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Bohemian Rhapsody

Un’analisi nello spazio e nel tempo

Nicola Bizzo
Copyright © 2019 Nicola Bizzo
wiz.eutropio@gmail.com
www.queenvinyls.com
Tutti i diritti riservati
ISBN: 979-12-200-4526-1
Sommario
Introduzione storica e panorama musicale
I periodi della produzione discografica
La struttura e la forma dei brani
Le variazioni come nuovo “originale”
Modulazioni “drammatiche” e cliché armonici
Quale drammaturgia?
Il fattore melodico
La voce di Freddie Mercury: estensione e caratteristiche
La poetica e le sue fonti estetiche
L’efficacia e la necessità dell’analisi
Il contesto creativo di “A NIGHT AT THE OPERA”
Bohemian Rhapsody: un’introduzione nello spazio e nel tempo
L’analisi del testo e della musica
La nuova struttura drammaturgica dettata dall’esibizione live
La fortuna e la ricezione di Bohemian Rhapsody
Le edizioni di Bohemian Rhapsody su vinile
Bibliografia
Siti Internet
Discografia
Videografia
Introduzione storica e panorama musicale

D
opo la ventata di novità promossa dai Beatles – il cui ruolo nella storia della
musica pop è stato non solo quello di mostrare la forza del beat a livello
planetario, ma anche quello di aver inaugurato una nuova stagione tanto a
livello musicale quanto (forse anche di più) nel costume e nella costruzione
di un’immagine sociale e commerciale – certo la strada per nuovi gruppi e musicisti
emergenti era ormai stata spianata con una nuova sensibilità artistica ed estetica;
quest’ultima appariva in effetti molto più lontana dei pochi anni che in realtà la
separavano dal decennio precedente, quando l’icona musicale popular per eccellenza
era stata quella di Elvis Presley (musicista bianco in grado però di cantare come un
nero, e artista col quale gli elementi contrastanti e divergenti del primo rock’n’roll trovano
equilibrio) e dei primi suonatori di rock’n’roll non così dissimili dal musicista di Memphis
negli atteggiamenti o sotto un profilo più strettamente musicale.
La funzione del quartetto di Liverpool, la loro carica vitale – associata ad un’immagine
erotica – ebbe modo di raggiungere l’apice in un periodo storico-sociale particolare che,
visto a distanza di anni, pare quasi essere stato appositamente confezionato e
preparato. E qui stanno il merito e la fortuna dei Beatles, giovani musicisti che
incarnavano (quanto inconsapevolmente?) un ideale di ribellione giovanile senza però
mai trasgredire o cadere in eccessi, come invece avviene col gruppo sempre loro
contrapposto (almeno dai media…), i Rolling Stones, responsabili di aver mostrato “la
vera forza e il volto più sanguinario del rock”[1], e di essere stati tra i primi interpreti
dell’English blues.
Beatles e Rolling Stones devono quindi essere visti e studiati come complementari e
non come esclusivamente dialettici, come avviene invece solitamente, per la loro
duplice influenza sulla musica popular e gli sviluppi che questa forma d’espressione e di
costume ha subito (e subisce ancora). Per queste considerazioni appare pertanto
forzata l’espressione di una certa musicologia di fine anni ’70 secondo cui “i Beatles
hanno detto poco davvero nel corso di tutta la vicenda pop”[2], perché senza dubbio i
riflessi della loro arte non hanno ancora smesso di affascinare e guidare le nuove
generazioni.
Vero è che la qualità tecnica di molte loro prime registrazioni è mediocre se confrontata
con le produzioni moderne vista la scarsezza dei mezzi di quegli anni, ma furono d’altra
parte i quattro musicisti inglesi i primi a portare all’estremo le funzioni dello studio di
registrazione (in questo imitati e forse superati dal loro omologo statunitense
contemporaneo, i Beach Boys) e di figure come il tecnico del suono o l’assistente di
studio, oltre che del produttore, pedina importante da cui spesso dipende il sound finale
di un album. A McCartney e compagni va poi riconosciuto il merito di avere proposto un
modello di canzone (quello basato sulla struttura chorus-bridge, con chiare influenze
della musichall inglese di inizio secolo) caratteristico di buona parte della loro
discografia e poi divenuto così frequente in molta della musica popular futura.
“[Ai Rolling Stones] va il merito di aver indicato la strada, di averci strattonato con ritmo
e Chuck Berry […]. Il loro suono ha incarnato un’epoca, ben oltre le smorfie beatliche
[sic] e le collezioni di 45 giri: era quello che ci voleva, una spinta, un segnale”[3]. Questa
affermazione può essere condivisa, ma non a livello di strutturazione dei brani[4] o di
progressioni armoniche (in questa direzione infatti Mick Jagger e compagni non hanno
innovato in modo particolare, preferendo costruire le canzoni su riff sì memorabili ma
musicalmente aridi); certo l’immagine che il gruppo dava di sé era volutamente forte e
fuori dagli schemi, ma anche questa va valutata in un’ottica più larga e non esclusiva: il
rock dei Rolling Stones è infatti una delle sfaccettature verso cui la musica (quella
inglese in primis) si stava dirigendo in quegli anni cruciali.
Gli stessi eccessi ostentati con orgoglio e le affermazioni di forte impatto (“I can’t get no
satisfaction”, per citare la più celebre) non avrebbero suscitato la stessa quantità di
critiche e scandali se non si fossero sviluppati sul terreno precedentemente preparato
dai “nemici” Beatles, ed in chiara contrapposizione ad essi. Si tratta insomma di due
gruppi che dal reciproco confronto (e scontro) escono entrambi più forti e con più
personalità, in virtù delle differenze e delle peculiarità reciproche. Certo gli uni avrebbero
potuto fare a meno degli altri, ma il quadro complessivo sarebbe rimasto dai contorni
meno definiti, e forse senza colore.
Accanto a questi due gruppi principali, altre formazioni (alcune delle quali destinate a
durare una sola stagione) cominciano a fare la loro comparsa nel decennio degli anni
’60, anni cruciali in cui la musica pop – nella sua accezione più estesa – comincia a
delinearsi, a formarsi una propria personalità, creando attorno a sé un alone di
misticismo e di perfezione forse mai più raggiunta negli anni successivi, quando
l’innocenza originale (e l’ingenuità) avrebbe ormai lasciato il posto a ricerche
esasperanti e sovrastrutture lontane da una sensibilità veramente “popular” e ad ancora
più fredde ricerche di mercato e di riscontro da parte del pubblico visto solo come
“cliente”.
Inflessioni del blues e della musica nera compaiono rispettivamente negli Animals e
negli Yardbirds in cui milita il giovane chitarrista Eric Clapton, in seguito sostituito da Jeff
Beck e, per un breve periodo, da Jimmy Page, futuro leader dei Led Zeppelin.

“Yardbirds e Animals, dunque, glorificano i primordi dell’Inghilterra con


una musica feroce e cattiva, mettendo l’accento sulla parte più scura del
suono, sul ritmo, sull’andare pungente delle chitarre [strumento che si
configura proprio in questi anni come caratteristico del rocker anche
grazie alla mediazione degli Shadows, band che propone brani in cui la
componente strumentale è più importante di quella vocale], sul muoversi
frenetico della voce: e sul loro esempio e sull’indicazione ‘leggendaria’
degli Stones si muove tutta una frangia del mondo musicale, stanca
della ‘bellezza’ [e compostezza] dei Beatles e affascinata dal nuovo
orizzonte, che è febbre e malvagità. Them [con la voce di Van Morrison],
Who, Zombies, Troggs, sono i nomi più importanti di questa scuola di
hard vibrations [in contrapposizione alla corrente di good vibrations
promossa dai Beach Boys]”[5].

Proprio con gli Who e l’LP “THE WHO SELL OUT” del 1967, poi seguito da “TOMMY”
due anni dopo e da “QUADROPHENIA” (1973), si ha la felice intuizione dell’opera pop,
del concept album dove un filo conduttore interno lega i brani e dà coerenza al progetto
complessivo; ecco allora comparire suite di canzoni in cui non si ha soluzione interna di
continuità oppure dove tutto scorre seguendo un comune denominatore più o meno
esplicito, come un verbo ritmico o un preciso disegno drammaturgico e tematico: questi
aspetti sono molto rilevanti in questo periodo storico, in quanto influenzeranno la fase
iniziale della produzione dei Queen.
Negli stessi anni i folkmen inglesi, e i loro omologhi d’oltreoceano, tendono a far
emergere la parte più lirica della musica ed a sottolineare gli aspetti più spirituali della
stessa, accompagnandosi con la sola chitarra acustica, ed eventualmente l’armonica a
bocca: il maggior rappresentante inglese di questi anni è Donovan (mentre negli Stati
Uniti si fanno largo le coinvolgenti interpretazioni di Bob Dylan, di Jim Croce, del duo
Simon & Garfunkel e, a partire dal 1970, di Don McLean), che riempie gli spazi lirici,
lasciati liberi da Beatles e Rolling Stones, con una musica inaspettatamente dolce,
“silenziosa” e dai testi profondi e significativi. Per la prima volta nel corso della storia
della musica pop sono i testi, la poesia a venire in primo piano, con l’attenzione degli
ascoltatori che abbandona il “rumore” concertistico (ed anche di alcune registrazioni in
studio) e torna a concentrarsi ed a riflettere; un altro artista inglese – ma di origini
greche – che si rivolge al proprio pubblico non urlando o scandalizzandolo ma anzi
conquistandolo delicatamente è Cat Stevens, che avrà modo di sviluppare il proprio
linguaggio in maniera più coerente a partire dagli anni ’70.
Già dopo pochi anni comunque la corrente pop comincia a mutare la propria natura e
arriva a proporre indirizzi ed idee apparentemente inconciliabili con quelle degli esordi:
ciò denota un’evoluzione interna e un’estetica musicale in rapido mutamento; siamo nel
cruciale 1967, l’anno di “SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND” dei Beatles,
anno dopo il quale nella musica pop nulla sarà più lo stesso, e le nuove correnti (alcune
però effimere e destinate quindi a tramontare in poco tempo) – tra cui quella
“psichedelica” – fanno la propria comparsa. Emergono anche musicisti rock e pop che
provengono da ambienti classici o jazz, e quindi con una grande preparazione tecnica
che permette la creazione di repertori molto più complessi, con pezzi anche più lunghi
della lunghezza standard di un singolo. Gli artisti della nuova generazione sono spesso
grandi virtuosi del proprio strumento (si pensi ai chitarristi Eric Clapton e Jimi Hendrix) e
creano un salto di qualità notevole rispetto al passato: critica e pubblico colgono il
cambiamento soprattutto grazie all’affermarsi sulla scena di gruppi appartenenti al
genere progressive.
Negli stessi anni aumenta anche la disponibilità di registratori multitraccia, e ciò
permette in modo relativamente semplice la creazione di brani ed effetti complessi in
precedenza esclusivi degli studi professionali. Questo facilita parallelamente anche la
nascita delle etichette indipendenti con la possibilità di registrare album con un calo
notevole dei costi di produzione; in ambito domestico aumenta in modo considerevole la
diffusione degli impianti stereo in grado di riprodurre LP. La musica entra nella vita
quotidiana in maniera più profonda, e comincia anche l’interazione tra produzione
musicale ed altri mezzi di comunicazione, come cinema e teatro, che anticipano in
qualche misura la futura nascita del videoclip e delle emittenti televisive esclusivamente
musicali.
È stato giustamente scritto: “Il suono fisico è stato esplorato, le grandi composizioni del
sangue alla testa sono state scritte: e ora tocca alla mente dilatata [anche con l’ausilio di
droghe ed altre sostanze stupefacenti], ora tocca all’ipnosi e alla magia”[6]. Le stesse
sonorità trasparenti e chiaramente definite vengono abbandonate, tanto che “le chitarre
si abbandonano agli ‘effetti’ [e non a caso sono proprio di questi anni i primi pedali e il
primo ricorso a nuove dimensioni sonore anche con l’ausilio di mezzi vari che gli studi di
registrazione sono in grado di offrire] lasciando perdere ogni pudore, basso e batteria
simulano orgasmi e impossibili tempeste: e si scopre il fascino del collage, del ruotar
d’immagini e situazioni oltre ogni logica e vanità”[7].
L’universo sonoro è insomma ormai pronto ad accogliere le composizioni lunghe e
formalmente complesse, più nella struttura che sotto un profilo armonico, e che
superano abbondantemente la durata standard di 3 minuti dei 45 giri (formato che
proprio in questi anni comincia ad affermarsi), dei primi Pink Floyd – la cui musica è
“ricca di una dirompente capacità pittorica”[8] – di Syd Barrett, nel gruppo fino al 1968, e
Roger Waters.
Tra i prosecutori di un pop invece maggiormente “classico” o perlomeno più vicino allo
spirito iniziale, ecco l’esperienza dei Moody Blues (gruppo tra post Beatles e
progressive rock) e dei Procol Harum, entrambi attratti da un suono “pieno” ed
“orchestrale” negli arrangiamenti e con alcune intuizioni “barocche” poi riprese e
sviluppate a pieno alcuni anni più tardi da musicisti ruotanti nell’ottica glam, progressive
e non solo (vedi Emerson, Lake & Palmer, gli Jethro Tull), quando insomma nuove vie
saranno già state aperte e gli orizzonti saranno stati allargati rendendo labili i confini in
precedenza delineati, passando dall’India fino ai primi sussulti elettronici e dell’hard rock
(con gruppi come i Deep Purple, i Ten Years After e soprattutto i Led Zeppelin),
sottogenere in cui i riff chitarristici e l’elemento ritmico – associati ad un’immagine
volutamente scialba e trasandata – diventano i tratti caratteristici e predominanti.
Lo sviluppo musicale, l’apporto di nuove idee ed inedite forme di spettacolo – che
troveranno riscontro e influenzeranno la cultura pop degli anni seguenti – avviene con
altri gruppi, la cui importanza è tutt’altro che secondaria per le innovazioni proposte: tra
questi spiccano i Gentle Giant, gli istrionici King Crimson, i creativi Yes e i Genesis di
Peter Gabriel, capaci di sublimare ogni singola nota in una ricerca formale di indubbio
valore espressivo ed artistico.

Tra il 1971 e il 1972 comincia a ingenerarsi, nell’ambito del pop inglese


(come riflesso di una situazione più generale di crisi che investe le radici
stesse del rock), un periodo di profondi mutamenti. […] La generazione
nata musicalmente con i Beatles si era evoluta parallelamente al
fenomeno beat, […] fino a giungere ai grandi gruppi emersi tra il ’67 e il
’69 […]. La nuova generazione, invece, considera già i Beatles una
confusa leggenda, mitizza Hendrix […], nasce musicalmente con l’hard
rock dei Led Zeppelin, dei Deep Purple, dei Black Sabbath, nelle
orecchie. E, soprattutto, la nuova generazione reintroduce nel fenomeno
una dimensione teenager, che era andata perduta man mano che la
prima generazione di rock–fan raggiungeva la ventina. […] Rimane però
invariata la voglia di muoversi, scatenarsi, di avere degli idoli propri in
cui identificarsi, di avere una propria musica semplice, ritmica,
ossessiva, senza complessità o sottili sfumature intellettuali. Ecco
dunque il ritorno del rock’n’roll lineare e violento [che anticipa la
comparsa del fenomeno punk sulla scena inglese], ma nello stesso
tempo castrato alla base dall’industria del benessere: un rock’n’roll che
non sarà mai come quello originario […]. Il bisogno dell’idolo fa sì che il
cantante solista riprenda il sopravvento sul gruppo (ed ecco allora
imperversare Elton John, David Bowie, Brian Eno, Marc Bolan […]) [e]
l’anelito alla creazione si spegne negli stessi artisti più progressivi […].[9]

Si sviluppano nel frattempo altri gruppi e nuove sonorità che rispondono ad una nuova
estetica e ad una sensibilità diversa da quella degli anni precedenti;
contemporaneamente anche l’immagine del rocker (fondamentale già a partire da Elvis
Presley e dai Beatles nella connotazione di un modo di vivere) è pronta a mutare ed
evolversi, ed ecco così comparire sulla scena artisti travestiti o sessualmente ambigui.
Il loro peso nella moda e nel costume è più importante di quanto comunemente si creda,
e gli stessi musicisti sono pronti a sfruttare i media in modo molto profondo per
diffondere maggiormente la loro immagine: il rapporto della musica pop con i mezzi di
informazione è strettissimo, e negli anni seguenti si svilupperà in modo ancora più netto
con l’avvento del videoclip promozionale[10], la cui portata ha un’influenza emotiva
maggiore delle semplici apparizioni televisive o delle sbiadite foto sulle copertine degli
LP. Per queste nuove figure di artisti il

travestitismo [ed anche il loro esibizionismo] diventa reale operazione


spettacolare e culturale, con precisi riferimenti alla decadenza della
nostra epoca, alla sua estrema ambiguità ideologica, politica, sociale e
psicoemotiva. […] Nel rock degli anni Settanta si celebrano forse le
messe della suprema violenza: violenza contro i ruoli sessuali definiti [e
definitivi]; […] violenza spettacolare attraverso la gestualità deviata del
teatro dell’oltraggio; violenza, infine, nella musica […]. Questo
travestitismo, dunque, non è necessariamente identificabile, come
potrebbe sembrare a prima vista, esclusivamente con l’esaltazione
dell’omosessualità: oltre a questo, vi è soprattutto la derisione della
funzione sessuale in sé, il rifiuto disperato di assumere un’identità
precisa, il desiderio inconscio di abdicare dal troppo difficile ruolo di
persona per rifugiarsi in quello più irreale e irresponsabile di
personaggio, di entità umana indifferenziata e vagante. Simboli di
contraddizione, quindi, che soltanto in virtù di questo conquistato
indeterminismo possono assumere il diritto all’oltraggio, alla
provocazione, alla suprema violenza scenica [e verbale] ed emotiva nei
confronti dei normali, del sistema, della politica, dell’insensibile società
del benessere ormai prigioniera delle sue virtù troppo antiche. […] Il
gusto del travestito, morboso fascino sublimato da Oscar Wilde, antica
tradizione anglosassone, la cui sopravvivenza era stata finora assicurata
dai cabaret, esplode nuovamente, caricato da una nuova sconcertante
linfa drammatica […]. La lezione di travestitismo di [Andy] Warhol riveste
un’importanza enorme nel futuro caratterizzarsi del rock decadente. I
Velvet Underground [capitanati da Lou Reed fino al 1970] sono i grandi
mediatori iniziali tra travestitismo e rock.[11]

Già Elton John – e con lui anche Marc Bolan dei Tyrannosaurus Rex (noti anche
successivamente come T-Rex) – manifesta caratteristiche provocatorie (con espliciti
riferimenti al travestitismo ed alla propria natura omosessuale) nelle sue prime esibizioni
live, e presto il glam rock del camaleontico David Bowie e dei Queen[12], che già nel
nome sono ambigui e ammiccanti, lascerà una traccia nel costume oltre che,
naturalmente, nella musica.
Scrive Alberto Campo a proposito:

il glam rock – laddove glam è contrazione di glamour: fascino,


incantesimo – [è] un mosaico semantico a base di umore decadente,
ambiguità sessuale, contegno frivolo, abbigliamento appariscente e
cronico spleen. L’effetto d’insieme avrebbe sedotto senz’altro Oscar
Wilde […]. Fermento sottoculturale destinato a produrre oltremanica
alcuni grotteschi effetti secondari in classifica (Gary Glitter, Sweet,
Slade) e a deviare oltreoceano verso il travestitismo alcuni settori della
scena hard rock (New York Dolls, Alice Cooper, Kiss). […] Vero
iniziatore del fenomeno, e modello a cui lo stesso Bowie ammette di
essersi ispirato, fu Marc Bolan.[13]

Gli esordi dei Queen[14] – che sono formati dal cantante e pianista Freddie Mercury
(1946-1991), dal chitarrista Brian May (1947), dal batterista Roger Taylor (1949) e dal
bassista John Deacon (1951) – sono nella corrente hard rock di stampo inglese, e nei
primi anni ’70 vengono accostati e paragonati ad altri artisti contemporanei come i 10cc
e i Supertramp. La loro musica viene definita da parte di una certa critica italiana come
“rock di consumo”, anche se viene loro riconosciuto il merito di essere “andati sempre
raffinandosi”[15], in cerca di un proprio linguaggio espressivo.
In verità già a partire dal secondo album Mercury e compagni abbandoneranno
progressivamente il genere dell’hard rock tornandoci solo saltuariamente: la loro arte
infatti si aprirà e si lancerà verso altre direzioni che non escludono (ed anzi inglobano
sempre più frequentemente) la componente melodica, spingendosi in una ricerca
espressiva proseguita per quasi venti anni.
Figura 1 – I Queen nei primi anni '70

Alle radici musicali dei Queen si trovano sicuramente i Beatles, anche se limitati
elementi del quartetto di Liverpool si sono trasferiti nelle composizioni di Mercury e
compagni: è difficile dire quali sono i (pochi) punti di contatto tra le due band inglesi,
perché il più delle volte si tratta di influenze così marginali da non essersi poi
materializzate concretamente nei brani oppure di ispirazioni che nella forma definitiva
hanno perso la loro espressione iniziale. Soprattutto May conosceva ed apprezzava le
registrazioni giovanili dei Beatles (ed altri lavori solisti di John Lennon, in modo
particolare Jealous Guy) – come emerge da numerose interviste e da dichiarazioni varie
– anche se certo strumentalmente il chitarrista dei Queen deve essere stato affascinato
anche dalle produzioni degli Shadows.
Invece, dal lato opposto, la musica dei Queen, a causa della sua grande creatività e
dell’alto tasso di innovazione (o forse proprio grazie a questi elementi) – nonché di
ricchezza armonica, melodica e strutturale – non sarà a sua volta in grado di influenzare
direttamente molti artisti, tanto che praticamente nessun gruppo dopo di loro sarà
capace di proporre un numero così elevato di brani (tutti concepiti all’interno della band
sia sotto il profilo testuale sia per l’aspetto musicale, e tutti contraddistinti da una propria
ricerca stilistica ed espressiva).
I periodi della produzione discografica

I
Queen nella loro lunga carriera, iniziata con l’uscita sul mercato del primo album nel
1973 e conclusa con la tragica scomparsa del cantante Freddie Mercury nel 1991
(anche se ciò non ha escluso la comparsa di un album postumo nel 1995 con brani
inediti), hanno pubblicato quindici album in studio e solo tre dal vivo, quando invece
la loro attività concertistica – tra l’altro portata a termine nel 1986 – conta non meno di
704 concerti, il primo dei quali datato 27 giugno 1970.
Analizzando una produzione così vasta ed estesa per quasi tre decenni, è allora
possibile suggerire dei periodi in cui la loro discografia può essere divisa, all’interno dei
quali una certa sensibilità artistica e una ricerca espressiva rimangono costanti o
almeno su direttrici comuni:

Periodo I (1973–1976); comprendente gli album “QUEEN”, “QUEEN II”, “SHEER


HEART ATTACK”, “A NIGHT AT THE OPERA”, “A DAY AT THE RACES”. È il
periodo in cui il suono della band prende forma e diventa personale, abbandonando
le influenze e sviluppandosi in direzione autonoma. In questo breve intervallo di
tempo che contraddistingue la presente fase, grandi album (alcuni dei quali maturati
seguendo il criterio del concept album) e singole canzoni vedono la luce, tanto che si
può affermare che questo è sicuramente il migliore periodo del gruppo per ventata di
novità ed innovazioni sonore proposte. Vi sono, è vero, ancora talvolta tracce di
immaturità e grandi scompensi, ma ciò non limita in alcun modo il bagaglio creativo
di Mercury e compagni.
Periodo II (1977–1980); comprendente gli album “NEWS OF THE WORLD”, “JAZZ”,
“THE GAME”, “FLASH GORDON”. Il quartetto inglese cambia direzioni musicali e
decide di esplorare nuove sonorità (anche di stampo elettronico), sino a giungere
all’uso di un sintetizzatore[16] a partire da “THE GAME”: gli album perdono tutte le
sovraincisioni e gli abbondanti effetti propri di uno studio di registrazione ma
guadagnano in naturalezza e spontaneità, proponendo però nel contempo una
struttura più standard e cliché armonici di non particolare interesse. È una fase
invece fondamentale per le esibizioni live, che dopo le asprezze del primo periodo
raggiungono qui vette insuperate, con il gruppo ormai in giro per il mondo a proporre
la propria musica.
Periodo III (1981–1986); comprendente gli album “HOT SPACE”, “THE WORKS”, “A
KIND OF MAGIC”. La fase di progressiva semplificazione – si sono perse in questi
lavori le grandi costruzioni drammatiche della prima fase – continua anche in questo
periodo, che vede all’attivo relativamente pochi album, ai quali però danno tutti e
quattro i componenti del gruppo il proprio fondamentale apporto. Ma sono questi gli
anni in cui le carriere soliste si fanno largo (senza interferire tuttavia col progetto
“Queen”) ed in cui la band intraprende l’ultima tournée, il “Magic tour” del 1986
destinato a rimanere tra i migliori in assoluto del gruppo, sebbene i lavori in studio
non siano – se non con l’eccezione di alcuni pezzi – all’altezza dei precedenti e
siano spinti anzi verso un’ottica più commerciale e di minore ricerca espressiva (in
particolare “HOT SPACE” è universalmente riconosciuto come il peggior album in
assoluto dei Queen).
Periodo IV (1989–1995); comprendente gli album “THE MIRACLE”, “INNUENDO”,
“MADE IN HEAVEN”. Si tratta di un periodo particolare, in cui gli album sono a lungo
maturati (è evidente la rarefazione dei lavori in studio col passare degli anni) e
portano – almeno nei primi due LP – le firme di tutti e quattro i componenti. I brani
ritrovano una propria originalità e la carica espressiva denota una sensibilità
ritrovata; le canzoni stesse dimostrano di essere praticamente tutte di altissimo
valore, chiudendo in tal modo idealmente la parabola artistica e creativa iniziata nel
1973.
La struttura e la forma dei brani

A
nalizzare un brano, una canzone o comunque un qualunque pezzo musicale
significa innanzitutto partire dalla sua strutturazione, osservando in quale
posizione si trovano gli elementi interni costituenti e in quale rapporto si
situano gli uni rispetto agli altri. Quando si parla di canzoni pop,
essenzialmente due sono i modelli cui si fa riferimento[17], in quanto compaiono con una
frequenza maggiore rispetto ad altre possibili soluzioni formali:

1. Modello (Verse) - Chorus - Bridge (CB), anche noto come Tin Pan Alley Song; il bridge è
spesso denominato anche col termine di middle-eight, in quanto formato solitamente da 8
battute. Tale modello è generalmente caratterizzato dalla riduzione delle ripetizioni e presenta di
conseguenza un’accelerazione della varietà. Lo schema più comune di un brano che presenta
tale modello è: C – C – B – C – B – C, dove talvolta una delle sezioni C, specie in prossimità di
fine pezzo, è in forma strumentale.
2. Modello Strofa - Ritornello (SR), particolarmente radicato in Italia e soprattutto nelle canzoni
partecipanti al Festival di Sanremo e appartenenti al repertorio della canzone napoletana,
sebbene non manchino illustri esempi anglosassoni. A differenza del modello precedente, in una
canzone basata su questo schema le ripetizioni aumentano la propria frequenza in coda, dando
solitamente origine alla seguente forma: S – R – S – R – R.

I due modelli sopra presentati si distinguono in modo netto per la posizione del centro di
maggiore interesse musicale (e testuale), che se nel modello CB è ad inizio brano col
chorus, nel modello SR è invece presente alla fine dello stesso, e ciò porta a risultati
estetici diversi e ad un differente impatto nei confronti dell’ascoltatore:

I due schemi si servono di strategie dell’attenzione e della fascinazione


molto diverse. Lo schema SR è discorsivo, coinvolgente additivo,
finalistico; il piacere (la bella melodia, l’inciso accattivante, i versi
indimenticabili) è la conseguenza di un percorso […]. In termini
psicoanalitici, corrisponde alla soddisfazione di un piacere orale. […] Lo
schema CB è esclamativo, distaccato, sottrattivo, orientato all’inizio,
piuttosto che alla fine; il piacere è immediato, ma la sua fonte, dopo
essere stata presentata, rivelata in tutti i suoi aspetti, ripetuta per una
migliore assimilazione, viene sottratta e sostituita dal grigiore […]. Un
piacere anale–ritentivo, come forse lo vedrebbe lo psicanalista. […] La
struttura CB è chiusa, senza evoluzione […]; la struttura SR può
gonfiarsi, accumulare nuovi elementi, esplodere. Basata com’è sulla
crescita, la struttura SR assolve alla sua funzione se testo e musica
sviluppano al meglio le loro capacità narrative.

Questi due modelli sono quindi complementari e speculari, ma l’insieme da essi formato
non esclude in alcun modo la totalità delle soluzioni adottate nel corso degli anni dai
musicisti: infatti sono possibili anche altre strutture, come quelle aperte o acicliche (in cui
nessuna sezione ritorna ripetuta) od altre associabili alla suite o alla forma sonata di
stampo classico, o altre ancora che non prevedono una netta dicotomia tra strofa e
ritornello ma anzi una sola sezione principale che assume le funzioni di entrambe; dallo
spettro delle forme possibili assumibili da un brano non è nemmeno da escludere uno
schema – associabile al rondò – in cui una sezione torna più volte nel corso del brano a
conferire unità interna: si tratta comunque sempre di strutture particolari che richiedono
un ascolto reiterato per essere colte in tutta la loro portata.
Molte delle canzoni dei Beatles (almeno fino all’LP “RUBBER SOUL”) sono basate sul
modello CB, tanto che il loro rapportarsi con questa struttura si è quasi tramutato in un
processo di identificazione, cosa questa che invece non avviene in altri gruppi
contemporanei come gli Animals, i Rolling Stones e gli Who, più portati invece verso il
modello SR. Certo la scelta della forma è generalmente collegata con il soggetto
testuale, e quando i versi presentano un contenuto generico il modello che si usa più
spesso è proprio CB; ma se invece ci si riferisce alle comedy songs, che raccontano
esperienze personali (e una maturazione interna di tipo narrativo), allora tale modello
dimostra la propria inefficacia drammatica e deve essere pertanto sostituito dal modello
SR o da altre soluzioni, le quali però devono avere la caratteristica di non esaurire tutta
la propria portata nei primi secondi o nella prima sezione, in modo da mantenere la
tensione (e quindi l’attenzione dell’ascoltatore) costante.
Viene spontaneo chiedersi quale sia il modello maggiormente usato dai Queen almeno
nelle fasi iniziali della loro carriera, e stupisce rilevare come né il modello CB né quello
SR compaiano praticamente mai, nelle loro forme canoniche, nelle canzoni di Mercury e
compagni. Generalmente il gruppo non presenta il ritornello-chorus all’inizio del pezzo, e
questo permette di costruire una drammaturgia interna ad ogni singolo brano, in quanto
il materiale melodicamente (o armonicamente) più interessante non viene esaurito
subito ma viene invece attentamente “conservato” per essere poi esposto in tutta la sua
carica espressiva.
Le strutture usate con maggior frequenza dai Queen, anche se per ogni singolo
componente del gruppo si potrebbe fare un’analisi più dettagliata, si avvicinano in modo
più evidente – ma non lo ricalcano esattamente – al modello SR, anche se vi apportano
alcune modifiche sostanziali, come il presentare talvolta il ritornello in forma strumentale
(caratteristica mediata questa dal modello CB) o l’inserire alcune sezioni contrastanti
(con talvolta modulazioni), o ancora spezzare le sezioni in più sottosezioni e usarne di
queste solo alcune, talvolta non secondo l’ordine originale; altri espedienti vanno
dall’accorciamento di alcune sezioni all’estensione di alcune di esse, dall’uso di melodie
diverse per sezioni funzionalmente simili (e non, dando luogo ad una trasposizione della
linea melodica) all’adottare una medesima progressione armonica per parti diverse.
Fondamentale è poi l’uso del mezzo stereofonico, che non viene usato come semplice
espediente aggiuntivo ed accessorio (come ancora avveniva ad esempio negli anni ’60),
ma si configura anzi come un altro elemento su cui viene costruita la drammaturgia dei
brani – ed il loro dinamismo – in stretto contatto con la struttura stessa della canzone.
Non esiste un vero e proprio modello cui i Queen hanno fatto sempre riferimento,
perché la loro libertà creativa era tale da dare ad ogni brano una forma unica ed una
struttura inedita, che talvolta univa le caratteristiche dei due modelli principali di canzone
sopra citati e talvolta invece ne presentava di nuove ed assolutamente inedite nel
panorama musicale.
Vero è che nella maggioranza dei brani dei Queen esiste una sezione dedicata
all’assolo della chitarra di May o comunque all’emergere di parti strumentali, ma in
generale ogni modello o schema prestabilito è abbandonato in modo tale che la
canzone si plasmi ogni volta in una forma personale, rispondendo così anche più
coerentemente al contenuto testuale; le stesse parti strumentali talvolta riprendono,
melodicamente, i contenuti della voce cantante (sia che questa appartenga al verse sia
che faccia parte del chorus), ma spesso propongono anche nuove idee inserite però
sempre coerentemente nel flusso musicale, senza mai stravolgerlo; considerazioni
analoghe valgono per le introduzioni o le code strumentali, le quali a loro volta possono
essere bipartite e fungere quindi da ouverture al brano stesso.
Questo modo di lavorare è eminentemente drammatico e permette una grande varietà
(virtualmente infinita) di situazioni che possono essere presentate e poste in scena; la
fantasia del gruppo non conosceva inoltre limiti, e specie nelle fasi iniziali della carriera
anche un certo livello di sperimentalismo interveniva direttamente sulla struttura dei
brani: alcuni di essi, infatti, erano “baroccamente” costruiti su singole sezioni che non
tornavano mai una seconda volta (schema A – B – C – D – E, ad esempio) e che
permettono quindi un ascolto continuamente autorigenerantesi e che mai si blocca o
presenta sezioni (o anche solo parti di testo) già sentite in precedenza. La cosa
sorprendente è però la forma assunta dai brani nella riproposta dal vivo, in quanto alcuni
di essi variavano profondamente la propria struttura: questo processo poteva avvenire
con la semplice elisione di alcune sezioni (specie quelle finali, in modo da rendere il
pezzo più breve e leggero), oppure stravolgendo la forma stessa della canzone che si
apriva e raccoglieva in sé le sezioni di un altro pezzo, venendo a creare quei medley
caratteristici dei concerti degli anni ’70, per poi richiudersi in modi sempre diversi e non
schematizzabili.
Il maggiore sforzo creativo dei Queen è stato insomma quello di raggiungere un
equilibrio nei loro pezzi pur facendo uso di una struttura della canzone che non
prevedeva sezioni ripetute o sezioni dalla consueta funzione (o strofa o ritornello), ma
anzi strutture sempre cangianti, che rispondevano meglio alla portata del brano stesso e
ne concentravano la carica emotiva in un particolare punto; allo stesso tempo la durata
di un brano era direttamente proporzionale al contenuto drammatico e quindi poteva
variare da pezzi lunghi poco più di un minuto a costruzioni più complesse di oltre 8
minuti, il tutto presente ad esempio sullo stesso LP.
Le soluzioni – alcune delle quali è pertanto giusto definire drammaturgiche – adottate
per ogni singolo brano sono inoltre coerentemente inserite in un preciso disegno che
riguarda l’importanza che i pezzi assumono all’interno della scaletta dell’album: il loro
ordine è perciò essenziale alla creazione non solo dei concept album, ma permette
anche nei lavori più tradizionali una valida altimetria emotiva e una continua proposta di
situazioni fra le più varie ed apparentemente incompatibili con una trattazione in musica.
Le variazioni come nuovo “originale”

Q
uando si analizzano canzoni appartenenti al genere pop, ci si trova di fronte
ad un oggetto di studio che la maggior parte delle volte è un dato oggettivo e
finale, in quanto esiste una registrazione fedele cui si fa riferimento, e tale
approccio – basato principalmente sull’ascolto – tende a sminuire o a fare
passare in secondo piano un’eventuale partitura scritta. Questa è una caratteristica
propria della musica popular, quella della sua riproducibilità teoricamente infinita in ogni
luogo ed in ogni tempo, che rischia però al contempo di “congelare” in modo definitivo
una sola esecuzione (la prima di un brano, o l’adattamento più famoso), tralasciando
ogni possibile variante della stessa. Scrive Richard Middleton a riguardo:

Senza dubbio possiamo dire che il disco registrato è finito, fissato e


oggettificato come l’esecuzione orale non potrà mai essere; ed è infatti
ironico, in questo senso, che la registrazione sia rappresentativa di una
forma estrema di astrazione reificata (che conduce alla potenziale
alienazione del produttore e del consumatore) molto più di quanto lo
possa essere la partitura. L’immediatezza del “parlato” musicale viene
congelata su una “stampa” elettronica, producendo un’“edizione
acustica”.[18]

È invece necessario analizzare le variazioni cui un brano è andato incontro nel corso
degli anni e occorre pertanto concentrarsi – tralasciando per ovvi motivi le cover di altri
artisti (che si situano su un altro piano e coinvolgono poetiche diverse) o lavori di
mixaggio sul brano originale non concepiti dagli autori dello stesso – sulle versioni
presenti in particolar modo nei concerti ed interpretate dagli artisti originali.
“Esattamente come per le canzoni ‘folk’, quindi, il valore e il significato delle canzoni
popular può essere stimato solo parzialmente sulla base di una qualsiasi singola
versione; anche la loro successiva vita nella tradizione deve essere presa in
considerazione”[19].
Proprio durante le esibizioni live infatti i musicisti riprendono i propri pezzi, adattandoli
spesso in modo simile alla versione dell’album, ma spesso reinterpretandoli totalmente
(lasciando comunque presente un necessario sostrato di riconoscibilità), a livello
musicale o testuale[20]: questa caratteristica è in particolar modo evidente nei Queen, in
quanto le variazioni live di alcuni pezzi hanno così tanta personalità da superare la
versione registrata in studio e da porsi così come nuovi “originali” da cui partire per
eventuali ricerche e studi analitici; non solo, ma spesso la stessa struttura della canzone
viene profondamente mutata e il brano viene perciò ascoltato in una nuova ottica.
La riproduzione, ora [nella musica rock], rappresenta l’originale,
l’esecuzione dal vivo viene paragonata alla registrazione, e l’attrezzatura
tecnica è considerata non un aiuto esterno per la riproduzione ma una
caratteristica dell’originale musicale, utilizzata come prodotto artistico.[21]

Certo la ripresa in concerto di alcune canzoni va incontro anche ad alcune difficoltà


tecniche, come l’impossibilità di sovraincisioni o l’essere costretti a usare strumenti non
troppo particolari o che non potrebbero rendere adeguatamente il proprio suono di
fronte ad un pubblico, ma superati questi ostacoli iniziali è possibile riprendere un
pezzo, modificarne la struttura in modo più o meno profondo (sino ad includerlo in un
medley con altri brani senza soluzione di continuità), apportarne delle introduzioni
improvvisate, rivederne l’organico strumentale o cambiare anche la voce solista che ha
il compito di interpretarlo: tutti questi sono elementi che si riscontrano nelle versioni live
delle canzoni dei Queen.
L’esecuzione musicale (anche quella relativa ad un solo concerto o ad una sola serata)
è insomma un dato di studio fondamentale che non può essere scisso dal panorama
della musica popular, proprio perché ne è parte integrante come mai era avvenuto in
precedenza nel corso della storia della musica. Scrive a tale proposito Richard
Middleton:

Un’altra conseguenza dell’“assolutismo” storico di Adorno è la


sottovalutazione dell’esecuzione musicale, quando invece in quasi tutti i
tipi di popular music (come in gran parte delle musiche non europee)
l’importanza della variazione e della creazione sul momento è
fondamentale. La crescente dipendenza dalle partiture scritte della
musica colta europea durante il XVIII e XIX secolo ha condotto a uno
sviluppo differenziato di alcuni elementi del linguaggio musicale, mentre
la sostituzione delle canzoni popular in forma scritta con le registrazioni
ha incrementato l’importanza dell’esecuzione, e con essa degli elementi
diversi.[22]
Modulazioni “drammatiche” e cliché armonici

I
n particolar modo durante le prime due fasi della loro produzione, i Queen erano
soliti costruire i brani ricorrendo a particolari strutture tali da rispondere in modo
coerente ed organico al testo ed al suo messaggio, sì che si venisse a creare un
compiuto equilibrio tra tutti i vari elementi costituenti una canzone.
Come è logico supporre, ad una forma del pezzo particolarmente complessa e
caratterizzata talvolta da sezioni dalle peculiari funzioni (non assimilabili né al modello
CB né a quello SR), si associano anche progressioni armoniche talvolta inusuali, che
associate a modulazioni improvvise contribuiscono in modo univoco a rendere la
drammaticità del pezzo stesso: a partire dai temi della forma sonata che compivano una
sorta di itinerario psicologico prima di arrivare alla loro ripresa (sentita dall’ascoltatore
come un’oasi di pace e insieme di sfogo liberatorio grazie alla risoluzione del conflitto
tonale) dopo il loro sviluppo e la loro prima esposizione, la modulazione è sempre stata
impiegata nella storia della musica con fini sostanzialmente drammatici da parte dei
compositori.

In quanto musica d’azione per eccellenza che esprime la sua forza


dinamica attraverso le leggi di permanenza e variazione, causa ed
effetto, il sonatismo classico è quindi costituzionalmente predisposto al
teatro. […] I veri protagonisti della forma sonata non sono né i temi […]
né le zone di tensione tonale […]. Il dinamismo della forma sonata sta
invece in un rapporto fortemente dialettico tra due principî fissi e
ineludibili, i soli in cui è veramente possibile ravvisare le condizioni a
priori della forma stessa: da un lato il materiale melodico, ritmico e
armonico preso nel suo complesso come forza dinamica in espansione,
dall’altro la forma che lo contiene. Sin dal momento in cui viene
presentato, il materiale della sonata classica [e, parallelamente, quello di
una canzone dalla struttura generica SR] si qualifica per un’irresistibile
tendenza a svilupparsi […]. Se fosse quindi abbandonato alla sua
tendenza centrifuga il discorso perderebbe ogni contorno in una sorta di
torrentizia e incontrollabile moltiplicazione interna: questa energia
espansiva viene invece a scontrarsi con una forma formante che la
incanala, come un fluido ad alta pressione, entro lo schema tripartito e
l’itinerario armonico prefissato.[23]

Questo uso e una simile strutturazione generale non sono del tutto esclusi nella musica
pop (ma viene nel contempo anche semplificato e di conseguenza accorciato il discorso
sotto il profilo armonico e della dicotomia tonica-dominante), anche se certo analizzando
molti brani si nota come gli stessi non siano semplicemente formati che da pochi accordi
o da un giro armonicamente banale che non comprende modulazioni di sorta (e quindi
tanto meno salti emotivi espressi a livello musicale); è in parte vero che la funzione
drammatica della modulazione è stata sostituita dal testo e dal suo contenuto –
accessibile a tutti immediatamente, anche ai non musicisti – ma i brani che possono
vantare anche un valido impianto armonico, oltre ad avere un valore strettamente
musicale maggiore (indipendentemente dal testo e dalla sua portata), hanno la
caratteristica di presentare una situazione emotiva in modo duplice e quindi con
maggiore riscontro sull’ascoltatore stesso: oltre al primo livello che viene sfondato
(quello del testo e dell’ascolto distratto), ne entra in gioco anche uno psicologico che,
pur agendo inconsciamente (o forse proprio grazie a questa sua caratteristica), ha una
indubbia funzione e un’influenza non trascurabile.
I Queen in alcune canzoni – non necessariamente lunghe più della media – arrivano ad
usare fino a 7 tonalità diverse (incluse quelle enarmoniche), e questo è un numero
relativamente elevato, soprattutto se confrontato con produzioni contemporanee (e non)
appartenenti alla musica pop[24] e ancor più se rapportato ai pezzi trasmessi dalle
emittenti radiofoniche: anche un uso così elevato dell’apparato armonico è però
funzionale all’espressività di un brano e non è assolutamente un vano sfoggio di abilità
compositiva, in quanto ogni singola modulazione ha una propria finalità estetica ed è
inserita coerentemente nel flusso musicale, in modo tale che non appare mai forzata ma
sempre come logica conseguenza di ciò che si è già ascoltato; di conseguenza un
numero così elevato di tonalità si associa più facilmente a brani dalla forma aciclica o
strutturalmente basati su un modello tipo suite, poiché le semplici strutture CB o SR
sono meno adatte ad accogliere frequenti mutamenti tonali, se non in prossimità della
presentazione di una nuova sezione funzionalmente contrastante.
Il fatto più sorprendente è che però i Queen usano un numero elevato di centri tonali (e,
parallelamente, di accordi diversi) in brani molto brevi, alcuni dei quali non superano i 3
minuti di durata: ciò permette una continua invenzione melodica e armonica che non
confonde l’ascoltatore, ma lascia sempre su livelli altissimi il suo grado d’attenzione,
perché non esistono momenti musicalmente poco interessanti, in quanto anche le oasi
di pausa e di transizione sono coerentemente concepite e aiutano le diverse sezioni a
raggiungere la perfezione formale; non esistono insomma parti tese a far quadrare la
forma musicale, ma il rapporto tra testo e musica si plasma continuamente assumendo
forme sempre cangianti ma che bene rispondono alla ricerca di espressività insita in
ogni singolo pezzo musicale.
Accanto al livello delle modulazioni – che investe il brano nella sua struttura tanto da
predefinirne la forma e modellarla (nei Queen solitamente le modulazioni avvengono in
corrispondenza del chorus, della parte strumentale o di una sezione contrastante) –
esiste poi l’elemento dei modelli armonici utilizzati nei brani. Anche in questo caso
Mercury e compagni si dimostrano musicisti di assoluto valore, perché in grado di
proporre delle combinazioni di accordi abbastanza inusuali nel contesto della musica
pop; ecco di seguito presentate alcune progressioni armoniche di uso frequente nella
loro musica:

I > vi > ii > V


I > V > vi (con basso discendente e l’accordo centrale presente in diverse varianti e rivolti)
I > iii > vi > ii > V > I
I > V > bVII > IV
I>i>I
IV > V > bVII (con una discesa cromatica simile a quella data da I > II > IV)
IV > vi > V/V > IV > V (presente soprattutto nei brani scritti da Deacon)
bVI > bVII > I (in forme cadenzali)
bVII > IV > I (doppie cadenze plagali, soprattutto a partire dalla terza fase della produzione)

Altri cliché, direttamente mutuati ad esempio dalla musica jazz degli anni ’30 o da altri
precisi stili musicali (come il caratteristico I > III > IV del blues), sono di raro uso e
vengono principalmente impiegati in canzoni particolari per creare determinate
atmosfere o richiamare ambientazioni esotiche e lontane tanto nello spazio quanto – più
frequentemente – nel tempo.
Curiosamente non compare invece mai nella discografia dei Queen uno dei cliché
armonici più frequenti della musica pop (e alla base di molte canzoni), quello costruito
sulla successione I > vi > IV > V, e che è entrato nell’uso in modo particolare a partire
dagli anni ’50 del ventesimo secolo.
Quale drammaturgia?

P
arlare di “drammaturgia musicale” per un genere musicale come quello pop –
solo apparentemente lontano e slegato da una rappresentazione scenica, non
è in alcun modo una forzatura o un abuso concettuale. Vero è che il dramma
esiste nel momento in cui ci sono delle figure che agiscono e si rapportano
vicendevolmente seguendo i più o meno rigidi dettami di una narrazione (il termine
greco δραμα significa “fatto, azione drammatica, effetto teatrale”); ma la stessa funzione,
con i relativi risvolti, non esclusi quelli di stampo psicologico, può essere assunta nella
musica pop e rock da una singola canzone o da un insieme di esse.
Infatti, ogni brano si presenta ricco al proprio interno di figure, situazioni e personaggi
che vivono una propria narratività – sia in prima che in terza persona – e che si
sviluppano sotto il profilo emotivo, tanto che la struttura stessa del pezzo musicale (a
partire dalle comedy songs) risponde a questa esigenza, che è in primo luogo di natura
narrativa: la forma del brano riproduce insomma in sé la forma drammatica. Inoltre, la
canzone diventa, nell’ottica più ampia dell’album, un elemento con le proprie peculiarità
che si confronta con gli altri pezzi registrati in una reciproca esaltazione; questo
procedimento prende allora vita su LP (il discorso per altri supporti è analogo, ma vanno
fatte le dovute differenze, come considerare la singola ed unica facciata del CD) e si
spinge fino a configurare grosse creazioni musicali – ricche di contrasti espressivi e
stilistici – particolarmente evidenti nelle produzioni dei Queen ed in generale nei concept
album: così la chiave di lettura per “QUEEN II” è essenzialmente di tipo narrativo (la
figura della regina compare in entrambe le facciate, ma non si tratta di un manichino
statico quanto di un vero personaggio con le proprie evoluzioni psicologiche), mentre
quella di “A NIGHT AT THE OPERA” è essenzialmente di tipo musicale (in quanto ogni
brano rappresenta un piccolo universo sonoro ed è esemplificativo di un genere, sì che
il progetto complessivo appare legato da una coerente ed organica ricerca di unità nella
varietà).
Ma quali che siano i modi con cui si analizza un album di questo tipo, le canzoni ed il
loro ordine di apparizione soprattutto sono fondamentali[25] perché sono testimoni di un
progetto inteso su scala più larga e doppiamente strutturato: ad un primo livello
compaiono infatti i singoli brani con le rispettive peculiarità e il rapporto che instaurano
con gli altri pezzi (elemento estrinseco), e ad una lettura più approfondita proprio le
canzoni contengono uno sviluppo interno (elemento intrinseco), sì che la relazione
avviene ad un duplice livello e permette l’instaurarsi di un discorso di tipo
drammaturgico. Non è pertanto errato avvicinare ed associare le canzoni alle scene di
una rappresentazione teatrale, proprio perché simile è la funzione che vengono ad
instaurare con la struttura dell’LP, tanto che il loro ordine e la loro disposizione non può
e non deve essere assolutamente modificata, pena la perdita della complessa ricerca
stilistica e formale all’interno di una concezione organicamente concepita.
Alle considerazioni sopra esposte va poi aggiunta la componente importante
rappresentata dalle scalette dei concerti: anche in questo caso infatti i brani – almeno
per quanto riguarda i Queen – hanno una loro funzione precisa all’interno dell’esibizione
live, tanto che alcuni di essi nel corso degli anni manterranno sempre la medesima
posizione in scaletta, segno questo di un progetto su vasta scala che non lascia il posto
alla casualità. L’esperienza del concerto esalta poi, con l’uso della scenografia, dei
costumi, degli effetti e dell’illuminazione, le caratteristiche specifiche di ogni singolo
brano, e lo porta materialmente al centro della scena (alla stregua di un vero
personaggio teatrale), rapportandolo in maniera indissolubile con le altre canzoni della
scaletta.
Le canzoni stesse, e i personaggi che grazie ad esse prendono vita e si sviluppano, in
questo senso “agiscono”, sia che appartengano ad un LP, sia che ricoprano un ruolo
nella scaletta di un concerto, e non sono fredde riproposte narrative, quanto veri e propri
microcosmi – a livello di monadi significanti – che presentano situazioni ed eventi non
solo metaforicamente riferibili a situazioni teatrali, ma totalmente riconducibili a questi
sotto il profilo funzionale e dell’evoluzione psicologica interna: come un singolo
personaggio che compare più volte sulla scena svela aspetti diversi della propria
personalità e si rapporta con l’ambiente che lo circonda, allora anche un brano che
sviluppa più sezioni che ritornano (sotto un profilo musicale) e protagonisti presentati nel
testo (sotto un profilo narrativo) assume una forte demarcazione psicologica,
ulteriormente accentuata se la canzone in questione è sottoposta nelle esibizioni dal
vivo ad una nuova forma e struttura che ne mostrano nuovi risvolti, e l’ambiente col
quale si rapporta è quello determinato dalle canzoni che lo precedono e lo seguono in
scaletta.
E non si vede migliore schema concettuale per evidenziare e sottolineare rapporti così
precisi e sottili se non quello di “drammaturgia musicale”, proprio perché le canzoni si
relazionano a diversi livelli (espressivi, stilistici, formali, strutturali, testuali e funzionali)
alla stregua di personaggi che agiscono. Infatti la disposizione delle scene in teatro è qui
sostituita dall’ordine dei pezzi musicali nella scaletta (sia essa dell’LP o di un concerto),
il carattere dei personaggi è presente nell’evoluzione cui vanno incontro i brani sia sotto
il profilo musicale sia sotto quello della narrazione (con i loro personaggi), la struttura
dell’azione è mutuata nel progetto complessivo del concept album e dell’esibizione live,
mentre il rapporto tra diegesi e mimesi è trasferito a quello tra testo e riscontro musicale
(e non si tratta di un’interazione sempre finalizzata a risultati naturalistici, ma anzi
dell’emergere di un’espressività che nei diversi artisti ha dato luogo ai risultati più unici e
personali).
Il fattore melodico

A
ccanto alla ricchezza armonica da un lato e all’uso particolare delle
modulazioni dall’altro (che denotano, insieme alla struttura assunta dal brano,
una ricerca espressiva definibile come drammatica), nella musica dei Queen
si assiste ad un trattamento particolare anche dell’aspetto melodico correlato
alla parte cantata. Come ha infatti dimostrato uno studio – intitolato emblematicamente
“The Queen anomaly”[26] – l’uso che Mercury e compagni fanno dell’aspetto melodico è
quantomeno particolare e si discosta completamente non solo da altri lavori
contemporanei, ma in genere dalla musica pop nel suo insieme e in modo più preciso
dalle canzoni dei Beatles.
I Queen sono probabilmente il gruppo che ha scritto in assoluto le canzoni tra loro più
diverse, evitando al massimo una ripetitività, tanto a livello armonico e melodico, quanto
sul piano strutturale: ciò dimostra un indice di personalità notevole, che si estrinseca e si
rispecchia in particolar modo – almeno ad una prima analisi e all’ascolto – sulla
componente melodica. Sin dagli inizi la ripetizione in musica è sempre stata un
importante elemento delle canzoni e delle composizioni in generale: lo stesso Richard
Middleton ha parlato della musica come di “arte dell’iterazione”.

Nella pop music moderna l’importanza della ripetizione è ulteriormente


cresciuta [rispetto ad esempio ad un brano di musica classica, in cui la
ripetizione era fondamentalmente più strutturale e mai “gratuita” o tesa a
far quadrare la forma], poiché il successo di una canzone dipende dalla
facilità con cui la stessa può venire memorizzata. La maggioranza delle
persone memorizzano le canzoni dall’interpretazione vocale che viene
data alle liriche (o a parti di esse) e, ancora più sovente, dal canticchiare
le linee melodiche. Di conseguenza, affinché una canzone abbia
successo, è cruciale che abbia almeno una linea melodica o un riff
orecchiabili. […] Anche mancando di parti veramente orecchiabili una
canzone, certamente, ha ancora la possibilità di entrare in classifica, se
il suo testo è particolare [o trattato in modo particolare] come nel rap, o
anche se il video e gli interventi promozionali sono efficaci. Come
regola, comunque, una linea melodica orecchiabile è una condizione
necessaria per il successo di un brano.[27]

La ripetizione contribuisce quindi – a partire dal livello psicologico – a determinare non


solo il target sociale cui il prodotto sonoro è dedicato, ma anche l’eventuale successo
dell’interprete della canzone: pare infatti esista una sottile relazione che collega
l’apprezzamento di una melodia e il numero di volte in cui essa è ripetuta nel corso del
brano.
Anche in questo caso i Queen assumono una posizione particolare nel panorama
musicale pop, in quanto raramente le loro canzoni presentano più di tre chorus (che, per
la loro funzione formale, concentrano in sé il maggior impatto melodico e sono pertanto
le sezioni più orecchiabili e facilmente memorizzabili), pur in brani divenuti poi celebri
inni, come We Will Rock You e We Are The Champions: il gruppo inglese tende a non
abusare mai eccessivamente del fattore melodico, e anche questa considerazione può
spiegare la relativamente lenta accettazione delle loro produzioni, in modo particolare
nel mercato statunitense[28]. Controprova di queste considerazioni è il fatto che proprio
tre delle loro canzoni con la maggiore ripetizione interna di un profilo melodico (We Will
Rock You, Another One Bites The Dust, Crazy Little Thing Called Love) furono i loro
maggiori successi negli Stati Uniti.
Una delle loro canzoni meno ripetitive, nonché il loro capolavoro, Bohemian Rhapsody,
raggiunse non a caso solo la nona posizione oltreoceano (e la vetta della classifica
anglosassone), mentre nello stesso anno (il 1975) canzoni dalla base disco e totalmente
ripetitive – come That’s The Way (I Like It) di KC e The Sunshine Band – non ebbero
problemi a diventare delle hit di vaste proporzioni; un discorso analogo vale per Under
Pressure (in testa alle classifiche inglesi ma ferma alla posizione 29 negli Stati Uniti), e
tutto ciò dimostra come il mercato dei singoli statunitense non fosse all’epoca un posto
ideale per una band formalmente complessa come i Queen, in quanto ogni innovazione
di tipo musicale era accolta con una certa dose di scetticismo. Escludendo da questo
studio l’analisi delle canzoni dei Queen maggiormente ripetitive – che si concentrano in
modo particolare nell’album “HOT SPACE” e nelle ultime due fasi della loro produzione
– e tralasciando i brani che presentano assoli o sezioni con la melodia presa a prestito
dalla voce cantante, occorre allora concentrarsi, per dimostrare oggettivamente in quale
misura le composizioni del gruppo inglese siano lontane da uno standard compositivo,
sul “fattore melodico”, e cioè sulla durata effettiva in secondi della melodia appartenente
alla voce cantante, con l’esclusione delle parti strumentali (siano esse intere zone
musicali o semplici assoli di passaggio), delle parti parlate e delle frasi semi-melodiche,
nonché di eventuali sezioni ripetute, come strofe o ritornelli: ciò significa tenere in
considerazione non solo la parte effettivamente cantata di un brano, ma anche il filtrare
la stessa in modo da lasciarne trasparire il solo ed univoco contenuto melodico.
Basandosi allora sulle misurazioni di Denes Pinter sull’intera produzione dei Queen (con
l’esclusione dell’album “FLASH GORDON” che costituisce una colonna sonora, dei brani
esclusivamente strumentali e degli inediti), è possibile notare come il “fattore melodico”
si sviluppi nel corso delle 148 canzoni analizzate; da mettere poi in rilievo e confrontare i
risultati ottenuti con 125 delle canzoni maggiormente programmate dalle radio
commerciali, e con 5 album della produzione dei Beatles: “PLEASE PLEASE ME”
(1963), “REVOLVER” (1966), “SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND”
(1967), “THE WHITE ALBUM” (1968), “ABBEY ROAD” (1969).

ALBUM Minimo Massimo Range Media Deviazione


standard
PLEASE PLEASE ME 15 27 12 20.9 5.1
REVOLVER 7 36 29 17.7 6.8
SGT. PEPPER’S 12 40 28 26.6 9.3
THE WHITE ALBUM 3 45 42 22.9 9.4
ABBEY ROAD 8 52 44 23.0 10.8
Totale 3 52 49 22.5 22.5

La canzone dei Queen con il maggior fattore melodico è Bohemian Rhapsody che con i
suoi 165 secondi di contenuto esclusivamente melodico praticamente ricopre l’intera
gamma del primo album dei Beatles e delle sue 8 canzoni costituenti: certo vanno
considerate anche le lunghezze dei singoli brani, e va riconosciuto come le canzoni di
“PLEASE PLEASE ME” abbiano una durata media di un paio di minuti, mentre la sola
Bohemian Rhapsody ne dura quasi 6.
Tuttavia, sono dati numerici interessanti quelli che vengono proposti, come quello che
dimostra come esistano più di 40 canzoni dei Queen con un fattore melodico uguale o
superiore ai 50 secondi, valore questo che denota una ricerca di parti “orecchiabili” e
cantabili non indifferente[29]; al tempo stesso 17 canzoni (corrispondenti all’11,6% del
campione considerato, una percentuale questa relativamente bassa e con un’incisività
di poco conto) hanno un fattore melodico inferiore ai 20 secondi. Il rimanente 62,5%
delle canzoni scritte dal quartetto inglese ha un fattore melodico compreso tra 20 e 50
secondi. L’analisi dei brani composti da ogni singolo musicista e delle collaborazioni tra
di essi (sempre interne al gruppo nel caso dei Queen, tranne poche e sporadiche
eccezioni ininfluenti sul campione considerato) dimostra come ogni singolo autore
avesse un approccio diverso, com’è del resto naturale, nei confronti della linea melodica
principale, tanto da dedicarle più o meno spazio nelle proprie composizioni.

AUTORE Numero Minimo Massimo Range Media Deviazione


brani standard

Deacon 12 23 62 39 39.3 12.6


May 36 15 155 140 38.9 25.8
Mercury 46 14 165 151 54.1 29.7
Taylor 17 14 60 46 32.5 12.3
Collaborazioni 37 15 80 65 40.7 16.9
Totale 148 14 165 151 43.4 24.2

Dai dati presentati nella tabella sopra esposta emerge in modo chiaro ed evidente come
sia Mercury l’autore in grado di meglio manipolare il fattore melodico (oltre che il
compositore più prolifico), seguito a breve distanza da May: ciò significa che le sue
composizioni presentano un alto tasso di cantabilità, associato logicamente ad una
grande ricchezza tonale e all’uso di progressioni armoniche particolari, oltre
chiaramente a personali ricerche espressive.
Ciò non significa naturalmente – o meglio, è condizione necessaria ma non sufficiente –
che i brani dei Queen siano migliori di altri del repertorio pop, ma solo che il gruppo
inglese ha nei confronti dei pezzi musicali (e più in generale degli album) un approccio
inedito ed inconsueto che ha permesso una produzione discografica originale, genuina
ed organica nel suo complesso, proprio perché le varie ricerche stilistiche e formali
hanno agito su diversi livelli, allontanandosi dagli standard allora correnti per proporre
nuovi modelli a tutti gli effetti validi.
Prendendo in considerazione tutti gli album dei Queen (con la sola esclusione della
colonna sonora di Flash Gordon, che merita un discorso a parte) è possibile notare il
cambiamento cui è andato incontro nel corso degli anni il fattore melodico, con i valori
medi raggiunti – non a caso – nell’LP “A NIGHT AT THE OPERA”, che anche sotto
questo profilo si dimostra quindi come il più vario e il più valido dell’intera discografia:
dopo questo lavoro nessun altro album si avvicinerà più ad una tale ricchezza, ed anzi il
picco negativo verrà raggiunto con “HOT SPACE”.
La tabella seguente mostra nei dettagli il fattore melodico, riassumendo i suoi valori nel
corso di oltre vent’anni di carriera e 148 canzoni analizzate:

ALBUM Numero Minimo Massimo Range Media Deviazione


brani standard

QUEEN 9 14 76 62 40.8 21.5

QUEEN II 10 19 136 117 50.2 34.0

SHEER HEART 13 19 60 41 37.0 12.2


ATTACK
A NIGHT AT THE 11 33 165 132 65.6 48.6
OPERA
A DAY AT THE 10 27 110 83 64.6 29.0
RACES
NEWS OF THE 11 15 74 59 40.5 22.0
WORLD
JAZZ 13 26 72 46 43.8 14.9

THE GAME 10 16 54 38 32.4 11.5

HOT SPACE 11 14 73 59 31.4 19.1

THE WORKS 9 32 49 17 37.4 5.9

A KIND OF MAGIC 9 17 89 72 48.6 22.8

THE MIRACLE 10 15 62 47 38.0 15.1

INNUENDO 12 17 75 58 45.3 16,8

MADE IN HEAVEN 10 17 44 27 32.3 10.2

Totale 148 14 165 151 43.4 24.2

Sono gli album “A NIGHT AT THE OPERA” e il successivo “A DAY AT THE RACES”,
entrambi con un fattore melodico medio di circa 65 secondi, ad essere i lavori col
maggior apporto melodico: si confrontino questi valori con quelli degli album dei Beatles
sopra citati, la cui media non arriva a 27 secondi, e appare quindi giustificato il titolo
dell’articolo di Denes Pinter “The Queen anomaly”.
Tutto questo solo considerando il livello melodico (tanto che il primo dei due album
formante il dittico può essere considerato l’album più melodico di tutti i tempi della
musica pop), mentre i brani presentano anche ad un altro livello di analisi una grande
ricchezza armonica, testuale, formale, strutturale e d’insieme, che dimostra il valore
artistico – oltre a quello strettamente musicale – dei Queen.
Il grafico seguente accomuna i valori di range e la media del fattore melodico per ogni
album dei Queen in ordine cronologico: come è evidente entrambi i valori raggiungono
un picco e poi vanno progressivamente esaurendosi. Non si tratta però solo di una
diminuzione del contenuto melodico (che se si vuole diventa più prossimo a quello delle
altre canzoni pop), ma di un adeguamento anche alle forme musicali impiegate: i brani
diventano infatti progressivamente più corti, e le strutture acicliche – così come le
progressioni armoniche inusuali e le frequenti modulazioni, talvolta a tonalità lontane –
sono allo stesso modo usate sempre con minore frequenza (da qui l’accusa a Mercury e
compagni di essere diventati troppo commerciali).
È quindi corretto affermare che il fattore melodico segue e riprende le altre
caratteristiche proprie di ogni canzone, e non è pertanto un elemento indipendente ma
solo uno dei vari parametri che intervengono nella stesura di un pezzo (e che ne
influenzano in modo particolare la memorizzazione ed il successo).

Confrontando infine le canzoni del repertorio di Mercury e compagni con quelle dei
Beatles e i pezzi trasmessi dalle emittenti radiofoniche emerge un altro dato statistico
interessante:

REPERTORIO Campione Minimo Massimo Range Media Deviazione


di brani in standard
esame

Radio FM 125 5 62 57 23.5 9.6


Beatles 81 3 52 49 22.5 9.2
Queen 148 14 165 151 43.4 24.2
Totale 354 3 165 162 31.6 19.9
I brani dei Beatles e delle radio hanno valori pressoché simili, mentre i pezzi dei Queen
si differenziano in modo a dir poco netto, con un fattore melodico medio di 43.4 secondi
che è praticamente il doppio del valore statistico degli altri repertori considerati; certo
uno studio sulla durata media delle canzoni dimostra che le canzoni di Mercury e
compagni hanno una durata leggermente superiore allo standard (il valore si attesta
infatti su 3 minuti e 50 secondi), ma di sicuro non doppio: anche in questo caso si trova
un range di valori molto ampio, che varia dal minuto [1:07] di Dear Friends fino agli oltre
otto minuti di The Prophet’s Song [8:20] (senza considerare la lunga suite strumentale
che chiude l’album “MADE IN HEAVEN”).
Da ciò si deduce che ogni singolo brano ha un fattore melodico, un contenuto di
cantabilità molto più alto della media (tale però da non incidere negativamente sulle parti
strumentali, ma anzi in grado di creare con esse un equilibrio espressivo), e ciò lo
contraddistingue in modo indelebile come un marchio stilistico proprio dei Queen.
La voce di Freddie Mercury: estensione e caratteristiche

D
opo l’analisi riguardante il fattore melodico occorre concentrarsi sulle
incredibili qualità vocali del cantante e leader dei Queen, Freddie Mercury,
per meglio farne risaltare le doti e le caratteristiche inconfondibili, e
soprattutto per meglio comprendere come un valore così anomalo come
quello presentato nel precedente paragrafo possa conciliarsi con le esigenze canore e
non dare luogo ad uno squilibrio formale, ma anzi ad un’espressione – in primo luogo
artistica – di assoluto rilievo. Infatti il cantante di origini persiane (e nato nell’esotica
Zanzibar) ha dimostrato nel corso della sua lunga carriera una grande versatilità, che gli
ha permesso di affrontare praticamente qualunque genere musicale, dalle sonorità
aspre e rozze dell’hard rock fino alla musica lirica (l’album solistico “BARCELONA” è
interpretato insieme al soprano Montserrat Caballé[30]), passando attraverso ballate
dolcissime o brani dalla condotta melodica particolare, alcuni dei quali non escludono
dal loro registro l’uso del falsetto.
La potenza, la varietà, l’emozione – associate al suo particolarissimo ed inconfondibile
timbro – rendono le canzoni da lui interpretate tutte di altissimo valore, e allo stesso
tempo assumono una caratterizzazione ed una personalità non più scindibile dal loro
interprete originario. Musicalmente parlando, Freddie Mercury possedeva una voce con
inflessioni tenorili (è infatti classificabile come un tenore leggero o lirico, o anche come
un baritono dal registro acuto), e ciò gli permetteva di raggiungere senza troppe difficoltà
le ottave più alte, e di produrre di conseguenza melodie ad un registro particolarmente
elevato senza però incontrare nello stesso tempo difficoltà quando occorreva invece
avvicinarsi a suoni bassi e più cupi.

La sua era una voce di ampia estensione: raggiungeva, grazie a un


falsetto potente, tessiture molto acute […]; la pronuncia era limpida, da
fine dicitore; il timbro, morbido nei motivi teneri, amorosi, malinconici;
ma Mercury sapeva arrochirlo e incanaglirlo a volontà nei brani
aggressivi. Raffinati e incisivi i colori, le sfumature, il fraseggio, il modo
di porgere il testo.[31]

Le analisi di Andres Guazzelli[32] hanno dimostrato come il leader dei Queen avesse
un’estensione superiore alle tre ottave e mezzo (con un particolare uso delle note
comprese tra B2 e G3[33], ottenute ricorrendo all’uso della voce di petto calda e ricca di
armonici) partendo da F1 ed arrivando fino a Bb4, per un totale di circa 42 semitoni;
risulta inoltre evidente come in alcuni pezzi si sia spinto fino a Bb3 e a C4, passando
solitamente all’uso della voce di testa in vicinanza di D3 e al falsetto in prossimità di F3
o G3. In alcuni pezzi (è il caso, ad esempio, di Mustapha) i Queen non hanno fatto uso
di un’intonazione standard, e perciò i dati qui presentati hanno valore generico e non
escludono altre ricerche espressive perseguite da Mercury.
La tabella seguente mostra, a titolo d’esempio, alcuni brani (appartenenti sia alla
discografia dei Queen sia alla produzione solista del cantante), con le relative note nei
registri basso ed acuto:

F1 All Dead, All Dead coro


Bb1 Your Kind Of Lover seconda
voce
C2 The March Of The Black Queen seconda
voce
D2 Teo Torriatte (Let Us Cling Together) assolo
E2 My Fairy King seconda
voce
C4 We Are The Champions assolo
D4 One Vision assolo
E4 Hang On In There seconda
voce
G4 Nevermore coro
A4 Sail Away Sweet Sister (To The Sister I Never Had) assolo
Bb4 Let’s Turn It On seconda
voce

Certo col passare degli anni la sua voce è andata progressivamente cambiando, ed
assumendo nuove sfumature decisamente più rauche e meno tendenti verso l’alto: ciò
risulta particolarmente evidente dal confronto di un brano giovanile come le cover di
Goin’ Back o di I Can Hear Music (in cui gli acuti sembrano quasi femminili) con uno
appartenente all’ultima produzione, ad esempio Mother Love. Durante i concerti inoltre
raramente i brani avevano la stessa vocalità presente nella versione in studio, in quanto
Mercury decideva di non usare i falsetti e di armonizzare una terza o una quinta
inferiore, in modo tale da poter reggere per tutta la durata dell’esibizione live.
Per quanto riguarda invece gli altri componenti della band, uno studio approfondito non
è necessario, in quanto il numero dei brani da loro cantati – almeno nella discografia dei
Queen – non è influente in modo particolare; è tuttavia possibile trarre alcune
conclusioni almeno sulle estensioni vocali degli altri membri.
Il chitarrista Brian May possedeva una buona voce ma su un registro particolarmente
basso e non capace di muoversi su ottave alte (anche la tecnica del falsetto non gli era
particolarmente congeniale), né capace di grandi estensioni melodiche, anche se alcune
delle armonizzazioni, ruotanti su note basse, più complesse del gruppo sono proprio
sue; il batterista Roger Taylor era invece in grado di raggiungere note alte senza troppe
difficoltà (anche oltre F4: anzi è proprio sua la nota più alta dell’intera discografia dei
Queen, il Bb4 che chiude la sezione operistica di Bohemian Rhapsody), e poteva tenere
il falsetto con uno sforzo minimo, tanto che nei concerti la nota più alta che si sente è
quasi sempre la sua e fornisce un valido supporto corale; il bassista John Deacon –
almeno secondo quanto dichiarato ufficialmente dalla band – non ha invece mai preso
parte a nessuna registrazione vocale, né come solista né come componente corale.
La poetica e le sue fonti estetiche

T
racciare o perlomeno delineare con certezza le varie ispirazioni (non
necessariamente di stampo artistico) di un gruppo musicale non è mai cosa
facile, e le stesse difficoltà si incontrano analizzando i Queen, essendo i
protagonisti della band solitamente abbastanza restii a rilasciare dichiarazioni
precise sulle proprie fonti o comunque sui propri interessi. È tuttavia possibile almeno
rintracciare alcuni dei semi che, maturando nella coscienza dei musicisti, avrebbero poi
dato i loro frutti nel corso della carriera.
Tra le fonti musicali, ed in modo particolare per quanto riguarda Mercury, una chiara
influenza ha avuto la musica lirica in generale e un pianismo di tipo sia classico (di
stampo mozartiano) sia romantico (con influssi di Chopin); per quanto riguarda invece le
strutture assunte dai brani e alcune argomentazioni di tipo testuale, la musichall inglese
di inizio Novecento e il genere del vaudeville si presentano come chiari punti di
riferimento cui spesso il gruppo di musicisti inglese si è confrontato. In più occasioni i
componenti del gruppo hanno decretato i Beatles come una delle fonti primarie cui
attingere e raffrontarsi, anche se questa influenza non è poi intervenuta direttamente
nella concezione dei brani, nella loro struttura o nella loro configurazione armonica, ma
ha invece agito in modo silenzioso e sottile, ad un livello non evidente. Per gli altri
membri della band occorre ricordare le influenze che la musica degli Who e dei Deep
Purple ha avuto sul bassista John Deacon e quella degli Shadows, dei Cream e dei Pink
Floyd ha esercitato su Brian May (pur se la sua tecnica chitarristica si dimostra da subito
peculiare e ricca di originalità).
Allo stesso modo una corrente artistica che ha esercitato suggestioni profonde negli
atteggiamenti proposti durante le esibizioni live è quella del balletto e della danza.
E almeno due brani hanno avuto come fonte di ispirazione primaria un quadro o
comunque proprio un’opera grafica, segno questo che il gruppo era sempre pronto a
cogliere idee e suggerimenti da qualunque contesto storico, culturale e artistico, e
sapeva poi reinterpretare queste fonti di ispirazione in una chiave assolutamente
personale, in modo tale che le citazioni divenissero qualcosa di attivo nel processo di
creazione, a qualunque livello esso fosse (non solo musicale quindi, ma esteso a tutta la
concezione artistica che porta il nome “Queen”: vedi ad esempio le copertine di
“QUEEN II”, “A NIGHT AT THE OPERA”, “A DAY AT THE RACES”, “NEWS OF THE
WORLD”, “HOT SPACE” e “INNUENDO”, le quali denotano una ricerca espressiva
particolare tesa a far emergere un preciso concetto grafico).
I testi che presentano la maggior varietà tematica ed il maggior interesse – sotto un
profilo analitico e non solo – sono quelli che portano la firma del cantante solista dei
Queen, ed anche in questo caso è possibile risalire, almeno in parte, alle fonti primarie
di ispirazione: oltre alle canzoni con chiari riferimenti religiosi (e che traggono ispirazione
dalla Bibbia o da altri testi sacri) la poesia vittoriana e quella romantica – quella di
William Wordsworth[34] e di William Shakespeare[35] in primo luogo (ma anche alcuni
echi di Oscar Wilde sono avvertibili) – presentano immagini e situazioni poi riprese nelle
composizioni di Mercury, le quali spesso attingono anche ad una dimensione epica e
favolistica propria della cultura anglosassone (con figure come fate, orchi e creature
magiche dei boschi), reinterpretando però tutte queste fonti in una nuova ottica capace
di fondere tutti gli elementi di partenza in una sintesi inedita ed indubbiamente originale.
La corrente rock glam ha imposto ad inizio anni ’70 costumi ed atteggiamenti, ed
insieme ad uno spirito propriamente naïf ha influenzato una buona parte della musica
inglese pop di quegli anni, compresi i Queen delle origini che si dichiaravano tra l’altro
orgogliosamente dandy. In loro l’idea di scrivere musica rock (avendo come riferimento
le sonorità aspre dei Led Zeppelin) con influenze classiche ed operistiche si fonde con
la volontà di proporre brani complessi come quelli del genere progressive, aggiungendo
però agli stessi una profondità armonica ed una struttura particolare e, soprattutto, una
costruzione musicale in grado di riprodurre in sé la forma drammatica.

[Mercury era] sempre pronto a dedicare tempo ed energie creative al


suo sogno, quello di una forma di spettacolo che unisse al rock elementi
dell’opera, della danza e delle arti visive […]. [I Queen hanno] offerto un
rock originale, sofisticato, fastoso, innovativo, abbeverato alle più varie
fonti musicali: dalla vocalità operistica al dixieland, dalla sinfonica al
funk, dal soul alla fanfara della banda, dall’inno nazionale inglese alla
musica orientale e via per mille stimoli e impressioni; senza dimenticare
l’ironia, il divertimento, che fu caratteristica primaria dei Queen e illuminò
tutta la loro attività. Ci fu chi coniò il termine “rock opera” [non
apprezzato però da Mercury e compagni] per i loro entusiasmanti
esperimenti delle prime stagioni: soprattutto per quella Bohemian
Rhapsody dalla lunghezza spropositata e dalla costruzione ben più
complessa rispetto a una delle solite canzoni, con un intermezzo, dal
vago sapore di opera buffa, dove si cita perfino Figaro.[36]

Alcuni stralci della biografia ufficiale dei Queen presentano e spiegano le poetiche e le
fonti estetiche nella fase iniziale dei Queen, e illustrano dettagliatamente il loro rapporto
con l’esibizione live:

Per tutti [i componenti della band] occorreva unire l’intensità della


performance teatrale a musica rock dura e potente. Concordavano
inoltre sul fatto che il pubblico dovesse avere qualcosa di interessante
da vedere oltre che da sentire, una concezione all’epoca non troppo
popolare, almeno a quanto afferma Brian May. Sulla scena Freddie
Mercury possedeva già una certa esperienza nel combinare la teatralità
con la forza e la grazia della danza, arte per cui nutriva grande
ammirazione. […]

La loro ricerca di uno stile “visivo” tutto personale li portò a presentarsi


sul palco con indosso vistosi abiti di seta in cui predominavano il nero e
il bianco; sicuramente una nuova dimensione rispetto alla stragrande
maggioranza degli altri gruppi, fermi a jeans e maglietta. Loro, invece,
portavano anelli, braccialetti, collari in un’epoca in cui gli uomini in
genere disdegnavano i gioielli. […]

Freddie Mercury era ben deciso a personalizzare la sua presenza


scenica sino a renderla unica e voleva aggiungere teatro e danza alle
esibizioni dal vivo.[37]
L’efficacia e la necessità dell’analisi

A
nalizzare un brano musicale significa innanzitutto confrontarsi con esso e
farne risaltare gli elementi più caratteristici, cercando di non tralasciare alcun
particolare fondamentale o comunque importante. Nel campo della musica
popular – a cui i Queen e la loro musica appartengono – gli studi devono
essere condotti sia tenendo conto delle differenze che questo tipo di musica (ricco a sua
volta di sottogeneri) ha nei confronti di tutte le altre musiche, appartenenti sia ad una
diversa dimensione temporale sia ad un’altra collocazione spaziale, sia facendo ricorso
alla terminologia ed ai mezzi messi a disposizione dalla musicologia tradizionale, pur
con tutti i limiti che il linguaggio possiede. Infatti

l’analisi trasporta e trasforma l’entità estetica, di per sé aconcettuale,


nella concettualità del linguaggio. […] Ma le parole che denotano una
realtà sonora non sono mai la realtà sonora in sé, bensì sempre il
tentativo istituito dalla ratio di descriverla concettualmente nella sua
aconcettualità. E già in questo, già nella scelta – soggettivamente [e
culturalmente] fondata – dell’espressione verbale, tutte le analisi di una
medesima musica divergono in modo ineludibile; persino là dov’esse
riconoscono ed interrogano cose identiche. Questa ineschivabile
divergenza già nel processo esterno della trasformazione è un indizio
del fatto che non si dà un’analisi oggettiva. […] L’arte in generale è
aperta: una forma di comunicazione che non si finirà mai di
comprendere.[38]

Pertanto è necessario utilizzare, insieme ad un vocabolario noto e mutuato da studi


“classici”, una nuova serie di risorse non solo linguistiche ma che tengano prima di ogni
altra cosa conto del contesto sociale in cui la musica pop si è sviluppata e in quale
ambiente la stessa viene recepita ed utilizzata, in modo tale che anche per le canzoni
pop e rock – a lungo ritenute una creazione artistica “inferiore” – si trovino i mezzi più
adatti a farne risaltare le caratteristiche salienti, musicali e non.
Il campo estetico dell’universo popular è diverso ed inedito nel panorama musicale, ed
obbliga gli studiosi a rapportarsi con un modo di fare musica molto diverso rispetto
quello cui la civiltà umana è stata abituata almeno negli ultimi cinque secoli; ma questo
nuovo modo espressivo non deve venire allo stesso tempo letto come una frattura
storica con quanto normalmente si ritiene di valore superiore (o culturalmente più
elevato), poiché i mezzi e i modi di espressione – e con essi le mode – tendono a
cambiare, ad evolversi e a rispecchiare la società di cui fanno parte: l’arte è uno
specchio dei tempi molto più di quanto comunemente si creda, e perciò l’analisi di un
brano musicale non è uno studio fine a se stesso, ma permette di aprire nuove strade
verso la conoscenza.
Il contesto creativo di “A NIGHT AT THE OPERA”

I
l quarto album dei Queen, pubblicato nel novembre 1975, rappresenta in assoluto il
migliore progetto mai affrontato dal quartetto di musicisti inglese, non a caso
premiato dal pubblico (e dalla critica) con quella che per il gruppo rimane la prima
volta in vetta alle classifiche inglesi, sia degli album che dei singoli. Si tratta di un
album così ricco di tematiche e di sonorità e con pezzi poi passati alla storia della
musica pop – Bohemian Rhapsody su tutti – che è giusto leggerlo ed interpretarlo come
un lavoro dove la maturazione del gruppo ha ormai raggiunto il suo apice: non ci sono
infatti più le spigolature o gli eccessi dei precedenti LP, ma tutto raggiunge un compiuto
equilibrio formale.

Figura 2 – La copertina originale di "A NIGHT AT THE OPERA" (1975)

Si tratta dell’album della raggiunta maturità, se si vuole l’insuperato (e forse


insuperabile) capolavoro delle origini. Ed accanto ai testi che diventano allo stesso
tempo più introspettivi e meno banali (tanto da sposarsi perfettamente con le parole),
anche la parte musicale perviene a vette mai più toccate nella lunga produzione dei
Queen; l’organico è sfruttato al massimo e ricorrendo ad un abile uso dei mezzi che la
sala di incisione può ora permettere: così accanto alle sovrabbondanti sovraincisioni
strumentali (specie della chitarra di May), trovano spazio anche i cori, i cui interventi non
sono più solamente accessori o d’accompagnamento, ma in grado di configurarsi come
unità espressivamente indipendenti ed autosufficienti, in quanto il loro compito non è più
un semplice raddoppio della parte vocale principale ma anzi quello di un nuovo polo
essenzialmente dialettico che – con la sua presenza – permette di instaurare un
discorso di drammaturgia musicale all’interno delle canzoni interessate.
Allo stesso modo il ricorso al mezzo stereofonico è finalizzato all’emergere, oltre che di
particolari parti strumentali, a precisi e delimitati interventi corali che si pongono così
anche su questo piano in modo dialettico rispetto alla voce cantante principale. E tale
discorso va necessariamente esteso anche all’album successivo, “A DAY AT THE
RACES”: infatti questi due album dei Queen hanno molto in comune, a partire dal titolo
che in entrambi i casi si rifà direttamene ad un film dei fratelli Marx; inoltre anche la
grafica degli album è studiata e ricercata: in entrambi i casi l’immagine di copertina è
costruita – su idea di Mercury – su una figura che comprende i quattro segni zodiacali
dei rispettivi componenti del gruppo.
Ma se in “A NIGHT AT THE OPERA” lo sfondo su cui tale figura si staglia è bianco (in
voluta contrapposizione alla “Notte” presente nel titolo), in “A DAY AT THE RACES” è
invece nero (ancora contrapposta al “Giorno” indicato)[39]: i due album vengono
insomma a creare su vasta scala un dittico creativo, tanto da poter essere interpretati –
pur con le dovute precisazioni – quasi come un album doppio, per le atmosfere
suggerite e le sonorità proposte. I Queen, consapevoli di questo binomio artistico su
larga scala, propongono nei due album anche un’analoga scaletta dei brani, con
richiami che esulano dal singolo LP e arrivano a coinvolgere due interi album.
Certo alla riuscita di “A NIGHT AT THE OPERA” hanno contribuito più di quanto non si
creda tanto l’influenza del produttore Roy Thomas Baker, il lavoro dei tecnici del suono e
la raggiunta maturità compositiva di ogni singolo membro dei Queen: infatti accanto alle
figure principali di May e Mercury, che mettono la loro firma su alcuni brani migliori
dell’album, finalmente anche Deacon e Taylor contribuiscono in modo eccelso alla
lavorazione di questo quarto album, scrivendo pezzi memorabili che rimangono in
assoluto tra i loro migliori, anche analizzati ed ascoltati a distanza di decenni.

Figura 3 – I Queen in studio di registrazione con Roy Thomas Baker


Già l’album “QUEEN II” può essere considerato come un vero e proprio concept album
per l’importanza assunta dalle singole canzoni all’interno del progetto complessivo,
incentrato sulla dicotomia delle due Regine e sulle loro vicende con in sottofondo le
ambientazioni mitologiche ed altri personaggi fantastici; invece “A NIGHT AT THE
OPERA” propone brani completamente slegati gli uni dagli altri e non uniti (è vero che il
solco di pausa che intercorre tra due pezzi successivi è praticamente inesistente, e che
almeno due binomi si vengono a creare con i pezzi che si susseguono senza soluzione
di continuità: The Prophet’s Song – Love Of My Life e Bohemian Rhapsody – God Save
The Queen), ma ciò nonostante questo quarto album si può considerare come un
concept album a tutti gli effetti[40].
La volontà creativa ed estetica dei Queen è infatti maggiormente concentrata sul
proporre canzoni diverse le une dalle altre, ed ognuna rappresentativa di un certo
genere o stilema musicale[41]: al principio dell’unità e della concatenazione di “QUEEN
II” si è qui sostituita la ricerca e la proposta di una continua varietà. E proprio
nell’altimetria emotiva e nell’alternanza di pezzi così profondamente diversi va ricercato
il progetto drammatico che costituisce la base sui cui “A NIGHT AT THE OPERA” è
interamente concepita e realizzata. L’apparente mancanza di coerenza interna è così
voluta, in quanto l’idea di presentare all’ascoltatore una vasta gamma caleidoscopica di
brani è il motore primo che ha guidato la concezione dell’LP.
Specificando ulteriormente, a brani in stile rock e hard rock (Death On Two Legs e
Sweet Lady), si contrappongono brevi pezzi leggeri dalle atmosfere decadenti,
vaudeville e vagamente ispirati a numeri di cabaret (Lazing On A Sunday Afternoon e
Seaside Rendezvous), brani in stile pop melodico e di ricerca timbrica e formale (I’m In
Love With My Car e il suono dixieland di Good Company), dolci ballate pop e
romantiche (You’re My Best Friend e Love Of My Life), e ancora canzoni dalle
componenti folk (’39), oppure caratterizzate da un ampio respiro della forma in cui le
voci corali riprendono movimenti antifonali della musica medievale e rinascimentale (The
Prophet’s Song), una rivisitazione in chiave rock dell’inno nazionale inglese (God Save
The Queen), fino a giungere al capolavoro assoluto Bohemian Rhapsody, che condensa
in sé tanti e tali significati musicali – inclusi espliciti riferimenti alla musica d’opera e
melodrammatica (che richiamano ed amplificano anche il titolo stesso dell’LP, “Una notte
all’opera”) – da non essere nemmeno facilmente riassumibile.
Da notare anche la posizione nella scaletta di questo brano: è infatti a chiusura
dell’intero album, ed è l’ultimo brano non strumentale che l’ascoltatore sente. Quindi
viene anche sovvertito l’ordine “prestabilito” di presentazione delle tracce solitamente
associato a un LP, per il quale i brani di punta e da presentare come singolo dovrebbero
invece occupare una posizione diversa e corrispondente ai primi lati delle facciate.
L’edizione originale in vinile di “A NIGHT AT THE OPERA” prevede il seguente ordine
per le tracce:

LATO A
Death On Two Legs (Dedicated to…)
Lazing On A Sunday Afternoon
I’m In Love With My Car
You’re My Best Friend
’39
Sweet Lady
Seaside Rendezvous

LATO B
The Prophet’s Song
Love Of My Life
Good Company
Bohemian Rhapsody
God Save The Queen

Per “A NIGHT AT THE OPERA” i Queen scelsero meticolosamente ogni singolo


strumento da usare nel corso delle registrazioni: Deacon aveva diversi amplificatori per il
suo basso Fender, Taylor poteva fare affidamento su un drum kit Ludwig (che includeva i
famosi piatti Ziljian e un gong Paiste), mentre Mercury affittò per alcuni mesi il pianoforte
a coda bianco Bechstein[42], May continuò ad usare come sempre la chitarra prodotta da
sé alcuni anni prima, la Red Special, a cui accoppiò alcuni amplificatori Vox AC30 TBX
per gli assoli (lo stesso modello usato dai Beatles, dagli Shadows e che accompagnerà
praticamente tutta la produzione – inclusa quella solista – di May) e l’amplificatore
costruito e progettato da Deacon per le parti “orchestrali”, cioè con armonia a più parti
(almeno tre).

Figura 4 – I Queen negli studi di Ridge Farm nell'estate del 1975 per la registrazione di "A NIGHT AT THE
OPERA". Foto di Watal Asanuma (dalla rivista "Music Life", uscita numero 9, Settembre 1975)

Anche la scelta degli studi di registrazione non fu casuale ma anzi maniacale, in quanto
l’album prese vita in un periodo di circa 4 mesi in non meno di 7 differenti locations,
ognuna delle quali attrezzata diversamente ed in grado di sostenere un ruolo diverso
nelle diverse parti da registrare (cori, parti strumentali, sovraincisioni…) e poi includere
nel brano nel mixaggio finale; il mixer originale usato aveva 24 tracce analogiche, e
permetteva perciò un numero di strumenti e di effetti da gestire incredibilmente
superiore rispetto alle attrezzature di soli alcuni anni prima – usate ad esempio dai
Beatles – che si fermavano a 4 piste indipendenti.
Il gruppo stesso riconobbe da subito l’importanza complessiva della registrazione
sfociata in forma definitiva nell’LP “A NIGHT AT THE OPERA”, come affermò il
chitarrista May in un’intervista del 1991: “Sapevamo di aver fatto qualcosa di speciale.
Questo album potrebbe essere il nostro «SGT. PEPPER»”.
Bohemian Rhapsody: un’introduzione nello spazio e nel tempo

B
ohemian Rhapsody è senza alcun dubbio il maggiore sforzo creativo
dell’intera produzione dei Queen, il loro vero capolavoro, la loro vera opera,
anche se – come è noto – il merito principale va a Mercury che scrisse ogni
singola nota, incluso l’accompagnamento del basso di Deacon e le parti
solistiche della chitarra di May. Si tratta di una canzone che contiene in sé così tante
tematiche – musicali e non[43] – da essere posta di diritto tra i massimi risultati raggiunti
nel campo della musica pop e rock (e non solo) di tutti i tempi.
Già la sua lunghezza, quasi 6 minuti, denota una caratteristica di grandezza: è vero che
già The March Of The Black Queen (dall’album “QUEEN II”) e The Prophet’s Song (dallo
stesso album “A NIGHT AT THE OPERA”) superavano abbondantemente questo limite,
ma inedito in Bohemian Rhapsody è il continuo e costante profluvio delle idee
melodiche, armoniche, ritmiche, liriche, testuali, e coraggiosa può senz’altro considerarsi
l’idea di pubblicare tale canzone come singolo, quando per definizione la durata del
singolo non dovrebbe – secondo idee legate ad un’ottica di mercato che premia canzoni
facilmente memorizzabili e orecchiabili – superare i 4 minuti di durata complessiva[44].
Vero è che nel corso degli anni ’70 (decennio in cui la popular music del filone rock ha
toccato probabilmente le sue massime punte anche grazie a sperimentazioni nuove ed
inusuali, poi abbandonate negli anni seguenti) molti gruppi – in particolare appartenenti
al progressive rock – cominciano a sviluppare non solo complessi concept album, ma
anche singole canzoni di particolare durata che superano abbondantemente sia le facili
strutture del modello allora imperante con l’alternanza chorus-bridge (vedi i primi
Beatles[45] o Elvis Presley) influenzato dalla musichall, sia la durata standard di un
brano: comincia cioè a manifestarsi un carattere discontinuo, non come difetto ma come
stile; e la drammaticità investe la struttura del pezzo nelle comedy songs[46] a partire dai
Beatles di “RUBBER SOUL” (1965), primo vero album concepito come struttura
organica e non come semplice raccolta di singoli pezzi tra loro slegati. Si può supporre,
ed in parte è sicuramente vero, che ad una struttura del brano particolarmente articolata
debba corrispondere anche una durata maggiore e viceversa, e di esempi a proposito
nella musica anglosassone[47] ve ne sono molti: da Nothing At All dei Gentle Giant (che
nei suoi oltre 9 minuti mischia parti polifoniche ad altre poliritmiche, inclusa nell’album
“GENTLE GIANT” del 1970), ad Aqualung dei Jethro Tull (dall’album omonimo, 1971, di
durata superiore ai 6 minuti e 30), a Stairway to Heaven dei Led Zeppelin (che dura
quasi 8 minuti, presente nell’album “LED ZEPPELIN IV”[48] del 1971 ma mai pubblicata
come singolo), a Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd (nelle sue molteplici parti
della durata complessiva di oltre 25 minuti dal concept album “WISH YOU WERE
HERE”, 1975), per fare solo alcuni dei possibili numerosi esempi.
Vero è però che esistono esempi appartenenti agli stessi anni in cui ad un brano di
particolare durata non corrisponde una struttura dello stesso particolarmente complessa
ma solo una semplice ripetizione di un ritornello o di una struttura simile nella funzione e
a lungo protratta: vedi ad esempio i 7 minuti di Light My Fire dei Doors (1967), gli oltre 8
minuti di American Pie (1971) di Don McLean (basata sostanzialmente su un semplice
modello A – B, alternanza di verse – chorus) o i 6 minuti e 30 di Hotel California (1976)
degli Eagles, You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones (1969), o ancora
gli oltre 8 minuti e 30 di Kashmir dei Led Zeppelin.
Questi brani ed altri[49] sono accomunati non solo dall’essere entrati a fra parte della
storia e della cultura rock, ma ad un livello musicale sono caratterizzati dall’avere tutti
(anche quelli dalle strutture più semplici) un’introduzione lenta (il più delle volte
esclusivamente strumentale) che esalta l’epicità del brano e permette di inquadrarlo in
un’atmosfera particolare, senza tempo. Va poi considerato anche il periodo d’uscita della
canzone sul mercato, l’anno di pubblicazione; per Bohemian Rhapsody ad esempio il
1975 era l’anno ideale: scioltisi ormai definitivamente i Beatles, il punk non ancora
arrivato a rinnegare tutto il passato musicale e l’ambiente glam in pieno fermento anche
grazie alla figura di David Bowie, questo periodo preciso si presentava adatto ad
accogliere una nuova forma d’espressione, che sapesse ricevere la tradizionale
corrente rock ed unirla con forme diverse, alcune delle quali mutuate direttamente dalla
musica classica e melodrammatica[50].
Un’altra caratteristica che si riscontra in tutti questi brani è quella di contenere in sé un
progetto drammatico al proprio interno: ciò è evidente, oltre che ad un primo livello
testuale, anche dal ripresentarsi a fine brano di una sezione musicale che funziona da
cornice conclusiva, riassumendo e allo stesso tempo concludendo la storia presentata
nel testo. L’inserimento di una sezione già sentita precedentemente è anche utile dal
punto di vista psicologico dell’ascoltatore, il quale dopo avere “assistito” e “partecipato”
ad un gran numero di episodi musicali distribuiti in un lasso di tempo inusuale, ha
bisogno di risentire una sezione che già conosce e che gli fa intuire la prossima
conclusione della canzone stessa[51].
Questo procedimento funziona anche quando il brano in questione ha una conclusione
in sfumando (come Hotel California) o se il ritornello è stato sentito già più volte (in
American Pie nell’ultimo chorus avviene un cambiamento di accompagnamento e di
volume sonoro, che suggerisce all’ascoltatore che quello che sta per sentire è l’ultimo
ritornello, e quindi l’epilogo del pezzo). E l’esempio forse migliore di ripresa musicale
che spiazza l’ascoltatore ma lo riporta nella situazione originale dopo un excursus
drammatico con un’alternanza di stili diversi – e in questo anticipa la struttura che
troverà più ampio respiro e complessità proprio in Bohemian Rhapsody – si trova nel
beatlesiano A Day In The Life, tratto dall’album “SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS
CLUB BAND” del 1967.
La complessità di questo brano (“una delle più ambiziose, influenti, e sconcertanti opere
nella storia della musica pop”[52]) ha influenzato fortemente la stesura di Bohemian
Rhapsody soprattutto nell’avvicendamento tanto a livello musicale quanto a livello
strettamente drammatico: si tratta infatti di un chiaro esempio di struttura con ripresa
inserita in un contesto musicale speculare, e che si evolverà qualche anno dopo nei
Queen in una composizione organica ciclica facente parte di un progetto aciclico, in un
apparente ossimoro che trova però la propria giustificazione semantica all’ascolto. La
caratteristica principale di A Day In The Life è quello di estendere l’alternanza tra le parti
formanti il brano all’intera struttura della canzone stessa, e pertanto sezioni come
chorus e verse diventano a loro volta, su scala più ampia, brevi brani che si alternano e
che danno organicamente senso compiuto alla canzone nella sua interezza.
Un altro brano con la struttura anomala è Aquarius / Let the Sunshine In pubblicato nel
1969 dal gruppo statunitense The 5th Dimension per il musical Hair. Qui la particolarità
è che due stralci di brano senza apparente connessione sono uniti in medley da un
breve ponte strumentale ma non c’è nessun ritorno tematico o ripresa come avviene
invece nel pezzo dei Beatles. Il secondo stralcio si configura quindi come un chorus che
ha però la forza di lasciare all’ascoltatore un preciso motivo tematico, e la prima parte
del pezzo funge così contemporaneamente sia da verse che da introduzione. Bohemian
Rhapsody con la sua inedita struttura raccoglierà questi esempi precedenti dando nuova
forma al contenuto melodico incanalandolo in una composizione complessa ma che con
l’alternarsi delle diverse sezioni assume una propria coerenza ed autonomia.
I pezzi precedentemente citati, insieme a molti altri a questi contemporanei, sono quasi
sempre ballate epiche – nel contenuto o nella musica, nelle ambientazioni rievocate – in
cui assume un grosso peso la matrice folk originaria; anche il testo (a volte enigmatico,
a volte più diretto[53]) situa le canzoni prese in esame in un ambiente che non può più
essere scalfito da nulla, quasi come se questi pezzi musicali si fossero resi indipendenti
dal loro creatore e avessero cominciato a vivere di vita propria: e l’adozione di una
tematica epica o comunque fantastica e slegata da avvenimenti contingenti ha
sicuramente permesso che questi brani musicali si ritagliassero una propria sfera
d’esistenza, profondamente diversa da quella di canzoni dal testo banale e quotidiano.
Questo è possibile anche perché oltre al livello musicale e quello testuale emergono altri
livelli (non necessariamente concepiti a tavolino dai rispettivi compositori) più profondi
ad ogni ascolto: tali brani, così rispondenti alla mentalità e al costume del loro tempo, si
sono da questo in seguito staccati rimanendo vitali e non confinati al solo periodo o
luogo in cui sono stati originariamente concepiti. Tutto ciò fa di essi dei pezzi immortali e
non obbligatoriamente legati a un solo luogo o una sola epoca.
Tramite questo genere di canzoni il semplice udire si trasforma in interazione, e l’ascolto
non è passivo ma diviene qualcosa di vivo e attento: forse mai nella storia della musica
come negli anni di massimo sviluppo della cultura popular, il compositore è cosciente
della partecipazione – intima e mistica – che i suoi brani (tanto sul piano musicale
quanto su quello testuale) avranno con il pubblico, e della reazione che gli stessi
provocheranno durante l’esibizione live, dando vita ad un nuovo livello soltanto latente
(ma comunque già presente) nella registrazione originaria.
In correlazione a quanto affermato sul valore assoluto di alcuni brani musicali (e non
solo appartenenti all’universo “classico”, ma anche ruotanti nella cultura pop e rock),
sulla loro indipendenza dall’autore, dal luogo e dal periodo di composizione, è utile
citare un pensiero fondamentale di Mathieu[54]:

L’artista immette nell’opera qualcosa di “suo” (la sua esperienza, il suo


pensiero, la sua mentalità, le sue intenzioni): questi sono i “contenuti”.
Attraverso l’opera, i contenuti giungono al fruitore; non però con
immediatezza, se l’arte ha da essere diversa da una pura
comunicazione di stati d’animo; bensì attraverso la mediazione della
forma.
Nei brani sopra riportati e in genere per ogni musica ascrivibile al genere pop e rock va
fatta un’ulteriore precisazione: le canzoni sono infatti fruite in modo profondamente
diverso rispetto a un brano di musica classica qualunque. Infatti intervengono nuove
componenti che non possono essere messe in secondo piano: innanzitutto, grazie
all’apparato mediatico moderno e alla facilità di riproduzione dei brani attraverso i
sistemi e i supporti più vari – CD, vinile, cassette, DVD, radio, internet, televisione… – la
canzone può essere fruita un numero pressoché infinito di volte nello spazio e nel tempo
(non si è più limitati alla sala da concerto, al teatro o comunque a convenzioni di tipo
sociale), e ciò aumenta considerevolmente la possibilità che emergano livelli latenti nei
brani o non recepibili ad un primo ascolto.
Inoltre, il pezzo che si sente è l’originale, e non un’interpretazione affidata (con tutti i
problemi inerenti tra cui non ultimi quelli di carattere filologico) ad un esecutore che per
quanto possa avvicinarsi al significato autentico previsto dall’autore non potrà
comunque mai dargli tutte le sfumature concepite (questo è un problema intrinseco nella
trasmissione della musica fino all’avvento di mezzi in grado di registrare e riprodurre il
supporto)[55]. Non a caso nella trasmissione di queste musiche popular la notazione
scritta assume un’importanza sicuramente secondaria e subordinata alla registrazione:
questo avviene perché spesso gli artisti eseguono “a orecchio”, liberamente
improvvisando e senza seguire uno spartito scritto; anzi, di molte canzoni – la maggior
parte – esiste solo una trascrizione effettuata da terzi e in un secondo tempo, quindi
rispetto all’universo rappresentato dalla musica definita come “classica” si assiste ad un
totale capovolgimento del modo di operare[56].
Va però anche precisato che spesso la notazione è insufficiente a dare tutte le
sfumature elaborate per il pezzo interessato, perché praticamente ogni brano di musica
leggera è concepito per una esecuzione che diventerà quella definitiva e certo non è
stato invece pensato come un prodotto da trasmettere in forma di spartito, proprio
perché la comunicazione della canzone stessa avviene direttamente facendo uso della
registrazione, e superando quindi anche lo scoglio di coloro che non sanno leggere la
musica o che, anche potendolo fare, non hanno la possibilità di recuperare un
determinato pezzo in forma scritta.
Figura 5 – Freddie Mercury durante le registrazioni di "A NIGHT AT THE OPERA" (1975)

Gli stessi segni e i simboli della musica si sono rivelati nel corso degli anni sempre più
inadatti a trasmettere e a contenere le infinite espressioni connesse originariamente ad
un brano: come, infatti, ad esempio, trascrivere un aspetto fondamentale nelle canzoni
pop e rock come quello stereofonico o tutto l’apparato dei diversi effetti ottenuti in studio
di registrazione tramite le tecniche più varie? La sola scrittura non può certo rendere
ragione delle sfumature che il suono, spostandosi da un canale all’altro oppure soggetto
a filtri (sempre più complessi nel corso degli anni), effetti di eco, può offrire, né tanto
meno suggerire il suono ottenuto con particolari strumenti come campionatori o
sintetizzatori. Rispetto ad un pezzo di musica classica, nelle canzoni in generale (e
soprattutto in quelle dei cantautori) riveste inoltre un’importanza fondamentale il testo[57],
il quale è il più delle volte scritto dalla stessa persona che ha composto la musica, o
tutt’al più da un suo fedele collaboratore: si può anzi dire che il rapporto tra musica e
poesia sia spesso a vantaggio di quest’ultima, poiché l’attenzione dell’ascoltatore viene
maggiormente attirata da ciò che viene narrato, e in misura minore da ciò che viene
sentito.
Questo processo non deve tuttavia essere considerato come un impoverimento del
piano musicale, ma piuttosto come una nuova prospettiva e un cambiamento di rapporti
teso a trovare un nuovo equilibrio espressivo. A ciò si aggiunga l’importanza assunta ad
un livello comunicativo da una lingua quasi universalmente nota come l’inglese: anche
la sua diffusione e il suo studio devono considerarsi fondamentali nella diffusione del
genere pop e rock, che si definisce sì come popular, ma necessita nello stesso tempo di
una lingua comune per allargare i propri confini, un linguaggio che accoppiato alla
musica possa generare un nuovo modo di esprimersi.
Vero è che – e questa critica viene mossa dai “puristi”, da coloro che considerano l’unica
vera musica quella “classica” (ma quali sono i criteri per definire un brano “classico” o
concettualmente superiore ad un altro?[58]) – nell’ambiente popular spesso la musica è
alquanto semplice e non presenta la varietà, la ricchezza di espressioni paragonabili a
quella di un tema sinfonico ad esempio; ma proprio questo è il punto: tale musica non
nasce con tali pretese, ha un target sociale totalmente diverso, e deve anzi proporre
“temi” facilmente orecchiabili e memorizzabili, tali inoltre da reggere l’ascolto un numero
elevato di volte.

Figura 6 – Brian May durante le registrazioni di "A NIGHT AT THE OPERA" (1975)

Quindi la reiterazione è una delle principali differenze tra il genere “colto” e quello
“popolare”, ma ciò – come si è visto – non esclude a priori contaminazioni ed influenze
reciproche. Parallelamente, la presenza nella musica popular di una versione di un
brano registrata, e quindi in qualche modo definitiva, oltre a non porre l’eventuale
problema dell’interpretazione da parte di un secondo musicista (e) in un secondo
momento rispetto alla composizione stessa, tende fortemente a sminuire l’importanza
assunta dalla partitura, invece essenziale nella trasmissione di ogni altro genere
musicale precedente e ritenuto “colto”[59]: l’ascolto, con le sue componenti di pretesa
“oggettività”, diventa il momento dell’esperienza da cui partire (e non cui occorre solo in
un secondo momento arrivare) nell’analisi di un brano o di una canzone ruotanti in
questa sfera.
Vi è poi una componente sociale e sociologica non indifferente nella musica popular, in
quanto colui che esegue la canzone è anche colui che ne è l’autore: visto che l’ascolto è
effettuato – per le considerazioni sopra fatte sulla riproducibilità del pezzo musicale – la
maggior parte delle volte in modo individuale, il trovarsi ulteriormente a contatto con un
individuo (il musicista) instaura un rapporto bidirezionale tra chi fruisce e chi crea, che
assume caratteristiche forti e porta alla creazione di miti e di star (tale procedimento non
è limitato esclusivamente alla musica ma coinvolge anche altre forme d’arte più recenti,
come il cinema).

Figura 7 – Roger Taylor durante le registrazioni di "A NIGHT AT THE OPERA" (1975)

E tale legame non può che venir esasperato, enfatizzato dall’esperienza del concerto,
quando si assiste al brano non solo dal vivo (e quindi ad un livello più profondo di
qualunque supporto di riproduzione) ma anche eseguito da colui che lo ha scritto ed
inciso la prima volta: l’esperienza assume così un livello altissimo nei confronti in
particolare della musica pop e rock degli anni ’70, perché nei secoli precedenti anche
chi aveva potuto assistere ad un concerto eseguito dallo stesso autore non aveva
comunque avuto modo di accedere al pezzo musicale stesso un numero elevato di
volte; la fruizione era così limitata al solo concerto, e non prevedeva un ascolto anteriore
o uno posteriore: ciò che avveniva era intrecciato profondamente col presente e non era
concepito per un ascolto reiterato.
Ciò non esclude tuttavia che molti dei pezzi scritti nel passato e non destinati ad altro
che ad una serata o ad una stagione abbiano tuttora un valore artistico e culturale
assoluto, che trascende limiti spazio-temporali e fa di essi delle opere d’arte a tutti gli
effetti. Ma questo processo non deve essere circoscritto esclusivamente a musiche del
passato, perché non esiste ragione per dubitare che anche in epoche recenti si siano
verificate le condizioni per la nascita di brani immortali che diventano a loro volta dei
“classici”.
Nella seconda metà del Novecento la canzone si è evoluta fino a diventare un veicolo
privilegiato d’espressione, mentre altre forme che in precedenza avevano la stessa
funzione – la poesia, la letteratura – sono passate in secondo piano nell’esperienza
popular, che ha preferito confrontarsi con testi musicati e quindi dal valore
indiscutibilmente diverso: tale musica ha intrinseci nuovi effetti sociologici, semiotici ed
estetici.
La musica, e quella popular in particolare, è un nuovo tipo di prodotto fruibile non
durante l’atto creativo ma in differita[60], con un forte contributo di mediazione e
partecipazione (lo stesso pubblico durante i concerti non risulta estraneo all’atto di
creazione ma appartiene all’ambiente creativo); sono perciò necessari nuovi strumenti –
alcuni dei quali mutuati dalla musicologia tradizionale – per analizzare e spiegare i
complessi processi d’interazione che avvengono, e che non sono invece presenti a
questi livelli nell’universo della musica “classica”. Perciò queste canzoni sono come dei
semi gettati e che continuano a generare i loro frutti a distanza di decenni, non temendo
l’usura del tempo, anche se quasi certamente molti dei brani del periodo nascevano per
un fine non così nobile, ma per durare al massimo nelle orecchie degli ascoltatori
qualche settimana; eppure è innegabile che alcuni pezzi esercitino ancora oggi un
fascino tutto particolare che fa di questi brani dei “classici”.
E sicuramente Bohemian Rhapsody appartiene a questa cerchia, poiché ha in comune
con essi molte caratteristiche, e ne presenta anzi di nuove – tra cui una struttura
inusuale, il ricercato uso drammatico del mezzo stereofonico e il richiamo alla musica
operistica – che sono inedite (e dimostrano perciò la ricchezza inventiva di Mercury e
degli altri componenti del gruppo) e non troveranno più riscontro diretto e ad un livello
così elevato in altre composizioni contemporanee o future, scritte dai Queen o da artisti
diversi.
Figura 8 – John Deacon durante le registrazioni di "A NIGHT AT THE OPERA" (1975)
L’analisi del testo e della musica

S
e già l’album “A NIGHT AT THE OPERA” può essere a diritto considerato
come un enorme contenitore di idee musicali tra loro diversissime (ma allo
stesso tempo poste in un equilibrio che le rende indipendenti), Bohemian
Rhapsody contiene al suo interno stilemi molto lontani nel tempo e nello
spazio, è quasi una fusione di diverse canzoni, mirabilmente amalgamate dalla penna di
Mercury; sotto un certo punto di vista il brano è considerabile anzi come una sorta di
suite, intesa sia classicamente sia in un contesto progressive.
Non a caso l’autore espose in una serie di interviste una sorta di intento programmatico:

In verità si tratta di tre diverse canzoni che a un certo punto ho riunito in


una sola. Avevo sempre desiderato incidere qualcosa di operistico,
qualcosa con un tema iniziale che stabilisce l’atmosfera, per passare poi
a un rock che sfocia in una sezione operistica – un’inversione violenta –
e poi ritorna al tema [iniziale]. […] [Bohemian] Rhapsody bisognava
studiarla bene, non è una cosa che possa venire dal nulla. Certe
canzoni hanno bisogno di quello stile pomposo. […] Era un pezzo
ironico, una contraffazione operistica […].[61]

Già il titolo contiene in sé qualcosa di misterioso, e preannuncia in parte la struttura


della canzone: se nel Settecento e nell’Ottocento il termine “rapsodia” indicava un lavoro
vocale dalle sonorità essenzialmente epiche, quasi sempre improvvisato e privo di
senso unitario, nei secoli seguenti il suo significato si è trasferito ad una composizione
strettamente strumentale scritta nella generica forma della fantasia o anche basata su
uno o più motivi folkloristici, e quindi di netta ispirazione popolare, talvolta sviluppata
secondo formule tecniche piuttosto difficili, tali da porre in risalto le virtù acrobatiche
dell’esecutore[62]. Tutte queste sono caratteristiche che si riscontrano in Bohemian
Rhapsody.
E anche il termine “bohemian” del titolo conferisce alla canzone un particolare
significato, dandole una connotazione fortemente “artistica” e, allo stesso tempo, una
sfumatura vagamente esotica che la trasporta ulteriormente nell’universo di altri classici
della cultura pop e rock.
Le registrazioni del brano iniziarono il 24 agosto del 1975 presso gli studi Rockfield
Studio 1 nei pressi di Monmouth dopo un periodo di tre settimane di prove tenute a
Penrhos Court; durante le fasi di registrazione altri quattro studi (Roundhouse, Sarm
East Studios, Scorpio Sound e i Wessex Sound Studios) furono usati. Anche questa
ricerca di sound particolari che ogni studio ha denota una precisa volontà timbrica.
La struttura[63] di Bohemian Rhapsody è particolare e inedita[64] nel panorama musicale
perché presenta un ritorno tematico sviluppato all’interno di sezioni tra loro diversissime,
raggiungendo un compiuto equilibrio tra forma aperta (data dall’alternarsi di parti sempre
nuove e contrastanti) e forma chiusa (ottenuta con il ricorso ad una sorta di ritornello
conclusivo).
Da evidenziare inoltre come Bohemian Rhapsody appartenga al ristretto numero di
brani il cui titolo non viene citato (cantato) durante l’esecuzione, e questo permette di
dare una chiave di lettura ulteriormente complessa perché il titolo stesso diviene una
sorta di scrigno all’interno del quale è racchiuso il vero e proprio testo, non però
desumibile a partire dalle sole due parole che lo compongono e che denotano
maggiormente la forma libera che assume il pezzo.
La divisione dei 5 temi in rapporto col testo è la seguente:

Is this the real life


Is this just fantasy
Caught in a landslide
No escape from reality
Open your eyes
Look up to the skies and see
I’m just a poor boy, I need no sympathy
Because I’m easy come, easy go,
A little high, little low
Anyway the wind blows, doesn’t really matters to me, to me

Mama, just killed a man,


Put a gun against his head,
Pulled my trigger, now he’s dead,
Mama, life had just begun,
But now I’ve gone and thrown it all away
Mama, ooo,
Didn’t mean to make you cry
If I’m not back again this time tomorrow
Carry on, carry on, as if nothing really matters

Too late, my time has come,


Sends shivers down my spine
Body’s aching all the time,
Goodbye everybody – I’ve got to go –
Gotta leave you all behind and face the truth
Mama, ooo, (anyway the wind blows)
I don’t want to die,
I sometimes wish I’d never born at all
I see a little silhouetto of a man,
Scaramouch, Scaramouch will you do the Fandango
Thunderbolt and lighting – very very frightening me –
Galileo, Galileo,
Galileo, Galileo,
Galileo Figaro – Magnifico –
But I’m just a poor boy and nobody loves me
He’s just a poor boy from a poor family
Spare him his life from this monstrosity
Easy come easy go, will you let me go
Bismillah! No, we will not let you go – let him go –
Bismillah! We will not let you go – let him go –
Bismillah! We will not let you go – let him go –
Will not let you go – let me go –
Will not let you go – let me go –
No, no, no, no, no, no, no
Mama mia, mama mia, mama mia let me go
Beelzebub has a devil put aside for me, for me, for me

So you think you can stone me and spit in my eye


So you think you can love me and leave me to die
Oh baby – Can’t do this to me baby –
Just gotta get out – just gotta get right outta here –

Nothing really matters,


Anyone can see,
Nothing really matters, nothing really matters to me
Anyway the wind blows…

Schematizzando, la forma complessiva del brano è ottenuta con un continuo crescendo


emozionale che spiazza gli orizzonti e le attese dell’ascoltatore, il quale ha
continuamente l’impressione di trovarsi di fronte ad un nuovo universo sonoro, che però
alla fine assume una propria coerenza interna grazie alla struttura globale A [0:00] – B
[0:49] – B’ [1:48] – C [3:03] – D [4:07] – E [4:55], che testimonia il ricorso ad una precisa
ricerca formale:
dove ogni sezione è in realtà più complessa e musicalmente compiuta ed autosufficiente
(così A è quasi totalmente a cappella, le sezioni B sono melodiche, C è operistica, D è
hard rock ed E nuovamente melodica) oltre che formata da altre parti minori.
Analizzando il brano sotto una certa ottica appare scritto facendo ricorso ad una forma
aperta (ci sono 5 sezioni, e le sezioni B sono ripetute vicine, quindi non instaurano un
rapporto dialettico tra di loro; inoltre la sezione C risulta compresa tra un assolo di
chitarra ed una sezione di stampo hard rock), ma l’ultima sezione E richiama fortemente
ritorni tematici propri delle sezioni B (è anzi una variazione di B), e serve quindi – oltre
che da naturale conclusione del brano – anche a fornire a Bohemian Rhapsody una
ciclicità interna che non si credeva più possibile.
Ma c’è di più. Le sezioni A e C sono tra loro in stretto rapporto per l’importanza e il peso
che in esse assume l’intervento corale: non più semplice supporto alla voce, ma unità
autosufficiente che si fa carico di una propria indipendenza e personalità, lontana dalla
voce cantante con cui instaura un rapporto dialettico di scontri simile a quello che già si
era sentito in The Prophet’s Song, anche se qui il lavoro è più maturo e lo scambio
tematico tra le voci è drammatico e non semplicemente responsoriale o che completa
vicendevolmente il discorso melodico come avveniva in My Fairy King del primo album.
Per i motivi sopra esposti è evidente come con una struttura così concepita e
organizzata si superi il modello di una canzone dalla forma esclusivamente aperta ed
aciclica come The March Of The Black Queen (in cui vi erano 6 sezioni tra loro quasi
slegate e comunque senza un ritorno tematico interno), dove l’incredibile e inarrestabile
profluvio di idee non veniva però alla fine raccolto e concepito sotto un progetto unitario,
e andava così disperdendosi non lasciando l’idea di qualcosa di perfettamente
compiuto.
Figura 9 – Brian May, Roger Taylor e Freddie Mercury durante le registrazioni delle parti vocali per "A NIGHT
AT THE OPERA"

In Bohemian Rhapsody invece i temi attraverso cui si sviluppa la forma diventano


indipendenti dalla soggettività del compositore (e così il suo messaggio nel testo da
prettamente individuale diventa qualcosa di più esteso e liberamente interpretabile, vista
anche la sua ambiguità) e la musica stessa si carica di contenuti espressivi nuovi
rielaborati nella propria forma; le singole parti sono tra loro in rapporto e indipendenti nel
tempo, e come i temi della forma sonata non costituiscono una storia in quanto non si
sviluppano, essendo sempre identiche a se stesse: il loro ordine temporale di
antecedente e conseguente risponde e si sviluppa da un’unità semplice.
La forma, la struttura in cinque sezioni differenti di questa canzone è controbilanciata
tanto dall’importanza assunta dall’organico (non esiste un solo strumento o voce che
emerga relegando gli altri in secondo piano, perché a tutti è riservato almeno uno spazio
in cui possono emergere: se il pianoforte è infatti protagonista di B e B’, la lunga
cadenza di chitarra che porta a C riequilibra i rapporti; basso e batteria sono presenti in
quasi tutte le sezioni), quanto dalla divisione delle battute. Il brano è precisamente
formato da sezioni di durata sempre differente, che creano un vero arco emotivo e
musicale – teso a preparare e a sottolineare la sezione operistica C – grazie alla loro
durata interna; quindi anche da un punto di vista esclusivamente musicale, di notazione
(senza coinvolgere l’aspetto testuale, l’organico interessato o la durata effettiva, in
secondi, di ogni singola sezione) il centro focale verso cui è attirata l’attenzione dello
spettatore è la parte centrale, preparata da un continuo crescendo del numero di battute
e seguita da un decrescendo delle stesse.
Infatti, la sezione A è composta da 14 battute, B da 18, B’ da 22 (di cui 8 costituiscono
l’assolo), C da ben 41, D da 27 ed E da 16: confrontando graficamente questi valori
emerge allora chiaramente l’arco interno musicale che sorregge Bohemian Rhapsody e
che si ripercuote – amplificato in parte anche dalla durata effettiva in secondi – sul livello
emotivo. Anche sotto questo aspetto pertanto il climax espressivo ed emozionale risiede
principalmente nella sezione operistica C, e tale sezione è abilmente preparata e
sorretta da tutto l’impianto del brano medesimo, in un equilibrio formale perfettamente
bilanciato.

Emergono così anche nuove affinità tra le diverse sezioni: A ed E ad esempio,


rispettivamente introduzione e conclusione, hanno un numero simile di battute, e così
anche B’ e D, in virtù della pressoché identica estensione in partitura (ma non della loro
durata effettiva), incorniciano ancora una volta di più C. Proprio attorno a quest’ultima
parte tutta la canzone è stata chiaramente costruita, in modo tale che prima di essa ogni
sezione sia preparata e naturale conseguenza di quella precedente, e dopo di essa si
possa assistere ad un commiato “spontaneo” della forma che si spegne a poco a poco,
esaurendosi in modo naturale.
E non solo: la forma complessiva del brano, divisibile in 3 grossi blocchi (B–B’, C–D, E)
anticipati da un’introduzione (A), è concettualmente vicina a quella della forma sonata
del periodo classico, divisa in esposizione, sviluppo e ripresa: qui è innegabile che le
sezioni esterne siano correlate, e che venga alla fine ristabilita un’atmosfera e una
sonorità simile a quella iniziale, per cui è sicuramente corretto parlare di ripresa (anche
se non è una ripresa musicale o testuale di tipo letterale); le sezioni centrali C e D
possono invece considerarsi sviluppi di temi sottintesi e in esse è comunque raggiunta
la massima tensione, ma essenziale è in primo luogo la ventata di novità armonica,
melodica e ritmica che apportano, facendo sì che quando si riascolta nuovamente una
sezione simile (E) a quella iniziale (B), si percepisca una sensazione di rilassamento in
tutto assimilabile a quella della forma sonata, in cui la comparsa dei temi a fine
composizione nella stessa tonalità porta ad una distensione armonica e
conseguentemente ad un rilassamento psicologico nell’ascoltatore che ha compiuto un
percorso musicale completo.
Viene in Bohemian Rhapsody instaurata una nuova continuità che collega intimamente
la successione delle diverse sezioni, e in ciò essenzialmente sta il suo accostarsi con la
forma della sonata classica (anche se i temi non passano più solo attraverso diverse
ragioni armoniche ma anche attraverso stati d’animo ed ambientazioni esclusivamente
suggerite dalla musica); invece una canzone come The March Of The Black Queen è –
sotto questo punto di vista – ancora fortemente immatura, perché in essa non si
assisteva ad uno sviluppo ma solo ad un avvicendamento al suo interno, e mancava
ancora il principio del collegamento deduttivo e tematico: era un brano “barocco”, nel
senso che viveva il tempo in sé, ma non avveniva alcun mutamento di una stessa
sostanza (intesa kantianamente), nessuna dinamizzazione, forza propulsiva o tensione
energetica interna. I temi erano concepiti isolatamente, in grado di incastrarsi ma non
assecondando la legge della connessione di causa ed effetto: la sensazione generale
all’ascolto era quella di una composizione additiva e non sintetica[65].
In questo brano la forma musicale descritta riproduce in sé la forma drammatica
suggerita dal livello testuale; se nel periodo classico la dialettica tra esposizione,
sviluppo e ripresa era sostanzialmente armonica, qui invece non è più solo basata su
ritorni tematici (comuni alle sezioni B ed E), ma coinvolge e si concentra maggiormente
su aspetti propri della drammaturgia interna al brano, a partire dall’importanza data a
quanto descritto nel testo, con gli episodi fortemente tragici narrati che creano un
accumulo energetico protagonista delle varie sezioni, tutte tese a far emergere la parte
centrale C.
E anche nella presenza di un ritorno tematico o quantomeno di ambientazione (che si è
visto essere una caratteristica, essenziale al conferimento di un’unità interna, di molte
canzoni degli anni ’70 dalla struttura complessa) va rilevata la maturità di una
composizione come Bohemian Rhapsody rispetto ad altre che la precedono nella ricca
produzione del gruppo inglese. Inoltre, la presenza o quantomeno l’accostamento con
elementi musicali propriamente “classici” come quelli sopraesposti, insieme al ricorso
nella sezione C ad alcuni stilemi prettamente operistici e belcantistici permettono di
conferire al brano, così ricco di idee eppure perfettamente equilibrato, una sua aura di
distacco che lo consegna ad una dimensione altra.
La struttura del brano è ulteriormente stratificata e presenta altri richiami interni oltre a
quelli già esposti e presenti sul piano strettamente musicale dell’analisi della partitura.
Infatti, osservando la durata in secondi[66] delle singole sezioni A (49), B (59), B’ (75), C
(64), D (48) ed E (60), e tra loro rapportandole:
emergono nuovi punti d’interesse: se le sezioni A e C si è visto in precedenza essere
correlate dagli interventi corali, ora si nota come anche le sezioni A e D – tra loro molto
diverse in quanto la prima è quasi a cappella, la seconda è invece essenzialmente uno
stralcio di puro rock – abbiano praticamente una durata identica: ciò dimostra la
capacità e la fantasia compositiva di Mercury nel sottolineare sotto il profilo della durata
due parti così diverse.
Ancora più importante è il fatto che anche le sezioni B ed E, già coincidenti dal punto di
vista tematico e d’atmosfera, occupino praticamente lo stesso arco di tempo; e se
complessivamente le due sezioni B e l’ultima parte E durano più della metà di Bohemian
Rhapsody, c’è ancora un aspetto che vale la pena di sottolineare: la durata media di
ogni singolo episodio è di 59 secondi, e proprio questa è la durata dell’episodio B (B’ è
leggermente più lungo ma comprende anche il lungo assolo di chitarra che porta alla
sezione C), il quale, insieme ad E (60 secondi), viene a configurarsi come cellula
generatrice, non solo dal punto di vista tematico, ma anche per l’importanza assunta
nella struttura generale del brano. Parallelamente la sezione C, la più ricca di episodi
musicali è – esclusa B’ per le regioni sopra esposte – la sezione più lunga e articolata,
ma non in modo eccessivo poiché si scosta di soli 5 secondi dalla durata media di ogni
sezione.
Pertanto anche su un piano strettamente cronologico le varie parti costituenti Bohemian
Rhapsody sono tra loro perfettamente e precisamente rapportate, tali da conferire
l’importanza principale alla sezione operistica (escludendo l’introduttiva A, la sezione C
è esattamente anticipata e seguita da altre due sezioni, al centro focale del brano), che
permane così nella memoria dell’ascoltatore come il nucleo attorno al quale tutto è
costruito; a ciò si aggiunge – su un altro livello interpretativo – il numero di battute da cui
è costituita ogni singola sezione, che si è visto precedentemente essere costruito con
precisione. Si tenga infine presente che la melodia principale occupa un’estensione di
circa 165 secondi, che è sicuramente un’eccezione, specie se comparata con
qualunque altro brano (contemporaneo e non) uscito come singolo.
In questa composizione di Mercury evidentemente è stata superata ogni rigida
convenzione o modello prestabilito: parole e musica si plasmano in modo naturale
nascendo l’una dalle altre, con esigenze drammatiche e continuo scambio dialettico, e
non devono più rispondere a modelli prestabiliti o ad una prevedibile alternanza tra
verse e chorus: tutto qui è importante, non esiste una sezione musicale sottomessa ad
altre o che serva esclusivamente da trampolino di lancio: l’opera d’arte (perché tale è
senza dubbio Bohemian Rhapsody) ha assunto qui le funzioni, o meglio l’aspetto, di un
organismo.
Sul parallelo istituibile tra un brano musicale ed un complesso organico, scrive Mathieu,
nel breve saggio intitolato L’opera d’arte musicale come organismo[67], riferendosi
all’opera d’arte musicale appartenente al periodo “classico” (ma non si vede perché il
discorso non possa essere esteso anche ad altri periodi):

[Il musicista] fa entrare nel mondo certe totalità – le opere d’arte in


musica – la cui possibilità non preesisteva alla loro esistenza, e non
sarebbe mai stata riconosciuta come “possibile” se l’esperienza storica
non ce la presentasse come esistente: grazie, appunto, a quella
composizione del musicista. […] Il musicista che inventa – a mente, o al
pianoforte, o a tavolino – ha precisamente la speranza, sebbene non la
certezza, d’inventare in questo senso. […] Il valore attribuito alla sua
opera […] non sta nel rivelare una possibilità a cui aveva pensato, bensì
nel far essere una possibilità che, senza quella creazione, non sarebbe
esistita.

E prosegue citando l’importanza della forma che “vive perché assimila, elabora, scarta e
si riproduce”, della struttura nella musica:

[…] In musica la forma è tutto. […] La musica è l’arte più palesemente


autosignificante (se è musica buona s’intende), anche quando divenga
onomatopeica, descrittiva, narrativa, parenetica, religiosa e così via. La
forma musicale significa solo se stessa. […] [La possibilità della musica]
nasce col venire al mondo della forma, come sua forza generativa
immanente. […] Con ciò si connette anche l’assoluta inutilità della
musica e l’inevitabilità che, se essa ha valore, abbia un valore interno. O
la musica significa per se stessa, e ha valore per se stessa, cioè per la
sua forma, o non significa niente e non vale niente. […] La musica non
serve assolutamente a niente. Essa è obbligata quindi a giustificarsi
interamente da sé, in virtù della sua sola forma.

L’opera d’arte è quindi definita come una

composizione, predisposta secondo regole riconoscibili molto più


facilmente che nel caso di qualsiasi altra composizione artistica, [il cui
segreto] non è la sua complicazione bensì la sua semplicità.

L’opera d’arte riesce quando si fa da sé, e ciò “ipostatizza palesemente il sé dell’opera


d’arte, come qualcosa di esistente da cui (e non dalle ‘circostanze’) l’opera nasce”.
Inoltre

la forma specifica […] ha fatto “suoi” i contenuti immessivi dall’artista


secondo una forma che non è un programma, ma è paragonabile,
piuttosto, alla capacità assimilatrice della forza vitale. […] In questo
senso la forma – a differenza della struttura musicale astratta – non è
isolabile dai contenuti come l’anima non è isolabile dal corpo e, ancor
meno, dai contenuti psichici. […] [Il mondo entra nella musica] per
un’assimilazione da parte della forma, che per questo vive, e non per
l’interpretazione attraverso un modello esterno. Vi entrano, in
particolare, i sentimenti.

L’opera si carica di contenuti, rielaborandoli nella propria forma, e in questo ancora è


simile a un organismo; anzi l’artista non funge che da veicolo nel venire al mondo
dell’opera stessa, quasi che si possa presupporre per essa una sua esistenza anteriore
e al di fuori del mondo.
La ricchezza di Bohemian Rhapsody appare sin dall’organico corale e strumentale
utilizzato: oltre alla voce solista di Mercury compaiono cinque parti vocali indipendenti[68]
(che all’ascolto sono però molte di più – quasi 200 – grazie a raddoppi e sovraincisioni),
sette parti di chitarre elettriche, pianoforte, basso, percussioni e batteria con probabile
uso per la prima volta nei Queen di timpani orchestrali[69], il che darebbe ulteriore enfasi
alla sezione operistica centrale. Pertanto, anche la scelta degli strumenti da utilizzare
non è casuale ma risponde ad una precisa estetica formale.
La maggior parte delle tracce vocali sono state registrate da Mercury, che tramite
sovraincisioni riesce a simulare e ricoprire le funzioni di un intero coro: lo stesso autore
in un’intervista ammise che con Bohemian Rhapsody i Queen superarono le limitazioni
vocali presenti nei primi album e ricoprirono con le proprie voci un’estensione reale di
quattro ottave, senza ricorrere agli artifici che gli studi di registrazione cominciavano a
permettere con relativa facilità.
Sin dall’inizio della sezione A una parte corale amplifica e supporta armonicamente la
voce principale, creando un impasto sonoro particolare delle voci che hanno modo di
risaltare non essendoci alcun accompagnamento strumentale[70]. Il movimento delle voci
(notare le prime parole “Is this the real life?” che si rifanno al brano abbozzo di
Bohemian Rhapsody, Real Life, risalente ad alcuni anni prima) è qui scultoreo, quasi un
declamato rigido – il ritmo armonico corrisponde ad una battuta, essendo ogni accordo
tenuto per una battuta – che però a poco a poco si addolcisce (in generale è da
osservare il breve movimento cromatico discendente) e presenta flessioni melodiche ed
armoniche.

Questa prima parte è completamente Beatlesiana, ma i Beatles di


Abbey Road, l'ultimo capolavoro dei Beatles. Sia nelle armonizzazioni
vocali in stile ‘Because’ o ‘Sun King’ e sia nel suono, volutamente
'vintage’, un quadretto che ha il compito di trasportare nel tempo in
un’epoca altra che non sia il presente, riferendosi ad un passato (i
Beatles) che già era una rappresentazione del passato (Abbey Road)
proprio nelle cose a cui si riferisce, potrebbe essere un meta-vintage, e
questo perché rappresenta l'inizio magico, la porta del sogno che ci
introduce in un luogo che è dimensione irreale, è il ‘set’ in cui si articola
e si mette in azione l’intera vicenda, quindi è una cornice, o meglio un
paradigma che abilita il racconto e lo circoscrive in un contesto che è
fatto sia di simboli che di concretezza, dove si entra e si esce dalla luce
e dal buio, dalla disperazione e la consolazione, (ed è qui il senso
dell’‘easy come easy go’) dal sentirsi perduti all’essere dominatori del
proprio destino. Ma grossa parte ha la dimensione onirica e subconscia
dove i simboli prendono il sopravvento fino a diventare pure parole, puro
suono, come formule magiche (Galileo, Figaro, magnifico) e personaggi
dell’inconscio letterario (Scaramouch, Belzebub). Nei Queen questa
dimensione è ricorrente e verrà esplicitata in ‘A Kind of Magic’, ‘The
Invisible Man’ e non solo… è l’elemento fantastico e fiabesco. La
canzone si apre con la domanda: è vera vita, o è solo fantasia?[71]

L’accordo iniziale è particolare perché è un accordo di tonica, Si bemolle maggiore, a cui


è stata però aggiunta una sesta (un Sol che rende la tonalità più incerta: il relativo
minore di Si bemolle maggiore è infatti Sol minore); quindi il movimento procede – e
notare sia la pausa di 1/8 che apre ogni battuta sia il fatto che il coro completi
armonicamente la voce solista – andando verso la dominante parallela (Do, qui settima)
e arriva, nella battuta di 5/4 che enfatizza la “cattura” citata nel testo (riproducendo cioè
musicalmente quanto è detto in prosa: vedi il Fa basso raggiunto dal coro in
corrispondenza di “landslide”), su un accordo di settima di dominante (Fa settima):

A battuta 5, in corrispondenza delle significative parole “Open your eyes”, fa il suo


ingresso il pianoforte[72] che con un’ampia arcata melodica su un arpeggio di Sol minore
settima (e proprio gli accordi di settima sono una caratteristica armonica
dell’introduzione[73]) accompagna le voci – che ora si muovono senza più la pausa di
inizio battuta – e le supporta armonicamente:

Già nell’introduzione compare il consueto ricorso ai mezzi stereofonici per dividere la


voce sui due canali stereo, ottenendo l’effetto di approfondimento spaziale. Le parti
corali non occupano infatti tutte lo stesso canale, né sono semplicemente raddoppiate,
ma anzi distribuite di continuo in modo equilibrato, anche se in alcuni punti si spostano
nettamente dal canale sinistro al destro.
È questo ciò che accade in prossimità delle parole “Little high, Little low”, dove l’effetto
stereo è usato per sottolineare ulteriormente quanto contenuto a livello testuale; anche
qui quindi la musica riproduce in sé la forma drammatica: e la presenza di un coro
bipartito (la voce solista si è momentaneamente eclissata) anticipa la dicotomia che sarà
ancora più evidente nella sezione C.

Inoltre, il pianoforte, che suona le stesse note del coro, non occupa il canale centrale,
ma si sposta in modo opposto rispetto alla voce non lasciando mai alcuna zona uditiva
totalmente vuota: l’effetto che si ottiene è quello di un cambio di prospettiva, di
inquadratura ottenuto solo ricorrendo a mezzi musicali, scegliendo alcune parti di testo –
tra le molte possibili e disponibili – ed enfatizzandole secondo una vera e propria regia.
Un particolare sottile va osservato dal punto di vista armonico: in corrispondenza della
prima metà di frase gli accordi su cui si muovono le voci (e il pianoforte) sono Do
bemolle e Si bemolle, nella seconda La e Si bemolle. Quindi anche a livello strettamente
musicale si rispecchia l’alternanza tra “alto” e “basso” contenuta nel testo; e nulla è
lasciato al caso: infatti anche l’aggettivo “little” ha un suo corrispettivo musicale,
precisamente nell’intervallo minimo che separa i due accordi sopra citati:

Ricompare quindi la voce solista di Mercury a proporre un nuovo slancio melodico[74]


che porta alla sezione B. Qui si trova il vero tema strumentale di tutto il brano affidato al
piano ed amplificato dall’intervento del basso elettrico (ma che non propone nulla di
nuovo, limitandosi a suonare almeno inizialmente note di 4/4 che occupano l’intera
battuta), con le note che riecheggiando sono in grado da sole di ricreare l’atmosfera
anticipata dall’intervento corale iniziale, in cui lo strumento a tastiera non era ancora in
primo piano assoluto.
E l’inciso è tanto semplice quanto efficace[75], con la mano destra che arpeggia diversi
accordi – il Si bemolle sesta già trovato all’inizio, e accordi di Sol minore e Do minore a
cui è stata aggiunta una nona[76] – e la sinistra che raddoppia le note al basso e tiene il
suono ricorrendo al pedale; particolare è però il ricorso alla tecnica di incrocio delle
mani[77] proprio per rendere le none alle ottave alte, facendo così sì che il pianoforte
copra una vasta gamma della tastiera, arrivando ad un ambito superiore le 4 ottave[78]:

Il brano quindi prosegue, con la voce di solista che si muove attraverso un fraseggio
libero e articolato (è quasi essa stessa a dare la forma e non viceversa), e con il
progressivo sviluppo della linea del basso elettrico, presto accompagnato anche dalla
regolare pulsazione della batteria.
Una breve sezione modulante affidata al solo pianoforte, e ancora caratterizzata da una
scansione ritmica in ottavi, porta alla sezione B’, in cui l’intervento delle percussioni (in
particolare un “bell tree” dall’eterea sonorità) pare quasi sottolineare il movimento
ancora più indipendente della voce, che ormai si muove con una scioltezza ritmica
notevole, superando le barriere date dalle singole battute[79]:

Ma la differenza tra le due sezioni B e B’ non è solo nel movimento della voce solista,
poiché cambia anche l’organico coinvolto: fanno infatti la loro prima apparizione anche
due delle sette parti di chitarre elettriche (ad inizio di questa terza sezione una di esse
raddoppia le note alle ottave alte del pianoforte), e – soprattutto – in corrispondenza
della ripresa della parola “Mama” che apriva la sezione B, ecco comparire due parti
corali distinte, la seconda delle quali riproduce per imitazione un’analoga figurazione del
pianoforte.
La prima di esse ha un movimento discendente contrario a quello ascendente della voce
principale, mentre la seconda scandisce chiaramente, facendo ricorso ad una nona che
richiama l’introduzione strumentale pianistica, le parole “Anyway the wind blows” già
sentite in coda della sezione A e che torneranno ancora a terminare la canzone: quindi il
brano è legato al proprio interno da sottili richiami tematici, sia a livello musicale (le none
raddoppiate ottenute, dal piano, dalla chitarra elettrica e ora anche dal coro), sia a livello
testuale che ne permettono la coerenza e aiutano a conformare stabilmente la forma.
In seguito ad un nuovo intervento corale vocalizzato che sorregge armonicamente la
voce, compare il lungo assolo della Red Special – quasi 30 secondi – che conduce la
canzone (fino a questo punto dalla struttura “normale” e senza eccessive sorprese) alla
sezione centrale C. La chitarra principale solista è accompagnata in questa parte
strumentale di Bohemian Rhapsody, oltre che da basso e batteria, dal pianoforte (che fa
sentire ancora un paio di volte la discesa già analizzata costruita su un accordo con
nona aggiunta) e da altre due chitarre che più che da sostegno melodico sono
importanti a livello armonico. L’assolo è molto complesso: suonato all’ottava superiore,
contiene molti gruppi irregolari (dalle terzine alle sestine, a gruppi formati da 7 note),
veloci scale ascendenti in modo misolidico[80] e discendenti oltre a vari altri abbellimenti
ed acciaccature.
Terminato l’assolo – l’unico vero frammento esclusivamente strumentale di tutto il brano
– ha inizio la sezione C e con essa la parte della canzone in assoluto più imprevedibile e
ricca di inventiva, tanto a livello musicale quanto su un piano più strettamente testuale.
La sezione B’ concludeva con un richiamo alla vita e insieme alla morte: “I don’t wanna
die, I sometimes wish I’d never born at all”; ora il testo torna in prima persona e
l’ambientazione musicale suggerisce un cambio di paesaggio, in ambito sonoro e
drammatico, quasi che – ma questa è solo una delle possibili interpretazioni[81] – la
storia narrata sia giunta al suo fulcro, al suo culmine emotivo, e che il personaggio,
bandito dalla società e forse dalla vita stessa per avere compiuto un omicidio, sia ora
giunto in un luogo metafisico, attraverso un viaggio allucinante (quasi una discesa agli
inferi) rappresentato dall’assolo di chitarra.
In quest’ottica anche l’iniziale intervento corale della sezione A trova una sua
giustificazione interna, in quanto tutta la vicenda narrata è chiaramente una storia dai
contorni oscuri e non totalmente definibili (“Is this the real life? Is this just fantasy?”)
ispirata lontanamente addirittura ad una storia di cowboy (“Mama, just killed a man, Put
a gun against his head, Pulled my trigger, now he’s dead,”), come l’abbozzo Real Life
suggerisce, e il coro rappresenta qui – al pari del coro delle antiche tragedie greche –
una voce ancora esterna che commenta i fatti ma non interviene direttamente su essi: la
sua funzione è essenzialmente contemplativa, descrittiva e non d’azione o
partecipazione diretta. Musicalmente nella sezione C si ha un netto cambio d’atmosfera,
sia perché il tempo d’esecuzione risulta raddoppiato ( ♪ = ♩ )[82], sia perché viene
abbandonata la tonalità di Si bemolle e in chiave compaiono tre diesis: si è quindi
passati in una regione armonica di La maggiore tramite il lungo assolo precedente della
chitarra elettrica.
E proprio con accordi scanditi velocemente sulla nuova tonica, in ritmo staccato[83] e
abbandonando solo ora l’uso del pedale, ha inizio questa parte del brano, che ne
costituisce – sotto più punti di vista – il climax:

Quindi ricompare la voce solista di Mercury che – muovendosi inizialmente su un pedale


di tonica ed accompagnata dal solo piano – esprime uno stato di stupore: “I see a little
silhouetto of a man”; a questo movimento sottile risponde presto una parte del coro
ribattendo accordi cromatici che portano ad una zona ampia ed armonicamente non
definita, in cui le voci si alternano cantando semplicemente le parole “Galileo” e “Figaro”
dopo aver presentato la parte con “fulmini e saette”.
In questo punto viene raggiunta la massima originalità del pezzo, non solo ricorrendo ad
un uso massiccio dei processi di sovraincisione e di ricerca stereofonica, ma anche
drammaticamente: è infatti chiaro che in questa parte quasi esclusivamente a cappella
(al piano sono dedicate piccole oasi, altrimenti il suo è un semplice supporto armonico o
raddoppio), venga richiamata l’atmosfera o perlomeno la sonorità dell’opera buffa
italiana settecentesca e ancor più ottocentesca, e attraverso quest’ottica vanno
interpretati i vari nomi dei protagonisti che compaiono.
“Scaramouche” è quasi sicuramente riferito alla tipica maschera della commedia
dell’arte Scaramuccia[84], mentre “Galileo” e “Figaro” sono nomi chiaramente italiani (e
altre parole in italiano compaiono in tutto il testo), l’ultimo dei quali richiama il
protagonista di almeno due celebri opere liriche, Le Nozze di Figaro mozartiane (1786)
e Il Barbiere di Siviglia di Rossini (1816). Viene inoltre riproposta una tipica situazione
del melodramma, e cioè la presenza di fulmini e saette, qui rappresentate dall’intervento
corale che non solo è – musicalmente – accecante come un lampo, ma scandisce
anche proprio le parole “Thunderbolt and lightning”; e solo qui compare, coerentemente,
un intervento della batteria.
Ma c’è dell’altro: il coro chiede in modo chiaro al protagonista del brano, Scaramuccia,
se vuole ballare il fandango[85], una tipica danza folcloristica spagnola con
accompagnamento di canto e caratterizzata da un ritmo ternario; e l’accompagnamento
corale – pur essendo in 4/4 – riprende proprio un ritmo simile al fandango e spostando
l’accento ritmico dà luogo ad una zona poliritmica (notare anche come viene offerto
musicalmente l’invito, con l’alternarsi tra due accordi); pertanto anche in questo caso la
forma musicale riproduce in sé la forma drammatica e le dà altri significati:
Questo riferimento all’opera italiana non è casuale, come dimostrano anche altri
riferimenti interni non solo a Bohemian Rhapsody ma nella stessa produzione dei
Queen e di Mercury solista: nel primo caso infatti si può citare il brano It’s A Hard Life –
che inizia omaggiando abbastanza esplicitamente l’aria “Vesti la giubba” tratta da I
pagliacci di Leoncavallo (1892) – mentre per quanto riguarda la discografia solista del
cantante occorre ricordare l’album “BARCELONA” (1987), interessante esperimento in
cui la musica d’opera – rappresentata dalla cantante Montserrat Caballé – è posta a
contatto con l’universo popular, ma secondo una prospettiva differente rispetto a
Bohemian Rhapsody[86].
In corrispondenza delle parole “Galileo”[87] e “Figaro”, alla apparente confusione
suggerita dalla mancanza di una tonalità definita si aggiunge un fitto gioco di voci che si
richiamano tramite un uso accorto dell’effetto stereofonico, alternando ed integrando – e
in modo più netto di quanto avvenisse in precedenza – il canale destro a quello sinistro;
l’effetto è amplificato dalla temporanea assenza del pianoforte o di qualunque altro
strumento come sostegno, e perciò l’uso delle sole voci crea un clima di sospensione
accentuato dalla mancanza di una guida ritmica:

L’intreccio vocale – di per sé già complesso stereofonicamente – è accentuato


dall’ingresso a canone delle diverse voci (con quattro parti vocali indipendenti e reali[88])
in corrispondenza della parola “Magnifico”: viene in tal modo raggiunto uno sfondamento
tanto temporale (le voci fanno il loro ingresso a canone in ritardo le une rispetto alle
altre, inoltre si assiste ad una divisione della linea melodica funzionalmente simile a
quella dell’hochetus) quanto spaziale e prospettico (ogni voce occupa infatti
alternativamente un canale diverso ed amplifica la sensazione di eco).
L’artificiosità, la melodrammaticità, la pomposità e l’esagerazione sono ovviamente
volute e devono essere interpretate come un tratto stilistico (direttamente mutuato dalla
musica glam del periodo, non tralasciando l’influenza di Bowie), come una volontà
espressiva ed una ricerca formale che ricorre a tutti i mezzi (ivi compresi quelli propri
che solo uno studio di registrazione è in grado di fornire) per ottenere il risultato
ricercato: in questo l’estetica glam si avvicina alla filosofia barocca. E allo stesso modo
la zona non tonalmente definita appena descritta è utile a portare il brano verso una
regione armonica totalmente diversa: i tre diesis in chiave vengono infatti abbandonati e
sostituiti da altrettanti bemolli, portando a Mi bemolle la nuova tonica.
In questa nuova parte della sezione operistica C il coro non ha più solo una funzione
descrittiva, ma assume una funzione dialettica nei confronti della voce, e quindi
fortemente drammatica: la voce solista di Mercury continua infatti a parlare in prima
persona (“I’m just a poor boy”[89]), mentre il coro risponde commentando quanto appena
udito (“He’s just a poor boy”) alternando con efficacia valori brevi e lunghi e dando in tal
modo al testo un carattere d’inesorabilità da cui la voce solista sembra incapace di
sfuggire (non sono presenti a livello ritmico sincopi o pause distensive); nel frattempo è
tornato l’accompagnamento di pianoforte, ora amplificato anche dall’intervento di basso
e batteria. Occorre far vertere l’attenzione dell’ascoltatore su un particolare non
trascurabile a livello testuale: il coro riprende infatti una frase già sentita nella sezione A
ma allora cantata dalla sola voce solista e in prima persona (“I’m just a poor boy”); il
fatto che ora il medesimo concetto sia ripetuto in terza persona e proprio dal coro
denota la sua posizione eminentemente dialettica nei confronti del “personaggio”
principale, e suggerisce il fatto che le parole pronunciate nell’introduzione non sono
andate perse ma sono anzi state raccolte solo ora. Sempre presente sulla “scena”, il
coro ha una funzione di scambio continuo con la voce, non si limita a raddoppiare
semplicemente concetti già espressi ma ne lancia anzi di nuovi, dando così prova della
propria esistenza e della propria indipendenza, e accentuando il conflitto
drammaticamente.
Ma è proprio dallo scultoreo intervento corale che arrivano le maggiori sorprese, ed
esse si manifestano su un piano strettamente drammaturgico: la voce principale si
presenta infatti come era stata introdotta dal coro iniziale della sezione A, come un
“Easy come, easy go”. Pare qui che essa chieda perdono e la possibilità di andare via
(“Will you let me go?”) da questo luogo infernale pieno di fulmini e saette e
dall’atmosfera ulteriormente appesantita dai massicci interventi corali. Inaspettatamente
qui il coro si divide in tre grossi tronconi, ognuno non solo con un proprio tema musicale
ma anche con una diversa funzione sulla “scena” che si sta svolgendo: la teatralità di
Bohemian Rhapsody raggiunge qui uno dei suoi nuovi apici.
Un primo frammento corale ripete in modo cadenzato, e non cambiando mai altezza o
intervallo, la parola “Bismillah” (una parola araba[90] che significa letteralmente “nel
nome di Dio”) e mantiene quindi una sostanziale posizione di imparzialità nei confronti
della richiesta appena effettuata; una seconda parte del coro invece scandisce con forza
impressionante un diniego scultoreo (“No we will not let you go.”), mentre l’ultimo
elemento corale è invece propenso alla proposta della voce solista e controbatte (“Let
him go.”).
Tutto ciò è ottenuto con un continuo scambio dialettico tra queste diverse voci, che
intervengono singolarmente ad esprimere ciascuna la propria opinione, spesso
cantando contemporaneamente su testi diversi (vedi a [3:48] le voci che si
sovrappongono e poi si frantumano in un intervento a canone del tutto simile a quello
precedentemente analizzato), in modo analogo a quanto avviene nei concertati finali
dell’opera buffa italiana. Gli interventi vocali danno vita ad un intreccio polifonico dove
però ogni singola parte si sente chiaramente e non sovrasta le altre: le entrate
successive del coro – che sono sempre di durata inferiore – nelle sue diverse parti (parti
che si è visto essere alla stregua quasi di personaggi), schematizzate, danno luogo alla
seguente struttura articolata, dove è evidente come ogni blocco si inserisca
perfettamente in un più complesso meccanismo ad incastro che ha una sua naturale
conclusione:
All’ascolto è evidente (anche se parzialmente coperta dagli interventi corali) la voce
solista che emerge alla fine di questo pezzo a ripetere la parola “Never”; la sua funzione
è anche quella di sostituire il coro 1 sia nell’organico sia a livello drammatico: particolare
è il fatto che questa parte copra e superi sia l’ultima apparizione del coro 2 che l’ultima
apparizione del coro 3, assumendo quindi un carattere conclusivo, definitivo e
riassuntivo, e rappresentando un omologo – ma in posizione opposta – del coro 1.
Armonicamente inoltre, se “Bismillah” non è tonalmente definita (anche se è l’unica
parte ad essere raddoppiata dal basso oltre che dal pianoforte, e come canto si tratta di
ottave parallele), il secondo elemento corale mantiene fondamentalmente un pedale di
Si bemolle (dominante), mentre le voci che cantano “Let him go” sono su un accordo di
Mi bemolle (tonica): perciò il contrasto dialettico è mantenuto e rappresentato
musicalmente come una tensione che avviene anche sul piano armonico, con
l’alternarsi dei due gradi principali della scala, i più forti (ricorrere ad altri gradi avrebbe
diminuito la sensazione di scontro e il vigore che solo I e V grado hanno).
Un'altra intima relazione collega poi Bohemian Rhapsody con l’opera di stampo italiano:
quando le voci si sono nuovamente riunite e il coro si è compattato in quella che pare
essere la risposta finale, la negazione alla possibilità di evasione è ottenuta con dei “No”
martellati ascendenti[91] e ognuno su un accordo diverso[92] (raddoppiato da piano e
basso), che ricordano molto da vicino i “No” presenti nel sestetto del II atto del Don
Giovanni mozartiano: quasi uno stilema del genere, riconducibile a Gluck, per le scene
infernali[93]. La situazione drammatica risulta simile: se nel brano dei Queen il
personaggio di questa sezione C, Scaramuccia, pare circondato da forze più grandi di
lui che vogliono farlo restare in un luogo infernale, portandolo quindi alla morte (o
comunque farlo soffrire[94]), nel Don Giovanni Leporello è circondato da figure che
vogliono ucciderlo perché lo hanno confuso con il di lui padrone.
Confrontando i due pezzi risultano evidenti le affinità, a partire dalla medesima tonalità
d’impianto (Mi bemolle maggiore); solo diverso è il moto delle voci, discendente nel
primo caso e ascendente nel secondo. Ma analoga è la rigida e netta declamazione,
ulteriormente enfatizzata dalle pause di silenzio in cui le parole riecheggiano, che non
lascia spazio a nessun tipo di fuga o di possibilità di salvezza:

L’impressione di maggiore meccanicità presente in Bohemian Rhapsody è però


efficacemente mitigata dal movimento fortemente cromatico delle voci[95], simbolo anche
dell’indecisione che pervade la scelta effettuata dal coro. Si svolge insomma qui un vero
e proprio scontro portato avanti con mezzi esclusivamente musicali che stupiscono di
continuo l’ascoltatore e lo lasciano in uno stato di tensione emotiva riguardo a come
finirà l’intera vicenda.
Pertanto, un’analoga situazione drammatica, in cui anche il testo è identico, è risolta in
modo simile in due generi musicali tra loro apparentemente distanti: e ciò testimonia la
ricchezza inventiva di Mercury e la sua capacità compositiva nel far incontrare stili
lontani tra di loro, amalgamandoli però in una totalità tramite il ricorso a richiami interni
all’opera che le conferiscono un disegno coerente di unità nella varietà.
Un nuovo disperato appello isolato della voce solista “Mama mia let me go” (che
riprende l’inciso di “Galileo” pur trasponendolo[96]), con un esplicito riferimento alla
dimensione infernale nettamente contrapposta all’implorazione precedente (“Bismillah”),
“Beelzebub has a devil put aside for me”, conduce alla fine di questa sezione centrale C
ricorrendo ad un’armonia a 6 parti, che termina con un accordo di settima di dominante
(Si bemolle) lungo 8/4 e scandito dal coro all’ottava alta (nel frattempo fa il suo ingresso
una seconda chitarra che in fade in accompagna un altro strumento a corde); il Si
bemolle sovracuto (Sib4) cantato da Taylor è una delle note più alte che si riscontra
nell’intera discografia dei Queen (vedi anche il C5 presente in Seaside Rendezvous):

Con esso termina anche l’estesa zona di modulazioni e passaggi cromatici: d’ora in poi
l’accompagnamento sarà tonalmente stabile, a partire dalle note ribattute di pianoforte e
basso elettrico che accompagnano l’uscita del coro e mantengono un pedale di
dominante che riassesta l’impianto armonico del brano.
Ha inizio a [4:07] la sezione D, dai caratteri decisamente hard rock ma senza
dimenticare evidenti influenze progressive coerenti al periodo storico musicale della
registrazione (1975). Evidente è la volontà di presentare una nuova sezione altamente
contrastante con la precedente, a partire dalla forte sonorità (in organico compaiono 3
chitarre elettriche, basso e batteria): cambia anche il tempo metronomico, all’incirca ♩ =
♩ . = 138. La suddivisione ritmica passa dai 4/4 delle battute precedenti ai 12/8 e ai 6/8,
e strumentalmente si assiste all’inizio a ripetute scale delle chitarre (che, raddoppiate
dal basso, torneranno a concludere la medesima sezione; anche a livello di costruzione
musicale si assiste quindi al ritorno di strutture ripetute, mentre fino ad ora ciò che si era
sentito non era mai una sezione aperta e conclusa da un identico inciso tematico,
poiché tutto era un germogliare spontaneo sul piano melodico e su quello armonico):

Subito dopo avviene l’ingresso della voce di Mercury (che confronto a quella della
precedente sezione operistica appare “sporca”, rude, e si muove su intervalli minimi
abbandonando grandi arcate melodiche o salti d’ottava), presto raddoppiata da una
seconda voce cantante: l’assenza dei cori è testimone di una nuova prospettiva, in cui la
ricchezza di posizioni, caratterizzante la parte precedente, è stata qui sostituita da un
unico punto di vista.
Su un piano prettamente armonico, se C era ricca, continuamente cangiante e piena di
sorprese per l’ascoltatore, qui invece i tre accordi maggiormente usati sono Mi bemolle,
Si bemolle e Fa, rispettivamente tonica, dominante e doppia dominante, secondo uno
schema classico usato nella musica pop: sul piano musicale si crea perciò un contrasto
netto, ulteriormente sottolineato dalla voluta semplicità e banalità del testo, che richiama
brani di genere hard rock. Non si deve però credere che in questa sezione D si abbia
una caduta di stile o di valore musicale: anzi questa parte di Bohemian Rhapsody
funziona da polo scaricatore delle tensioni (armoniche e drammatiche) finora
accumulatesi, e permette inoltre – per contrasto – di far risaltare le parti precedenti e
seguenti: è sicuramente un blocco musicale “fermo”, slegato (ma comunque concepito
sotto un progetto unitario) da tutto il resto del brano, e che non suggerisce nulla di
nuovo; ma proprio in questo sta la sua caratteristica principale e la sua peculiarità
rispetto alle altre sezioni.

Una scala veloce basata su un accordo di settima di dominante (Si bemolle) suonata
dalla mano sinistra al pianoforte – e anticipata da analoghe alle chitarre elettriche –
costituisce il passaggio tra le sezioni D ed E, e ristabilisce tanto il tempo in 4/4 quanto
un necessario rilassamento (l’esecuzione torna a = 72, come era in A) dopo gli
spigoli appena sentiti.
Dopo tale passaggio si giunge ad una nuova condizione di equilibrio (anche la
scansione ritmica della battuta in 12/8 viene abbandonata), necessaria sia sul piano
musicale che su quello psicologico dell’ascolto, e perciò la veloce scala sopra analizzata
ha essenzialmente la funzione di scarico energetico[97].
Come si vede, anche l’accompagnamento pianistico torna simile a quello di inizio
canzone (ricompare anche l’uso del pedale), e l’atmosfera è ristabilita anche dal nuovo
intervento dei cori – tornati qui ad una funzione più descrittiva che dialettica – assenti
nella precedente sezione; la stessa voce solistica di Mercury torna espressiva e,
dimenticate le irruenze di D e l’impulsività (contrapposta alla riflessione di questa parte),
torna a muoversi – come nelle sezioni B – per terze e ricorrendo spesso ad ambiti
particolarmente estesi, anche se gli intervalli risultano più piccoli di quelli delle prime
sezioni: anche questa sottigliezza permette di cogliere il progressivo avvicinamento alla
fine del brano.
Armonicamente tale sezione inizia su un accordo di tonica (Mi bemolle) e tale
rilassamento – insieme a quello dell’organico e a quello melodico – fa intuire
all’ascoltatore che quella che sta sentendo è l’ultima sezione del brano, quella
conclusiva e che presenta uno stato d’animo simile a quello iniziale. Notare i movimenti
ascendenti di “fanfara” delle chitarre di May dal ritmo acefalo, che si contrappongono in
modo preciso ed efficace alla linea melodica discendente costituita dagli interventi corali,
nell’esempio sopra riportato.
Pertanto, le sezioni B, B’ ed E risultano accomunate sotto diversi aspetti e il ritorno di un
tema musicale permette al brano di trovare una forma chiusa e di conseguenza un
equilibrio: le parti tematiche simili sono infatti state concepite e organizzate tenendo a
mente un progetto unitario e coerente. A ciò si aggiungano vari sottili richiami interni, a
partire da quelli testuali: le prime parole che Mercury canta in questa sezione E,
“Nothing really matters, anyone can see, nothing really matters, nothing really matters to
me”, si rifanno direttamente a quelle corali che avevano chiuso la sezione A, “Anyway
the wind blows, doesn’t really matters to me”; inoltre il testo “Anyway the wind blows”,
oltre a chiudere la prima sezione, si trovava anche a termine della sezione B’ e torna ora
a concludere la canzone[98]: queste sono infatti le ultime parole cantate dalla voce
solista, che vengono amplificate e trasportate in una dimensione altra dal suono del
gong che termina il brano[99], mentre ormai gli altri strumenti si sono come spenti a poco
a poco, e lo stesso pianoforte ha assunto sonorità eteree.
L’organico abbandona la canzone in modo delicato e silenzioso, e nella naturale
progressione verso la fine, accentuata anche dalla ripetizione di Mercury che dice per
tre volte “Nothing really matters”, Bohemian Rhapsody assume chiaramente una forma
interna ciclica e compiuta. Anche l’ultimo accordo, un Fa di doppia dominante, viene
raggiunto lentamente; infatti una sezione contraddistinta da un pedale di tonica (Mi
bemolle) è seguita da una progressiva discesa cromatica ai bassi che passano – nella
parte in cui si hanno gli ultimi due interventi della chitarra di May – a Re, Re bemolle e
finalmente Do, prima che si instauri il pedale finale di Fa[100], su cui sono costruiti ancora
altri accordi cadenzanti del pianoforte, tra cui in Re diminuito fortemente espressivo (in
corrispondenza della parola “wind”) che costituisce il vero commiato della voce da
Bohemian Rhapsody.
Tra i richiami interni ve ne sono anche altri a carattere stereofonico; oltre infatti al
complesso gioco corale e contrappuntistico della sezione operistica C, ullteriori ricerche
espressive hanno condizionato – in fase finale di mixaggio – il bilanciamento vocale e
strumentale: se infatti nella sezione A si è visto che le voci si spostavano dal canale
sinistro a quello destro (in corrispondenza delle parole “Little high, little low”), in questa
sezione finale il commiato della chitarra agisce in modo analogo, ma scambiando
l’ordine dei canali, e occupando quindi prima il destro e quindi il sinistro, per poi
spegnersi poco alla volta.

Riassumendo, la forza e la peculiarità di Bohemian Rhapsody risiedono nella sua forma


interna (che si è visto essere fortemente strutturata), la quale permette un vero e proprio
percorso drammatico ed emotivo all’ascoltatore; inoltre anche all’interno del brano si
assiste ad un analogo percorso in continua tensione – con bruschi passaggi da stati
riflessivi ad altri emotivi – che coinvolge non solo la voce solista ma anche la funzione
degli interventi corali, che dalla funzione descrittiva si è visto passare ad una dialettica
per tornare poi nuovamente semplice supporto armonico e melodico. Il tutto è inserito in
un contesto strutturale apparentemente aciclico, dove però compaiono delle riprese
musicali che danno al brano una propria coerenza interna ed un equilibrio giocato
ricorrendo a vari aspetti.
Si viene a creare una nuova esperienza per l’ascolto, in cui oltre a metodi strettamente
musicali, si arriva ad uno spessore nuovo: alla dimensione verticale dell’armonia e a
quella orizzontale della melodia si associa una profondità inedita, un vero e proprio
sfondamento permesso dal ricorso a nuovi mezzi, tra cui quelli stereofonici[101] che
aggiungono una nuova dimensione prospettica coinvolgendo direttamente lo spettatore.
Con questo sistema spazio e tempo sono concatenati in modo dialettico e si rispondono
vicendevolmente attraverso richiami che si è visto essere propriamente drammatici.
L’analisi del tracciato d’onda dell’intero brano dimostra poi come il commiato
strumentale finale sopra descritto risponda ad una logica interna in cui ogni dettaglio
strutturale (e, di conseguenza, drammatico) è associato ad una particolare intensità
sonora, sì che la sezione operistica centrale non solo è il centro verso cui e da cui
l’intera canzone tende ed ha origine e sviluppo, ma è anche la regione sonora a
maggiore intensità, quella in cui l’ascoltatore è più sottoposto a stimoli fonici e fonetici.
Per quanto poi risulti enigmatico il testo e alcuni riferimenti dello stesso, ciò che viene
descritto è essenzialmente un percorso, una storia che passa da uno stato iniziale
incerto (sezione A), ad uno descrittivo (sezioni B e B’), ad uno melodrammatico (sezione
C), ad uno furente e di ribellione (sezione D) fino a uno di ritrovata serenità e commiato
(sezione E); quello che viene presentato è dunque essenzialmente un arco drammatico
in progressiva tensione che trova riposo solo all’inizio ed alla fine. La naturale
conclusione del brano avviene dunque su più piani: ad un livello di forma (con le battute
che diminuiscono gradatamente il loro numero), ad un livello di presenza degli strumenti
(l’organico va assottigliandosi sempre più), ad un livello emotivo e testuale (la vicenda
ha raggiunto il suo epilogo).
La cosa incredibile e stupefacente è che questi stati d’animo, questi veri e propri
paesaggi sonori sono contenuti ed ottenuti nella musica e nel testo in sé ad uno stesso
livello (le parole non sono un semplice pretesto per costruire la forma musicale, la quale
a sua volta non è un freddo rivestimento aggiuntivo alle liriche): in questo senso la
drammaturgia musicale del pezzo è latente nella raggiunta simbiosi tra musica e parole
ma pronta a mostrare una vasta gamma di espressioni e sentimenti all’ascolto.
Qui sta l’incredibile valore tanto artistico quanto culturale di Bohemian Rhapsody, la cui
struttura – riassumendo – ha le seguenti peculiarità schematizzate, il cui incastro
permette la ricca varietà espressiva e l’approfondimento musicale su più livelli
contemporanei:

SEZIONI
A B B' C D E
Funzione
(forma Introduzione Esposizione Sviluppo Ripresa
sonata)
Numero 14 18 22 41 27 16
battute
Durata (in
49 59 75 64 48 60
secondi)
Pianoforte Chitarra
Strumento
- Pianoforte e e Pianoforte
Principale
percussioni batteria
Funzione
Principale Accompagnamento Principale - Accompagnamento
Coro
Hard
Stile A cappella Ballata Opera Ballata
rock
Autore
classico - Puccini Rossini Verdi Puccini
richiamato
La nuova struttura drammaturgica dettata dall’esibizione live

A
partire dal tour inglese del 1975, iniziato all’Empire di Liverpool il 14
novembre, Bohemian Rhapsody riveste un ruolo fondamentale all’interno
della scaletta del concerto in quanto ne fornisce la scansione drammatica e
ne permette contemporaneamente una coerenza interna, attraverso una
scelta formale e stilistica inedita e particolare.
I concerti vengono infatti aperti dalla sezione C del pezzo (in sostituzione alla
strumentale Procession, che nei tour precedenti era la prima traccia in scaletta) che
viene presentata nella versione dell’LP, quindi già registrata: i Queen non presenteranno
mai dal vivo questa parte di canzone, ma ricorreranno sempre alla registrazione
effettuata in studio e conosciuta dal pubblico attraverso il supporto in vinile[102].

Figura 10 – I Queen in tour nel 1976 (foto di Peter Stupar)

Questa scelta può certo sorprendere, ma è coerentemente sviluppata all’interno della


concezione del pezzo stesso: la sezione operistica di Bohemian Rhapsody si è infatti
visto essere complessa e ricca di sovraincisioni vocali e strumentali, in modo
volutamente smodato ed esasperato, tanto che nei concerti diveniva impossibile
riproporre tutta la gamma di sfumature ed accorgimenti presenti nell’LP, e quindi – per
mantenere sempre il pezzo ad un livello altissimo e volutamente artificiale[103] – ecco
che appare giustificata la scelta di ricorrere alla registrazione, che ad apertura concerto
permetteva anche al pubblico di sentire da subito il pezzo più celebre e complesso
scritto da Mercury.
Anzi lo stesso autore del brano in un’intervista rilasciata al Circus Magazine il 17 marzo
1977 afferma chiaramente che in generale la band non vuole riprodurre dal vivo gli
stessi effetti registrati in studio (da cui l’idea di non ricorrere, almeno inizialmente,
nemmeno a session men per l’esibizione live):
Pensiamo che lo show dovrebbe essere uno spettacolo. Un concerto
non è una trasposizione dal vivo di un nostro album. È un evento
teatrale.

E in un’altra intervista aggiunge:

La gente si lascia intrattenere in vari modi, ma c’è una cosa che proprio
non vuole: non vuole artisti che salgano sul palco e suonino
sciattamente le loro canzoni. Con noi non accade mai. Chi ascolta i
nostri dischi già lo sa. […] Mi piace l’idea che le nostre canzoni possano
assumere forme diverse a seconda di cosa vogliamo trasmettere.[104]

Alla fine della sezione C registrata il gruppo faceva poi il proprio ingresso sul palco
suonando la sezione successiva D e con questo interrompendo il pezzo, tagliando la
conclusione E; notare come questa scelta risulti sin d’ora particolarmente ricercata e
basata su un’estetica di fondo: la sezione E riprendeva infatti gli stati d’animo e le
armonie della sezione B, come lo schema sui cui tutto il brano si basa dimostra.
Ma iniziando la canzone dalla centrale C, il riproporre alla fine la conclusione canonica
non sarebbe risultato coerente in quanto sarebbe venuto a rompersi l’equilibrio interno
che regge l’intera composizione. Invece dopo la sezione D ecco che si passa
immediatamente ad un nuovo brano in modo che la tensione emotiva rimanga costante:
è chiaro infatti che Bohemian Rhapsody non sia ancora terminata, in quanto la sua
conclusione e ripresa avverrà in una seconda fase del concerto, e con esso il lungo arco
emotivo scaturito dall’introduzione troverà il suo naturale compimento, dimostrando una
ricerca formale che influisce sulla drammaturgia musicale del concerto, costruita a
partire dalla nuova distribuzione e riassetto permessa dalle varie sezioni della canzone.
Ma c’è di più: almeno nei primi concerti suonati dal gruppo subito dopo l’uscita di “A
NIGHT AT THE OPERA”, Bohemian Rhapsody rientrava nella scaletta dell’esibizione in
medley con altri brani (Killer Queen e The March Of The Black Queen) fornendo una
cornice entro cui l’intero pezzo musicale prendeva vita e si sviluppava; infatti, già sentite
ad inizio concerto le sezioni C e D[105], ora il pezzo (ri)comincia dalla sezione B,
introdotta dagli arpeggi del pianoforte e dalla melodia ottenuta con il caratteristico
incrocio delle mani.
Quindi la canzone prosegue, e nel momento in cui dovrebbe comparire la sezione
operistica C ecco che invece gli staccati del pianoforte modulano – attraverso una
ricercata cadenza della chitarra elettrica di May – all’analoga introduzione di Killer
Queen: la transizione tra i due pezzi risulta naturale grazie alla somiglianza ritmica di
base e quindi il flusso musicale rimane costante senza interruzioni. Un nuovo ponte
modulante guidato da May conduce ad una breve sezione di The March Of The Black
Queen, prima che Bohemian Rhapsody concluda il complesso medley con la sezione E.
Appare quindi evidente come le sezioni originali C e D (presentate in precedenza nel
concerto) siano sostituite qui da altri due frammenti appartenenti ad altri brani, ma
lasciando tuttavia praticamente inalterato il percorso drammatico del pezzo, che
tornando sulla sezione E (interpretata ancora più liberamente rispetto alla versione in
studio) riprende emotivamente la parte B e le dà una logica conclusione drammatica e
musicale.
Con la sola esclusione della parte introduttiva A Bohemian Rhapsody è dunque
presente interamente nei concerti, ma inizialmente la sua struttura appare modificata e
stravolta tanto da guidare la scelta degli altri brani da includere in scaletta. Con
riferimento alle esibizioni del 1976, ad esempio, ecco come si presenta il pezzo,
confrontato con la sua forma originale:

STRUTTURA ORIGINALE STRUTTURA MODIFICATA (LIVE)


A C (taped intro, registrata)
B + B’ D
C B + B’
D (medley con Killer Queen e The
E March Of The Black Queen)
E

Perciò l’assenza nelle esibizioni live della sezione A è controbilanciata ed equilibrata dal
breve medley, che sostituisce contemporaneamente anche le sezioni C e D e prende il
loro originale posto nella struttura complessiva. Il fatto che anche con questa nuova
forma il brano funzioni dimostra la versatilità delle singole sezioni – pur tenendo
presente il valore e la funzione estrinseca di ciascuna di esse – ed è anche
dimostrazione della capacità dei quattro musicisti (con Mercury in testa) di dar vita a
lunghe parti musicali complesse ed elaborate, ma sempre costruite su un equilibrio che
se venisse a mancare renderebbe l’intero medley come una semplice successione di
diverse sezioni, che risulterebbero però incoerenti e male assemblate, oltre che senza
quei richiami interni che permettono una coerenza formale.
In questo caso invece i riferimenti tra i brani e le singole sezioni di Bohemian Rhapsody
risultano evidenti e permettono la creazione di una vera e propria drammaturgia
musicale in grado di trasferirsi – con le dovute differenze – dall’album all’esibizione live.
Pochi pezzi (forse nessuno) mostrano come Bohemian Rhapsody una duttilità della
struttura di base tale da poter essere scomposta e ricomposta, sempre mantenendo
costante gli equilibri interni tuttavia, e questo processo è permesso innanzitutto dalla
complessa rete interna che regge il brano nella sua versione originale, che si è
dimostrato essere coerente e fortemente drammatica.
Mercury dichiarò a proposito in un’intervista:

Alcune band usano nastri preregistrati ma a noi non sta bene fingere di
cantare mentre il nastro gira. […] Noi non imbrogliamo con i nastri e, per
quel che riguarda Bohemian Rhapsody, c’è stata una progressione
naturale. All’inizio avevamo l’impressione di non riuscire a eseguirla dal
vivo, così ci limitavamo a poche sezioni all’interno del medley.[106]
Dopo il concerto londinese del 18 settembre 1976 a Hyde Park Bohemian Rhapsody
assumerà invece durante le esibizioni live una struttura praticamente identica a quella
originaria (e slitterà in scaletta vicino al termine dell’esibizione), con la sola esclusione
della sezione iniziale A: questo cambiamento di prospettiva, che libera il pezzo dai
vincoli del medley, si spiega col fatto che la conformazione dei medley stessi è prossima
a cambiare: dopo questa data The March Of The Black Queen scomparirà
definitivamente dalla scaletta e nuovi pezzi, alcuni dei quali provenienti da “A DAY AT
THE RACES” (come The Millionaire Waltz e Good Old-Fashioned Lover Boy), andranno
a formare un nuovo blocco musicale e drammatico. L’unico dato che rimane costante in
Bohemian Rhapsody è la sezione operistica C, che viene comunque proposta nella
versione registrata, con la band che esce dal palco per lasciare spazio a giochi di luce
ed effetti di fumo; ma questa volta l’ordine di apparizione di questa parte sarà più fedele
alla versione registrata in studio, e quindi non avrà più il compito di aprire lo show,
poiché questa funzione sarà assunta dall’introduzione (ancora una volta registrata) di
Tie Your Mother Down. Il gruppo torna invece sul palco nella sezione D dopo la breve
pausa di assenza intercorsa dagli occhi del pubblico.
Talvolta però (soprattutto nelle esibizioni degli anni ’80, come quella del 5 giugno 1982
al Milton Keynes Bowl ma non in quelle del tour inglese del 1986 che conclude le
esibizioni live dei Queen), anche nelle versioni con ordine “canonico” delle sezioni, brevi
figurazioni al pianoforte, concettualmente simili a quelle che si trovano nelle registrazioni
di In The Lap Of The Gods…Revisited e di Somebody To Love, anticipano la comparsa
del celebre tema delle sezioni B (anzi nel concerto tenuto a Osaka il 24 ottobre 1982
Bohemian Rhapsody è unita in medley, senza soluzione di continuità, alla cover
Saturday Night’s Alright For Fighting di Elton John), mentre la cadenza conclusiva
dell’ultima sezione E è ampliata e ritardata, mettendo ancora di più in evidenza il
commiato e l’idea dell’ineluttabilità del verso “Anyway the wind blows”.
Caso particolare invece è l’esibizione londinese al Live Aid del 13 luglio 1985: le brevi
figurazioni al pianoforte anticipano le sezioni B e B’ ma dopo queste il lungo assolo di
chitarra di May non porta alla sezione C, bensì a un brano nuovo, Radio Ga Ga, senza
soluzione di continuità. Questa variazione è dovuta a due fattori: innanzitutto
l’organizzazione non accettava come regolamento parti registrate da presentare al
pubblico (e la sezione C, come si è visto, non è mai stata eseguita dal vivo), e inoltre
ogni band aveva nel corso della manifestazione un tempo prestabilito per esibirsi di 20
minuti. Da qui la scelta di portare comunque sul palco Bohemiam Rhapsody, senza però
concluderla e senza nemmeno riprendere la coda della sezione E.
La fortuna e la ricezione di Bohemian Rhapsody

L
a durata “anomala” di Bohemian Rhapsody con i suoi 5 minuti e 55 secondi
diede alla band alcuni problemi per la pubblicazione su singolo, visto che
mediamente una canzone con questa destinazione “commerciale” ha una
durata di poco superiore ai 3 minuti. In ogni caso la band decise di non
scendere a compromessi (ad esempio accorciando il brano tagliando alcune sezioni) e
si assunse tutti i rischi – e le responsabilità – della pubblicazione lasciando una copia
del nastro al dj di Radio Capital Kenny Everett, che fece dapprima sentire alcune parti
del brano e quindi lo mise in onda nella sua interezza per 14 volte in due giorni. La
risposta e la richiesta positiva del pubblico costrinsero in qualche modo la casa
discografica EMI a pubblicare il singolo senza sottoporre la canzone a tagli o
riarrangiamenti.
Mercury così ricorda in un’intervista i fatti:

Era un pezzo con un fattore di rischio molto elevato. Quelli delle radio
sulle prime non la apprezzavano perché era troppo lunga, e i
discografici sostenevano che non potevano proporla come singolo.
Dopo che avevo praticamente messo insieme tre pezzi, volevano che
tornassi a separarli. Ve lo immaginate? […] Discutemmo un sacco di
volte se tagliare il pezzo fino ad arrivare a una durata ragionevole
perché fosse trasmesso, ma fummo irremovibili: doveva rimanere tutto
intero e sarebbe stato un successo.[107]

Bohemian Rhapsody divenne così la canzone in cima alle classifiche inglesi nel Natale
del 1975 e rimase in questa posizione di dominio della hit parade per 9 settimane
consecutive, stabilendo pertanto un nuovo record. Inoltre, la pubblicazione del 1991
dopo la morte di Freddie Mercury fece balzare il brano nuovamente in prima posizione,
raggiungendo in tal modo nuovi risultati: il primo brano a tornare due volte in vetta alla
classifica e la prima canzone a essere al numero 1 nella settimana di Natale nella
stessa versione.
Ma nonostante il successo e la popolarità ormai assodata soprattutto oltremanica (negli
Stati Uniti il brano ebbe un buon riscontro, ma con un numero di vendite inferiori: la
matrice originale della canzone con i suoi pomposi arrangiamenti e lo stampo barocco
non aveva mai realmente attecchito oltreoceano), Bohemian Rhapsody non convinse
all’inizio tutta la critica discografica, e anzi dopo i primi anni di affermazione la canzone
venne in qualche modo relegata come un prodotto minore, soprattutto durante gli anni
’80, sancendone temporaneamente una fase di oblio. E questo anche nonostante i
numerosi riconoscimenti ottenuti, primo fra tutti il premio Ivor Novello del 1976 e il
premio come miglior singolo inglese del periodo 1952-1977 decretato dall’industria
discografica inglese.
Solo i musicisti e i produttori ne riconobbero da subito l’indubbio valore e potenziale,
anche se l’ondata punk di fine anni ’70 ebbe in questo brano uno dei maggiori punti
critici: la disparità di generi raccolti in Bohemian Rhapsody (ma perfettamente bilanciati
al proprio interno grazie a un preciso equilibrio in cui il totale è più della somma delle
singoli componenti) rese all’inizio difficile la lettura e la ricezione del brano nella sua
complessità, proprio perché non facilmente assimilabile a un solo genere, e per di più
eccessivamente lungo e complesso. Solo col passare di molti anni il pezzo in questione
diventerà di patrimonio comune e sarà sdoganato e apprezzato anche da non
specialisti.
Esempi precedenti di brani così strutturati (uno su tutti: Stairway to Heaven dei Led
Zeppelin del 1971) dimostrano una connotazione simile, a partire dall’introduzione lenta
e che trasporta l’ascoltatore in un’atmosfera epica e fuori dal mondo. Ma se il merito dei
Led Zeppelin era stato quello di trovare un connubio tra folk ed heavy metal, i Queen
puntano invece l’attenzione sulle influenze operistiche: altri artisti del periodo (Paul
McCartney, Roger Waters, Pete Townshend, Elton John) lavorano in questi stessi anni
con orchestre sinfoniche, ma nessuno ha mai incluso parti vocali così complesse e
derivate direttamente dal mondo della musica lirica. E, soprattutto, nessuno aveva
pensato di poter pubblicare il brano come singolo, andando anche incontro al limite
fisico registrabile su un solo lato del supporto in vinile a 45 giri.
Uno degli altri meriti di Bohemian Rhapsody è stato quello di dare il via all’uso
promozionale dei videoclip musicali, anticipando così di alcuni anni anche la nascita
dell’emittente MTV. Il gruppo infatti, impegnato in tournée, non poteva essere presente
contemporaneamente negli studi televisivi e a questo scopo venne registrato il videoclip
– con il ricorso di alcuni effetti “speciali” – in cui i quattro componenti mimano una
performance del pezzo stesso. La posizione fortemente iconica assunta dai musicisti
all’inizio del video, oltre che un richiamo alla medesima disposizione assunta sulla
copertina dei “QUEEN II” del 1974, è anche un omaggio ad una foto di scena tratta dal
film Shangai Express del 1932 con protagonista Marlene Dietrich.
Quindi uno scatto tratto da un set cinematografico diviene, in un corto circuito mediatico
così frequente nell’iconografia dei Queen, prima la foto per un LP, poi un videoclip
promozionale che si tramuta a sua volta promotore di un nuovo modo di comunicare la
musica, avvalendosi della forza delle immagini.
Dopo un periodo intorno a fine anni ’80 in cui nemmeno le stazioni radiofoniche dedicate
alla musica rock decisero di metter più in onda Bohemian Rhapsody, è nel 1992 grazie
al film Fusi di testa (Wayne’s World) che il brano torna a diventare popolare soprattutto
negli Stati Uniti. La pellicola presenta infatti una scena in cui un gruppo di adolescenti
ascolta il brano in auto[108], e grazie all’inserimento del pezzo nella colonna sonora una
nuova generazione di ascoltatori ha avuto modo di riscoprire quello che è a tutti gli effetti
un pezzo imprescindibile della storia della musica, che ha avuto però alterne fortune nel
corso degli anni prima che il suo valore venisse universalmente riconosciuto.
La canzone ha vinto nel corso degli anni numerosi premi e riconoscimenti, e vari artisti
hanno interpretato cover per rendere omaggio a Mercury e compagni: alcune di esse
ricalcano l’originale in modo molto fedele, mentre altre interpretazioni si allontanano
proponendo un organico diverso o stili apparentemente inconciliabili con quelli originali;
questo dimostra la sempre attuale vitalità del pezzo e la possibilità di giocare con le sue
sezioni.
Attualmente, Bohemian Rhapsody è il brano più ascoltato della storia via streaming e
l’uscita del film omonimo nel 2018 ha allargato ulteriormente il bacino di utenza, oltre ad
avere fatto conoscere la storia del gruppo (seppur romanzata) a nuove generazioni.
Le edizioni di Bohemian Rhapsody su vinile

A
partire dalla prima edizione inglese del 1975, numerose sono state le stampe
su vinile di Bohemian Rhapsody principalmente nel formato 7 pollici, e grazie
alle varianti presenti su scala mondiale è possibile affermare che tale canzone
è quella presente con il maggior numero di stampe diverse nell’intera
discografia dei Queen. Oltre alle edizioni su vinile esistono poi quelle su CD singolo (nel
formato standard e mini) e quelle su 12 pollici, oltre che su audiocassette.
La ricchezza iconografica di queste copertine è data da una serie di fattori; innanzitutto
negli anni ’70 ogni paese che distribuiva il singolo per la EMI e l’ELEKTRA (le allora
case discografiche dei Queen in Europa e nei mercati statunitense e giapponese),
proponeva una propria copertina fotografica originale diversa da quelle degli atri paesi.
Inoltre, il successo della canzone ha portato negli anni a diverse nuove edizioni e
ristampe. Questo aspetto – oltre ad essere rilevante da un punto di vista strettamente
collezionistico – permette di tracciare una vera e propria raccolta dove, oltre alle
copertine fotografiche, sono presenti anche edizioni senza una copertina specifica ma
con una generica della casa discografica come era di uso comune in quegli anni.
Esistono poi anche numerose edizioni non ufficiali di paesi esotici come la Thailandia,
dove il singolo è stato comunque pubblicato pur senza l’esplicito consenso della casa
discografica. In questi casi talvolta le foto utilizzate riprendono le pubblicazioni di altri
paesi, ma spesso sono stampe inedite che aumentano la particolarità dei pezzi in
questione e li rendono altamente ricercati.
Le copertine dei singoli e degli LP sono lo strumento principale con cui un artista si
mette a confronto col proprio pubblico e si presenta, e l’immagine sulle cover assume
quindi un ruolo fortemente iconico che colloca il gruppo in un preciso contesto musicale.
Più è accattivante l’immagine presentata più facile sarà sia che il singolo venga
comprato sia che rimanga impresso nella memoria collettiva.
Ecco una veloce raccolta delle principali edizioni su singolo (7 pollici) di Bohemian
Rhapsody. Per ogni singolo viene specificato il brano sul lato A, quello sul lato B, la
casa discografica, il numero di catalogo, il paese e l’anno ed eventuali note.

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 2375 UK (1975) Car – EMI 2375 UK (1975) ~ No PS. Factory
Sample – Side B
Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 2375 UK (1975) ~ No PS Car – EMI 2375 UK (1975) ~ No PS. Solid
centre

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 2375 UK (1978) ~ Blue vinyl. Car – EMI 2375 UK (1983) ~ No PS. Black
Unique PS. 200 copies label version

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 2375 UK (1984) ~ No PS. Silver Car – EMI 2375 UK (1991) ~ No PS. Cream
label version label version
Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI QUEEN DJ 95 UK (1995) ~ Purple Car – EMI QUEEN DJ 95 UK (1995) ~ Purple
vinyl. 2000 copies vinyl. 2000 copies

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 2375 IRELAND (1975) ~ No PS. Car – EMI 2375 IRELAND (1975) ~ No PS.
Green label Cream label

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 2375 MALTA (?) ~ Radio station Car – YUGOTON SEMI 88880 YUGOSLAVIA
promo. Includes UK vinyl (1975)
Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 3C 006-97140 ITALY (1975) ~ 2 Car – EMI 5C 006-97140 HOLLAND (1975) ~
different editions with wrong and correct back Blu cover and white titles (Front=Back)

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 5C 006-97140 HOLLAND (1975) ~ Car – EMI 5C 006-97140 HOLLAND (1975) ~
Purple cover and red titles (Front=Back). Blu cover and white titles (Back with covers)
Standard label. Front

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 5C 006-97140 DENMARK (1975) ~ Car – EMI 4C 006-97140 BELGIUM (1975)
Blu cover and red titles (Back with covers)
Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 5E 006-97140 FINLAND (1975) ~ Car – EMI J 006-97140 SPAIN (1975)
No PS

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – ELEKTRA E-45297 AUSTRALIA (1975) Car – ELEKTRA E-45297 NEW ZEALAND
~ No PS (1975) ~ No PS

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 8E 006-97140 PORTUGAL (1975) Car – EMI 1C 006-97140 GERMANY (1975)
Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 2C 010-97140 FRANCE (1975) ~ Car – EMI 2C 008-97140 FRANCE (1978) ~
Yellow cover with child Live cover

Bohemian Rhapsody (edit version) / I’m In Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Love With My Car – EMI SP 621 FRANCE Car – ELEKTRA E-45297 USA (1975) ~ No
(1978) ~ Live cover. Promo with unique edit of PS. “Radio station use only”. Green butterfly
“Bohemian Rhapsody”. label. Version 1 (CTH)

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – ELEKTRA E-45297 USA (1975) ~ No Car – ELEKTRA E-45297 USA (1975) ~ No
PS. “Radio station use only”. Green butterfly PS. “Radio station use only”. Green butterfly
label. Version 2 (SP) label. Version 3 (CSM)
Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – ELEKTRA E-45297 USA (1975) ~ No Car – ELEKTRA E-45297 USA (1975) ~ No
PS. “Radio station use only”. White butterfly PS. Radio station use only. White Butterfly
label. Version 4 (CSM) label. Version 5 (SP)

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – ELEKTRA E-45297 USA (1975) ~ No Car – ELEKTRA E 45297 CANADA (1975) ~
PS. Red Label. Version 6 (SP) NO PS

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 7920 MEXICO (1975) ~ No PS. Car – EMI 7920 MEXICO (1982) ~ Second
First edition without picture sleeve. Labels in edition with picture sleeve. Labels in Spanish
Spanish
Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 1286 CHILE (1975) ~ No PS Car – EMI 103-0043 ECUADOR (1976) ~ No
PS

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 1339 ARGENTINA (1975) ~ White Car – EMI 4164 GUATEMALA (1975) ~ No
label promo. Labels in Spanish. No PS PS. Label version 1

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 4164 GUATEMALA (1975) ~ No Car – EMI 4072 BRASIL (1975) ~ No PS
PS. Label version 2. Promo
Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI 2375 BARBADOS (1975) ~ No PS Car – EMI 2375 INDIA (1975) ~ No PS

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – ELEKTRA P-1430E JAPAN (1975) ~ Car – ELEKTRA P-128E JAPAN (1975) ~
First edition Reissue

Bohemian Rhapsody / Sweet Lady – MAX 049 Bohemian Rhapsody / The Show Must Go On
TURKEY (1976) – HOLLYWOOD 7-64974 USA (1992) ~ No PS
Bohemian Rhapsody / Death On Two Legs – Bohemian Rhapsody / You’re My Best Friend –
TONPRESS S-88 POLAND (1975) ~ No PS ELEKTRA E-45083 USA (1977) ~ Spun Gold
Label

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My
Car – EMI EMIJ 4097 SOUTH AFRICA (1976) Car – EMI 73-X-088 PHILIPPINES (1976) ~
~ No PS No PS. Label version 1

Bohemian Rhapsody / I’m In Love With My Slow Ride (Foghat) / Blue Guitar (Justin
Car – EMI 73-X-088 PHILIPPINES (1976) ~ Hayward & John Lodge) / Bohemian
No PS. Label version 2 Rhapsody – TRACK STEREO FT – 301
THAILAND (-)
Only Sixteen (Dr. Hook) / Bohemian Rhapsody
/ Sweet Thing (Rufus) / Junk Food Junkie
(Larry Groce) – TRACK STEREO TKR 355
THAILAND (-)
Bibliografia
Libri ed articoli sui Queen esistono in grande quantità, ma purtroppo nessuno di essi
tratta in modo approfondito questioni musicali pure, dando invece spazio ad aneddoti o
a risvolti biografici che hanno molto spesso poco a che fare con la creazione artistica ed
il suo successivo sviluppo, e che per lo più contengono informazioni imprecise o poco
attendibili.
In questa sezione sono elencati (in ordine alfabetico d’autore) i libri ed i testi citati nel
corso della trattazione o che sono comunque stati utili nella stesura del lavoro. Per gli
spartiti e le partiture utilizzati si precisa che si è fatto riferimento alle edizioni ufficiali
della EMI, a files MIDI o a trascrizioni personali dei vari pezzi presi in esame.
Per una maggiore bibliografia sul gruppo inglese si rimanda alla sezione con i siti
Internet dove sono elencati alcuni siti ricchi di informazioni e dettagli.

PAOLO BATTIGELLI, Guitar Heroes – Ritratti di 100 chitarristi leggendari, Roma, Editori
Riuniti, 2002
WALTER BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino,
Einaudi, 1984
ANDREA BERGAMINI, Il Rock e la sua storia, Firenze, La biblioteca, 1999
RICCARDO BERTONCELLI, Led Zeppelin. Rock & Roll graffiti, Firenze, Giunti Gruppo
Editoriale, 1995
RICCARDO BERTONCELLI, Storia leggendaria della musica rock, Firenze, Giunti
Gruppo Editoriale, 2005
RICCARDO BERTONCELLI, Queen, Firenze, Giunti Gruppo Editoriale, 2006
FRANCO BRIZI, Queen – La discografia italiana, Città di Castello, Coniglio Editore,
2005
SIMON BOYCE, Il mito di Freddie Mercury, - , Gremese Editore, 1997
GREG BROOKS, Queen Live. A Concert Documentary, Singapore, Omnibus Press,
1995
(a cura di) GREG BROOKS e SIMON LUPTON, Freddie Mercury. Parole e pensieri,
Milano, Oscar Mondadori, 2012
ALBERTO CAMPO, Get Back! I giorni del rock, Bari, Gius. Laterza & Figli Spa, 2004
HAMISH CHAMP, I 100 album più venduti degli anni ’70, Vercelli, Edizioni White Star,
2006
CHRISTIAN DIEMOZ, Le canzoni dei Queen. Commento e traduzione dei testi, Roma,
Editori Riuniti, 2003
DI NARDO, DARIO, The Roger Meddow’s Taylor Drum Kits Book, Torino Di Sangro:
(Self-published), 2016
JANNELL DUXBURY, Rockin’ The Classics and Classicizin’ The Rock, USA,
Greenwood Press, 1985
HANS HEINRICH EGGEBRECHT, Comprendere attraverso l’analisi, in “Il saggiatore
musicale”, 1997/2
FRANCO FABBRI, Album Bianco² Diari musicali 1965–2002, Roma, Arcana Editrice,
2002
FRANCO FABBRI, Il suono in cui viviamo, Roma, Arcana Editrice, 2002
MAX FELSANI (con MICHELE PRIMI e MAURO SAITA), Queen, tutti i testi, Firenze,
Giunti Gruppo Editoriale, 1997
(a cura di) PETER FREESTONE con DAVID EVANS, Freddie Mercury. Adesso svela
ogni segreto, Genova, Edizioni Lo Vecchio, 2002
PAOLO GALLARATI, La forza delle parole, Torino, Einaudi, 1993
PAUL GAMBACCINI (con TIM RICE e JO RICE), British hit singles, Londra, Guinness,
1987
CHARLOTTE GREIG, I 100 album più venduti degli anni ’50, Vercelli, Edizioni White
Star, 2006
DONALD JAY GROUT, Storia della musica in Occidente, Milano, Feltrinelli, 1998
(a cura di) EZIO GUAITAMACCHI, 100 dischi ideali per capire il rock, Roma, Editori
Riuniti, 2000
PAUL GRUSHKIN, Rockin’ Down the Highway: The Cars and People That Made Rock
Roll, MBI Publishing Company, 2008
JACKY GUNN & JIM JENKINS, Queen – La biografia ufficiale, Milano, Arcana Editrice,
1993
MARK HODKINSON, Queen The early years, Londra, Omnibus Press, 1995
JIM HUTTON (con TIM WAPSHOTT), I miei anni con Freddie Mercury, Milano, Arnoldo
Mondadori Editore, 1994
LAURA JACKSON, Vivere per sempre – La biografia definitiva di Freddie Mercury,
Firenze, Tarab Edizioni, 1997
VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile, Milano, Bompiani, 1998
LOREDANA LIPPERINI, Mozart in Rock, Milano, Il Saggiatore, 2006
IMMANUEL KANT, Critica della ragion pura, Torino, Utet, 1967
IAN MACDONALD, The Beatles. L’opera completa, Milano, Arnoldo Mondadori Editore,
1994
LUCA MARCONI, Muzak, Jingle, Videoclips, in Enciclopedia della Musica, Volume I, Il
Novecento, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003
VITTORIO MATHIEU, Il nulla, la musica, la luce, Milano, Spirali/Vell, 1996
WALTER MAURO, La musica americana. Dal song al rock, Roma, Newton Compton,
1994
PAOLO MEREGHETTI, Il Mereghetti – Dizionario dei Film 2000, Milano, Baldini &
Castoldi, 1999
MICK ST. MICHAEL, Queen in their own words, Londra, Omnibus Press, 1992
MICK ST. MICHAEL, Queen, Bresso (Milano), Futura Publishing, 1994
RICHARD MIDDLETON, Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, 1990
MASSIMO MILA, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Torino, Einaudi, 1988
MARK PAYTRESS, Io c’ero – I più grandi show della storia Rock & Pop, Firenze, Giunti
Editore, 2007
MARCO PIERINI, Good Vibrations – Le arti visive e il rock, Firenze, Giunti Editore, 2006
MICHELE PRIMI, Queen, Firenze, Giunti Editore, 2006
PETE PROWN & LISA SHARKEN, Gear Secrets Of The Guitar Legends, San
Francisco, Backbeat Books, 2003
CLAUDIO QUARANTOTTO, Dizionario della musica pop & rock, Roma, Newton
Compton, 1994
GIUSEPPE RAUSA, Dizionario della musica Rock, Volume primo, Milano, RCS Libri,
BUR Dizionari, 2005
MICK ROCK, Classic Queen, New York, Sterling, 2007
GENE SCULATTI, I 100 album più venduti degli anni ’60, Vercelli, Edizioni White Star,
2006
GIANNI SIBILLA, I linguaggi della musica pop, Milano, Bompiani, 2003
PHIL SUTCLIFFE, Queen – The Ultimate Illustrated History Of The Crown Kings Of
Rock, Minneapolis, Voyageur Press, 2009
PHILIPP TAGG, Introductory notes to the Semiotics of Music, testo pubblicato sul sito
www.tagg.org
(a cura di) STEFANO TAVERNESE, Grande enciclopedia della chitarra e dei chitarristi,
Roma, Editori Riuniti, 2003
AUTORI VARI, I 100 album più venduti degli anni ’80, Vercelli, Edizioni White Star, 2006
AUTORI VARI, I 100 album più venduti degli anni ’90, Vercelli, Edizioni White Star, 2006
AUTORI VARI, Dizionario Enciclopedico della Musica Classica, Milano, Armando Curcio
Editore, 1992, vol. I, II, III & IV
AUTORI VARI, Dizionario del Pop Rock, Milano, Baldini & Castoldi, 2001
AUTORI VARI, Enciclopedia del Rock, Gruppo editoriale L’Espresso, 2006
AUTORI VARI, L’esperienza musicale – Per una fenomenologia dei suoni, Roma, I libri
di Montag, 2002
AUTORI VARI, Freddie Mercury e i Queen, Milano, Super Stars n. 4, 1992
AUTORI VARI (a cura di ROBERTT DIMERY), I linguaggi della musica pop, Bologna,
Atlante, 2006
AUTORI VARI, M.C. Escher. His life and complete graphic work, New York, Abradale
Press, 1992
AUTORI VARI, Il pop inglese, Roma, Arcana Editrice, 1978
AUTORI VARI, Mercury Rhapsody, Milano, Edizioni Blues Brothers, 1993
AUTORI VARI, Queen, Tokyo, Shinko Music Entertainment, 2008
AUTORI VARI, Queen, Milano, Super Stars n. 1, 1992
AUTORI VARI, Queen – Mercury, Milano, Kaos Edizioni, 1992
AUTORI VARI, Queen – The complete works (updated), Woodford Green, International
Music Publications, 1986
AUTORI VARI, Queen, tutti i testi, Milano, Arcana Editrice, 1993
AUTORI VARI, Tributo a Freddie Mercury, Genova, Gruppo Editoriale Lo Vecchio, -
LOREDANA ZINO VASSALLO, La marcia della regina nera, Milano, Kaos Edizioni, 1992

Questa seconda sezione è costituita dagli articoli di maggior interesse pubblicati sulle
riviste specializzate (e sui quotidiani di tutto il mondo), le quali sono elencate in ordine
alfabetico, e da un elenco di interviste radiofoniche e televisive.
Quando non è stato possibile reperire il numero della pubblicazione o la data precisa
dell’uscita della stessa si è almeno suggerito l’anno in cui l’articolo avrebbe potuto
essere scritto; molti articoli compaiono inoltre in forma anonima e non è pertanto stato
possibile risalire all’autore originario.
Amadeus, Anno XIII, Numero 11 (144), novembre 2001
BBC1, intervista televisiva dell’8 gennaio 1992
BBC Radio One, intervista radiofonica del 24 dicembre 1977 e del dicembre 1995
BBC Radio Four, intervista radiofonica del 25 settembre 2002
BBC World Service, intervista radiofonica del 28 novembre 1993 e del 16 novembre
1997
Capital Radio, intervista radiofonica del novembre 1976 e del 25 febbraio 1985
Ciao 2001, Numero 49 (Anno X), dicembre 1978
Circus Magazine, aprile 1975, 6 luglio 1976, 31 gennaio 1977, 17 marzo 1977, gennaio
1978, 12 dicembre 1978, settembre 1980, 20 ottobre 1980, 31 dicembre 1980
Circus Raves, marzo 1975, settembre 1975
The Citizen, 19 febbraio 1999
Classic Rock, Numero 35, dicembre 2001, Numero 42, luglio 2002, Numero 65, Aprile
2004
Classix!, Numero 5, gennaio 2005
Daily Mail, dicembre 1978
Daily Mail Weekend, 22 gennaio 2000
Daily Mirror, 16 maggio 2002
The Daily Star, 21 novembre 1985
Eastern Daily Press, 20 marzo 1999
Edinburgh Evening News, 18 marzo 1999
Evening Mail, 25 novembre 1991
Guitar for the practicing musician, settembre 1993
Guitar Player, gennaio 1983
Guitarist, agosto 1985, dicembre 1992, marzo 2000, novembre 2001
Hard ‘n’ Heavy, intervista video del 1989
The Howard Stern Show, intervista televisiva del 1993
KKLZ, intervista radiofonica del 16 dicembre 1997
Max, Anno XIII, Numero 6, giugno 1997
Melody Maker, 28 luglio 1973, 9 novembre 1974, 22 novembre 1975, 2 maggio 1981,
1984
Modern Drummer, ottobre 1984
Mojo, Numero 69, agosto 1999
Musikbox, numero 28, ottobre/novembre 2006
New Musical Express, aprile 1974, 2 novembre 1974, 9 agosto 1986
On the record, 1982
Pelo, marzo 1981
People, 5 dicembre 1977
Popcorn, giugno 1981
Q, ottobre 1995
Raro, Numeri 30 (maggio 1993), 42 (giugno 1994), 61 (dicembre 1995), 67 (giugno
1996), 85 (gennaio 1998), 135 (luglio/agosto 2002), 168 (luglio/agosto 2005)
Record Collector, febbraio 1989, giugno 1989, gennaio 1996, dicembre 1992, novembre
2000, giugno 2001, gennaio 2009
Record Mirror, 24 maggio 1975, 25 agosto 1984, 26 gennaio 1985
Rhythm, settembre 2002
Rockstar, dicembre 1995, settembre 2000, settembre 2001, gennaio 2005,
novembre/dicembre 2009
Rolling Stone [edizione italiana], Numero 13 (novembre 2004), Numero 28 (febbraio
2006), Numero 33 (luglio 2006), Numero 59 (settembre 2008)
SGR Colchester, intervista radiofonica del 21 marzo 1999
Sheffield Star, 19 marzo 1999
Sounds, dicembre 1974, 27 settembre 1975, 1980, gennaio 1984, 17 gennaio 1987, 6
febbraio 1988
The Star, 25 e 26 novembre 1991
Stoke Eve Sentinel, 12 marzo 1999
The Sun, 15 e 19 luglio 1985, 25 novembre 1991, 21 aprile 2001
Sunday, 15 maggio 1994, 26 novembre 2000
Sunday Times Magazine, 17 novembre 1996, 5 maggio 2002
SX2 Magazine, 26 aprile 2002
Total Guitar Magazine, Natale 1998
TV Times, 25 ottobre 1986
Uncut, Numero 52, settembre 2001
University Radio Bath (Cardiff), intervista radiofonica del 2 marzo 1988
VH1 “Weekend Review”, intervista radiofonica del marzo 1997
Virgin Radio, intervista radiofonica del 16 giugno 1993 e del 4 novembre 1999
Vox Magazine, 1991
Western Morning News, 15 marzo 1999
Siti Internet
Elenco dei siti di maggior interesse con link verificati a Febbraio 2019.
Siti ufficiali della band:

www.queenonline.com
www.brianmay.com

Siti amatoriali utili nella stesura del presente lavoro:

Sulla musica dei Queen in generale (con ricche e preziose analisi armoniche, strutturali)
e un forum di discussione:
http://queen.musichall.cz

Siti con informazioni varie e recensioni di album e canzoni rare, oltre a memorabilia,
curiosità, biografie, studi, discografie, videografie, raccolte di vinili e foto:
http://it.wikipedia.org/wiki/Queen
www.queenheaven.it
www.queenzone.com
www.pcpki.com/jason/
www.queenmuseum.com
www.queenvinyls.com
www.inartemorgan.it

Siti con informazioni su concerti e bootleg:


www.queenconcerts.com
http://queencdr.tripod.com

Sito con un’analisi (e le ricorrenze) delle parole più usate nelle canzoni dei Queen e nei
brani dei singoli componenti del gruppo, che dimostra una “drammaturgia” concepita sul
piano testuale:
www.pcpki.com/queen/frequent.html

Sito con l’articolo “The Queen Anomaly” di Denes Pinter:


http://www.icce.rug.nl/~soundscapes/VOLUME03/Queen_anomaly.shtml

Sulle ricerche di Andres Guazzelli riguardo alla voce di Freddie Mercury:


http://boards5.melodysoft.com/app?ID=FMENG&DOC=61

Siti con interviste raccolte e trascritte:


http://www.queen-rocks.com/~unicorn/inter.htm
http://www.queenarchives.com/

Sulla semiotica della musica in generale e il suo rapporto coi media e l’impatto sociale:
www.tagg.org

Siti dedicati alla Red Special:


http://it.wikipedia.org/wiki/Red_Special
http://www.brianmayguitars.co.uk/
Discografia
Vengono qui riportati gli album – nel formato compact disc – ed il relativo numero di
catalogo europeo della carriera dei soli Queen (con l’esclusione dei singoli, del materiale
promozionale, raro ed inedito o dei progetti appartenenti a progetti solisti, come del
materiale registrato da orchestre o simili)

QUEEN (EMC 3006/CDP7 46204 2) [1973]


QUEEN II (EMA 767/CDP7 46205 2) [1974]
SHEER HEART ATTACK (EMC 3061/CDP7 46206 2) [1974]
A NIGHT AT THE OPERA (EMTC 103/CDP7 46207 2) [1975]
A DAY AT THE RACES (EMTC 104/CDP7 46208 2) [1976]
NEWS OF THE WORLD (EMA 784/CDP7 46209 2) [1977]
JAZZ (EMA 788/CDP7 46210 2) [1978]
LIVE KILLERS (EMSP 330/CDP7 46211 8) [1979]
THE GAME (EMA 795/CDP7 46213 2) [1980]
FLASH GORDON (EMC 3351/CDP7 46214 2) [1981]
HOT SPACE (EMA 797/CDP7 46215 2) [1982]
THE WORKS (EMC 2400141/CDP7 46016 2) [1984]
A KIND OF MAGIC (EU 3509/CDP7 46267 2) [1986]
LIVE MAGIC (EMC 3519/CDP7 46413 2) [1986]
THE MIRACLE (PCSD 107/CDP7 92357 2) [1989]
AT THE BEEB (BOJ 001) [1989]
INNUENDO (PCSD 115/CDP7 95887 2) [1991]
LIVE AT WEMBLEY (7 99594 2) [1992]
MADE IN HEAVEN (8 36088 2) [1995]
GREATEST HITS (EMVT 30/CDP7 46033 2) [1981]
GREATEST HITS II (PMTV 2/CDP7 97971 2) [1991]
GREATEST HITS III (7243 5 23452 2 9) [1999]
ON FIRE – LIVE AT THE BOWL (7243 8 63211) [2004]
ROCK MONTREAL (5 04047 2) [2007]
Videografia
Esistono molti video – e molteplici formati (VHS, DVD, Laserdisc, VideoCD…) – che
sono testimoni di buona parte della carriera dei Queen, dagli inizi degli Smile (1969) fino
agli ultimi mesi di vita di Freddie Mercury (1991), passando attraverso i tour mondiali e
la registrazione dei vari album in studio.
Di seguito vengono riportate le principali fonti che sono state utili nella redazione di
questo lavoro: alcune di esse sono ufficiali, mentre altre nascono come special televisivi,
documentari o registrazioni amatoriali.

Greatest Flix I, II & III [VHS] e Greatest Video Hits 1 & 2 [DVD], Jewels [DVD] (raccolte
ufficiali)
Magic Years volume 1, 2, 3 [VHS] (documentario ufficiale)
Rainbow theatre 1974 [VHS & DVD] (concerto)
Eve at the Hammersmith [DVD] (concerto)
Keep Dancin’ [VHS] (concerto)
At Budokan [DVD] (concerto)
We Will Rock You [VHS & DVD] (concerto)
On fire – Live at the Bowl [DVD] (concerto)
Live in Japan 1982 [DVD] (concerto)
Final live in Japan 1985 [DVD] (concerto)
Live in Rio [VHS] (concerto)
Live in Budapest [VHS & DVD] (concerto)
Live at Wembley Stadium [VHS & DVD] (concerto)
The Freddie Mercury Tribute Concert [VHS & DVD] (concerto)
The Queen Symphony [DVD] (concerto orchestrale)
Rare live [VHS] (raccolta ufficiale di performance rare)
The Freddie Mercury Tribute [VHS & DVD] (concerto)
Freddie Mercury – L’ultimo immortale (special televisivo)
Freddie Mercury – The video collection [DVD] (raccolta ufficiale di video)
Freddie Mercury – The untold story [DVD] (documentario ufficiale)
The Queen Phenomenal (special televisivo)
Freddie’s Millions (special televisivo)
The story of Bohemian Rhapsody (special televisivo)
Flash Gordon [VHS & DVD] (film)
Highlander – L’ultimo immortale [VHS & DVD] (film)
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato,
riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o
utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente
autorizzato dall’autore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da
quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione
non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul
regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata
civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive
modifiche.
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rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto
dell’autore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da
quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno
essere imposte anche al fruitore successivo.
L’autore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti di alcune immagini senza riuscire a
reperirli; è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro
confronti.

Bohemian Rhapsody. Un’analisi nello spazio e nel tempo


di Nicola Bizzo
©2019

ebook ISBN : 979-12-200-4526-1


[1] AUTORI VARI, Il pop inglese, Roma, Arcana Editrice, 1978, pag. 15.
[2] Ibidem
[3] AUTORI VARI, Il pop inglese, Roma, Arcana Editrice, 1978, pag. 18.
[4] Anche se il loro pezzo Goin’ Home di oltre 11 minuti è probabilmente il primo brano beat di questa durata.
[5] Ivi, pag. 24.
[6] Ivi, pag. 37.
[7] Ivi, pag. 38.
[8] Ivi, pag. 71.
[9] Ivi, pagg. 89 e seguenti.
[10] Anche il festival di Woodstock del 1969 ebbe diffusione mondiale solo in seguito al film-documentario (iniziatore
del genere “Rockumentary”) che ne fu tratto, in quanto all’epoca l’evento non fu molto considerato dai media in
generale.
[11] AUTORI VARI, Il pop inglese, Roma, Arcana Editrice, 1978, pagg. 101 e seguenti.
[12] David Bowie e i Queen, musicalmente avversari nei primi anni ’70, lavoreranno insieme ad un paio di brani negli
anni successivi, ma solo uno di essi (Under Pressure), vedrà la luce. Un altro punto di contatto tra il gruppo capitanato
da Mercury e l’artista dalla sfaccettata personalità può essere rilevato nel fatto che quest’ultimo contribuirà in modo
decisivo al successo della band Moot The Hoople, a cui i Queen faranno da supporto ad inizio carriera.
[13] In ALBERTO CAMPO, Get Back! I giorni del rock, Bari, Gius. Laterza & Figli Spa, 2004, pag. 120.
[14] Per maggiori approfondimenti sulla fase iniziale della loro carriera vedi anche MARK HODKINSON, Queen The
early years, Londra, Omnibus Press, 1995, oltre alla biografia ufficiale del gruppo curata da JACKY GUNN & JIM
JENKINS, Queen – La biografia ufficiale, Milano, Arcana Editrice, 1993. Vedi anche il Capitolo 3 per una breve storia
dei gruppi precedenti in cui hanno militato i vari componenti dei Queen prima di riunirsi e dare vita alla band.
[15] AUTORI VARI, Il pop inglese, Roma, Arcana Editrice, 1978, pag. 227.
[16] Per maggiori dettagli riguardanti l’uso dei sintetizzatori nei Queen nei vari album in studio, vedere gli articoli
all’indirizzo http://skycraper.fortunecity.com/straylight/324/synthetisers.htm e anche
https://queenvinyls.com/articles/from-harspichord-to-synthesizer-and-beyond-an-introduction-to-queen-organology/

[17] Per il presente paragrafo si è tenuto conto del testo FRANCO FABBRI, Il suono in cui viviamo, Roma, Arcana
Editrice, 2002, pagg. 120–131, ed allo stesso sono riferite tutte le citazioni. Da osservare inoltre come sia possibile
impostare un nuovo filone di studi che trovi i punti di contatto tra l’evoluzione delle strutture musicali qui presentate e
l’evoluzione dei rapporti sociali: ecco che allora i brani di tipo CB possono essere paragonati ad una società aperta e
pronta ad assorbire eventuali variazioni al proprio interno, come quella degli anni ’60 – ed infatti proprio in questi anni
si sviluppano e si concentrano tali strutture – mentre altri modelli più complessi, come le suite e i brani di forma
aciclica del progressive, possono essere avvicinati a società attraversanti particolari periodi instabili o di grandi
incertezze, come il decennio degli anni ’70.

[18] RICHARD MIDDLETON, Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, 1990, pag. 124. Ma vedi anche il saggio di
WALTER BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1984.
[19] Ivi, pag. 195.
[20] Inoltre, Middleton (pagg. 129 e seguenti) afferma: “queste esecuzioni, proprio perché sono esibizioni dal vivo,
producono effetti diversi dagli originali, sia nella musica, sia nel significato sociale […]. Queste esecuzioni creano
inoltre una dialettica importante fra prodotto di massa e ri–produzione locale, ciò che Bennett definisce cultura popular
‘primaria’ e ‘secondaria’. […] La ‘coscienza della registrazione’ [secondo la definizione di Bennett] […] definisce la
realtà sociale della popular music, e le esibizioni dal vivo devono cercare di approssimare i suoni che risiedono in
questa coscienza. Anche quando non vi riescono [per difficoltà tecniche, ad esempio], o non è possibile farlo, la
memoria collettiva del pubblico si intromette e sente quello che non può sentire, nell’abbozzo sonoro che disegnano i
musicisti”.
[21] Ivi, pag. 106. L’autore (Middleton) riporta a sua volta un passo dello studioso Wicke.
[22] Ivi, pag. 106 pag. 88
[23] PAOLO GALLARATI, La forza delle parole, Torino, Einaudi, 1993, pagg. 47-56.
[24] Solo alcune produzioni di Steve Vai ed altri lavori del genere progressive presentano un numero così elevato di
tonalità in un singolo brano, mentre altri brani appartenenti al repertorio hard rock (ad esempio i Led Zeppelin)
difficilmente modulano.
[25] Il produttore George Martin (che collaborò anche con i Beatles) sviluppò una serie di regole riguardanti l’ordine
che dovevano assumere i brani in un LP:
1. aprire l’album con un paio di canzoni di forte impatto [almeno uno di tali pezzi avrebbe dovuto essere il singolo di
lancio]
2. terminare ciascun lato con una canzone difficilmente seguibile da un’altra
3. andare alla ricerca di collegamenti naturali e spontanei tra i brani
4. distribuire uniformemente le canzoni rimanenti
Da ciò si deduce che – solitamente (e almeno nelle produzioni beatlesiane) – il materiale di minore interesse e quello
più debole trova posto nella seconda metà del lato B, con l’eccezione dell’ultimo brano, che avendo il compito di
chiudere l’LP ha il non facile obiettivo psicologico di lasciare un’immagine positiva ed un ricordo che induca alla
reiterazione dell’ascolto. Certo esistono anche altre regole per costruire la scaletta di un album, alcune delle quali
sono di natura eminentemente drammatica (è il caso di molti concept album), mentre altre sono più legate al
contenuto musicale e cercano ad esempio di costruire un preciso percorso tonale (vedi l’album dei Beatles “SGT.
PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND”, il cui lato A è concepito su un pendolo eolico di vaste proporzioni, anche
se i Beatles stessi negarono che questo lavoro fosse da intendere come un concept album). Un discorso analogo
sull’importanza assunta dalle canzoni in un preciso ordine è quello riguardante la scaletta dei concerti, ed anche in
questo caso – almeno per quanto riguarda i Queen – i vari pezzi musicali venivano presentati in un preciso ordine che
denotava una ricerca espressiva.

[26] Scritto da Denes Pinter, è disponibile sul sito www.icce.rug.nl/~soundscapes/VOLUME03/Queen_anomaly.shtml.


[27] RICHARD MIDDLETON, Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, 1990.
[28] Un altro fattore che può avere di sicuro limitato l’impatto dei Queen nel mercato statunitense è il loro travestitismo
sulla scena e le chiare allusioni sessuali della loro immagine (più che della loro musica), anche se trattate in modo
ironico come nel video I Want To Break Free, che fu però censurato e messo al bando.
[29] Altri brani che si avvicinano a questo valore e non appartengono al repertorio dei Queen hanno solitamente la
caratteristica di avere una lunghezza superiore ai 5 minuti. Tra i vari esempi che si possono fare si trovano Dancing
Queen (Abba), What It Takes (Aerosmith), How Deep Is Your Love (Bee Gees), More Than Words (Extreme),
Estranged (Guns ‘n’ Roses), Stairway To Heaven (Led Zeppelin), Kiss By A Rose (Seal), I Wanna Love You Forever
(Jessica Simpson), Holding Out For A Hero (Bonnie Tyler), Careless Whisper (Wham).
[30] In un’intervista così la cantante ricorda la sua esperienza con il cantante dei Queen: “Freddie Mercury non è stato
soltanto un grande cantante, ma anche un grande musicista. La sua creatività era illimitata; quando si sedeva al
pianoforte, la sua ispirazione era tale che i suoni che uscivano erano subito melodie meravigliose […]. Fin dall’inizio
della nostra collaborazione insieme, sono stata colpita dalla sua personalità e musicalità […]. Nel mondo dell’opera il
nostro incontro musicale è stato una rivoluzione, una finestra aperta a tutto il mondo: è stato il primo incontro fra il
mondo pop e quello classico”. Purtroppo, il lavoro “BARCELONA” non è mai stato colto in tutta la sua complessità,
proprio perché attraversa più generi musicali e non è quindi a priori inquadrabile in categorie.
[31] In Amadeus, Anno XIII, Numero 11 (144), novembre 2001, pag. 69.
[32] Vedi il sito http://boards5.melodysoft.com/app?ID=FMENG&DOC=61, ricco di informazioni e a cui questo
paragrafo fa riferimento. Considerando C1 come la nota più bassa che un essere umano è in grado di produrre, ciò
significa che il C centrale sarà allora C3, mentre invece in un pianoforte (composto da 8 ottave) il Do centrale è C4:
questa precisazione è da tenere conto quando ci si riferirà agli esempi vocali successivi.
[33] Si fa qui uso della notazione anglosassone, per la quale Do, Re, Mi, Fa, Sol, La e Si corrispondono
rispettivamente a C, D, E, F, G, A, B. Notare come normalmente l’estensione di una voce tenorile non superi un
ambito di due ottave, con l’eccezione di Mercury che era invece in grado di offrire uno spettro più ampio.
[34] Esistono alcune ricerche e studi on line con maggiori dettagli e riferimenti testuali incentrati soprattutto sulla
ricorrenza della parola “daffodils” (“giunchiglie”) in entrambi gli artisti.
[35] Frequenti sono inoltre nei testi delle canzoni le citazioni ai lavori di Shakespeare (tra cui Sogno di una notte di
mezza estate e Riccardo III) e al mondo di figure mitologiche create dal drammaturgo inglese.
[36] Articolo di Patrizia Luppi presente sulla rivista Amadeus, Anno XIII, Numero 11 (144), novembre 2001, pagg. 68 e
69.
[37] In JACKY GUNN & JIM JENKINS, Queen - La biografia ufficiale, Milano, Arcana Editrice, 1993, pagg. 48, 49, 72.
[38] HANS HEINRICH EGGEBRECHT, Comprendere attraverso l’analisi, in “Il saggiatore musicale”, 1997/2, pagg.
373–384.
[39] L’attenzione prestata da Mercury e compagni anche all’aspetto grafico e propriamente estetico di un album non è
un fatto inedito, in quanto già durante “QUEEN II” erano emersi alcuni accorgimenti riguardanti la copertina e i colori
da usare.
[40] La comparsa sulla scena di concept album – intendendo con questo termine album in cui i brani sono legati tra
loro per qualche motivo (a livello testuale, musicale, o entrambi) – non è una cosa frequente nella storia della musica
pop e rock. Tuttavia è possibile indicare almeno alcuni importanti lavori in cui le canzoni sono tra loro collegate sotto
un qualche aspetto drammatico o su un piano più strettamente musicale: da “SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS
CLUB BAND” (1967) dei Beatles, album crocevia di simboli e di invenzioni (e dominato da un preciso percorso tonale
interno), a “TOMMY” (1969) degli Who, dove viene presentata l’allegoria esistenziale di un ragazzo, all’italiano “NON
AL DENARO, NON ALL’AMORE NÉ AL CIELO” (1971) di Fabrizio de André (in cui non solo l’opera letteraria
“L’antologia di Spoon river” di Edgar Lee Masters è alla base del lavoro, ma in cui compare anche un filo musicale
interno all’album stesso) a “THICK AS A BRICK” (1972) degli Jethro Tull, caratterizzato da una lunga suite musicale,
a “THE LAMB DIES DOWN” (1974) dei Genesis, in cui si narra la storia di un teppista portoricano di New York e il suo
processo di maturazione attraverso una serie di esperienze surreali, ancora a “WISH YOU WERE HERE” (1975) e
“THE WALL” (1979) dei Pink Floyd, fino ad arrivare – saltando il periodo degli anni ’80 non pronti a maturare ed
accogliere lavori così complessi – a “MELLON COLLIE & THE INFINITE SADNESS” (1995) degli Smashing
Pumpkins, in cui il tema della melanconia e della tristezza è mutuato e presentato dallo scorrere di una giornata e
specialmente della notte, e a “SCARLET’S WALK” (2002) di Tori Amos, romanzo on the road trasposto ed interpretato
in chiave musicale. Per maggiori dettagli sui concept album e la loro storia vedere anche ANDREA BERGAMINI, Il
Rock e la sua storia, Firenze, La biblioteca, 1999, pag. 49.
[41] Gli Sparks con l’LP “KIMONO MY HOUSE” del 1974 “realizzano questo disco d’impeccabile eleganza che
amalgama impasti vocali alla Beach Boys, chitarre elettriche dalla decisa impronta Hard e arrangiamenti orchestrali
fra cabaret e Music–Hall, Brecht e Marlene Dietrich” (secondo quanto riportato in AUTORI VARI, Dizionario del Pop
Rock, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, pag. 974) e sono quindi da considerarsi come un diretto antecedente
dell’album dei Queen “A NIGHT AT THE OPERA”, anche perché entrambi i gruppi gravitavano all’epoca nell’orbita
glam. L’anno successivo, quel 1975 in cui è dato alle stampe il quarto album di Mercury e compagni, vede anche
l’uscita dell’LP “THE ORIGINAL SOUNDTRACK” dei 10cc, definito “ingegnoso assemblaggio di Pop, Rock, Music–
Hall e Cabaret incorniciato da perfetti intrecci vocali […] in bilico tra Maurice Chevalier e i Queen” (Ibidem, pag. 1028).
Appare quindi come evidente come solo l’estetica e il punto di vista glam (insieme agli squilibri ed agli eccessi così
caratteristici degli anni ’70) – comune ai gruppi citati – permettesse di concepire un album così vario e in cui i brani
assumono ciascuno un valore musicale proprio caratteristico di un determinato periodo storico ed artistico.
[42] Il riferimento al pianoforte usato compare anche nelle note di copertina, a differenza di quanto era avvenuto nei
precedenti album.
[43] Con Bohemian Rhapsody inizia anche l’era dei videoclip musicali: già in precedenza molti artisti avevano girato
video (i Beatles nel 1965, o gli stessi Queen), ma nuovo è l’uso che ne viene ora fatto, in quanto lo scopo non è più
solo quello di fissare su pellicola i cantanti con il sottofondo di una loro canzone, quanto quello di promuovere con il
mezzo televisivo un brano, distribuendo il video in tutto il mondo e allargando la sfera mediatica (non più solo radio o
supporto discografico) su cui intervenire per farsi conoscere; vengono così gettate le fondamenta per la futura nascita
– tra l’altro – di MTV e delle altre emittenti televisive musicali. Se infatti all’inizio della storia del videoclip le
ambientazioni sono limitate solamente agli studi televisivi e gli artisti fanno la loro comparsa timidamente tramite gli
atteggiamenti richiesti dalla pratica strumentale e vocale, poco alla volta l’inserzione di modesti elementi narrativi
permette il rinnovamento del genere, non più inteso negli anni futuri come semplice memoria dell’esecuzione. Vedi il
saggio di LUCA MARCONI Muzak, Jingle, Videoclips in Enciclopedia della Musica, Volume I, Il Novecento, Torino,
Giulio Einaudi Editore 2003, pagg. 675-700, ALBERTO CAMPO, Get Back! I giorni del rock, Bari, Gius. Laterza & Figli
Spa, 2004, pag. 47-59 ed anche MARCO PIERINI, Good Vibrations - Le arti visive e il rock, Firenze, Giunti Editore,
2006, pagg. 122-167.
[44] Se la canzone è lunga, esce spesso in una single version accorciata; questo procedimento non è caratteristico
degli anni ’70 ma lo diviene a partire dal decennio successivo. Anche i Queen presenteranno infatti talvolta due
versioni dello stesso brano, una appartenente all’album e una più corta per sfondare nelle charts come singolo.
[45] Per un’analisi approfondita su alcuni brani dei Beatles (e non solo) e la loro struttura vedere il saggio “Forme e
modelli delle canzoni dei Beatles” in FRANCO FABBRI, Il suono in cui viviamo, Roma, Arcana Editrice, 2002, pagg.
108-131.
[46] Ivi, pag. 124
[47] In Italia vale la pena citare I Giardini Di Marzo (1972) di Battisti ed altre sue composizioni analoghe dalla struttura
complessa – con introduzione lenta, crescendo caratteristico e ritorno del tema iniziale in conclusione – e la durata
superiore ai 5 minuti.
[48] A dire il vero questo quarto album del Led Zeppelin è uscito senza titolo, ma si usa dargli questo perché i tre
precedenti erano semplicemente intitolati “LED ZEPPELIN I”, “LED ZEPPELIN II” e “LED ZEPPELIN III”.
[49] Ad essere precisi non mancano esempi di brani dalla simile costruzione complessa nemmeno nei decenni
successivi, anche se certo l’accoglienza del pubblico e il mercato non saranno totalmente pronte ad accogliere queste
canzoni che appariranno così eccessivamente “lunghe”. Valgano, tra i riferimenti possibili, quelli a Romeo And Juliet
dei Dire Straits (1980), Nothing Else Matters dei Metallica (1991) e a For Martha degli Smashing Pumpkins (1998).

[50] Vedere anche il paragrafo “Le condizioni di codificazione” in FRANCO FABBRI, Il suono in cui viviamo, Roma,
Arcana Editrice, 2002, pagg. 65 e seguenti.
[51] Sui brani caratterizzati da una reprise vedere anche RICHARD MIDDLETON, Studiare la popular music, Milano,
Feltrinelli, 1990, pag. 304 e seguenti: “Anche la musica, se considerata un sistema semantico-strutturale, offre un
modo di pensare le relazioni, sia all’interno di un brano musicale che fra i brani. […] È probabile che i brani con una
reprise (cioè un brano che [o una sezione dello stesso] viene ripreso in un secondo tempo) – come quelli presenti in
molti concept albums del progressive rock – offrano materiale interessante per questo tipo di approccio. Per esempio,
il brano dei Beatles che dà il titolo al loro album “SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND” unisce ‘l’allora’
originale edoardiano e ‘l’adesso’ aggiornato, modificati dalle canzoni interposte che, eloquentemente, contengono
materiale ‘arcaico’ ed ‘esotico’”.
[52] PAUL GRUSHKIN, Rockin' Down the Highway: The Cars and People That Made Rock Roll, MBI Publishing
Company, 2008, pag. 135.
[53] “[Stairway To Heaven] è densa di simbologie magiche, di presenze esoteriche, [tanto da] colpire l’immaginario
collettivo”, in AUTORI VARI, Dizionario del Pop Rock, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, pag. 619. “Nothing At All è […]
in bilico tra l’emozione di radici folk, suggestivi impasti vocali e il crescendo da ballata senza tempo”, Ivi, pag. 440.
Anche l’aspetto testuale contribuisce quindi, in modo intrinsecamente legato alla musica, a creare attorno a questo
brano e ad altri una sorta di aura mitica che protegge le canzoni dallo scorrere del tempo consegnandole
contemporaneamente alle nuove generazioni.
[54] Vedi VITTORIO MATHIEU, Il nulla, la musica, la luce, Milano, Spirali/Vell, 1996, pagg. 153-209. Altre parti del
saggio sono citate più avanti.
[55] Per un’approfondita discussione su questi argomenti e le loro connotazioni storiche ed estetiche vedi anche il
capitolo “Il suono di chi? Popular music e tecnologia”, in FRANCO FABBRI, Il suono in cui viviamo, Roma, Arcana
Editrice, 2002, pagg. 155-162.
[56] Vedi anche il capitolo “Change gonna come? Popular music e musicologia”, in RICHARD MIDDLETON, Studiare
la popular music, Milano, Feltrinelli, 1990, pagg. 151-181.
[57] Nei Lieder di stampo classico il testo era solo una base su cui costruire sopra un’architettura, e non aveva in sé
grandi significati o particolari pretese artistiche o letterarie.
[58] Per una proposta normativa, ideologica ed un generale discorso sui generi musicali, sul loro rapporto e la loro
funzione anche storica e sociale, vedere FRANCO FABBRI, Il suono in cui viviamo, Roma, Arcana Editrice, 2002,
pagg. 47 e seguenti.
[59] La registrazione sostituisce a tutti gli effetti la partitura, ma non si deve credere che solo la musica di cui esista
una notazione debba considerarsi valida e meritevole di analisi e di studio: nella cultura popular il supporto è esso
stesso oggetto di studio e non di semplice trasmissione, e quindi deve essere preso in considerazione. Se infatti
l’esecuzione di un brano di musica classica dipende strettamente dalle note scritte (le quali non vengono
tassativamente mai cambiate), allo stesso modo in un brano pop o rock la registrazione è l’elemento, lo scheletro e
insieme l’organismo completo, che deve essere oggetto d’attenzione (e anch’esso non va in alcun modo modificato,
ma anzi preso come lo si trova: ciò, si è visto, evita anche la mediazione di un possibile interprete).
[60] Molte arti a dire il vero sono concepite in questa dimensione (vedi la letteratura, il cinema…), con l’eccezione
della musica etnica (inscindibilmente legata ad una esecuzione presente), della danza e del teatro – anche se questo
è basato su testo preesistente (che non è però la performance a cui si assiste) – che sotto questo aspetto appaiono
sicuramente come arti più effimere. Vedi anche “Vero o falso? Estetica della musica ‘riprodotta’” in FRANCO FABBRI,
Il suono in cui viviamo, Roma, Arcana Editrice, 2002, pagg. 152-4.
[61] (a cura di) GREG BROOKS e SIMON LUPTON, Freddie Mercury. Parole e pensieri, Milano, Oscar Mondadori,
2012, pagg 51-52.
[62] Per una breve storia della “Rapsodia” in quanto genere vedi anche AUTORI VARI, Dizionario Enciclopedico della
Musica Classica, Armando Curcio Editore, 1990, vol. III, pagg. 1401-02.
[63] Alcuni autori sottolineano ancora di più l’influenza del contesto operistico all’interno della struttura stessa del
brano: “Bohemian Rhapsody (il titolo cita ovviamente La Bohème, 1896, il capolavoro di Giacomo Puccini) si struttura
in un’introduzione, un’aria ‘pucciniana’ (Mama), una surreale scena buffa ‘rossiniana’ (I see a little silhouetto) e un
maestoso finale d’atto ‘verdiano’ (So you think you can stone me). L’aria è la vera gemma del mosaico: inizia con un
tono implorante su poche note contigue e si espande rapidamente attraverso un’efficace interazione dell’inciso iniziale
opportunamente ampliato, in un’ariosa ascesa fino all’apice emotivo dolcemente fluttuante; la sezione buffa funziona
come una doccia fredda: dopo tanta passione il canto si irrigidisce su poche note e soprattutto su un grottesco ritmo
anapestico, tipico del melodramma comico; il grandioso finale, impostato su un possente riff chitarristico e su
un’energica linea vocale discendente, ristabilisce un’atmosfera tesa, degna di un dramma lirico. Mercury rivisita alcuni
stereotipi del teatro d’opera con evidente ironia e affettuoso eclettismo, dimostrando di saper comporre melodie
capaci di citare con seducente eleganza i celebrati modelli”, in GIUSEPPE RAUSA, Dizionario della musica Rock,
Volume primo, Milano, RCS Libri, BUR Dizionari, 2005, pagg. 447-8.
[64] Una simile struttura si avrà, sempre nella discografia dei Queen, con Innuendo (1991), tratta dall’album omonimo
e ancora più lunga di Bohemian Rhapsody, arrivando a durare 6 minuti e 30 secondi. Curiosamente sono proprio
Innuendo e Bohemian Rhapsody, due brani dall’analoga concezione e con una precisa e complessa drammaturgia
interna, i due singoli ad avere raggiunto la testa delle classifiche inglesi. Notare come in entrambi i casi la forma del
brano non è basata su un modello strofa-ritornello o su uno chorus-bridge ma è anzi totalmente inedita nel panorama
musicale, pur permettendo l’assoluta validità dei pezzi in questione.
[65] Per un’approfondita analisi sul tempo interno allo stile classico – qui applicata ed estesa ad alcuni brani
appartenenti al genere della musica popular – vedi PAOLO GALLARATI, La forza delle parole, Torino, Einaudi, 1993,
pagg. 39-56. Nello stesso testo (pag. 44) è citato anche un passo tratto dalla Critica della ragion pura di Kant, utile nel
far emergere le differenze tra stile barocco e stile classico, ma applicabile anche ad altri campi musicali: “[…] È
possibile affermare, con un’espressione che ha l’aria di essere alquanto paradossale: solo il permanente (la sostanza)
[come il materiale tematico della sonata classica o particolari sezioni di un brano popular] è suscettibile di mutamento,
ciò che cambia [come i temi dello stile galante o di alcune canzoni concepite in stile ‘barocco’] non subisce
mutamento alcuno, ma solo un avvicendamento, perché talune determinazioni cessano e altre cominciano”. In
IMMANUEL KANT, Critica della ragion pura, Torino, Utet, 1967, pag. 224. Fatte queste premesse si potrebbe forse
riconoscere che Bohemian Rhapsody, insieme ai brani precedentemente citati e appartenenti a gruppi diversi come
Led Zeppelin o Pink Floyd, debba la propria fortuna ed energia interna alla struttura, e proprio questa è in tutto
paragonabile – pur con le opportune differenze – alla forma sonata di stampo classico per lo sviluppo drammaturgico
in cui sono coinvolte le varie sezioni.
[66] Analizzare un brano anche dalla sua durata in secondi è un metodo possibile esclusivamente nel campo della
musica pop e rock, e più precisamente solo quando si è in presenza di un’esecuzione registrata e considerabile
definitiva, quindi non soggetta a ripensamenti, problemi interpretativi o d’esecuzione: ciò avviene solitamente se è
stato lo stesso autore a consegnare la versione finale, a stabilire cioè il punto di partenza e insieme d’arrivo da cui
hanno inizio e si concludono gli studi.
[67] Contenuto nel libro VITTORIO MATHIEU, Il nulla, la musica, la luce, Milano, Spirali/Vell, 1996, pagg. 153-209.
[68] Per dare un’idea della ricchezza e della complessità di tutte queste voci, si consideri che solitamente le parti
vocali destinate al coro in un brano raramente sono più di una e tendenzialmente riproducono la melodia principale:
ciò avviene anche in gruppi apparentemente ricchi sotto il profilo corale come i Bee Gees. Prima di Bohemian
Rhapsody pochi altri brani dei Queen avevano parti corali superiori all’unità: Great King Rat, Liar e You’re My Best
Friend ne avevano due, My Fairy King ben quattro e perciò, insieme a The March Of The Black Queen, tale brano è
da considerarsi come un importante precursore.
[69] “La batteria usata per registrare Bohemian Rhapsody è sostanzialmente un misto fra diversi marchi e colori, per
quanto concerne sia i fusti, che i piatti, considerando anche il nuovo ‘aggeggio’ introdotto da Taylor nel suo parco
tamburi, l’orientale Gong, posto alle sue spalle. Andiamo per ordine; la batteria usata per le registrazioni è composta
da sei fusti compreso il rullante che è un Ludwig School Festival Modello 912 (Badge Keystone WFL con seriale e
tendi cordiera P83) in finitura Acero naturale 14”x6,5”. Non si esclude l’utilizzo del Ludwig Supraphonic LM400, usato
nei tour precedenti alle registrazioni del pezzo. Le differenze fra i rullanti identici nelle dimensioni, è che lo School
Festival è in legno di acero, il Supraphonic è in metallo, quindi con un timbro più chiaro. Con il legno si possono
raggiungere timbri diversi con l’accordatura, il metallo è meno ‘malleabile’. Il primo Tom e i due timpani alla sua destra
sono anch’essi Ludwig (spessore 3 strati), il sospeso in finitura color noce, i due timpani neri. Le misure di questi fusti
Ludwig sono 13”x9”, 16”x16” e 20”x18”.
Nel seguente Tour Mondiale, fino ad Aprile 1976, i due timpani neri ‘panther’, appartenenti al suo Kit precedente,
usato per registrare “QUEEN” e “QUEEN II”, verranno sostituiti da due timpani in noce che faranno pendant con il
Tom sospeso. Il secondo Tom, che in realtà è un timpano con intonazione regolabile, a cui è stato smontato il
meccanismo a pedale e le tre aste/piedi, è di produzione italiana, marca Hollywood Meazzi, 14”x14”.
È lo stesso usato nel tour precedente ma ha un colore diverso infatti, un loro tecnico, Brian Spencer, durante le
sessioni di registrazione dell’Album “A NIGHT AT THE OPERA”, ebbe l’incarico di togliere la pellicola nera e
riverniciare il fusto ormai in legno vivo, con della vernice trasparente per renderlo di un legno chiaro vivo.
Nelle rare foto delle sessioni di prove del periodo l’Hollywood è visibile in nero e la Grancassa è senza pelle risonante
con un bel cuscinone tipo puff all’interno. Un escamotage per rendere il suono del ‘kick’ più caldo.
Il Kit è visibile nel video di Bohemian Rhapsody, e nelle scene estrapolate dal materiale registrato all’Hammersmith
Odeon durante il loro famoso concerto di Natale del 1975. Poi viene usato nel 1980 per registrare il video Flash e
montato nei Rockfield Studios per una Jam fra Brian May e Roger Taylor per il DVD del 2005 ‘The Making Of A Night
At The Opera’. Nel 2002 il Kit è stato fotografato con il batterista per la copertina di ‘Rhythm’, giornale britannico sulle
percussioni.
Le bacchette che Taylor usava all’epoca, anche durante il tour susseguente alla pubblicazione dell’album, erano delle
bacchette custom di un negozio di Batterie di Londra, il GIG Shop. Famosa la storia dei limiti budgetari delle sessioni
di registrazione del loro Opera Album e del sovente redarguire al batterista la rottura delle bacchette, da parte dei
produttori. Durante gli anni precedenti usava soventemente le Dallas Arbiter, Ginger Baker Signature. Intorno al 1976
passerà alle Premier 550 C con scritta verde o rossa per poi farsele personalizzare, nel loro nuovo design con il suo
nome inciso.
Come accennato a questo Kit, prima volta nella carriera di Taylor, viene affiancato il Gong, un piatto di origine sudest
asiatica ma di marca svizzera (Paiste), famoso per il suo suono descritto onomatopeicamente nel proprio nome. Il
suono è ben distinguibile in chiusura della canzone. Il Gong visibile nel tour successivo alla pubblicazione era in realtà
di proprietà di Elton John, preso in prestito fino all’arrivo del proprio. Ai tempi i Queen e Sir Elton John avevano in
comune il Manager, John Reid.
Il Gong da 60” usato dal biondo di cornovaglia [Taylor] era il secondo più grande della gamma Paiste, fondata da un
estone, che arrivava fino a 80 pollici di diametro.
Sul suo lato frontale sono visibili dei pittogrammi Tai Loi, una lingua parlata minore parlata nel Burma, Laos e in Cina.
Il significato di questi segni è traducibile con: ‘Il male partirà e il bene arriverà’ oppure. ‘È arrivata la felicità’. Taylor
abbandonerà il mega-piatto, per la felicità della sua Crew, solo nel 1982, usandolo ora come ‘suppellettile’, sotto la
veranda della sua nel Surrey…
È proprio riferendosi al grande piatto che Chris Crystal Taylor ebbe a dire in un’intervista contenuto nel libro sulle
batterie di Roger Taylor: ‘Quel Gong era un incubo (diametro 1,52m). Il Gong, l’anello e i piedi (il suo supporto, NdA),
erano contenuti in un flight case, potete immaginare la dimensione del tutto. Mi faceva impazzire perché ci voleva
così tanto tempo per portarlo sul palco, assemblarlo e riportarlo giù, e lui colpiva quel dannato coso solo una volta.
Scrissi con un pennarello sulla cassa “Elefante bianco”. Ho detto della grandezza della cassa, ma niente batte i nove
piedi (2,74m) del pianoforte Steinway (di Freddie Mercury NdA) in un unico flight case. Questo sì che è pesante’.
In questo periodo Taylor entra in contatto con un altro elemento percussivo, forse il più altisonante: il timpano
orchestrale. Infatti di lì a breve inizierà ad suonarne due anche dal vivo portandoseli dietro per tutto il mondo. Non è
chiarissimo se sono stati suonati nel pezzo Bohemian Rhapsody, nonostante la parte operistica, ma ci sono vari
sprazzi di timpani orchestrali in pezzi come God Save The Queen, il loro personale ri-arrangiamento dell’inno
britannico. Curiosità, i Timpani suonati da Taylor durante la cerimonia delle Olimpiadi di Londra del 2012, un set
completo di cinque fiammanti Timpani, non sono quelli dell’epoca bensì un suo nuovo set, sempre Ludwig Ringer ma
attuale.
Riguardo ai timpani Crystal Taylor ebbe a dire nella stessa intervista: ‘Erano degli strumenti adorabili, realizzati in
maniera bellissima, robusti’ aggiungendo ‘sia il Gong che i Timpani, dovevano essere portati sul palco più alto in
scena, circa 6 piedi (1,82m), i Timpani erano in rame massiccio e ci volevano quattro persone per portarli a
quell’altezza. La batteria andava pulita dopo lo spettacolo perché coperta da una patina di polvere bianca derivata dai
fuochi d’artificio a fine spettacolo per non dimenticare gli sputi e la birra che veniva versata sui timpani per “Rock You”
(We Will Rock You, NdA, pubblicata nel 1977). Una volta che tutto era stato montato, andava fissato per evitare
movimenti dei supporti.’
I piatti dell’epoca variano di dimensioni e marca. Marche che sono le due maggiori dell’epoca, ossia Paiste e Zildjian.
Non vanno dimenticati altri due elementi percussivi usati nel registrare “A NIGHT AT THE OPERA”, il tamburino New
Era della Premier ed il triangolo ad uso esclusivo di John Deacon.
Ricapitolando, qui uno schema dalla vista dall’alto e i relativi pezzi che compongono il Kit:

1 GRANCASSA:
Misure: 26” x 16”.
Marca/Etichetta: Ludwig Blu/Olivo.
Finitura: Acero chiaro 2385 e Noce corteccia 2386 (Cerchi tendi pelle).

2 RULLANTE:
Misure: 14” x 6.5”.
Marca/Etichetta: Ludwig / Keystone WFL con seriale.
Modello: School Festival Modello 912 (Tendi cordiera P83).
Finitura: Acero.

4 TOM:
Misure: 13” x 9”.
Marca/Etichetta: Ludwig Blu/Olivo.
Finitura: Noce corteccia No.2386.

5 TOM:
Misure: 14”x14” (Timpano regolabile senza meccanismo).
Marca/Etichetta: Hollywood Meazzi Nero/Verde.
Finitura: Acero.

6 TIMPANO:
Misure: 16” x 16”.
Marca/Etichetta: Ludwig Blu/Olivo.
Finitura: Nero ‘Panther’ durante le registrazioni/prove, noce corteccia No.2386 nel seguente tour.

7 TIMPANO:
Misure: 20” x 18”.
Marca/Etichetta: Ludwig Blu/Olivo.
Finitura: Nero ‘Panther’ durante le registrazioni/prove, noce corteccia No.2386 nel seguente tour.

HARDWARE:
A - Reggi Tom su Grancassa: Premier Lokfast Mod. 392.
Pedale: Ludwig Speed King No.201 w/No.1286 battente in feltro duro.
Reggi Hi-Hat (Charleston): Ludwig Atlas “Big Beat” Spur Lock No.1124.
Reggi Rullante: Shaftesbury Snare stand No.5411.
Reggi Piatti: Shaftesbury stand No.5412 (dritto).
C – Cowbell (Campanaccio): Ludwig Timbale No.2389, 9” lungo con asta No.133.
Bacchette: Dallas-Arbiter 15-1/2” Ginger Baker ‘signature’ peso medio.
Pelli: Ludwig Weather Masters bianche.

CYMBALS:
F - Hi-Hat (Charleston): Zildjian 15” Avedis New Beat
G - Crash estrema sinistra: 18” Zildjian Avedis Medium
I - Crash centrale sinistra: 18” Paiste 2002 Series Black Label
L - Crash centrale destra: 18” Paiste 2002 Series Black Label
M – Ride (Piatto accompagnamento): 20” Zildjian Avedis Medium
N - Crash: 18” Paiste 2002 Series Black Label
Q - Gong: 60” Paiste Symphonic Gong (Ludwig Ord. No.761)”

Questa ricca sezione dettagliata relativa alle batterie e alle percussioni è estrapolata dal libro DI NARDO, DARIO, The
Roger Meddow’s Taylor Drum Kits Book, Torino Di Sangro: (Self-published), 2016
[70] Probabilmente l’idea di non accompagnare la voce nell’introduzione è un’influenza di alcuni brani dei Beatles,
come Nowhere Man e Paperback Writer.
[71] Vedi l’articolo presente all’indirizzo web https://www.inartemorgan.it/aspettando-il-mondo-di-morgan/1458-
bohemian-rhapsody-queen-freddie-mercury-interpretazione-sommaria-traduzione-non-poetica-morgan
[72] Il pianoforte usato in Bohemian Rhapsody è un Bechstein affittato da Mercury per le registrazioni. Due sono i
microfoni riservati alla parte pianistica, uno raccoglie le note basse e le bilancia maggiormente sul canale sinistro,
mentre l’altro registra le ottave più alte ed è quindi spostato maggiormente sul canale destro: il bilanciamento finale
della registrazione riproduce così anche la vera configurazione spaziale delle corde del piano.
[73] Proprio gli accordi di Sol minore settima sono tra i favoriti di Mercury, vista la frequenza con cui compaiono nelle
sue composizioni pianistiche e non.
[74] Notare la libertà con cui si muove la voce stessa, non essendo più contenuta in limitati intervalli, come avveniva
ancora nelle prime composizioni.
[75] Un tema strumentale simile, e sempre con la funzione di anticipo sulla voce, compare anche in It’s A Hard Life
tratta dall’album “THE WORKS” (1984). Comune ai due brani – che hanno in parallelo molto più di quanto
comunemente si crede – è non solo la tonalità d’impianto iniziale (entrambi sono in Si bemolle) e sostanzialmente
anche l’organico, ma anche l’analogo ricorso a note estranee all’armonia (aggiungendo una nona o un’undicesima)
per ottenere minimi incisi che funzionano da ponte all’interno di una medesima sezione, e che hanno la non
trascurabile caratteristica di rimanere nella memoria dell’ascoltatore.
[76] Il percorso armonico di questo pezzo è caratterizzato dalla seguente successione funzionale di accordi: I > vi > ii
> V, concepito come una catena su un circolo di quinte (vedi anche le introduzioni di Love Of My Life e Spread Your
Wings). Inoltre, la presenza di una linea cromatica discendente si ritrova anche in The March Of The Black Queen e
Death On Two Legs (Dedicated To…); in generale l’alternanza di I e vi grado – nota come “pendolo eolico” – rende
atmosfere particolarmente cupe; si tratta di un cliché musicale particolarmente sviluppato nella musica di Fryderyk
Chopin (Sonata per pianoforte n. 2, Op. 35, Marche funèbre).
[77] Si tratta di una componente pianistica abbastanza inconsueta nella produzione dei Queen, ma che tornerà ad
esempio anche nella coda di It’s A Hard Life.
[78] L’uso di accordi cromaticamente discendenti – come si riscontra in questo caso – esprime ed amplifica la
tristezza già presente a livello testuale: si tratta di una tecnica simile al “basso di lamentazione” frequente nella
musica barocca, come nell’opera Didone ed Enea (1689) di Henry Purcell.
[79] In generale la voce nelle sezioni B, B’ ed E si muove spesso per terzine e facendo ricorso ad altri gruppi
irregolari.

[80] Simili scale torneranno in Bicycle Race, mentre la costruzione generale di questo assolo è simile ad altri brani,
come It’s A Hard Life e You Don’t Fool Me.
[81] Mercury non ha mai dichiarato esplicitamente a cosa si riferisse nel testo della canzone, lasciando all’ascoltatore
la scelta sulla ricerca del significato vero. Questa voluta ambiguità ha però scatenato una serie di letture (alcune delle
quali estreme e fantasiose), che però non hanno mai una coerenza in grado di giustificare tutte le singole sezioni.
[82] Un analogo procedimento caratterizzerà la parte finale di I Want It All.
[83] Confrontare questa introduzione con l’inizio di My Fairy King e di Killer Queen, con la parte centrale di The
Millionaire Waltz e l’introduzione di The Miracle.
[84] Personificazione del soldato vanaglorioso, questa maschera di origine napoletana passò in seguito in Francia
dove assunse il nome di “Scaramouche” poi esportato anche in Inghilterra. Nelle incisioni, come quella riportata
(Parigi, chez H[enri] Bonnart, rue St. Jacques au Coq, [sec. XVII] Incisione Inv. 1447), Scaramouche è una figura
connessa col mondo musicale: suona la chitarra, strumento caratteristico per l’accompagnamento del fandango, a cui
è associato anche nel testo di Bohemian Rhapsody: “Scaramouche, Scaramouche will you do the Fandango?”. Nel
mondo della Commedia dell’Arte cerca sempre di conquistare le donne fingendosi ricchissimo e suonando dolci
serenate con la chitarra o il mandolino.
[85] Tra gli esempi classici di opere in cui è possibile riscontrare il ritmo del fandango, vi sono anche, curiosamente,
Le Nozze di Figaro di Mozart: nel Finale dell’atto I, nell’aria “Non più andrai farfallone amoroso”, è proprio la figura di
Figaro – nome presente anche nel testo di Bohemian Rhapsody – a farne cenno.
[86] Una citazione “colta” ancora più esplicita – e che costituisce un inevitabile punto di contatto con la musica
classica – si ha anche in Will You Be There di Michael Jackson (dall’album “DANGEROUS” del 1991), dove ad inizio
brano viene ripreso dal coro l’ultimo movimento della Nona sinfonia beethoveniana. Ancora Beethoven ed un
movimento della sua sonata per pianoforte Patetica sono alla base del brano Interludio di Claudio Baglioni. In
generale negli anni ’70, col genere del progressive Rock (e in gruppi come i Deep Purple) tali citazioni aumentano.
Un’altra insospettabile citazione (dal primo movimento del Concerto per Pianoforte di Mozart K. 491) si trova invece in
Mino Reitano, nella canzone Avevo un cuore che t’amava tanto. Per maggiori dettagli ed esempi consultare JANNELL
DUXBURY, Rockin’ The Classics and Classicizin’ The Rock, Greenwood Press, 1985.
[87] “Non si sa perché a un certo punto arriva Galileo. Forse perché suona come una parola italiana perfetta per
simulare un genere operistico oppure perché [Mercury] sapeva che il padre di Galileo Galilei, Vincenzo Galilei, è il
fondatore dell'opera italiana la cosiddetta camerata fiorentina considerata come prima scuola che formalizza l'opera,
la nascita dell'opera e siamo nel 1600 il cosiddetto periodo barocco per la musica. Ecco perché i Queen si possono
anche definire barocchi nella loro ispirazione”. https://www.inartemorgan.it/aspettando-il-mondo-di-morgan/1458-
bohemian-rhapsody-queen-freddie-mercury-interpretazione-sommaria-traduzione-non-poetica-morgan
[88] Qualche secondo più tardi un analogo procedimento di voci che entrano a canone per supportare un verso, si
avrà in corrispondenza della parola “Go”, tratta dalla frase “Never let me go” [3:49].
[89] “Il poor boy è il personaggio protagonista, il ruolo in cui ci si identifica, sarebbe un povero ma forse più un
ragazzo semplicemente sfortunato nel senso di normale, comune, non un figlio d’arte o un aristocratico, uno come
tutti. Anche in We will rock you c’è il tema del riscatto dalla disgrazia, da una vita di fatiche e dolori offerto dalla
prospettiva narrativa di chi subisce. È la stessa poetica che si trova in De André, è l’attenzione agli uomini che
soffrono e restano vittime della società; quasi tutti i personaggi delle canzoni di De André sono perdenti o uomini e
donne ingiustamente sfavoriti e puniti dal destino, ma in tutte le canzoni c’è anche il loro riscatto. Ecco perché si
origina l’identificazione del pubblico, e anche la mia. Questo è il vero motivo della grandezza che porta i Queen ad
essere il più grande gruppo rock di tutti i tempi, e questa canzone ad essere la musica più ascoltata del ventesimo
secolo. È questa la risposta alla domanda del perché hanno così tanto successo, e vale anche per De André:
l’identificazione morale degli esseri umani semplici, che sono i più numerosi. Nelle canzoni dei Queen c’è una chance
per tutti, una speranza per i disperati. Questo dovrebbe essere il compito di tutte le canzoni, e a volte riesce ad
esserlo veramente: rappresentare la libertà, non dell’uomo, ma per l’uomo.” https://www.inartemorgan.it/aspettando-il-
mondo-di-morgan/1458-bohemian-rhapsody-queen-freddie-mercury-interpretazione-sommaria-traduzione-non-
poetica-morgan
[90] Si tratta di una formula usata come preghiera nella religione islamica, e compare spesso anche nel Corano, in
quanto ricorre all’inizio di ogni capitolo (Surah) con l’eccezione del nono. Il riferimento così esplicito alla religione
islamica permette di associare Bohemian Rhapsody con un altro brano composto dallo stesso Mercury, Mustapha,
dove le espressioni saranno ancora più dettagliate e precise, con frasi come “Allah will pray for you”. Inoltre, si
consideri che alla formazione dell’islamismo avrebbero contribuito, oltre al cristianesimo e al giudaismo, anche lo
zoroastraismo persiano, di cui Mercury era credente: si spiegano quindi in tal modo i suoi frequenti riferimenti –
appartenenti a diverse fedi – che si riscontrano nei testi dei brani.
[91] Ricorda Mercury in un’intervista: “C’era una sezione di «No, No, No», un tipico crescendo, e noi dovevamo
ripetere «No, No, No, No, No, No, No» qualcosa come centocinquanta volte. A quei tempi in studio si usavano i 16
piste. Ora abbiamo i 24 e 32 piste, e anche di più. Abbiamo fatto così tante sovraincisioni per quella canzone sulle 16
piste, strati e strati, continuavamo ad accumularne, e il nastro è diventato trasparente, non ce ne stavano più. Penso
che si sia anche rotto in due punti.” In (a cura di) GREG BROOKS e SIMON LUPTON, Freddie Mercury. Parole e
pensieri, Milano, Oscar Mondadori, 2012, pag. 52.
[92] Gli accordi sono nell’ordine: Si minore, La maggiore, Re maggiore, Re bemolle settima, Sol bemolle, Si bemolle e
Mi bemolle; notare come siano tutti allo stato fondamentale.
[93] Scrive infatti Mila, con un discorso che può essere trasportato a questa sezione di Bohemian Rhapsody: “[I
personaggi del Don Giovanni] rispondono compatti con un ‘No, no, morrà’; ciò dà luogo a uno dei più chiari episodi di
stile gluckiano nel Don Giovanni […]. La secca sillabazione, gli unisoni compatti […] hanno il loro antecedente nelle
scene infernali dell’Orfeo ed Euridice [opera per l’appunto di Gluck]”. In MASSIMO MILA, Lettura del Don Giovanni di
Mozart, Torino, Einaudi, 1988, pag. 200.
[94] La parte del coro disposta al perdono, a fare tornare indietro Scaramouche sano e salvo afferma chiaramente:
“Spare him his life from this monstrosity”.
[95] Ad eccezione della sola nota Do naturale, in questo brevissimo passaggio viene esaurito l’intero totale cromatico:
pertanto questo movimento compatto dei “No” può a ragione considerarsi come una summa musicale di tutta la
canzone e di tutte le possibilità offerte dalla musica stessa; è sorprendente però come all’ascolto questa apparente
dissonanza estesa su larga scala si trasformi in un pezzo melodico. Già in alcuni lavori di Carlo Gesualdo da Venosa
(1566-1613) i movimenti vocali erano caratterizzati da un forte cromatismo, specie in scale ascendenti (Libro VI dei
madrigali pubblicato nel 1611), che però era bene in grado di dare un’immagine sonora ai “morbosi affetti” presenti a
livello testuale. Si veda ad esempio il madrigale intitolato Io pur respiro in così gran dolore:

Comunque, vista la complessità e la lunghezza di Bohemian Rhapsody, il totale cromatico viene presto esaurito
(comprendendo quindi anche Do) nelle successive sezioni, sia ad un livello vocale che ad uno strumentale. Solo
questa parte analizzata richiese almeno 150 diverse registrazioni, come dichiarato dall’autore del brano Mercury
nell’intervista radiofonica alla BBC del 24 dicembre 1977. Inoltre, va considerata l’incredibile ricchezza armonica
accanto a quella melodica in Bohemian Rhapsody: gli accordi che si susseguono, con le loro varianti (talvolta solo
minime) e i rispettivi rivolti, sono almeno 57, e questo numero dimostra una ricerca musicale spinta molto in avanti
verso soluzioni sicuramente inedite ed in qualche misura ardite. Già in The March Of The Black Queen si era
riscontrata una presenza di circa cinquanta accordi: qui il loro numero è addirittura aumentato (pur se il brano dura
meno), ma l’equilibrio della forma e della struttura li contiene perfettamente ed evita in modo accurato di proporre tutto
il materiale armonico per poi disperderlo; anzi l’abilità compositiva di Mercury sta anche nell’aver saputo raccogliere in
pochi minuti una così grande gamma armonica, dando però l’impressione all’ascoltatore che gli accordi formanti siano
in verità meno. Quindi la struttura non solo è in grado di racchiudere e riprodurre in sé la forma drammatica, ma
anche di muoversi coerentemente all’interno di una proposta musicale molto varia e colorata, senza però dare mai
l’impressione di perdersi o spingersi troppo lontano. Per avere un confronto ed un’idea numerica con cui effettuare
paragoni, si tenga conto che molti brani precedenti, appartenenti agli anni ’50, al repertorio di Elvis Presley o dei
Beatles, sono basati solitamente su non più di 4 accordi, che non permettono quindi nemmeno il ricorso ad una
modulazione: anche hits come Tutti Frutti di Little Richards, Shake Rattle And Roll o Heartbreak Hotel di Elvis Presley
(tutti questi brani del 1956) hanno un’armonia semplicissima che permette alla canzone di sorreggersi su un numero
minimo di accordi (3), ripetuti incessantemente senza variazioni.
[96] Questa ripresa si configura come uno dei molti richiami interni che permettono ad un brano aciclico e lungo come
Bohemian Rhapsody di reggere comunque senza perdersi in troppe sottosezioni differenti, cosa questa che avviene
invece ancora in The March Of The Black Queen.
[97] Confrontare questa scala ascendente con una simile in Keep Yourself Alive, la quale aveva la stessa funzione
nell’economia del brano, anticipando la ripresa dell’ultimo ritornello. Una scala funzionalmente analoga a quella di
Bohemian Rhapsody si trova in It’s A Hard Life (vedi il movimento della mano sinistra), infatti dopo di essa
l’accompagnamento al pianoforte torna identico a prima:

[98] “L'elemento simbolico del vento c’è tre volte e ha sempre significati diversi: la prima volta vuol dire “qualunque
cosa accada (in qualunque modo soffi il vento) a me non importa”. La seconda è fatto dal coro, quindi è qualcosa che
ci viene detto da altri e cioè “lo sai che così soffia il vento” quindi “lo sai che le cose vanno così”. Alla fine, invece,
inverte l’ordine di causalità e vuol dire: “non sono stato sconfitto - e la chiusa col vento è proprio come in una fiaba - e,
nonostante tutto, il vento ancora spira”. https://www.inartemorgan.it/aspettando-il-mondo-di-morgan/1458-bohemian-
rhapsody-queen-freddie-mercury-interpretazione-sommaria-traduzione-non-poetica-morgan
[99] Già Ogre Battle da “QUEEN II” terminava con il suono del gong e si ricollegava alla canzone successiva senza
soluzione di continuità, ricorrendo ad una dissolvenza incrociata.
[100] Notare come fino a questo punto l’accordo di Fa non abbia rivestito alcuna importante funzione nel corso del
brano.
[101] Questo procedimento non è del tutto sconosciuto alla musica classica, anche se ad effetti di alternanza dei due
canali principali (sinistro–destro) si sono talvolta preferiti effetti di sfondamento prospettico (vicino–lontano), presenti
ad esempio già nell’Idomeneo mozartiano (1781) nel coro “Pietà! Numi, pietà” del I atto, dove la disposizione delle
fonti era articolata quindi non orizzontalmente ma in profondità.
[102] Analogamente, il quartetto inglese decide di non registrare una versione di Bohemian Rhapsody per l’emittente
radiofonica BBC, consci del fatto che la versione presente su LP è da considerarsi definitiva e non ulteriormente
migliorabile o sviluppabile, a differenza di quanto avviene invece ad esempio con We Will Rock You.
[103] Quindi anche Bohemian Rhapsody (e in particolar modo la sua sezione C), pur appartenendo alla cultura pop e
non alla musica classica o colta, si inserisce in questo senso nella corrente propria del Novecento (iniziata e
sviluppata dalle avanguardie musicali) di musica “impossibile”, nel senso che è quasi impossibile (ri)eseguirla o darne
comunque una interpretazione corretta a tutti gli effetti.
[104] (a cura di) GREG BROOKS e SIMON LUPTON, Freddie Mercury. Parole e pensieri, Milano, Oscar Mondadori,
2012, pag. 31.

[105] Un’inusuale scaletta utilizzata per una performance è quella del 24 dicembre 1975, nel concerto natalizio tenuto
all’Hammersmith Odeon di Londra, in quanto le sezioni C e D non compaiono mai e solo la successiva parte di
Bohemian Rhapsody viene suonata.
[106] (a cura di) GREG BROOKS e SIMON LUPTON, Freddie Mercury. Parole e pensieri, Milano, Oscar Mondadori,
2012, pag. 32.
[107] (a cura di) GREG BROOKS e SIMON LUPTON, Freddie Mercury. Parole e pensieri, Milano, Oscar Mondadori,
2012, pagg 54-55.
[108] La stessa scena verrà citata nel film Bohemian Rhapsody del 2018, dove proprio l’attore originale di Fusi di
testa Mike Myers (che interpretava uno dei protagonisti) sarà invece un produttore discografico che si rifiuta di
pubblicare il brano perché troppo lungo, sostenendo inoltre che non verrebbe mai ascoltato a tutto volume in auto da
un gruppo di adolescenti. L’autoreferenzialità in questo caso va oltre l’effetto comico, diventando un richiamo interno
teso a omaggiare Mike Myers stesso che aveva insistito per inserire il brano nel film del 1992, in un momento in cui
non era così popolare e conosciuto.

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