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Le radici
È molto difficile fornire una data precisa di quando sia nata la musica
jazz, di certo si sa che questo termine
“è apparso stampato, per la prima volta, con riferimento a una forma musicale nel
1913, in un giornale di San Francisco. Quando il termine fu adottato da una delle prime
orchestrine di jazz che dalla città di New Orleans salirono al Nord, a Chicago e a New
York, la Original Dixieland Jazz Band diretta da Nick La Rocca, la parola non aveva,
in ogni modo alcun significato per l’americano medio, e la musica che essa voleva
indicare rappresentava una novità e un motivo di curiosità per quasi tutti [Polillo 1980,
595].”
Il processo che portò alla definizione del jazz come musica dalle
caratteristiche proprie e innovative fu molto lungo e attraversò molte
fasi della storia degli Stati Uniti e, in seguito, anche del resto del mondo,
in particolare dell’Europa e del Sud America. Tutto ebbe inizio si
curamente da un avvenimento storico drammatico come quello della
deportazione degli schiavi africani negli Stati Uniti, in particolare negli
stati del Sud.
Con il passare del tempo, poi, queste “isole etniche” pian piano cominciarono
a fondersi culturalmente, soprattutto dopo l’abolizione della
schiavitù.
Fra tutte le etnie la più prolifica dal punto di vista musicale, almeno
all’inizio, fu di certo quella africana, che in particolare nel XIX secolo
diede vita a molte forme musicali, che avrebbero dato il via allo sviluppo
del jazz. Tra queste molte erano legate al mondo religioso.
L’importanza del rito religioso, sia per i neri come motivo di aggregazione,
sia per i bianchi, che lo utilizzavano per controllare gli schiavi,
fu indiscutibile.
La religione si rivelò quindi il mezzo più efficace per neutralizzare lo
schiavo, che aveva la facoltà di spostarsi solo per recarsi sui luoghi di
lavoro e in Chiesa. Proprio qui nacquero i canti religiosi come lo spiritual
e il gospel, che avevano preso spunto dai camp meetings dove gli africani
avevano portato il loro patrimonio musicale. In pratica lo spiritual
era
“un modo di cantare (anzi di urlare, mutuando lo stile shuot di certi canti del Sud) che
venne via via assumendo caratteristiche originali, musicali innanzitutto, perché accompagnato
dal battere delle mani o dei piedi dei presenti (si immagini il risultato della cosa
quando aveva luogo all’interno delle chiese, costruite in genere in legno e con l’impiantito
fatto di tavole sostenute da pali per dividere il corpo del fabbricato dall’umido del
terreno sottostante...), ma anche, e chiaramente, “politiche”. Le riunioni religiose, di
fatto, si trasformarono quindi ben presto in corali ansiti della libertà [Roncaglia 1998,
41].”
“Un carattere tipico del canto comunitario settecentesco è il cosiddetto lining out,
cioè la prassi di recitare (intonando o meno) un verso da parte del predicatore, e di far
seguire l’enunciazione dello stesso verso, immediatamente, da parte dei fedeli, creando
una ricorrente struttura responsoriale: essa corrisponde esattamente, fatto salvo il contesto
funzionale, al principio africano indicato in lingua inglese con il termine di call
and response, chiamata e risposta [Cerchiari 1999, 77].”
Il call and response era molto utilizzato anche nei work songs, i canti
che venivano intonati nei campi di cotone, spesso addirittura per controllare
lo schiavo mentre lavorava e assicurarsi che non scappasse. Il
carattere dei work songs è molto vario e ci sono canzoni di protesta,
critica sociale, canzoni su episodi di vita vissuta o di cronaca. Uno dei
più famosi è quello che narra la vicenda di Ol’ Riley, fuggito da un
penitenziario dopo la morte della moglie, o ancora di John Henry, o di
altri eroi della mitologia dei neri d’America. A ogni modo, fu da queste
prime forme musicali che nacque il più vicino parente del jazz, cioè il
blues.
Di sicuro il blues non è tutto il jazz, ma tutto il blues è jazz. Esso
rappresenta il ponte di unione fra il folk-song del Sud e la complessità
armonica, l’organizzazione ritmica dei primi gruppi di improvvisatori
jazzistici
Il jazz rivela quindi una sua natura composita, che gli deriva
dall’essere crocevia di musiche differenti e antiche quali come accennato,
il blues.
“È facile dire che il jazz non sarebbe potuto esistere senza il blues e i suoi vari antecedenti.
Ma è inesatto considerare il jazz come un successore del blues: il jazz è una
musica originale che si è sviluppata dal blues e allo stesso tempo è concomitante con
esso, e poi si è sviluppata su una strada autonoma. È invece interessante ricordare che
blues, in seguito, indicò un modo di suonare il jazz, e che con l’era dello swing, la
grande popolarità dei cantanti blues era stata soppiantata da quella dei jazzisti. Da allora,
per molti, il blues non fu più un genere musicale separato [Baraka 1963, 77].
Si pensa comunemente che il jazz sia nato a cavallo del secolo, ma le musiche da cui
deriva sono molto più antiche. Il blues è il padre legittimo di tutto il jazz. Non è possibile
dire con esattezza quanto sia vecchio il blues, ma di certo non è antecedente alla
venuta dei neri negli Stati Uniti. È una musica indigena americana, il prodotto dell’uomo
nero in questo paese o, per dire esattamente come vedo la questione, il blues non
avrebbe potuto esistere se gli schiavi africani non fossero diventati degli schiavi americani
[Baraka 1963, 35-36].”
New York fece ufficialmente la conoscenza del jazz nel 1917, con la
Original Dixieland Jazz Band. In realtà, però, il jazz nella metropoli
venne subito manipolato, modificato, sia dai musicisti, sia dal pubblico,
sia dalla città stessa con le sue contraddizioni culturali, e assunse, col
passare del tempo, forme ben diverse da quelle che aveva avuto in passato.
Proprio nella Grande Mela il jazz ebbe modo di emanciparsi un
po’ dalle caratteristiche folkloriche che l’avevano distinto nei primi anni,
per trasformarsi nella nuova musica che sarebbe dilagata in ogni parte
del mondo. I conflitti razziali non erano ancora stati appianati, e le bands
difficilmente presentavano al loro interno organici misti. Si svilupparono
quindi, all’inizio, una via bianca e una nera al jazz. In particolare nel
ghetto nero di Harlem, il jazz subì profonde trasformazioni; lì vi era un
jazz più autentico, più vicino allo spirito dei neri americani, più “selvaggio”.
La musica suonata nei locali di Harlem era spesso una musica
più sperimentale, d’avanguardia, una musica che veniva poi ripulita e
presentata al grande pubblico bianco con una veste più consona. Molta
gente anche a New York non era quindi ancora pronta per il jazz, almeno
per quello più vero, più carico di implicazioni anche sociologiche.
Fu per questo, probabilmente, che nacque il cosiddetto jazz sinfonico,
una musica che pur utilizzando alcuni apparenti stilemi jazzistici, si presentasse
in modo “pulito” e “dignitoso”. Il modo di suonare dei bianchi
era più razionale, più costruito, più individuale, anche se, in molti casi,
meno spontaneo e istintuale rispetto al modo di suonare dei neri. Personaggi
come il violinista bianco Paul Whiteman avevano capito che cosa
voleva il pubblico americano di allora e avevano saputo sfruttare il loro
fiuto per arricchirsi enormemente.
“Le reazioni positive, nel mondo del jazz, non tardarono; il jazz, sia chiaro, non era
sparito dal mondo dello spettacolo, anche se molti musicisti erano stati costretti a trovarsi
altri lavori per l’insufficienza degli ingaggi dovuta alla situazione generale,
stiracchiando giorno dopo giorno i mesi in attesa che qualcosa di nuovo accadesse. E
qualcosa di nuovo, di veramente nuovo, puntualmente accadde [Roncaglia 1998, 163].”
«Tutto quello che vogliono fare è dell’esibizionismo, e ogni vecchio trucco è buono
purché sia differente da quello che voi avete suonato fino adesso. Così tirano fuori tutti
quegli accordi strampalati che non significano niente, e in principio la gente prova della
curiosità soltanto perché si tratta di una novità, ma poi si stanca perché non è veramente
buona; non c’è nessuna melodia che si possa ricordare e nessun ritmo regolare su cui si
possa ballare. E così tornano a essere di nuovo poveri e non c’è lavoro per nessuno, e
questo è quanto vi ha combinato la malizia moderna». La verità era molto diversa. Il
bebop non soltanto rappresentava un notevole progresso sul jazz precedente dal punto
di vista ritmico, armonico e melodico, ma significata la completa rottura con una musica
industrializzata e stereotipata quale era ormai il cosiddetto swing così come lo suonavano
le orchestre più popolari d’America, e cioè anzitutto quelle bianche. Il bebop,
anzi il bop, come si cominciò a dire, non voleva essere una musica da ballo; voleva
essere una musica “pura”, da ascoltare, e fu squisitamente intrinsecamente negra [Polillo
1975, 197].
Sul finire degli anni Cinquanta la musica dei boppers aveva ormai concluso
la sua stagione d’oro, anche perché molti dei suoi esponenti erano
caduti in disgrazia o addirittura morti a causa dell’abuso di droghe e
alcool. Inoltre, buona parte del pubblico cominciava a essere stufo di
quella musica, così come molti musicisti che non si rispecchiavano più
in quello stile così veloce e carico di energia. Fu forse per reazione,
quindi, che si sviluppò il cosiddetto cool jazz. Uno stile molto più calmo,
rilassato, dalle sonorità più morbide e caratterizzato da tempi lenti
o comunque più lenti rispetto al bebop.
Hard bop
Al di là della parentesi sulla musica brasiliana, la nuova musica proposta
dai musicisti dell’Est degli Stati Uniti fu nuovamente energica e
vicina più che mai a quello che era stato il bebop degli anni Quaranta.
Denominato in seguito hard bop proprio per la sua durezza, mise in luce
il ruolo della batteria che divenne quasi uno strumento solista.
L’hard bop consolidò le conquiste armoniche del bebop, introducendo
un’enfasi ritmica più consistente e diretta. Fu per questo che furono
gli stessi batteristi, il più delle volte, a dare il via a formazioni hard bop,
quali quella dei Jazz Messengers, guidati dal batterista Art Blakey.
“Con l’avvento dell’hard bop diminuì decisamente l’importanza degli standards
mutuati dalla musica leggera, che per oltre vent’anni avevano fornito ai jazzmen i temi
base (o soltanto gli accordi di sostegno) per le loro improvvisazioni. Con gli anni Cinquanta
cominciarono infatti a moltiplicarsi le composizioni jazzistiche originali, che
spesso altro non sono che head arrangements costruiti sulle armonie del blues, e magari
su riffs. Questo fatto ebbe notevoli conseguenze sulla sorte di chi canta, o vorrebbe
cantare, jazz [Polillo 1975, 245-246].”
La parola free era già comparsa nella seconda metà degli anni Cinquanta
sulle copertine di alcuni dischi di jazz, ma fu il 12 dicembre
1960, quando uscì l’album del quartetto di Ornette Coleman, intitolato
Free Jazz, che ci si rese conto di essere nuovamente a una svolta nella
storia della musica afro-americana. Il disco divenne subito il “manifesto”
della nuova musica e suscitò molto scalpore, sia per la sua lunghezza
(trentasei minuti in due parti), sia per le dichiarate intenzioni di smantellare
ogni regola consolidata a livello melodico, ritmico e armonico.
Anche il disco My Favorite Things, di John Coltrane, ebbe grande importanza,
perché attribuì al sassofonista il ruolo di guida, che in passato
era stata di Charlie Parker, e ne sancì il successo a livello mondiale. Un
altro grande esponente del free jazz, da cui si sarebbe in seguito staccato,
fu il contrabbassista Charles Mingus, la cui musica è stata il perfetto
ponte di collegamento tra le due rivoluzioni del jazz moderno: il bebop,
negli anni Quaranta, e il free jazz, negli anni Sessanta.
«Dal punto di vista culturale l’America è un paese retrogrado, gli americani sono
retrogradi. Ma il jazz è una realtà americana. Una realtà indiscutibile. Il musicista di jazz
è come un reporter, un giornalista estetico dell’America. Quei bianchi che frequentavano
i localini di New Orleans pensavano di ascoltare la musica dei niggers ma sbagliavano:
ascoltavano musica americana. Ma non lo sapevano. Anche oggi quei bianchi che
vanno nel Lower East Side forse non lo sanno ma ascoltano musica americana... il
contributo del Negro, il suo dono all’America. Alcuni bianchi pensano di avere diritto al
jazz... è un regalo che il Negro ha fatto loro, ma loro non possono accettare questo
fatto, ci sono coinvolti troppi problemi connessi con le relazioni sociali, storiche fra i
due popoli. Questo fa sì che sia difficile per loro accettare il jazz e il Negro come il suo
vero innovatore» [Polillo 1975, 263-264].
Gli anni più prolifici per la New Thing furono probabilmente il 1965
e il 1966, anni in cui uscì, tra l’altro, il disco Ascension di John Coltrane
che lasciò, fra la sorpresa di molti, uno degli esempi più impressionanti
di free jazz. In seguito, dagli anni Settanta in poi, alcuni jazzisti si allontanarono
parzialmente da questa strada per dedicarsi ai nuovi generi
musicali come il soul, il rock & roll, la fusion, che avevano guadagnato
i favori del pubblico e consentivano certamente un maggiore successo
commerciale, oltre che la possibilità di sperimentare nuovi orizzonti
sonori.