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Nero, free, di sinistra

Appunti sul jazz “politico” degli anni Sessanta


di
Franco Bergoglio

Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:


A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.

1
Ogni creazione, per se stessa, nega il mondo del signore e dello schiavo. La turpe società di tiranni
e di schiavi in cui sopravviviamo non troverà la sua morte e la sua trasfigurazione se non sul piano
della creazione.
Albert Camus, l’Homme Révolté.

Introduzione

“Il sessantotto e la rivolta degli studenti e degli operai hanno dato uno slancio nuovo, una
ritmica free jazz, al cinema politico in tutta l’Europa dell’est e dell’ovest e dall’altra parte
del mare, nel Maghreb, in Medio Oriente, nelle Americhe”1.
Così esordisce Roberto Silvestri in 1969. Un anno bomba, una pubblicazione dedicata al
cinema di quel prodigioso anno. Utilizziamo questa fonte, non abituale parlando di jazz,
per mostrare quanto il legame tra la musica e la società risultasse determinante negli
anni Sessanta, anche da un angolo visuale particolare, come nello specifico si configura
l’arte cinematografica. Questo incipit ci cala in quella temperie culturale dove le arti si
mescolavano tra loro senza steccati, dove ogni giorno sembrava vicino un cambiamento
radicale, dove pareva possibile realizzare nel breve periodo un nuovo ordine sociale.
Proviamo a indagare il nesso causale insito nel legame tra la musica jazz e la politica
negli anni Sessanta. Perché il jazz, in particolare quello etichettato come free, libero,
funziona da pietra di paragone estetica per analizzare tout court l’arte del periodo? Perché
diventa uno degli emblemi riconosciuti dell’arte rivoluzionaria? Come riesce ad imporsi
come linguaggio internazionale? Quali sono i valori simbolici che veicola, tali da renderlo
centrale in Europa ed in Italia in particolare, ancor più che in America? Per fronteggiare
queste domande analizzeremo le origini culturali americane del free, vedremo i momenti
salienti della sua comparsa in Italia e daremo la voce a musicisti, critici musicali e
intellettuali del periodo. Non si tratta ovviamente di uno studio complessivo che
richiederebbe ricerche ben diverse, ma di uno “spaccato” ragionato. In qualche modo il
fondamento teorico lo si ritrova in quegli studiosi che per sociologia della musica
intendono una ricerca strettamente collegata agli effetti stricto sensu sociali che essa
produce in un dato periodo e contesto; per rifarci ad un autore musicalmente “complice”
chiamiamo a testimoniare Alphons Silbermann: “Il primo scopo della sociologia dell’arte è
chiarire il carattere dinamico dell’arte come fenomeno sociale nelle sue diverse espressioni
(dramma, commedia, romanzo, novella, folklore, danza artistica, danza popolare, musica
classica, musica liturgica, musica leggera, jazz, pittura sacra, pittura profana, scultura,
ecc.)”2.

Le lotte, il rock e… il jazz politico

Sono un nero e un jazzman…E, come Nero e jazzman mi sento miserabile


Ornette Coleman

1
Italo Moscati, (a cura di), 1969. Un anno bomba, Venezia Marsilio, 1998, p.85.
2
Alphons Silbermann, “arte”, in R. Konig (a cura di), Sociologia, Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Milano, Feltrinelli, 1964, pp.
27-28.
2
In principio era l’America. Per gli osservatori attenti, i reazionari anni Cinquanta del
benessere e del conformismo anticomunista avevano già mostrato almeno due spie rosse
della ribellione che sarebbe esplosa nel decennio successivo: in letteratura il beat e in
musica il bebop. Due forme d’arte che si muovevano nello stesso ambiente di outsiders e
avevano ampiamente manifestato il loro disappunto sociale nelle proprie opere, non a
caso contigue e sotto influenza reciproca. Norman Mailer nel saggio Il negro bianco
(1957)avrebbe definito la filosofia degli hipsters intrisa di jazz in contrapposizione
frontale alla morale borghese degli square, anticipando alcuni temi a venire3. Solamente
gli anni Sessanta videro il dischiudersi a catena di quei sintomi, in una vera febbre
rivoluzionaria: marce e movimento per i diritti civili, liberazione della popolazione nera,
fermenti giovanili, nuova cultura underground. E ancora: il tributo di sangue versato da
Malcolm x, Che Guevara e Martin Luther King, l’occupazione dei campus repressa
dall’establishment nel sangue, la protesta contro la guerra in Vietnam, l’esasperazione e
la conseguente radicalizzazione del Black power, il dissenso studentesco e quello
accademico (con figure come Noam Chomsky che stigmatizzavano l’avventurismo
guerrafondaio americano, proponendo una inedita agenda morale per gli intellettuali
contro i nuovi mandarini filo-governativi).4 La nuova sinistra americana (New Left,
definizione di Wright Mills), rompeva con la tradizione dei partiti comunisti e socialisti,
con le organizzazioni partitiche di tipo leninista. Terzomondismo, forme partecipative di
massa, ribellione anticapitalista, rifiuto in blocco dell’American way of life. Ecco i
capisaldi di un quadro dove manca, unica differenza sostanziale, un riferimento forte
verso la classe operaia, ben presente invece nella Nuova Sinistra europea. La
somiglianza tra i due movimenti giovanili in America ed in Europa si trova invece
nell’essenziale riferimento alla lotta contro l’oppressione in Algeria, in Vietnam o a Praga,
nel forte afflato anti-sistema, nella ribellione spontanea giovanile, nel romanticismo
rivoluzionario esotico, latinoamericano o asiatico che fosse.
Una somiglianza ancora più marcata sul versante culturale: l’America esporta
controcultura nelle arti performative e visuali, nel cinema e soprattutto in musica: dal
folk di protesta, al blues revival, al rock psichedelico e pacifista della costa ovest,
all’apoteosi utopica di Woodstock, dove Jimi Hendrix riassume su di sé tutto l’esprit du
temps martoriando l’inno The Star-spangled banner, per arrivare alle avanguardie e al
jazz. Data tanta ricchezza, risulta difficile per i giovani sfuggire a un qualche modello
musicale made in USA5.
Un America bifronte, che mentre incarnava il simbolo di “aggressore capitalista”,
mostrava anche al mondo un movimento di massa pacifico che la contestava, e
“sentiva” agitarsi dentro una musica come il jazz, patrimonio dei neri e degli oppressi, in
grado di simboleggiare profondi valori sociali. Rap Brown, presidente del SNCC dal 1967
e poi leader del Black Panther Party, diceva: “Ogni individuo nero appartiene al
movimento, anche se non ha preso parte alle dimostrazioni. Le vite dei Neri sono politiche,
perché il popolo nero conduce una lotta incessante contro il bianco…”6. La politicizzazione
dei neri è inevitabile, sotto la pressione di condizioni sociali di profonda disuguaglianza. I

3
Norman Mailer, Pubblicità per me stesso, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009.
4
Noam Chomsky, Cosa fanno le teste d’uovo, Bari, De Donato, 1967, pp.5-10. Chomsky, in questo pamphlet del 1967, di ampia
circolazione negli ambienti radicali dell’epoca, denunciò la politica asiatica di Johnson e, come avrebbe poi sempre fatto, il potere
di mistificazione dell’apparato propagandistico governativo, individuando per l’intellettuale il compito di smascherare le
falsificazioni di coloro che definiva “i nuovi mandarini”.
5
Sul “recupero” della ribellione rock al mercato capitalistico e il rapporto tra musica pop/rock e
controcultura hippie si può leggere il bel testo, oggi forse datato nella impostazione di Massimo Bassoli,
Rock&roll Marx, Milano, Gammalibri, 1981.
6
Rap Brown, Muori schifoso negro, muori!, Milano: Longanesi, 1971, p.93.
3
musicisti non si sottraggono all’influenza della politica e dopo anni di lotte per i diritti
civili la presa di coscienza che riguarda l’universo nero, dalle chiese, agli studenti, ai
ghetti non può non essere raccolta dal jazz, che di questo progresso culturale è sempre
stato parte. La presenza di un terreno di lotta, ha però permesso a molti jazzmen di
concepire la loro musica all’interno di un quadro di riferimento nuovo nel mosaico delle
varie attività sociali. Il jazz si lega alle forze rivoluzionarie, ai movimenti di protesta e di
liberazione, trova la forza di rifiutare simboli borghesi dell’arte (l’isolamento e la
maledizione dell’artista), che avevano giocato uno ruolo importante nell’esperienza del
bebop, il jazz anni Quaranta. Un aspetto mai abbastanza chiarito si palesa nell’inedito
legame ricercato dal musicista nero con un certo tipo di pubblico: la consapevolezza
razziale acquisita grazie alle parole di Malcolm X e dei suoi continuatori, motiva l’artista
di colore a produrre per “la sua gente”, come si evince dalle dichiarazioni di moltissimi
jazzmen. Le affermazioni di Archie Shepp illuminano questa nuova filosofia jazz: “Il
musicista nero è un riflesso del popolo nero, in quanto fenomeno culturale e sociale. Il suo
scopo deve essere quello di liberare, sul piano estetico e sociale l’America dalla sua
disumanità. Penso che proprio i neri attraverso la violenza delle loro lotte, sono l’unica
speranza di salvare l’America”7. Da una parte il jazzista socialmente attivo si sente
finalmente “compreso”, d’altro canto gli stessi politici e intellettuali citano il jazz come
esempio paradigmatico di manifestazione culturale autenticamente nera, arma di
propaganda dei nuovi valori che finalmente gode del riconoscimento della cultura bianca
che ha metabolizzato –o americanizzato- moltissime esperienze musicali nere dallo stile
new orleans al bebop. Quando Stokely Carmichael afferma: "La musica di Archie Shepp è
la grande bellezza nera del potere nero”, aggiunge al valore intrinseco di protesta
presente nella musica di Shepp, un ulteriore senso di acquisizione culturale alla lotta dei
neri, individuando nella sua musica un’altra manifestazione del potere nero. Gli anni
Sessanta, grazie alla spinta del movimento delle masse di colore e dell’azione di
intellettuali “neri” come Leroi Jones o Ron Karenga, videro la nascita in molte facoltà
universitarie dei Black Studies, la cui origine si poteva trovare nell’esortazione di
Malcolm X a studiare la storia nera occultata per secoli dalla cultura bianca e nella
volontà dei Muslims di creare centri di studio sulla civiltà africana e sulla religione
musulmana. Definito Nazionalismo Nero, questo movimento vedeva nel recupero di valori
marcatamente neri un momento necessario dello sviluppo della lotta degli afroamericani,
quello della battaglia sul terreno ideologico.8 Questo ammaestramento fu raccolto
dall’avanguardia: un’arte immediata e in grado di trascendere il suo ruolo di opera
fruibile dal solo lato estetico per caricarsi di una valenza politica concreta. Questo è
appunto il discorso portato avanti da Max Roach. Il massacro di Sharperville in
Sudafrica portò il batterista di colore a comporre un’amara riflessione musicale su quel
terribile episodio di sangue e sulla generale condizione di subalternità della gente nera in
Africa e in America. Ne venne fuori una suite tematica che fin dal titolo non lasciava
dubbi sulla qualità del messaggio politico: We Insist! Freedom Now Suite. La vera novità
del 1960 è però Free Jazz di Ornette Coleman; le note di copertina che accompagnano il
disco spiegano quanto di nuovo ci fosse nella musica proposta. “Coleman ha detto che
una delle idee basilari nella sua musica è di incoraggiare l’improvvisatore ad essere più
libero, a non obbedire ad accordi-tipo preconcepiti allo scopo di immettere le idee di una
corretta armonia e tonalità: proviamo a suonare la musica e non lo sfondo. Tuttavia, il suo
punto di vista è principalmente emozionale ed estetico, non tecnico. La musica dovrebbe
essere una diretta e immediata espressione delle nostre menti e delle nostre emozioni

7
Citato in Philippe Carles e Jean-Louis Comolli, Free jazz Black power, a cura di Giorgio Merighi, Torino, Einaudi, 1973 p.29.
8
Giampiero Cane, Canto nero, Bologna, Clueb, 1982, p.109.
4
piuttosto che uno sfondo per l’emozione”9. Coleman chiede ai musicisti di abbandonare le
norme stilistiche che avevano regolato il jazz precedente, anche moderno.
L’improvvisazione non è più fondata su sequenze di accordi, respinge la logica
occidentale di armonia. Gli interventi solistici non obbediscono ad una stretta
sequenzialità: i musicisti sono liberi di improvvisare contemporaneamente; seguendo
una loro particolare ispirazione o dialogando con le altre voci e creando un
accompagnamento polifonico. L’assolo (qui, come in precedenza nell’arcaico jazz new
orleans) è semplicemente un cambio della guardia nei musicisti guida che si alternano
nel flusso improvvisativo. Forme e idee sembrano emergere, durante l’esecuzione, dal
“caos agitato” prodotto dalla ritmica che esegue una pulsazione continua svincolata da
ogni regola metrica. E’ significativo che Coleman abbia scelto per copertina del vinile il
dipinto White light di Jackson Pollock, il caposcuola dell’Action painting americana.
L’arte informale di Pollock parte da presupposti molto vicini a quelli del free jazz: liberare
la creatività sepolta nell’inconscio come già avevano sperimentato in precedenza le
avanguardie surrealiste europee. “L’arte per Pollock, perde dunque le sue finalità
conoscitive, diventa un atto di violenta, rabbiosa partecipazione, una testimonianza del
malessere in cui vengono a trovarsi le nuove generazioni”10. Queste parole, riferite al
pittore, possono essere estese al free. La rottura dell’unità del linguaggio tradizionale
operata da Coleman si muove in sintonia con i movimenti dell’avanguardia. Il free, come
il bebop negli anni Quaranta e la coeva esperienza di Pollock, sconfinano dal piano
artistico al terreno ideologico. Per il free si deve parlare da subito di azione di “resistenza
culturale”: il sistema di valori dell’America kennediana viene rigettato assieme alle
concezioni artistiche che hanno fatto deviare il jazz dal suo corso come musica di una
comunità oppressa. Quindi, se è vero che il free non nacque politico, va detto che gli
stessi musicisti si resero quasi immediatamente conto che la musica e le concezioni
estetiche che elaboravano costituivano anche una reazione all’opera di espropriazione
condotta dal mercato su tutto il jazz precedente; e nello stesso tempo un atto di
affrancamento culturale, in sincronia con le lotte politiche che la comunità nera stava
conducendo.

Il free: motivazioni politiche, motivazioni estetiche.

Il segno caratteristico del free si manifesta nella tenace affermazione di una gerarchia
ideologica nuova, totalmente rovesciata rispetto a quella occidentale. L’aspirazione di
quest’ultima consiste nell’elevarsi al di sopra del mondo materiale mentre il free vi si
immerge totalmente; la realtà drammatica della società americana impone al jazzista una
riflessione musicale e insieme esistenziale. Il jazz –unica tra le arti nere- ha già ricevuto
un parziale riconoscimento “ufficiale” da parte della cultura occidentale ed è diventato
l’espressione di punta di una intera cultura. I jazzisti si sono guadagnati un ruolo
culturale nella comunità, avvalorato dall’ élite bianca (critici, intellettuali, scrittori). Il
musicista si trova a dover svolgere questa funzione in un momento storico caratterizzato
da un forte impegno da parte della popolo afroamericano volto al cambiamento radicale
della situazione di subalternità. Il rovesciamento dell’ingiustizia sociale si riverbera nel

9
Ornette Coleman, Free jazz.A collective improvisation. Atlantic, 1960. Note di copertina di Martin Williams. Traduzione mia.
10
A.A.V.V., Storia dell’Arte italiana, diretta da Carlo Bertelli, Giuliano Briganti, Antonio Giuliano; Milano, Electa, 1988, p.436.
Su Pollock vi si legge: “Il movimento della mano dell’artista creava un intricato insieme di linee sulla superficie, secondo un ritmo
più o meno convulso che è stato paragonato con qualche ragione a un brano di musica jazz”. Ecco il gesto creativo che non subisce
mediazioni post-factum.
5
ribaltamento dei valori artistici: In questo contesto vanno inseriti l’abolizione della liricità
e l’uso del grido o del rumore, l’importanza accordata al tema della “bellezza nera”,
assieme politico e artistico, l’approccio non ortodosso o provocatorio allo strumento.
Parallelamente, la frantumazione violenta del linguaggio jazzistico convenzionale, ormai
svuotato di contenuti dal suo uso commerciale, cerca di stabilire un nuovo tipo di
comunicazione con il pubblico, di scuoterlo dall’apatia con un approccio aggressivo. La
critica più preparata avvertiva che il problema legato alla musica free consisteva
nell’individuare correttamente una chiave semantica che ne permettesse una lettura
adeguata, laddove questa era andata verso una rottura totale con i segni espressivi e i
simboli del vecchio jazz. Mentre l’estetica manieristica continuava a giudicare: “in base a
equivalenti schematici che hanno funzione di norme, in base a idee-tipo estremamente
rigide che portano ad escludere tutto ciò che non presenti, se non uguaglianza, almeno
analogia con le regole stabilite.”11 Finisce con il free l’epoca della decifrabilità immediata
dell’opera e i nuovi segni vengono rifiutati perché ritenuti asemantici, incapaci di
esprimere contenuti validi. Alla musicalità si oppone la cacofonia, lo sgradevole. Alla
purezza, all’eleganza formale -altro canone artistico tipicamente occidentale- si preferisce
un suono viscerale, lacerato, irto delle stesse contraddizioni che caratterizzano la società.
A questo contribuiscono la complessità e la variabilità delle strutture, il cosiddetto
“polimorfismo” che Philippe Carles e Jean-Louis Comolli definiscono come
moltiplicazione/collisione/giustapposizione a ogni livello del materiale e dei codici
espressivi dei musicisti. Il polimorfismo non può essere definito mediante un’elencazione
di stilemi, di forme ricorrenti, dunque non è consentita una riduzione ad una unità (di
composizione, di registro di genere, ecc.). “Nel mito dell’Unità artistica –concludono Carles
e Comolli- non è mai stata avvertita la sua causa, promossa dall’ideologia e dalla teologia
dominanti: la negazione della lotta delle classi”12. Contemporaneamente all’opera dei
jazzisti liberi, negli ambienti della sinistra studentesca libertaria europea ed americana
si andava elaborando una critica del linguaggio come strumento di potere che trasmette
un messaggio “altro” rispetto al vissuto autentico. L’Internationale Situationiste nel 1963
affermava che “la presa di possesso del linguaggio da parte del potere è assimilabile al
suo impadronirsi della totalità”13, Carles e Comolli piegano questo stesso concetto ad una
classica interpretazione marxista, che il free ha inteso estensivamente in tutta la sua
portata rivoluzionaria ed eterodossa. Sempre dal Pamphlet dell’organizzazione
rivoluzionaria Internationale Situationniste, estrapoliamo una definizione di poesia:
“comunicazione immediata nel reale e modificazione reale di questo reale…è linguaggio
liberato…che riacquista la propria ricchezza e, spezzandone i segni, ricopre insieme le
parole, la musica, le grida, i gesti…i fatti”.14 L’arte informale è stata considerata a lungo
arte pura e dunque totalmente disimpegnata, rispecchiante i moti dell’animo più
personali. A questo ha risposto bene il musicista (e giornalista) Franco Pecori nel 1968:
“l’arte pura non esiste, perché nell’uomo che la produce è sempre concretizzata una storia ,

11
Alberto Rodriguez, Capire la Free Music, in: “Musica Jazz”, n.2-5, 1967, p.10.
12
Carles e Comolli, op. cit., pp 278-279. La parte centrale del ragionamento di Carles e Comolli rende chiara l’intromissione della
teologia nella critica all’estetica occidentale; alla base dell’estetica artistica europea tradizionale ci sarebbe un sistema di valori
introdotto dalla civiltà giudeo-cristiana: “che si ritiene il fulcro di tutte le altre e la base unica e universale, e nella quale l’Arte
detiene una posizione centrale e superiore”. Fa capolino la solita idea reazionaria della centralità dell’Occidente. “L’Arte, come
equivalente o sostituto della divinità (i termini opera, creazione, genio, ispirazione -e la loro inflazione nella critica, nell’estetica -
<…> ben individuano questa sacralizzazione del lavoro artistico, incarna nel sistema occidentale la purezza dell’Idea, che si pone
al di là della storia, svincolata dal contingente, dai contrasti (sintesi e trinità) e dal lavoro; essa è l’ambito del godimento senza
ostacoli (fantasma del capitalismo) e del potere demiurgico e magico sul mondo. Invece tutto nel free jazz sembra fatto per
sconvolgere questa purezza e per contravvenire alle sue caratteristiche…”.
13
Internationale Situationniste, La critica del linguaggio come linguaggio della critica, Torino: Nautilus, 1992, p.5.
14
Internationale Situationniste, op. cit., p. 5.
6
la quale appunto lo determina come essere sociale e gli permette di esprimersi…”15.
L’equazione arte pura-informale è un criterio che non si può in nessun modo applicare al
free, vaso sonoro traboccante di implicazioni extra artistiche che coinvolgono l’universo
culturale del nuovo nero. Arte ideologizzata, hanno affermato i detrattori, senza spingersi
oltre. Non per lo studioso Walter Mauro, poiché il binomio arte-ideologia va visto in una
funzione dialettica che può aiutare a focalizzare meglio il problema. Rifacendosi ad una
definizione di Althusser, secondo il quale l'ideologia è il sistema di rappresentazioni
forgiato dagli uomini in una data società per tradurre le loro relazioni con il mondo, ne
discende che: “ l’attuale ideologia dei neri traduca il nuovo tipo di legame che essi
intrattengono con la vita sociale del loro paese per cui essi si sforzano di superare il
concetto di integrazione, attraverso il rifiuto di quella liberalità del bianco in cui per secoli
avevano creduto”.16 La creazione del jazzista avviene in uno stato di necessità, in cui -
rabbia e urgenza di comunicare portano il musicista ad un grido reiterato, a volte fino al
parossismo. Il bello come criterio estetico obiettivo, magari come idealtipo preesistente
all’artista stesso, è sostituito dalla espressività immediata come gesto individuale che si
manifesta all’interno di un gruppo e diventa un momento comunitario, una esplosione
di vitalità collettiva che per il critico musicale Arrigo Polillo è una sorta di “rito panico”17.
Se pensiamo alla definizione hegeliana di arte, come necessità derivata dalla precarietà
del reale e giungiamo fino alle conclusioni di Marcuse, che la considera come: “Una
liberazione simbolica in forme sublimate dei bisogni repressi”18, l’intuizione di Polillo trova
conferme autorevoli. Per spiegare la libertà estrema del free, che si evidenzia nella
fragilità e totale apertura delle strutture Polillo ricorre al concetto fisico di “entropia”19,
la misura quantitativa del grado di disordine di un sistema, dove il sistema è quello
musicale e la sua funzione si situa nella comunicazione di un messaggio. Nel free, come
in analoghe espressioni avanguardistiche europee osserviamo un simile utilizzo di
strutture gracili, in cui il livello di entropia è tanto alto che a volte si sfiora il caos;
un’ambiguità di significati e l’uso di dissacrazione e auto ironia, il gusto per l’aggressione
del pubblico con comportamenti abnormi, traumatizzanti, che però non mettono del
tutto in crisi la possibilità di stabilire una comunicazione, diversa rispetto a quella
normale intercorrente tra esecutore e fruitore. A questo proposito va notato che il
pubblico del free, è costituito da un numero ristretto di appassionati, anche se le proprie
implicazioni politiche, in certi periodi, lo hanno reso più popolare presso i giovani di
quanto sarebbe lecito attendersi da una esperienza di musica d’avanguardia “difficile”. E’
il caso dell’Europa, dove il free ebbe numerosi consensi proprio grazie alle implicazioni
politiche di cui si faceva portatore. Con la tradizione jazzistica precedente (bebop) c’è un
forte punto di contatto che riguarda il recupero del blues, con una diversa intensità e
sfumatura: per i boppers significava ritorno alle radici autentiche del jazz, recupero di
una tradizione, per i musicisti dell’ultima generazione era invece un’arma in più contro
l’occidentalizzazione del jazz. Il blues mantiene un grado di vitalità, di capacità di
comunicare emozioni, che il jazz ha perso con il passare del tempo: il suono nel blues è
strettamente legato allo stato d’animo che si vuole esprimere. Il musicologo tedesco
Joachim E. Berendt ha intravisto specialmente in Ornette Coleman questa

15
Franco Pecori, Free come relazione, in Musica jazz, nn. 8-9, 1968.
16
W. Mauro, Jazz e universo negro, Milano: Rizzoli, 1972., p 216.
17
A. Polillo, Il jazz, Milano: Mondadori, 1998, p. 276-277. Per una indagine sulle strutture profonde del Free e una analisi
puntuale del suo linguaggio visto come un continuum sonoro non più formato di parti discrete come per un qualsiasi sistema di
trasmissione di un linguaggio; Franco Pecori, “Analizzare il continuo”, in Musica Jazz, n.4, 1969.
18
W. Mauro, Elena Clementelli: “La trappola e la nudità. Lo scrittore e il potere”, Milano: Rizzoli, 1974.
19
A. Polillo, op, cit., pp.278-279. Per il concetto di Entropia in relazione all’espressione artistica si veda Rudolf Arnheim,
Entropia e arte, Torino: Einaudi, 1974.
7
riqualificazione del blues. Lo stesso Coleman ha affermato:“ Quando in una canzone
suono un fa che significa peace penso che quel fa non può avere lo stesso suono della
stessa nota in un brano intitolato sadness (tristezza)”.20 Nel free conta il messaggio che
l’artista desidera lanciare. Quando non è sufficiente la musica arriva l’inserimento di
brani poetici. Il caso forse più celebre resta quello di Black Dada Nihilismus di Leroi
Jones, in cui le parole, accompagnate da commento sonoro, si scagliano contro
l’ascoltatore, con il loro carico di violenza.21 La contiguità del Jones poeta con l’approccio
dei jazzisti free è evidente in questo suo linguaggio crudo, che come l’idioma si è liberato
del fardello, dell’obbligo alla liricità. Lo strumento musicale che si fa carico di urtare nel
modo più violento l’ascoltatore è senza dubbio la batteria. Questa, che si caricava
largamente del compito di produrre il piacevole dondolio ritmico apprezzato dagli
ascoltatori come effetto swing, perde completamente la sua funzione nella scansione
metrica del brano, anzi, i tempi tradizionali si dissolvono e lasciano il posto ad una sorta
di assolo senza soluzione di continuità che dura quanto l’esecuzione e contribuisce a
creare una tensione sonora ai limiti del possibile. Ecco come descrive Mauro la non
comunicatività del free con il pubblico: “nell’ossessione gridata all’unisono si inseriscono
gli strumenti a fiato che accendono il clima “impossibile” e “illeggibile”, e in quanto tale
esso colpisce direttamente la realtà della fruizione, e più consapevolmente, a livello di
sociologia, l’intera società prodotta dal kitsch. A questo punto il fruitore regge per curiosità
o fugge indignato, e nell’uno come nell’altro caso il musicista free ha raggiunto il proprio
fine di colpirne i gangli vitali laddove nessuna forma d’arte tradizionale era riuscita ad
operare”22. Il jazz è arte americana e le proprie radici affondano tenacemente nella
cultura di quel paese. Questo vale per quei momenti in cui ha rappresentato una
colonna sonora per la borghesia bianca e il capitalismo, e a maggior ragione riguarda
anche quei periodi in cui, spronato dalle rivendicazioni politiche e dai fermenti sociali,
si è trovato sulle barricate rivoluzionarie o mescolato a hippies e intellettuali
underground.

Le critiche al free

Una musica come il free, con una manifesta volontà di èpater les bourgeois nelle
performance pubbliche, non poteva non raccogliere giudizi aspri. Questo avvenne in
misura anche maggiore rispetto a quanto era già accaduto con il bebop vent’anni prima.
Segno che, nonostante la maggior preparazione, la critica non era in grado di seguire
immediatamente gli sviluppi di un’arte che richiedeva una conoscenza compiuta dei
fattori socio-culturali che la muovevano. In molti casi fu la critica “progressista” che
aveva difeso il bop a rifiutare il nuovo, che non era in grado di capire in base a metri
valutativi non più adeguati. Il free venne spesso bollato come incomprensibile. La
risposta di Carles e Comolli è perentoria: “una simile tesi finisce per confondere le

20
Joachim E. Berendt, Il libro del jazz, Milano: Garzanti, 1973, p.123. Spiega Berendt: “Ornette Coleman ha trasformato tutta la
scala musicale in Blue Notes. Quasi ognuno dei suoi suoni è spostato verso l’alto o verso il basso, è legato, strozzato o ampliato.
In breve, vocalizzato proprio nel senso del blues.(…) E se poi, dopo anni in cui ci si è abituati al jazz convenzionale oggi ci si
stupisce di questa concezione, perché proprio tutti i fa, che riguardino la pace, la tristezza o qualcos’altro debbono essere uguali
dal punto di vista vibrante, allora bisogna dire che in questo si fa sentire l’influenza della tradizione musicale europea,
un’influenza che Ornette ha escluso, almeno in questo campo”.(p.127). La libertà per il free si affranca, almeno inizialmente, dall’
influenza europea; “distanziandosi sul piano formale e su quello armonico dal continente bianco, ci si distanzia da esso anche sul
piano razziale, sociale, culturale, politico”. (p.39).
21
“Possa un perduto dio Damballah darci salvezza o quiete/ contro i ben conosciuti assassini contro i/ figli di lui bianchi perduti!
dada/ negro, nichilismo negro, black dada nihilismus. Cit. in W. Mauro, “Jazz e universo negro”, pp.227-228.
22
W. Mauro, op. cit., p.230.
8
esigenze delle masse con le esigenze culturali, ma anche economiche e politiche,
dell’ideologia dominante; nonché per occultare totalmente il problema di quali potrebbero
essere le effettive urgenze culturali delle masse con quanto l’ideologia, sotto la veste della
domanda, attribuisce e inculca loro e formula per loro conto (e anche attraverso loro). Il
free jazz, intraprendendo una polemica contro ciò che prevale nei gusti popolari (…) compie
un preciso sforzo per rompere non con il pubblico, ma con l’ideologia che lo pervade…”.23
Difficile immaginare una argomentazione più stringente, che spiega la rigorosa filosofia
che si agita dietro la presunta “illeggibilità” del nuovo linguaggio musicale e nello stesso
tempo sferza la critica per la sua connivenza con la standardizzazione dei gusti imposta
dal mercato alle masse. Le argomentazioni utilizzate non sono lontane da quelle
introdotte dalla scuola di Francoforte -segnatamente da Marcuse- per spiegare l’effetto
dell’ideologia in una società capitalistica di massa. Quindi la critica che esalta la natura
popolare del jazz contro l’intellettualismo elitario degli esponenti del free non fa che
rafforzare, magari inconsciamente, l’assunto dell’ideologia dominante. Il free si mostra
più vicino agli interessi delle masse “ponendosi contro l’idea che esse hanno della loro
musica” di quanto non abbia fatto l’altro jazz che, bene o male, è stato collocato al
servizio dell’America bianca.24 Questa tesi è una evoluzione di un’intuizione di Leroi
Jones, il quale fin dal 1963, dichiarava, a proposito della musica nera contemporanea,
che questa si era nuovamente collocata al di fuori della cultura ufficiale americana, dopo
una parentesi in cui gli stessi jazzisti negri si erano lasciati immettere nel giro della
cultura bianca. Puntualizzava Jones: “Il che non vuol dire che tale musica (il free) sia una
più radicale, o più illogica, applicazione della filosofia cinetica che ha improntato di sé la
musica negra fin dal suo inizio in America. La musica negra è stata sempre radicale nei
confronti della cultura ufficiale americana”.25 I messaggi politici vennero dopo la metà
degli anni sessanta, quando il movimento nero inasprì la propria attività. Ma nell’analisi
della critica il messaggio politico viene immediatamente negato e svuotato di valore. E’ il
problema di ogni avanguardia che decida di immergersi nella realtà e di non aspettare
che questa cambi, dall’alto di una inaccessibile torre d’avorio; il free, come altre
manifestazioni avanguardistiche novecentesce rovescia a sue spese l’adagio primum
philosophare, deinde vivere. Ritorna il discorso sul rapporto tra musica e rivoluzione, tra
musica e impegno politico, i critici tornano a parlare di asemanticità dell’arte, di
“separazione” tra il testo dell’opera e l’interpretazione personale dell’artista dove solo il
primo conta ed è passabile di analisi. Così questi critici “si impegnano solo sul terreno
della musicologia”, prendendo in considerazione esclusivamente i valori musicali del jazz;
e in base a questi il free viene definito anti-jazz. “Quando la critica asserisce di non
interessarsi che di fatti musicali finisce di ingannarsi, perché non avverte che quanto
appartiene alla sua definizione di ciò che è musicale o meno, nei suoi criteri estetici e nella
sua concezione dell’arte, è determinato da una cultura e da una ideologia che sono nella
circostanza la cultura occidentale e l’ideologia dominante nella società capitalista.
Limitando la controversia al solo piano delle differenze d’ordine musicale tra free e jazz,
la critica si vieta anche l’interrogativo sulla ragione d’essere di queste differenze. E così lo
sviluppo del free jazz è magicamente collegato all’insorgere nel jazz di una disposizione

23
Carles e Comolli, op. cit., pp.272-273.
24
Carles e Comolli estendono una classica argomentazione di Leroi Jones sull’hard bop: “…E’ aumentato il numero di quei negri
(jazzisti o altro) i quali, spintisi con successo in quella amorfa cultura americana, non hanno saputo più ritrovare la filosofia
sociale ed emotiva, che ha tradizionalmente ispirato la musica afroamericana. Gli hard-boppers alla fine si trovarono tra le mani
una musica tanto priva di senso culturale nella sua fasulla emotività quanto quella di Mantovani: una musica d’atmosfera per
università negre”.Leroi Jones, Il popolo del blues, Torino: Einaudi, 1968, pp.231-232.
25
Leroi Jones, op. cit., p.231.
9
morbosa maligna: la decadenza”26. Decadenza: termine paravento che cela la più grande
soggettività di giudizio senza tener conto di parametri che non siano quelli usuali nel
giudizio estetico. Rispetto ad una musica che si rifiuta di essere “necessariamente” bella,
perché questa è una qualità che non appartiene al suo sistema filosofico e preferisce
essere concreta, che rifiuta di piacere al pubblico perché ne denuncia l’alienazione
dovuta all’ideologia del mercato artistico, la critica si rivela tragicamente conservatrice ed
inadeguata. In Francia si accese addirittura una polemica che vide coinvolti la rivista
specializzata Jazz Magazine e il quotidiano Le Monde. La posizione di Lucien Malson,
autore dell’articolo per Le Monde, si risolveva in una velata accusa di zdanovismo mossa
a quei critici che faziosamente cercavano di identificare troppo strettamente potere nero
e free jazz, correndo il rischio di valorizzare a tal punto l’ideologia da perdere di vista il
livello estetico dell’opera d’arte. La risposta arrivava da Jean-Louis Comolli, uno degli
autori di Free Jazz Black Power, testo fortemente orientato politicamente di critica
militante che, fin dal titolo, corre su una fune tesa nel vuoto e minaccia ad ogni istante
di cadere nel baratro paventato da Malson e di proporre un impegno della musica come
una concatenazione di causa-effetto troppo brutalmente meccanicistica. Meglio l’indagine
di Leroi Jones, secondo il giudizio di Malson, più realistica nell’affrontare il terreno
sociologico. La risposta di Comolli risulta, secondo Mauro, schematica ma suggestiva: “il
jazz è quella musica funzionale, o quanto meno espressiva che la musica occidentale non
è. Per questo ha a che fare con la sociologia, l’ideologia, la politica”. Comolli continua
spiegando come questa relazione si è affievolita con l’occidentalizzazione del jazz e che il
free ha riscoperto. La critica non se ne è avveduta subito perché impegnata in una lotta
per il riconoscimento del jazz e, per ottenerne la consacrazione, ha tentato di integrarlo
nella tradizione occidentale. Il jazz è sempre stato impegnato e questo lo riconoscono o lo
rivendicano musicisti come Roach, intellettuali neri come Jones e studiosi attenti come
Hobsbawm. Ornette Coleman ha sintetizzato in una sola rapidissima frase, quasi fosse
un passaggio eseguito al suo sax alto, i fiumi di parole spesi in questo e in identici
dibattiti che si sono avuti in America come in Italia: “Rivoluzionario è il jazz in sé, il fatto
che il jazz esiste”.27 Al di là dei nessi politici troppo facili, quando Comolli parla della
nuova prospettiva: “non più nella fusione delle influenze occidentali con le radici africane,
ma in quella della loro resistenza a fondersi…, per Mauro sta introducendo una “ipotesi
nuova e singolare, mai affrontata sinora in termini così netti”28. Quando il trombettista Bill
Dixon nel 1964 organizzò quattro giorni di concerti sotto l’insegna “The October
revolution in jazz” (un modo ironico di promuovere l’avanguardia), tentava una
operazione di auto-mecenatismo volta a diffondere le nuove idee. Certo non si aspettava
che il movimento avrebbe esaurito così in fretta la sua carica propulsiva. Di quei
concerti, cui assistettero soprattutto musicisti, critici, e intellettuali, rimane una cronaca
26
Carles e Comolli, op. cit., p.276.
27
Intervista di Ornette Coleman, in: Cane, op. cit.,p.79. Cane usa questa frase come titolo per il capitolo dedicato a Coleman.
Pasolini ha paragonato l’ “esserci” dell’opera d’arte all’ “esserci” del nero argomentando nella stessa maniera di Coleman: “Un
negro che presenti la sua faccia –nient’altro che la sua faccia, ossia la sua negritudine esistenziale- in un cocktali tutto di
purissimi anglosassoni, in un quartiere residenziale, dove è proibito abitare perfino ai sudeuropei!, compie evidentemente un atto
di rivolta. Col suo stesso esserci, col suo stesso esserci come negro. Ebbene, l’opera di un autore è come la faccia di un negro. E’
con la sua stessa presenza, con il suo esserci, che è rivoluzionaria. E ciò, secondo me, non avviene affatto a livello
sovrastrutturale, ma strutturale. Infatti l’intera strutttura è messa in ballo e in pericolo, dal solo esserci della faccia di un negro o
dell’opera di un autore”. P.P.Pasolini, “il caos”, op. cit., 81. Lo scandalo dell’esistenza in Pasolini e Coleman, un intellettuale
bianco e un musicista nero accumunati nella diversità: per Pasolini consiste nel suo essere intellettuale ed in questo è simile al
nero afroamericano; perché l'intellettuale e l’uomo di colore sono “fratelli nella segregazione” e nella lotta che devono ingaggiare
contro il sistema. Questa pagina è ispirata a Pasolini da un articolo di Ombre Rosse (rivista del movimento studentesco) che porta
come epigrafe una frase di Stokely Carmichael: “Gli intellettuali non c’interessano per quello che fanno, ma per quello che fanno
per noi”. I leaders del movimento nero sono un costante riferimento per tutti i giovani contestatori europei dei Sessanta.
28
W. Mauro, Jazz e universo negro, op. cit., p. 219. Nel libro si legge una sintesi della polemica Comolli-Malson alle pp. 218-219.
10
di Dan Morgenstern, giornalista della rivista Down Beat (tra le più autorevoli dedicate al
jazz) che mostra come parte della critica avesse riconosciuto quasi immediatamente
l’importanza del nuovo jazz. Morgenstern parla di “assalto al presente e a gran parte del
passato”, di “anelito alla gioia e alla libertà”, del fascino trasmesso da una ricerca
musicale condotta in fieri. Quando il giornalista si pone la fatidica domanda: “Ma è
jazz?”, la sua risposta ne rivela la competenza e la saggezza, sgombrando
immediatamente il campo dai pregiudizi e spuntando in modo pacato le armi alla critica
più ottusa: “Qualunque cosa sia non le si deve fare torto facendo paragoni ingiustificati.
Accusare un batterista di non avere swing, nel senso che chi lo critica ha in mente, è
scorretto e senza costrutto. Pretendere aderenza a moduli formali che i musicisti
evidentemente respingono è altrettanto sciocco che accusare un pittore informale di non
rappresentare la realtà”. Vista in prospettiva storica, l’ipotesi di un jazz rivoluzionario si
è mostrata figlia del tempo di una breve –seppur epocale- stagione di cambiamenti. L’urlo
rimane gesto fine a se stesso e perde il suo valore di contestazione quando cambiano le
condizioni sociali e politiche dell’ambiente circostante. Inoltre un movimento
d’avanguardia che nasce con una pars destruens così fortemente caratterizzata e vive
nella totale destrutturazione di ogni linguaggio finisce per negare validità anche alla sua
forma di espressione e a condannarsi ad un grido sempre più rabbioso e dunque al
silenzio. Di nuovo i musicisti si ritrovano tra le mani un’arte svuotata di senso culturale.
Parafrasando Leroi Jones, la musica fucile, iconoclasta senza possibilità di
compromesso, ha finito per eliminare se stessa, eco americano per le parole di Albert
Camus: “La maggior probabilità di autenticità è oggi, per l’arte, la maggior probabilità di
fallimento”.29

Una variante: le critiche incrociate dei critici free

Un ulteriore approfondimento merita la diatriba che ha coinvolto coloro che


professionalmente si sono occupati di svolgere un serio lavoro critico intorno al free.
Alcuni di questi nomi sono già entrati nel discorso (Carles e Comolli, Cane,
Jones/Baraka), altri verranno citati nelle prossime pagine, ma per un momento ora
affrontiamo il discorso critico da una diversa angolatura. Alcuni critici ne hanno fatto
l’oggetto di approfonditi studi monografici, partendo da una posizione di consonanza
ideale al movimento (Valerie Wilmer, Rob Backus, Ekkehard Jost, John Litweiler), ma
questo, se da un lato li libera dalle critiche viste poco fa al free nei suoi presupposti
musicali, non impedisce l’emergere di divisioni nella comprensione generale del
fenomeno. In sostanza ci troviamo al cospetto di critici che apprezzano positivamente gli
esiti artistici del free e si spaccano invece tra loro nella valutazione del significato da a
attribuire a questa musica, segnatamente sul suo valore semantico extramusicale.
Prendiamo due casi emblematici, quelli di Frank Kofsky e di David Such che utilizziamo
perché le loro posizioni critiche vengono rese trasparenti nel discorso, anche tramite
polemiche incrociate. Ovviamente gli anni Sessanta e Settanta mostravano una buona
visibilità per la critica di sinistra che nei decenni successivi invece è stata ampiamente
oscurata e ostracizzata da una nuova generazione di studiosi, decisamente più
interessati agli aspetti musicologici che non a quelli politici30. Il nocciolo del problema di
quei critici che si occupano di free in maniera dettagliata difficilmente può esimersi dal
nodo gordiano: il discorso del free va analizzato nel quadro di un contesto sociopolitico o
29
Albert Camus, L’uomo in rivolta, Milano: Bompiani, 1980, p.300.
30
Nel mio Jazz! Appunti e note del secolo breve, Milano: Costa&Nolan, 2008, ho dedicato un intero capitolo Revisionismo jazz.
L’oblio degli storiografi politici al tema dell’ostracismo che è stato portato avanti dalla critica jazz di sinistra.
11
ci si deve mantenere solamente sul piano strettamente musicologico? Insomma: nel
giudicare il free possiamo farci entrare l’analisi politica? E in quale misura? Per Kofsky,
che ha pubblicato il testo Black Nationalism and The Revolution in Music nel 1970, la
risposta è scontata: il suo approccio prevede che il critico debba possedere un certo
grado di conoscenze nei campi della storia e della sociologia per poter meglio
comprendere come i cambiamenti sociali della popolazione afroamericana si sono
riverberati in maniera diretta nella musica dei neri.
Invece, scrive Kofsky: “la maggior parte dei critici affermati –il cui nome è riconosciuto dal
grande pubblico- non arrivano dalle scienze sociali e neanche da studi umanistici, ma
dalla pubblicità”31. L’argomentazione di Kofsky è stringente: pochissimi sono i giornalisti
che vivono del mestiere di critico (forse i soli redattori di Down Beat e Whitney Balliett
che è un columnist per il New Yorker). Tutti gli altri svolgono l’attività di critica come
lavoro di contorno e trovano la principale fonte dei loro redditi nel mondo del jazz
lavorando per le case discografiche come addetti stampa, pubblicisti e redattori di liner
notes, lavori di gran lunga più remunerativi del recensire dischi per una rivista.
Ovviamente l’intreccio di interessi che si viene a generare da questa confusione di ruoli è
nocivo per la musica creativa e influenza pesantemente il giudizio estetico che ne viene
dato. In un simile contesto il musicista free è l’ultima catena di una ruota dove
saldamente al centro stanno i manager delle case discografiche che controllano
all’origine la formazione del consenso verso i musicisti o i generi. Kofsky accumula molti
esempi di questo malcostume con una tipica analisi marxista della “struttura”, l’insieme
di fattori economici e politici che dominano il jazz, concludendo: “credere che un simile
conflitto di interessi non influenzi il giudizio dei critici di jazz richiede un abbondante
quantitativo di innocenza o di ingenuità, fatto che io non sono in grado di sopportare”32.
Con una vis polemica e satirica degna del miglior Marx scrittore, Kofsky passa poi in
rassegna, analizzandoli nome per nome, le peggiori inadeguatezze di Leonard Feather,
Dan Morgenstern, Michael Zwerin, specialmente nel non voler vedere le condizioni di
sfruttamento e razzismo in cui lavorano i musicisti neri, passando poi ad un attacco en
masse alla rivista Down Beat. Introducendo il paragrafo scrive: “in quanto segue voglio
andare oltre i meri individui e dimostrare il ruolo chiave istituzionale giocato dalla rivista
Down Beat nel contribuire a perpetuare la supremazia bianca nel jazz”. Come opera Down
Beat? Tramite la censura dei propri giornalisti: caso emblematico è quello dello scrittore
Ralph Gleason, uno dei più acuti osservatori del jazz. Un suo articolo sui “venti di
cambiamento” che uniscono il nuovo jazz a esperienze come la rivoluzione cubana, le
lotte del sud per i diritti civili, il movimento per il disarmo nucleare, è stato boicottato
con commenti del tipo: “dacci un taglio con quella roba comunista” e con censure che
hanno portato Gleason a dimettersi da collaboratore. La redazione di Down Beat viene
poi accusata di preferire sempre il bianco al nero: viene rifiutata la collaborazione di Bill
Dixon, all’epoca esponente della Jazz Composer Guild e trombettista-compositore molto
attivo sulla scena di New York. Quando si vuole parlare di artisti visuali-musicisti si
preferisce il clarinettista pittore bianco Pee Wee Russell e non si parla dell’artista e
sassofonista di colore Larry Rivers, spesso membro dei gruppi di Elvin Jones.
Soprattutto vengono censurati Cecil Taylor, Archie Shepp, Bill Dixon e molti altri
musicisti radicali di colore33. Il libro di Kofsky si dipana per diversi capitoli nell’analisi

31 Frank Kofsky, John Coltrane and the Jazz Revolution of the 1960s, New York:
Pathfinder, 1998, p. 140. Questo libro rappresenta la seconda edizione ampliata di Black
Nationalism and The Revolution in Music, seminale testo di critica uscito nel 1970.
32
Kofsky, op. cit. p. 145
33
Kofsky, op. cit. pp. 158-172.
12
puntuale del radicalismo nero e dei suoi legami con il nuovo jazz e, pur essendo
preponderante la visione storico-sociale che l’autore ha a cuore, - “una forte e chiara
dichiarazione d’intenti marxista sul ruolo dell’arte dentro una rivoluzione”, come ha scritto
del suo lavoro Frank Salamone-, non mancano acute analisi tecniche della musica,
specialmente quella del quartetto di Coltrane, individuato come il cuore di questa nuova
musica34. Il libro si conclude con interviste a Elvin Jones, McCoy Tyner e Coltrane
stesso. Il dialogo con Coltrane è uno dei più interessanti che ci rimangono del musicista
ed in esso si trova citata la famosa circostanza dell’incontro con Malcolm X35. Coltrane la
motiva come una semplice curiosità verso un personaggio così chiacchierato
dall’opinione pubblica e solo in virtù di questo fatto va ad ascoltare un comizio di
Malcolm X, peraltro uno degli ultimi prima del suo assassinio. Per Kofsky questa è una
conferma di un contatto tra il radicalismo politico e musicale, confermata dall’ultimo
capitolo del libro, un saggio su Malcolm X e la sua importanza per la nuova musica nera.
Altri (David Ake ad esempio) hanno osservato come in realtà Coltrane nonostante le
sollecitazioni a parlare di Kofsky, resti su posizioni intermedie perché: “diversamente dai
suoi protegé (Archie shepp su tutti), non si alleò mai pubblicamente con le fazioni di
militanza radicale del movimento per i diritti civili e il suo orizzonte rimase sempre la pace”.
Il campo critico non si divide solo sulla linea musicologica/sociale, ma si apre un fronte
interno che spacca anche coloro che appartengono idealmente allo stesso lato della
barricata. Questo avvenne in special modo alla metà degli anni Sessanta, quando il
nazionalismo nero sembrò esasperare i contenuti razziali a discapito di quelli politici:in
un dibattito del 1965 intitolato Jazz and Revolutionary Black Nationalism Baraka,
entrato in una fase accesamente ultranazionalista, disse al pianista Steve Kuhn che lui
stava suonando la musica dell’uomo bianco. “Se qualcuno ascolta la tua musica e non
può dire che sei bianco, è perché A) non capiscono abbastanza di jazz per capire che sei
bianco, oppure B) stai imitando i neri”. Baraka proseguì poi la sua requisitoria
rivolgendosi contro lo stesso Kofsky, con una arringa a tratti paradossale, come ricorda
Lain Anderson: “Quando Frank Kofsky suggerì che poteva discernere una coscienza
rivoluzionaria nel lavoro di Archie Shepp e Albert Ayler, Baraka replicò che la differenza tra
una simpatizzante bianco e un musicista nero era ‘quella tra un uomo che guarda
qualcuno avere un orgasmo e uno che sta avendo un orgasmo’”36. Un tutti contro tutti che
ha sicuramente complicato la già non semplice ricezione del free. E veniamo all’oggi.
L’approccio di David Such ribalta completamente i termini della questione, a partire dal
nome dove invece di free jazz egli preferisce utilizzare il più neutro out jazz: “in
retrospettiva, la politicizzazione dell’out jazz venne prodotta da un relativamente ristretto
numero di musicisti espliciti, le cui posizioni vennero efficacemente amplificate da un
numero egualmente ristretto di scrittori. Questo probabilmente fece più male che bene alla
musica, poiché da allora anche gli out performers vennero stigmatizzati come attivisti
politici. Inoltre la politicizzazione dell’out jazz alienò i potenziali ascoltatori che non
condividevano quelle opinioni. Come risultato finale questo processo inibì le opportunità per
l’out jazz di raggiungere una audience più vasta durante gli stadi iniziali del suo
37sviluppo”38. Gli scrittori cui fa riferimento Such sono principalmente tre: Leroi Jones,

34
Frank A. Salamone, The Culture of Jazz, Lanham, Maryland, University Press of America, 2009, p.43. Per
Salamone il libro di Kofsky rimane la miglior indagine sul rapporto tra free e black power.
3535
Kofsky, op. cit. p. 433.
36
Lain Anderson, This is our Music. Free Jazz, the Sixties, and American Culture, Philadelphia, University
of Pennsylvania Press, 2007, p. 108.
37
David Ake, Jaz cultures, Berkeley, University of California Press, 2002, p.140.
13
Frank Kofsky e Ben Sidran, oggetto di brevi considerazioni che l’autore riassume così:
“osservando certe caratteristiche dell’out jazz come soluzioni a problemi musicali piuttosto
che una reazione a elementi sociali, si possono evitare molti dei problemi sopra descritti.
Questo approccio non preclude il fatto che il sociale e il culturale abbiano un peso sull’out
jazz. Tuttavia ci suggerisce che il sociale e il musicale sono processi che operano come
epifenomeni; vale a dire che entrambi possono viaggiare paralleli ma non possono sempre
essere connessi in modo causale”. Purtroppo le considerazioni di Such -che si auto-
ammantano di una certa veste di saggezza e moderazione- difettano di quel nesso
causale che lui nega agli altri. Proviamo a formulare alcune veloci domande: erano pochi
i musicisti politicizzati o non era piuttosto ristretto l’intero gruppo di coloro che
praticavano il free? Bisognerebbe supportare con dei dati questa affermazione apodittica,
come lo è quella che essi furono sostenuti da un ristretto gruppo di scrittori. A quei tre
potremmo aggiungerne alcuni altri, ma se è vero che i critici che si sono occupati di free
jazz sono stati relativamente pochi questo non può avere a che vedere anche con lo
scarso appeal commerciale del free verso i media (riviste specializzate, giornali, case
discografiche)? In Europa dove la ricezione del free è stata più ampia che in America
molti giornalisti e scrittori si sono occupati di free e proporzionalmente in un numero
maggiore a quello americano. La politicizzazione del free potrebbe aver allontanato una
parte del pubblico, ma Such vende questa sua considerazione personale come una
verità, non come una supposizione e senza poter ovviamente fornire dati a sostegno della
propria tesi. Provata da ampia documentazione è invece la maggior diffusione del free in
Europa, spesso collegata a una lettura politica di questa musica. Such non può saperlo
ma spesso i critici italiani contrari al free contestavano la politicizzazione dei musicisti
perché la giudicavano una ruffianeria verso il pubblico, se non addirittura un modo per
procurarsi un uditorio ampio che il jazz non aveva. Gli anni hanno ridimensionato
queste polemiche: Shepp ha smesso di essere un jazzista dalle dichiarazioni incendiarie,
il pubblico politicizzato è rifluito con i movimenti politici che lo avevano creato e nutrito,
il free come movimento è stato storicizzato, permettendo ai critici posizioni più rilassate
verso Ornette Coleman, Cecil Taylor, Sam Rivers…Coltrane ha potuto conquistare una
meritata intoccabilità da parte della critica (spesso la sua canonizzazione è stata
promossa dagli stessi personaggi che anni prima lo avevano bollato come anti jazz e che
oggi possono permettersi di omaggiarlo, senza mai aver fatto ammenda formale, o peggio,
gettando su altri la propria miopia, come ha giustamente rilevato Kofsky). Such conclude
così: “Kofsky e Sidran tralasciano di considerare come entra in tutto questo il processo
decisionale individuale. Le preferenze e l’interpretazione della musica non potrebbero
essere il risultato di un atto di libera volontà o di immaginazione? Alcuni ascoltatori,
specialmente in occidente, sono proni nell’attribuire a determinati schemi musicali delle
emozioni. Altri ascoltatori possono esprimere una preferenza estetica alla musica sulla
base di metafore visuali o verbali o anche per le sue implicazioni morali. In altre parole la
motivazione per interpretare la out music secondo canoni politici è in pratica solamente una
delle molti possibili risposte”39. Nessun dubbio che la tesi di Such sia adatta a
interpretare la musica creativa improvvisata che si produce oggi (William Parker, Daniel
Carter, Michael Keith, i principali protagonisti da lui citati), svincolata dal contesto
sociale e marchi una netta distanza dal free nero degli anni sessanta che il canone
politico lo incorporava dalla nascita e senza possibilità di dubbio.

38
David G. Such, Avant-garde jazz musicians performing ‘out there’, Iowa, University Of Iowa Press, 1993,
p28.
39
Such, op. cit, p. 28.
14
L’arte nera

“L’arte nera, come qualsiasi altra cosa nella comunità nera, deve rispondere in modo
positivo alla realtà della rivoluzione”. Così esordisce l’ideologo nero Ron Karenga in un
saggio dedicato al rapporto tra arte e Black Power. L’arte giudicata secondo un criterio
sociale. L’arte africana si basa su tre caratteristiche: è funzionale, collettiva, impegnata e
-esorta Karenga- “noi dovremmo tentare di usarla come base fondante per una costruzione
razionale che incontri le nostre attuali necessità”.40 Funzionale perché il movimento nero
non può accettare la “falsa dottrina” dell’ art pour l’art, perché l’arte riflette il sistema di
valori dal quale essa proviene. Fin qui rimaniamo nell’ambito del consueto dualismo
arte-engagement, sul quale Karenga innesta degli elementi di novità: il problema
filosofico-politico dei due tipi di libertà, libertà di o libertà da, applicato nel campo
dell’estetica. Perché questa: “è davvero una questione politica o sociale e fa aumentare le
contraddizioni per quell’artista che rigetta l’interpretazione sociale dell’arte. Tuttavia
quando egli domanda libertà di fare qualcosa o libertà dalle restrizioni che gli impediscono
di fare qualcosa, sta avanzando richiesta di un diritto socio-politico che, come diciamo noi,
rende l’arte primariamente sociale e in un secondo tempo estetica. L’arte non esiste
nell’astratto come la libertà non esiste nell’astratto”. Karenga fornisce un’ottima chiave di
lettura per interpretare la radicalizzazione del free dalla metà degli anni Sessanta. Molti
studiosi si sono affannati a dimostrare che in origine il free era solamente un movimento
sovversivo a livello musicale, che contemporaneamente al free il jazz esprimeva anche
musiche commerciali e non impegnate (vedi il successo internazionale della bossa nova),
che la rivoluzione free riguardava pochi musicisti e interessava pochi ascoltatori. Sono
dati incontestabili, ma non cancellano l’importanza che il free ebbe in seguito, quando i
musicisti precisarono meglio la natura del loro agire, e, spinti dal radicalizzarsi della
lotta, sentirono di doversi gettare nella mischia come artisti, mettendo la loro opera al
servizio della comunità. In quel momento si fece strada una nuova generazione di
musicisti, intellettualmente preparati e consapevoli, che decidevano di restituire all’arte
quel ruolo sociale che le era stato sottratto. Questo ultimo caso è ben rappresentato dalla
figura di Archie Shepp.
A metà strada tra nazionalismo nero e black panthers si situa la figura di Shepp,
modello di musicista impegnato nella costruzione di una musica funzionale alla
rivoluzione. Su di lui si sono versati fiumi d’inchiostro, mentre questi riversava contro il
pubblico torrenti di note dal suo sassofono dalla voce sanguigna, rabbiosa e riservava
alla critica dichiarazioni al vetriolo. Affermazioni che riecheggiano da vicino quelle coeve
di Karenga e di Leroi Jones. Per lo Shepp musicista, ma anche per l’uomo sempre pronto
alla polemica, vale l’affermazione che ha fatto James Badwin: “In questo paese, essere
negro e relativamente cosciente significa essere quasi sempre in collera”41. Così va vissuto
il sassofono perennemente “collerico” di Shepp. “Il musicista nero è un riflesso del popolo
nero, in quanto fenomeno culturale e sociale. Il suo scopo deve essere quello di liberare, sul
piano estetico e sociale l’America dalla sua disumanità”42. Difficile trovare una
consonanza maggiore tra questa affermazione di Shepp e il ragionamento sull’arte svolto
da Karenga. Quando Karenga afferma perentoriamente: “la reale funzione dell’arte è di
40
Arthur C. Littleton, Mary W. Burger, Black view points, New York: New American Library, 1971, p.174. Citazione di inizio
paragrafo nella stessa pagina, traduzione mia.
41
Citato in Charles E. Silberman, Crisi in bianco e nero, introduzione di Roberto Giammanco, Torino: Einaudi, 1965 p.72.
42
Intervista a Jazz Magazine, in Carles e Comolli, op. cit., p.29.
15
fare la rivoluzione usando il suo specifico medium”43, pare rivolgersi proprio a Shepp,
che per una decina di anni si è fatto portatore di un messaggio politico e musicale di
questo tipo. La critica lo ha sospettato a lungo di usare il suo impegno politico per farsi
pubblicità, perché la sua musica difficile, impegnativa, non ammette mezze misure.
Questo non tenendo conto di quanto possa pregiudicare una carriera artistica dichiararsi
di sinistra in modo così esplicito per un uomo di colore nell’America degli anni Sessanta.
Non sono molti i musicisti d’avanguardia che si sono espressi con la chiarezza di Shepp.
Non dobbiamo dimenticare che l’America non è mai stata tenera con i suoi dissidenti
intellettuali e, se a questo si aggiunge il problema razziale, non deve stupire la prudenza
con la quale molti altri jazzisti -anche di primo piano- si sono accostati alle
problematiche politiche44. Ornette Coleman, che non ha mai goduto del favore del grande
pubblico negli Stati Uniti, si è imposto in diversi casi una sorta di auto censura:
rinunciando ad esempio ad incidere un brano con il titolo da lui scelto (China
Revolution).45 Ai primi concerti di Shepp in Europa si assiste addirittura allo scontro
verbale e fisico tra detrattori ed estimatori. In un resoconto del giornalista Pino Candini
su di un concerto tenuto da Shepp a Lecco nel 1967 possiamo vedere, tramite le parole
dell’’inviato di “Musica Jazz”, quale fu la reazione del pubblico italiano all’arrivo del
primo free jazz americano. “La temperie espressiva è subito rovente, violenta, chiaramente
provocatoria. Appare fuor di dubbio che, se Davis non si cura del pubblico, Shepp
addirittura lo insulta con premeditazione. La platea, infatti, investita da quella
raccapricciante massa d’urto, ha uno scossone, alcuni si alzano, abbandonano il teatro,
altri protestano, si grida buffoni!, vogliamo un po’ di jazz!, eccetera, ma gli applausi
superano i dissensi”46. Il critico Franco Fayenz, presente allo stesso concerto rievoca:
“Dopo dieci minuti gli spettatori sono già divisi in due partiti opposti, e discutono gridando
per sovrastare i boati sonori che provengono dal palcoscenico. Due critici, per poco non si
picchiano. E’ un momento bellissimo -esclama quello che è d’accordo con Shepp- siamo
tornati a litigare”. Come se la musica di Shepp riportasse indietro le lancette al tempo
della furiosa battaglia tra i modernisti del bop e i tradizionalisti. Shepp rappresenta il
Leroi Jones della musica suonata; entrambi usano a fondo le armi che hanno a
disposizione: la parola, la penna, il sassofono tenore, per esprimere il loro disagio e la
loro rabbia nei confronti dell’America “bianca”. Il musicista jazz è come un “giornalista
estetico” dell’America dice Shepp a Jones in un’intervista.47 Qualcuno ha definito la
musica di Shepp, nella sua globalità, come “metamusica”. Per il musicologo Giampiero
Cane “si spiega per quel che è soprattutto in quanto spiega quel che è stato: quindi per
musica nera, perché spiega la musica nera, e, inoltre per musica proletaria nera perché
spiega la musica proletaria nera”.48 Più semplicemente, si può affermare che l’opera del
musicista, rappresenta una traduzione programmatica in musica del Popolo del Blues di

43
Ron Karenga, Black art: Mute matter given force and function, in Littleton e Burger, op. cit., p.176.
44
Antonio Barbon, Daniele Albani Barbieri, Impegno e contestazione nella Free music, Musica Jazz, n.6, 1969,p.15.
“…L’impegno politico di questi musicisti (dentro e fuori la loro musica) può in molti casi compromettere ingaggi, contratti,
esibizioni, in America e in Europa; molti perciò fanno difficoltà quando si chiede loro quale atteggiamento politico abbiano e
quale sia il rapporto tra politica e musica. E’ una prudenza più che necessaria ovviamente, ma che purtroppo per noi rende oscuro
il quadro, talvolta indecifrabile, contraddittorio perché gli stessi musicisti rilasciano volta a volta dichiarazioni diversissime,
preoccupati dell’atteggiamento ostile dei loro interlocutori, (noi stessi abbiamo assistito al fenomeno di un musicista
d’avanguardia jazzistica che mutava radicalmente tono a seconda che parlasse con sconosciuti oche si trovasse in compagnia di
amici, e questo non per compiacenza, ma perché temeva che mostrandosi troppo impegnato o arrabbiato potesse finire nei pasticci.
La vita di un musicista nero è già abbastanza difficile senza bisogno che egli vada a cercarsi altri nemici)”.
45
A. Barbon, D.A.Barbieri, art. cit. p.15.
46
Pino Candini, jazz a Lecco, in Musica Jazz, n.12, 1967, pp.15 e 16.
47
Citato in A.Polillo, op.cit., p.263.
48
Giampiero Cane, op. cit., p.200.
16
Leroi Jones, il quale, a sua volta, ha definito Shepp un “poeta della Nazione Negra”,
convalidando ancora di più il ruolo di rappresentante dell’estetica del popolo nero49.
Possiamo prendere ad esempio una pagina violenta e polemica della prosa di Jones e
confrontarla con le dichiarazioni tanto scandalose all’epoca quanto oggi appaiono
“normali” di Shepp. In Con-stato-azione50 (1965), jones scrive: “Il ruolo dell’artista Nero in
America è contribuire alla distruzione dell’America quale lui la conosce. Il suo ruolo è
riferire e riflettere in modo così preciso la natura della società, e di se stesso in quella
società, che gli altri uomini saranno animati dall’esattezza della sua rappresentazione e,
se sono uomini neri, saranno animati a farsi forti, avendo visto la propria forza, e la
propria debolezza; e se sono uomini bianchi, tremeranno, malediranno e impazziranno,
perché saranno costretti a pascersi nella sozzura del male che hanno fatto. L’artista nero
deve trarre dalla propria anima l’immagine corretta del mondo. E questa immagine deve
usare per legare insieme i suoi fratelli e sorelle nella comune comprensione della natura
del mondo (e della natura dell’America) e della natura dell’anima umana. L’artista Nero
deve dare l’esempio di vita dolce, di come essa differisce dalla presa mortale degli Occhi
Bianchi. L’artista Nero deve insegnare agli occhi bianchi le loro morti, e insegnare agli
uomini neri come provocare tali morti. Siamo sleali noi, non siamo chiari./ Siamo maghi
neri, nere art/ i facciamo nei laboratori neri del cuore./I leali sono/ chiari, e mor/ talmente
bianchi./ Il giorno non li salverà/ e noi possediamo/ la notte/. Prosa, poesia, passione
politica si mescolano in una miscela esplosiva; la stessa che faceva infuriare i “puristi”
che a Lecco nel 1967 volevano sentire del jazz e cercavano una fruizione di tipo
convenzionale del “bello”, rimanendo scioccati dalla proposta aggressiva del “brutto”.51
Shepp ha cercato di dar vita alle suggestioni di Leroi Jones ed ha agito fino in fondo il
ruolo dell’artista rivoluzionario, finendo per cadere nella spirale di contraddizioni che
questo tipo di impegno comportava. Nello stesso anno in cui Jones scriveva Con-stato-
azione, Shepp rilasciava al periodico musicale Down Beat una intervista divenuta
famosa, antologizzata in tutte le storie del jazz quando si parla di anni Sessanta e del
ruolo della politica nel jazz. “Per me gli Stati Uniti rappresentano il sistema sociale più
marcio e razzista del mondo, fatta eccezione forse della Rhodesia, dell’Africa del Sud e del
Vietnam del Sud. Testimone ancora impotente del massacro del mio popolo nelle strade che
vanno da Hayneville a Harlem, che farò della mia rabbia collettiva quando, come deve
inevitabilmente capitare, più niente la fermerà? La nostra vendetta sarà nera, come Fidel
è nero, come Ho Chi Minh è nero”52. Questa asserzione di Shepp smentisce l’accusa di
“razzismo alla rovescia” mossa al nazionalismo nero. La superiorità rivendicata al nero
(la Blackness) non è individuata in un fattore razziale, ma consiste nella superiorità del
rivoluzionario sull’oppressore che caratterizza tutti i popoli in lotta, a prescindere dal
colore della pelle. In questo passo si scorge anche un cenno all’internazionalismo
terzomondista dell’ultimo Malcolm X. Dopo Fanon e i capi politici africani, il riferimento
più comune all’interno del movimento è quello al “modello cinese” di socialismo reale,
che indicava una via concreta di lotta per i popoli oppressi. “L’imperialismo è ancora in
vita, continua a spadroneggiare in Asia, Africa, e America Latina. In occidente opprime
ancora le masse popolari nei loro stessi paesi. Questa situazione deve cambiare. E' compito
49
Una interessante analisi dell’opera del sassofonista si trova nell’articolo di Stefano Arcangeli, “Parliamo di Shepp”, Musica
jazz, n.3, 1974, p.10-15. Le parole di Leroi Jones sono riportate a pagina 15 del citato articolo.
50
A.A.V.V., The beat book, a cura di Anne Waldman, premessa di Allen ginsberg, Milano: Il saggiatore, 1996, p.184-185.
51
Un’altra testimonianza sui concerti del 1967 è in: Jack Cooke, “Archie Shepp”, I grandi del jazz; Milano: Fratelli Fabbri
editrice, 1981, p.7. “…Quel suo camminare a lunghi balzi felini per il palcoscenico indossando le policrome tuniche africane,
quel suo girovagare insieme a Rudd (trombonista bianco) tra gli spettatori soffiando furiosamente negli strumenti, dimostrano il
senso del teatro che il tenorsassofonista sa risvegliare in ogni esibizione e che si accoppia al puron urto fisico che il pubblico
riceve da una vera e propria aggressione sonora…” .
52
Citato in Carles e Comolli, p.19.
17
dei popoli di tutto il mondo mettere fine all'aggressione e all’oppressione dell’imperialismo e
principalmente dell’imperialismo Usa”. Queste affermazioni di Mao Tze Tung, presidente
del più grande paese socialista del mondo, offrivano una sponda alle elaborazioni
teoriche dei politici afroamericani. “La mia musica è per il popolo. Se tu sei borghese,
allora devi ascoltarla secondo i miei termini…”, afferma Shepp nel corso della stessa
intervista del 1965. L’artista ammette che persone ideologicamente diverse da lui, e
diverse anche dalla classe sociale cui espressamente fanno riferimento le sue opere,
possano accostarsi alla sua musica, se si sforzano di penetrare il mondo espressivo che
la permea. Shepp mostra di interpretare bene il valore universale e totalizzante
dell’arte, che non può rimanere vincolato a schemi troppo austeri e rigorosi neanche nei
periodi in cui la motivazione politica è più forte. Contemporaneamente però Shepp
riecheggia il Libretto Rosso di Mao: “Tutta la nostra letteratura e la nostra arte sono al
servizio delle masse popolari e in primo luogo degli operai, i contadini, e i soldati; sono
create per gli operai, i contadini e i soldati perché essi possano servirsene”.53 Come si
nota l’influenza maoista non fu soltanto preminente nel campo politico, ma coinvolse le
teorie estetiche della sinistra rivoluzionaria mondiale, compreso il movimento
nazionalista nero. Come a Milano, dove il pianista Gaetano Liguori, jazzista di punta del
Movimento Studentesco negli anni Settanta, rilascia interviste e dichiarazioni “artistico-
politiche” basate sul libretto rosso di Mao. Shepp è un artista colto, ha studiato prima
giurisprudenza per poi laurearsi in arte drammatica, ha tentato di fare l’attore ed ha al
suo attivo anche una pièce teatrale dal titolo emblematico di The Communist e varie
poesie. Ha poi lavorato come insegnante e, per un certo periodo, come assistente sociale
ad Harlem. Il titolo della sua composizione Los Olvidados, una delle più intense della sua
produzione, non è solo un riferimento a Buñuel, ma una dedica a tutti i giovani
“dimenticati” del ghetto. Lo stesso Shepp spiega nell’articolo testé citato la sua filosofia
assieme estetica e politica: “io sono un’artista antifascista. Io suono musica che parla
della mia morte per mano vostra. Io esulto perché vivo vostro malgrado. (…) Io non vi
permetterò di fabbricarmi a vostro piacimento: quell’èra è finita. E se la mia musica non
sarà sufficiente, scriverò per voi una poesia, un dramma teatrale. E in ogni momento vi
dirò: abbattete il ghetto. Lasciate libera la mia gente”. Come ha notato Fayenz, le
affermazioni di Shepp non risultano poi così “sanguinarie” 54. Il discorso politico viene
sempre visto con lo sguardo mediato dell’artista. Shepp non si lascia prevaricare
dall’aspetto politico del suo messaggio a tal punto da vanificare il contenuto artistico
della creazione. Sono stati la critica ed il pubblico, infiammati dalle sue parole, a non
essere riusciti ad avere di lui una visione equilibrata. I primi spesso hanno preteso di
giudicare i suoi lavori senza considerare l’impegno che li informava, i secondi lo hanno
ripudiato per la difficoltà della musica o ne hanno fatto un’icona oltre il lecito. Per questo
Fayenz, secondo il quale il concetto di artista impegnato “ha pieno diritto di cittadinanza”
nel jazz, osserva che: “piuttosto, si deve raddoppiare la vigilanza critica contro la
mistificazione, sempre possibile in un’arte di simboli non chiari come quella
contemporanea, contro i tentativi di collegare in modo meccanicistico, brutale didascalico il
contenuto politico alla forma artistica, e soprattutto contro l’approvazione o la
disapprovazione preconcetta di una proposta d’arte legata, legata all’adesione o al rifiuto
delle idee che stanno dietro”. Gli anni Sessanta sono stati duali: se da un lato c’era
l’esplosione di una politica giovanile libertaria e anarchica, non bisogna dimenticare che
nel quadro delle politiche governative tradizionali o nelle relazioni internazionali

53
“Discorsi pronunciati alla conferenza di Yenan su letteratura e arte”. (maggio 1942). Pubblicate sul Libretto rosso, ora in Mao
Tze Tung, Citazioni. Il libretto rosso, Roma: Newton Compton, 1994.
54
Questa e le successive citazioni si trovano in Fayenz, op. cit., p.264.
18
dominava un rigido bipolarismo ideologico, non particolarmente incline a valutare sottili
distinguo. Dichiarazioni come quelle di Shepp erano fatte per essere intese sia dagli
estimatori che dai denigratori del musicista in una identica maniera: l’uomo era
schierato e aveva fatto professione di fede in una precisa ideologia. Così in Europa negli
anni Settanta le interviste dei giornali, i titoli dei suoi dischi, le cronache dei concerti
alimentavano il mito di uno Shepp “compagno”, mentre in America la situazione era
radicalmente diversa e proprio in quello stesso periodo si stava definitivamente
consumando l’esperienza dell’estremismo nero. Shepp si è trovato così ad essere
acclamato come un “nuovo Messia” da migliaia di giovani ad Umbria Jazz nel 1975,55 o
nelle varie manifestazioni estive di partito, a cui Shepp partecipava come vedette e
portavoce impegnato della comunità di colore “oppressa nel paese più capitalista del
mondo”. Afo Sartori, giornalista, scrittore e, negli anni Settanta, organizzatore di
importanti concerti a Pisa per un circolo Ottobre rosso (dalla chiara connotazione
politica); ricorda le esagerazioni che si commettevano in nome dell’ideologia: “I nostri
festival filtravano il jazz col setaccio del messaggio politico o da un punto di vista di classe,
e tutto doveva essere molto free e contenere tanto una incazzatura popolare quanto una
rabbia proletaria; deliri di slogan tipo Viva Marx, viva Lenin, viva Archie Shepp…”56. Il
musicista era diventato più che un “messia” di sinistra, un eroe da stadio, un feticcio di
partito, buono per manifestazioni che si presumevano impegnate e politicamente
corrette. In questi anni si sviluppò in Italia attorno al jazz un fenomeno che il
musicologo Marcello Piras57 ha definito “industria della protesta”. Quando la rivoluzione
passa, e rimane soltanto il “gioco”, la rappresentazione della ribellione, il free, che era
stato il segno di quel furore, rimane legato a quel cliché e diventa una stanca
riproduzione di se stesso, ormai svuotato di un autentico significato, anche culturale.
Ma quei giovani dell’Umbria non erano neri ma bianchi e neanche la musica di Shepp
era la stessa che aveva proposto negli anni Sessanta. Finito il furore rimane un
musicista sempre pronto a dichiarare il proprio impegno politico, come mostrano i titoli
delle canzoni, ma la musica che propone si inserisce nell’alveo della tradizione nera del
jazz come rilettura del passato. E’ un cambio d’abito, e non solo metaforico: sostituisce il
Dashiki, la tunica africana che era diventata il simbolo del nazionalista nero, con dei più
convenzionali vestiti di foggia occidentale. Negli anni Sessanta quando la sua musica
bruciava incandescente egli era fiducioso nell’accorrere ai suoi concerti del pubblico di
colore, che conformemente alle teorie di Karenga e Jones, non poteva non riconoscersi in
una musica che per definizione era rivoluzionaria, costruita su segni e simboli che la
comunità nera doveva capire. Shepp pensava di potersi muovere liberamente nell’ambito
di una musica di ricerca, non temendo di perdere il collegamento con la sua gente “dato
che un meccanismo necessitante lo legherà ad essa in questa relazione, non tanto
dialettica, quanto direi, d’interno-esterno, d’inconscio-conscio, di sentimento-
dichiarazione”.58 Questo ragionamento non tiene conto dello scarto culturale che separa

55
Il termine “messia” utilizzato da Jack Cooke per descrivere l’entusiastica accoglienza riservata a Shepp durante le esibizioni
europee ella metà degli anni Settanta. Jack Cooke, op. cit., p.7. In quel periodo, nonostante la musica fosse più rispettosa delle
tradizioni, le sue dichiarazioni giornalistiche rimanevano furiosamente anti-establishment. Cfr.con intervista del 1974 a Melody
Maker: “Gli avanguardisti degli anni Sessanta erano visibilmente pericolosi per il sistema e perciò era necessario metterli a
tacere, uccidere i creatori di quella musica, talvolta anche fisicamente” cit. ibidem (p.7)
56
Afo Sartori, “Santi a dispetto del paradiso”, prefazione di Giorgio Gaslini, nota introduttiva di Stefano Arcangeli, Pisa: Pacini
Editore, 1985, p.84.
57
Una critica diversa a Shepp gli è stata rivolta dopo l’ammorbidimento degli anni Settanta, quando tentando di comunicare con
le masse procede ad un recupero di stilemi africani e contemporaneamente ad una semplificazione della sua musica. Per Marcello
Piras: “Colui che si era definito, in una famosa sortita, artista antifascista approda a un realismo socialista a tempo di rhythm &
Blues”. “L’avanguardia americana” di M. Piras, in: A.A.V.V., Il jazz degli anni Settanta, Milano: Gammalibri, 1980, p.54.
58
Giampiero Cane, op. cit., p.192.
19
la proposta musicale e il significato che vi immette dalla mancanza di istruzione
musicale che caratterizza la popolazione di Harlem che mostra di preferire il
rhythm&blues o il soul al jazz. Gli intellettuali di colore, in testa Leroi Jones, puntavano
parecchio su di una idea di “unità” di tutte le musiche di colore. Poiché però le comunità
urbane nere denunciavano dei limiti estetici che impedivano loro di accostarsi ad una
musica tanto ostica, nonostante gli sforzi fatti dai jazzisti per avvicinarsi alla loro gente,
questo collegamento avanguardia musicale-popolo, fallì. Per Gunter Lenz la questione
concernente il significato politico della musica degli anni Sessanta si è dimostrata più
complessa di quanto non avessero pensato i nazionalisti neri durante quel periodo. “La
speranza che tutte le forme della black Music, ivi incluso il nuovo jazz, dovessero per
necessità essere “popolari”, come si supponeva fosse la voce genuina delle masse nere, si
rivelò un’aspettativa piuttosto ingenua. Se volevano diventare artisti, non semplicemente
intrattenitori, e portare avanti l’esplorazione musicale della propria esperienza sino a limiti
estremi, i musicisti neri dovevano accettare l’alienante scarto tra teoria e prassi e –a
partire dalla rivoluzione del bebop- creare un tipo di ‘musica d’arte’ che non sempre però
poteva essere apprezzata dal pubblico nero”59. Schematizzando: l’orgoglio nero viene
rappresentato da James Brown e non da Archie Shepp. Questo svela il nodo
fondamentale dell’arte di avanguardia che si rifà idealmente e culturalmente al ghetto, al
proletario nero, ma non è da questi capita. L’illusione di una musica rivoluzionaria
comprensibile con la sola forza del simbolo sottinteso è ingannevole. Shepp si è perso in
un labirinto, tra prassi e teoria, tra estetica e rivoluzione, compromettendo una visione
equilibrata della sua arte. Quando si verificano le condizioni per una fruizione di massa
le cose non migliorano: a rispondere non è il pubblico per cui era stato pensato il
prodotto e forse neanche la ricezione non è quella corretta, trasformata in un momento
di aggregazione, un happening per la gioventù di sinistra, per la quale il jazz tornava ad
essere un prodotto di “consumo” Un uso del free jazz in cui l’essenza dell’opera musicale
finiva per essere l’ancella della bandiera di un partito o delle esigenze del pubblico
giovanile. Ancora Sartori riporta che Archie Shepp, parlando della sua esperienza come
docente di musica e cultura afro-americana all’università di Amherst, nel Massachusset,
ha affermato amareggiato: che alle lezioni “non si presenta un nero che sia uno, sempre
e soltanto giovani intellettuali bianchi”.60 Come non c’è stata una radicalizzazione di
massa della popolazione di colore, lo stesso vale per il jazz che rimane una musica
intellettuale e non può in nessun modo aspirare a rappresentare l’idea di comunità,
perché una comunità a livello politico non si è formata e non può neanche rappresentare
la musica della rivoluzione, perché rivoluzione non c’è stata. Il musicista free non può
esprimere l’universalità (la rabbia del popolo, la rivoluzione), fornisce una personale
interpretazione di universalità. Ecco di nuovo Piras spiegare con un robusto paragone
questo concetto: “In realtà, Shepp ha superato il conflitto interno tra, il ruolo razionalmente
assunto, il portabandiera, e l’inconscia volontà di regressione verso il ventre materno-
l’ombra di Coleman Hawkins61, in cui ogni tanto si rifugia. Ora, la sua aggressività si rivela
per quella che è: estroversione, inquietudine personale, insofferenza. Angosce artistiche ed
umane catalizzate dalla Black Revolt, certo, ma pur sempre individuali. Shepp non è che il
cantore di se stesso; e lo è sempre stato”.62 Discorso valido per Shepp solamente in
quanto figura che simboleggia il più compromesso dei portabandiera, quello che si è

59
Gunter H. Lenz, “Harper, Baraka, Coltrane”, in A.A.V.V., Jazztoldtales, a cura di Franco Minganti, Imola: Bacchilega,
1997.,pp.101-102.
60
Afo Sartori, Santi a dispetto del paradiso, Pisa: Pacini, 1985, p. 157.
61
Coleman Hawkins rappresenta la tradizione del sassofono tenore, di cui l’espressività rauca e minacciosa del sassofono di
Shepp è certamente figlia.
62
Marcello Piras, A.A.V.V., “Il jazz degli anni Settanta”, op.cit., p.55.
20
identificato maggiormente con l’impegno politico. In questo se vogliamo si annida forse
un errore di Carles e Comolli che vedono nel free un arma, come nella politica del BPP,
per scuotere i neri dalla loro apatia e convincerli ad unirsi nella lotta in quanto risultano
complessivamente una classe (la borghesia nera è numericamente ridotta) ed è come
classe che globalmente vengono sfruttati.
Il free jazz ha scelto il suo campo d’azione: rappresenta la testimonianza culturale delle
lotte nere, ed è la reazione all’opera di sviamento della musica nera a profitto degli
interessi bianchi, “offre il suo apporto nelle lotte politiche più avanzate, quando propone
una pratica d’arte militante che è esattamente quanto da moltissimo tempo la cultura
borghese, l’estetica idealista e l’ideologia imperante hanno tentato di evitare, insomma
un’arte che non sia più al servizio della classe che esercita il potere (come in effetti è
accaduto)”63.
Carles e Comolli non vedono che le forze rivoluzionarie nere, che secondo loro “proprio
nel campo ideologico agiscono con maggior vigore”, hanno fallito su questo terreno il
compito che si erano prefissi. La loro lotta è stata costruttiva e foriera di conquiste,
mediante la realizzazione degli studi neri e la riscrittura di una storia “nera”; la musica
free ha cambiato il corso del jazz. Purtroppo i risultati più importanti non sono stati
quelli “culturali” ma quelli concreti, materiali: la minor disuguaglianza, un inserimento
economico migliore, hanno avuto la conseguenza di allontanare molti uomini di colore da
una prospettiva rivoluzionaria. La rivoluzione politica, come la rivoluzione culturale e la
ribellione del free, sono rimasti confinati nell’esilio dorato dei fenomeni elitari, per questo
motivo sono crollati sotto il peso delle loro contraddizioni.

Il ruolo del jazz nell’immaginario politico.

La musica di Archie Shepp, è la grande bellezza nera del potere nero.


Stokely Carmichael.

In occasione di un viaggio a Parigi, di poco successivo al maggio francese, Stokely


Carmichael si incontrò proprio con Shepp in un locale. “I soli rivoluzionari che io abbia
visto a Parigi, li ho incontrati in un locale jazzistico, erano Archie Shepp e i suoi
musicisti”64. Carmichael esprimeva così in maniera tranchant la scarsa fiducia di cui
godevano studenti e forze rivoluzionarie europee per i neri del Black Power; ma l’aspetto
da porre in rilievo risiede nel momento di accostare lo pseudo-rivoluzionario al
rivoluzionario autentico, dove il secondo termine, quello positivo, viene incarnato da un
musicista jazz. Ad avvalorare il ragionamento viene poi la dichiarazione riportata in
epigrafe di capitolo, scaturita da una domanda di Shepp a Carmichael, al quale il primo
aveva chiesto una sua definizione di Potere Nero. La musica di Shepp, e il free jazz, sono
il miglior mezzo di esemplificazione di Potere Nero. Per un verso si è assistito negli anni
Sessanta ad un tentativo di politicizzazione della musica operato dagli stessi musicisti
spinti dalla situazione sociale e da una raggiunta piena consapevolezza. Questo clima,
che ha prodotto musicisti nuovi, come Archie Shepp o Max Roach, ha visto anche
emergere, sull’esempio di Malcolm X, una nuova classe politica, rivoluzionaria ed
internazionalista, ma legata ad un feroce nazionalismo culturale. Il “Potere Nero” non è
63
Le due citazioni di Carles e Comolli sono rispettivamente a p.289 e285-286, op. cit.
64
A.Barbon, D.Albani-Baribieri, op. cit., p.15, entrambe le citazioni di Carmichael sono tratte da questo articolo.
21
altro che uno spostamento d’attenzione al vivo del problema politico, sociale ed
economico dell’ idea di “bellezza nera” espresso nell’ambito culturale. Lo stesso Malcolm
X si è servito del jazz per indicare la strada che dovrebbe prendere il nero per arrivare ad
una vera libertà culturale, quella che secondo Malcolm è sempre stata negata all’uomo di
colore: “ho visto dei musicisti neri produrre del jazz, mentre suonavano con dei bianchi ad
una jam session –la differenza è enorme. Il musicista bianco può produrre se ha un foglio
di musica davanti. Può produrre qualcosa che ha già sentito. (…) Ma il nero…prende la sua
tromba e tira fuori dei suoni che prima neanche si immaginava. Improvvisa, crea, gli viene
dal di dentro. E' la sua anima, è soul music. E’ l’unico campo sulla scena americana in cui
il negro sia stato libero di creare. Ed egli ne è diventato maestro”.65 Anche in
quest’occasione, Malcolm X mostra la propria capacità di toccare sempre la corda giusta
della sensibilità nera.66.
Il jazz è stato riconosciuto dai militanti e dai leader neri come la più importante
manifestazione culturale nera, e, nello stesso tempo, un’arma di propaganda e come tale
questi hanno iniziato ad utilizzarla. Barbara Ann Teer, un’ attrice impegnata del Black
Power ha scritto: “La gioventù negra d’America ha bisogno di un’immagine nuova:
dovrebbe spettare all’artista negro il compito di dargliela”. L’arte come veicolo di messaggi
e comportamenti positivi, in grado di educare la comunità, laddove falliscono le scuole
pubbliche disastrate e il tessuto sociale disgregato del ghetto. “Ad eccezione dei cantanti
di rhythm&blues, di suonatori di jazz e di personalità della portata di una Nina Simone,
pochissimi negri nel mondo dello spettacolo hanno un concetto chiaro dell’immagine che
dovrebbero riflettere”67. Così la Teer individua nei musicisti neri una delle poche
categorie di artisti in grado di influenzare i comportamenti soci-culturali della
popolazione di colore, nel proporre dei modelli di riferimento validi. Per Larry Neal,
collaboratore di Leroi Jones nel Black Arts Movement, è necessaria l’elaborazione di una
estetica nera in grado di contrapporsi all’estetica occidentale dominante; tenendo
presente che questa costruzione teorica, che passa per i Black Studies, ha un punto di
partenza: la musica nera contemporanea, in tutte le forme, dal blues al soul di James
Brown, rappresenta la più alta conquista culturale della razza e propone un esempio già
operante di “estetica nera”. L’importanza della musica nell’immaginario collettivo della
popolazione di colore è altissima: dal recupero di una memoria africana, alla rilettura
epica dell’esistenza dello schiavo e poi dell’ex schiavo in una terra straniera.
L’importanza della musica per il movimento nero non è solo recupero del passato o
modello positivo di comportamento: “Otis Redding, Sam Cooke, Bessie Smith, Billie
Holiday, Charlie Parker, Coleman Hawkins, Eric Dolphy e John Coltrane sono, nelle menti
della gente di colore, più che intrattenitori. Sono dei poeti e dei filosofi dell’America “nera”.
Ognuno di questi artisti ha dedicato la sua vita ad esprimere ciò che W.E.B. DuBois ha
definito: le anime del popolo nero68. Ancora negli anni Ottanta ci sono intellettuali neri
che insistono su questo punto: “la ripoliticizzazione degli operai e dei poveri dovrebbe
puntare anzitutto sull’eredità culturale nera, specialmente sulla forma e il contenuto
ideologico della musica popolare nera. La vita afroamericana è permeata dalla musica
popolare nera. E dal momento che i musicisti neri rivestono un ruolo così importante nella

65
Malcolm X, Con ogni mezzo, prefazione di George Breitman, Torino, Einaudi, 1973., p.68.
66
W. Mauro, Storia dei neri d’America, Roma: Newton Compton, 1997., p.85. Già nel 1948, Harrison Dillard, primatista alle
olimpiadi sui 100 metri e definito “l’uomo più veloce del mondo”, dichiarò: “Quando i bianchi si decidono a finalmente a lasciarci
fare qualcosa, noi cerchiamo di rifarci. Così è nello sport, come è stato nel jazz”.
67
A.A.V.V., Il black power in azione, a cura di Floyd B. Barbour, Milano: Sugar, 1969, pp.293-294.
68
Larry Neal, “Any day now: Black art and black liberation”, in Woodie King, Earl Anthony, “Black poets and profets”, New
York: New American Library, 1972, p. 154, traduzione mia. The Souls of Black Folk, è il titolo di uno studio di W.E.B. DuBois,
pubblicato a Chicago nel 1904.
22
vita degli afroamericani, essi hanno una missione e una responsabilità particolari:
presentare cioè della buona musica che sostenga e dia motivazioni alla gente nera e
fornisca delle idee di ciò a cui essi dovrebbero aspirare. Nonostante la ricchezza della
tradizione musicale nera e la vitalità della musica nera contemporanea, la maggioranza
dei musicisti neri vengono meno a questo compito cruciale”69. Per il sociologo Cornel West
gli attivisti neri devono rendere coscienti i musicisti neri delle esigenze più urgenti
urgenti della comunità nera. Nota Luigi Onori, riguardo a questo articolo di West, che
l’autore può aver ragione se si riferisce agli anni Ottanta e Novanta, ma all’inizio degli
anni Sessanta il rapporto tra attivisti e musicisti era esattamente rovesciato70. “Roach,
Weston e Coltrane incarnavano una lotta ispirando ed essendo a loro volta ispirati dal
movimento, veicolando idee ed utopie se non per i proletari di colore senz’altro per gli
studenti universitari, le frange intellettuali e i bianchi progressisti”71. La visione di Luigi
Onori, rispetto a quella critica di West, restituisce ai jazzisti e ai promotori come Jones la
giusta considerazione per il lavoro svolto al di là della realizzabilità di alcune utopie;
quando poi West invita gli attivisti a interessare i musicisti alle problematiche dei neri
più poveri, cade in contraddizione: chiede a dei militanti di svolgere lo stesso lavoro già
tentato da Leroi Jones e dimostratosi velleitario nel lungo periodo72.
Perché la musica è al centro di questo discorso e non altre arti? Perché la musica ha
una manifestazione pratica che possiede una precisa caratteristica sociale: si svolge in
ambienti aperti all'influenza del pubblico e alla interazione. Arte collettiva nel senso
pieno della parola, il jazz è anti individuale perché esprime, punto di assoluto rilievo per
una pratica artistica, un pensiero comunitario. Tornando a West, va rilevato che questo
intellettuale professore di studi afroamericani ad Harvard, critica il rovesciamento
culturale degli ideali di bellezza anglo-americani, tra cui il riscatto del jazz, perché

69
Cornel West, “Il paradosso della ribellione afroamericana”, in Senza illusioni, a cura di Bruno Cartosio, Milano: Shake
Edizioni, 1995, pp.55-56.
70
Ecco un passo in cui Charles Silberman, (op. cit., p.107) rilegge l’esperienza giovanile di Baldwin e spiega fino a che punto
possano contare i condizionamenti della cultura dominante: “Il giovane Jimmy cercò con tutte le sue forze di non credere ciò che i
bianchi dicevano, e si sforzò così di evitare qualsiasi cosa che potesse ricordare la sua immagine stereotipata, rifiutandosi di
mangiare cocomeri, o di ascoltare jazz negro. Fu solo quando cominciò a vivere la vita dell’americano espatriato a Parigi che
Baldwin cominciò a risolvere il problema della propria identità”. Così tornò ad ascoltare il “jazz negro”, che divenne poi una delle
fonti primarie della sua attività di narratore: “Non ho certo intenzione di paragonarmi a due jazzisti che ammiro
incondizionatamente, Miles Davis e Ray Charles, ma mi piace pensare che almeno in parte coloro ai quali Un altro mondo è
piaciuto e piace, abbiano nei confronti del mio romanzo una sensibilità non dissimile da quella per la musica di Miles e di Ray.
Anche se in maniere molto diverse, i blues di questi due musicisti hanno un linguaggio universale: (…)svelano fino in fondo cosa
significa essere veramente vivi. Nella loro musica c’è pietà, non compassione”. Questa la visione “letteraria” del jazz di James
Baldwin, nell’introduzione a : James Baldwin, Un altro mondo, Milano: Feltrinelli, 1963.
71
Luigi Onori, Jazz e Africa, roma: De Rubeis, 1996, pp. 176-177.
72
La pretesa che il jazz sia stato recuperato da intellettuali nazionalisti neri e che la valorizzazione del jazz sia stata fatta dalla
“nuova borghesia nera” alla ricerca di una propria identità, mentre i neri poveri continuavano a rimanere nel loro isolamento, è da
rigettare. Leroi Jones infatti, non ha nulla dell’intellettuale classico, inteso nella tipica accezione occidentale del termine. Il nostro
non si rinchiude nell’isolamento dell’artista, e neanche si limita a fare della “retorica politica” radicale come pretenderebbe West.
Parla per lui la sua biografia. Poeta, saggista, romanziere, organizzatore culturale e politico, dopo l’assassinio di Malcolm X,
abbandona il Greenwich Village e la comunità degli artisti bianchi per trasferirsi ad Harlem, dove fonda il Black Arts Theatre, una
scuola strutturata in forma di comune, che si occupa di sviluppare studi e progetti artistici legati alla diffusione del nazionalismo
nero. Tra i collaboratori in quest’esperienza c’è Larry Neal (poeta e saggista, già citato come teorico e poeta del nazionalismo
nero.) Finita l’esperienza della Black Art, dopo altre avventure simili, fondò nel 1968 una struttura politica, la Black Community
Development and Defense Organization, un gruppo musulmano che affiancava agli interessi culturali la lotta più squisitamente
politica, prende in questo periodo il nome arabo di Amiri Baraka Negli anni Settanta si avvicinò al marxismo-leninismo e ad un
socialismo terzomondista: “Sono diventato comunista attraverso la lotta, l’intensità della passione capita, compresa, e infine presa,
come forza, mia ideologica chiarezza, come scia di un jet, forza nucleare di ragione, che viene da molto indietro, dalla nascita
nera, innescata dalla storia, diretta dall’esperienza”. Sempre impegnato a portare il nazionalismo nero tra la gente del ghetto Amiri
Baraka/ Leroi Jones è un infaticabile “lavoratore culturale”, che “si tiene sempre sul punto di massima tensione di quella politica
che viene plasmata dall’arte”. Le citazioni virgolettate sono di Anne Waldman,in A.A.V.V., “The beat book”, op. cit., p.183.
23
voluto da giovani intellettuali della “nuova” borghesia nera. E’ una critica a Ron
Karenga, Leroi Jones, A.B. Spellman che non rende giustizia all’opera compiuta da
questi infaticabili organizzatori culturali ed intellettuali globali. La critica da rivolgere
loro ed ai musicisti come Shepp o Roach, consiste nel non essere riusciti a parlare
davvero alle classi sociali “umili” come era nelle intenzioni: la musica di protesta non ha
tenuto conto del fatto che il free jazz era una forma d’espressione intellettuale e come
tale richiedeva mezzi di comprensione che un ragazzo del ghetto senza istruzione non
poteva possedere.
Il segno proposto non era facilmente decifrabile, mentre quando James Brown, urlava:
“sono nero e orgoglioso”, si rendeva immediatamente comprensibile a tutto l’universo
giovanile afroamericano. Il jazz ha proposto nel suo linguaggio e con i segni che gli sono
propri, un’estetica della ribellione artistica, quale nessun’altra arte poteva permettersi. Il
nero diventa il paradigma dell’oppresso e la sua musica, il jazz, diventa il simbolo nobile,
perché sublimato in forma artistica, di questa ribellione contro la schiavitù.
Una idea recepita dalla comunità nera (che magari non ascolta jazz, ma ne è in qualche
modo consapevole e orgogliosa) ed esportata presso l’universo bianco. Come fanno notare
Carles e Comolli, la cultura dell’oppresso non solo non scompare, come era
nell’intendimento dei “padroni”, ma riesce addirittura ad imporsi all’interno del pensiero
dominante73.
Loretta V. Mannucci, giornalista americana, bianca, parlando della democrazia
partecipatoria (siamo nel 1968), da lei contrapposta al modello americano di democrazia
autoritaria, arriva al jazz. “Il mondo americano ha già da cinquant’anni un esempio
intensissimo di democrazia partecipatoria: il jazz. Questa musica assolutamente indigena,
per quanto presupponga una lunga storia musicale e sorga da una tradizione che ha radici
distanti e primitive, è la società tecnologicamente avanzata. E’ l’America. Nessuno,
sentendola, ha mai avuto un momento di dubbio in questo senso. Nel jazz ogni singolo
musicista, ogni voce, è autonomo. Ma ognuno canta intorno ad un tema unico. Ognuno
interpreta e svolge in libertà e ognuno s’accorda con gli altri, tirandosi indietro quando un
compagno improvvisa un assolo e suonando a commento e a completamento, per sostituirlo
poi a sua volta.(…) E’ un esempio di ordine basato su un gioco di rapporti, un ordine
relativo e dinamico. (…) Il grande favore che il jazz ha incontrato nelle università americane
degli ultimi anni – con festivals, conferenze, corsi e cattedre- segue assai bene la fortuna
dei nuovi movimenti radicali quanto a consistenza ed ubicazione geografica”74. All’interno
di questo ribollente calderone in cui stanno studenti, predicatori, attivisti non-violenti,
uomini di chiesa alla reverendo Cleage, nazionalisti e musulmani neri, musicisti
arrabbiati, ci sono anche molti scrittori. Il loro urlo non é certamente stato meno forte o
deciso di quello dei musicisti, ma per le motivazioni connaturate all’importanza “sociale”
della musica, essi non sono stati così al centro dell’attenzione. Praticamente tutti questi
nuovi scrittori (James Baldwin, Ralph Ellison, Eldrige Cleaver, oltre ai già citati Leroi

73
Un jazzista bianco come Charlie Haden, ha più volte veicolato dei messaggi politici attraverso l’opera della Liberation
Orchestra, con cui ha interpretato i canti della guerra civile di Spagna. Charlie Haden apparteneva a quell’avanguardia che cercava
di trasmettere contenuti attraverso le opere musicali. Durante un concerto in Portogallo del 1972 dedicò un brano, Song for Che, ai
movimenti di liberazione in Mozambico e Angola facendosi così espellere dal governo portoghese. Questo esempio testimonia
l’esistenza di un free di protesta bianco, con i suoi contenuti e le sue motivazioni, a fianco di quello nero. Cfr. con Giampiero
Cane, op. cit., p.200. “L’opera presentata da Charlie Haden e dalla “Music Liberation Orchestra”, potrebbe anche nascere da una
estensione analoga del lavoro di Shepp al mondo culturale bianco, ma oggettivamente essa amplia i termini della relazione e li
complica. Almeno tematicamente, essa si annette materiali che non appartengono alla tradizione afroamericana, ma a quella
rivoluzionaria. (…) L’esposizione si s’alterna con la improvvisazione, i passi afroamericani percorrono un itinerario lasciato da
tracce di un altro linguaggio popolare, nel quale il blues non si colloca per sua natura, ma per mediazione. Si parlano, dunque, due
lingue diverse, ma esse sono ambo rivoluzionarie”.
74
Loretta Valtz Mannucci, I nuovi americani, op. cit., pp. 123-124.
24
Jones, A.B.Spellman e altri) si sono occupati della condizione nera e sovente ne hanno
fatto oggetto di opere letterarie. Più o meno tutti gli intellettuali attivi negli anni Sessanta
e Settanta hanno riconosciuto l’importanza e la forza morale del jazz, come caratteristica
pregnante, sviluppata dal nero per difendere la sua integrità culturale.75 Come nota
Walter Mauro, chiosando un’intervista a James Baldwin: “la letteratura, in un simile
sconvolto universo, finisce per diventare ragione primaria di vita, e va a confondersi con la
musica, con il jazz, con la supremazia del negro (mio padre doveva essere bellissimo…),
(…) l’espressione, la parola e la nota musicale si confondono in un continuo ricambio che
isola il negro, gli consente di aprire ancor più i confini del dolore e della
soppraffazione…” . 76

Per alcuni scrittori (come Baldwin) il passaggio dall’idea di integrazione a quella della
violenza è tormentato, seppur inevitabile dopo la morte di M.L. King; altri come Jones, si
inseriscono fin dall’inizio della loro attività su posizioni radicali, qualcuno come Cleaver
rinuncerà ad una carriera letteraria promettente e comoda per militare nel BPP.77 Per
tutti loro l’idea di jazz è univoca e può valere quello che ha affermato Baldwin: “il jazz
nacque dallo scontro frontale fra due modi di vivere”.78
La capacità del jazz di porsi come alternativo è proprio derivata da questo fattore: la sua
esistenza è stata sempre caratterizzate dallo scontro culturale.
Ralph Ellison fa parziale eccezione: come scrittore nero è convinto di dover assolvere una
funzione dal momento che la cultura negra non contrasta ma è parte di quella
americana. Ellison ammette che le forme espressive della cultura negra nascono in
contrasto con la civiltà bianca: è il caso della parlata nera, un idioma originale,
inventato dagli schiavi per non farsi comprendere dai padroni. Dunque “se è vero che la
cultura nera è destinata ad arricchire la cultura americana, è pur vero che la dinamica con
cui essa confluisce nel filone centrale è una dinamica di contrasto, una dialettica di antitesi
e sintesi”, che porta comunque come risultato quello di una interiorizzazione della
cultura e del costume nero all’interno della società statunitense.79 Ellison con questa
posizione si espone alle critiche dei giovani intellettuali neri durante gli anni Sessanta,
dai quali viene definito “Zio Tom” conservatore; lui replica che “la generazione attuale
pretende di strumentalizzare l’arte alla pianificazione ideologica”, mentre il separatismo
degli studenti impedisce di lavorare per la formazione di valori nuovi e comuni con i loro
compagni bianchi.

Jazz e politica in Italia

La sua oratoria focosa gli venne meno. Essendo corpulento, dipendente dalla nicotina, collezionista
indefesso di dischi originali e di memorabilia jazz, Cesare Lombardi, di professione ingegnere
specializzato in telefonia, aveva una predilizione ardente per le immagini di ascetismo, per gli ideali
75
Giuseppina Cortese, Letteratura e coscienza nera, Milano: Mursia, 1973, p172: “L’America bianca è dunque pazzia e falsità,
mentre l’America nera, perpetuamente alienata dai beni materiali, ha sviluppato una profonda spiritualità, che è l’essenza della sua
cultura e forza vitale. Le conclusioni di Jones sono sostanzialmente analoghe a quelle di Baldwin e di Ellison, dove sottolineano
l’energia morale accumulata dai neri attraverso la sofferenza(la disciplina morale come essenza dello stile di vita dei neri è uno dei
temi favoriti di Ellison)”.
76
W.Mauro, E. Clementelli, La trappola e la nudità, Milano, Rizzoli , 1964, p.65.
77
Giuseppina Cortese, op. cit.,p.190, su Eldridge Cleaver: “optando per la causa della rivoluzione ha sacrificato la vena più intime
e personale che, intrecciata al tema politico, è la sostanza vitale di Soul on Ice.
78
Ibidem, p.70.
79
Le parole di Ellison sono riportate in: Giuseppina Cortese, op. cit., pp. 108-110. Su questo concetto dell’integrazione della
cultura nera con quella bianca e dei problemi ad essa connessi, riporto un caso citato nel testo della Cortese: “Nel corso di una
conferenza, tenuta in una università, Ellison predisse che lo stile afro sarebbe stato presto incorporato nella cultura popolare
americana. I giovani neri, che respingevano per intero la tesi di Ellison circa l’incorporazione progressiva dello stile dei neri nel
costume americano, accolsero il suo discorso con veementi proteste, ma il tempo ha dato ragione ad Ellison”. (p.109).
25
di santa privazione. Sognava i Padri del Deserto, gli Stiliti, che affrontavano il vento nudi sulle loro
colonne di abnegazione80.
George Steiner.

Tutte le storie del jazz riportano ormai il loro bravo capitolo dedicato allo sviluppo
europeo, ed in questo contesto, nelle storie del jazz italiano, viene generalmente inserito
un quadro di quanto accadeva di unico sul suolo nazionale. L’argomento centrale di
questo lavoro è una analisi del rapporto tra jazz e politica, argomento che costituisce una
delle specificità –forse la più significativa- del jazz italiano negli anni in parola.
Analizzando l’America abbiamo visto il jazz tentare di costituirsi in avanguardia assieme
culturale e politica. Questa specificità del jazz degli anni Sessanta era dovuta ai problemi
razziali in seno alla comunità nera, ma anche i musicisti d’avanguardia bianchi potevano
scoprire un legame profondo tra la loro musica e la politica, a partire dalle esperienze
personali e da una visione critica delle contraddizioni profonde all’interno della società.
Dal momento in cui il jazz ha cessato di essere una musica del folclore nero ed il suo
linguaggio si è fatto universale, esso ha messo a disposizione della cultura occidentale
un bagaglio artistico che poteva veicolare i messaggi politici di altre minoranze oltre a
quella afroamericana. Per questo, a fianco di un terzomondismo di marca tipicamente
nera, si è potuto accostare un messaggio rivoluzionario come quello del bianco Charlie
Haden, che inneggia alla liberazione del Cile o dei paesi dell’Africa, senza imitare il
discorso politico dei neri, ma facendo sue le istanze rivoluzionarie della sinistra
occidentale. In Europa il pubblico, privo di atteggiamenti razzisti e ideologicamente
vicino al libertarismo del free, accolse i musicisti d’avanguardia in modo favorevole,
accorrendo ai concerti, facilitando così la nascita di etichette musicali indipendenti le
quali registravano una musica che in America non aveva spazio perché giudicata poco
commerciale. Va aggiunto che il free si sviluppò, ed ebbe la possibilità di farsi conoscere,
in Europa in un periodo in cui il clima politico favorevole incoraggiava manifestazioni
artistiche audaci e provocatorie se venivano ammantate di una giusta motivazione
filosofica di rivolta contro il sistema. A questa predisposizione alla ricettività di un
messaggio musicale nuovo e difficile, che assieme era anche un messaggio politico, i
giovani rispondevano con entusiasmo, e incoraggiavano i musicisti di colore a rendere
sempre più centrale la materia politica nel discorso, Arrigo Polillo (e con lui una folta
schiera di appassionati della sua generazione) ritiene che ciò a volte sia successo per
deliberato calcolo e in modo artificioso, pur di venire incontro alle esigenze del
pubblico81. Questa lotta anti-establishment non è avvenuta ad opera del solo jazz,
fenomeno comunque di proporzioni ristrette, ma ha avuto il suo primo interprete nella
musica rock. Il rock nei primissimi anni Sessanta è diventato il linguaggio unificante di
gran parte della popolazione giovanile a livello mondiale. La musica rock, figlia del
miracolo economico, poteva per la prima volta rivolgersi ad adolescenti in grado di
spendere dei soldi, giovani che quindi diventavano una fascia di mercato notevole, cui
rivolgersi per la vendita di dischi ed altri prodotti legati al consumo di musica. Questo
spiega un aspetto della diffusione della musica rock, come fenomeno culturale tipico
della società di massa. Ma il rock veicolava anche un messaggio sociale e di costume:
proponeva infatti una rivolta contro i valori della morale borghese, della struttura

80
Cesare Lombardi è un comunista-tipo, uscito dalla penna di George Steiner, in un agile romanzo sul tramonto del “mito” del
Comunismo in Italia. George Steiner, Il correttore, Milano: Garzanti, 1992, p.30.
81
Arrigo Polillo, “Jazz”,op.cit., p.295.
26
familiare, del conservatorismo dei genitori.82 Il rock si rivela dunque campione della
controcultura di massa, in grado di proporre capillarmente i nuovi archetipi
generazionali: Beatles e Rolling Stones incarnano mediaticamente questi miti
adolescenziali. Il jazz si ritaglia uno spazio all’interno di questo immaginario e l’Europa
diventa la seconda patria di questa musica: non subisce più passivamente il ruolo di
colonia musicale degli Usa, ma si mostra in grado di elaborare un suo proprio approccio
e un contributo originale attraverso una leva di musicisti che si sono liberati del
complesso di inferiorità verso i padri americani. Gli europei portano in dote al jazz tutta
una serie di concezioni e significati maturati nell’ambito dell’avanguardia post-
weberniana83. Il referente costituito dal jazz americano diventa un interlocutore con cui
confrontarsi partendo da una base paritaria. In relazione a quanto affermato, paiono
molto significative le dichiarazioni fatte da Michel Portal: “Al momento dell’apparizione
del free, io ho capito che il jazz, e in particolare la sua forma più libera, non era un
fenomeno specificamente americano, ma che questa reazione nei confronti dell’ordine
poteva essere perfettamente vissuta da dei musicisti europei, in periodo di crisi, come
risoluzione di tensioni sociali. Il maggio 1968 è arrivato e il free è stato una festa in
reazione al passato commerciale della musica”84. La posizione personale di Portal è quasi
un esempio paradigmatico del modo in cui verrà vissuto il free divenuto musica creativa,
secondo la terminologia usata in Francia, in Germania e in Italia. L’adesione ai principi
del free americano non si è limitata semplicemente all’acquisizione di un idioma
musicale, di un codice stilistico. L’insegnamento che ne hanno tratto i musicisti più
preparati dal punto di vista culturale, era esattamente il contrario: non più imitazione
delle forme, ma ispirazione dai contenuti filosofici del nuovo jazz. Ha scritto Gino
Castaldo che: “La black music chiedeva, con esplicita chiarezza, di impegnarsi nella
propria realtà, di inventare un linguaggio provocatoriamente rivolto alle contraddizioni
della società, di distruggere i tradizionali schemi dello spettacolo musicale, di saper trarre
ispirazione e linfa creativa dal proprio impegno quotidiano. Chiedeva, in altre parole, di
fare cultura rivoluzionaria”85. Naturalmente questo tipo di cultura non nasce dal nulla e
richiede un periodo di gestazione, di messa a punto degli strumenti culturali necessari.
La guerra fredda in campo internazionale aveva avuto come esito negativo anche un
“congelamento” della cultura. Se gli anni Cinquanta avevano rappresentato il
conformismo ideologico, la logica rigorosa dei blocchi, la ripresa economica e poi il vero
“boom”, gli anni Sessanta incominciavano con tutta una serie di nuovi fermenti culturali;
germi dell’avanguardia cominciavano a muoversi dalle periferie del paese, coagulandosi
in primi nuclei di una certa rilevanza a Roma, Milano, Torino. I giovani, che erano per la
prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale liberi da preoccupazioni
economiche, forti di una miglior preparazione culturale, potevano riflettere sui valori che
la società borghese proponeva loro. Questi anni sono stati una lunga preparazione al
1968. I nuovi modelli culturali immessi dal rock e dal pop mostravano la vivacità della
cultura americana che diveniva sempre più un mito o un termine di confronto
imprescindibile per le nuove generazioni. Gli anni Sessanta si aprono con una politica
istituzionale meno rigida ed inquadrata: dal 1963 torna al governo una forza di sinistra,
82
Per una analisi approfondita del rapporto tra rock, pop controcultura e industria dello spettacolo negli anni Sessanta rimando a:
Giaime Pintor, “Il pop: i tempi e i luoghi di una moda”, in A.A.V.V., La musica in Italia, Roma: Savelli, 1977.
83
Arrigo Polillo, “Il jazz”, op. cit., p.296.
84
Citato da Arrigo Polillo in: “Il Jazz”, op. cit., p.296. Le parole di Michel Portal, un allievo del maestro dell’avanguardia
Stockhausen, sono tratte da una intervista del 1973.
85
Gino Castaldo, “Motivi e ragioni per un jazz italiano”, in A.A.V.V., La musica in Italia, op. cit., p.117. Il saggio di Castaldo è
una bella lettura degli esordi del nuovo jazz “libero” in Italia, con un occhio particolare alla matrice politico-ideologica insita nelle
elaborazioni teoriche dei nuovi protagonisti dell’avanguardia del nostro paese; segnatamente Castaldo affida il ruolo principale di
questa rottura della tradizione a Mario Schiano, cui è dedicata tutta l’ultima parte del lavoro.
27
dopo l’estromissione voluta da De Gasperi nel 1948. Con il partito socialista inserito
nella compagine governativa, si apre così la contraddittoria stagione del centrosinistra,
che si sarebbe dovuta caratterizzare come un periodo di riforme sociali e istituzionali.
Dopo alcuni primi tentativi come la riforma della scuola e la nazionalizzazione
dell’energia elettrica, il centro sinistra, dilaniato da divisioni tra partiti e l’immobilismo
della politica italiana, si mostrò incapace di perseguire la trasformazione, in senso
autenticamente moderno, dello stato italiano. Tutti i nodi politici ed economici rimasero
irrisolti mentre proprio nella metà degli anni Sessanta l’Italia dovette subire un
rallentamento nella crescita, la cosiddetta “congiuntura”. Paul Ginsborg riassume la
contraddittorietà di questo periodo: “Tra il 1962 e il 1968 i governi di centro-sinistra erano
falliti nel rispondere alle esigenze di un’Italia in rapido cambiamento. Essi avevano fatto
insieme troppo e troppo poco, nel senso che avevano parlato quasi ininterrottamente di
riforme ma lasciando poi deluse quasi tutte le aspettative. Dal 1968 in avanti l'inerzia dei
vertici fu sostituita dall’attività della base. Quello che seguì fu uno straordinario periodo di
fermento sociale, la più grande stagione di azione collettiva nella storia della Repubblica.
Durante questi anni l’organizzazione della società fu messa in discussione a quasi tutti i
livelli. L’Italia non eguagliò certo, per intensità e potenziale rivoluzionario, i fatti del maggio
’68 in Francia, ma il movimento di protesta fu il più profondo e il più duraturo in
Europa”86. Basterebbero le parole di Ginsborg a spiegare l’unicità delle vicende italiane.
La longue durée del ciclo rivoluzionario ha comportato una ampia elaborazione di precise
esigenze culturali, nuovi modi di rapportarsi in modo antagonista e “polemico” nei
confronti dell’ordine sociale borghese. Nella sacca del giovane rivoluzionario non
potevano mancare, tra gli altri, le bibbie riconosciute del movimento, quelle che si
potrebbero definire le “tre M”: Marx, Marcuse, Mao. In questo ordine: l’ortodossia del
comunismo, la filosofia critica della società tecnologica avanzata e, infine, la prassi
rivoluzionaria.
Il jazz rappresenta uno dei linguaggi che si prestano a questo ruolo di rottura nei
confronti delle convenzioni. Una di quelle arti che –secondo L’Adorno dei Minima Moralia-
dovrebbero introdurre caos nell’ordine. Come risposta creativa alle nuove esigenze
culturali e come mimesi dei fermenti sociali, il jazz riapre il discorso sui ruoli tradizionali
del “fare musica”. Per capire la profonda frattura operata nel corso dei primi anni
Sessanta da un ristretto numero di artisti d’avanguardia bisogna brevemente inquadrare
il mondo del jazz italiano del decennio precedente. Gli anni Cinquanta si caratterizzano
per la continuità con il passato: gli appassionati di jazz si configurano come una
“carboneria”, custodi di una musica per adepti che vive nella pedestre imitazione
calligrafica del modello americano. Il jazz viene vissuto da musicisti, critici e
appassionati come un impegno da tempo libero. La rivista Musica jazz, che costituisce il
centro di raccordo per queste tre categorie di addetti ai lavori, lo prova,
emblematicamente. Tutti i collaboratori, direttore compreso, svolgevano attività
lavorative diverse e concepivano il jazz come una cosa “altra”, una “passione” a sé,
slegata dal resto della loro vita. Una critica di questo tipo non può che auto orientarsi ad
analizzare il fenomeno jazzistico dal punto di vista storico-biografico, imitando anch’essa,
come facevano i musicisti, i suoi corrispettivi americani, ignorando tutti i problemi
politici-sociali connessi all’esperienza afroamericana. Questo spiega perché la critica si
sia sempre fermata ad una valutazione puramente estetica della musica, non riuscendo
ad andare oltre l’assioma dell’ art pour l’art. Il critico Gino Castaldo ha stigmatizzato
questo atteggiamento come forma mentis dopolavoristica. La maggior parte dei musicisti
che si dedicano al jazz si producono in grandi orchestre o sono musicisti di sala

86
Paul Ginsborg, Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, torino: Einaudi, 1989, p. 404.
28
d’incisione che prestano la loro abilità tecnico-strumentale per lavori ordinari, dozzinali.
Suonano jazz per piacere personale, in piccoli locali di fronte ad un pubblico esclusivo.
Professionisti della musica leggera o di quella seria, ma dilettanti del jazz. E’ il jazz da
“taverna piemontese e barbera”, come lo ha definito il pianista e compositore Gaetano
Liguori. La musica non è che un mero esercizio di abilità artigianale e mai diventa il
campo di una elaborazione teorica originale. L’ambito culturale in cui si muove il
musicista italiano è quello “dell’ideologia e della visione del mondo piccolo e medio
borghese, priva di agganci culturali, di riferimenti se non quelli del qualunquismo e del
rifiuto della politica”87. Fa eco a queste parole la considerazione di Castaldo: “Se in
America il jazz era una musica in movimento, caratterizzata dall’instabilità sociale, dalla
dialettica e dallo scontro razziale, se era la musica socialmente più sporca che ci fosse, in
Italia diventava una innocua e non problematica passione per tranquilli e benpensanti
signori”88. Avvisaglie di cambiamento arrivano da Bologna, città roccaforte del partito
comunista, che verso la metà degli anni Sessanta propone concerti di Charles Mingus e
di Chet Baker. Personalità “sopportate, minoritarie, sperimentali” le definisce lo scrittore
e regista Italo Moscati. Forme d’arte sicuramente alternative, per la provincia italiana del
periodo89. Ma è con la nascita di un free jazz italiano che si verifica il cambiamento. Si
tratta di una lacerazione profonda che segna la mancanza totale di qualsiasi tipo di
continuità tra il vecchio e il nuovo. In Europa ed in Italia il free si manifesta come un
fenomeno forse ancora più dirompente che non negli stessi Stati Uniti. In parte perché
arriva contemporaneamente al 1968 e il fascino di pensare una immaginazione al potere
col sassofono, di farsi interpreti di un’estetica della rivoluzione diventa una tentazione
irresistibile per i giovani della nuova controcultura. Prima di arrivare agli avvenimenti
politici di fine decennio, c’è stato un intenso lavorio sotterraneo, da parte di giovani
intellettuali ribelli che tentano di produrre nuovi modelli artistici alternativi a quelli
proposti dalla società borghese. Roma diventa il centro di questo movimento che
coinvolge cinema, poesia, letteratura e teatro90. Dalla provincia arrivano giovani artisti
(come il sassofonista Mario Schiano) con la voglia di creare e di organizzare spazi
alternativi per la fruizione della cultura. Vengono aperti i primi locali, i primi spazi in
cui si suona free e si discutono i significati della nuova musica.91 Ricorda Schiano:
“Arrivano i libri di Ginsberg. Si suona e, finalmente, si parla pure. Nasce il Gruppo
Romano Free Jazz, con Pecori e Marcello Melis. Bel momento a Roma. L’underground. Il
87
Enrico Cogno, Jazz inchiesta: Italia., Bologna: Cappelli Editore, 1971, p.62; la frase riportata è tratta dall’intervento di Alberto
Rodriguez, critico musicale.
88
Gino Castaldo, op. cit., p. 133.
89
Italo Moscati, 1967. tuoni prima del maggio, Padova: Marsilio, 1997, p.14.
90
L’avanguardia romana si ritrova in Trastevere. Particolare interesse rivestono i tentativi di teatro sperimentale con Carmelo
Bene, Mario Ricci e Giancarlo Nanni. Si vede anche molto cinema al Filmstudio, mentre i bar di piazza Santa Maria in Trastevere
sono il ritrovo abituale per commentare tutte queste esperienze. Sul tema: Alberto Rodriguez, “Il caso Schiano”, in Musica Jazz,
n.6, 1975, p.9-10.
91
Franco Pecori spiega in questi termini la propria adesione all’avanguardia del Gruppo Romano di Free Jazz: “In quel momento,
il valore degli strumentisti in sé doveva passare in secondo piano rispetto al senso che certe scelte musicali potevano assumere.
Era necessario dare a queste scelte una dimensione esplicitamente dialettica, per investire il campo ideologico-politico e insomma
culturale in senso forte”. Franco Pecori, “Sull’ideologia della critica”, in Musica Jazz, n.8, 1975, p.9. Quindi la scelta andava
condivisa con il pubblico e discussa. Andava ricostruito con l’ascoltatore un nuovo tipo di rapporto che lo rendesse compartecipe
delle scelte. Per rispondere a questa necessità di confronto dialettico, dopo il concerto Pecori leggeva il “programma-manifesto”,
uno scritto volutamente provocatorio che doveva suscitare una reazione nell’uditorio e mettere a nudo le contraddizioni dell’arte.
Ricorda Pecori che le discussioni dopo i concerti duravano fino a tarda notte e non investivano solo il tema dell’arte. Ecco un
estratto del manifesto: “All’orecchio abituato ad un certo tipo di ascolto, la nostra musica può dare l’impressione del disordine,
quando non addirittura del gratuito e dell’arbitrario; ma quest’apparenza è dovuta proprio al rifiuto di una arbitrarietà. Noi
pensiamo che arbitrario sia estrarre dal mondo alcuni eventi presunti felici per metterli tutti in fila a comporre la cosiddetta
Opera d’Arte: un’opera eterna, universale, intangibile, come si diceva una volta”. Franco Pecori, Manifesto del Gruppo Romano
di Free Jazz, Roma 25 novembre 1966.In Analizzare il continuo, articolo di Franco Pecori, Musica jazz, n. 4 1969.
29
Beat 72: Steve Lacy, Paul Bley, Gato Barbieri con Don Cherry”92. Al Beat 72 si mette in
scena il Don Chisciotte di Leo De Berardinis e Carmelo Bene. Il jazz è una notevole fonte
di ispirazione per il teatro e per Leo de Berardinis in particolare93. Scrive Gianni Manzella
a proposito di questo spettacolo: “Era infatti soprattutto Bene a entrare dentro il racconto,
facendosi coinvolgere nella scena che egli stesso contribuiva a disegnare, (…) Di contro si
ergeva la lettura “fredda” di Leo, una vera e propria contrapposizione jazzistica della sua
voce-suono a quella dell’altro.”94 Che non si tratti di una citazione sporadica Leo De
Berardinis lo mostrerà utilizzando il free jazz in gran parte del suo teatro sperimentale
degli anni Settanta, con i musicisti coinvolti direttamente nell’azione scenica sul palco e
con le musiche a giocare un ruolo ben più alto rispetto a quello di integrazione di
immagine e suono. Lo stimolo alla nascita dei primi gruppi di free, viene dalla presenza
a Roma di diversi musicisti creativi americani ed europei di valore. Successivamente la
sfera prettamente musicale, in una situazione sociale e culturale cangiante, lascerà il
campo a motivazioni che assumono sempre più un carattere extra-artistico. Ricorda
Schiano:. “il clima di tensione si respirava già qualche anno prima, nel ‘66-67. Al Beat 72
suonavamo con la polizia fuori dal locale, probabilmente perché eravamo considerati dei
sovversivi! Per cui, quando il clima si fa più pesante, con l’occupazione delle università e
delle fabbriche, ci sentiamo già preparati”95. Il movimento giovanile, in polemica con il
pensiero borghese, comincia ad imporre una diversa visione del mondo, che ben presto
si riempie di contenuti politici. L’anno chiave del cambiamento per quanto riguarda il
jazz è il 1966. Nasce il Gruppo Romano Free Jazz con Schiano, Pecori e Melis; mentre il
pianista- compositore Giorgio Gaslini incide un disco destinato a fare epoca nella storia
del free, non solo italiano: la suite Nuovi Sentimenti, con la partecipazione della miglior
avanguardia europea e americana, la stessa che soggiornava in quel periodo a Roma:
Lacy, Barbieri, Cherry. Giorgio Gaslini, autore della suite, si era già messo in luce nel
1957 con Tempo e relazione, una partitura in cui il musicista milanese tentava di
coniugare il linguaggio jazz e la tecnica seriale dodecafonica. Il nostro, in possesso di un
solido bagaglio di studi classici e di una precoce passione per il jazz si è ritagliato uno
spazio importante nel jazz italiano, contribuendo con il suo lavoro a quella rottura delle
convenzioni tradizionali che i musicisti free contemporaneamente tentavano in altre
direzioni. Già dalla suite Oltre, Gaslini aveva incominciato a cercare un dialogo con il
pubblico. Nel 1966, dopo Nuovi Sentimenti, questa pratica divenne abituale e con un
preciso significato sociale e politico. Gaslini lo ha definito: “un allargamento della
democrazia al mondo del concerto”96. Questo approccio alla musica venne poi adottato in
quasi tutti i contesti della musica d’avanguardia italiana, dove i musicisti si
sottoponevano spesso al confronto con il pubblico. Gaslini da intellettuale globale non si
limitava a scrivere e suonare musica ma era anche teorico delle concezioni ideali che
stavano alla base della sua opera. Egli teorizza la figura del musicista totale, cioè in
grado di concorrere alla creazione dell’uomo totale. Totale significa “operare per un tutto
futuro, al vertice di un’evoluzione del mondo, (ove sia) superato ogni dogmatismo stilistico
limitato a culture specifiche e ci dichiariamo per l’assunzione di tutte le culture musicali in
unico atto libero di creazione espressiva. Ci proponiamo un’arte popolare che raccolga le

92
Alberto Rodriguez, art. cit. p.9.
93
Si pensi al film A charlie Parker, del 1970 dove il jazzista americano compare solo “in spirito” evocato per la sua “solitudine di
artista”, condizione comune al di là delle distanze sociali e geografiche. Cfr, Gianni Manzella, La bellezza amara, Parma: Pratiche
Editrice, 1993, p.41-42.
94
Gianni Manzella, op.cit, p.37.
95
Pierpaolo Faggiano, Un cielo di stelle. Parole e musica di Mario Schiano, Roma: Manifestolibri, 2003, p.
39.
96
Adriano Bassi, Giorgio Gaslini, prefazione di Enzo Restagno, Padova: Franco Muzzio, 1986, p.82.
30
membra sparse di tutto l’uomo, che preannunci una civiltà dell’uomo, unica, totale e al
vertice di una evoluzione spirituale, di un processo storico. In questa prospettiva il
musicista è tenuto ad interessarsi di altri e non c’è più posto per presunzioni di valore
stilistico”.97 Queste riflessioni, in forma di manifesto, esprimono il Gaslini-pensiero del
1965-1966, anche se vennero raccolte e pubblicate in volume solo nella metà degli anni
Settanta. Si possono fare diverse osservazioni su queste righe, che hanno valore di
riflessione generale sul periodo e non solo sull’autore. Il concetto di musica totale, che
non è una invenzione di Gaslini, anche se per merito suo questo slogan programmatico
ha avuto negli anni successivi ampia fortuna,98 implica un’idea di apertura culturale e
disponibilità verso il diverso che è di per sé politica: l’artista non è più creatore del bello
ma ricettacolo di tutte le esperienze della società. L’antidogmatismo, la volontà di creare
un uomo nuovo, saranno tratti caratteristici del ‘68. Gaslini pare cogliere, con qualche
anno di anticipo, temi che costituiranno la base filosofica del movimento studentesco,
ma evidentemente questo, che era il clima culturale della metà degli anni Sessanta, non
poteva sfuggire a un artista colto come Gaslini. A proposito della sua estrazione colta,
bisogna notare che in lui è già presente un certo rifiuto del ruolo dell’intellettuale
classico, nonostante i propri lavori abbondino di riferimenti alla tradizione “alta”
occidentale. Infatti, non manca un richiamo alla cultura popolare, anche se questo
rimane un innesto operato da un uomo che è in primis un compositore, abituato dunque
a considerare la musica come una costruzione mentale. Inutile dire che la valorizzazione
della musica popolare caratterizzerà tutto il jazz degli anni Settanta, non solo come
rifiuto della “coscienza colta” legata alla borghesia, ma anche come referente di classe.
Discorso che vale per il free come per la “canzone politica”, riesumata proprio nel 1968.
Di questo uso di forme di espressione popolari è paladino il già evocato Mario Schiano.
La sua presenza nel mondo dell’underground romano è una stridente contraddizione agli
occhi del pubblico tradizionale del jazz: “un giovanotto con un sax perfino scassato,
incapace di rovesciare un giusto quantitativo di note all’ora, come se fossimo alla Fiat, non
andava bene, e più che ai musicisti, ad un certo establishment organizzativo romano,
abituato a coccolare pochi pupilli e ad adorare qualunque cosa purché proveniente
dall’America”99. Da sottolineare l’accostamento “operista” jazz-fiat introdotto da
Rodriguez per descrivere i nuovi meccanismi che legano la musica alla sua produzione
materiale. La rottura dei codici espressivi deve liberare creatività e fantasia in vista di
una riappropriazione della libertà negata dalla realtà ma conseguibile nella sfera
artistica. Nel contempo si deve di evitare che accada il contrario: che le catene di una
società “bloccata” influiscano sul processo dell’attività creativa. Secondo Rodriguez si
tratta di “rompere la catena di montaggio degli accordi arpeggiati e rivoltati, della
produzione di note in serie”. Intuizione che questo critico mutua dall’Adorno della
Introduzione alla sociologia della musica, dove la catena di montaggio assume il valore di
simbolo dei comportamenti che si estendono dalla produzione industriale a tutta la
società, anche a quei settori “creativi” dove non si dovrebbe assolutamente procedere
secondo questi schemi. Il lavoro, anche quello intellettuale e artistico, assume
virtualmente “la forma della ripetizione di procedimenti sempre identici”100. Schiano e
Gaslini sono, in modi differenti e quasi antitetici, i primi esempi di un jazz libero da
preoccupazioni commerciali e volto sia al recupero della musica popolare, sia al discorso

97
Giorgio Gaslini, Musica totale, Milano: Feltrinelli, 1975, p. 99.
98
Per una critica a Musica Totale si veda la recensione di Giuseppe Piacentino in Musica Jazz n.6, 1975, p.45. Per Piacentino
Gaslini ragiona in termini assiomatici e rigidamente schematici, partendo da premesse ideologiche che il recensore non si sente di
condividere.
99
Alberto Rodriguez, “Il caso Schiano”, in Musica Jazz, n.6, 1975, p.9.
100
Theodor Adorno, Introduzione alla Sociologia della musica, Torino: Einaudi, 1962, p.59-60.
31
sociale e politico; nell’intenzione di avvicinare un pubblico diverso da quello della
ristretta cerchia degli appassionati. Gli inizi, sotto questo profilo, non sono confortanti
per Schiano che spesso deve suonare per pochissime persone, mentre Gaslini, artista
affermato, incontra un crescente seguito di pubblico. Il free jazz italiano degli inizi è un
fenomeno prettamente elitario, ancor più del jazz tradizionale. Il rifiuto di moduli
comunicativi comprensibili alle masse è tipico di un atteggiamento di rifiuto verso tutto
ciò che può essere considerato “commerciabile” dal mondo dell’industria e dello
spettacolo. “Se di pretesa vogliamo parlare, non è certo quella di esclusività politico-
rivoluzionaria, ma caso mai, quella di radicalismo e, per l’appunto , di avanguardia, in tutti
i sensi consentiti dalla dialettica espressione-società”. Il free italiano degli anni Sessanta
nelle teorizzazioni di Gaslini e di Pecori, e nelle esemplificazioni “traumatiche” per il
pubblico convenzionale di Schiano, andò verso una ridefinizione del sistema dei segni
che permettesse una comunicazione diversa come diverso si supponeva il pubblico
destinatario ultimo del messaggio. Ce n'est qu'un début potremmo dire per rimanere nel
clima, citando gli studenti della Sorbona.
Questo discorso non era che la base teorica di tutto quanto avrebbe prodotto il free nel
decennio successivo. L’esplosione di pubblico è successiva e data dalla fine degli anni
Sessanta, quando tutta la società presa in un vortice di cambiamento e di grande
vivacità culturale crea le condizioni per l’avvicinamento di un pubblico giovanile più
consistente, in cerca di una musica “alternativa” e non commerciale. A questo punto, e
sotto la spinta del cambiamento, si realizza la saldatura della politica con le masse
giovanili. Queste portano in dote alla cultura e all’arte una nuova visione del mondo, in
cui la politica, intesa in senso esteso, gioca un ruolo predominante e pervasivo. La
stessa rivista Musica Jazz in quel periodo rompe gli indugi e avvia una discussione sul
significato del free, proponendo saggi di giovani critici come i già citati Alberto Rodriguez
e Franco Pecori (musicista vicino a Schiano). Come già ricordato, lo stesso anno Shepp
si esibì a Lecco, mettendo a rumore l’ambiente del jazz tradizionale. Il 1968 della musica
creativa italiana vide invece due importanti avvenimenti: una serie di concerti di Schiano
e del suo gruppo in uno spettacolo dal titolo emblematico, Il free jazz di fronte alla realtà
del sistema, anticipatore di una commistione tra musica, immagini, ed azioni teatrali,
seguito dall’ormai consueto dibattito con il pubblico. L’altro avvenimento vide impegnato
Giorgio Gaslini in una operazione di contaminazione tra musica ed immagini, poesia e
impegno politico. Il fiume furore, jazz per il movimento studentesco-Canto per i martiri
negri in memoria di Martin Luther King, opera registrata nel maggio dello stesso anno,
raccoglieva in presa diretta, tramite documenti sonori sulle manifestazioni studentesche
a Milano e Parigi, il clima del periodo, con le voci di Salvatore Quasimodo e Clebert Ford.
Con il concerto tenuto assieme a Max Roach qualche settimana prima, questo disco
costituisce la prima vera affermazione di un legame organico del jazz con la politica e
con il Movimento Studentesco. Il jazz italiano diventa realmente in questo momento
portatore di un grido di protesta e di un attestato di fede verso il cambiamento. Nello
stesso anno Mario Schiano accompagna con il suo trio il Living Theatre che propone
Paradise Now. Di nuovo jazz e teatro sperimentale. Ma anche un clima politico-sociale
che sta cambiando. Non sono più Schiano con il suo sassofono o gli attori sul palco a
dare scandalo, è la gente comune, gli spettatori che rifiutano questo ruolo e assurgono a
protagonisti della scena. Ecco il resoconto dello spettacolo di Urbino proposto dall’
Espresso e raccolto poi con altre testimonianze dallo studioso Enrico Cogno in Jazz
inchiesta Italia. “Sono le nove di sera e comincia lo spettacolo. Non sulla pedana,
naturalmente, perché non si può entrare a causa della ressa, ma sulle scalette che portano
nella cantina-teatro.(…)si sente intonare un salmo marocchino. Sono gli attori che arrivano
coperti di stracci. ma restano bloccati anche loro sui primi scalini, tra le urla, gli insulti, gli
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spintoni. Lo spettacolo continua là, fra le scale, la cantina e la piazza, da cui arrivano
minacciose proteste. Finalmente Julian Beck riesce a farsi strada con pochi compagni e a
raggiungere la pedana. Sulla sua scia si muovono anche i tre musicisti(…). E così cantina,
piazza, scale, lo spettacolo va avanti per un’altra ora. I tre musicisti suonano con i gomiti
degli spettatori sullo stomaco. Sembra impossibile che riescano a soffiare e a battere sui
loro strumenti. Nel caos generale si sentono soltanto i sibili del sassofono di Schiano, il
quale incurante del groviglio, continua a suonare. (…) E così va avanti fino all’una di notte,
mentre i musicisti continuano a suonare. Lo spettacolo è finito, ma nessuno ha visto
Paradise Now. Ora sono tutti nell’unica trattoria aperta, studenti, attori, musicisti. Se ne
parlerà fino alle quattro del mattino…”101 Se il teatro subiva il fascino del jazz, un media
come il cinema non poteva certamente trovarsi in disparte. Toccò proprio nel 1968 al
regista Ugo Gregoretti girare un film su di un grande sciopero operaio. Apollon Fabbrica
occupata evidenzia come una cartina al tornasole l’attrazione provata dagli intellettuali
nei confronti dell’operaismo e vede di nuovo all’opera per la colonna sonora102 l’urlante
sax di Mario Schiano che accompagna i momenti più caldi dello sciopero.103 Hegeliana
“morte dell’arte” (e fine del padrone) riassunta in quella sintesi superiore ed
onnicomprensiva che è la centralità della classe operaia. Sempre del 1969 è la prima
uscita discografica dello Schiano Trio, dall’emblematico titolo Ogni giorno in piazza. Sul
finire dell’anno segnato dalla contestazione studentesca, si vedono le prime esibizioni di
Cecil Taylor e Ornette Coleman. Fu proprio un contestato concerto di Taylor del 1969 a
Milano ad entusiasmare il giovane pianista Gaetano Liguori e a portarlo ad abbracciare
l’atonalismo. Purtroppo il 1969 è anche l’anno della strage di piazza Fontana, della morte
dell’anarchico Pinelli e del commissario Calabresi. La fine di un periodo. Entrando negli
anni Settanta l’azione collettiva inizia progressivamente a sfilacciarsi, tra settarismi
politici e frange armate. Da una “politica di massa creativa”, come è stata definita dallo
studioso Sidney Tarrow, si passa ad una azione più radicale sotto la direzione di gruppi
e partiti politici, nati a loro volta dal picco intensivo della protesta di fine anni
Sessanta104. Il jazz di protesta diventa un fenomeno di costume, parte del patrimonio
genetico del giovane di sinistra. Gli anni Settanta videro un grosso successo di pubblico
per il jazz e le sue contaminazioni nei festival musicali che si svolgevano in tutta Italia:
“Ce ne sarà uno alla settimana, e sempre con gli stessi nomi: gli Area, Giorgio Gaslini, gli
Stormy Six, il Canzoniere Internazionale, il gruppo Folk internazionale di Moni Ovadia e il
Trio Idea di Gaetano Liguori”105.
La musica jazz, accerchiata con una manovra a tenaglia tra happening tardo
woodstockiani, assimilazione forzata nelle feste di partito stile Unità, conformismi
dogmatici di alcuni gruppi extraparlamentari, degenerazioni violente e autoriduzioni
rock, si è rapidamente allontanata dai contenuti innovativi abbinati all’agire sociale. E
anche in questo –potremmo concludere- ha seguito fedelmente nei tempi la parabola
discendente dei movimenti radicali della sinistra italiana.

Non dirò il titolo del brano che ora eseguiremo, perché è “di sinistra”. (fischi…risate)106.
Guido Mazzon
101
Enrico Cogno, Jazz inchiesta Italia, op.cit., pp.190-193.
102
La colonna sonora di Apollon Fabbrica occupata è stata pubblicato in allegato al libro di Pierpaolo
Faggiano, Un cielo di Stelle, edito da Manifestolibri.
103
Franco Bergoglio, Il regista in fabbrica. Alcune riflessioni su operaismo e prassi culturale, nella rivista: Per il Sessantotto,
Pistoia, Centro di Documentazione di Pistoia, n.17/18, 1999; p. 63.
104
Sidney Tarrow, Demorazia e disordine. Movimenti di protesta e politici in Italia.1965-1970, Bari, Laterza, 1990, p.116.
105
Gaetano Liguori, Un pianoforte contro. Conversazione con Claudio Sessa, Milano, Selene, 2003, p. 59.
106
Guido Mazzon, La tromba a cilindri, Como, Ibis, 2008, p.89.
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