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Durante gli anni ‘60 negli Stati Uniti ci fu uno sviluppo musicale che si
distaccò dai canoni R’n’R. Già nel ‘65 The Byrds, elettrificando le ballate di
Bob Dylan, avevano dato vita al folk rock.
Da quel punto partivano gruppi come Grateful Dead, Jefferson Airplaine e
Buffalo Sprinfield: in altre parole, si diede vita al West Coast Sound.
Dall’altra parte della costa, gli intellettuali underground newyorkesi avevano
elaborato la filosofia della “controcultura” che andava contro le regole
dell’establishment.
Il mito dell’Americany of life way, del successo e del denaro venivano ritenuti
come i mali da cui difendersi, proponendo la droga, il sesso e la creatività
artistica come rimedi per liberare il corpo e la mente dalla schiavitù
dell’alienazione. Da queste istanze nacquero gruppi come i Fugs e i Velvet
Underground.
In Inghilterra invece, il percorso artistico dei Rolling Stones, degli Who e dei
Kinks era esplicativo dello sviluppo del beat.
Ma soprattutto dei Beatles che già nel 1965 introducevano con Norwegian
Wood le sonorità di un sitar, e l’anno dopo con l’originale uso degli archi
componevano la classicheggiante Eleonor Rigby, seguito dall’illuminante
arrangiamento con trombino e flauto di Penny Lane del 1967.
I Traffic fu da molti ritenuta la band progressiva per eccellenza per la miscela
di grande classe a base di blues, jazz e folk che riuscivano a produrre.
3. Luis Bacalov:
Nel caso dei Perigeo non c’è un apertura del rock verso nuove forme
musicali, semplicemente, è l’antica scuola del jazz che si avvicina alla forza
espressiva del rock.
Un gruppo questo di natura prevalentemente fusion oltre che progressive,
fondato dal leader contrabbassista Giovanni Tommaso, seguito da alcuni
dei migliori elementi del jazz nazionale, tra cui Franco D’Andrea al piano,
Bruno Biriaco alla batteria, Claudio Fasoli al sax e Tony Sidney alla chitarra
(l’unico di estrazione non jazzistica): una fusione che produrrà una delle
proposte più originali della storia della musica italiana.
Da un intervista pubblicata nel libro della “Storia della musica progressive
italiana”, Tommaso racconta: “Ancora non si erano neanche formati i Weather
Report che in molti hanno insinuato fossero il nostro modello.
Per me in quel periodo, al di sopra di tutti, c’era Miles Davis che aveva fatto
degli esperimenti illuminanti, ed è a lui che devo il mio desiderio di
cambiamento.
Lee Konitz in particolare, pensava fossi andato via di testa. Lui conosceva
molto bene sia me che D’Andrea, ma ci sono voluti ben vent’anni perché lui si
ricredesse su di noi. Nel ‘73 abbiamo suanato alla prima edizione di Umbria
Jazz”.
Tra tutti, ho scelto di citare il secondo album pubblicato in studio dalla RCA
italiana nel 1973, Abbiamo tutti un blues da piangere, album premiato dalla
critica discografica nel 1973.
L’album comprende in totale sette tracce, ricche di sonorità espressive, con
scelte armoniche assolutamente inusuali per l’epoca e per il genere rock.
5. Gli Osanna:
Personalmente, questo è uno dei gruppi in cui mi sono imbattuta e che più mi
ha affascinata.
Sempre parte del grande filone dell’era progressive, e fondato inizialmente da
Piero Brega Il Canzoniere del Lazio nasce a Roma nel 1972 con l’intento di
operare come collettivo di ricerca e riproposta della musica di tradizione
popolare, attraverso un grande lavoro di ricerca e documentazione politica su
materiali provenienti dall’ambiente proletario e contadino, a stretto contatto
con il Nuovo Canzoniere Italiano e con lo studioso e ricercatore Alessandro
Portelli.
L’intendo del gruppo, era quello di riuscire, con strumenti anche diversi, a
dare un volto nuovo alla musica popolare.
Il disco del 1974 pubblicato dalla Intigo “Lassa sta sa creature”, include
elementi rock e jazz: basta pensare che l’organetto, come strumento portante
del ballo e di tutti i ritmi popolari, a sua volta era l’erede della zampogna. Nel
momento in cui volevano ripristinare l’apporto ormai mancante della
zampogna,hanno aggiunto due saxofoni (tra cui il grande jazzista Maurizio
Giammarco) a un violino proprio per aggiungere questi tre suoni continui che
rappresentavano proprio le tre canne della zampogna. Questo è il lavoro ed il
lato più sperimentale della band, enfatizzato ancor di più nel successivo
Spirito Bono, dove trova spazio la chitarra elettrica di Peter Kaukonen (già
collaboratore dei Jefferson Airplane) che produce anche il disco.
7. Gli Area:
Nessuna etichetta può racchiudere la band italiana che più di tutte, ha saputo
cambiare radicalmente l’approccio nei confronti della musica, soprattutto in
un Paese dove questo genere musicale non aveva alcuna radice.
Nel loro disco d’esordio “Arbeit Macht Frei” (Craps 1973), il cui titolo
riprendeva una frase scritta all’ingresso dei lager nazisti “Il lavoro rende liberi”
è evidente una sperimentazione che spazia dal rock al jazz, a quelle
elettroniche ed alle influenze etniche balcaniche.
Ne Luglio, Agosto, Settembre (nero) la voce araba introduceva dei ritmi
dispari, mentre ne L’abbattimento dello Zeppelin i suoni elettronici prendono il
sopravvento ed il canto di Demetrio sfuggiva ad ogni modello pop. A dare un
aria eterogenea a tutto l’album è il sax del belga Eddie Busnello, che per i
suoi problemi comportamentali, legati all’alcolismo, lascerà le sue memorabili
incisioni soltanto in questo primo album. Dopo anche l’uscita di Patrick Djivas
al basso, segue la formazione di Giulio Capiozzo alla batteria, Ares Tavolazzi
al basso, Paolo Tofani alla chitarra, Patrizio Fariselli tastierista.
Con l’album “Crack” (Cramps 1974), che contiene l’emblematico Gioia e
Rivoluzione, gli Area diventano il simbolo delle utopie e del desiderio di
rivoluzione che aleggiava in quelli che sono ricordati come gli “anni di
piombo”.
In “Maledetti” (Cramps 1976) prendono vita tutta una serie di collaborazioni
tra cui con il sopranista Steve Lacy.
Ultimo disco uscito postumo alla morte di Demetrio Stratos è “Tic & Tac”
(CGD/Ascolto 1980), disco interamente strumentale che ha tutti i segni
distintivi per essere descritto più che come un disco progressive, come disco
fusion. Al sax era presente uno strepitoso messaggero di questo tubo di
ottone, scomparso prematuramente 9 anni dopo: l’ineguagliabile Larry
Nocella.
8. Conclusione:
Questo lavoro di ricerca e di ascolto, a cui mi sono dedicata dai primissimi
mesi di questo anno, è nato ascoltando un brano dei fratelli Brecker dal titolo
Straphangin’. Di lì la mia curiosità di cercare qualcosa di simile a quelle
sonorità non convenzionali si è sempre fatta più strada, e così, per puro caso,
sono arrivata ad ascoltare il primo album “Milano Calibro 9” degli Osanna,
che ha dato il via alla mia voglia di conoscere, di esplorare, di capire, e
soprattutto di ascoltare qualcosa di mai udito. E l’ho fatto con l’ottica di
comprendere prima la storia della musica del mio Paese.
A differenza di come possa apparire, questo lavoro è stato di estrema
ispirazione per la composizione di un mio brano, ed è molto legato alla mia
visione della definizione “jazz”. Per me è jazz qualsiasi stile, tradizione, colore
che abbia la forza di dare vita a qualcosa, che si avvale della facoltà di
entrare in un usanza popolare, e con estrema gentilezza, portare la sua
caratteristica improvvisativa che orna ciò che è bello, rendendolo ancora più
bello.
E quando, solitamente, mi sforzo di essere più precisa o convincente sulla
definizione di jazz, mi rifaccio alla citazione più bella, e del più grande
maestro di “jazz” di tutti i tempi: “Che cos’è il jazz? Amico, se lo devi
chiedere, non lo saprai mai”.