamentale mettere in risalto il cambio
di mentalità giunto attorno al 1972, dove abbandonando la logica dei singoli di successo Wondersi
dedicò a tempo pieno alia costruzione di album che han fatto scuola per moltissimi musicisti in fatto
di arrangiamenti e di stile, non foss'altro che per il modo di miscelare la tradizione musicale nera
alle ultime novità del rock, per l'eleganza di Wonder nel proporre anche le forme musicali più vuote
(vedi la disco) rinvigorite da un particolare uso della ritmica e della voce. L'album che segnò il
cambiamento fu Music of My Mind, con il quale Wonder riuscì nel cosiddetto cross-over
raggiungendo un grosso successo sia presso il pubblico nero che presso quello del rock. A
quell'album ne sono poi seguiti molti altri, tutti dischi d'oro e di platino, che hanno seguito
l'evoluzione musicale di Wonder e della musica nera degli anni settanta. Accanto all'attività
musicale Wonder dimostra un grosso interesse verso i problemi sociali e politici, organizzando un
lavoro per i bambini handicappati, lavorando in favore delle nazioni sottosviluppate africane e,
negli ultimi tempi, organizzando una campagna per far sì che l'anniversario della nascita del leader
nero Martin Luther King diventi festa nazionale in America. Wonder ha anche svolto un grosso
lavoro come produttore, con personaggi come B.B. King, Rufus e Syreeta, ed ha nel 1975 firmato
un contratto con la sua casa discografica di ben 12 milioni di dollari, probabilmente il più alto
contratto mai firmato da una industria discografica. Discografia consigliata: Music of My Mind
(Tamia, 1972), Talking Book (Tamia, 1972), In-nervision (Tamia, 1973), Songs in the Key of Life
(Tamia, 1976), Hotter Than July (Tamia, 1980).

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