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Il Jazz dalle origini al Free

Le radici
È molto difficile fornire una data precisa di quando sia nata la musica
jazz, di certo si sa che questo termine

“è apparso stampato, per la prima volta, con riferimento a una forma musicale nel
1913, in un giornale di San Francisco. Quando il termine fu adottato da una delle prime
orchestrine di jazz che dalla città di New Orleans salirono al Nord, a Chicago e a New
York, la Original Dixieland Jazz Band diretta da Nick La Rocca, la parola non aveva,
in ogni modo alcun significato per l’americano medio, e la musica che essa voleva
indicare rappresentava una novità e un motivo di curiosità per quasi tutti [Polillo 1980,
595].”

Il processo che portò alla definizione del jazz come musica dalle
caratteristiche proprie e innovative fu molto lungo e attraversò molte
fasi della storia degli Stati Uniti e, in seguito, anche del resto del mondo,
in particolare dell’Europa e del Sud America. Tutto ebbe inizio si
curamente da un avvenimento storico drammatico come quello della
deportazione degli schiavi africani negli Stati Uniti, in particolare negli
stati del Sud.

Fu il fatto che questi neri si


trovarono in un territorio culturalmente “vergine” e a contatto con altre
culture completamente diverse dalla loro, e parlo non solo delle culture
europee ma anche di quella dei nativi d’America, a dare l’input per lo
sviluppo di nuove forme culturali e musicali.
“Nacquero perciò in tutti gli stati, e soprattutto nelle grandi città mantenendo quasi
intatte le caratteristiche originarie, queste “isole etniche”, divenendo custodi gelose di
quel patrimonio portato dai paesi d’origine che , a livello musicale, avrebbe costituito la
base composita e ricchissima (perché in grado di utilizzare molteplici esperienze) che
creò e rafforzò il particolarissimo humus che al jazz avrebbe fornito le sue inimitabili
caratteristiche [Roncaglia 1998, 10].”

Con il passare del tempo, poi, queste “isole etniche” pian piano cominciarono
a fondersi culturalmente, soprattutto dopo l’abolizione della
schiavitù.
Fra tutte le etnie la più prolifica dal punto di vista musicale, almeno
all’inizio, fu di certo quella africana, che in particolare nel XIX secolo
diede vita a molte forme musicali, che avrebbero dato il via allo sviluppo
del jazz. Tra queste molte erano legate al mondo religioso.
L’importanza del rito religioso, sia per i neri come motivo di aggregazione,
sia per i bianchi, che lo utilizzavano per controllare gli schiavi,
fu indiscutibile.
La religione si rivelò quindi il mezzo più efficace per neutralizzare lo
schiavo, che aveva la facoltà di spostarsi solo per recarsi sui luoghi di
lavoro e in Chiesa. Proprio qui nacquero i canti religiosi come lo spiritual
e il gospel, che avevano preso spunto dai camp meetings dove gli africani
avevano portato il loro patrimonio musicale. In pratica lo spiritual
era

“un modo di cantare (anzi di urlare, mutuando lo stile shuot di certi canti del Sud) che
venne via via assumendo caratteristiche originali, musicali innanzitutto, perché accompagnato
dal battere delle mani o dei piedi dei presenti (si immagini il risultato della cosa
quando aveva luogo all’interno delle chiese, costruite in genere in legno e con l’impiantito
fatto di tavole sostenute da pali per dividere il corpo del fabbricato dall’umido del
terreno sottostante...), ma anche, e chiaramente, “politiche”. Le riunioni religiose, di
fatto, si trasformarono quindi ben presto in corali ansiti della libertà [Roncaglia 1998,
41].”

I sorveglianti spesso lasciavano sfogare i neri, sapendo che così avrebbero


lavorato di più il giorno successivo, ignorando che proprio i pastori
neri sarebbero divenuti in breve tempo le vere e proprie guide del popolo
africano negli Stati Uniti.

“Un carattere tipico del canto comunitario settecentesco è il cosiddetto lining out,
cioè la prassi di recitare (intonando o meno) un verso da parte del predicatore, e di far
seguire l’enunciazione dello stesso verso, immediatamente, da parte dei fedeli, creando
una ricorrente struttura responsoriale: essa corrisponde esattamente, fatto salvo il contesto
funzionale, al principio africano indicato in lingua inglese con il termine di call
and response, chiamata e risposta [Cerchiari 1999, 77].”

Il call and response era molto utilizzato anche nei work songs, i canti
che venivano intonati nei campi di cotone, spesso addirittura per controllare
lo schiavo mentre lavorava e assicurarsi che non scappasse. Il
carattere dei work songs è molto vario e ci sono canzoni di protesta,
critica sociale, canzoni su episodi di vita vissuta o di cronaca. Uno dei
più famosi è quello che narra la vicenda di Ol’ Riley, fuggito da un
penitenziario dopo la morte della moglie, o ancora di John Henry, o di
altri eroi della mitologia dei neri d’America. A ogni modo, fu da queste
prime forme musicali che nacque il più vicino parente del jazz, cioè il
blues.
Di sicuro il blues non è tutto il jazz, ma tutto il blues è jazz. Esso
rappresenta il ponte di unione fra il folk-song del Sud e la complessità
armonica, l’organizzazione ritmica dei primi gruppi di improvvisatori
jazzistici
Il jazz rivela quindi una sua natura composita, che gli deriva
dall’essere crocevia di musiche differenti e antiche quali come accennato,
il blues.
“È facile dire che il jazz non sarebbe potuto esistere senza il blues e i suoi vari antecedenti.
Ma è inesatto considerare il jazz come un successore del blues: il jazz è una
musica originale che si è sviluppata dal blues e allo stesso tempo è concomitante con
esso, e poi si è sviluppata su una strada autonoma. È invece interessante ricordare che
blues, in seguito, indicò un modo di suonare il jazz, e che con l’era dello swing, la
grande popolarità dei cantanti blues era stata soppiantata da quella dei jazzisti. Da allora,
per molti, il blues non fu più un genere musicale separato [Baraka 1963, 77].
Si pensa comunemente che il jazz sia nato a cavallo del secolo, ma le musiche da cui
deriva sono molto più antiche. Il blues è il padre legittimo di tutto il jazz. Non è possibile
dire con esattezza quanto sia vecchio il blues, ma di certo non è antecedente alla
venuta dei neri negli Stati Uniti. È una musica indigena americana, il prodotto dell’uomo
nero in questo paese o, per dire esattamente come vedo la questione, il blues non
avrebbe potuto esistere se gli schiavi africani non fossero diventati degli schiavi americani
[Baraka 1963, 35-36].”

Da un punto di vista sociologico il blues segnò l’ingresso dei


neri nel mondo dello spettacolo, con tutte le implicazioni psicologiche
che un simile fenomeno comportò. Ecco perché il blues viene ancora
oggi considerato il più vicino parente del jazz: perché fornì una struttura
armonica poi ripresa da molte composizioni jazz, perché si basava su
una forte componente improvvisativa, perché fu la prima vera nuova
espressione musicale negli Stati Uniti e perché permise agli afro-americani
di esprimere il loro pensiero più o meno liberamente, elemento
questo che sarà ripreso in maggior misura dalle generazioni di jazzisti
che, in alcuni casi, ebbero la possibilità di farsi portavoce dei problemi
del popolo afro-americano. L’ingresso nel mondo dello spettacolo era
poi un valido modo per liberarsi dalle fatiche del lavoro da schiavo.
Chiaramente, i primi musicisti neri non erano certo considerati artisti
dal pubblico bianco e, anzi, i primi dischi di blues erano destinati a un
pubblico di soli neri.

Il nero americano ,entrato nel mondo dello spettacolo,


di lì a poco avrebbe iniziato la sua scalata verso il successo. Oltre al
blues, va detto che anche un altro genere musicale contribuì alla nascita
del jazz, il ragtime.

New Orleans e Chicago


La città che più di ogni altra aveva quelle caratteristiche composite, sia
dal punto di vista razziale sia religioso, che servivano al jazz, era New
Orleans. Lì vi era un insieme di popoli e razze, essendo stata dominata,
nel tempo, da spagnoli, francesi, inglesi e anche italiani. Nelle sue stra
de, infatti, da sempre si potevano ascoltare canzoni popolari inglesi,
danze spagnole, marcette alla francese, bande militari; oppure era molto
frequente sentire nell’aria le più svariate linee melodiche uscire dalle
diverse Chiese cattoliche o battiste, metodiste o puritane: tutti questi
suoni mescolati divennero ben presto patrimonio delle comunità nere,
che le eseguivano alla loro maniera, ricollegandole alle antiche tradizioni
di derivazione africana.
Una delle caratteristiche forse più interessanti di New Orleans è che
nella città convivevano due comunità nere profondamente diverse tra
loro, ognuna con il proprio patrimonio etnico e culturale: i creoli e quelli
che possiamo definire, più genericamente, i neri americani. I creoli, di
discendenza franco-coloniale, non avevano condiviso le medesime origini
dalla schiavitù dei neri americani, dal momento che i loro antenati
erano stati liberati molto tempo prima dai ricchi proprietari agrari francesi.
Per questo sentivano molto più attenuata l’originaria discendenza
africana e vivevano con minori remore la contaminazione con la cultura
bianca; anzi, avevano radicata una profonda discendenza dalla cultura
francese e la loro stessa lingua proveniva dal francese, e non era l’inglese.
Così, mentre i neri americani costituivano la parte più povera del
proletariato di New Orleans, molti creoli erano ben integrati nella realtà
economico-sociale della città e avevano un’estrazione piccolo borghese;
i loro pregiudizi razziali nei confronti della rimanente popolazione
nera erano addirittura più forti di quelli dei banchi. Questa contaminazione
si riflesse, ovviamente, anche nella tradizione musicale nera, nella
quale i creoli introdussero molti elementi della cultura musicale franco-
europea. Lo stile di New Orleans nacque dall’incontro tra questi diversi
gruppi: nello Storyville, il quartiere riservato alle case di tolleranza,
che con i suoi innumerevoli locali costituiva un formidabile punto di
ritrovo e il trampolino di lancio per i diversi musicisti e cantanti; nelle
strade della città, dove si esibivano le bands dei cortei funebri che ac
compagnavano i defunti al cimitero suonando musiche di circostanza e
che tornavano in città suonando musiche colorite e allegre; durante i
festeggiamenti del carnevale. La musica si suonava in misura maggiore
nelle case di piacere, che offrivano un ambiente lussuoso e donne giovani
ai ricchi borghesi bianchi alla ricerca di nuove sensazioni.
Il musicista più noto in quel periodo, assieme a un giovane trombettista
esordiente di nome Louis Armstrong, di cui avremo modo di parlare più
avanti, fu il pianista Jelly Roll Morton. Personaggio pittoresco, si vantò
più volte di avere “inventato il jazz nel 1912”, cosa chiaramente difficile
da dimostrare e che gli creò molti problemi di convivenza con gli altri
musicisti. Nonostante ciò fu certamente uno dei musicisti più famosi
della prima storia del jazz, sia per la sua abilità al pianoforte sia perché,
con i suoi modi strafottenti e i suoi loschi affari, faceva sempre parlare
di sé. Aveva iniziato a suonare nei bordelli e lì aveva sviluppato la sua
musica ragtime decisa ma discreta, fatta apposta per accompagnare pia
cevolmente le ore di permanenza dei clienti nei bordelli di New Orleans.
In seguito, anche se continuò a gestire molti di questi locali, non vi
suonò più, ma formò un suo gruppo, i Red Hot Peppers, col quale incise
dei dischi considerati dei capolavori del jazz tradizionale. Questo però,
fu uno dei pochi momenti in cui il jazz degli esordi si staccò dal giro
della prostituzione. D’altronde era quello l’unico modo per i neri di
suonare la loro musica, e il farlo è stato sempre per loro un’importante
fonte di occupazione libera, nell’ambito delle ristrette possibilità a loro
offerte dall’economia bianca degli Stati Uniti. Per lungo tempo, quindi,
la musica jazz fu accomunata al vizio, al racket, alla delinquenza, sino a
quando nel 1917 il quartiere a luci rosse di Storyville fu chiuso. Ne
seguì un esodo verso il Nord dei jazzisti della città del delta. In realtà,
l’avvento del proibizionismo non fu l’unica causa di questa fuga di massa,
anche la scarsità di cotone provocò una forte ondata di disoccupazione.
Una delle mete più gettonate dopo New Orleans fu Chicago, qui il
jazz assunse subito caratteristiche assai diverse da quelle originarie, probabilmente
per l’uso del sassofono che mal si conciliava con il
contrappunto delle origini. Lo stile di New Orleans, chiamato anche
dixieland, era caratterizzato dall’esecuzione di linee melodiche improvvisate
in collettivo su semplici e tradizionali progressioni armoniche,
con la presenza centrale di tre strumenti tromba, trombone e clarinetto
accompagnati da una sezione ritmica, che si inseguono in un alternarsi
di elementi contrappuntistici innestati l’uno sull’altro. L’elemento ritmico
era molto vicino a quello della musica bandistica di derivazione
europea, con gli accenti sul primo e sul terzo tempo di una battuta di
quattro.
Durante gli anni Venti, l’originario stile di New Orleans trovò, quindi, la sua
vera fioritura a Chicago, e qui si affermò definitivamente.

New York fece ufficialmente la conoscenza del jazz nel 1917, con la
Original Dixieland Jazz Band. In realtà, però, il jazz nella metropoli
venne subito manipolato, modificato, sia dai musicisti, sia dal pubblico,
sia dalla città stessa con le sue contraddizioni culturali, e assunse, col
passare del tempo, forme ben diverse da quelle che aveva avuto in passato.
Proprio nella Grande Mela il jazz ebbe modo di emanciparsi un
po’ dalle caratteristiche folkloriche che l’avevano distinto nei primi anni,
per trasformarsi nella nuova musica che sarebbe dilagata in ogni parte
del mondo. I conflitti razziali non erano ancora stati appianati, e le bands
difficilmente presentavano al loro interno organici misti. Si svilupparono
quindi, all’inizio, una via bianca e una nera al jazz. In particolare nel
ghetto nero di Harlem, il jazz subì profonde trasformazioni; lì vi era un
jazz più autentico, più vicino allo spirito dei neri americani, più “selvaggio”.
La musica suonata nei locali di Harlem era spesso una musica
più sperimentale, d’avanguardia, una musica che veniva poi ripulita e
presentata al grande pubblico bianco con una veste più consona. Molta
gente anche a New York non era quindi ancora pronta per il jazz, almeno
per quello più vero, più carico di implicazioni anche sociologiche.
Fu per questo, probabilmente, che nacque il cosiddetto jazz sinfonico,
una musica che pur utilizzando alcuni apparenti stilemi jazzistici, si presentasse
in modo “pulito” e “dignitoso”. Il modo di suonare dei bianchi
era più razionale, più costruito, più individuale, anche se, in molti casi,
meno spontaneo e istintuale rispetto al modo di suonare dei neri. Personaggi
come il violinista bianco Paul Whiteman avevano capito che cosa
voleva il pubblico americano di allora e avevano saputo sfruttare il loro
fiuto per arricchirsi enormemente.

“L’opera gershwiniana, nata dall’accoppiata del compositore con il leader bianco,


fu, come ormai è universalmente riconosciuto, la celeberrima Rhapsody in Blue, che
per decenni sarebbe stata usata per indicare ai pubblici di tutto il mondo non disposti a
subire la “rozzezza” del jazz ciò che il jazz “avrebbe potuto essere”. Il successo, sin
dalla prima esecuzione, fu enorme: si valuti il fatto, per offrire il destro di equamente
considerarlo, che persino grandi musicisti classici europei come Leopold Stokowsky e
Sergei Rachmaninoff furono presenti alla prima, il 24 febbraio 1924 [Roncaglia 1998,
145].”

Harlem seppe però difendere, e bene, il jazz


Il periodo di benessere che colpì gli Stati Uniti, jazz compreso, si
interruppe bruscamente nel 1929 con la crisi economica di Wall Street.
Queste difficoltà costrinsero molti musicisti a trasferirsi nuovamente,
questa volta addirittura in Europa. La crisi americana del 1929 costituì
una grossa battuta di arresto per il jazz
che, però, continuò a sopravvivere, specialmente
nella città di Kansas City, dove la vita notturna non ebbe praticamente
interruzioni e crisi, nei locali gestiti dai boss della malavita bianca.
A Kansas City si affermarono alcune delle più importanti orchestre
di quel periodo, come quella di Benny Noton o quella di Count Basie, e
trovarono il loro momento di gloria i grandi solisti come Ben Webster,
Coleman Hawkins e Lester Young, o le grandi cantanti come Billie
Holiday. Kansas City vide nascere una vera e propria scuola solistica
che formerà alcuni dei grossi nomi del jazz moderno, uno tra tutti: Charlie
Parker.

Bisognerà comunque attendere il superamento della crisi economica


per assistere al rilancio in grande stile del jazz quando, verso la metà
degli anni Trenta, raggiunse, con le grandi orchestre swing, il suo culmine
commerciale, segnando contemporaneamente la sua decadenza, logorato
dal suo stesso successo, nel momento in cui le esigenze commerciali
soppiantarono la spontaneità e la vitalità delle origini.

Fortunatamente, con l’arrivo del presidente Roosvelt, i problemi economici


nazionali furono in parte risolti già dai primi anni ’30.

“Le reazioni positive, nel mondo del jazz, non tardarono; il jazz, sia chiaro, non era
sparito dal mondo dello spettacolo, anche se molti musicisti erano stati costretti a trovarsi
altri lavori per l’insufficienza degli ingaggi dovuta alla situazione generale,
stiracchiando giorno dopo giorno i mesi in attesa che qualcosa di nuovo accadesse. E
qualcosa di nuovo, di veramente nuovo, puntualmente accadde [Roncaglia 1998, 163].”

Grazie a musicisti come Benjamin David Goodman, Duke Ellington,


Count Basie, Glenn Miller, Tommy Dorsey, Fletcher Henderson e molti
altri band leader si aprì, nel decennio che va dal 1935 al 1944, uno dei
capitoli più positivi nella storia del jazz.
Fu Benny Goodman, clarinettista, a dare l’avvio alla febbre dello
swing.
In realtà la corona di “re dello swing” dovette contenderla a un altro
grande band leader, Duke Ellington.
Le grandi orchestre erano
quasi sempre formate da tre distinte sezioni di fiati: trombe, tromboni
e sassofoni in numero variante dai tre ai cinque strumenti per sezione,
oltre a una sezione ritmica comune anche ai piccoli complessi, formata
da pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria. Le orchestre suonavano
la loro musica e si caratterizzavano per la personalità del loro leader, il
quale definiva l’impostazione del suono della band attraverso gli arrangiamenti
scritti. Completavano il quadro gli interventi improvvisati dei
solisti, sassofonisti o cantanti, che partecipavano come ospiti di spicco
della serata. La formazione delle big bands era dovuta principalmente
all’esigenza di creare un rilevante volume sonoro, sufficiente alla
sonorizzazione dei grossi locali da ballo. Le grandi orchestre si erano
quindi costituite per far ballare la gente, e in questo lo swing fu davvero
infallibile.
Riaprirono molti locali che, negli anni di crisi economica, avevano
dovuto chiudere i battenti e la musica ricominciava a circolare per le
strade di New York.
Il mito della 52a strada sarebbe poi proseguito per lungo tempo e
avrebbe fatto di New York la capitale mondiale del jazz.
Fu proprio nella 52° strada che apparve èiù tardi il bebop, come fu chiamato il nuovo jazz, nel 1944 e i
primi ascoltatori ne rimasero sconcertati, alcuni
nel bene, altri nel male. La nuova musica iniziò a essere suonata in un
locale, non molto famoso all’epoca, che si chiamava Minton’s Playhouse.
“A quei tempi, il Minton’s era il posto per gli aspiranti jazzisti; non è vero che fosse la
“Strada”, come cercano di far credere oggi. Era da Minton’s che un musicista poteva
davvero affilare i denti, e soltanto dopo poteva andare giù alla “Strada”. La
Cinquantaduesima era tranquilla in confronto al Minton’s. Sulla “Strada” ci si andava
per fare soldi e per farsi vedere dai critici musicali bianchi e dai bianchi in generale. Ma
si veniva da Minton’s per farsi una reputazione fra i musicisti. Il proprietario del Minton’s
Playhouse era un nero che si chiamava Teddy Hill. Il bebop nacque nel suo club. Era il
vero laboratorio musicale del bebop. Solo dopo che era stato raffinato al Minton’s
arrivò giù alla Cinquantaduesima Strada, al Three Deuces, all’Onyx e al Kelly’s Stable,
dove c’erano i bianchi ad ascoltare. Ma quello che bisogna ben capire in tutta questa
storia è che, per quanto fosse buona la musica che si sentiva sulla Cinquantaduesima
Strada, non era assolutamente eccitante e innovativa come quella su da Minton’s [Davis
Troupe 2001, 66-67].”

C’era quindi voglia di qualcosa di nuovo a livello musicale, qualcosa


che rompesse decisamente con la tradizione e che permettesse di superare
le limitazioni imposte dalle grandi orchestre swing. Così si sviluppò
un movimento musicale che, partendo dalla esigenza di individuare
nuove forme di espressione, si trovò alle prese con l’ambizioso progetto
di conferire al jazz la qualifica di forma d’arte a tutti gli effetti, al di
fuori dello showbusiness legato allo swing e ai gusti del pubblico, affermando,
al contempo, la pretesa del popolo nero e delle classi emarginate
della società americana di accreditare la propria cultura e di superare i
pregiudizi razziali. Quello dei boppers divenne un vero e proprio movimento
culturale e di tendenza, che accomunava le posizioni di elitarismo
artistico dei musicisti neri all’esistenzialismo delle giovani generazioni
americane che si ribellavano al mondo borghese, razzista e perbenista
delle generazioni precedenti.
“La iperstilizzazione dello swing rese il bop, da un giorno all’altro, uno shock salutare
per tutti coloro in cerca di qualcosa di completamente diverso; molte big band del
l’epoca dello swing, difatti, erano diventate grossi mastodonti sovrarrangiati, alla perenne
ricerca di una sonorità caratteristica ma rifugiate nel riff fine a se stesso, a cui
costringevano incessantemente le sezioni fiati. In queste situazioni di rigorosa disciplina
gli assolo erano brevissimi, e comunque riservati prevalentemente al leader o a un paio
di grossi solisti ben pagati. La formula, che aveva mietuto grossi successi, era sul punto
di esaurirsi [Carr 1998, 60].”

I nuovi musicisti bebop, stanchi di queste limitazioni, spinsero il jazz


a dei livelli tecnici e armonici impensati, alterando le progressioni di
accordi e suonando temi complicati a velocità elevatissime, con molti
passaggi cromatici. È comprensibile quindi che, all’inizio, sia il pubblico
che gli stessi musicisti rimasero affascinati e sconcertati dalla nuova
musica.
“Gillespie, Parker e Monk creavano variazioni armoniche talmente ardue da non
poter essere eseguite che da virtuosi abilissimi, e che riuscirono a creare le condizioni
per eliminare, ogni sera, «… i tipi incapaci di improvvisarci sopra, i tipi senza talento…
», come avrebbe riconosciuto lo stesso Dizzy Gillespie, per scoraggiare, sia con il
virtuosismo portato alle più estreme conseguenze, sia con le più rivoluzionarie idee
musicali e stilistiche, chiunque non fosse più che dotato o, meglio ancora, geniale e
pronto a portare un suo personale contributo. Clarke, anch’egli, riconobbe che si trattava
di un “trucco”: «… ci si riuniva al pomeriggio e si inventavano diverse progressioni
armoniche… per scoraggiare gli indesiderabili che venivano la sera e volevano suonare
con noi… eravamo Monk, Dizzy, Guy e io che facevamo questo…» [Roncaglia 1998,
208].”

In realtà, quindi, la nuova musica era nata in un luogo ben preciso ed


era stata sviluppata in maniera consapevole da pochi, ma geniali, musicisti
di quell’epoca, per la maggior parte neri, che avevano definito in
pochi anni (più o meno dal 1944 al 1950) le caratteristiche principali di
questo stile. Dal punto di vista strumentale, esso privilegia il sassofono
contralto e tenore, ma rilancia al tempo stesso la tromba che negli anni
dello swing era passata un po’ in secondo piano, come strumento solista
di primaria importanza. Gli organici strumentali del bebop comprendono
l’interazione di una front line di fiati (sassofono e tromba, cui talvolta
si aggiunge il trombone) e una sezione ritmica con pianoforte,
contrabbasso e batteria. Possono anche figurare chitarra elettrica e
vibrafono, soprattutto in tempi più recenti. La batteria, che negli anni
Trenta si è ampliata e arricchita di componenti, sposta decisamente dalla
grancassa al piatto e allo hi-hat la funzione di scansione ritmica, nella
prevalente divisione di 4/4, con numerosi accenti sui tempi deboli della
battuta, soprattutto nei brani veloci, mentre il contrabbasso segna i tempi
forti. La velocità di esecuzione dei brani è spesso molto elevata, arrivando
a volte ai trecento battiti per minuto e oltre.
Sotto il profilo tematico, il bebop, (che nelle esposizioni privilegia
frequentemente le linee in unisono fra i due fiati) opera una revisione
della struttura classica del song bianco e del blues afro-americano creando
nuove composizioni, ma soprattutto mantenendo la struttura armonica
sottostante il chorus del song in forma AABA e inventando nuove
linee melodiche a essa connesse, e aggiungendo alla struttura complessiva
del chorus un’introduzione e una coda. Il chorus, ossia la struttura
senza verse del song, viene proposto ripetutamente, dopo l’esposizione
tematica, facendo coincidere gli spazi solistici improvvisativi con uno o
più choruses. La struttura armonica può tuttavia infittirsi, mentre singoli
accordi vengono estesi alle voci superiori di nona, undicesima e
tredicesima, influenzando la complessità delle melodie correlate, sovente
tendenti al cromatismo; compaiono accordi diminuiti e
semidiminuiti. Si pensa proprio che la denominazione del nuovo stile jazzistico
bebop derivi proprio dal fatto che questa parola si riflette
onomatopeicamente nell’intervallo allora più in auge: la quinta diminuita
discendente.

“Le parole “bebop” o “rebop” nacquero spontaneamente quando si vollero cantare


simili intervalli, come per esempio le parole “la-la-la” vengono spontaneamente quando
si canta una canzone di cui non si conoscono le parole. Certamente, non bisogna dimenticare
che in ultima analisi tutte le spiegazioni della parola “bebop” sono rimaste discutibili
quanto quelle della maggior parte degli altri termini jazzistici. Nel gergo della gioventù
bruciata americana “bebop” o “bop” significava rissa o coltellate [Berendt 1979, 26].”

Sotto il profilo generale del senso, il bebop afferma in modo cosciente


e talora provocatorio il nuovo status artistico e intellettuale dei musicisti
di jazz, che si pongono in una coraggiosa posizione di autonomia
rispetto alle regole di consenso del pubblico e del mercato, delle funzioni
tradizionali coreutiche e di “sottofondo” proprie dello swing. L’uso
ampio e consapevole della tecnica strumentale, della velocità, dell’armonia
(resa più complessa, e infittita, al limite del cambio di accordo
ogni battuta), sono funzionali alla creazione di atmosfere ora
nevroticamente eccitanti, ora stridenti e (nel lessico futurista)
“antigraziose”, ora vitalisticamente energetiche, ora intrise di umorismo,
provocazioni e paradossi (a queste ultime categorie è riconducibile
una parte della poetica di Dizzy Gillespie). Il bebop sviluppa una
comunicazione autoreferenziale, individuando più nella comunità dei
musicisti che non nel pubblico tradizionale i propri destinatari. Anche
nel modo di vestire si nota la profonda frattura: allo smoking della swing
craze fa riscontro un’immagine consistente in un berretto basco in testa,
un paio di occhiali nerissimi con montatura molto pesante, sotto il labbro
un piccolo ciuffo di peli, che Dizzy conserverà gelosamente fino al
momento della morte recente (basti pensare che nei negozi era in vendita
il cosiddetto “bop kit”, che conteneva tutti questi gadgets per essere
un vero bopper). Sono il pubblico e la critica a doversi adeguare al bebop,
come accade con la progressione temporale connaturata a ogni movimento
innovativo. Con l’avvento del bebop si ha, per la prima volta
nella storia del jazz, una spaccatura fra tradizione e innovazione, certamente
desiderata dai boppers, ma che causa una presa di posizione
drastica da parte di tutti gli appassionati di jazz di quel periodo.

Fu con il bebop che il jazz iniziò a fare critica sociale attraverso le


esibizioni musicali, questi aspetti saranno poi accentuati dal movimento
free jazz e dalla musica di John Coltrane. Questo voler essere così
“autentici” costò molte critiche ai boppers, che furono spesso accusati
di voler boicottare il mondo del jazz. In particolare la stampa e i
discografici, che avevano paura di perdere i loro affari, si scagliarono
contro il bebop. Non mancarono anche le critiche da parte di musicisti
più anziani e affermati, quali Louis Armstrong, che dichiarò a Down
Beat (una rivista specializzata nella musica jazz):

«Tutto quello che vogliono fare è dell’esibizionismo, e ogni vecchio trucco è buono
purché sia differente da quello che voi avete suonato fino adesso. Così tirano fuori tutti
quegli accordi strampalati che non significano niente, e in principio la gente prova della
curiosità soltanto perché si tratta di una novità, ma poi si stanca perché non è veramente
buona; non c’è nessuna melodia che si possa ricordare e nessun ritmo regolare su cui si
possa ballare. E così tornano a essere di nuovo poveri e non c’è lavoro per nessuno, e
questo è quanto vi ha combinato la malizia moderna». La verità era molto diversa. Il
bebop non soltanto rappresentava un notevole progresso sul jazz precedente dal punto
di vista ritmico, armonico e melodico, ma significata la completa rottura con una musica
industrializzata e stereotipata quale era ormai il cosiddetto swing così come lo suonavano
le orchestre più popolari d’America, e cioè anzitutto quelle bianche. Il bebop,
anzi il bop, come si cominciò a dire, non voleva essere una musica da ballo; voleva
essere una musica “pura”, da ascoltare, e fu squisitamente intrinsecamente negra [Polillo
1975, 197].

Sul finire degli anni Cinquanta la musica dei boppers aveva ormai concluso
la sua stagione d’oro, anche perché molti dei suoi esponenti erano
caduti in disgrazia o addirittura morti a causa dell’abuso di droghe e
alcool. Inoltre, buona parte del pubblico cominciava a essere stufo di
quella musica, così come molti musicisti che non si rispecchiavano più
in quello stile così veloce e carico di energia. Fu forse per reazione,
quindi, che si sviluppò il cosiddetto cool jazz. Uno stile molto più calmo,
rilassato, dalle sonorità più morbide e caratterizzato da tempi lenti
o comunque più lenti rispetto al bebop.

Il disco manifesto di quest’epoca è sicuramente Birth of the cool e il


suo autore, il trombettista Miles Davis, fu uno dei pochi musicisti di
colore a suonare questo tipo di jazz, che fu perlopiù gradito dai musicisti
bianchi, forse perché più vicino alla tradizione musicale europea.
Davis, che giovanissimo si era formato alla scuola di Parker, nella cui
band aveva sostituito Gillespie alla tromba, imponendosi come brillante
promessa fu, probabilmente, il primo musicista nero ad avvertire la
necessità di un ripensamento dei radicalismi del bebop in una chiave
più proponibile al grande pubblico.
“Credo che sia stata una sorta di reazione alla musica di Bird e Diz. Bird e Dizzy
suonavano quelle cose velocissime, se voi non eravate tanto rapidi ad ascoltare non
potevate sentire gli umori e il feeling della loro musica. Il loro sound non era dolce e
non avevano le linee armoniche da poter canticchiare facilmente per la strada a passeggio
con la vostra ragazza mentre cercavate di baciarla. Il bebop non aveva la stessa
umanità di Duke Ellington. E non era nemmeno così riconoscibile. Bird e Diz erano
grandi, fantastici, però non erano dolci. Le radici di Birth of the cool sono quelle della
musica nera, da Duke Ellington. Anche la gente bianca poteva apprezzare la musica che
riusciva a capire, quella musica che potevano ascoltare senza diventare scemi. Il bebop
non arrivava da qualcosa che fosse loro familiare e perciò era molto difficile per la
maggior parte dei bianchi ascoltare quel che si stava suonando. Era una musica completamente
nera. Ma Birth of the cool non era soltanto orecchiabile, c’erano anche dei
bianchi che suonavano e avevano anzi dei ruoli importanti. E questo ai critici bianchi
piaceva molto. Piaceva l’idea che sembrassero avere un ruolo preminente in quel che si
stava facendo. È un po’ come se qualcuno ti stringesse la mano con più convinzione.
Colpivamo l’orecchio di chi ascoltava in un modo un po’ più leggero di Bird e Diz,
tenevamo la musica un po’ più sui binari principali, e questo era tutto [Davis – Troupe
2001, 142].”

Le incisioni di Davis rimangono un’importante e decisiva testimo


nianza dello sforzo compiuto per individuare una soluzione espressiva
di ampio respiro estetico che abbracciasse, oltre che la tradizione
jazzistica, anche la tradizione musicale colta ed europea. Tornarono in
voga anche gli arrangiamenti scritti, che erano invece quasi scomparsi
nella musica bebop. Lee Konitz, Miles Davis, Leonard Tristano, l’arrangiatore
Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis, Kenny Clarke furono
solo alcuni dei nomi che diedero vita al cool jazz, e la maggior parte di
essi erano bianchi. Un grande contributo allo stile cool jazz venne dalla
“West Coast” degli Stati Uniti, ovvero dalla costa del Pacifico, dalla
California.
Come accennato, però, il cool jazz
ebbe vita breve e la risposta dei musicisti del Nord Est non tardò a farsi
sentire con quello che verrà definito hard bop. Accanto al fenomeno del
cool jazz, va citato anche quello della bossa nova e della musica latina
che, negli anni Sessanta, hanno dato vita a un genere musicale di grande
successo nato dall’incontro fra il jazz degli Stati Uniti e i cantautori di
Rio de Janeiro.

Hard bop
Al di là della parentesi sulla musica brasiliana, la nuova musica proposta
dai musicisti dell’Est degli Stati Uniti fu nuovamente energica e
vicina più che mai a quello che era stato il bebop degli anni Quaranta.
Denominato in seguito hard bop proprio per la sua durezza, mise in luce
il ruolo della batteria che divenne quasi uno strumento solista.
L’hard bop consolidò le conquiste armoniche del bebop, introducendo
un’enfasi ritmica più consistente e diretta. Fu per questo che furono
gli stessi batteristi, il più delle volte, a dare il via a formazioni hard bop,
quali quella dei Jazz Messengers, guidati dal batterista Art Blakey.
“Con l’avvento dell’hard bop diminuì decisamente l’importanza degli standards
mutuati dalla musica leggera, che per oltre vent’anni avevano fornito ai jazzmen i temi
base (o soltanto gli accordi di sostegno) per le loro improvvisazioni. Con gli anni Cinquanta
cominciarono infatti a moltiplicarsi le composizioni jazzistiche originali, che
spesso altro non sono che head arrangements costruiti sulle armonie del blues, e magari
su riffs. Questo fatto ebbe notevoli conseguenze sulla sorte di chi canta, o vorrebbe
cantare, jazz [Polillo 1975, 245-246].”

Il free jazz degli anni Sessanta


La tendenza a emanciparsi dai vecchi standards, manifestata dagli hard
boppers, fu accentuata durante gli anni Sessanta da tutti quei musicisti
che diedero vita al nuovo corso della musica afro-americana. Con l’avvento
del free jazz si ebbe un’ulteriore evoluzione tecnica
nell’improvvisazione e, più importante ancora dal punto di vista
sociologico, i musicisti di jazz caratterizzarono in senso politico e sociale
molte delle opere realizzate durante quegli anni.
“Ciò che accadde nei tumultuosi anni Sessanta, la Rivoluzione Nera, l’affermazione
della Nuova Sinistra americana, la crescita del dissenso interno negli Stati Uniti, la
fioritura della controcultura underground, il dilagare della violenza, la palingenesi dei
costumi, la rivolta studentesca, la contestazione del principio di autorità e dell’autorità
e il crollo di tanti valori, miti e tabù fino a quel momento considerati intangibili, si
rifletté chiaramente nelle musiche che rappresentavano le espressioni tipiche dei gruppi
sociali allora in rivolta o in fermento [Polillo 1975, 255].”

Mai come in quegli anni fu evidente la corrispondenza tra rivolgimenti


socio-politici e musica jazz negli Stati Uniti. Il desiderio di emancipazione
dai vecchi stilemi jazzistici rifletteva l’insofferenza del popolo
afro-americano nei confronti di una condizione esistenziale ancora
estremamente misera, nonostante l’abolizione dello schiavismo. Ecco,
quindi, che l’etichetta free si riferisce non solo alla musica jazz degli
anni Sessanta, ma anche all’intimo desiderio di libertà del nero americano.
Dal punto di vista tecnico le novità del jazz degli anni Sessanta,
del free jazz in particolare, sono:
1. La penetrazione nello spazio libero della atonalità.
2. Una nuova concezione ritmica che è caratterizzata dalla dissoluzione del metro,
del beat e della simmetria.
3. L’irruzione della musica mondiale nel jazz, che ora si trova improvvisamente
messo a confronto con tutte le grandi culture musicali dall’India fino all’Africa e dal
Giappone all’Arabia.
4. Un’accentazione del momento d’intensità del tutto sconosciuta negli stili precedenti
del jazz. Il jazz è sempre stato una musica che per la sua intensità era sempre stata
superiore alle altre forme musicali del mondo occidentale, ma mai nella storia del jazz si
era data tanta importanza all’intensità in senso così elastico, orgiastico, e in alcuni musicisti
anche religioso, come nel free jazz. Molti musicisti di free jazz praticano un vero
e proprio “culto dell’intensità”.
5. Una estensione del suono musicale nel campo del rumore [Berendt 1979, 33-34].
Molto importante è il primo punto sottolineato da Berendt, che chiarisce
una differenza importante fra la musica europea e quella afro-americana.
“La concezione del jazz come “atonalità” si differenzia sostanzialmente da quella
della musica concertistica europea. Nella corrente principale della musica concertistica
del XX secolo un nuovo principio d’ordine, dodecafonico, seriale, ha sostituito il vecchio
principio dell’armonia funzionale. Persino laddove la moderna musica concertistica
diventa “aleatoria”, cioè dove lascia spazio a certi elementi causali e simili
all’improvvisazione, rimane sempre legata a un ordine di serie e viene comunque sempre
ricondotta a esso. Nel free jazz dell’avanguardia di New York del 1965 un simile
momento vincolante e relativo sussiste ancora, nella migliore delle ipotesi, nei cosiddetti
“centri tonali” in cui la musica si inserisce in senso lato nella generale gravitazione
dalla dominante alla tonica, ma in cui tutti gli intervalli sono “liberi”. Essi godono nel
corso degli anni Sessanta di una libertà la cui intensità ha reso sempre più irrilevante
anche il rapporto tonica-dominante. Nonostante la brevità della sua storia il jazz ha una
“tradizione atonale” più lunga di quella della musica europea [Berendt 1979, 34-35].”

La parola free era già comparsa nella seconda metà degli anni Cinquanta
sulle copertine di alcuni dischi di jazz, ma fu il 12 dicembre
1960, quando uscì l’album del quartetto di Ornette Coleman, intitolato
Free Jazz, che ci si rese conto di essere nuovamente a una svolta nella
storia della musica afro-americana. Il disco divenne subito il “manifesto”
della nuova musica e suscitò molto scalpore, sia per la sua lunghezza
(trentasei minuti in due parti), sia per le dichiarate intenzioni di smantellare
ogni regola consolidata a livello melodico, ritmico e armonico.
Anche il disco My Favorite Things, di John Coltrane, ebbe grande importanza,
perché attribuì al sassofonista il ruolo di guida, che in passato
era stata di Charlie Parker, e ne sancì il successo a livello mondiale. Un
altro grande esponente del free jazz, da cui si sarebbe in seguito staccato,
fu il contrabbassista Charles Mingus, la cui musica è stata il perfetto
ponte di collegamento tra le due rivoluzioni del jazz moderno: il bebop,
negli anni Quaranta, e il free jazz, negli anni Sessanta.

Con gli anni Sessanta cambia completamente la concezione stessa


del jazz, almeno per quanto riguarda il free jazz: si accentuano i caratteri
di africanità, l’autonomia dalla musica europea e la funzionalità sociale
e politica. Emblematiche le parole del sassofonista Archie Shepp,
che fu forse il musicista più ideologizzato degli uomini del jazz a metà
degli anni Sessanta.

«Dal punto di vista culturale l’America è un paese retrogrado, gli americani sono
retrogradi. Ma il jazz è una realtà americana. Una realtà indiscutibile. Il musicista di jazz
è come un reporter, un giornalista estetico dell’America. Quei bianchi che frequentavano
i localini di New Orleans pensavano di ascoltare la musica dei niggers ma sbagliavano:
ascoltavano musica americana. Ma non lo sapevano. Anche oggi quei bianchi che
vanno nel Lower East Side forse non lo sanno ma ascoltano musica americana... il
contributo del Negro, il suo dono all’America. Alcuni bianchi pensano di avere diritto al
jazz... è un regalo che il Negro ha fatto loro, ma loro non possono accettare questo
fatto, ci sono coinvolti troppi problemi connessi con le relazioni sociali, storiche fra i
due popoli. Questo fa sì che sia difficile per loro accettare il jazz e il Negro come il suo
vero innovatore» [Polillo 1975, 263-264].

Gli anni più prolifici per la New Thing furono probabilmente il 1965
e il 1966, anni in cui uscì, tra l’altro, il disco Ascension di John Coltrane
che lasciò, fra la sorpresa di molti, uno degli esempi più impressionanti
di free jazz. In seguito, dagli anni Settanta in poi, alcuni jazzisti si allontanarono
parzialmente da questa strada per dedicarsi ai nuovi generi
musicali come il soul, il rock & roll, la fusion, che avevano guadagnato
i favori del pubblico e consentivano certamente un maggiore successo
commerciale, oltre che la possibilità di sperimentare nuovi orizzonti
sonori.

( Tratto dal sito www.sentireascoltare.com/sociologiadellamusica/ tesiSwinging/Capitolo%20secondo.pdf )

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