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RIVOLUZIONE LESSICALE,
FORMALE E TEMATICA DI
FRANCESCO DE GREGORI
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nella parte letteraria che è fortemente archetipica: tende a mutare pochissimo nel
tempo. L’ottocento e il novecento con la rivoluzione industriale e le guerre offrono
novità essenziali e operano uno “scarto di norma”. C’è poi nei testi, anche più antichi,
della canzone popolare, una propensione al fantastico, al favolesco, al ripetitivo
magico, in una parola al “romantico” tout-court, che la canzone colta (nel senso di
civile, con autori precisi) percepisce solo molto più tardi. 1
A conti fatti nella canzone colta si perpetua l’amore sommo, alto, spesso pura
pantomima di idealizzazione, in quella popolare l’amore è dolore, è gioia, ma è anche
ben presente (pur tra mille sottintesi) è , vale a dire, terrestre.
Nella canzone colta l’amore ha i contorni mai persi del tutto della narrazione da
mitologia , da epica, e bisognerà aspettare tanto perché scenda su questa terra e si renda
credibile, visibile.
Altrove ho scritto che per seguire le fila e le trasformazioni che hanno portato in Italia
ad una canzone nazional-popolare è opera vana tuffarsi nello sterminato patrimonio
popolare così ben indagato da Leydi, Calvino, Liberovici e altri.
Una canzone popolare italiana, tutta italiana, non esiste (la fatica di Cantacronache e
Nuovo canzoniere italiano a questo riguardo è stata sovrumana). Non esiste perché noi
possediamo soltanto tradizione regionale, e anche nelle diverse regioni, tradizioni
vieppiù sparpagliate e sconosciute l’una all’altra. Cioè , come rimarca De Mauro , la
“canzone popolare” italiana non ha avuto nella storia “potere di scambio”, non si è
trasferita geograficamente, è rimasta nei suoi confini senza valicarli. Ma questa è una
vecchia storia: la sorte della canzone non è che una conseguenza strutturale della
generale divisione sociale e politica dell’Italia, senza possibilità di ricuciture.
1
È opportuno ricordare che quando distinguiamo tra “colto” e “popolare” non intendiamo la cultura come una etichetta di
superiorità intellettiva, concessa a chi ha studiato, a chi sa, ma neppure come una sorta di modalità riflessa e puramente
razionale tipica solo dei ceti privilegiati; bensì come indagine sentimentale ed etica in divenire nella struttura sociale.
Allo stesso modo il canto popolare non è casuale invenzione di beceri sconosciuti e operazione di ingenui o dilettanti, ma
espressione originale, influenza di tensioni e pulsioni primarie.
La connotazione fondamentale della “canzone colta” è la ricerca di moduli e forme: il suo crescere o cedere o sbandare
nella lezione della cronaca e della storia. La connotazione del “canto popolare” è la sua fissità, la sua massima spontaneità,
quel suo essere “alle radici”. Ma è altresì chiaro che anche il canto popolare ha a che fare col “nuovo” e gli si pone contro
e gli va incontro con un’antica saggezza che gli fa da regolamento.
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Questo non significa (anzi!) che le decine e decine di modi di rappresentarsi in faccia
alla vita all’amore e alla società delle regioni sia segno di subcultura, di sottovalore. Il
patrimonio musicale e letterario dialettale è l’immenso e di primissimo piano: ma non
possiamo farne un SISTEMA. Possiamo catalogare somiglianze e differenze tra modi
di dire ed espressioni gergali: possiamo notare nel tempo passaggi tematici a seconda
del nome nuovo che prendono antichi nemici come la miseria, la fame, a seconda dei
nuovi padroni.
Ma a parte che ancora tutto ciò resterebbe un discorso circoscritto ai singoli dialetti, ai
singoli luoghi (canzone d’uso), e quindi un lavoro infinito e con risultati poco
plausibili, quel che non è mutato, quel che è rimasto intatto nel tempo è proprio il
significante verbale della canzone regionale e il nostro lavoro vuole invece proprio
ricercare come la storia del nostro paese ha portato alla trasformazione del linguaggio
in canzone (oltre che di tematiche). Vogliamo cioè tentare di scoprire come lentamente,
inesorabilmente si è andata costruendo una POETICA TESTUALE per brani in musica
con scarti di norme, cioè con passaggi che superino l’immutabile, l’ovvio, il normale
appunto.
La forma letteraria della canzone regionale è direi “perfetta” dall’inizio. Resta quindi
quasi immutata nel tempo.2
2
E ancora una volta ciò non significa sottovalutazione. È che nell’assunto del nostro studio noi stiamo cercando quando
come e per che vie dall’italiano unificato si sia giunti ai nuovi linguaggi di italiano in canzone.
Non penso nemmeno che nella canzone popolare, tutto sia rimasto cristallizzato, fermo ai primordi come ho scritto prima.
Anche il modo di esprimersi in dialetto cambia, ma questi infiniti dialetti di infinite regioni non rientrano nello studio che
stiamo intraprendendo. Noi vogliamo scoprire dall’italiano unito in poi come la canzone si sia inventata una sua semantica
diversa ovviamente da pittura e scultura ma soprattutto da poesia e musica.
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Al contrario ,cos’è avvenuto e quando e in quali e quante maniere, perché questo
linguaggio assumesse altri aspetti e prendesse coscienza di sé e della sua modernità?
Quando e come si è tentato di costruire uno (o più) linguaggi poetici indissolubilmente
legati alla melodia e differenti, sciolti, distanti dalla poesia più o meno ufficiale?
Quando la canzone è diventata un genere a sé, non vassallo o servo di altre arti, ma
indipendente e autosufficiente, con una sua precisa semantica, una sua personale,
inconfondibile soggettività artistica? Ed è poi questo veramente avvenuto ?
Tenteremo di rispondere a queste domande.
Per secoli la poesia ha ucciso la canzone. Cioè per secoli si è pensato che per una
piccola opportuna melodia servissero versi altissimi, altisonanti, protagonisti.
Abbiamo ascoltato i trovatori, l’ars nova italiana, Petrarca e Bembo, il rinascimento: su
linee musicali apparentemente povere, svettavano versi che uno si deve leggere a casa:
trasmessi con ridondante euforia (monodici o polifonici) oggi sembrano esercizi ginnici
del cuore.
La rivoluzione dell’ultimo madrigale, che pretendeva di far sentire gli accenti ritmici
delle parole, di ascoltare il tessuto letterario, ha prodotto meravigliose gemme fredde,
nonostante le teorie di Bembo e gli sforzi di Monteverdi.
Per secoli (ma già da Saffo, da Alceo) si è pensato che musica e parole fossero due cose
da unire per una sorta di atmosfera, senza mai far caso alle loro capacità di
congiunzione, di “tutt’uno”.
E infatti la musica greca era composta su nòmoi, cioè schemi fissi su cui raccontare. E
infatti tutti i trovatori a parte due o tre occasioni si assomigliano rovinosamente in
quella testardaggine di accoppiare una nenia incolore a versi presunti altissimi sulla
purezza della donna.
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L’equivoco universale (che non è della canzone popolare*) è stato quello di musicare
versi, accompagnare versi, sublimare versi con note. 3
La “forma canzone” non ha mai trovato nel tempo, nei secoli una sua identità precisa
che non fosse musica più parole, che identità non è.
Questo perché in Italia non si è mai assistito ad un incontro serio e paritario fra
musicisti e letterati: a volta a volta era l’uno dei gruppi a dover prevalere sull’altro e a
considerare l’altra arte (quella non sua) un semplice commento, uno sfondo, un
completamento (leggi: polifonie, madrigali, libretti d’opera, etc.).
Le due grandi madri di un nuovo pensare “canzone”, cioè di scrivere un tutto compiuto
in sé senza parti giustapposte, sono la chanson francaise del ‘700 e la napoletana
popolaresca.
La chanson francaise deve la sua compattezza alla sua nascita per lo “spettacolo”
(salotti e saloni) e ad una tradizione che la lega indissolubilmente a ballate e a virelais
colte e popolari.
Ad un certo punto vengono espressi l’amore e la beffa (temi più ricorrenti) in un
linguaggio che non è più quello della poesia canonica e che anzi volutamente se ne
discosta assumendo una ben propria fisionomia. Così in Francia si estingue per
inadempienza, per inadattabilità al gusto comune, la canzone come genere “colto” su
cui avevano influito sia il madrigale italiano di O. Di Lasso, sia l’operazione successiva
di Ronsard e de “La Pleiade” tutta tesa a rendere intelligibili le parole, su ritmi più
classici e stantii.
Nasce uno stile fortemente sillabico e volutamente semplificato (l’AIR DE COUR)
chiaramente improntato a modelli popolari. Da qui lo straripare nel ‘700 e ‘800 della
“chanson de varietè” e dei caffè concerto.
Lo stratagemma fu quello di considerare la canzone popolare come modello. Là tutto
era compatto e cantabile, non esistevano forzature di composizione.
3
Nella forma dialettale (stornelli, villanelle, etc.) ciò non avviene, perché le parole nascono in quella data melodia e
quella melodia (nonché il ritmo o il tempo) è consustanziale alle parole: non esiste cioè un esercizio letterario a cui
adattare una musica, né una musica a cui sovrapporre in un secondo tempo dei versi. Ma è pur vero che queste strutture
dialettali sono e restano come nascono: non sviluppano variazioni. In altro campo sono come un vaso o una capanna, una
lenza, un arco. Restano fedeli alla loro origine perché così devono essere e un mutamento corrisponderebbe ad uno
snaturamento.
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Per la canzone napoletana non è neppure esistito un processo di diversificazione. La
canzone napoletana è un tutt’uno di testo e musica già dalle origini, perché è sempre
stata nazional-popolare. Non esiste, non è mai esistita a Napoli un’alienità, una non
corrispondenza tra musica e parole, perché il dialetto era lingua di un regno già dal
‘500 e il popolare coincideva perfettamente col “colto”. La canzone napoletana è già
alla sua origine canzone, non sovrapposizione: le culture angioine, aragonesi, spagnole
erano cioè in linea perfetta col canto popolare: la canzone non pretendeva di avere una
lingua letteraria a sé, perché nasceva come lingua di canzone e basta. Tantovero che
l’impatto col popolaresco (rifacimento del popolare) e la canzone d’autore risultano
indolori alla “napoletanità” perché sintomo di un “idem sentire”.
Molto più tribolata la nascita di un linguaggio per musica in Italia. Bisogna premettere
che l’Italia non aveva nell’ ‘800 una lingua. Non esisteva come a Napoli, come in
Francia un modo di esprimere comune che si tramutasse in melodia. Nel 1899 il 70%
degli italiani sono analfabeti e il 90% non conoscono una lingua comune.
Il sillogismo è presto fatto: solo chi possiede una lingua comune può:
1) parlare a tutti
2) parlare del presente rifuggendo le astrazioni
3) far nascere musica e testo l’uno per l’altra.
Francia e Napoli potevano. L’Italia no. E aggiungiamo per l’ennesima volta che
Francia e Napoli potevano pescare nel “popolare” fino a sollevarlo a medio-colto (per
Napoli era addirittura naturale). L’Italia non possedeva invece un popolare comune cui
far riferimento. Non è compito nostro evidenziare tutti i motivi di questo ritardo. Essi
vanno dalla disintegrazione politica e sociale all’influenza di diverse dominazioni, al
labile senso nazionale, etc, etc. Sta di fatto che per trovare le prime parvenze di un
parlare comune dobbiamo rifarci al 1910-12 e precisamente all’epoca del governo
Giolitti. Fu l’accentramento industriale, l’inurbamento in diverse città (del nord) a
favorire la mutua comprensione fra gente venuta da luoghi disparatissimi.
Il raggiungimento di una lingua comune fu comunque lento e dispersivo.
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Il ritardo sul resto dell’Europa è ancor più sensibile se lo si considera nella lingua
letteraria. L’Italia resta per tutto l’800 ancorata a moduli classici o rinascimentali,
colmando con grande lentezza il gap che la divide dall’intender popolare del
Romanticismo, prove ne siano la semiseria di Berchet, l’epistolario tra Manzoni e
Scott, la lettera di Madame De Stael. Avviene cioè che in un mondo dove a fine secolo
Mallarmè e soci scoprono l’espressionismo, il linguaggio dell’anima tradotto in segni e
simboli di nuova poesia, Pascoli piange ancora cavalline storne, Carducci rifà il verso
ad Orazio e D’Annunzio esalta il superfluo, lo snob, privilegiando i sensi ai doni della
psiche.
È pur vero sì che nel novecento la poesia in Italia compie passi da gigante inventando
la furia futurista e riconoscendo l’espressionismo tedesco e il surrealismo francese. Ma
per operare quello “scarto di norma” auspicato in canzone è ormai troppo tardi.
Troppo tardi perché sulla nascente canzone italiana , non avendo potuto influire il
linguaggio popolare (e si è visto perché), né quello di una lingua comune (per ovvii
ritardi) né tantomeno quello letterario in evoluzione, influì a dosi massicce la
letterarietà del melodramma (e vedremo perché), antica e datata, spesso manierata e
melensa e che si rifà ad un italiano in versi di due e fin tre secoli prima.
Il melodramma (del cui successo, dello straordinario peso che ha per gli italiani medi,
della sua nascita fiorentina, del suo partir dall’alto per poi popolarizzarsi abbiamo a
lungo trattato nella tesi “dall’opera alla canzone all’italiana”) era lo spettacolo totale in
cui tutti si rivedevano, specchiavano, perfino identificavano. La trama d’amore e morte,
l’aneddotica storica, le grandi passioni, erano proprie, connaturate al carattere degli
italiani. Alto e retorico ma facilmente comprensibile entrò subito nell’immaginario
collettivo e contribuì ad accomunare la borghesia nazionale in uno stesso “slang”
accettabile nell’arte, fittizio nella realtà.
L’Opera cioè costituì un “italiano comune” letterario, prima che gli italiani avessero
una lingua corrente da parlare tutti i giorni. “Sospiri”, “aneliti”, “guiderdoni”, “aere” e
migliaia di termini simili dedotti dalla poesia pseudorinascimentale, marinista ed
arcadica furono presto compresi da tutti alla stessa maniera. Non solo: l’opera lirica
nata colta, alta, medio-borghese si trasmise come un incendio anche alle classi inferiori,
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si popolarizzò in un istante, proprio per la sua natura nazional-popolare e per le
emozioni, le tensioni che il popolo non meno che la borghesia vi avvertiva dentro.
A lungo si pensò che questo fosse l’unico linguaggio poetico consistente da seguire e
ascoltare; ragione questa (ma non l’unica) del ritardo che accusa il primo novecento
italiano in poesia sia da parte di chi scrive che da parte di chi legge. Ma l’opera di per
sé era macchinario troppo imponente, difficile da allestire e rappresentare e troppo
richiesto per soddisfare contemporaneamente la passione di tutti.
Ecco che tutto l’armamentario linguistico retrò, fantasioso, datato, si trasmette allora ad
una sorta di opera in sedicesimo, infinitamente più breve. Una trama di tre ore diventa
storia di 3-4 minuti, cantata con la stessa ridondanza ed effetto dell’opera vera. Anzi
più ridondanza, maggiore identificazione coi fatti contemporanei, con le storie di tutti i
giorni. I miti, i paesi d’oltremare, i fenomeni storici, diventano attualità: i protagonisti
(che parlano e agiscono in modo altisonante e mitico) sono uomini e donne del
novecento con le loro piccole vicende che, cantate, diventano quasi immortali. Questa
riduzione ai minimi termini si chiama “romanza” e simula alle sue origini l’andamento
melodico delle “arie” operistiche, le più orecchiabili e sentimentali.
La “romanza” (ma anche le “arie” estrapolate dal contesto del melodramma)
presentano il vantaggio di poter essere eseguite ovunque (sale, saloni, case private,
piazze etc.) e non aver bisogno di apparati scenici particolari o teatri ad hoc. In più
potevano cantarle tenori anche meno bravi o tenori improvvisati. Tutto ciò portò ad una
diffusione straripante del genere. La “romanza” è la prima canzone italiana. Come ogni
mito piccolo o grande non si trasforma più , resta, deve restare uguale a se stesso pena
la non credibilità. E quindi i temi, le storie, i protagonisti, l’amore, la morale si
cristallizzano: ma quel che è peggio si cristallizza il linguaggio che non permette
invasioni di nuovi termini o modi di dire per decenni.
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che andremo a vedere, la forma lessicale, la terminologia, infarcita di arcaismi, la
propensione al verso tronco, il finale ad effetto non cambieranno mai.
Il decennio giolittiano apre all’italiano parlato. Poco dopo i crepuscolari (Gozzano per
primo) sterzano di brutto dal passato, inventando il verso colloquiale, perfino minimale,
ma attinente alla realtà. Il proliferare di locali da ascolto e ballo facilita l’approccio
dell’italiano medio con la canzone e di lì a poco la radio completerà la popolarità di tale
forma.
Ma se l’Italia compie SCARTI DI NORMA sia nel linguaggio parlato che in quello
poetico, resta ferma al palo nel campo canzonettiero: cioè non pende né di qua ne di là.
Così il linguaggio in canzone risulta sì diverso, differenziato da quello letterario
(nonché dal parlar comune), ma anche fine a sé stesso, fittizio, autopromosso,
antiquato, in una parola FALSO. Vedremo che per arrivare a quello vero (i liguri,
Mogol, De Gregori, e per altre vie il canzoniere italiano) ci vorrà tempo e fatica.
Voglio dire che sì la “canzone italiana” è un genere che si discosta da altre espressioni
artistiche, ma lo fa con una terminologia e una forma appiccicata, giustapposta, non
congrua, non attenta alle cose, al vero, all’espressione che cambia, alla società che
cambia. E quindi questa forma non può essere assolutamente accettabile come “a sé”,
propria di un’arte. È un prestito, un furto, un rabberciamento, una collection di
anticaglie, non una costruzione originale, Naturale, come vedremo, che anche le storie,
le trame resteranno ancorate ad un simile linguaggio che altrove non può portare se non
alla retorica, al moralismo intensivo, all’effetto scenico etc.
Assistiamo così fra le due guerre ad un proliferare di brani (quasi una clonazione) dove
l’iperbole, l’immaginifico puro, l’inverosimile diventan storie di tutti. Di queste trame,
dei personaggi, del concetto di donna e amore abbiamo costruito già un’analisi
capillare sulla dispensa “dall’opera alla canzone”, e non insisteremo qui. Abbiamo
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altresì sezionato una parte antologica riassuntiva, ma rappresentativa e anche quella è a
disposizione nella citata dispensa. Trame e modo di esprimerle van di pari passo
(purtroppo), s’è detto; traggo da T. De Mauro alcuni esaltanti esempi: “qual seduzione
ognun prova” [ ALCOVA 1921] – “ Beffa atroce dell’uman dolor” [ADDIO
TABARIN 1922] – “Hanno la chioma bruna/ hanno la febbre in cor/ chi va a cercar
fortuna/ vi troverà l’amor” [TANGO DELLE CAPINERE 1922] – “Un desio
d’ebbrezza e nulla più” [RE DI CUORI 1929] “Occhi a mandorla che invan/ tenti di
tener lontan” [SCIANGAI – LILL 1932].
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Più pesante è il discorso per gli anni del secondo dopoguerra: qui, come dice Borgna, è
proprio il governo, la democrazia cristiana a cavalcare la canzone come tampone, “a
usarla a fini di retroguardia, per allinearla alla concomitante restaurazione economica e
politica”. In un periodo in cui cinema, teatro e letteratura operano in opposizione non
controllabile, la canzone di larga diffusione popolare diventa un’arma straordinaria
attraverso i canali di promozione (radio e poi televisione) che sono completamente in
mano al governo: ecco allora il fiorire (o rifiorire) dei buoni sentimenti, delle storielle
consolatorie, del quieto vivere, della rassicurazione sociale, del premio ai buoni e del
castigo ai cattivi etc.
È il solito fine: la gente, il popolo voleva quelle canzoni (e quelle parole) perché a
quelle era abituata: chiudeva gli occhi e assaporava una realtà mai vista, del tutto
onirica e improbabile come una rivincita alla propria esistenza terra-terra. Quindi
sgombriamo una volta per tutte l’equivoco: non è popolare ciò che si fa piacere al
popolo, ma ciò che viene dal popolo e assomiglia veramente al popolo. La diffusione,
pur immensa, di qualsiasi forma d’arte non è tout-court “popolarità”. Questo avevano
capito nel loro titanico e impossibile tentativo il CANTACRONACHE e il NCI. Ma
erano ormai Davide (e senza fionda) contro Golia.
Il testo di una canzone, quando “spaccia”, o “falsifica” o “illude senza proporre” o
comunque “esalta” “alza i toni, il tiro”, “sopisce il contrasto”, “celebra vizi nazionali o
li giustifica come valori di popolo” non è popolare è solo facilmente ammiccante,
consolatorio, buonista e colpisce chi ascolta, rende falsamente euforici e contenti come
il medico fa felice l’ammalato mentendogli sulla gravità della sua salute.
Ma non basta: la verità, principio fondamentale nella canzone popolare (verità che è
anche probabilità che i sogni si avverino) non deve per forza corrispondere alla totalità
di una popolazione. Possono esistere cioè verità più limitate (a certi gruppi, singoli), e
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non per questo meno vere. Sto dicendo cioè che il valore esistenziale e sociale di un
testo di canzone non è direttamente proporzionale alla sua diffusione, all’accettazione
totale. E nemmeno alla sua immediata comprensibilità. Sto cioè intraprendendo una
strada minata che dal vero porta al bello.
Fermo restando che la canzone all’italiana ha per gran tempo perpetuato un “non vero”
spacciandolo per popolare quando popolare non era; anche dove le parole si attengono
al “vissuto” e l’autore non bara, la canzone può restare un piacevole o interessante
documentario; ma per arrivare al “bello” ci vogliono ben altri requisiti. Ma sul concetto
di “bello” (in canzone) torneremo in seguito, quando saremo più in argomento.
La canzone all’italiana, dunque, esprime un “non vero”. Ma tutta la canzone
all’italiana? Tutta per cinquant’anni? Direi proprio di no. Il periodo giolittiano e
l’avvento di Gozzano da qualcuno sono stati certamente recepiti, Armando Gill ad
esempio. Canzoni come “Come pioveva” e “Cara piccina” a giudizio di Borgna
operano la scelta di raccontare un episodio svolgendolo completamente in un italiano
finalmente depurato dagli arcaismi e dai moduli letterari, colloquiale fino alla tecnica di
inserire nei versi il dialogo (!), alla maniera dei crepuscolari. “Queste canzoni sono le
prime con frasi melodiche più brevi, adatte alla danza. Sono moderne” e, aggiungo io,
le storie in esse raccontate sono credibili, di quelle che possono capitare a tutti, e quindi
“vere”. Siamo ben oltre la romanza.
Negli anni trenta non c’è solo manierismo, ripetitività, gusto del sorprendente e del
“non vero”: ma “appaiono anche Spadaro e De Angelis, lo swing e il sincopato, il
surrealismo di Mascheroni e di Kramer. E poi Rabagliati, Natalino Otto e il Trio
Lescano. Gli autori (pochi in verità) di versi escono dal confine, si sbizzarriscono, si
divertono: “ma le gambe” è del 1938. “La gelosia non è più di moda "del ’39,
“Preferisco il ‘900" del ’37 e del ’38 ancora “Signorina grandi firme”.
Questa attenzione ai ritmi, ai suggerimenti esteri (in pieno fascismo!) è già una prima
evoluzione; essa va a colmare l’ansia, la sete di novità in quella sezione di popolazione
(giovani soprattutto) che ne han piene le tasche di amori eterni, amorazzi e amorucoli,
ed è la prima corrente (sotterranea ma nemmeno troppo), la prima crepa che s’insinua
nel muro granitico della vecchia canzone-litania.
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Il fenomeno “all’italiana”, non s’acquieterà per un bel pezzo ancora, la farà da padrone,
ma intanto eventi sociali e culturali cominciano ad essere avvertiti da un bel po’ di
gente e fanno capolino qua e là musicisti e versificatori coraggiosi.
Fino a Modugno, fino ai cantautori genovesi (ma anche agli apporti rock americani),
questo “nuovo che avanza” non farà mai il botto, ma sarà pur vivo ed operante
(Buscagione, Bruno Martino, Carosone etc.).
Come sempre, per una rivoluzione totale, ci vorrà un forte, fortissimo segnale di
mutamento nai costumi, nelle scelte e perfino nei valori. I figli della seconda guerra
mondiale, quasi rinascendo dal niente, da una “tabula rasa” opereranno in vari modi
questo scarto di norma, questo approccio al “vero” e in molti casi al “bello”. Comincerà
da quegli anni la storia del linguaggio per la canzone che taglierà i ponti col passato e
cercherà di proporsi una fisionomia poetica originale e autonoma, differente da quella
della poesia scritta.
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popolare) anche ciò che descrive un “vero” di una parte di individui o di un individuo
solo.
5) Alcuni (pochi) autori degli anni ’20 e ’30, seguendo la lezione crepuscolare e
leggendo meglio tra le pieghe dei mutamenti sociali, sono riusciti ad esprimere una
forma di canzone “vera”, che si è attenuta a sentimenti credibili e a situazioni non
“border line”.
6) Si precisa che il concetto di vero non corrisponde ad un’elaborazione, ad un
testo necessariamente realista, fotografico. Esiste anche un “vero” nei temi che trattano
i sogni. Esiste un “vero” anche nell’elaborazione comica e farsesca ed esiste un “vero”
anche nel modo di trattare il surreale (come diceva Calvino). Il “vero” in canzone non
ha niente da spartire con il “vero” manzoniano o col concetto filosofico di “vero”.
Vero è la rappresentazione di cose, persone, sentimenti reali o verosimili nella ragione
o nella fantasia. Per la ragione la risposta è immediata. Per la fantasia occorre
distinguere: il “vero fantastico” è propositivo, allegorico (si riconnette ad un vero
reale), dinamico: non è fine a sé stesso, non nasconde fole, non racchiude
sottosignificati illusori o devianti. Importante questa divisione, perché IN CANZONE,
come il reale si attiene immediatamente alla plausibilità di sentimenti e concetti
quotidiani (che siano o non siano universali), così il fantastico ha valenza “mediata” di
messaggio racchiuso in un simbolo che sia traducibile più o meno “immediatamente” in
immagini vive o messaggi plausibili o comunque in sensazioni forti ed evocative, come
una piccola sfida ad aprire veli sottili (ci ritorneremo per De Andrè, De Gregori,
Fossati). Quest’ultima caratteristica è la più vicina alla poesia pura, ma se ne distingue
per l’assoluta semplicità e maneggevolezza, nonché per una costruzione più
intelligibile di metafore: vale a dire che le figure di pensiero in canzone vanno costruite
con pezzi (termini, parole) comprensibili anche se la struttura finale non risulta in sé,
subito, meccanicamente chiara: chi ascolta deve prima avvertire un “senso”, poi, se è il
caso (ma non sempre lo è), tradurlo. La metafora in poesia invece parte già spesso da
termini singoli oscuri per approdare ad una figura di pensiero certamente più complessa
e da affrontare con altro spirito. La differenza è dettata da tempo, spazio e musica. La
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canzone non ha spazio che non sia quello dell’estensione musicale e si trova così ad
avere due “significanti” da accordare tra loro, laddove la poesia ne ha uno solo.
Il rinascimento della canzone italiana parte dal “ground zero” del dopoguerra. Fa leva
sulle totali mutazioni del tessuto sociale, politico, intellettuale dagli anni ’50 in poi.
Abbiamo già indagato tutto questo nella dispensa sulla canzone italiana (capitolo
finale) e sulla canzone d’autore (primo capitolo).
Ci limitiamo a considerare che la prima generazione del dopoguerra è, come si dice, “di
rottura”. Non si riconosce cioè negli obiettivi, negli ideali, nella realtà dei padri; è
povera di certezze e “universali”, conosce sentimenti nuovi come l’angoscia, la noia, la
solitudine, l’impotenza e altresì la rabbia: vuole cambiare, trasformare, ricostruire, ma
non sempre ha chiaro come farlo. Questo “spleen”, questa dubbiosità dilagante, questa
scontentezza generalizzata si rivelano in gradi e forme diverse a seconda dei ceti,
dell’educazione, della collocazione geografica e trovano sfogo in canoni del tutto
differenti che vanno dall’esistenziale al politico, allo sfogo disimpegnato. Ciò è
avvertibile in ogni campo dell’arte (cinema, teatro, pittura, narrativa, poesia), e per
ragioni strutturali (perché ogni società è struttura e tutto cresce, cala, si sposta assieme),
in canzone e nel linguaggio della canzone.
Le nuove generazioni conoscono Eliot, Pound, Neruda, leggono gli italiani
contemporanei, ascoltano la grande stagione di chansonniers francesi, s’innamorano del
grande jazz, paragonano le dubbiosità, le paure, le angosce e le gioie dei grandi maestri
alle proprie. Alcuni provano una grande ansia di esprimere: se stessi per prima cosa,
come misura involontaria del mondo esterno, dal mondo dentro. Per farlo si accorgono
della assoluta necessità di creare musica e parole tutte e due insieme, senza demandare
ad altri l’uno o l’altro supporto. La canzone d’autore nasce da questo malessere e
disagio interpretativo della inderogabile unità di segni (musica e parole), non alienabili
e strettamente personali. È questa la risposta che chiamiamo esistenziale.
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Altri, non tutti giovani per la verità, sentiranno l’esigenza di riscoprire le fonti più
autentiche della canzone indagando nell’universo dei canti regionali popolari. Schifati e
inveleniti dal “non vero” , dal “finto popolare” della canzone all’italiana, sempre più
costruita e commerciale, si lanceranno in quest’impresa romantica e un po’ utopica.
Non solo, alla ricerca e raccolta (opera più da intellettuali) accoppieranno la ri-
composizione. Cioè tenteranno di scrivere canzoni popolari italiane sui canoni di quelle
regionali. È questo l’indirizzo che chiameremo social-politico. Altri ancora si
accontenteranno di proposte, novità, cambiamenti a forte matrice estetica, formale,
privilegiando cioè una sorta di sfogo ludico, di appagamento emotivo immediato a
scapito di contorcimenti interiori e ricerche intellettuali. Per costoro fondamentale sarà
la scoperta del rock americano. È questo il genere che chiameremo di sfogo
disimpegnato.
In tutto questo bailamme non è che la vecchia canzone scompaia, assolutamente no. Ma
cambia spesso veste formale; rinnova in parte il linguaggio, propagando però sempre,
anche se in diverso modo gli stessi temi ritriti e snocciolando retorica come se niente
fosse stato. Non è nostro scopo un’analisi particolareggiata delle diverse semantiche
linguistiche di questo “rinascimento”. Ci basterà individuare alcuni punti salienti.
Denominatore comune dei diversi generi (o scuole o strade) è l’attinenza al vero, a
cominciare dal linguaggio che elimina ogni tipo di arcaismo e qualsiasi sintagma in
odore di poesia. L’espressione è sempre più equiparabile al “parlato”, direi alla prosa,
pur se in diverse maniere. Questo “parlato” è nei primi cantautori semplice ed
essenziale, a volte volutamente un po’ rude, persino non sintatticamente
consequenziale, come se i pensieri uscissero in modo disordinato, istintivamente. Sarà
maestro in questo proprio F. De Gregori. Volontariamente vengono eliminate frasi ad
effetto, ori e orpelli, spesso pure la rima. I versi sono spezzati, sciolti, le parole
travalicano e forzano la melodia che è quasi sempre semplicissima, perché in fin dei
conti opera di dilettanti, di improvvisatori. In Paoli, Tenco, Lauzi, si nota una ricerca
straordinaria di termini mai usati in canzone (perché considerati poveri o inadatti, o
antipoetici) che marcano la plasticità delle immagini cantate (Sassi, camerieri
maleducati, soffitto viola, mi sono innamorato perché non avevo niente da fare,
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scopare, mani grandi, donne e motori, via Broletto numero 34, alle dieci di mattina con
l’abito da sera).
Questa terminologia è perfettamente consona, in linea con la tematica (d’amore o
sconforto, di provvisorietà o inquietudine) che viene espressa con assoluto
minimalismo: niente è universale, ma quel che capita a me è di tutti. Non c’è mito, non
esiste soluzione. Conclusione: la risposta “alta” non viene nemmeno cercata (“Tutto è
qui nelle tue mani”) e appaga o rimanda ad altro sempre in una catena di apparenti
piccole cose. Gli ambienti cambiano (bar, soffitte, strade, tram), la storia è ferma dal
principio alla fine, non ha quasi mai svolgimento (come succedeva nella romanza),
proprio perché è un pensiero, un sentimento di un attimo a proporla. Evidentissimo
tutto ciò in Tenco, per il quale tutto è già segnato, determinato da principio (Ragazzo
mio/ lontano, lontano) in una sorta di impotenza sdegnata e rabbiosa, con nessuna
apertura alla “prassi politica”. La donna, l’amore sono in genere sofferenza, ma per il
proprio equilibrio, non per l’amore in sé, non per una qualsiasi ricerca d’armonia di
coppia.
E l’amore è delirio di un attimo non prolungabile oppure appagamento forte ma scisso
dal tempo, da considerazioni d’eternità (“senza fine”). Paoli, Tenco, Lauzi, Endrigo ma
persino il primo De Andrè aprono la strada al primo vero linguaggio in canzone, forse
anche più di Modugno che ne è il capostipite.
Significa che con loro la canzone finisce di essere un genere ibrido, di consolazione o
comunque “minore” che per darsi una voce deve ricorrere ad altre arti (poesia o
musica). Significa che con loro la “forma canzone” diventa veramente genere artistico
a sé perché non copia, non approfitta, non fa il verso: si distingue. Parla ed esprime
come melodia vuole in 3/4 minuti e questa sua espressione non ha niente in comune
con la versificazione colta e neppure con le litanie popolari.
È come se da qui il linguaggio in canzone cominciasse a costruirsi su se stesso senza
andare a pescare in altre forme letterarie che non gli appartengono, e a furia di
costruirsi troverà varianti provvisorie e più o meno definitive anche semanticamente
agli antipodi come le accadrà per i due grandi divergenti caposcuola Mogol e De
Gregori.
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Altro grande linguaggio colloquiale, vivo, importantissimo è quello che nasce nel 1957
a Torino per merito di Calvino, Liberovici, Fortini. L’operazione non ha svicoli, è a
muso duro e si ripromette ”di riportare nella canzone italiana il duro contenuto della
cronaca quotidiana”. Verità vera, prassi, nessun (o pochi) coinvolgimento personale,
nessun egocentrismo. Un neo-realismo soffocante intriso di immagini e di metafore
ingenue, naif, come verrebbero in mente al popolo minuto, di primo acchito. È canzone
di protesta e di analisi sociologica, fortemente avvinghiata al disastro dell’Italia minore,
prevaricata e illusa in quegli anni.
L’intento è di sciorinare una prosa rabbiosa e propositiva in poesia: bandire ogni
astrazione e parlar chiaro: considerare la canzone non come un possesso personale, ma
cumulativo di tutti gli italiani per illustrare con sentimenti primordiali, soprusi, disagi,
voglia di riscossa, di chi è stato beffato, di chi è emarginato. Nel ’62 a rafforzare questo
gruppo denominato “cantacronache” interverrà il N.C.I. (Bosio e Leydi) che ha in
Giovanna Marini e Ivan Della mea Mea i cantori più alti.
La notevole differenza di linguaggio rispetto alla canzone d’autore (asciutto, preciso,
con nomi e cognomi, senza tremiti d’amore perduto ecc) è ovviamente conseguenza del
diverso proposito di questi intellettuali in canzoni: Cantacronache e N.C.I. sono lontani
mille miglia dai dubbi esistenziali, dal disagio di vivere dei cantautori: il loro
messaggio è di lotta, di prassi, di azione e deve necessariamente passare attraverso una
denuncia, una testimonianza forte, appassionata, di stampo politico. Non poco spazio
avranno quindi le fabbriche occupate, la pietà per i popoli in guerra (“Piccolo An”), e
per la nostra guerra; i partigiani e i fascisti, le bandiere rosse, i treni affollati di povera
gente. Ma altresì (Dario Fo, Laura Betti, la Vanoni seguiranno a ruota), il degrado
cittadino, le condizioni delle prostitute dei “rochetè”, dei morti di fame e dei poveri
cristi (Iannacci).
Questo linguaggio in canzone rappresenta come una costruzione improvvisa e tutta
insieme di qualcosa che nella storia italiana non è mai esistita e cioè quasi una
ricostruzione postuma della canzone nazional-popolare.
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Si è voluto immaginare come avrebbero scritto oggi gli italiani le loro canzoni popolari
se avessero avuto una tradizione popolare unitaria, cosa mai successa. Naturalmente
rimase (e rimane) uno straordinario esercizio, un appassionato grido di verità, ma non
colpì nessuna maggioranza e non riuscì a competere, fuori, né coi cantautori, né coi
rokkettari.
Ma il linguaggio di “cantacronache” è un altro grande esempio di ricerca di libertà
semantica in canzone (o di ripresa , perché nella canzone popolare di altri paesi e
regionale in Italia questa libertà già esisteva). Ed ebbe come vedremo importanti
influssi su gran parte della ricerca linguistica nei cantautori degli anni ’70 da Guccini a
Bennato, da Venditti a De Gregori.
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leggermente più anziano il pubblico della evoluta canzone italiana; più giovane, spesso
in erba quello dei “venti” americani.
Il personaggio del “paroliere” (brutto termine, confermo) svolge negli anni 60/70 un
compito primario, vario, complicato da un nugolo di esigenze commerciali e
d’immagine per cui si trova spesso a dover mettere d’accordo se stesso, l’autore della
musica e l’editore (con tutti i suoi interessi), senza perdere di vista l’immediatezza del
linguaggio e (se si tratta di cover), la fedeltà almeno apparente delle traduzioni. I "
"Parolieri", chiamati poeti per la verità , hanno riempito tutta la storia dei primi 50 anni
della canzone italiana: ma là eravamo nel campo del “non vero”; dell’imitativo, del
ripetitivo, a parte le poche citate occasioni. Il “paroliere-poeta” poteva usar la retorica
che voleva, ma non poteva trasgredire alle norme del bon-ton, della morale asfissiante,
degli stereotipi in auge (sesso-tabù, donna-madre, donna-perdizione, casetta-città,
amore-eternità).
Il “paroliere” degli anni 60/70 invece viaggia tra libertà e affanno cercando
generalmente più del “vero”, il “possibile” a volte il caso-limite, l’astruso, che però
siano già desideri, sogni nell’immaginario collettivo: deve cioè quasi sempre ricoprire
una funzione adulatoria e accattivante sul pubblico, cercando di sputtanarsi il meno
possibile. La canzone deve “prendere” subito, non esistono preamboli o sottigliezze:
bisogna trovare un’idea vincente che resti, buchi l’ascolto, diventi proverbio o simbolo.
La battaglia col “vero” di cui parlavamo, qui si fa pesante ed incerta e non sempre
definibile. “Vero” ma ammiccante è “Il ragazzo della via Gluck”: “vero” ma
“strapaese” “Sarà quel che sarà”; “vero” ma ovvio “Piove” o “Addio, addio” di
Modugno. “Vero” a guardar bene anche “L’italiano” di Minellono ma forzato sui toni
più scontati, molto, molto vicino alla retorica del passato. Eppur tutte queste e altre
mille canzoni del rinnovato melodismo italiano han già una lingua differente, fatta di
cose e di immagini quotidiane, senza voli pindarici inutili e retrò. Nel loro strizzar
l’occhio alla commerciabilità, alle vendite, al mercato che ormai la fa da padrone,
risultano spesso ovvie ma non malefiche, a parte i casi in cui la trappola del
sentimentalismo appare più che evidente.
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Perché questo è il grande salto: nascono i media. Si comunicano sentimenti con una
facilità incredibile. Si vendono sentimenti. Direi a conti fatti che la nuova “canzone
italiana” muta radicalmente nel linguaggio che si fa finalmente discorsivo e attuale, ma
tende ancora a catturare l’attenzione con sentimenti e sogni datati, facili da esprimere e
da leggere, ancora parecchio falsamente consolatori.
È il caso di “Fin che la barca va”, di “Taxi”, di “Non ho l’età”, perfino di “Una lacrima
sul viso” e di “Zingara” e via dicendo.
Io ho vissuto quel tempo, ero giovane di bottega, prima dell’impegno, prima di
conoscere De Andrè e Guccini. Non si pensava nemmeno per un secondo al male o al
bene, al brutto o al bello, al messaggio, a meno che non fosse descritto in modo
scontato o per la rivoluzione o per la reazione. C’era una gran frenesia tra noi parolieri
di trovare l’idea strabiliante, il giro di parole che prendesse tutti, la storia d’amore in
cui ci fosse perfetta identificazione del pubblico. Tutto ciò era sicuramente per molti
dettato dalla richiesta commerciale, dalle vendite, dall’allineamento con l’industria: un
paroliere vincente era un paroliere ricercato e spesso usato. Io non l’ho mai vissuta
così, tantovero che non ho mai scritto grandi successi, anzi spesso spiazzavo i dirigenti
di case discografiche a cui sembravo un pazzo con improbabili continui tentativi di
successo. Sta di fatto che io mi divertivo a cercare idee anche semplici, anche
disincantate: vivevo questa schizofrenia tra l’impegno smisurato delle canzoni che mi
scrivevo in segreto e il gioco cialtronesco delle canzonette di consumo. Vero è che né
io, né altri più bravi di me in questo gioco vivevamo di frasi fatte: tutti noi cercavamo
un’occasione, una frase mai detta, una trama diversa dalla norma.
Non sto nemmeno a catalogare i mestieranti, i “nostalgici”, gli “ovvii”, i fasulli, i
ripetitivi: erano la maggior parte. Ma molti, i più geniali, pur strizzando l’occhio
all’effetto, costruivano comunque un linguaggio secco, alternativo, facile, da canzone
moderna di disimpegno.
In molti casi questo tipo di linguaggio rispettava il “vero” era cioè cronaca, se pur
spicciola, almeno verosimile di sentimenti. Questa ricerca di accessibilità a tutti,
barando il meno possibile portò alla scoperta di un “nuovo popolare” (pop), in cui lo
sfondo di campagna, lavoro e “rimette” varie veniva sostituito da uno scenario di città
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post-industriale e medio-borghese, e le conseguenti ripercussioni sull’amore, la gelosia,
il distacco, l’innamoramento.
In molti brani di Mina, Zanicchi, ma anche di Michele, Patty Pravo, Tessuto, Ranieri,
Fontana e altri tutto ciò è molto evidente.
Qui non stiamo facendo (ancora) un discorso sul “bello”, ma sul “credibile”,
sull’”attendibile”, sulla riproduzione non alterata e “fumettosa” della vita e, ripeto,
anche se gran parte dei parolieri purtroppo prosegue per quella strada, un bel manipolo
invece contribuisce ad una tematica e a una letterarietà importante per il linguaggio in
canzone. Potrei far nomi: uno su tutti è Mogol, ovvero Giulio Rapetti, di cui parleremo
a lungo. Ma anche altri come Testa e Calabrese sono sulla via giusta.E con Calabrese
nasce anche la grande via alla traduzione di sensibilità straniere.
Il linguaggio del “progressive” italiano merita un cenno a parte. Si è detto che imitando
schemi e melodie americane questa forma-canzone lasciava molto poco spazio alle
parole. Vero e no. Diciamo che costringeva i parolieri a giochi di prestigio e acrobazie
non da poco. Si sa che l’inglese è “slang” rapido, molto sonoro (gutturali e medie in
genere), monosillabico, tronco negli accenti, sintetico negli elementi della
proposizione: tutto ciò mancava e manca nella lingua italiana. Molto spesso quello che
il rocker americano diceva in quattro parole era intraducibile in meno di sette o otto. Si
doveva quindi stringare fino all’inverosimile, rinunciare a qualcosa, trovare un termine
che ne significasse due o tre insieme, racchiudere in un verbo solo il senso di una frase
e usare una miriade di “zeppe” per tappare i buchi (più, giù, così, ma, però, là, etc);
nonché, dove risultava impossibile l’uso di tronche (poche in italiano) rendere piana
l’ultima parola del verso, con la conseguente aggiunta di una nota semimuta.
Tutto ciò se da una parte richiedeva mestiere ed abilità, dall’altra capitava a fagiolo,
perché questa forma-canzone era rivolta soprattutto ai giovani che ritrovavano in quella
scheletricità verbale il proprio “slang”, il proprio modo di comunicare.
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Anche in questo genere esisteva del “non-vero” e del “vero” o meglio verosimile. Certo
che si attizzavano ideali e sogni (in modo generalizzato, non politico stretto) fino
gli eccessi dell’animo giovanile, contrario alla “normalità", così propenso al “tutto o
niente”.
Fu soprattutto il linguaggio dei “gruppi” di quegli anni (Camaleonti, Dick Dick, Corvi,
New Trolls e anche se pur meno attenti Nuovi Angeli, Neanderthalmen, etc).
Svago e disimpegno, s’è detto, quindi nessuna ricerca profonda, almeno fino ad un
certo punto. Ma ribadisco che qui non stiamo facendo un discorso di valori né ci
proponiamo un trattato estetico. Stiamo solo verificando dove le parole in canzone
siano state linguaggio a sé e testimoni di un modo di vivere, di una cultura.
In molti casi sia l’evoluzione della canzone leggera, sia l’elaborazione del disegno
americano presentano questi crismi e non restano inascoltate dai successori.
Si va formando cioè un bagaglio di espressioni, modi di dire, schemi; si va specificando
un vocabolario di segni diretti o evocativi che diventeranno patrimonio comune del
significare in musica e questo resta importante e storico.
Tre filoni anzi quattro, quindi, con varianti, è ovvio ,e intersecazioni, sorpassi e ritorni,
ma in generale tre (o quattro) filoni di lingua e linguaggio in canzone. Nessuno di
questi può essere accomunato alla poesia tradizionale, classica. Nessuno alle anticaglie
dei secoli precedenti. Tutti e quattro in diverse maniere procedono dal linguaggio
parlato, sono esplicativi (chiari) e momentanei (rapidi). Tutti e quattro hanno un
vocabolario sempre più specializzato. Tutti si attengono alla tematica del reale e del
quotidiano: laddove irrompono i sogni, sono sogni d’oggi; se la costruzione è
favolistica adombra comunque contemporaneità e ricerca di valori aperti, di libertà
espressiva ed affettiva.
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Le storie diventano segmenti di storia; piccoli apologhi: più spesso al posto della storia
c’è un’autoconfessione, un ritratto, un incontro fuori dal tempo. L’io (e non solo nella
canzone d’autore) tende ad essere protagonista, perché più vivo, più emotivo. La
metafora è rara e semplice nei termini da congiungere; più frequente (e questo viene dal
folk) la similitudine.
La canzone si fa specchio della contemporaneità: sia che questa comporti dubbi e
disegni esistenziali, sia che proponga dilemmi sociali e prassi politiche, sia che mostri
l’aspetto immediato, semplificato delle cose e dell’amore.
De Andrè,Guccini
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se vivesse nel momento in cui scrive e sprizza rabbia vera, dubbi veri, verissimi,
malinconia universale. Il suo linguaggio è un fiume in piena, perfino ridondante,
eccessivo, pieno di parentesi e ritorni, con frequenti salti di scena e d’umore, una prosa
lirica senza fine. In lui la lezione americana è colta molto diversamente dai gruppi
“progressive” italiani, se si escludono i Nomadi. Guccini guarda a Dylan, ma va perfino
oltre, gli altri pensavano a Presley, ai Mama’s and Papa’s, ai Clearence, e pur
raramente, ai Beatles.
De Andrè e Guccini rappresentano forse e tutt’oggi il più alto grado raggiunto dal
linguaggio in canzone. Si deve dunque scrivere così una canzone? La domanda è mal
posta. Come se chiedessi: “Si deve per forza dipingere come Leonardo o Rembrandt?”
No. I capolavori in ogni campo sono e restano pochi, van seguiti e studiati, vanno
collezionati, anche fin dove è possibile (e quasi mai è possibile) imitati, ma chiusa lì.
Al nostro discorso non interessa che esistano picchi di inaccessibilità, valori sopra la
norma. A noi interessa la norma, che cioè esista in modo più generale, un linguaggio
originale, proprio specifico della forma-canzone che non debba essere servo o figlio di
altri generi letterari. Certo più questo linguaggio è alto più ne siamo fieri, ma noi
dobbiamo guardare alla “medietà”, dobbiamo scoprire cioè se una particolare tecnica,
una particolare “ispiratività” permettano l’esistenza di una POETICA della canzone.
E crediamo di sì.
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??medietà significa saper conciliare un discorso alto e un discorso basso. Avere cioè
eleganza, sottigliezza, intuizioni sorprendenti e far arrivare tutto ciò a chi ascolta
di primo acchito, senza bisogno di mediazioni.
??non copiare mai, non lasciarsi prendere dalla voglia di strafare; studiare per anni
con intelligenza il mercato, i riflessi del sociale, cosa richiede la gente.
??e medietà è infine perfino “poesia”, di quella che arriva, quando si capisce che
non è costruita apposta, ma è naturale, istintiva.
Ora Mogol non sempre è rientrato in questi canoni. Esiste una valanga di sue canzoni
(ne ha scritte migliaia) dove la “medietà” viene sopraffatta dalla ruffianeria, dal
mestiere, dall’interesse. Ma ci furono delle scusanti e oltretutto in quelle canzoni si
dimostra comunque un grande professionista del verso e del senso. E poi era molto
giovane.
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Ma da un certo momento in poi Mogol inventa e propone una particolare tecnica di
versificazione che non mi vergogno di definire la vera poetica in musica, sicuramente
quella che assomiglia di più al modello popolare , a sé stante, originale, di linguaggio in
canzone. Mogol è il linguaggio in canzone.
Nel corso degli ultimi 40 anni Mogol ha scritto tra le più belle canzoni italiane. Ha fatto
uso di questa medietà (attenzione il termine è positivo) per rivestire di versi
perfettamente idonei, centrati , melodie cantate da tutti i grandi, Mina, Celentano,
Cocciante, Morandi, etc. e da emergenti notevoli. Ma il suo nome, il suo lavoro, la sua
opera è indissolubilmente legata all’incontro con Battisti.
Connubio strano, stranissimo, unico. Unico perché diversissimi erano i personaggi:
romano, popolareccio, chiuso l’uno; nordico, febbrile, scatenato l’altro: grande
musicista in senso internazionale Battisti, capace di unire la pensosità dei primi
cantautori al grande “song” orchestrale americano senza dimenticare né la canzone
“all’italiana” né i Beatles. Una miniera di idee e motivi, ma parole zero.
Estroverso, illimitato, giocoliere del verso Mogol non si fece scappare questa occasione
che era poi l’occasione della sua vita, perché il vero “cantautore” tra i due in fondo
risulta lui che in quegli anni e in quegli album ha riversato tutto se stesso, tutta la sua
personalità. È Battisti che canta, ma canta Mogol, non se stesso; Mogol che è una
specie di Cyrano nell’ombra (nemmeno tanto poi) e mette in bocca a chi le sa dir
meglio parole sue.
Battisti era geniale: sapeva trovare soluzioni melodiche e giri d’accordi impensabili;
non raramente univa pezzi di melodie diverse ma necessarie l’una all’altra, svariava sul
polifonico, sapeva creare le attese, aveva “refrain” da pelle d’oca. Ma questo si sa e non
è di lui che dobbiamo parlare.
Erano due forze della natura, a volte mi chiedo come riuscissero a sopportarsi, come
riuscissero a convincersi l’un l’altro. Ma di certo so, che nonostante la gran musica,
nonostante il grande impatto popolare Battisti non sarebbe stato Battisti senza i versi di
Mogol.
Cos’hanno di speciale queste canzoni? Tutto. Lo stravolgimento degli schemi narrativi,
l’invenzione del dialogo a due e con sé stessi, l’introduzione di due tempi diversi
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(memoria e presente) nello stesso brano, la rappresentazione scenica, a quadro, spesso
dialogata; la città e la natura come protagonisti e cose vive; l’uso di improvvise,
inaspettate metafore e similitudini (come può lo scoglio…), tutte popolarissime,
semplicissime; l’eufonia di quasi tutte le parole; la concentrazione miracolosa del tema
di tutta la canzone in un solo verso (I giardini di marzo, pensieri e parole, mi ritorni in
mente, voglio Anna, Balla Linda, Non sarà un’avventura etc.): l’assoluta assenza di
moralismi e giudizi: la rappresentazione del dolore con i fatti, con gli accadimenti e
non con le parole del protagonista; e tanto ancora. All’ascolto il coinvolgimento è
pressochè totale anche dove e quando Mogol svaria e gioca (Motocicletta, la gallina
coccodè). Ecco che dalla sua timidezza salta fuori a ventaglio tutto quel che voleva dire
e non ha mai detto, come in “Emozioni” forse la sua prova più intensa, dove quattro o
cinque immagini straordinarie definiscono l’anima di un uomo, le sue contraddizioni e
solitudini.
Mai come con Battisti Mogol deve essere stato libero di inventare. Nella sua mente c’è
la vita che scorre, e non solo nella dimensione di chi canta, ma degli altri che lo
circondano, di tutti (si pensi a 29 settembre dell’Equipe), quasi la canzone fosse la
cattura di un momento contemporaneo di persone e cose che s’incontrano (fiori rosa
etc.) e non solo la descrizione monotona di un amore.
A questo sfavillio di piani che s’intersecano Mogol mette a supporto descrizioni chiare
intercalate da improvvise figure di pensiero, o da oggetti apparentemente fuori luogo
che interrompono il flusso (il melo, il carretto di gelati, la bocca coi piselli), ma che ci
schiacciano nella realtà, perché, attenzione, è come se dicesse io invento, ma invento
tra cose che esistono.
L’apparire di frasi o termini semplici ma spiazzanti ci consegna la magia di Mogol.
Altra magia è l’apparente impersonalità. Battisti canta in prima persona ma risulta
difficilmente autobiografico. In realtà rappresenta il ragazzo, l’uomo medio cui
quell’avvenntura può realmente capitare: si rilegga l’andamento di “Marenero” per
convincersene. “Marenero” è una versione italiana contemporanea di “Reginella” o di
“Voce 'e notte”. La storia della bambina ,che percorre l’innocenza parallelamente al
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protagonista fino ad una certa età poi si fa donna (e prima che lui diventi uomo: “ferma
ti prego la mano”), è addirittura un archetipo junghiano e psicologia dell’età evolutiva,
è comune a me, a te, a tutti. Ma è un’idea comune scavata e liberata dai meandri
dell’essere uomo o donna, trova una giustificazione nelle realtà, è “verso”, è tendente, a
differenza di mille storie d’amore dozzinali che si adagiano sulle superfici,
sull’esteriore e non motivano le ragioni, le cause di una storia.
L’impersonalità è ancor più forte nella descrizione degli oggetti “scarpette rosse, arance
ancor più rosse” dove non essendo di nessuno un ricordo del genere, finisce per essere
favola e quindi di tutti.
Si è prodotto dunque durante gli ultimi 50 anni un vero e proprio linguaggio poetico in
canzone? Un linguaggio autonomo? La risposta è si. Anzi direi che (come in poesia o
in prosa) un linguaggio unico non esiste, esistono principi di base, modalità d’uso su
cui formarlo ma da qui si dipartono secondo le sensibilità o il momento dell’autore
molte variazioni disponibili o sottolinguaggi. E così Vasco Rossi o Ligabue avranno il
loro “stile”, la loro impronta e lo stesso sarà per Carmen Consoli o Alice o Silvestri o i
gruppi di ogni estrazione e specie dal rap, al punk, al rock duro, alla protesta politica. Il
fine tematico o morale della forma canzone non influirà sugli strumenti grammaticali e
sintattici più di tanto, né sulla costruzione poetica o prosastica, né sulle regole basilari
della versificazione e dell’espressione in generale. Pertanto dalla “medietà” mogoliana
(in senso estetico, esterno, semantico), si potranno prendere molte strade,
intensificando o sintetizzando la forma e le parti linguistiche per esplicarla.
Ma quella lontananza, quella estraneità ai modi e alle movenze della “poesia scritta” si
è ormai verificata ed è ben radicata. La canzone è un significante tout-court, diretto, sia
che operi in modo chiaro sia che usi allegorie o simboli. La sua percezione deve essere
immediata. Il valore del testo, delle parole, la loro pregnanza, il loro messaggio non van
mai presi isolandoli dalla melodia (tranne rari casi). La signifacazione di un testo è
valutabile solo e soltanto in quella melodia: una struttura quindi. La melodia giustifica
“quella” terminologia, “quella” lunghezza di versi e strofe, “quel” contenuto,
“quell”’uso d’immagini e non di altre. La collocazione nello spazio e nel tempo, la
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necessità di una navigazione “a vista”, di una narrazione che dia subito le coordinate
differenziano sempre di più la POETICA in canzone dalla POETICA in poesia.
Laddove la poesia vive di libertà assoluta ed altri segni non ha se non la parola (a parte
gli spazi, la punteggiatura che contribuiscono parecchio), la canzone è tutt’uno con le
note che la penetrano e rinforzano o alterano, scolpiscono, determinano, suggeriscono
come ricevere e in che tipo di emozioni tradurre le parole che le riempiono.
Ed è naturale a questo punto che i due discorsi poetici debbano far uso di strumenti
diversi e percorrere spesso vie diverse, ma l’emozione, la tensione, l’appagamento
finale che possono produrre sarà lo stesso; la qualità connotativa non dipende dal segno
in sé, ma dalla sua potenza significante e la poetica in canzone, in canzone “vera”, ne
ha da vendere.
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avverto che la propria storia, la propria immedesimazione soggettiva può giocare brutti
scherzi. Bisognerebbe saper uscire dalla propria “retorica” personale, e tentare di
valutarlo da fuori per quel che è. Le categorie più a rischio sono i romantici, i giovani
in genere, i vecchi nostalgic i, tutti quelli che purtroppo hanno pochi parametri di
riferimento. La cultura del bello s’impara a poco a poco sollecitando la piccola
possibilità di ricezione che abbiamo dentro, allenandola a continui confronti,
osservazioni, ascolti e colloqui. Ma anche così non basta. C’è chi pur provandoci
all’infinito non ci arriva. Perché il bello (in canzone) è misura, organizzazione, tenuità,
in una parola armonia, dove niente sopraffà, niente è in più, niente è inutile o
esageratamente utile. Il bello è immediato, istintivo, evocativo e squarciante, è una
sorta di rivelazione: luce da una porta quando è semplice, chiave per aprire se
complesso; e allora solo allora diventa godibile e immaginifico, incanta, dà i brividi.
Bello è quando leggi parole che paiono nate e finite in quella posizione
spontaneamente, non attaccate l’una all’altra sia pur con perizia; bello è quando non
leggi, non ascolti una parola alla volta, ma tutta la frase insieme e alla fine tutta la frase
ti sembra una parola sola. Bello è quando le parole suonano da sole, danzano e sono
vive: quando la frase gira intorno al termine chiave, posto nel momento più emotivo del
canto.
Il bello in canzone (e qui è di tutte le arti) lascia traccia, non scompare nel tempo, non è
generazionale, non partecipa delle mode ed è trasversale alle età: vale più o meno per
tutte.
Infine, e questa è proprio personale, il “bello” in canzone dipende parecchio dalla
cultura, dalla discrezione (oltre che dall’ispirazione di chi scrive): ma non è una
notazione snob; perché esiste cultura e discrezione anche nel popolare oltre che nel
colto. Dove queste qualità mancano è nella larga fascia commerciale: lì le parole
diventano specchietti per le allodole e le emozioni prefabbricate non giungono a
pathos, catturano sì ma con l’inganno ai danni dei più deboli e dei più vulnerabili.
L’amore costruito in provetta può essere simile a quello vissuto o descritto con vera
sofferenza, ma brucia il tempo di un attimo e non fa la storia di una gente , di un
popolo.
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Insomma l’autore deve conoscere, essere all’altezza: deve avere diecimila parole da
scartare per usarne dieci, venti, sapere le differenze ed evitare le cadute di stile, le
tautologie, le enormità di ogni senso. E quando può, se ce l’ha come un dono, l’autore
deve sapere variare un’elaborazione con qualche guizzo, qualche sorpresa verbale,
qualche intromissione spiazzante, non perché va a cercarsele, ma perché gli vengono
naturali, ad intuito nella costruzione formale.
Il “bello”, un certo bello è anche originalità, che non significa scrivere quel che
nessuno ha mai scritto, il che è impossibile; ma, preso un contenuto usuale (ad esempio
il distacco d’amore), saperlo vedere da un angolo mai visitato, magari invertendone i
termini, o esporlo in un ambiente, in una forma, in una situazione del tutto nuova:
(“Sassi”, “Non andare via”, “Via Broletto”, Tu no” di Ciampi, “La filanda”. “29
settembre”, “Fiori rosa fiori di pesco”, “Rimmel” e “Renoir” di De Gregori, “Bella
senz’anima”, “Io no” di Vasco, “Dentro il replay” di Bersani, etc).
E il “bello” è sincerità sempre e comunque. Per questo è così presente nelle storie naif
popolari e regionali; per questo esiste nella canzone autobiografica, in quella d’autore,
dove chi scrive ha vissuto in prima persona. La sincerità a lungo andare paga, sempre.
La falsità, anche ben vestita perde.
Ma nessuna di queste cose presa isolatamente ci può dare la certezza del “bello”. Non
ce la danno neppure se prese insieme, alcune o tutte.
C’è qualcosa nel “bello” che non è una somma, un’alchimia di parti, una ricetta. C’è
qualcosa che è come un soffio magico, un’anima che a volte è presente a volte no. E
stranamente questo soffio si riconosce più di tante altre cose perché ha una
concordanza primordiale con l’essere uomini di là di sovrastrutture, pseudovalori o
mode. Bisogna però essere attentissimi a non lasciarselo sfuggire, questo soffio perché
intasati come siamo di fiction pseudo-sublimi, potremmo non riconoscerlo.
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Popolare 1-2-3 ovvero popolare, surpopolare ,criptopopolare
33
Reggio Emilia”. Lo scarto è (è stato) nell’intransigenza di una critica miope e ottusa e
perfino interessata. Dico che lo scarto è in chi intende, in chi ascolta, perché costui,
costoro non sono stati educati ad altro linguaggio, e non sono capaci di cogliere
politica, realtà, società, esistenza, dietro parole che non siano le solite facili facili.
Abbiamo detto che “popolare” di per sé è solo quello che nasce dal popolo, dal
sentimento di un gruppo, di una nazione. Verissimo. Ma dobbiamo anche guardare gli
effetti, dobbiamo anche considerare che una nazione, i suoi rapporti intrasociali, le sue
battaglie tra essere e avere, cambiano nel tempo. Non possiamo fermarci a pensare che
esiste un unico “popolare” fissato in un tempo mitico e immutabile, incontrovertibile.
Oggi è popolare (e dico oggi più che mai), anche ciò che il popolo non avverte ancora,
o, fuorviato da mediocri esempi, non vuol nemmeno ascoltare. Oggi è popolare, è
dell’animo di tanti o di tutti, anche quel che sembra spesso descritto con un linguaggio
per pochi: è solo questione di tempo e lo capiremo. Tutto ciò che parte dal “vero” senza
ammiccamenti o finzioni, tutto ciò che oggi è casualmente patrimonio di pochi, per
colpa di una miopia letteraria e di pseudo- cultura dilagante, o per altro, ha comunque
diritto di essere definito popolare. Ovvero, e per l’ultima volta, la patente di “popolare”
non la dà la maggioranza di consensi, ma l’intima essenza della poesia in canzone. Non
è solo la casualità storica del momento a dar patenti di “popolare”, ma l’autenticità
verificabile nel tempo.
Fermo restando (e qui non ci piove) che tutta la canzone regionale e popolaresco-
nazionale italiana merita questo titolo, non è detto che ciò che va oggi vada sempre
(Lisa dagli occhi blu, Zingara, Piange il telefono, Fin che la barca va, L’italiano), ma è
sicuro che ciò che è criptopopolare e di valore oggi, resterà. (O Piscespada, Vecchio
frack, Azzurro, La donna cannone, Caruso, etc).
Linguaggio
Alla ricerca o sulle orme di questo “popolare” possiamo dire che il linguaggio in
canzone percorre 4 vie:
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1) Quella di riconoscerlo nella sua autenticità e di ritrasmetterlo in forme identiche
a se stesse.
2) Quella di applicarlo a moti e movenze dell’animo e degli eventi contemporanei
non turbandone l’autenticità.
3) Quello di usarlo come specchietto per le allosole cammuffando una way of life
odierna (stortata da pseudovalori di tutti i tipi) ,fino a spacciarlo come il
“popolare” moderno.
4) Quello di sottintenderlo nella ricerca di un linguaggio più alto a livello estetico e
trasmetterlo in forme totali, parziali e personali. È ovvio che linguaggio e
contenuti vanno di pari passo.
Tutto ciò ci avvicina alla seconda parte della nostra indagine. La canzone da almeno tre
decenni ad oggi ha cercato una via poetica sua attraverso un abbellimento espressivo e
semantico, e una sorta di nobiltà letteraria a significare. Il linguaggio criptopopolare
che a prima vista sembra una significazione per pochi, più sensibili o con maggior
cultura è invece una via all'espandersi totale dell’animo e del suo modo più
espressionistico e moderno di comunicarsi: pretende uno sforzo immaginativo e
percettivo a cui bisogna abituarsi perché lo esige il tempo, lo vuole l’intelligenza, lo
reclama la sensibilità: ascoltare è spesso come vagare e cogliere colori e impressioni;
esiste cioè un realismo anche in ciò che non si capisce immediatamente, in ciò che è al
secondo piano della nostra facile, mediocre attenzione. Esiste un realismo che va capito
in altro modo, non col meccanismo di botta e risposta dell’”intelligere”, non attraverso
un collegamento naturale tra parola (o frase, o storia) e l’intendimento, ma attraverso
una sensazione globale, un sentire allargato ed emozionante di quel che si ascolta,
perché a volte capire parola per parola è ininfluente, secondario, nemmeno richiesto.
La poesia moderna (ma tutta l’arte del novecento) ci ha abituato a questo. Trasferire in
canzone una significazione di tal genere era inevitabile e importante allo stesso tempo.
Averlo fatto mantenendo i connotati di “testo in canzone” senza cedere alle meccaniche
della poesia è stato difficile ma necessario.
Rispetto alla "letteratura" ,Il testo “espressionistico”, in canzone ha cioè rimbalzo
subitaneo, capacità di coglierti più facilmente, e offre un buon livello di possibile
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immedesimazione. Resta più piccolo, più circoscritto di quello in "poesia", ma non per
questo meno alto, meno moderno, meno appagante per l'animo..
Questa difesa è necessaria non tanto a livello critico-artistico-letterario quanto politico
e sociale. Tutte una scuola di pensiero degli anni sessanta che presumeva valida una
canzone solo se lineare, “popolare” nella accezione più precisa e comunque
programmatica, propositiva a livello lotta di classe o giù di lì, mi sembra riduttiva,
spuria o miope. Insomma, la canzone da sentire, da avvertire, da godere anche nella sua
finezza, nella sua ricercatezza di lingua e immagine ha una collocazione altissima non
solo nella storia evolutiva dal linguaggio e dell’educazione a tale linguaggio, ma anche
nel suo personalissimo modo di intraprendere la lotta, comunicare messaggi, specchiare
l’umanità di oggi e di sempre, perfino al di là di contingenti attimi storici.
Tutto ciò ci porta alla seconda parte del nostro corso. Noi intendiamo indagare
attraverso le canzoni di uno dei più grandi cantautori, questa chiave criptopopolare,
questo linguaggio che chiameremmo “transmediale”, e valutarne se possibile l’apporto
al linguaggio tipico in canzone, nonché lo sforzo per attenersi non solo al “vero”, ma
soprattutto al “bello”, alla bellezza.
Ci rifaremo anzi, non a uno dei tanti, che tanti sono, ma al primo, al capostipite,
all’inventore di questa “transmedietà”, Francesco De Gregori.
Ma c’è di più: noi vogliamo dimostrare che questa “trasmedietà” in canzone non è né
parente povera, né conseguenza scontata dell’espressionismo poetico novecentesco. È
un’altra applicazione dell’espressionismo, legata solo apparentemente agli schemi
poetici del secolo. Partendo cioè da un’espressione libera, atemporale, spesso aspaziale
di un contenuto da esprimere, il testo in canzone sviluppa da De Gregori in poi, un
linguaggio tutto suo dove simboli, allegorie, metafore non appartengono al mondo della
“poetica” in poesia, ma distinguono una precisa “poetica” in canzone.
Spieghiamoci meglio e così arriveremo ai principi basilari di De Gregori.
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Il “novecento” artistico opera in tutti i campi una sorta di rivoluzione copernicana; che
porta a descrivere più quello che si SENTE di quel che si VEDE o si TOCCA. Il metro,
l’unità di misura di questo “SENTIRE” è la psiche, l’anima molto più della ragione e a
volte del semplice sentimento.
Il linguaggio dell’anima in letteratura, teatro, pittura, musica classica, sconvolge i
parametri dei secoli precedenti perché le “opere” concepite in tal modo non presentano
più quei caratteri fotografici, oggettivi, temporali di prima, e non hanno neppure una
precisa collocazione spaziale. L’”Io” è una misura strana della realtà e opera con regole
tutte sue, che lo portano a riprodurre oggetti, suoni, colori, modi di dire, non in
evoluzione schematica, precisa e diretta, ma dando priorità a ciò che colpisce di più la
persona, l’artista, provocando sbalzi improvvisi di temi e terminologie delegate ad
esprimerli senza troppa cura per l’intellegibilità immediata. Si pensi a come un
bambino disegna una casa: non c’è proporzione di parti reali, ma privilegio per i
particolari a cui la sua immaginazione annette maggior importanza (finestre grandi e
sghimbesce, camini che fumano, porte aperte o chiuse, figure umane che sono alte
come la casa). Questa istintività infantile è un po’ alla base di tutta la comunicazione
poetica da Rimbaud, Van Gogh, Bela Bartok, Bergson in poi. Non è compito nostro
spiegare come si è arrivati in pochi decenni a tale “espressionismo” pressochè totale.
La storia, il pensiero, l’economia hanno influito pesantemente sulla nascita di tale
comunicazione (decadente, incerta, dubbiosa, imperfetta); ma soprattutto c’è alla base
una sorta di delusione per le scienze esatte, per l’ottimismo collettivo di conoscere e
possedere il mondo: un ottimismo che si rivela sopravvalutato e incapace di dare
spiegazioni plausibili (dall’Illuminismo al Positivismo).
La canzone italiana si avvicina tardissimo a questa dimensione pressochè universale,
per tante ragioni, molte delle quali già descritte: resta cioè imprigionata, ingabbiata in
uno schema semantico narrativo (o sentimental-realista) molto più a lungo delle altre
arti, e della canzone stessa in altri contesti e nazioni.
Il problema vero è che non si prende sul serio e non si fa prendere sul serio. Nata da
una costola del melodramma (che non è né astrattista, né espressionista), reitera
sentimenti – stereotipi in terza persona e in una cornice oggettiva accessibile ad ogni
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lettura. La canzone insomma non produce al suo interno uno scarto “novecentesco”
perché non si sente forma d’avanguardia o di esperimento, ma baluardo di retroguardia
spesso imitativa. Abitua per decenni gli Italiani ad essere ascoltata come vezzo,
miniatura, proverbialità scontata; cronaca contraffatta ad uso di emozioni facilistiche
provocate ad arte: non si avventura cioè sulla pista nuova delle altre arti, continua a
scimmiottare la vecchia, più sicura, più affidabile e fruibile.
Commette cioè l’errore di perpetrare l’equazione POPOLARE = SCONTATO = GIÀ
SENTITO, considerandosi forma troppo piccola e inadatta a esprimere rivolgimenti
così profondi.
Tutto ciò crea un effetto valanga, dalla palla di neve all’ammasso di ghiaccio
difficilmente scalfibile: la gente, il popolo si abitua così tanto a questa forma
immutabile, uguale a se stessa, da non poterne fare più a meno, fino a maturare la
certezza che quella sia la canzone e nessun’altra al fuori di quella sia possibile o
accettabile.
Mentre le arti, tutte le altre arti abituano cioè gradatamente il pubblico a leggere se
stesso e la vita secondo le lenti delle mutate condizioni storiche e di pensiero (l’io,
l’angoscia e la loro descrizione espressionistica), la canzone non lo fa, non lo sa fare,
non pensa di esserne in grado, e spesso proprio non lo è.
Così mentre altrove la gente, il pubblico riesce a leggere sia la sublime medietà di
Raffaello o Manzoni o Shakespeare, sia la trasmedietà di Chagall, Picasso, Kafka,
Ionesco; in canzone non si sogna nemmeno di avvertire la stessa duplice necessità e si
lascia trasportare (ancor oggi e tanto) dall’impatto con l’ovvio (che a volte è
meraviglioso, vedi Mogol; più spesso orripilante).
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tutti in maniera dissimile, ma paradossalmente gli scopi finali sono uguali per tutti:
capirci, capire, tenere intatto un sogno, sperare, amare, odiare.
Ognuno, ogni artista segnatamente, ogni poeta in canzone per esser più precisi, ha un
suo filtro di memorie e le sue parole, le sue espressioni chiave per maneggiarlo: questi
termini spesso non assomigliano ai nostri, ma han la forza di evocare, suggerirci,
passaggi di fantasia e sentimento; da quei piccoli “input”, iniziali, ci vengono isomma
sollecitati e “fabbricati” come dei “link” emotivi che si espandono a raggiera in più
direzioni nella nostra anima predisponendoci a vedere meglio e di più, a “sentire”
qualcosa di sepolto o solo dormiente in noi: superiamo, riassettiamo il filtro della
memoria. Facciamo un esempio: io posso cantare in modo mediale “SONO
DISPERATO, BEVO COME UN DISPERATO” ma posso anche cantare in modo
transmediale “CONSERVO SOTTO IL LETTO UN BARATTOLO DI BIRRA
DISPERATA”.
La prima frase è di lettura immediata: può provocare immedesimazione (un addio, una
pena d’amore), ma tutto finisce lì.
La seconda frase è un romanzo. Intanto CONSERVO, il che significa che non ho
smesso di soffrire, o addirittura, voglio soffrire. Poi SOTTO IL LETTO, cioè “non
voglio vederlo” oppure “ lo voglio a portata di mano” e anche “ormai vivo in camera da
letto”. E ancora UN BARATTOLO, non una bottiglia, un bicchiere, proprio la lattina
da bere a canna, senza vedere o sapere la quantità di birra che ancora rimane (quanta ne
avrò ancora per sopire il dolore?) e poi la splendida metafora di attribuire alla birra la
propria disperazione, quasi un transfert, quasi come dire “no, non sono io a soffrire, è la
birra, la sua presenza in me che soffre”.
Questa frase di “Atlantide” è perfetta per intendere quel che stiamo dicendo: il
linguaggio transmediale non ti permette, non permette a chi ascolta di sentire alla
sfuggita e immagazzinare una facile, riconosciuta sensazione paragonabile al proprio
filtro della memoria. No. Ti incatena alla tua immensità di sensazioni, costringe la tua
anima, se sta attenta, a passare (ecco i “link”) da uno stimolo, da un pungolo all’altro e
riconoscerti in quel che sei e fai: ricostruisce dal niente la tua persona e te la mette
davanti.
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De Gregori non scatta una foto diretta, nella quale rivedi ad esempio un volto amato e
basta. Gran cosa anche questa sì, ma limitativa. Nella sua foto il volto c’è e non c’è, o
muta o cambia a seconda di come quelle foto le pieghi o le giri. Non solo, nella sua foto
ci sono ombre e accenni di oggetti, o nuvole che assomigliano a qualcosa, che puoi
associare a qualcosa: anche a cose diverse a seconda di quanto te la guardi e riguardi e
di come. Quindi la parola, la figura di pensiero, la frase comunicante non è monosenso:
non corrisponde ad un solo frettoloso rinvio ad un unico altrettanto frettoloso sentire:
spazia, allarga, ti consegna una mappa, ti collega ad altre mappe vicine e lontane, non
chiude il circuito, lo apre e a tuo piacimento fin che vuoi.
“Evocare” è il verbo esatto per questa maniera di comunicare. Evocare è difficile per
chi scrive e per chi ascolta, ma è il livello direttamente superiore a “rappresentare” a
“descrivere”. Chi non è abituato (per cultura, assenteismo, pigrizia, noia , ignoranza) a
evocare resta al palo, si confonde col già detto, gira intorno a sé e si mangia la coda. Il
meccanismo dell’evocazione presenta uno sproposito di libertà; si può perfino uscire
dalla canzone e andar via per fatti propri (penso a Carroll in “Alice”). Per saper
evocare negli altri è indispensabile un gran dono naturale e la naturale inclinazione a
non fermarsi mai al primo significato delle cose. Evocare negli altri è magia, magia
benefica. Chi degli altri, di quelli che ascoltano, leggono, sa cogliere come in un
codice, in un libro di arcani (semplici in verità) i segni su cui spaziare di fantasia , sa
anche cosa significa essere uomo a 360 gradi.
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Per tentare di spiegarlo mi rifaccio a due saggi: il primo di A. KOESTLER (1964) 4 il
secondo di N. CHOMSKY(1965)2.
Koestler individua nell’atto creativo una duplice possibile percorrenza. Nella prima
modalità (che chiama SINGLE-MINDED) le ASSOCIAZIONI prodotte in chi ascolta
da uno stimolo (parola o immagine o suono) vengono da un’unica direzione
(CONVERGENZA). Nella seconda (DOUBLE -MINDED) procedono invece da più
direzioni spesso in contrasto tra loro o apparentemente estranee una all’altra. Questa
modalità (detta BISOCIAZIONE) permette all’artista di DEVERGERE, creare un
pensiero divergente, che è alla base della creatività laddove invece il “pensiero”
convergente sta alla base della scienza. Mi spiego meglio: mentre la scienza raggruppa
dati per arrivare ad un’unica soluzione possibile, l’ARTE mette in conflitto dati per
ottenere una soluzione nuova ,anche se non sempre unica. Pescare associazioni inusuali
è alla base dello SCHEMA BISOCIATO e il suo effetto in chi legge o ascolta è di
provocare tensione, sconcerto, meraviglia che durano fin quando non ne trova un nesso
e ricompone un senso reale.
Chomsky chiarisce meglio l’atto creativo: anche per lui esistono due modalità: la prima
(creatività governata da regole)3 produce il “nuovo” combinando pezzi già esistenti
(simile all’intelligenza scientifica). La seconda4 sovverte i canoni e le regole
(grammaticali, di comunicazione diretta) introducendo variabili “eversive” e non
direttamente connesse al comune senso di significante-significato.
Chomsky fa due esempi: “MONITORAGGIO” è un neologismo preso da prestiti
esistenti (MONITOR e AGGIO), la novità c’è ed è in linea con le regole, siamo nella
RULE GOVERNED CREATIVITY.
“Metti un tigre nel motore” si avvale invece di un uso improprio del verbo, di un
inusitato “maschile” del nome “tigre” e di un accostamento paradossale tra un animale
e un’auto. Siamo nella RULE CHANGING CREATIVITY ,però attenzione ,questo
sconquasso mediatico non avrebbe nessun valore se la sua lettura finale non fosse
4
“L’ATTO DELLA CREAZIONE” – UBALDINI – ROMA
2
“ASPETTI DI UNA TEORIA DEL LINGUAGGIO” – BORINGHIERI – TORINO
3
RULE GOVERNED CREATIVITY
4
RULE CHANGING CREATIVITY
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comprensibile ,non avesse una sua nuova alterità di lettura. Ed è questo il segreto della
libera creatività: sconvolgere le regole ma lasciare intatta la forza di comunicazione.
Queste due teorie (KOESTLER e CHOMSKY) spiegano in gran parte tutto il nostro
Applicate alla tecnica e alla poetica in canzone ci fanno comprendere quanto segue:
maestro.
contesto che non gli appartiene per niente e producendo un nuovo tipo di
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L'universo espressivo di De Gregori
poco precisato, mai perfettamente a fuoco (il treno di “Generale”, la tenda di “La donna
cannone”, il bosco de “La casa di Hilde”, Salò de “Il cuoco di Salò”, la stanza di
muscoli del capitano”, “Rimmel”), spazio largo, proiezione mentale (“Bufalo Bill”,
“Atlantide”, “La storia”, “Pablo”, e un po’ tutti i brani di “rimmel”): a volte ancora non
mischiati tra surrealismo e " dada" (“niente da capire”, “Al lupo”, “Alice”). Altre volte
considerazione: capita come in certi racconti di Borges dove troveresti più giusta la fine
come inizio e viceversa. Anche questo corrisponde al fatto che laddove la canzone non
è perfettamente narrativa (una storia), l’”io” di De Gregori si muove col suo “tempo
interno” che non ha niente a che vedere con quello esterno. “Renoir” e “Generale”
seguono apparentemente un filo cronologico, ma che dire di “Piccola mela”, “il signor
Hood”?
A volte il tempo è fermo a bella posta, come nelle favole o nei miti: non succede
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Gli “Incipit”, sono quasi tutti “in medias res”, presumono cioè che noi conosciamo già
la storia. E in verità De Gregori non comincia mai da dove comincia la storia (che non
ha mai veramnte inizio), ma dall’impressione più forte, dalla persona o dalla parola che
Spesso nei primi album il personaggio sbattuto nel primo verso è De Gregori stesso,
mascherato sotto nomi, soprannomi, caratteristiche di vario tipo (l’uomo che cammina
all’irrompere del successo (cosa vendo di me? Cosa tengo?). Più avanti non si
conferisce più eponimi. Sa che gli altri sanno che è lui a parlare anche se lo fa in terza
una certa ritrosia antiretorica a parlare di se stesso e ci torneremo su. Così chiaro,
persino tagliente, impietoso in termini sociali e politici, tende sempre a coprire di veli e
Quando non si riferisce alla sua vita privata, l’incipit ripete il titolo o ha qualcosa a che
fare col titolo (avviene in Titanic), più spesso spiazza e mette in attesa (Adelante,
lunghe schitarrate ed è un macigno: non si tratta mai di una frase qualunque (Alice
guarda i gatti e i gatti guardano nel sole / le stelle sono tante, milioni di milioni) ma di
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un grande amo per catturarti e portarti in giro: quel che verrà poi potrà essere in
indissolubile.
simbolo, più o meno riconoscibili, che sono il bene o il male, l’avverso o l’amico, la
speranza o il disastro in proiezione sociale, umanitaria, totale del senso del vivere (la
storia,la leva calcistica, l’agnello di dio, i muscoli del capitano, le storie di ieri,
di ogni tipo che tenteremo di classificare in un capitolo a parte. Bastino qui due
chiarimenti:
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1) questi accorgimenti stilistici assomigliano solo lontanamente a quelli della poesia
2) Non sono mai casuali o riempitivi o puramente estetici: essi fanno parte della
canzone, sono la canzone: a volte non significano altro che se stessi oppure
Per vedere come si muove De Gregori ed esemplificare in modo vivo un po’ tutto ciò
che siamo andati dicendo, proviamo a smantellare e ricomporre un suo testo – cult:
RIMMEL.
Prima cosa: l’ascolto totale. Si deve sempre partire dal tutto per scendere alle parti, si
deve cioè recepire la forma totale dell’opera (gestalt) e ascoltare dentro di noi la
direttamente e subito quel che ascoltiamo a quel che abbiamo visto e siamo. Ma
sentiamo una tensione dilagante in tutta la canzone, avvertiamo che i veli e le maschere
sottintendono di più di una semplice storia d’amore. Questa forma non ci spara niente
stato febbrile d’attesa, o persino voglia di lasciarsi andare tra i versi senz’altro voler
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È un po’ come lasciarsi portare dal mare senza chiedersi che mare sia, se sia veramente
Poi, lentamente emergono come da un naufragio dei relitti, dei pezzi d’immagine, delle
parole. Soprattutto quelle che lì non dovrebbero mai esserci, non han ragione di starci:
LABBRA – etc.
Se teniamo gli occhi ben chiusi, il quadro tende ad assumere una sua illogica logicità. I
protagonisti, non sappiamo il motivo, non percepiamo la quantità del dolore. Eh, si
apparente, un voler nascondersi, un senso di sconfitta legata alle cose della vita più che
alle colpe di qualcuno, una capacità straordinaria di ricordare a salti, a sbalzi, senza
troppo a lungo: tocca e fuggi. E al fondo un po’ di cinismo amaro, nessuna traccia di
autoconsolazione a cui siamo fin troppo abituati; in fondo gli errori e gli sbagli come
occasioni perse, ma perse e basta, inutile rivangare. Non c’è un “Ti amo”, un “Ti ho
amato”, non c’è una stella, una luna, una lacrima, non esiste una concessione al
sentimentalismo, perché tutto questo mischiarsi senza tempo di ricordi è di per sé stesso
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cronaca. De Gregori ci dà l’essenziale impersonandolo in oggetti e posti, situazioni e
cambi di campo che sono l’equivalente delle confessioni che non fa in modo diretto,
Ecco, questo ci basta perché questo trascende personaggi, motivi, dolore. Si è sempre
in due a lasciarsi in fondo e sempre gli stessi sono i motivi, inutile descriverli. Questo
ci basta per capire che grande canzone evocativa dell’anima, leggibile a tutti i livelli
un nugolo di BISOCIAZIONI che vanno oltre il già detto, il già sentito. Sta a noi , sta a
chi ascolta congiungere i poli dei due contingui significanti. Ma la tensione che
proviamo nel non riuscirci del tutto razionalmente è molto più di capire è “sentire” in
“toto” il nugolo di stimoli che ha portato l’autore a costruire quella e non altra
riferimenti (links) alla sua vita personale che si acculìmulano in un verso,e quelli non
potremo mai scoprirli ma, per il miracolo della creatività, sentiamo che comunque quei
ritorni di molti tipi. Non serve nient’altro, ho detto. Rimmel come tante altre canzoni di
Non serve altro ma altro c’è, perché comunque il lessico, lo stile non sono un bluff.
L’incipit è il solito:dar per scontato che si è detto qualcosa prima, ed entrare nella
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QUALCOSA RIMANE, non tutto, non una disperazione eterna o piagnistei simili,
“qualcosa”, un tratto intravisto a momenti, un segno che comunque non ti levi di dosso.
NON DA POESIA) scorre, va per i fatti suoi. Come lui stesso fosse un negozio, una
motivo del distacco è espresso in un lampo: “Io accampavo scuse, fuggivo, tu avevi
fatto.
Ammirato da tutti, coccolato, convinto di essere un vincente, si accorge che gli affetti e
gli amici ingannano spesso in buona fede. Nello ZINGARO c’è una morfologia tutta
nemico del chiasso e della notorietà non doveva nemmeno star tanto bene. Zingaro e
futuro non è stato capace di contenerli ed è perfetto che dia colpa all’età (che età fisica
In sei versi ha scritto la sua infanzia, l’impatto col successo, ha accennato, solo
accennato al grande amore. La sintesi è perfetta. Poi arriva il presente : lei non c’è, è
una sineddoche (le labbra), l’altro uomo non c’è, è ancora una sineddoche (indirizzo
nuovo), lui, Francesco, anche lui è una sineddoche (la mia faccia), ma si permette dopo
la vaga confessione di colpa dei primi versi di tirarle una sottile stilettata: hai barato
parecchio con me (“quattro assi di un colore solo”) e le carte di colpo diventan persone,
perché questo era il senso, perché lei non bara solo con le carte, ma con gli uomini, coi
sentimenti.
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Il finale è un film tra Renoir e Casablanca. Lui la ricorda truccata (ma il “rimmel” è
anche quello che cola col pianto) introducendo il colpo di genio dell’attimo dell’addio
con un botta e risposta di una sintesi allucinante ma più espressivo di tutto un romanzo.
Lei domanda “hai ancora quella mia foto?”, Glielo domanda mentre sono fuori e il
vento sta lì a far capire che niente è come prima, che qualcosa drammaticamente si
muove. E si muove su di lei che non è più un amore ma una “persona”, un corpo, una
fisicità qualunque sulla strada: si muove su di lei che è un’ultima annoiata sineddoche
(“collo di pelliccia”).
Lui non capisce il senso della domanda o forse sì ne ha un certo sentore e risponde
“Bene, tientela, perché da oggi in poi è l’unica cosa che ti resta di me”. È un addio
nella canzone italiana si era vista una descrizione simile di un abbandono: non una
compassione, un ultimo ricordo. Niente. E nemmeno una confessione diretta; nessun “ti
lascio”, nessun “è finita”. Solo quell’improvviso tragicomico giro di parole per non
Questo colpo di genio narrativo, e altri, altri ancora, sono alla base di tutto il
non sono semplicemente una “veste”, una “forma” come abbiamo detto già, ma una
parte integrante del messaggio dell’esternazione; non solo un “modo”, ma anche “il
corpo”, la “sostanza”, a volte il contenuto stesso. E nonostante ciò non smetterò mai di
ripetere che un’operazione capillare sul significato dei simboli e delle metafore delle
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sue canzoni è un lavoro perfino inutile. Quello che conta è “sentire” la forza delle
lasciarsi prendere, sempre, dalla totalità della canzone, perché smembrarla in parti
come abbiamo testè fatto può essere un esercizio interessante ma non aggiunge niente
alla bellezza della canzone. E a volte è persino (come detto) impossibile, perché tante e
tali sono le alternative che bisognerebbe avere una stanza nella sua testa e nella sua
“Rimmel” (l’album, tutto l’album) è stato un giro di boa per tutta la letteratura in
che non ha quasi pari nella storia recente della canzone (se si eccettua,in altro modo ,
Vasco).
Ma Rimmel è già un’opera, per così dire, matura, successiva. Come è giunto, per che
stile così esclusivo e scatenante? Che storia c’è alle spalle di Rimmal? Da dove è
partito tutto?
Chiarisco subito che per la biografia, gli aneddoti vari, il profilo psicologico, l’iter
evolutivo della persona vi rimando al bel libro di Pino Casamassimo “LA VALIGIA
carattere di De Gregori alle sue scelte, al suo rinnovarsi, ma tutto ciò sarà secondario e
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Gli esordi. Alice oltre Lewis Carroll
Dunque tutto nasce al folk-studio, uno dei tanti luoghi chiave dove si cerca il nuovo
nella canzone. Però un luogo speciale, perché intanto è a Roma, patria della discografia
a fine anni ’60, poi perché frequentato da un élite di rampolli borghesi (e meno)
che Antonello Venditti (così diversi in tutto) ma anche Lo Cascio, Locasciulli, Rino
Gaetano, Stefano Rosso. Lì si fa tutta la musica che non sia allineata: per assurdo e
alla sinistra. Qui dall’incontro un po’ casuale tra Venditti e De Gregori nasce un album
avrà un successo immediato e meritatissimo. Canzoni come “Sora rosa”, “Ciao uomo”,
capacità di essere popolare, moderno, convincente, e grazie a una voce che ancor oggi
ne ha poche alla pari. Non fu così per Francesco. La sua strada era più silenziosa, meno
illuminata ed era altrettanto evidente che tra Dylan e altri fantasmi stava ancora
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ricercandosi. Ancor oggi sento un po’ a fatica le sue canzoni in “Theorius Campus”, ne
suo primo disco, perché non c’è lui, ma l’esercizio, la prova, il noviziato.
De Gregori si rivela con “Alice non lo sa”. E devo dire che qui segna un punto fermo.
allargarlo, variarlo, ma è indiscutibile che il marchio della genialità nasca qui e da qui
si dipani. Due sono le canzoni emblematiche del nuovo corso che vale la pena di
sottolineare “Alice” e “la casa di Hilde”. Le due canzoni sono al primo ascolto
totalmente incomprensibili, tanto che allora mi chiesi più volte se Francesco c’era o ci
faceva. E invece sono il primo vero effluvio esistenziale e politico di un uomo che non
ci sta a comunicare con idee fatte e propone sfide all’intelligenza e al cuore. Perché
questo sarà per tutta la carriera di Francesco il leit-motiv: incrociare umanità politica,
dimenticando mai che di per sé l’arte di stare insieme o da soli sono misteri a volte così
indecifrabilità.
“Alice non lo sa” è due canzoni in una. Io ho sempre pensato che Francesco seduto da
qualche parte si lasciasse andare a pensieri liberi su persone e cose del suo presente, io
io ho sempre pensato che Alice fosse De Gregori con un piccolo obbiettivo dell’anima
pronto a riprendere e ripercorrere fatti e visi minimali di questo suo esser ragazzo.
E ho sempre pensato che “l’altra” canzone, quella che introduce lo sposo fosse una
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agli obblighi sociali (sposarsi), all’obbligo di essere padroni di se stessi (lo sposo è
impazzito). Ho sempre pensato così, con varianti di diverso tipo. Probabile che lo sposo
(l’uomo costretto dalle regole) non sia Francesco, ma tutti gli uomini. Ma ho sempre
pensato di là di tutto che non ha importanza chi sia Lilì Marlene (un poster?), o Cesare
(un amico? Pavese?) o chi altri. Ho sempre pensato che questo linguaggio corrisponde
tanto: perché è così che facciamo quando ci sediamo a pensare: oggetti e cose sono
serie di figure reali che fan cose di nessun conto (come sempre nella vita), la incapacità
di Irene, del mendicante arabo che illude se stesso (tra l’altro grande squarcio politico,
senza far politica); quel che mi attanaglia e mi ha sempre innamorato di “Alice” è che
dice cose vere e minime di persone molto più reali di quelle delle canzonette sanremesi
per descrivere tout-court una sequenza nella memoria per la gloria della “ normalità”
paradossi e iperboli.
Devo dire che questa lezione del “minimale” è già nella scuola di Genova e in De
lontano”), qui la realtà, i tempi di questa realtà , sono pure licenze dell’animo, del
“come viene viene”, senza nessuna preoccupazione di dire cose importanti o che siano
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premesse ad altre. C’è in Alice una certa propensione alle associazioni libere e la
convinzione che l’arte non debba essere per forza “entusiasmante” o “stringente”, ma
comunque vera, perché Alice alla faccia di chi la taccia di ermetismo è una canzone
“verista”, chiara, non permette confusioni. Anche qui siamo in un “RULE CHANGING
Più narrativa (apparentemente narrativa) risulta “La casa di Hilde”. Qui i personaggi
sono tanti e con nome e cognome ma è del tutto inutile sapere se corrispondono alla
realtà, come è inutile sapere chi sia Hilde (un concetto, un punto di arrivo, un sogno di
per non esserne stato capace. E infine Hilde (una Circe al contrario), che al ragazzo,
libero dall’ombra del padre e dalla paura della repressione sociale (il doganiere), fa
finalmente vedere il diamante, la verità. Poi ecco la “changing creativity”: appare una
imprevedibile e serissimo: fare insieme una cosa semplice e antichissima: catturare cioè
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oltre il confine (dove non crescono gli stessi fiori della casa di Hilde) una capra,
un’idea libera, una bellezza naturale senza parole, senza controsensi: sentire che
l’insegnamento della cetra di Hilde è proprio questo appartenere alle cose che vivono,
Anche in Hilde, De Gregori perpetua un’inclinazione già rodata: non concedere nulla.
discografico degli anni ’70. Ma è anche una ritrosia, una presa di posizione che
difenderà sempre. È una concessione al pensar politico del ’68 e dintorni: mai
sentimentalismi, mai trucchi retorici, mai frasi falso-popolari per catturare l’ascolto.5
L’album " Francesco De Gregori" del 1974 costituisce una sorta di prova generale per
Rimmel. Siamo ben oltre Alice: i brani si fanno compatti, sintetici, le sproporzioni si
attenuano, la casualità di composizione scompare. Ogni canzone ha un suo preciso
(anche se a volte oscuro) centro focale, c’è la tendenza a stringere non ad allargare, a
sparpagliare. E si può anche parlare di primo concept-album, perché il protagonista
(non sempre in 1° persona) è lui, non altri. Disco dell’io, disco da vero cantautore
,quindi necessario, quasi indispensabile per tirare le somme su un’adolescenza che se
ne va e la vita che irrompe. Direi che “La casa di Hilde” in “Alice” è un po’ il tramite
tra passato e presente." F.D.G." (ribattezzato “la pecora”), è sofferto e appassionato in
5
La “rule changing creativity” si basa sulla bisociazione (associazione divergente). Questa consiste nell’introduzione di un
elemento (coro, persona, situazione, parola astratta) in conflitto col termine cui è legata, ma dalla cui unione emerge un
particolare messaggio comunicativo.
L’opposizione di termini non implica che l’uno sia contrario all’altro come nell’ossimoro, n6 implica che un termine
(traslato) muti il senso dell’altro o crei una figura di pensiero diversa dai due elementi costitutivi, come nella metafora. La
metafora è in realtà una piccola bisociazione, ma fortemente grammaticale. Per esemplificare: ghiaccio bollente è un
ossimoro; una catena di monti è una metafora; tra il telefono e il cielo è una bisociazione vera e propria.
In quest’ultimo caso i due stimoli (TELEFONO e CIELO) vengono da direzioni diverse e stanno sul foglio in equilibrio
precario, producono quindi una collisione tra un punto di vista chiaro, abituale e uno insolito: oppure sono tout-court
entrambi insoliti rispetto a qualcosa detto o scritto prima, perché questa è la variante più spettacolare e più allargata: es. gli
aerei stanno al cielo come le navi al mare come il sole all’orizzonte la sera come è vero che non voglio tornare.
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una misura che troveremo di rado nel prossimo De Gregori. Anche qui le maschere
sono molte (Arlecchino, Lupo) a sottolineare una ritrosia, una delicatezza, una
caratteriale incapacità a spararsi fuori del tutto, muscoli e nervi. Ma l’amore e il dolore
sono ben presenti e insieme alle idee politiche spesso serpeggianti, costituiscono il
centro delle tematiche. Non è un diario wertheriano, perché sono bandite tutte le
sdolcinerie, non c’è ombra di piagnistei e sdilinquimenti, la rabbia è tenue e la
sofferenza solo suggerita, mai sbattuta in faccia. C’è critica, autoanalisi, paura di scelte
sbagliate; c’è una sorta di refrattarietà al chiaro, allo spettacolare e quindi alla logica
del successo, del consumo. Disco vero da cantautore, dicevamo, perché Francesco si
misura e si conosce attraverso simbologie sempre più dirette, sempre più da canzone
(l’angelo senza spada, Arlecchino sul filo, Lupo anima pura) e anche fuor di simbolo,
laddove è chiaro e di chi si sta parlando (Bene, Festival).
L’eccessivo uso di “oscurità” si ammortizza, le bisociazioni si fanno più precise e più
(Bene e più “Coheniano”), ma non è il Dylan dell’apice, della grande protesta, della
marcia sociale: è un Dylan contenuto, sussurrante, intimo. Anche nel buttar là le frasi,
dall’autore di blowin’ in the wind. Quanto questo è secco, spietato, sgraziato, tanto
quello è imperturbabile, neutro, un po’ onirico, quasi cantasse appena sveglio o in uno
stato di calma apparente. In fondo l’unica canzone legata fortemente alla tecnica di
Anche qui si tratta di una serie di considerazioni (notturne) che si accavallano l’un
l’altra con passaggi spesso azzardati, inaspettati. Che si dia da fare in giro o se ne stia
per i fatti i fatti suoi (seduto o non seduto) F. non pare scontento di sé (faccio sempre la
mia parte), ma sente di essere in una situazione di stallo (il cuore che non parte).
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Primo rivolgimento: Giovanna, un flash, un viso che interrompe la meditazione
(attenzione a quel “però”). È passata è stata, si è incrociata con lui, è andata. Giovanna
come tutto quel che verrà poi è un pretesto, un esempio per considerare che ti sbatti,
vivi, ti esalti, muori, ma non c’è altro senso a tutto questo, non c’è altra lezione, altra
Secondo balzo: il quadro della moglie e della sua delusione, dello sconforto mattutino
all’accorgersi che nessun amore o amorazzo vero o presunto toglie lo spleen, la noia.
Ma anche questo era tutto previsto, come per niente casuale è quel “forse mi tradisce”,
(dato che l’ha già detta prima). Sì ci sono degli uomini, ma è tradimento il suo? O è
giusto quel che dici), chiariscono il disagio (i tuoi calci) fino all’improvvisa,
impenetrabile bisociazione “se i tuoi occhi fossero ciliegie, io non ci troverei niente da
dire”. Un tormento per chi ascolta, un salto mortale con triplo avvitamento, un colpo
mortale alla logica consequenziale. Certo può significare di tutto (ma anche niente),
non è questo quel che conta: conta il “raptus”, l’impennata comunicativa che questa
comunque, mentre lei non lo fa. Ma è un avvertire flebile, incerto, non un senso vero e
proprio. Sta qui la sfida, la peculiarità creativa delle bisociazioni o ancor più delle “rule
Quarta donna: sì ora sappiamo che è la stessa di prima e di prima ancora. La metafora è
scopertissima. Ma non fa altro che proseguire e concludere le due diverse modalità con
cui lui e la moglie hanno preso questo rapporto: lei gioca a scacchi sul serio e per
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vincere, lui no. Lei prende tutto sul serio e in maniera tremendamente competitiva, lui
no. Lei lo vuole in un preciso modo, a lui andrebbe bene anche se avesse delle ciliegie
“Riportami i tuoi occhi e il mio fucile” è una bisociazione finale sontuosa addirittura tra
mia fiducia in me, la mia combattività che ho perso. “Non c’è niente da capire” non è
quelli che chiosano e vogliono trovare un senso a tutti i costi e in tutte le cose. Ed è
come già detto, anche una regola di fondo; tutto va e scorre e il senso è insito in ciò che
va mentre va e scorre mentre scorre, non esula, non esce, non deborda dal momento
Primo: Francesco deve sentire in modo traumatico l’approccio col mondo reale.
è uno solo: a tutte queste novità fuori dalla sua stanza, che siano amore o lotta non è
sta facendo ad occhi aperti: “amore, naviga via, devo ancora svegliarmi”. Di certo c’è
che anche al più caro amico ( che ben lo conosce) questa canzone sembra un incubo,
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Straordinaria diversità di vedute. O forse di incomprensione acustica. Francesco (che è
un bel po’ paranoico) usa l’iperbole perché si sente minacciato da qualcuno. Gli amici
(che chissà cos’altro gli avevano detto) non sanno cosa rispondergli.
SUL CAMINO. Psicoanalitica questa precarietà aerea dell’affetto materno che però
VICINO.
“RULE CHANGING” capita nella canzone dopo tutt’altra immagine (il poeta che
Questa frase mi ha sempre affascinato: niente parte senza francobollo, senza una
garanzia fiscale, sociale, economica. Eppure le lettere della nostra anima non c’è
Ai poliziotti che agitano i manganelli fra la gente: E IO DICO: “NON PUO’ ESSERE
VERO”, E LORO DICONO: “NON E’ PIU’ VERO NIENTE”. Questa sintesi di lotta
capire.
chiaro, molto molto meno chiara è la “RULE CHANGING CREATIVITY” che segue:
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LE GRANDI GELATERIE DI LAMPONE CHE FUMANO LENTE, I BAMBINI
dirgli “sono tutte paranoie tue che non esistono più bambini, come vedi son tutti in giro
a giocare “. Ma non erano quelli i bambini che intendeva De Gregori, non quelli
“Bene” è un’altra canzone. È una lettera dal contenuto chiaro, fin da principio. È un
dopo-addio, è una concessione (rarissima in D.G.) alla nostalgia, a quel che poteva
essere, al sentimento frustrato. Ma anche qui il nostro tira la palla e ritira la mano in
sintonia con la sua viscerale ritrosia a concedersi a farsi vedere del tutto. Eppure
“Bene” commuove, prende eccome: ci restituisce un poeta con un volto e uno scorrer di
Su “Bene” potrei dire e vorrei dire un milione di cose, perché fa parte di un mondo a
sentirla come vuole. Mi piace quell’aria dimessa ma non sconfitta, quell’orgoglio delle
proprie azioni qualsiasi siano state, dei propri amici, della propria strada imboccata da
self-made-man (le navi di Pierino erano carta di giornale…), quel disgustoso sentire il
passaggio del tempo e la debolezza finale dolcissima di quel “ma puoi chiamarmi
ancora amore mio”. E mi piace l’immagine rassicurante che non lo può più rassicurare.
Grande lirica minimale e di tutti (come Renoir, la donna cannone), di cui stranamente
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“Chissà dove sei” suona come chiosa a “Bene”, però a testa ben alta, giocata sul
anche il disincanto. In “chissà dove sei” la donna è connotata con le stesse strategie di
“Niente da capire”, che poi saran Quelle di Rimmel. Mi sembrano notevoli certe
unico. Anche qui si parte da “lei” che aveva “tasche troppo strette e otto, nove, dieci
modi di vivere” che sono un po’ eccessivi anche per lui che aveva “dei gerani proprio
dove la strada si divide” col risultato di non fargli nemmeno sentire il campanile che
suona per avvertirlo che qualcosa non va. O almeno al momento. Perché subito o quasi
si accorge che quella non è casa sua e i ricordi (brutto segno) si affollano troppo in
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Straordinaria l’autoironia della seconda strofa: quella dell’incanto. Francesco si
autodefinisce “poeta in affari”, pieno di nastri colorati, un giocoliere che affascina, che
bara per ottenere lo scopo. Paradossale poi che lei sia al principio dell’amore tale e
quale alla “piccola fiammiferaia” indifesa, fragile, bisognosa d’amore, quando da altri
contesti abbiamo visto cosa diventa poi. Eppure tutto finisce: vengono accerchiati dai
“quaranta ladroni” (il mondo, gli altri, le consuetudini) e non c’è più tempo, la favola
svapora, va in frantumi (la Renault diventa una zucca). E “Lupo”, anima pura se la
“Arlecchino” è l’alter ego più semplice e immediato dell’album. Anche qui, in altro
a caso gli amici veri sono “gli eroi della friggitoria chantan” (eroi è ironico e
paradossale insieme). Sono proprio loro a chiedergli “dove stai andando sul filo,
Francesco non vuole affatto assomigliare (la sua cella, che pur cella è, sta un po’ più in
là).il gioco che De Gregori vuol portare a termine è quello di restar sospeso senza fili,
senza dovere niente a nessuno come l’altro Arlecchino a cui qualcuno lo accomuna ma
non ha niente a che vedere con lui (quanti soldi ti hanno dato….quanti anni hai). È un
Sulla falsariga di “Chissà dove sei” si muove quel gioiello di ironia che è “souvenir”.
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“Via Broletto” di Endrigo. Lontana, lontanissima, da un’altra stanza o vita sembra
brani all’italiana (Niente luna sopra i tetti / sul campanile nevica) suonano a
sbeffeggiamento: quelli erano grandi epici amori finti; il suo è minimale ma vero, tanto
ecco che con un’improvvisa “changing rule” saltano fuori i denti, quello che manca e il
Per tutto "F.d.G." (la pecora), dove più dove meno, le canzoni sono costruite con
scena, la situazione cambia spesso, per tornare poi o non tornare affatto. Spesso
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comune. È la globalità dalla canzone (come già detto) a cantare, non la sua
vivisezione.
comprensibili, “mediali”, non esiste ricerca del raro o prezioso. Se mai è il modo
preoccupa di usare iati ,sfalsature tra note e sillabe o ripetizioni, se gli servono, e
non la prevalica più del dovuto. Ognuno di questi testi letto senza musica è
5) Infine De Gregori, a sua maniera, è chiaro, discorsivo, reale, col velo simbolico
RIMMEL, il capolavoro
straordinarie) dallo schermo chiaro, si moltiplicano i ritmi, si passa dalle ballate folk,
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alle filastrocche, alle canzoni all’italiana fino a toccare armonie del tutto nuove (Pezzi
padrone di quel che canta, non ripetendosi mai e giunge alla stilizzazione, alla sintesi,
abolendo ogni “di più”, ogni concessione allo stupore che non sia giustificata.
Quando si parla di “Rimmel” bisogna starci attenti, perché siamo di fronte all’album
più rivoluzionario (ancor oggi) di tutto il periodo. Rivoluzionario per l’assoluta novità
che propone nel linguaggio in canzone e rivoluzionario per l’inversione che attua nel
modo di comunicare fino a renderlo popolarissimo. Rivoluzionario per gli autori e per
il pubblico quindi.
Ma cos’è che rende così particolare “Rimmel” (a parte ciò che abbiamo già detto) tanto
Innanzitutto il momento: c’è una gioventù (e non solo) già da tempo stanca e scazzata
immagini. C’è una gioventù che a fine anni cinquanta aveva detto basta alla canzone
all’italiana. Cultura, lettura, amore per il novecento espressionista sono cose ben
mature in Italia.
C’è una gioventù che, se si eccettua Guccini ( ma per altri versi), non trova una voce in
testardo, ombroso: un po’ Byron, un po’ Campana, un po’ Kafka, un po’ Jonesco, un
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po’ Musil : ha lanciato da due anni una sfida al piacere, al gusto, al privilegio di essere
vedi “la leva calcistica” “la valigia dell’attore” “la donna cannone”), è portabandiera di
chi sente “sottile” e “personale”, di chi avverte nelle parole un mondo magico da usare
ogni paternalismo (nemici giurati degli studenti di allora) e non propone mondi, non dà
soluzioni, non moralizza, non divide di netto bene e male, giusto e sbagliato, non canta
In più è unico: nessuno è stato così prima di lui, nessuno è giunto al suo livello di ardire
usare le parole non come un mago incantatore, ma come un mago che fa il fabbro e il
ramista, o il pittore miniaturista. È bravo perché canta come sente e come pensa, senza
mai calcare i toni per ottenere un effetto. È bravo perché naviga in questo folk, in
questo country reinventato all’italiana tenendo sul filo sospesi nell’attesa della
Tutto questo e tante altre cose ancora hanno decretato il successo di Rimmel, in
maniera naturale, come se un’area culturale di persone sparse per l’Italia si fosse
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Le canzoni di “Rimmel” brevi, essenziali, sono una galleria fantastica di “rule changing
(come ho già detto prima parlando di “Rimmel”) perché a dire il vero anche a me
agiscano nel nostro sistema emotivo e logico lasciandoci una sensazione generalizzata
ma piena di un sentimento della vita e delle cose. Spiegarle sarebbe come se dopo aver
contenuti semplici, molti dei quali già affrontati prima: autoritratti in onore della
propria libertà (“Pezzi di vetro”, “il signor Hood”), quadri politici che van dall’elegia
(Pablo), al giambo (le storie di ieri); intrusioni nell’io amoroso (Rimmel) in quello più
vita sociale (quattro cani) e invettiva personale (Piano bar). Saputo questo, che è poi il
Tutto questo è il “nuovo”, il “mai sentito” nella canzone italiana che fa di lui e di
“Pezzi di vetro” è una delle più riuscite ,non solo per la ricchezza d’immagini-
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voglia di differenziare poeti e buffoni: ma anche per la sincerità dell’approccio
d’amore.
Singolare già l’”incipit”; che è , come al solito, una descrizione di sé fatta da altri
riflettente." A camminare sui pezzi di vetro si paga del proprio, c’è del masochismo,
s’intravede una sfida impari: sesso e cuore sono un ramo duro e vengono unificati
del proprio (come detto) sui pezzi di vetro che fanno male (lo straordinario è che con le
cose della vita costui non si ferisce, non si taglia), e ha una “sua” vita a cui tiene più
che ad ogni altra cosa. Se niente di contingente può ferirlo, neanche a pensarlo è
possibile morire.
Da qui scatta l’incontro e descrizione della notte come “un ombrello teso tra la terra e il
cielo”, “che è un letto e un tetto di capanna utile: la notte dell’amore. Va da dire che in
quattro giorni che ti amo): adolescenza che cammina sul vetro e non sa dichiarare
l’amore.
E poi finale senza finale (però stai bene dove stai), che è nella linea del “lasciato lì”, del
“non c’è niente da capire”. Quello che contava era definirsi e provarci. Il resto se
diventa o non diventa amore qui non conta non fa parte del tema.
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di un incompreso (“regalò le sue parole ai sordi” 6). Addirittura forse è in gran parte De
Gregori stesso: “la strada di Pescara” potrebbe essere quella dell’ RCA ( la sua casa
discografica) “il canestro di parole nuove” potrebbe alludere al suo impegno letterario 7.
sa bene chi sia a partire dal nome (“tutti lo chiamavano signor Hood, ma il suo vero
nome era “lisca di pesce”). Sfida di grande intelligenza, vigorosa sonorità, e grande
parafrasi retroamericana.
“Pablo” è una canzone cardine, anima emblematica di tutto “Rimmel” dove si ribadisce
per chi non avesse inteso prima che privato e politico in De Gregori coincidono e
insinuato nelle pieghe di molte canzoni, è leggibile nelle metafore. De Gregori si sente
parente della terra, della semplicità, perfino della povertà, oltre che (come già visto)
Pablo è una storia minima, fragile, quasi due righe di cronaca. Due emigranti uno
italiano, uno spagnolo s’incontrano sul treno che li porta in Svizzera; là diventano
amici nonostante siano così diverse lingua e cultura, fino alla morte di uno dei due, lo
6
Molto accreditata l’identificazione con Pannella.
7
La dedica “a M.” allude a Melis, direttore artistico.
8
Quel che conta è che Hood, privato o politico che sia (o le due cose insieme) non “muore lì” come molti credono.
Preludio alla ben altra temperie di “Pablo”, ma soluzione simile: libertà e fantasia non le ammazzi mai.
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spagnolo. Su questo filo così esile e così pericolosamente in bilico sulla retorica (la
brevissime, quasi dei punti, delle macchie invisibili una canzone di verità e forza
politica che non ha eguali in passato. Niente lacrime, effusioni, mamme, lettere, niente
stereotipi degradanti. Sogni e realtà comunicati l’un l’altro attraverso pezzi, lembi di
ricordi appena accennati e progetti chiusi in una parola, non più. Ne deriva una
fratellanza che trascende il “letterario”, un parlar a gesti e sorrisi perché le lingue sono
di battaglia), una naturale complicità tra uomini semplici (il vino, il pane, il fumo
diviso, ma anche la moglie tradita). Ne deriva una convergenza d’illusioni (“il padrone
non era poi cattivo”) e di speranza (“e la latteria diventa terra”), un determinismo
(“Germinal”). Ne deriva una grande tensione emotiva, così palpabile da tagliarla col
coltello. Ne deriva una grande sincera pietà per le condizioni umane, per le sconfitte, il
dolore.
spettacolare (voluto da Dalla) “hanno pagato Pablo etc.”. Anzi il passaggio quasi
violento del chiaroscuro narrativo al grido politico, ripetuto, reiterato, lascia finalmente
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libero sfogo all’emotività che chi ascolta ha mantenuto nei confini dell'animo, fino a
quel momento.
Che “Pablo” sia dedicata a Neruda è una favola metropolitana: un inganno romantico
che viene dal nome del protagonista e dall’oscurità della sua fine (“caduto” “hanno
ascoltare Intillimani o chi per essi che usavano formule simili. Neruda non c’entra, o
tornato a casa, sdraiatosi a letto, ricorda la giornata passata con la sua ragazza. Le idee,
tenerezza presumibilmente dovuta all’intimo incontro. Star soli e sentirsi vicini a chi
gioia di chi sta per addormentarsi sapendo che a tutto il mondo può augurare la stessa
buonanotte che sta vivendo. Lei l’ha salutato facendolo sentire grande, o importante, o
soltanto amato e ogni oggetto di quella sera vive la stessa gioia la stessa partecipazione
emotiva.
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Colgo fra le bisociazioni che determinano sbalzi interni affettivi, ed esterni
incomprensibili all'apparenza:
Se telefona è come essere in cielo. Il telefono sono parole, il cielo è quello che più ci
assomiglia stasera
4)“per sognarti devo averti vicino ,e vicino non è mai abbastanza". Straordinaria
contraddizione di tempo e spazio. Se sei qui vicino a me posso sognarti anche in altri
modi.
4) “un raggio di sole si è fermato / sopra il mio biglietto scaduto”. Credevo di essere
piccole e inutili che sono state nella sua giornata, con lei.
6) “la tristezza passerà domattina, e l’anello resterà sulla spiaggia ". Se lo sono persi lì?
È solo un ricordo? Quale tristezza deve passare? Quella di non vederla per una
notte? O più facilmente l'anello è un patto, una parola data davanti al mare ?
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l’ingenuità del trasporto, la voglia di essere a posto, terribilmente quadrato coi
sentimenti, ed è la più bella ninna nanna a se stesso sulla possibile, presumibile felicità.
De Gregori confessa di aver imitato Dylan: ma, Dylan, non poteva mai scrivere una
canzone simile.
Allo scoperto, spaventosamente allo scoperto è il De Gregori de “le storie di ieri”. Qui
con gli altri. Qui il ragazzo è una generazione di ragazzi , dai padri dolci e amati, ma
confusi e irriducibili. Da “Le storie di ieri” ci si rende conto di quanto sia cambiato e
entrò nel mondo adulto, dove ogni cosa è maledettamente seria”. Siamo alla riesamina
di un’utopia e di una follia dittatoriale attraverso gli occhi di un padre incolpevole, pure
lui beffato. Grande canzone politica che si muove tra antefatti (una storia comune
condivisa dalla sua generazione); ironie di una sintesi terrificante (troppi morti lo hanno
smentito, tutte gente che aveva capito) e conclusioni beffarde ed eterne (I cavalli a Salò
sono morti di noia / a giocare col nero perdi sempre), il tutto esaltato da
poesie, i poeti che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa”.
Francesco sente pesantemente quest’eredità mai sopita del fascismo italiano che è
l’assurdità: “Mio padre è un ragazzo tranquillo…dice di avere delle idee…e suo figlio è
una nave pirata” (ribelle del suo, come da canonico gap generazionale). Ma il tempo si
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sovrappone al tempo: anche ora che pare tutto finito, niente è veramente finito. Sopra il
muro davanti a casa sua una scritta dice ancora “Il movimento vincerà”, “I nuovi capi
hanno facce tranquille” (lupi vestiti da agnelli), dio che previsione azzeccata, che
Eppure c’è sempre un bambino, alla fine. Quelli passati per le gelaterie di lamponi di
"Cercando un altro Egitto", questo che guarda il muro, quella scritta orribile, nemica
dell’uomo e subito dopo si guarda le mani, perché con quelle mani lavorerà e amerà o
apparentemente distinti. Non c’è tempo, spazio, non ci sono coordinate: appaiono e
scompaiono due donne (ma son proprio due?) ombre di ceppi e catene per la prima
obbligatoria (“sa cantare”) per l’altra (borghesia, borghesia?). Qui siamo nel delirio
l’originalità, il grande gioco sta negli sbalzi improvvisi, nella posizione di presunto
sempliciotto che assume Francesco (mi metto in tasca una mela…un fiore…) e nel
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“Uomo di poca malinconia”. Una frase così distruggerebbe chiunque. Ma chi è il
protagonista di Piano bar? Alcuni, molti dicono Venditti, forse per la sua tendenza ad
esagerare i toni a farsi vedere più e meglio di quello che era. Io penso che Venditti sia
un pretesto, però di certo l’invettiva non è generalizzata: troppo sarcastica per non
essere diretta a qualcuno di preciso. Pensiamo alla serie delle frasi “Vende a tutti tutto
quel che fa / non sperare di farlo piangere / perché piangere non sa”. “Sulla punta delle
dita poco jazz, poche ombre nella vita” (con straordinario CHIASMO) “Suonerà e
canterà senza disturbarti” (che contrappasso dantesco!). “Ama se stesso senza allegria”
(!). un falso, un fintone, un profittatore, un arrivista (ma di che poi? Del successo?), un
uomo che s’inventa la commozione a parole e note, una figura meschina, inimitabile.
qui in tutte le sfumature ironiche possibili. Qualcuno forse sta ottenendo seguito,
successo, qualcuno sta facendo scalpore nel nuovo mondo musicale, senza meritarlo,
come non dovrebbe essere mai un artista. O di come lo vogliono critica e pubblico nella
Nell’arco di soli tre anni (’73-’75) Francesco De Gregori compie una parabola artistica,
esistenziale, politica, ispirativa che vale una vita. Distingue e collega in tre album
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Tratteggia incide e graffia ne “La pecora” tutte le contraddizioni tra “Lupo anima pura”
e il mondo, si stupisce con attenuato dolore degli addii, ascolta la sua adolescenza come
un privilegio e una condanna, ma sempre guardando dalla sua torre personale, facendo
leggi delle sue paranoie, difendendo la sua diversità come bellezza incompresa e
neppure con troppo fastidio. Ferma bocce, pallino e biliardo in Rimmel ed è più grande
timidezza, del non esserci con gli altri: vede da vecchio se stesso nell’amore, nella
politica, squadra gli uomini e le compagnucce fino all’ironia, inverte l’equilibrio del
dolore, il punto fisso da cui guardare senza morirne, ama i suoi simili, li difende: è
sicuro di sé, sicuro delle idee, penosamente astratto nel ritrarsi in Rimmel, determinato,
deciso, antiretorico in Pablo. Poi, in un anno, in un solo anno, arriva Bufalo Bill. Forse
avevano ragione Brel e Fo e il vecchio Rimbaud a dire che si scrive fino a vent’anni. Il
Bufalo Bill (che per me resta a tutt’oggi il suo disco più completo, umano, pensoso,
uomini, l’ipocrisia, il mondo com’è (dopo due anni di mondo come lo vedo), il disagio
e la fatica, l’odio travestito da amore, la terza età in cui spaventa il dubbio e a volte più
De Gregori esaurisce l’uomo, la sua parabola, la sua storia in tre episodi: infanzia,
sicurezza apparente, delusione mai vinta. Tutto quello che scriverà poi sarà corollario o
variazione, o gioiosità momentanea, o rabbia più dura, ma niente uscirà dalle tematiche
espresse nel trittico La pecora – Rimmel – Bufalo bill. Bufalo Bill non è solo America,
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anche se la metafora, ampia già dall’inizio lì ci colloca: è un mondo che scompare e
non è più lo stesso, è un uomo eroe a 20 anni e buffone a 50, è un conflitto natura /
L’aria aperta, il tempo lungo, l’incipit straordinario ci assettano in un mondo che non è
questo o un altro o un altro ancora: è il mondo. C’è un paese felice, dio che lo guarda
bufalo non va mai per percorsi diretti, è modificabile, il bufalo è poesia. Dio, che
miscuglio di cose belle che ci stanno dando e di cose bellissime che andiamo perdendo:
qualcuno riuscirà mai a metterle insieme? No. O scegli il bufalo o la ferrovia. E io,
Bufalo Bill, eroe per niente, non avevo ‘sti grandi ideali: uccidevo per giocare, per
Tutto ciò è primordiale, perfino mistico “il cacciatore uccide sempre per giocare”.
Allora è un gioco, allora è una sorpresa, allora è un inizio di felicità:”mia madre una
contadina, mio padre un guardiano di mucche, io unico figlio biondo quasi come
Gesù”. Allora Bufalo Bill non è bene né male, è inizio, è primordio, è America di
mille fallimenti, ma il più grave è quello di un paese che non ha saputo mettere insieme
due semplicità quella indiana e quella yankee; non guardando mai indietro e
strisciante.
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Bufalo Bill è una canzone epica, elegiaca, chi riesce a capire capisca. Nemmeno De
Bufalo Bill è un testo bellissimo, per respiro, ampiezza (già dall’esordio ci sembra di
essere in una prateria), bellissimo per un inconsapevole ruolo di un eroe, che eroe non è
da giovane e tantomeno da vecchio, uomo piuttosto che crede ai suoi spazi, ai suoi
colpi di fucile come norme, regole ancestrali di vita. Uomo di grande dignità tanto da
disperdersi ,finito il sogno, e annullarsi nei circhi d’Europa. Che sia venuto in mente
un personaggio simile a De Gregori e che lo abbia trattato così, fuor di morale (in
l’universale che trascende da questa piccola epica storia western, metafora lunga della
Di noi? Sì di noi intesi come collettività infantile che s’ingrippa e s’irrigidisce nel
crescere sociale: l’icona della libertà (verde brillante delle praterie, il bufalo che può
scartare e cadere) non si incastra, non riesce a fare tutt’uno con il progresso, il futuro, la
illusione (vent’anni sembran pochi) sperando che tutto passi e tutto resti: poi
l’ottimismo di tutti e resta solo l’amico dal culo di gomma a guardare con William
Cody, a contemplare ,fin dove l’occhio porta , un’America che non c’è più, scomparsa
così da un momento all’altro per il gesto di chissà che mago: tutti belli, tutti a casa.
Per capire a fondo questo spleen, questo tarlo assurdo e ingannevole del benessere
nuova borghesia, insonnolentita, appagata, straniante, che tale è e tali alleva i figli: c’è
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la grande restaurazione alle porte, il grande modello americano che non annette replica
De Gregori si fa più “lungo”, “analitico” non gli basta più buttar là metafore a secchi. E
di Rimmel.
giustificazione di un genere umano che sta “sballando” o tenta solo di capire la sua
solitudine, ecco allora quel capolavoro che è “Santa Lucia”, non a caso preghiera (alta)
per chi non vede, non sa, oppure vede ma non sa lo stesso. Di colpo gli uomini
con una grande luce nascosta nell’animo e disperato bisogno d’amore e considerazione
(Festival).
Tobia è regredito agli anni ’50: fa tutto quel che gli dicono maestre e genitori. Tobia
(15 anni) non è mai stato se stesso, sempre quel che gli hanno detto di essere un “padre
morbillo, tristezza e nessun’altra malattia” dove qualche altra malattia sarebbe stata un
gran vantaggio se si chiamava coscienza o ribellione. E Tobia è quel che gli dice di
essere la maestra, cioè la copia, di una copia, di una copia (scrive il suo nome – come
tutti – nella grotta del bue marino). Ma attenzione, il destino è all’angolo. Tobia vede
del fumo, tira l’allarme salva il treno (non un amico, non una persona, il treno, cioè un
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oggetto sociale) e diventa un eroe. Chi sa leggere legga, io trovo in questa storia
l’influsso disneyano di “Pluto salva la nave” cartoon classico anni ’40 perfettamente in
linea con “l’americano fai da te, per la tua civiltà”. La canzone è “igienicamente
perfetta” come Tobia e non tira ovvie conclusioni, ma nella sua fotograficità è
tremenda.
messaggio va oltre il messaggio e l’accusa si fa ben più violenta che nella realtà, perché
preteso giustizialismo. Insomma qui non c’è un rivoluzionario (?) “il figlio del figlio
dei fiori” che uccide la borghesia (Babbo Natale), ma un borghese strafatto che cancella
per protagonismo una convenzione (il Natale) senza esserne affatto convinto: e di fatti
se ne torna bel bello nella calda cuccia dei genitori appena finito tutto. Sarebbe persino
semplice e lineare se tutto si riducesse a questo, ma non è così, perché l’altra interprete
della storia, Dolly, è figlia di proletari, e segue pedissequamente “il figlio del figlio dei
fiori” assecondandolo in tutto (colpa della droga?) perfino nel pulirgli le mani dal
sangue.
Cerco di capire. Cosa vuol dire De Gregori? Che gli assembramenti, i tribunali
popolari, i sit-in del sessantotto erano solo riti, feste d’iniziazione? Vuol dire che
eliminata una metafora perbenistica, i ragazzi non potevano protrarre la ribellione fino
alla fuga completa e tornavano nel “fortino” di casa propria? O vuol dire che
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unico e inappellabile, sempre contro la tradizione, salvo poi accorgersi che da soli
Io penso che “l’uccisione di Babbo Natale” sia molto, molto di più di una canzone.
Penso ai fatti di Novi Ligure e ad altri consimili. E penso soprattutto (e qui son certo
sicurezza); e l’angoscia predispone al ritorno della norma ( non son più libero ma son
teatrali che potremmo trovare sull’argomento a partire dall’Amleto, per arrivare alla
Mi resta solo di far notare il ruolo della natura nella storia: luna e stelle sono attonite,
di “Disastro aereo etc.”. Canzone di situazioni suggerite, di imput buttati là a partire dal
grande coro iniziale che magnifica una storia apparentemente piccola. Il giovane pilota
Tobia”, non sa quel che fa, ma lo fa. Canzone senza definizioni definitive (tutti sanno
inespressi e impossibili da risolvere, ma così, così lontani dal Bufalo e dalla sua casa
nella prateria.
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Lunghissimo, insolubile, spettrale e limpido come un ricordo che torna e fa male anche
se non lo vuoi ammettere: lui una terza persona per non farsi male, lui che ha imparato
o un concepir l’amore che fosse perfetta sintonia con la propria meraviglia di vivere:
così non è stato. “Lui vive adesso in California, sotto una veranda ad aspettare le
nuvole” e dice (dice) di stravedere per una certa Lisa. La verità è tutto l’esatto
contrario, pur nella consapevolezza che “lei” è distrutta (“ha la faccia che ricorda il
crollo di una diga”), perché il “vizio” dell’amore solo quella volta “lo portò lontano”.
come lo fa: due versi e niente più: “ditele che l’ho perduta quando l’ho capita / ditele
che la perdono per averla tradita”, due versi che sono due contraddizioni in termini per
chi vive di norme. Ma a pensarci bene è così sempre e per quasi tutti. E Allora i versi
suonano così: “Ditele che dopo aver vissuto per me stesso, e troppo, e oltre il limite,
quando ho cominciato a capire lei non c’era più tempo” “Ditele che la comprendo,
perché da egoista quale sono, ora solo ora la perdono, la comprendo per i miei
atteggiamenti difensivi, nei momenti in cui con me stesso e la mia priorità l’avevo
tradita”.
tristezza che non era mai apparsa in nessuna canzone di De Gregori. C’è la
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retrospettiva che per la prima volta si fa sincera e povera, oltre la sopravvalutazione di
se stesso e c’è amore, tra piccole polveri e briciole, ma tanto, tanto ripercorso.
Tralascio l’ipersensibile “Stomp” “ultimo discorso registrato” bello, ma che non serve a
dirci niente di nuovo sul nostro discorso. L’altro stomp “Festival” è di una chiarezza
moralisti, buffoni perbenisti, creatori di scandali finti da copertina dei giornali a vendita
che girava senza spada”, un ingenuo, un puro senza armi da opporre ad un mondo
De Gregori li mette in fila tutti: quelli che si appropriano di una pietà mediatica (“lo
portarono via in duecento, peccato solo quando se ne andò”), quelli che costruiscono la
pietà (“e l’uomo della televisione disse, nessuna lacrima vada sprecata”), quelli che
cianciano di motivi e cause per giustificare il suicidio (“aveva dei debiti”, “era pieno di
tranquillanti”, però “non era un ragazzo cattivo” (?)), quelli che ne fecero epoca e mito
(“l’inviato della pagina musicale scrisse: TUTTO è STATO PAGATO), quelli che
dopo averlo convinto ad esibirsi a Sanremo tra lacrime false balbettano “io sono stato
suo padre”, e quelli infine che lo hanno eletto, lo hanno innalzato a chissà quale
simbolo “per dimenticare un po’ più in fretta”. In questa serie di ruffiani, falsificatori,
critici illusi, cialtroni c'è tutta l’umanità di un compromesso, del non aver capito che
niente, niente di tutto ciò aveva determinato la fine di Tenco. E che la fine di Tenco
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non si poteva nemmeno lontanamente accostare ad un fallimento pubblico, ad un
disperazione di essere arrivato prima del tempo, di aver sbattuto sulla disattenzione
piccini, leccaculo, noncuranti nei riguardi di una canzone che c’era già e loro
italiana.
De Gregori fa di “Festival” una canzone d’accusa totale, prima che di pietà. Smette la
veste lirica per scendere all’invettiva e in questo si differenzia dallo stesso tema trattato
dall’alto una protezione per gli uomini tutti, i disperati per primi, ma anche gli
ignoranti, i supponenti, i “regolari” che difendono casa e averi, per tutti quelli insomma
che “non vedono” o perché non possono o perché non vogliono. Santa Lucia è
scampo né a chi non può reggerlo, né a chi può reggerlo, è lucida considerazione
contrastarlo più e quindi “per chi beve di notte e di notte muore, e cade sul suo ultimo
metro”, ma anche “per le persone facili che non hanno dubbi mai”. “Per gli amici…
che hanno perduto l’anima e le ali”, perché uguale nel nostro essere contro o coinvolti è
“la nostra corona di spine, la nostra paura del buio”. Sappiamo per chi parteggia De
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ci propone. Capita a tutti, non solo ai diseredati di vivere “all’incrocio dei venti” e
Inizio : “Per tutti quelli che hanno occhi e un cuore che non basta agli occhi”, chi vede
e non sopporta e o si fa vittima o ribelle a oltranza. Fine : “un ragazzino che canta ride
e stona perché vada lontano / fa che gli sia dolce anche la pioggia nelle sue scarpe”
da soli non ce la facciamo. Di là dei Vangeli e della Bibbia Santa Lucia non colpisce,
non perdona. Nei suoi occhi chiusi sa benissimo (che meravigliosa metafora) che la
musica dell’umanità (il violino dei poveri) non porta in nessun luogo (è una barca
sfondata), nella sua cecità è l’unica a cui chiedere una pietà che esuli dal considerare il
Qualche considerazione
tutte le evoluzioni e scoperte artistiche del nostro. Questo corso si è limitato e si limita
all’indagine tematica e linguistica di quegli anni, non perché De Gregori dopo non
abbia prodotto più nulla di nuovo o originale, ma per semplicità, per sintesi, per
rispondere alle premesse del titolo e non correre il rischio di buttar giù un trattato.
successiva, scegliendoli tra quelli più innovativi e più particolari, perché se è vero che
con “Bufalo Bill” la rivoluzione è già bell’e attuata, è altrettanto vero che dal ’75 in poi
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De Gregori ha scritto cose bellissime e incomparabili che non van passate sotto
silenzio.
insomma ,direbbe Alberoni , più dell’”amore” che proseguirà comunque negli anni a
autore sia nello svolgimento dei temi, sia nell’unicità linguistica e grammaticale, sia
soprattutto nella semantica, nel modo di usare i significanti , quel felice ping-pong tra
espressionismo e impressionismo che De Gregori inventa traendo stimoli da sé, dal suo
vissuto e dalle sue idee, quel groviglio di sensazioni inconsce, miste di spazi e tempi
premeva sottolineare in lui l’apporto di parecchia arte del novecento e quel suo
coraggioso incedere sulle vie tipiche della poesia scritta senza mai confondersi con la
stessa, anzi tenendo ben presente l’equilibrio fra parole e melodia e armonia.
Tutto ciò nei primi quattro dischi è più che evidente, perfino a volte esagerato e quindi
Premesso che, come già notato altrove (1) De Gregori procede collegando immagini
(non sempre ricollegabili però l’una all’altra) usando rapidi tocchi, a volte minimali;
che (2) la corretta lettura di una canzone parte dalla sua globalità e non dai particolari;
che (3)D.G. segue d’istinto le cose che via via gli passan per la testa, non curando
cronologie, non indicando nomi reali, non fermandosi mai più di tanto su un’immagine
o su un concetto; che (4) non moraleggia, non filosofeggia, non conclude quasi mai in
senso definitivo; che (5) non provoca a faccia aperta lacrime o risate, ma le suggerisce
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attraverso sottosensi; che (6) ha degli “incipit” per niente didascalici, spesso comincia
“in medias res”, altre volte con un pensiero occasionale apparentemente astruso; che
(7) nasconde simboli a volte tutti suoi, a volte identificabili solo ad una terza o quarta
lettura; che (8) rompe la sintassi usando verbi inusuali per alcuni complementi,
mischiando il “parlato” al “colto”, con molte parentetiche; che (9) passa con facilità
dalla prima alla terza persona e viceversa, con conseguente difficoltà a scoprire dov’è
finito lui; che (10) soprattutto, politico, personale, sociale sono in lui tutt’uno e un
tutt'uno ben chiaro nonostante le metafore ; premesso dunque tutto ciò andiamo ad
individuare l’uso innovativo e costante delle sue “figura di pensiero” della sua
di somiglianza esplicito mediante avverbi di paragoni. Es. bella come una rosa.
paragona due entità senza avverbi di paragone, es: tu sei una rosa.
LA METAFORA propriamente detta accosta invece due termini Uno traslato, l’altro
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Es: è molto tempo amore che noi giochiamo a scacchi (che ci studiamo, ci sfidiamo).
intera (breve o lunga) con significati morali o esistenziali (la divina commedia, la
metamorfosi di Kafka).
Es: e dal buio non chiama nessuno e nessuno ci chiama dal buio.
Es; focolare per casa, guadagnarsi il pane (per guadagnarsi il cibo) o anche peggio: “e
Es: ho bevuto un bicchiere di vino (invece del vino di un bicchiere). Ho visto Van
Gogh (invece dei quadri di Van Gogh) detto tra noi sinceramente, a volte non riesco a
concetto.
L’iperbole confina con l’ADYNATON (impossibile) che è però ben riconoscibile: es.
che tra loro non hanno niente in comune, ma da questo accostamento vien fuori un
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Es: il silenzio verde della campagna. Un barattolo di birra disperata.
successivi.
tutti.
reale. Di solito, in poesia, sottintende concetti importanti (“Il libro di Pascoli che sta
logica.
Alice
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1)“i gatti guardano nel sole / mentre il mondo sta girando senza fretta”
La casa di Hilde
Tre “anafore”
“oltre…oltre…oltre”
un’”iperbole”:
Molte le bisociazioni. C’è la R.C.C. del doganiere che minaccia col fucile prima e
stringe la mano poi. C’è il doganiere che trova in tasca al padre “una foto ricordo” (!) e
doganiere).
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Niente da capire
seduto”.
Una doppia sinestesia (ma la prima è più metafora) “l’anima in riserva e il cuore che
non parte”.
un’anafora breve:
una sineddoche:
un “adynaton” metaforico:
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una sineddoche (ma forse più una metonimia):
Qualche R.C.C. : “dicono che stai vincendo e ridono da matti”: “posso dartela vinta e
tenermi la mia vita”; “se tornerai da queste parti riportami i miei occhi etc…” “Però
Giovanna”.
Qui appare per la prima volta una figura semantica larga composta da più elementi non
necessariamente contigui, e appare per tre volte. Sono TRE RULE CHANGING
CREATIVITY basate non solo sulla contraddizione fra gli elementi costitutivi, ma
domande a cui seguono risposte non inerenti le domande stesse ,quasi il protagonista
IO DOMANDO “CHI?”
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(dialogo coi celerini).
BISOCIAZIONE). C’è pure una “similitudine”: “gente come un fiume”, figura rara in
De Gregori.
“dagli occhi del tramonto” è una metafora inversiva (il tramonto che guarda noi da
chissà dove) ed è pure metafora (oscura): “le grandi gelaterie di lampone che fumano
Bene
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“Mia madre si nasconde dietro i muri” è insieme metafora e iperbole. Gli amici con
“ancora mille volte, mille anni”, mentre classica è la sinestesia “sorriso ladro”.
Metafora larga e chiarissima risulta “le navi di pierino erano carta di giornale…sono
andate via”. Qui ancora una volta si dimostra che il parlar figurato in canzone è
A Lupo
Due iperboli iniziali “tasche troppo strette” “e otto, nove, dieci modi di vivere”. Ma
Ancora un verbo (avere) usato con due significati per due oggetti diversi: “lui aveva un
grosso cervello e dei gerani proprio dove la strada si divide” (vedi "BENE ").
Una metafora “le parole erano neve”. E un’allusione: “la piccola fiammiferaia presa
dal gioco…”.
Bellissima metafora allegorica, nonché allusione è “quaranta ladroni usciti dalla favola
senza permesso”, come allusione evidente è il successivo “la Renault diventava una
zucca”.
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Arlecchino
“Fiori falsi e sogni veri” è un’antitesi un po’ particolare in verità, “gli eroi” della
filo” per quanto simbolico è un fatto reale: un attore della commedia dell’arte sul filo ci
sta eccome, ma “il filo corre sopra la città” è una metafora pesantissima.
Anche qui appare il verbo “dare” con significati diversi a seconda degli oggetti “quanti
Metafora (e grande BISOCIAZIONE) “la mia cella è un po’ più in alto e pagano di più.
Rimmel
Tutta Rimmel è così piena di “changing creativity” e scarti di senso che non vale
L’inizio è un valzer di metafore allegoriche con una bella sineddoche (“il tuo nome”
invece di “te”). Non è discorso figurato invece “I miei dubbi e le tue ragioni” ripetuto
due volte.
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Anche “le tue labbra” è una sineddoche, mentre non lo è “la mia faccia” perché proprio
di “faccia” si parla.
“I quattro assi di un colore solo” sono una metafora chiarissima (tu bari). Divertente il
rimando criptico alcuni versi sotto: “Come Quando Fuori Pioveva”. Le quattro iniziali,
come si sa, sono quelle dei semi delle carte: Cuori, Quadri, Fiori, Picche. Tale rimando
Ancora dialogo a non capirsi (come in “cercando un altro Egitto”): “senza capire ho
detto sì / hai detto “è tutto quel che hai di me” / è tutto quel che ho di te”. Dove la
facili.
sottintende altre più “evocative”. C’è il “trucco”, nel senso “cosmetico” e nel senso
“esistenziale”, ma c’è anche il “trucco che cola” nel senso di pianto, di dolore. È
Pezzi di vetro
“Di ramo duro il cuore” è un’ “ANASTROFE” la prima che mi capita di leggere.
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Anche qui c’è il verbo avere usato con complementi oggetti diversissimi per campi
“La linea che gira”, “l’acqua corrente” sono metafore associative. “Visitate la notte” è
una sinestesia con primo elemento verbale, “come ombrello teso” una similitudine
semplice. Metafora allegorica è “la sua ultima carta” cui fan seguito due “changing
Il Signor Hood
“Ispirato dal sole” (verità, ottimismo, etc.), “due pistole caricate a salve” (pacifista, ma
tosto), “un canestro di parole” (teorico, oratore) sono tutte metafore, la prima
Molte le serie anaforiche quasi di seguito: “ E che fosse…” “e scaricò le sue pistole”,
coppie.
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Pablo
“E il treno io l’ho preso” è una splendida “anastrofe”, cui fa seguito logico un’altra
anastrofe (quasi un IPERBATO) “spago sulla mia valigia non ce n’era”. “Solo un po’,
solo un po’” sono anafore, come pure gli “hanno pagato Pablo” di seguito.
Anche qui si consuma una costruzione sintattica tipica in De Gregori e cioè collegare
“con le mani, io posso fare castelli, costruire autostrade e parlare (?) con Pablo”. E più
sotto: “tradisce la moglie con le donne, e il vino e la Svizzera verde (?)”. In tutti e due
casi il terzo elemento ("parlare","Svizzera verde"), è del tutto sconnesso con gli altri,
Buonanotte fiorellino
Tre immagini di bisociazione (associazione tra termini che apparentemente non hanno
nulla in comune):
nella prima l’attesa del cuore (mi telefoni?) è intervallata dagli sguardi fuori dalla
finestra, al cielo.
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Nella terza due casuali visioni di lei. Fiocchi di neve (un inverno? Un piacere per il
Le storie di ieri
“Tutta gente che aveva capito” è un’ironia (da EIRONEIA cioè dissimulazione,
Piccola mela
“Mi metto in tasca una piccola mela” è un’allegoria breve di cui conosce il significato
solo De Gregori. Propendo per un gesto usuale, popolare, normale, l’indispensabile per
affrontare la giornata.
Lo è il riferimento alla prima donna: “ti portassero in piazza tra chiodi e catene”, lo è
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Chiodi e catene e “quercia più vecchia” sono rimandi metaforici; cioè “soffri, devi
Piano bar
“Uno scudo bianco in campo azzurro è la sua fotografia” è la frase per cui escluderei
“Non sperare di farlo piangere, perché piangere non sa” è un chiasmo, figura
frequentissima in De Gregori.
Bufalo Bill
“Io unico figlio biondo quasi come Gesù” è una similitudine. “L’amico culo di gomma”
è una metafora analogica, lampante. “Sul ciglio di una strada” è una metafora vera e
propria.
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Altro esempio di rarità figurata.
“Il cadavere del grillo”. Oscuro ma simbolico. Loro sanno dov’era la morte.
Atlantide
“Un cappello (e non la testa) pieno di ricordi” è una sineddoche stravolta. Forse è
“Barattoli di birra disperata” è una delle più belle sinestesie che abbia mai letto. Non è
“E adesso lui vive nel terzo raggio” è metafora allegorica: come in prigione.
“La cui faccia ricorda il crollo di una diga” è una metafora precisissima e
indimenticabile.
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“Ditele che l’ho perduta etc.” è un’antitesi, elaboratissima ma vera.
Festival
“Dalla città dei fiori” è un’allusione (nonché soprannome), come allusione è “Marylin
reale.
“Chi ha ucciso quel giovane angelo etc.” è una metafora pura ed anche di evidente
lettura. Definirei “antitesi ironica” la serie: “era pieno di tranquillanti ma non era un
ragazzo cattivo. Altra metafora iperbolica è “presero le sue mani e le usarono etc.”.
Torna una magistrale sinestesia: “gli occhi sudati” che introduce la metafora “le mani
sono le metafore di De Gregori ) è “deporre una rosa sulla cronaca nera”. Coabitano
nella frase una sinestesia (cronaca nera), un contrasto (rosa-nera), una metonimia a
trasposizione di senso (la rosa sta per parole d'addio) e un adynaton (l'operazione è
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Santa Lucia
“Un cuore che non basta agli occhi”: cuore sta per un sentimento imprecisato tra
pazienza, coraggio, speranza, ed è quindi una metonimia, mentre è più sineddoche “sul
tuo vestito” che indica tutta la persona di Santa Lucia. Facile metafora (con due
metonimie) è “l’anima e le ali”. “All’incrocio dei venti” sta per “bersagliati di tutte le
sorti”.
Ed è variante personale de “in mezzo alla tempesta” ,più modo di dire (quasi
bellissima antitesi interna): il successivo “paura del buio” è forma abbreviata di “paura
Lucidissima e sublime metafora è “Il violino dei poveri è una barca sfondata” bella
così, da non tradurre, da non traslare perché dice tutto da sola, la poca straziante
musica di chi non ha niente e il suo dover andar per il mondo senza mezzi adatti.
E’ ancor più bella perché apre sull’immagine del ragazzino che dall’alto spinge la barca
Due anni intercorrono tra “Bufalo Bill” e il successivo “De Gregori” (1978). Molti
sono i motivi di questo ritardo, biografici ed esistenziali in primis, come ben riporta
Pino Casamassima nel suo “la valigia del cantante”, che consiglio a tutti di andarsi a
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leggere, perché è si vero (e più volte l’ho ripetuto) che qui si fa analisi semantica e
creativa, ma a volte non si può prescindere dal vissuto per capire trasformazioni e
superamenti.
ciechi d’arte e di politica. De Gregori non si sente affatto in colpa per il suo modo di
scrivere e comunicare che gli altri vorrebbero più politicizzato, più chiaro, più in linea
lascia il segno, come un brusco risveglio. Erano tempi (ricordo bene anch’io che ho
(in modo diverso per la verità) si tuonava contro la fiacchezza borghese di certi
De Gregori (come me d’altronde) credeva di essere nel giusto e che non esistono
ha una sensibilità enorme che provoca sogni notturni, vaghi sensi di colpa e tutto il
repertorio di autoindagine che può scatenare un’emotività così indifesa. Per giunta
teneva tutto dentro: il suo era uno sfogo implosivo e per niente benefico. In questo
d’amore e di una gioventù così a due passi e così lontana ormai, nonché la paura che
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qualcosa si sia spezzato nel dialogo con la libertà e che il gioco di Rimmel e Bufalo
Come lui dice grande abulia, tutto ciò si trasforma in solitudine, fascio di giornali sotto
il braccio, camminate per le vie di Roma, inerzia, non voglia, entusiasmo da recuperare.
E lo recupera eccome, uscendo con un disco che già dal titolo (De Gregori) dimostra la
formalmente dai precedenti, molto meno “oscuro” a tratti solare, persino divertito, più
comunque un’intensità, una profondità politica esplicita, senza mezzi termini, giocata
stesso una “prudherie” minimale, sintetica, sì, ma, come detto, convinta, netta, definita.
Questo partecipare, questo esser con gli altri, coi deboli, con la parte giusta e spesso
perdente della storia è sentimento che si ritroverà in modo squassante soprattutto in uno
degli album successivi, “Titanic” (con piglio tutt’altro che minimale), ma attraverserà
W l’Italia è una lunga serie anaforica di versi brevi spezzettati, di concetti fulminanti,
racchiusi in due, tre parole spesso in antitesi tra loro a formare un balletto di ironie e
trascinante proprio per il contrasto con le parti cantate. E così ad un’Italia piccola (ma
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non sempre colpevole) dei “valzer” e dei “caffè”, ad un’Italia da dimenticare, metà
un’Italia colpita al cuore a destra e a manca, un’Italia che pur presa a tradimento non si
arrende e non muore, non piange nella notte scura, è pur sempre per metà un giardino e
dovere; un’Italia che nuda, sola, indifesa è capace di alzar la bandiera il 12 dicembre, di
Non è un panegirico, una sviolinata, nemmeno un atto di accusa: è così come deve
essere, un ritratto nitido, antiretorico, di fede, di speranza. De Gregori non è incline alle
smargiassate, ai colpi d’effetto (e qui il rischio c’era) e rimane dall’inizio alla fine in
perfetto equilibrio tra realtà nuda e cruda e realtà demandata al cuore, senza mai uscire
d’orgoglio.
Ma torniamo a “De Gregori”, album dell’anno prima, che come detto segna un ritorno e
una svolta. Se “W l’Italia” non lascia dubbi sul senso della misura del “nostro”,
“Generale” non ne concede alcuno su da che parte stare, con chi partecipare, e di più
sulle radici in fondo semplici, popolari, del pensiero di De Gregori: la contadina curva
sul tramonto, i bambini di campagna che aspettano il Natale, la terra, i funghi gli aghi
Perché questo è “Generale”, di là del suo lampante antimilitarismo: una gran canzone
di pace. E gran canzone è già nella fusione inscindibile di musica e testo, con
d’immagini che sfumano una nell’altra, con il “rif”, il solito “rif” trascinante in cui è
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come se scoppiasse, parlasse, si facesse sentire tutta la gioia di chi torna a casa, alla vita
vera, dopo mesi di finta guerra. In mezzo a tutto questo c’è un mare di immagini di
a pensare su, proprio il contrario di certa concelebrata “poesia scritta”. E allora vedi.
Vedi il treno e chi ci sta dentro, il paesaggio dal finestrino, vedi, perfino, i pensieri, i
desideri, i sogni di chi sta tornando, vedi come se fossi tu stesso protagonista, immerso
nel testo, nella storia, come deve essere, come dovrebbe essere sempre per un testo, per
C’è “la notte crucca e assassina”, “la contadina CURVA SUL TRAMONTO (un
quadro di Fattori), “Il treno che portava al sole e non fa fermate neanche per pisciare”
(in fretta, in fretta!), le infermiere che fanno l’amore; c’è quel rotolante triplice
seccare, da farci il sugo” triplice infinito con cambio repentino di quadro, di ambiente;
ci sono “bambini che piangono e a dormire non ci vogliono andare” e “cinque stelle,
cinque lacrime sulla mia pelle” che non han più senso, ora sulla via del ritorno, come
Raramente tanta poesia si agita in una sola canzone, ma è poesia in musica, distinta,
Tutt’altro tema quello di “Renoir”: tutt’altro tema e tutt’altro treno. Lei parte, lui se ne
va, è un addio, forse lo stesso di Rimmel ma rivisto con altri occhi. Detto così
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fotografica piena di considerazioni a tempo scaduto, ogni cosa è nel posto dove non te
Si parte con una rapida successione di cose e oggetti paragonati (“come”) tra loro, nelle
loro funzioni. Solo che le prime due volte i paragoni sono ovvi anche se originali, ma
nella terza appare come 2° termine non più un oggetto, ma tutta una considerazione.
(gli aerei stanno al cielo) COME È VERO CHE NON VOGLIO TORNARE
L’autore prepara un terreno di concetti che esprimono un ordine naturale delle cose e ci
fa rientrare (quasi un sillogismo) un suo pensiero personale (“se gli aerei volano, è vero
Tornare dove? In quella stanza di ragazzo, di primo folle amore e angosciate attese
Lei vista dagli altri non era poi ‘sto gran che (“che straccione era”) ma chi se ne frega.
L’importante è che gli amici le dicano se era triste o allegra, se i capelli si muovevano
al vento.
9
Sinestesia: mettere in ordine i pensieri.
109
Questo successe tanto tempo fa, roba appunto da Atlantide, da ricordo sommerso: prese
il treno per andare più lontano possibile (“vide l’Italia passare ai suoi piedi”), prese il
Non una connotazione fisica, non una parola, non una risposta, solo i “suoi” pensieri
Gran gesto nel finale: vabbè è andata così, “da qualche parte c’è un uomo migliore” e
un lapidario, epigrammatico, succinto finale: non parlo più di lei ma non l’ho
dimenticata.
Anche in “Rimmel” De Gregori fa poco per scoprirsi, getta il sasso e tira via la mano;
ma è il suo modo di non lasciarsi invischiare, di non dar da vedere tutto. Sta di fatto che
per “divertissement” sull’album ci sono due versioni di “Renoir” una triste, lenta;
l’altra scatenata da festa del paese, quasi liberatoria. Altra magia: positivo e negativo
fotografico che si ribaltano a seconda di come li si guarda. È così, l’amore, dopo anni
Titanic è la grande allegoria: la nave è in festa, non pensa, non può pensare a pericoli
imminenti e va verso la rovina : non bisogna mai fidarsi troppo di una nave invincibile
e del suo capitano troppo ottimista. Lezione chiara, che però non risulterà opprimente e
prolissa nell’album; infatti solo tre brani fanno direttamente riferimento alla tragedia di
una società che sguazza nel benessere e pensa di non dover mai affondare.
Per Titanic vale quel che è stato detto nella parte finale dell’introduzione a “De
Gregori”. Anzi qui siamo pure oltre. De Gregori non maschera, opera allo scoperto,
accusa, ironizza, non le manda a dire, con tutti i mezzi espressivi a sua disposizione,
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dalla popolareggiante e polemica verve di “San Lorenzo” e “Centocinquanta stelle”,
capitano”. Si sente (e non solo da “Caterina”, dedicata alla Bueno) l’esigenza fortissima
che ha De Gregori di prender posizioni popolari e usare sberleffo e rabbia senza troppi
diaframmi: si avverte in lui come il bisogno del ritorno ad un’infanzia del cantare che
rendere poema epico lo scontro rionale fra un ragazzo e un gioco, fra una generazione e
momento della cronaca e della storia, ma è anche per sempre, perché non basta un
Periferia, quasi pasoliniana, i palazzi devono ancora essere costruiti, ma c’è il sole. E
prato, un limite. Nino in questo campo che è il suo mondo, il nostro mondo, va a
giocare con il continuo presentimento di tirar male, di sbagliare nei momenti cruciali,
perché non ha la forza, non ha avuto la fortuna di altri. Chi sono quelli come Nino?
“Giocatori tristi che non hanno vinto mai” “che hanno appeso le scarpe a qualche tipo
di muro” “e ridono dentro un bar”, e da dieci anni stanno con una donna mai veramente
amata. Ecco. Mezza Italia. Gente che al primo rigore sbagliato si è data per spersa:
gente che quel rigore comunque non gliel’avrebbero fatto tirare una seconda volta, che
111
cambia scena e quadro e si trova all’ammasso nell’illudersi collettivo, compagnesco,
Ma Nino è l’eccezione, senza saperlo è l’eccezione. Nino esce dal ghetto grazie ad uno
straordinario allenatore, Nino prende coraggio, e con la palla incollata al piede arriva in
Entrerà in una squadra, sarà uno del gruppo, seguirà un programma, una linea
prestabilita: sarà libero? Sarà un numero (il 7) e basta? Vincerà veramente o crederà di
vincere? E così la società crea due tipi d’uomini: lo sconfitto, perché non serve, non
produce, non dà quanto basta (“ridono nei bar”) e il vincente, vincente alle sue regole,
fantasia sono terminali unici ed indispensabili del suo valore, del suo essere uomo.
Tre, si è detto, sono i brani che attengono più allegoricamente al Titanic e al suo
del fuochista”. Qui tutto è giocato sulla trovata scenica di un figlio che lavora alle
caldaie, con la madre lontana (“Ma mamma, qui mi rubano la vita, quando mi mettono
a faticare per pochi dollari nelle caldaie sotto il livello del mare”). Il pathos è creato dal
contrasto stridente tra un uomo “reale”, emarginato, ma verosimile con l’”Uomo” dei
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ponti superiori , quello che si crede invincibile a cavallo com’è dell’infallibile
capitano della nave. Anche “I muscoli del capitano” è un dialogo, ravvicinato però, tra
il mozzo e il capitano appunto, ovvero tra due mondi, tra due idee di mondo: la verità
dettata dalla fatica e dalla miseria del primo, l’illusione sfrenata, il cieco ottimismo del
della ragione e delle idee, una nudità vestita di seta d’oro. Al pari di “Generale” è,
questa, una canzone folgorante e inimitabile ed è insieme una storia gnomica, un atto di
stupefacenza.
L’andamento della narrazione è magico: il capitano è lui stesso una macchina perfetta
(“di plastica e metano”), libero da passioni e sentimenti (“non tiene mai paura”,
volutamente alla napoletana); per iperbole è lui stesso la nave (“si leva l’ancora dai
d’acciaio, pistone rabbia, guerra lampo e poesia”), fino al delirio di poter raggiungere
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l’irraggiungibile (Icaro, Ulisse) e cioè il futuro, che per la sua velocità è “una palla di
soltanto ingenuamente la verità : lui sì che l’iceberg l’ha visto e tenta di dare l’allarme
(“In mezzo al mare c’è una donna bianca”). Il mozzo ha un cuore e un’immaginazione,
è arte contro scienza, per cui quell’ammasso di ghiaccio si trasfigura, diventa poesia
(“una donna bianca, così enorme alla luce delle stelle, così bella che di guardarla uno
non si stanca”).
sospettare, nella sua presunta invincibilità, di andare verso la fine, e risponde con la
stessa cecità di tutti gli inquisitori della storia (“giovanotto, io non vedo niente, c’è solo
Festaiola, irriverente, metà rumba, metà fox trot, intrisa della stessa falsa allegria che
circola fra i saloni del “Titanic” è la canzone che dà titolo all’album. Anche qui si
procede per contrasti evidenti, anche qui due sono le umanità rappresentate, quella di
3^ classe e quella di lusso. Gran parte della narrazione è occupata dai pensieri liberi del
“cafone”, dell’emigrante che in felice ironia, quasi non si accorge del trattamento
spaventoso che sta subendo, emozionato com’è per cose che non ha mai visto e per la
prospettiva di un futuro migliore (“Ma chi l’ha detto che in terza classe si viaggia
male? Questa cuccetta sembra un letto a due piazze ci si sta meglio che in ospedale”);
dall’altro (“A noi cafoni ci hanno sempre chiamato, ma qui ci trattano da signori, che
quando piove si può star dentro, ma col bel tempo veniamo fuori”), tanto che quel
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disastro di sistemazione in terza classe (“sudore dal boccaporto e odore di mare
borghese arricchito, il “pervenu” che sventola addirittura sotto il naso del capitano le
mille lire per aver diritto alla prima classe, così come sbandiera sua figlia quindicenne
(con cappello parigino), per essere invitato al tavolo del comando, anche lui per motivi
lunare e le meraviglie del viaggio. Non è da meno sua figlia, ovviamente “innamorata
del proprio cappello”, così da non vedere altro che se stessa, non pensare ad altro che
alla sua bella figura in un delirio di vanità ed egocentrismo, non senza lasciarsi tentare
A questi due diversi tipi di allegria fittizia, provocata, illusoria (la proletaria e la
obiettivi che si propongono l’uno e l’altro ceto: secondo i “cafoni” di terza classe “per
America”.
pressochè totale di chi viaggia, nel non vedere, non accorgersi, non capire, lasciarsi
trasportare dal clima festaiolo e credere (i cafoni soprattutto) di essere lontano dal
passato, in una nuova dimensione onirica: nel non riconoscere cioè che sempre nello
115
Tre capolavori
Come già detto, anche se l’intento di questo nostro studio è soffermarci sui primi album
linguistica e concettuale, non possiamo esimerci dal considerare alcune delle canzoni
nostro autore.
Parlare de “La donna cannone” (1983) significa per molti versi entrare in un altro De
scritta per un film (o meglio direi il film è scritto per la canzone). Poi, e per la prima
volta in maniera così eclatante si esce dallo schema “ballata” o “piccolo motivo
melodico” o “musica che sta dietro le parole”, perché “La donna cannone" è
nemmeno pensare di esaminare (o gustare) una canzone simile se non si parte per prima
cosa dall’impianto melico, costruito (o intuito?) in una serie crescente d’incastri fino
allo sbottare conclusivo (da brividi, ma non roboante); una tessitura che per alcuni versi
rimanda al primo Paoli, gregoriana essenziale de “Il cielo in una stanza”, per altri versi
116
all’imput delle arie pucciniane (“Tosca” soprattutto), colto e tradotto in dimensione
Ma la musica, la melodia presa in sé non è tutto, perché voce e spirito come risultano
facendola volare a mezzo cielo, in dimensione onirica”. Più chiaramente: “La donna
straordinaria perché pur riproducendo uno schema antico e consolidato, lo porta avanti,
Ciò significa che la strofa all’italiana diventa un recitar cantando dai versi lunghi e
colloquiali (solo le ultime note dei versi cambiano)dove la lezione di Dylan, Cohen,
Dire Straits, ma anche quella francese snelliscono l’endecasillabo stretto della vecchia
romanza.
ritroviamo quasi senza accorgercene nel corpo centrale, in piena naturalezza. E questo
“ritornello” non ha niente della maestosità inizio-secolo; anzi, giocato com’è su piccole
limpidissimo.
117
Su questo sfondo attraente, trascinante, De Gregori organizza un tema testuale che non
è poi così facile come si pensa. Certo l’immagine della donna, della creatura umana
fisicamente infelice, ma destinata a trovare una sua felicità è la cosa che colpisce di più.
La bruttezza esteriore che cede alla bellezza interna, la virtù nascosta che prevale
sull’evidente vizio creativo; lo spirito che è più della materia. È il mito della bella e la
Quel che intriga nella stesura formale della storia è l’accavallarsi tra prima e terza
persona a far da soggetto, senza “virgolettati” o cambi di carattere. Qui sta l’originalità
testuale. La donna cannone parla di sé dal dentro e dal fuori sdoppiandosi in una sorta
Avviene cioè come se De Gregori si identificasse non nella donna in sé, ma nel suo
gesto epico di andare oltre la tenda oltre il cielo finalmente tenendo per mano
qualcuno/a che veramente lo capisce, lo comprende in toto. Noi non avvertiamo questa
dualità, questo passaggio dall’io al “lei” questo alternarsi di maschile e femminile e qui
La formula è parente alla lontana di “cercando un altro Egitto” e altre cose simili di
anche a me di uscire da questo spazio, da questa prigione di tenda e volare fra le stelle,
“MI CHIEDETE QUANDO?” per poi rispondersi “quando io, che sono la donna
cannone, sarò d’oro e d’argento, non sarò costretta ad aspettare treni, fermerò il tempo
118
(IL GIORNO SI BLOCCHERA'), avrò il consenso di tutti, di quelli che contano (IL
dove non servono parole e non serve essere belli o brutti: ma saremo veri, reali in carne
e ossa, non spiriti: reali, veri, innamorati e senza bisogno di aria e cibo, uniti per
sempre”.
Ed è con questo pensiero, con questo sogno, con questa certezza che ad occhi chiusi
compiere solo un esercizio da circo. Questa volta non è solo un’esibizione per
raccogliere applausi: questa volta la donna-cannone sparisce per sempre lasciando tutti
“archetipo”, presente ovunque nel tempo e nello spazio a livello inconscio e conscio
negli esseri umani. Inappartenenza a un tipo di mondo, conflitto tra realtà e sogno,
necessità di strappare l’amore, il proprio amore agli altri e averlo solo per sé, libertà
assoluta e indolore.
Ma “La donna cannone” non è, per fortuna, un trattato o un saggio. È soltanto una
poesia di rara bellezza, e come ogni grande poesia non spiega e non sottolinea, ma
Sarebbe bello, anche troppo, iniziare ogni anno scolastico, a qualsiasi livello e indirizzo
con la lettura de “La Storia”. “La Storia” (Scacchi e Tarocchi 1985) è una delle più alte
119
e popolari ricerche del senso comune, del vivere assieme che la canzone d’autore abbia
mai prodotto. E non solo quella. “La Storia” parte da un ottimismo della ragione e del
(non solo etico, ma politico, poliumano), che trascende ogni errore, ogni castroneria,
ogni interpretazione parziale del passato, per assicurarci che gli uomini, noi tutti,
campicelli e di potere. “La Storia” è tutto questo perché s’identifica con l’umanità e la
Bismark o Hitler o Saddam Hussein. Questo identificare la storia con la gente, con tutta
la gente, ha radici antiche, ma anche qui De Gregori prende le misure: non c’è niente di
rivoluzionario, di sovversivo in quel che dice. Non c’è niente o quasi (a parte le masse
Questo afflato di partecipazione totale è movimento o stasi, perché siamo sì “onde del
mare” ma anche “foglie sotto il cielo” a coprire il prato, siamo a momenti rumore o
storia è un opporsi continuo a chi ti vuole fermo magari “chiuso dentro casa quando
viene la sera”: ridicolo, non è il portone che trattiene gli uomini. E c’è al fine di tutto,
120
di questa presenza allucinante e oppressiva che la storia ha nelle stanze degli uomini, la
certezza che “la gente (perché è la gente che fa la storia) quando si tratta di scegliere e
di andare, te la ritrovi con gli occhi aperti che sanno benissimo che cosa fare” sia i colti
che gli ignoranti, non è questa la discriminante. E un’altra più spaventosa certezza: che
la storia non si ferma mai e la puoi eludere o evitare per un attimo, la puoi interpretare
e consegnarla spuria, falsa a chi ascolta per poco più di un attimo, ma lei ritorna forte,
vincere la sua fiumana, la sua verità semplice come il pane degli uomini, come un
piatto di grano.
manifesto di una condizione umana universale, non particolare. Oltre, molto oltre il
lavoro, la fabbrica, la miseria, il dolore proletario che pur son contemplati, “La Storia”
dipana la storia stessa dell’uomo nei tempi, nei secoli e per il futuro. L’insolubilità
apparente di armonia tra gli uomini diventa contingenza, casualità; come a dire: non si
è mai trovato, per ora, il modo, il momento. L’accusa verso chi approfitta della storia a
suo vantaggio diventa pietà e vergogna come a dire : bisogna riscrivere il vocabolario
“Vincere” è essere nella storia, nell’euforia e negli errori degli uomini, nel loro diritto
121
“Il cuoco di Salò” (Amore nel pomeriggio, 2001) è una canzone inimmaginabile e fuori
da ogni canone.
vicenda, perché di vicenda storica si tratta e così recente che la ferita fa ancora male. La
trovata del “corner” per raccontare un “grand affair” non è nuova in arte. Il personaggio
minore, angolare, che fa da protagonista e racconta dal suo punto di vista un evento più
grande di lui c’è già in Shakespeare, c’è in molto cinema (“La Tunica”, “Ben Hur”, “Il
Nella canzone in esame il trucco di lasciar descrivere gli ultimi giorni del fascismo da
permette a De Gregori una descrizione non solo imparziale, quasi naturalistica (i fatti
son desunti da rumori, voci, pettegolezzi) ma perfino più disincantata, lontana e nel
Il cuoco pensa a sé, alla sua vita, al suo lavoro: è lui nella sua piccola dimensione il
centro: tutto il resto che è “la storia” fa da sfondo e risulta ai suoi occhi come
occasionale incidente, ininfluente. Il cuoco “vede” soltanto i riflessi esterni del grande
dramma che si sta compiendo, e in questo fiume in piena, in questo mondo che si
sconvolge e cambia, continua quasi imperturbato a pensare come il giorno prima, come
sempre, alla sua professione, al suo quotidiano. Ma, e qui sta la trovata, quando si
spinge a giudicare oltre il suo orto non ha, non conosce pensieri di parte, torti o ragioni,
e accomuna nel delirio di una sola morte tutti, anche quelli che stanno “dalla parte
sbagliata”.
122
L’espediente della voce esterna narrante permette a De Gregori di fermare le bocce e
provare un’umana, universale pietà per tutti i nemici, rivali compresi. Quel che gli
sarebbe stato più ostico in prima persona (vedi “Le storie di ieri”), in questa falsariga di
svolgimento a tema gli risulta semplice, non contraddittorio e soprattutto coerente. Non
potere: partendo da sé e dal suo vissuto non avrebbe mai potuto scrivere una canzone
simile. E allora ecco il “cuoco” di Salò, creatura in una tempesta più grande di lui che
appena avverte e non può capire in tutte le sfumature, se non nell’unica che gli risulta
più apparente che reale. De Gregori si avvale di uno schermo per permettere a se stesso
uno sfogo di dolore universale che altrimenti non potrebbe esprimere in una libertà così
spiegazioni o precisazioni al suo pensiero. Perché anzitutto “Il cuoco di Salò” non è
una giustificazione né totale né minima al fascismo e ai suoi disastri. Non è e non vuol
E allora siamo ben oltre i primi anni quaranta: siamo in tutte le guerre, in tutte le
irruzioni di morte nella storia, perché di questo si tratta, del confronto cioè tra la
bellezza della vita (del sole, dei giorni, della luce) e il disfacimento della morte, una
123
morte melliflua, ingannatrice, subdola nell’apparente meraviglia delle sue promesse di
frusciare dei loro vestiti, le musiche notturne, le porte che sbattono, le scale salite e
ridiscese la mattina spargendo ovunque profumo, lo colpiscono molto di più degli spari
che vengono da fuori. Quando le ragazze scendono a far colazione il primo pensiero è
alla vita che va, che continua (“se quest’acqua di lago fosse acqua di mare, quanti pesci
di sentirsi in qualche modo importante: “anche un cuoco può essere utile…” “anche in
quel che sta accadendo fuori: “Che qui si fa l’Italia e si muore, dalla parte sbagliata, in
una grande giornata si muore…”. Non è un approccio critico, né di parte, è solo come
un titolone letto su un giornale al bar o dal barbiere. Così lo prende , così lo fa suo il
“cuoco”, che neppure sa se sian banditi, eroi o americani quelli che stan sparando sui
apparente dolore nella riflessione davanti alle ballerine sculettanti: “quante storie potrei
vera e propria, bensì una sorta di fatalismo, di impotenza, di “cosa ci posso fare io” di
fronte a cose così imponenti. E infatti prevale nel suo piccolo modo di ragionare da
Attraverso questo magistrale “fool”, cui tutto nella sua astoricità è permesso, De
Gregori dice il non detto, molto più che se lo dicesse espressamente. E lui sì, lui dalla
124
sua anima con la sua voce, distinto se pur ben mascherato nella inattualità del cuoco,
piazza quella stridente contraddizione tra illusione e realtà, errore e verità, sole o morte,
che sono pianto per l’inspiegabile catastrofe del destino umano dove colpe e torti per
Lo scopo della nostra dispensa era quello di scoprire le innovazioni tecniche e artistiche
ovvio che quella di De Gregori è solo una delle strade possibili, pur se rivoluzionaria e
antesignana. Prima, insieme e dopo di lui i “poeti” in canzone hanno usato e usano altre
forme, altre semantiche, altre trame non meno giuste, importanti, consone alla veste
musicale. Queste forme non possiamo percorrerle tutte; ne abbiamo delineate le linee
essenziali e più importanti nelle pagine introduttive, non di più, perché questo non è e
non vuol essere un trattato totale ed esaustivo sul linguaggio poetico in canzone; ci
per maggiore chiarezza alcune di queste linee, il perché della loro genesi, l’importanza
che hanno pur nel loro diverso comunicare e ciò che le distanzia o le accomuna al
125
L'atto creativo del linguaggio in canzone. Tipologie.
Processi d'intendimento.
oppure
appartengono più soltanto alla prima o alla seconda (“double minded” sempre
secondo Koestler).
Se io ad esempio scrivo (1) “Acqua azzurra, acqua chiara, con le mani posso finalmente
Ma se io scrivo (2) “ora che la mia vita è una roccia di gridi” 2 lascio aperto il circuito
dell’intendimento perché i termini che uso sono in apparente conflitto tra loro e l’uno
Più semplicemente ancora (1) “una campana dorata” è associazione convergente. “Un
silenzio azzurro” è divergente (in grammatica una “sinestesia”). In questo secondo caso
non essendoci rapporto logico tra i termini dobbiamo compiere uno sforzo ulteriore
10
Battisti - Mogol
126
La strategia “simple minded” è tipica della scienza, ma è presente anche in tutta la
divergente, pur largamente rappresentata nei secoli, è tipica dai simbolisti francesi
RGC ) che accumula, mette insieme elementi più o meno dello stesso ambito per
RCC) che parte invece da elementi che non hanno niente in comune per
In poesia, nei testi delle canzoni la prima forma di creatività accorpa quindi parole,
frasi già esistenti per crearne nuove e inusitate (i neologismi ad esempio come
attesa logica producendo qualcosa con un senso tutto suo, che non ha nulla in comune
con le singole parole o le frasi messe insieme. Es: “metti un tigre nel motore 11” dove
non c’è attinenza né tra il verbo METTERE e l’oggetto TIGRE, né c’è associazione
2
G. Ungaretti
11
Questo e l’altro esempio sono tratti da: LA CREATIVITA’ TRA REGOLE E CONFLITTI di Massimo Prampolini su
“Prometeo” anno 20 numero 79.
127
convergente tra l’articolo UN e il nome TIGRE e neppure tra tutto il resto e il
MOTORE.
sua volta esprimersi in tutta l’opera, oppure (come abbiamo già visto e rivedremo), in
una parola, in un passo, in un brano che stride e contrasta col contesto precedente.
Per chiarire i meccanismi che regolano questo duplice modo di intendere l’atto
creativo, partiamo dal triangolo semantico base dei due linguisti OGDEN e
RICHARDS:
PENSIERO DI RIFERIMENTO
SIMBOLO REFERENTE
(significante) (significato)
128
PENSIERO DI RIFERIMENTO
(conosco il re, l’aria, il cielo)
Significante Significato
FELICE COME UN RE UN RE E’ CERTAMENTE FELICE
L’ARIA è PURA, PERCHE’ HA TUTTO:
SPLENDIDO IL CIELO SI RESPIRA BENE, LA
(Baudelaire) GIORNATA E’ MAGNIFICA.
Cioè tutti i “significanti” espressi da Baudelaire son già nel nostro bagaglio logico e
Lo stesso avviene anche dove l’atto creativo assembla termini che possediamo separati
pensiero di riferimento
NESSUNO
INTERRUZIONE
l’eversione creativa.
129
Per arrivarci, per intendere, per apprezzare o anche soltanto per catturare
un’evanescenza del senso, l’evocazione che trasmette, dobbiamo in gran misura lasciar
perdere i legami logici e spaziare liberamente nel nostro panorama lirico interiore,
perché questa operazione è istintiva, connotativa, basata sulla sensibilità. Dobbiamo
quindi cambiare l’apice del triangolo in questo modo:
SIGNIFICANTE SIGNIFICATO
L’intendimento di una “rule changing creativity” segue il percorso del SENTIRE molto
più e prima del CAPIRE laddove quello della “goberned creativity” li segue tutt’e due.
Certo, questo intendimento non è né alla portata di tutti, né di tutti allo stesso modo.
all’arte che significa anche educare la sensibilità che ci siamo costruiti (esperienza),
godere dell’arte fino ad un certo punto ma lo “scarto” di qualità non si produrrà mai.
Senza questo tipo di cratività non avremmo mai avuto Buster Keaton, Copernico,
130
Autonomia e nobiltà artistica ,liricità esclusiva ,espressività particolare del linguaggio
in canzone , come parte indissolubile rispetto alla forma "canzone" presa "in toto".
rileviamo che “la creatività governata” sta alla base di quella che abbiamo chiamato
testuale.
discorso parte da molto lontano, perché già nei trovatori avevamo distinto un “trobar
Possiamo trovare testi “mediali” veri, originali, molto belli (quasi tutti quelli di Mogol),
Non è raro poi che un autore generalmente “mediale” abbia guizzi transmediali in tutto
che un autore transmediale scriva canzoni “mediali” (“Generale”, “La donna cannone”)
La “medietà” corrisponde ad un intendere figurativo che è stato alla base di tutte le arti
131
novecentesca. Essendo stata la canzone per lungo tempo specchio di sentimenti
“arrivare subito”, comunicare senza diaframmi. Ciò non vuol assolutamente dire che la
poesia è lo stesso. “La quiete dopo la tempesta” è un capolavoro “mediale”, così come
il discorso è simile, ma per sua natura la canzone pretende significazioni ben diverse
dalla poesia lirica. Il “figurativo” e il “non figurativo” in canzone fanno i conti con una
diversa origine, una diversa storia, una diversa finalità rispetto alla “poesia” e, come
più volta detto, devono inserirsi, non debordare, rispettare il connubio con l’altro
emozione (“quando trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è nella mia vita
come un abisso”12); la parola in canzone è metà del tutto, è una parte: non le si chiede e
non le si può chiedere la totalità semantica ed emozionale della poesia, perché ciò
romperebbe l’armonia, l’equilibrio che essa parola deve mantenere con la musica. Mi
spiego: se la musica fosse una mera aggiunta, un accompagnamento, non ci sarebbe più
della parte letteraria ma è proprio, esclusivamente suo, e la parola (in canzone) non
12
Ungaretti.
132
può invaderlo, perché avremmo una comunicazione doppia di un’identica emozione,
Ecco quindi la differenza essenziale tra la parola (la frase, la disposizione dei termini,
Là l’unico suono comunicante che riceviamo è pregno di tutto quel che dobbiamo
Quindi non è che la parola in canzone sia più “povera”, perché il paragone con la
“poesia” scritta è improponibile, siamo in due campi diversi, in due forme d’arte
diverse. Sarebbe come paragonare la tragedia greca al teatro dell’assurdo solo perché
Il linguaggio in canzone risponde alla sua origine di significazione binaria; alla sua
disponibilità a chiarire spazio e tempo come scenari della stessa; alla necessità che
metafore analogiche).
modo in cui deve essere letta e ascoltata e cioè inserita nella melodia, perché è tutt’uno
con questa.
133
La forza poetica del linguaggio in canzone non sta nell’anarchia letteraria, nella libertà
smisurata da qualsiasi regola o confine, ma nella coerenza, nella adesione armonica alla
con la stessa: è questo equilibrio, è questa avvertibile fusione che provoca la ricezione
quasi ad una moltiplicazione. Se una canzone è bella non avvertiamo confine tra parole
e melodia: ci sembrano miracolosamente, quasi per magia nate per stare insieme, nate
insieme.
La poesia scritta è come un uomo, una persona: ci comunica tutto quel che ha dentro, si
strappa anima e cuore per denudare il suo “io”, ci sbatte in faccia a ruota libera i suoi
sogni, deliri, le sue cadute, le sue resurrezioni, la sua solitudine. È lui, è l’uomo, la
La canzone è come un uomo e una donna che si alleano insieme. Nessuno dei due è più
soltanto se stesso, totalità esistenziale di sé. Per chi guarda da fuori sono “loro due”,
una coppia inscindibile e a nessuno verrebbe in mente di pensare che ciò che l’uno ha
penalizzazione alla propria libertà: “loro” sono un’altra cosa da sé stessi divisi, e divisi
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Bibliografia
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M. BONANNO – CERCANDO UN ALTRO EGITTO – BASTOGI
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