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Riassunti Il pensiero musicale

del Novecento (E. Fubini)


Filosofia
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
44 pag.

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“IL PENSIERO MUSICALE DEL NOVECENTO” – ENRICO FUBINI

Capitolo Primo: Le radici dell’avanguardia del XX secolo.

Si dà in genere per scontato che le radici dell’avanguardia si ritrovino nella musica


romantica della seconda metà dell’Ottocento, e in particolare in alcuni musicisti che hanno
iniziato a mettere in discussione i capisaldi del sistema armonico-tonale tradizionale:
Wagner, Strauss e in qualche modo anche Mahler. La crisi della tonalità si ritroverebbe nel
passaggio del Tristano di Wagner, in cui di settima in settima ritarda la conclusione su una
tonica (da il nome alla scala corrispondente e anche all’accordo derivatore), fino a
provocare nell’ascoltatore un senso di smarrimento tonale. Dopo Wagner la situazione è
andata sempre più radicalizzandosi, fino alla sospensione della tonalità e al conseguente
svuotamento delle sue funzioni. Però ci si domanda come ritrovare i significati che una
lunga tradizione aveva costituito. Schönberg, (caposcuole delle avanguardie del
Novecento), dopo la parentesi atonale, aveva indicato la strada, che lui stesso aveva
percorso con l’impegno dettato dalla fede nella capacità comunicativa dell’arte, la
dodecafonia. Il nuovo linguaggio cancellava alle radici ogni ricordo della tonalità, ma che al
tempo stesso indicava le regole del nuovo linguaggio. Le avanguardie hanno proseguito in
parte sulla strada di Schönberg. La radicalizzazione del metodo dodecafonico, fu con
l’introduzione della serialità integrale (serialismo: per serialismo si intende una tecnica
compositiva basata sulla serie, principio costruttivo che si fonda su una successione
prestabilita e invariabile di dodici note; serialismo integrale: tecnica compositiva basata
sull’applicazione dell’organizzazione seriale non solamente all’altezza delle note, come
nella dodecafonia, ma anche ad altri parametri come la durata, la dinamica, il timbro –
tendenza sviluppatasi nella scuola di Darmstadt) fu l’ultimo traguardo della avanguardie
post-webneriane, di quelle che si sono riconosciute nella scuola di Darmstadt. Alla base di
questa ideologia musicale, vi è l’idea che Schönberg abbia rappresentato l’inizio di un
percorso che ha portato alla dissoluzione non solo del linguaggio tonale, ma anche
dell’idea stessa di opera. Questa visione ha mirato a privilegiare, indubbiamente, alcune
correnti e a sottovalutarne altre. Tutte le prospettive storiche su un determinato periodo
storico sono per forza di cosa unilaterali. Questa concezione della musica si identifica con
la musicologia di Theodor Adorno, che ne fu il più geniale interprete. L’idea che vi sia una
genealogia di grandi musicisti che incarna l’evoluzione della musica occidentale è di
stampo adorniano: l’asse portante del corso della musica negli ultimi cent’anni si può
notare nello stretto collegamento individuabile nella genealogia che a partire da Wagner,
attraverso Mahler, Schönberg e la scuola di Vienna, giugne sino a Webern e al
postwebnerismo con la scuola di Darmstadt e la serialità integrale. Questo schema
interpretativo della musica del Novecento e delle avanguardie, sviluppato da Adorno, è
diventato con il tempo quasi una banalità storiografica. E’ necessario rivedere in
profondità questa visione del Novecento, gli sviluppi della storia della musica impongono
di rivalutare le coordinate storiche su cui si sono sviluppate le avanguardie del Novecento.
La visione storica adorniana ha privilegiato il parametro intervallare (intervallo: un
intervallo è la “distanza” tra due suoni) rispetto agli altri parametri musicali. Se quando si

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parla di linguaggio musicale si intende il linguaggio modale prima, tonale poi, significa che
è stata la musica occidentale a favorire tale parametro. Si giustifica così la concezione
storica di Adorno, secondo cui la rivoluzione musicale del 20esimo secolo va per l’appunto
vista in questi mutamenti intervenuti nel sistema tonale-intervallare, fino
all’emancipazione della dissonanza di Schönberg. Ma la rivoluzione musicale del 20esimo
secolo è traducibile in altri termini, essa è consistita anche nell’indebolimento di questo
privilegio dell’intervallo e nella rivalutazione di altri parametri, come quello timbrico e
ritmico. Tuttavia, La visione storica di Adorno può stare in piedi solamente a patto di una
sottovalutazione di correnti e personalità della musica del 20esimo secolo, considerato
oggi tutt’altro che secondari. Nomi come Bartok, non compaiono nemmeno una volta; ed
anche il nome di Debussy, che viene citato casualmente nei suoi scritti musicali. E’ possibile
individuare ulteriori mancanze in Adorno, dovute al fatto che la sua concezione della
musica occidentale e nello specifico delle avanguardie del Novecento, tende a sottolineare
certi percorsi. A causa del predominare della linea storica di Adorno, anche molti
musicologi che avevano indicato altre genealogie e altri percorsi per la musica
d’avanguardia, sono rimasti in ombra. La riscoperta di musicologi come Jankélévitch vale a
dire che non solo Wagner può essere considerato il padre delle avanguardie del Novecento
ma anche Debussy può essere considerato un progenitore ed eguale diritto delle più
radicali avanguardie del 20esimo secolo. Il primo musicista e saggista che ha messo in
discussione la genealogia adorniana Wagner-Schönberg-Webern-Darmstadt è stato Pierre
Boulez. A questa genealogia, Boulez ha sostituito la nuova genealogia Debussy-Strawinskij-
Webern-Darmstadt: diverso il punto di partenza di Boulez, ma il punto di arrivo è uguale a
quello di Adorno. Il fatto che in questo percorso non compaia il nome di Schönberg, è
significativo, perché egli è considerato fino a quel punto come il padre della rivoluzione
musicale del Novecento. Per rivoluzione è intesa quella che ha portato alla dissoluzione del
linguaggio tonale e all’invenzione della dodecafonia. Per Boulez, questa rivoluzione si rivela
un evento secondario e non rivoluzionari; egli sostiene che le radici vanno ricercate in
Debussy, e non in Schönberg. Il ragionamento di Boulez è chiaro, Schönberg è un
conservatore perché non ha rinunciato all’idea tradizionale di opera musicale come un
tutto concluso, come veicolo razionale di comunicazione emotiva e intellettuale; la
dodecafonia, secondo Boulez, si sostituisce alla tonalità solamente per riconfermare la
costruzione formale tradizionale secondo cui il materiale sonoro, il tempo in cui si articola
la musica, deve essere sottomesso ad una rigorosa legge formale. Invece, Debussy ha
mirato alle radici dell’idea stessa dell’opera musicale come è stata intesa dalla tradizione
occidentale. Con Debussy e poi con Webern, scrive boulez, ha preso corpo la tendenza
rivolta a “distruggere l’organizzazione formale preesistente dell’opera, in uno stesso
ricorso alla bellezza del suono” (P. BOULEZ – Relevés d’apprenti, 1976). La posizione di
boulez, forse troppo radicale, è servita per rompere una situazione che si era stanziata su
un modello che non teneva conto dei forti stimoli al rinnovamento. Da una visione più
distaccata è possibile riconoscere una doppia polarità nelle radici dell’avanguardia: Vienna
e Parigi rappresentano i due più grandi grandi poli, in cui simbolicamente ha affondato le
sue radici l’avanguardia. Sono molte le diversità tra questi due poli, chiamate anche scuola
di Vienna e di Parigi, ma hanno anche evidenti somiglianze.
Se prendessimo in considerazione Schönberg e Debussy, che furono all’incirca
contemporanei, ed esaminassimo la loro produzione nel decennio 1905-1915 (decennio

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fondamentale delle avanguardie del Novecento), non si può non individuare alcuni tratti di
somiglianza tra i due musicisti, per altro molto distanti per cultura, mentalità e per
esperienze musicali. Ciò che accomuna i due protagonisti dei primi anni del secolo è la
reazione al wagnerismo. Questo li accomuna in negativo, cioè li definisce in base a ciò a cui
si contrappongono. Ma sono presenti anche somiglianze in positivo, ed infatti condividono
alcuni tratti stilistici comuni. La reazione al wagnerismo portato a scelte fondamentali,
come: il rifiuto del gigantismo sinfonico, della grande e sovraccaricata orchestra, ed infine
il rifiuto di alcune forme troppo lunghe e complesse. Tutto ciò presuppone anche scelte in
positivo, come: forme brevi, l’aforisma (aforisma: proposizione che riassume in brevi e
sentenziose parole il risultato di precedenti osservazioni o che, più genericamente, afferma
una verità, una regola o una massima di vita pratica) invece dell’accumularsi dei significati,
la piccola orchestra anche per le forme sinfoniche, ed infine la preferenza per le sonorità
del singolo strumento, soprattutto il pianoforte.
Se si mettessero a confronto due opere fondamentali dell’inizio del 20esimo secolo, come i
Sei piccoli pezzi per pianoforte op. 19 di Schönberg ed i Préludes di Debussy, oltre le
differenze, sono individuabili alcune importanti somiglianze. La reazione antiwagneriana
infatti giunge in entrambi ad uno stile in cui la concentrazione e la condensazione musicale
(condensazione: la condensazione è quel processo che consente di visualizzare la musica
per più musicisti su un numero di righi inferiore al normale, generalmente per consentire
la condivisione di un rigo da parte di più strumenti dello stesso tipo) è portata agli stremi,
l’antiretorica è sviluppata attraverso un rigore espressivo, un’asciuttezza di mezzi, e una
leggerezza di tocco quali difficilmente si potrà ritrovare nella musica del Novecento.
Debussy altera il senso classico e romantico del tempo basato sull’enunciazione di formule
melodiche e ritmiche (i temi) che nel loro sviluppo logico e trasformazione creavano
un’organizzazione temporale della composizione, secondo un iter ben determinato. Il
tempo della composizione era occupato da una concatenazione di eventi, da attese che
venivano procrastinate, ma che alla fine trovavano un esaudimento. Per Debussy, invece, il
tempo è diviso da istanti più o meno lunghi ma fugaci, in momenti che non rimandano a
momenti successivi, giungendo ad un finale, che per la maggior parte delle volte non è
affatto conclusivo, si dissolve per estinzione. La tecnica di Debussy sembra fatta a posta per
creare nell’ascoltatore questo senso di precarietà del tempo, di dissoluzione degli istanti,
di perdita della continuità e della facile razionalità. Inoltre, è da notare il particolare senso
della natura che emerge dai Préludes di Debussy; la natura è sentita come sollecitazione
all’immaginazione, diretta e non mediata da fatti culturali e storici. La natura viene
avvertita nei suoi stimoli immediati, nelle sensazioni piccole e impercettibili che essa può
suscitare in chi è disposto a cogliere le sue voci più segrete. L’espressione viene
concentrata nell’istante, nella percezione di momenti singoli e irripetibili; le armonie non
funzionali riproducono perfettamente gli istanti in cui si condensano le percezioni di eventi
del mondo naturale o del nostro mondo interiore.
Viene da chiedersi quali affinità si possono scorgere con l’atmosfera musicale ed espressiva
dei Sei piccoli pezzi per pianoforte Op. 19 di Schönberg. Le personalità di Schönberg e di
Debussy sono per molti aspetti antitetiche; eppure, le affinità musicali sono assai evidenti.
Si fa risalire proprio Sei piccoli pezzi per pianoforte Op. 19 l’inizio dello stile aforistico, e
proprio questo stile rappresenta il culmine della relazione antiwagneriana, reazione
comune anche a Debussy. Ma le affinità vanno molto oltre: la semplificazione delle

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sonorità, lontane dagli impasti orchestrali tardo romantici, il pianoforte come strumento
d’elezione, esplorato in nuove potenzialità timbriche, più sottili, pure e cristalline; la
brevità come mezzo d’intensificazione dell’espressione, la valorizzazione del silenzio come
parte della musica; ed infine la rottura radicale con la collaudata retorica della
consequenzialità armonica, con l’arco di tensione che segnava l’inizio, lo svolgimento e la
fine conclusiva del brano, sostituita con l’emergere dal nulla di un mondo di suoni e di
immagini e lo sprofondare nel mistero del silenzio. Per brevità si potrebbe dire che ciò che
accomuna Debussy e Schönberg, è il venir meno in entrambi del senso affermativo della
musica, coltivato dall’era tonale. Tutta la strutturazione della musica tendeva a produrre
questo senso affermativo e progettuale. La forma sonata forse ha rappresentato un vertice
in questo tipo di progettazione della musica; ed è proprio a questa concezione che vuole
sfuggire l’avanguardia. A questo riguardo ancora una volta Debussy e Schönberg si
trovavano nella stessa parte. Nella loro musica si smorza e viene negato proprio quel senso
affermativo che strutturava dal suo interno la musica classica. Le sonorità esotiche, le scale
modali e a volte pentatonali, i nuovi timbri sottili, tutto ciò in Debussy contribuisce a creare
un’atmosfera musicale non più nutrita da quei valori del passato; così l’atonalità in
Schönberg diventa lo strumento principe per questa fuga verso regioni più spirituali del
mondo musicale. Dopo gli anni dell’atonalismo la via di Schönberg si avventura verso
nuove mete, e forse l’eredità di Debussy passa addirittura a Webern, al suo stile
puntilistico (puntare all’essenziale) che rappresenta una radicalizzazione del simbolismo e
dell’impressionismo di Debussy.
Spesso si pensa allo stile atonale e poi a quello dodecafonico di Schönberg, secondo la
traccia della scuola adorniana, come un prodotto della maturazione ed evoluzione del
linguaggio wagneriano: Wagner, avrebbe infatti posto le premesse di questa svolta nella
storia della musica che avrebbe portato alla dissoluzione della tonalità; Schönberg, sempre
secondo questa concezione storica, avrebbe raccolto questa eredità e l’avrebbe portata a
maturazione. Questa prospettiva storica andrebbe rivista, per un ripensamento sulle radici
delle avanguardie del Novecento, le quali affondarono le radici in un terreno più vasto di
quanto ha indicato Adorno. Quindi, non soltanto Wagner tra i padri delle avanguardie ma
forse in eguale misura Debussy e le scuole nazionali russe, ceche, ungheresi e spagnole,
proprio quelle scuole che Adorno non nomina mai nei suoi scritti sul Novecento e che ha
invece contribuito ad emarginare. Questo mutamento di prospettiva storica è solamente
un problema d’attualità, dalla cui soluzione dipende il giudizio sul mondo musicale
circostante.

Capitolo Secondo: Debussy e il simbolismo.

E’ una questione che dura ormai da un secolo: Debussy è un musicista impressionista o


simbolista? Può sembrare, ed in parte lo è, una questione accademica. Tuttavia il
perdurare della polemica fa nascere il sospetto che dietro di essa si nasconda un obiettivo
diverso da quello che appare a prima vista. Ciò che questa polemica mette in discussione è
il modo stesso d’intendere il corso della musica del Novecento.

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Ci sono figure che nel corso degli anni sono diventate emblematiche, e a volte lo
diventavano anche nel corso della loro vita: il giudizio positivo o negativo va oltre la loro
persona e mette in gioco categorie storiografiche, artistiche o ideologiche. Questo è senza
dubbio il caso di Debussy: schierarsi pro o contro Debussy rappresenta una scelta radicale
con implicazioni complesse sul piano storiografico e artistico. Pro o contro Debussy,
significa schierarsi per Debussy impressionista o simbolista; la prima definizione implica in
qualche modo una limitazione alla sua figura, un relegarlo nel suo tempo, delimitando la
portata della sua musica entro limiti ristretti e ben definiti, sia dal punto di vista storico che
geografico: un episodio concluso nel tempo e nello spazio.
Debussy simbolista per contro si apre alle più ampie suggestioni possibili, volto verso il
futuro, il cui valore è ancora da esplorare a fondo; egli è un musicista che non chiude un
epoca. Pertanto, risulta curiosa una discussione di questo tipo su un musicista che per
principio rigiutò sempre qualsiasi incasellamento, ed ebbe orrore per tutte le scuole che
tentavano di codificare una volta per tutte i canoni estetici per la musica e in genere per le
arti. Ma, se la polemica continua ad esistere non si può semplicemente ignorarla. Un critico
di Debussy, il polacco Stefan Jarocinski, sostenne in un suo noto saggio, Debussy.
Impressionismo e simbolismo, che la figura del musicista si doveva collocare nel fondo del
simbolismo e che solamente in questo contesto culturale e artistico poteva essere capita;
tuttavia concludeva che, né l’impressionismo né il simbolismo erano categorie adeguate a
definire la sua musica. Sembra dunque che, anche chi si pone dalla parte di chi vuole
sostenere la compromissione di Debussy con il simbolismo, in conclusione non se la senta
di codificare questa appartenenza e preferisca optare per una collocazione fuori da tutte le
correnti. Dal suo studio emerge come la polemica su Debussy impressionista o simbolista
non sia di natura storica, quanto una polema ideologica, dietro cui si nascondono
complesse implicazioni che coinvolgono problemi che riguardano Debussy probabilmente
in modo marginale.
Nella cultura tedesca e sulla scia di Adorno, e anche nella cultura italiana, si è parlato
dell’avanguardia collegandola alla scuola di Vienna, all’atonalità, alla dodecafonia, al
serialismo e non alle correnti della musica contemporanea che si sono invece rifatte alla
tradizione francese. In questa ottica il filone Wagner – espressionismo – dodecafonia –
avanguardia è risultato vincente rispetto al filone impressionismo – simbolismo – esotismo.
Tuttavia la predominanza di questo schema interpretativo nella nostra cultura ha
significato il privilegiamento di Vienna rispetto a Parigi. Se s’interpreta la storia della
musica del Novecento come la storia della dissoluzione del wagnerismo e della tonalità
attraverso fasi che hanno portato alla serialità integrale e alla scuola di Darmstadt, dove
tutto è rigidamente controllato da un punto di vista teorico e concettuale, ma in cui ancora
prevale una concezione intervallare, si giunge ad una prospettiva storiografica che mette
necessariamente tra parentesi una larga fetta di storia della musica che comprende non
solo Debussy, ma anche Bartok, Ravel, Satie e Varèse. Si sono spesso considerati questi
autori come marginali; chi non seguiva il grande sentiero della storia, risultava
automaticamente emarginato e quindi perdente, disperso in strade secondarie che non

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conducono in nessun luogo. La disattenzione generale verso Debussy è parallela alla
disattenzione verso altri settori del pensiero contemporaneo. Al privilegiamento dell’asse
Wagner – Schönberg – Webern – Darmstadt, fa riscontro il privilegiamento dell’asse Hegel
– Adorno – Scuola di Francoforte – Neo positivismo logico. Non è un caso se Adorno è stato
ampiamente tradotto in italiano, mentre tanti altri critici, in particolare quelli francesi, non
sono mai stati tradotti né entrati a far parte della nostra cultura musicale. Tuttavia le cose
sono andate cambiando, e anche in Italia critici e filosofi come Jankélévitch, Bachelard e
Valéry, hanno incominciato ad incuriosire, e sono apparse le prime traduzioni di queste
nuove voci che hanno dato prova che l’attenzione cominciava a rivolgersi verso altri
obiettivi. Queste presenze e queste assenze sono estremamente significative e appaiono
importanti per scoprire le linee direttrici di fondo della cultura di un paese. Nel 1985,
quando in Italia venne pubblicata la prima copia di Jankélévitch (La musique et l’ineffable,
Parigi 1961), un recensore italiano notava con ironia il provincialismo di uno scrittore che
non riconosceva la centralità di Vienna e della scuola dodecafonica. Sarebbe possibile
rispondere ricordando che per altri critici, come Adorno, forse Parigi sembra non essere
esistita dal momento che Debussy e Ravel non sono mai stati nominati, e neppure il nome
di Bartok. Sarebbe più utile comprendere i motivi di queste dimenticanze. In Italia, si è
parlato più di Schönberg che di Debussy: si è parlato di Schönberg dodecafonico come
punto chiave per spiegare l’origine delle avanguardie, mentre, quando si è parlato di
Debussy, ci si è riferiti a un Debussy impressionista, musicista periferico che chiude
un’esperienza lagata alla decadenza.
Questo discorso critico è perfettamente in linea con lo sviluppo delle avanguardie musicali
in Italia ed in Germania fino agli anni Settanta; da Vienna si è cominciato a volgere lo
sguardo a Parigi, e sia i critici che i musicisti hanno scoperto all’improvviso un intero
mondo trascurato, che assumeva una nuova dignità. Il punto di partenza è stato un
revisione critica nei confronti di Debussy, punto di unione di una tradizione messa tra
parentesi dalla critica; tradizione che confluisce nella sua musica ma che al tempo stesso
costruisce un’apertura verso nuovi orizzonti per la musica occidentale. Debussy per molti
anni è stato visto un’aggiunta di una tradizione naturalistica tipicamente francese, da secoli
dedita alla descrizione delicata della natura, attenta alle preziosità delle armonie e dei
timbri. Perciò venne inquadrato nel movimento degli impressionisti, collocazione rifiutata
dallo stesso Debussy. Con ciò veniva quindi escluso dal grande movimento delle
avanguardie storiche e lo si confinava in un ambito preciso, destinato ad esaurirsi tra Otto
e Novecento. La nuova storiografia musicale si trovava di fronte ad un’operazione che
doveva essere ben più radicale e profonda e doveva giungere sino a cogliere la valenza
rivoluzionaria che è sottointesa al concetto stesso di opera musicale presente in Debussy.
Questo ribaltamento dell’interpretazione naturalistica di Debussy in un Debussy metafisico
e simbolista, che progetta l’opera musicale secondo un nuovo modo di concepire il flusso
temporale, è parallelo ad una diversa visione filosofica rispetto a quella hegeliano-
adorniana. Il filosofo e musicolo Jankélévitch, è stato senza dubbio all’avanguardia nel
prendere coscienza di questa prospettiva che si muoveva secondo canali diversi e

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alternativi rispetto a quelli adorniani. Per individuare gli obiettivi di Jankélévitch, è
solamente necessario scorrere alcuni titoli delle sue opere di carattere musicale: le sue
attenzioni sono rivolte a musicisti come Listz, Fauré, Ravel e soprattutto a Debussy, e tra i
filosofi a Schelling e Bergson. Il musicologo, individua i fattori trainanti di un nuovo
pensiero in un un insieme di musicisti che attraverso un incerto cammino hanno indicato ai
contemporanei possibilità di pensare la musica. Queste deviazioni, che passano attraverso
Listz, poi Fauré, Debussy e Ravel, comprendono anche musicisti quali Mussorgskij, Albeniz,
Rachmaninov, Satie e Bartok, costituiscono un’alternativa non programmata al pensiero
musicale della scuola di Vienna e ai suoi sviluppi. Questi “détours” musicali sono paralleli
ad altrettanti “détours” filosofici ed estetici. La genealogia Hegel, Marx e Freud, viene
affiancata/sostituita da un insieme di pensatori che comprende in parte Schopenhauer e
Schelling.
L’idea che alcune tra le più importanti istanze (interpellanze) dell’avanguardia del secondo
dopoguerra trovino origine nella musica di Debussy si deve all’intuizione di Pierre Boulez,
che aveva già, engli anni Cinquanta, delineato la genealogia Debussy – Strawinskij –
Webern – Darmstadt da contrapporre a quella tradizionale Wagner – Schönberg – Berg –
Webern – Darmstadt. Pochi anni più tardi Gisèle Brelet approfondì questa intuizione di
Boulez tracciando un cammino a ritroso dell’avanguardia che riportava ancora una volta a
Debussy e ai valori più profondi della sua musica. Ma Jankélévitch portò la questione verso
la ragione dialettica; la via indicata dal musicologo non s’identificava con l’invito ad andare
più in profondità rispetto alla tradizionale “ragione dialettica”, che sarebbe inadatta a
cogliere gli strati più profondi del reale, la ragione dialettica si lascia sfuggire gli aspetti più
inafferrbaili del reale. L’aspetto del reale è indubbiamente meno rassicurante di quello che
offre la ragione hegeliana (la ragione in Hegel: la ragione, cercando di cercare l’essenza
delle cose cerca se stessa. Storicamente ciò avviene con la scienza moderna (scienza
moderna: respinge dal proprio ambito conoscitivo qualunque problematica di tipo
metafisico, relativa alle essenze o all’intima struttura delle cose, per analizzare solo le
cause dei fenomeno, alla ricerca di leggi, elaborate sulla base di ipotesi vagliate da
esperimenti, espresse in termini matematici) in cui la ragione è osservatrice e cerca di
trovare nella natura se stessa e le regole che gestiscono la natura stessa attraverso leggi
razionali): la musica può essere un linguaggio che per la sua particolare natura ci permette
soltanto di sfiorare per un istante questa realtà, forse meno corposa, ma non certo meno
importante per l’uomo. L’essere di questa realtà è simile al divenire, un divenire più
avventuroso, dagli esiti incerti, più esposto ai rischi di perdere il cammino. Ma, proprio in
questi “détours”, Jankélévitch, compie scoperte che possono portare a luoghi sconosciuti.
Per percorrere questa strada ci vuole una piena disponibilità, un abbandono alla sottile
inquietudine che proviene dal rischio di perdersi in oscuri labirinti. La musica è lo specchio
più fedele di questo tipo di ricerca che può suonare inespressiva. Dunque, la musica è
inespressiva, ma non come esaltazione della forma, come puro gioco neoclassico in cui
l’espressione è assente per non turbare la serenità della forma. La musica è inespressiva,
secondo Jankélévitch, perché il suo territorio è l’insprimibile, l’ambiguo. Ambigua infatti è

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la musica, come è ambiguo e inafferrabile il fluire del tempo. L’inespressività a cui ci si
riferisce non è l’indifferenza neoclassica, ma la leggerezza dell’espressione e dei timbri, e le
trasparenze della sonorità. Questo discorso musicale e filosofico trova la sua
esemplificazione nella musica di Debussy simbolista e nella musica di tutti coloro che come
Debussy hanno cercato vie alternative all’inespressività, che passa attraverso un cammino
prefissato. La lettura di Debussy proposta da Jankélévitch e Jarocinski, mantiene
l’attenzione sul futuro della musica e alle avanguardie postweberiane, ma vista in chiave
diversa da quella di stampo adorniano, ovvero non come appendice evolutivo di un
processo di annullamento del linguaggio wagneriano, ma come un’alternativa al linguaggio
musicale della classicità, al senso classico della forma e della macrostruttura. Al di sotto
delle sonorità iedite, dei timbri evanescenti propri della musica di Debussy, si nasconde
una concezione nuova e del tutto rivoluzionaria della stessa opera musicale. Jarocinski
afferma:”Grazie al movimento incessante di particelle sonore piccole o più grandi, accade
sempre qualcosa in questa musica, qualcosa in essa vive e muore, si forma, si rinnova
senza sosta…”; aggiunge, a proposito di Wagner:”Questa deformazione continua è un
susseguirsi di “flussi” istantanei. E’ la successione delle discontinuità che forma la
continuità”. In questo susseguirsi d’istanti, interpretato come negazione di un divenire
inteso come articolazione costruttiva dell’opera, va considerato il “naturalismo” di
Debussy. Imitare l’eterno dialogo del vento e del mare, significa scegliere per l’eternità
dell’attimo fuggente che per lo sviluppo, e significa, inoltre, dare nuovo significato
all’armonia, al ritmo e alla melodia su basi del tutto nuove. Rivolgersi alla natura come
costante fonte d’ispirazione, infatti, ha un significato particolare dal punto di vista
musicale, in quanto: l’accordo può perdere il suo punto di vista funzionale, il legame che
nell’armonia tradizionale lo univa a quelli che lo precedevano e a quelli che lo seguivano,
per assumenre un significato timbrico. A partire da Debussy si può cominciare a parlare di
“aggregazioni sonore”: ciò significa attribuire un nuovo peso al singolo suono, o anche a
grappoli di suoni, autosufficienti senza il bisogno di legarli all’idea di uno sviluppo.
Nell’ambito di questa nuova logica musicale Debussy ha spezzato definitivamente il legame
che da tre secoli univa l’armonia alla melodia. Quando però si parla di eredità del pensiero
di Debussy nelle avanguardie è necessario fare alcune precisazioni. Innanzitutto, sarebbe
incauto pensare che nella musica contemporanea ci sia una derivazione da Schönberg,
nettamente separata dal un’ipotetica corrente di dervazione debussiana e simbolista. La
musica del Novecento è attraversata da vari stimoli, da ipotesi culturali e linguistiche
diverse; ma tutto ciò s’incrocia persino all’interno di un autore, per questo è poco
opportuno per quanto riguarda le avanguardie operare classificazioni in stili e correnti.
L’articolo di Boulez, Schönberg è morto, sbaglia nel volere stabilire delle linee nette di
confine tra passato e futuro, senza tenere conto quanto, anche Schönberg sia ambiguo ed
inclassificabile.
L’eredità debussiana percorre in modo del tutto irregolare la musica del Novecento e
Schönberg non ne è immune. Come afferma Jarocinski, uno dei caratteri più originali di
Debussy, è di avere aperto la strada al pensiero sonoriale (la pura ricerca sul suono divisa

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dai tradizionali parametri melodia-armonia), la sua musica dunque, puramente sonoriale,
rappresenta un modello che, a partire da Debussy, attraverserà tutta l’avanguardia. E’
impossibile non ritrovare qualcosa di questo pensiero anche nelle opere di Schönberg:
forse, senza la musica di Debussy e i Cinque pezzi per orchestra Op. 16, non avrebbero
potuto nascere alcune parti delle sue opere espressioniste come La mano felice, Erwartung
(Attesa), ed il Mosé e Aronne. L’idea di Boulez che alla genealogia Schönberg – Webern –
Scuola di Darmstadt, vada sostituita la nuova genealogia Debussy – Strawinskij – Webern –
Scuola di Darmstadt, è solo in parte accettabile, perché con ciò stabilisce una rigida linea di
confine segnata dalla musica di Schönberg. Schönberg è morto, significa per Boulez che con
lui finisce un’epoca, quella della musica che si fonda sulla fiducia nella forma intesa
secondo i canoni della classicità, come saldo equilibrio di parti, come macrostruttura
garantita dal prevalere dei parametri intervallari e melodici. Boulez, riteneva che fosse per
l’appunto il concetto stesso di forma che doveva essere superato, dalla nuova musica.
Con il passare degli anni si è potuto avere uno sguardo retrospettivo sull’esperienza
darmstadtiana, e non è difficile osservare che proprio in quegli anni la musica era percorsa
in realtà da stimoli che potevano condurre in direzioni differenti: da una parte poteva
prevalere l’esasperazione dell’aspetto indiscutibile inerente alla serialità integrale di tutti i
parametri del suono secondo un astratto gioco indipendente dalle nostre facoltà
percettive; dall’altra, invece, si aprivano nuove prospettive nella ricerca sul suono
percepito secondo nuove dimensioni, anche dal punto di vista percettivo.
Personalità come Stockhausen (1928 – 2007), Nono (1924 – 1990), Maderna (1920 – 1973)
e Berio (1925 – 2003) si sono ritrovati a volte vicine a questo nuovo tipo di approccio al
materiale sonoro, in cui il singolo suono viene inteso come valore in sé, come micro-
universo autosufficiente. Suoni singoli o grappoli di suoni o zone di sonorità mobili e in
divenire nella loro fluidità prospettano l’idea di un’armonia a-funzionale, a-tematica e
atonale. In questa prospettiva potrebbe essere in qualche modo la storia delle
avanguardie, attraversate da stimoli e da riferimenti culturali e musicali diversi che la
arricchiscono di continuo nel suo avventuroso percorso. E’ possibile osservare come la
lezione di Debussy sia stata importante e soprattutto come sia stata lontana dall’esaurirsi
in quanto episodio storico legato ad un passato più o meno remoto. Il suo “pensiero
sonoriale” si ritrova ancora come una delle esperienze motrici più significative della nuova
musica, e rappresenta uno dei ponti unificatori tra esperienze diverse. Le composizioni ad
esempio di Nono, portano il segno di questa aspirazione ad una musica in cui il suono,
diventa il centro della ricerca musicale, il nuovo nucleo strutturale delle sue composizioni.
Sarebbe possibile, per schematizzare, affermare che nelle avanguardie XXsecolo si sono
manifestate due anime diverse: da una parte troviamo un filone più radicale che ha mirato
al dissolvimento dell’espressione e di tutto ciò che essa implicava; dall’altra emerge la
ricerca di un nuovo senso della forma, di un nuovo tipo di espressione nel rifiuto delle
forme. Se nel primo caso l’esito può essere il silenzio o il rifugio nell’idea di negazione
radicale dell’opera musicale, nel secondo caso gli esiti possono essere molteplici e vari dal
punto di vista stilistico e linguistico. Comune alle due strade c’è forse soltanto il rifiuto

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della retorica formale classica, il tenersi lontano da quel di più di espressione di cui
sembrava carica la musica classica. Ma al religioso silenzio cui poteva protendere la musica
di Webern, non si può non contrapporre, le ricerche sulle nuove sonorità volte a dar nuova
vita alla forma e all’espressione, una vita più segreta, più modesta, ma non per questo
meno significativa. Questa seconda anima delle avanguardie del Novecento si richiama alla
lezione di Debussy, ma non certo del Debussy impressionista con i caratteri della ricerca
della purezza, dell’appena accennato, senza sovrastrutture intellettuali e formali che
appesantiscano il dire, tutto ciò può appartenere all’eredità che Debussy ha lasciato al
mondo contemporaneo e che a suo tempo Webern ha solo in parte raccolto. L’emergere
già in Webern dell’espcita volontà di negazione dell’espressione; in altre parole
l’autodistruzione di ogni tipo di possibile comunicazione. Solo l’abbandono del radicalismo
seriale per una riappopriazione del suono in tutte le sue dimensioni percettive si è rivelata
come una strada percorribile per uscire dal vicolo cieco in cui si erano fermate le
avanguardie degli anni settanta.
Ma questa non è una nuova strada, bensì una riscoperta di quel filo rosso che attraversa
tutta la musica del Novecento mettendo in luce le affinità che esistono anche tra correnti
apparentemente lontane. Forse la storia di Debussy, non è del tutto conclusa e non si può
non sentire l’eco di tante sue affermazioni nelle polemiche delle generazioni successive di
musicisti nei confronti di chi li ha preceduti.

Capitolo Terzo: Monsieur Croche antidilettante: tempo e natura nel


penisero di Debussy.

Nelle pagine critiche di Debussy compaiono alcuni temi ricorrenti, come: la polemica nei
confronti delle istituzioni musicali come i Conservatori, delle musiche troppo costruite e
lontane dalla natura, di Wagner e del wagnerismo, come pure l’incompatibilità con i
musicisti troppo accademici mondani, nonché verso il Prix de Rome (nonostante lo abbia
ricevuto due volte). Però, sono presenti anche altri temi presentati dalla mano
dell’immaginario Signor Croche nei suoi scritti, espressi però non esplicitamente, ma tra le
righe del discorso, sicuramente non meno importanti, che portano all’interno della sua
personalità di musicista e danno la misura della rivoluzione portata dalla sua musica.
Il Signor Croche, nella sua presentazione, afferma che:”La musica è una somma di forze
sparse e se ne fa invece una canzone speculativa! Preferisco poche note del flauto del
pastore egizio; collabora al paesaggio e sente delle armonie che i vostri trattati ignorano. I
musicisti ascoltano soltanto la musica scritta da abili mani; mai quella che è scritta nella
natura”, conclude poi:”Bisogna cercare la disciplina nella libertà e non nelle formule di una
filosofia divenuta buona solamente per i deboli, senza ascoltare i consigli di nessuno se non
del vento che passa e che ci racconta la storia del mondo”. E’ chiaro che il vento è una
metafora sotto cui traspare una concezione del tempo musicale diversa da quella che
aveva dominato fin qui nella musica occidentale. La sinfonia si eleva a simbolo di quel

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mondo musicale di cui Debussy riconosce la grandezza ma che tuttavia rifiuta. Non sono
molte le righe che Debussy, nella sua carriera di critico musicale, dedica alla Sinfonia; ma si
può partire proprio da delle annotazioni per capire perché Debussy dichiara morto questo
genere. Leggendo le pagine dedicate alla Nona di Beethoven, di cui riconosce la validità e
la forza, si può intuire un senso di fastidio che egli prova davanti a questa impresa che ha
chiuso un’epoca, e possiamo leggere:”Mi sembrava che dopo Beethoven l’inutilità della
sinfonia fosse provata. In Schumann e Mandelssohn essa non è più una ripetizione delle
stesse forme. Tuttavia la Nona era un desiderio magnifico di ampliare, di liberare forme
abituali dando loro le armoniose dimensioni di un affresco”. Beethoven, avrebbe dovuto,
secondo Debussy, aprire nuovi orizzonti alla musica e alla Sinfonia, ma in realtà ha posto
una pietra tombale su di essa, affermava Debussy:”La vera lezione di Beethoven non
consisteva nel conservare la vecchia forma. Bisognava guardare il cielo libero attraverso le
finestre spalancate: mi pare che esse siano state chiuse per sempre; le poche genialità
riuscite non giustificano gli esercizi stereotipati che sono denominati sinfonie”. Debussy,
continuando la sua descrizione della Sinfonia, ne parla come di un genere che “appartiene
al passato”, parla infatti della sua “eleganza rettilinea”, e termina la sua invettiva/predica
accennando alla forma-sonata, in cui si assiste all’esposizione del tema, allo sviluppo, che
egli chiama “laboratorio del vuoto”, ed infine alla ripresa dell’esposizione. Inoltre, critica gli
specialisti che impediscono all’autore di ascoltare la loro voce più intima. Sono molto gli
elementi di critica alla sinfonia che emergono, ma l’attenzione va soprattutto
sull’espressione “eleganza rettilinea”. In uno scritto sulla Camera dei bambini di
Mussorgskij, commentava:”Tutto è sorretto e composto da piccoli tocchi successivi, uniti
da un legame misterioso eda un dono di luminosa chiaroveggenza (chiaroveggenza: facoltà
di prevedere ciò che il futuro riserva / visione indipendente dal canale dei sensi, di oggetti
di fatti o persone lontani nello spazio e nel tempo)” Siamo al polo opposto di quella
eleganza rettilinea della forma sonata. In una linea retta tutto è prevedibile e non resta che
procedere senza sorprese; ma quando si tratta di piccoli tocchi successivi e se il legame tra
essi è nell’ordine del mistero ci si trova di fronte ad un genere di musica del tutto nuovo e
diverso rispetto al passato.
Agli “sviluppi parassiti”, come li chiama Debussy, della forma-sonata, (parassiti in quanto
non aggiungono nulla al tema ma appartengono a quella rettineità dove tutto è già
stabilito), egli contrappone “l’arabesco musicale o piuttosto quel principio nell’ornamento
che è la base di tutti i tipi di arte”. Il musicista mette in guardia dal fraintendere
l’interpretazione del concetto di “arabesco” e “ornamento”: questi due termini, nel modo
in cui andrebbero intesi, non implicano qualcosa di superfluo, bensì l’idea di ciò che
procede in modo fantasioso, senza un preciso e preordinato piano di sviluppo. Debussy
afferma:”Riprendendo l’arabesco, Bach lo rese più agile, più fluido, cosicché esso poté
muoversi con quella libera fantasai sempre rinnovata”. Evidentemente è il polo opposto
della concezione sinfonica del classicismo viennese, dove tutto è preordinato da un piano
all’interno del quale piò muoversi limitatamente la fantasia del musicista. Debussy,
commettando un’esecuzione di Arthur Nikisch, immagina durante l’esecuzione della

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Sinfonia Incompiuta di Schubert, “un volo di passeri che si è abbattutto contro le finestre
del Circo, abbandonandosi ad un cinguettio tutt’altro che sgradevole: forse si trattava di
un’innocente critica a questa sinfonia che non sa rassegnarsi, una volta per tutte, ad essere
incompiuta”.
La polemica contro la Sinfonia si accompagna alla polemica contro la musica tedesca,
colpevole di iper-organizzazione, e soprattutto di far uso di schemi preordinati. E’
tipicamente tedesca, la musica fatta per essere eseguita al chiuso nelle sale da concerto, e
si compiace delle “tonalità arbitrariamente precise” che “ingombrano maldestramente la
musica”; a questa musica Debussy contrappone una “musica scritta appositamente per
essere eseguita all’aperto, tutta a grandi linee, con sfrontatezze vocali e strumentali capaci
di svolgersi e liberarsi sulla cima degli alberi nella luce dell’aria libera”.
Ricompare qui, nuovamente il richiamo alla natura come maestra insostituibile per il
musicista, da contrapporre all’insegnamento accademico. Il ricorso alla natura, afferma
Debussy, non cancella il contrappunto (contrappunto: nella prassi musicale ordierna
designa l’arte del combinare con una data melodia una o più melodie, più o meno
autonome; nella polifonia (polifonia: l’unione di più voci, ciascuna delle queli svolge un
proprio disegno melodico; l’unione di più suoni, anche non appartenenti ognuno ad una
parte melodica) è dato dalla sovrapposizione delle melodie in senso orizzontale, mentre le
relazioni tra le note in senso verticale costituiscono l’armonia), ma piuttosto lo rinnova e lo
allontana dai suoi modelli accademici e matematici, per riportarlo alla freschezza orginaria.
In queste pagine di Debussy si ritrova un richiamo nazionalistico, che si unisce alla
polemica antidetesca: le lodi a Webern che possedeva quella “malinconia sognante
caratteristica dell’epoca, ma mai appesantito dal bagliore tedesco nel quale si
immergevano i suoi contemporanei”, rappresentano un’eccezione nel panorama musicale
austro-germanico dove domina “quella tedesca ricercatezza di profondità” a cui si sono
sottratti i musicisti francesi. Neppure Beethoven è immune e Debussy, nonostante il
rispetto verso il musicista, inveisce anche sulla Sinfonia Pastorale. La natura della Pastorale
non è autentica, è una natura vista come avveniva nei libri, e la Sinfonia viene definita
come “inutilmente imitativa”, e sembra che voglia dare “l’illusione di un paesaggio scritto
con il pennello”.
Tra i musicisti di area germanica, Debussy salva Strauss, dal momento che la sua musica
rientra in una sfera più vicina al suo modo di concepire la musica:
”L’arte di Strauss – afferma Debussy in una recensione ad un’esecuzione parigina di Una
vita di eroe (Strauss) – non sempre è così fantasiosa, ma egli (Strauss) pensa per immagini
colorate, e sembra disegnare la linea delle sue idee con l’orchestra; per giunta, Strauss
riesce a trattare gli sviluppi in modo personalissimo. Egli sovrappone le tonalità,
incredibilmente lontane, con assoluto sangue freddo e si preoccupa solamente della
“vitalità” che ne risulta”.
Dai giudizi, sempre pungenti sui musicisti a lui contemporanei o da poco scomparsi, si
delinea e chiarisce la concezione della musica di Debussy. Le citazione che riguardano i suoi
gusti musicali, le sue polemiche, le sue avversioni, i suoi attacchi contro i musicisti e

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istituzioni del suo tempo, sono sufficienti a far scoprire quello che potrebbe essere il suo
modo di concepire la musica. Il tema più importante che emerge dalle sue pagine critiche è
la sua concezione del tempo musicale. La polemica nei confronti del classicismo viennese,
il suo modo di concepire e sentire la natura nell’opera musicale, in contrasto con il
classicismo viennese, riporta alla polemica dello schematismo nei confronti della forma-
sonata, al suo modo di selezionare e dividere in frammenti precostituiti il tempo musicale,
ma legati tra loro da un progetto rettilineo. Il richiamo alla natura, non ha nulla a che fare
con il naturalismo, dal quale la mentalità di Debussy è estranea, ma rappresenta un
richiamo ad un tempo musicale che prenda come modello i ritmi della natura, quindi le sue
varie scansioni, sempre mutevoli e portatrici di nuove creazioni. Il continuo appello alla
natura, significa per Debussy richiamarsi ad un tempo non schematizzato, in contrasto ai
criteri del sonatismo dove, a suo giudizio, prevale la conceione lineare dell’opera musicale.
Ciò che il musicista rifiuta è un’idea dell’opera musicale concepita come un racconto in cui
è ben individuabile l’inizio, lo svolgimento e la fine, intesa come felice scioglimento della
vicenda. La concezione di Debussy del tempo musicale, potrebbe avvicinarsi alla logica del
sogno, senza una visibile coerenza razionale del flusso onirico (flusso onirico: flusso di
coscienza che investe la mente in particolati stati percettivi: ipnosi, trance, uso di sostanze
psicotrope,… - Freud). Così nasce la poetica dell’aforisma (caratteristico per la brevità), che
prende corpo solo da una concezione non lineare del tempo. L’organismo sinfonico
tradizionale, può esistere solamente se alla sua base c’è l’idea di un tempo strutturato
secondo un progetto preesistente, secondo quindi uno schematismo che preveda già un
ordine. Questo progetto, che presuppone anche un linguaggio musicale dotato di una sua
logica, come quello che si è sviluppato a partire dal XVII secolo con l’armonia tonale, è
affine a questa linearità del tempo. Da Monteverdi (1567 – 1643), questo “progetto” si è
articolato attraverso numerose tappe, come la suite (suite: composizione strumentale
eseguita in più tempi), il melodramma, che ha rappresentato un momento decisivo in
questa concezione della musica. La rivoluzione di Debussy è consistita nel mettere in crisi e
distruggere la secolare e imponente costruzione linguistica e tutta la retorica che
comportava. Con retorica è inteso, i modi di dire, di esprimersi, di articolare l’opera
musicale, e tutte le convezioni linguistiche che una tradizione musicale di tre secoli in
Occidente aveva elaborato. La battaglia del musicista sta nel cercare di disintegrare il
linguaggio tradizionale, ricorrendo agli esotismi, alle scale musicali diverse da quelle
tradizionali. La strutturazione del tempo ed il suo divenire, nel classicismo viennese e nella
scuola romantica tedesca, viene annullato. Come afferma Jankélévitch:”ogni immagine
debussiana è come una vista istantanea e statica sulla presenza totale; ognuna immobilizza
un minuto della vita universale delle cose, uno spaccato della storia del mondo, e fissa
questo taglio fuori di ogni divenire, senza relazione con il prima e con il poi”.
Per realizzare questa immobilità temporale, afferma ancora Jankélévitch, Debussy giunge
alla “decomposizione del tempo oratorio”; “si tratta del rifiuto di considerare la musica
nella maniera di un discorso o di un ragionamento, della ripugnanza a sviluppare, e quindi
del superamento di tutti i caratteri tipici della temporalità tardo-romantica… Vi è una

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concezione dello spazio, secondo la quale la presenza e l’assenza, il vicino ed il lontano,
possono coesistere. Lo spazio debussiano è un’atmosfera, il luogo dell’”occasionalità” delle
creature”. Jarocinski, che si muove sulla linea di Jankélévitch, scriveva:
“Non si può prevedere nulla in anticipo nella sua musica (di Debussy). Essa si sviluppa
spontaneamente. Ignora quelle lunghe introduzioni, gli ampi finali che facevano la gioia
della retorica romantica. La sua musica non comincia e non finisce. Emerge dal silenzio,
s’impone senza preliminari, poi, interrompendo il suo corso, continua a tessere la sua
trama nel nostro sogno… Grazie al movimento incessante di particelle sonore, accade
semopre qualcosa in questa musica, qualcosa in essa vive e muore, si forma e rinnova
senza sosta, senza significare pienamente nulla. Essa sembra incarnare una cattedrale di
simboli che viaggia attraverso il tempo”.
Perciò nell’armonia di Debussy sono attenuate le classiche tensioni armoniche e la melodia
è del tutto separata dall’armonia. Nella sua musica abbondano le quinte parallele e gli
accordi non vanlgono più per il loro concatenamento ma per la loro sonorità; da qui l’idea
di arabesco, che torna spesso nei suoi scritti, arabesco inteso “come linea melodica
oscillante, indipendente da qualunque sviluppo di temi e di motivi”. Altri critici, hanno
individuato in certi parallelismi di accordi un anticipo della schönberghiana
Klangfarbenmelodie (Klangfarbenmelodie: è una tecnica musicale che comporta la
divisione di una linea musicale o melodia tra più strumenti, piuttosto che assegnarlo a un
solo strumento (o insieme di strumenti), aggiungendo così colore (timbro) e texture alla
linea melodica) e altri ancora hanno intravisto in Debussy un precursore del webnerismo e
del post-webnerismo.
Anche se indubbiamente Debussy è stato considerato, sulla scia di Boulez, come un
capostipite delle avanguardie, innovando la triade Wagner – Schönberg – Webern di
stampo adorniano, con la nuova triade Debussy – Stravinskij – Webern, è il caso di rivedere
queste anticipazioni storiche per attribuire la giusta identità ed individualità a Debussy.
Tornando al problema del tempo musicale, sembra che vada strettamente collegato al
tema della natura, tema ricorrente nei suoi scritti. La natura non è mai concepita da
Debussy in modo naturalistico, non è mai un quadro da imitare; essa è per Debussy
innanzitutto, forma organica, il cui sviluppo è prevalentemente imprevedibile. La natura,
come la intende Debussy, riporta alla sua concezione del tempo musicale: esso sorge dal
flusso coscienziale e dai suoi movimenti imprevedibili e non schematizzabili, più simile
quindi al vento o alle nuvole con il loro libero fluire che ad uno schema temporale già
prestabilito. Quindi, natura e tempo musicale mostrano la loro segreta complicità e l’una
serve a chiarire e a spiegare il significato dell’altro e viceversa.
Se ormai è chiaro che è del tutto sbagliato confinare Debussy nell’Impressionismo, non è
neppure del tutto esatto farne un precursore delle avanguardie del Novecento.
Innanzitutto, il concetto di avanguardia è troppo vago; se per avanguardia si intende la
musica e le idee sulla musica che correvano negli anni Cinquanta e Sessanta nell’ambiente
di Darmstadt, allora dire che Debussy precede alle avanguardie può essere incauto. I
musicisti delle avanguardie di allora, avevano negato l’idea stessa di opera musicale come

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organismo compiuto. Affermare la validità del concetto di opera musicale implica la
volontà di salvare anche l’idea di tempo musicale come elemento strutturante la
composizione. Fino a quando si afferma che il tempo è l’elemento indivisibile di ogni opera
musicale e che il compito del musicista è di portare un ordine nel caos, si è lontani dalle
avanguardie seriali. Per Cage, ad esempio si tratta semplicemente di prendere atto del
caos del mondo della natura, senza aggiungergli niente. Questo mito di una creazione
musicale che sia una mistica ricezione passiva, in un atteggiamento di totale abbandono
alla natura, si ritrova in tutti i musicisti che si rifanno a Cage, ma anche in scuole lontane,
anche geograficamente. Stockhausen, in un’intervista rilasciata nel 1968, affermava: “tutto
ciò che oggi è interessante è di non più pensare nella direzione di definire un processo
musicale mediante un tabù, ma piuttosto di domandarsi come posso aprire un mondo
sonoro a tutto”. È un atteggiamento comune a molti musicisti di quegli anni, quindi,
ruotare di 180 gradi la disposizione del musicista tradizionale e far sorgere la passività, la
ricettività, l’ascolto a guide supreme per il musicista. L’abbandono alla natura va così a
sostituire il vecchio concetto di espressione di soggettività. Qualsiasi idea di tempo
musicale implica una progettualità, quindi un processo temporale, ed è proprio questo che
le avanguardie negano radicalmente. La natura di cui parla Cage, come caos primordiale,
non è la natura di cui parla Debussy, il quale la concepisce più come il simbolo o la
metafora della sua idea di tempo. Debussy aspira ad una forma che rispecchi il fluire del
tempo nell’interiorità della coscienza. Il vento, l’onda del mare e le nuvole nel cielo
rappresentano una forma che prende corpo in un processo temporale libero da schemi
precostituiti. Infatti, l’originalità di Debussy sta proprio nell’aver intuito che il tempo
musicale dell’era del classicismo era finito, e che si affacciava all’orizzonte un nuovo modo
di concepire il tempo: la natura, con i suoi ritmi, la sua organicità e creatività poteva essere
il nuovo modello. Bisognava perciò avere un atteggiamento più ricettivo e aperto alle
sottili suggestioni che solo il mondo della natura poteva offrire.
Questa idea di natura e di tempo musicale non ha nulla a che vedere con la natura
impersonale delle avanguardie degli anni ’50 e ’60. La soggettività e l’espressività
dell’opera non vengono negate da Debussy, anzi, vengono esaltate e legate all’interiorità
della coscienza. Senza dubbio, Debussy ha aperto le porte a molte esperienze musicali del
Novecento, come la rinascita del pensiero modale, all’abbandono di un’armonia funzionale
per avvicinarsi a ciò che è chiamato “una musica puramente sonoriale”, basata più sulla
sonorità degli accordi che sul loro concatenamento, al gusto per la brevità aforistica in
contrasto alla retorica romantica e wagneriana.
Indubbiamente precursore, Debussy, delle grandi rivoluzioni operate della musica,
soprattutto della prima metà del Novecento; sarebbe rischioso farlo diventare un generico
anticipatore delle avanguardie irrazionalistiche, lontane dal suo pensiero e dalla sua
musica.

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Capitolo Sesto: Esiste un’estetica di Strawinskij?

Esiste un’estetica di Strawinskij? Quali sono i testi da cui ricavarla? Questi quesiti nascono
quando ci si propone di tracciare un ipotetico pensiero istetico di un musicista come
Strawinskij.
A volte ci ritrova davanti a scritti sistematici, o a volte annotazioni prive di rigore, le quali
però aiutano a far luce sul pensiero dell’artista. Prima di Strawinskij troviamo molti esempi
nella storia: da Beethoven a Schumann, arrivando a Berlioz e Schönberg. Negli scritti di
questi musicisti, che sono legati tra loro solamente per la comune esigenza di dare
chiarimenti alle loro opere musicali, il problema che sorge per il critico è stabilire in quale
modo l’opera musicale possa mettersi in relazione con gli scritti estetici o filosofici.
Nel caso di Strawinskij il problema è rilevante, in quanto è frequente il caso di scritti che
sembrano contraddire l’opera.
Il testo da cui partire per delineare un pensiero estetico strawinskiano è la Poétique
musicale, che raccoglie le sette lezioni tenute ad Harvard nel 1940. Le idee esposte in
questo testo è possibile ritrovarle già nelle Cronache della mia vita del 1935, inoltre
verranno poi riprese con qualche correzione nei Colloqui con Robert Craft. Queste
riflessioni sono contemporanee al culmine del periodo neoclassico e non può sfuggire un
rapporto tra la poetica di Strawinskij e le sue più famose opere neoclassiche. Questa
lettura storica della sua estetica come testimonianza del suo operare artistico potrebbe
essere riduttiva e sarebbe sicuramente rifiutata dallo stesso Strawinskij, il quale aspirava
ed esporre verità valide su un piano filosofico generale. E’ importante esaminare il suo
pensiero estetico cercando di separarlo dalla sua attività di musicista.
Strawinskij stesso, con alcune affermazioni, ha dato corpo ad una banalizzazione del
formalismo (formalismo: rivalutazione della forma, o meglio dei valori formali, rispetto al
contenuto, operata in letteratura e nelle arti) e del suo pensiero. Molte volte, si trova in
citato, a riassumere la sua estetica, un estratto dalle Cronache della mia vita:
“Io considero la musica, a causa della sua essenza impotente a esprimere alcunché: un
sentimento, un’attitiduine, uno stato psicologico, un fenomeno naturale, ecc…
L’espressione non è mai stata propria della musica. Se sembra esprimere qualcosa, si tratta
di un’illusione e non di realtà. E’ semplicemente un elemento addizionale (l’espressione) che
le abbiamo imposto, e che per abitudine e incoscienza, abbiamo finito per confondere con
la sua essenza”.
Se l’estetica di Strawinskij fosse riassumibile in queste parole sarebbe visibilmente povera
concettualmente; ma il suo formalismo è in realtà più complesso ed affonda le sue radici in
una tradizione di pensiero estetico e filosofico che proseguirà oltre la Poétique musicale.
I due punti centrali di Strawinskij, strettamente connessi tra loro, si riferiscono:
1) Alla concezione poetica dell’arte, arte come fare, costruire, come confronto con il
materiale e come sfida alle sue leggi ed esigenze;
2) Alla concezione della costruzione musicale come organizzazione del tempo, come
tentativo di far stabilire un ordine tra l’uomo ed il tempo.

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Lo sfondo su cui si articolano questi due fondamenti del suo pensiero è filosoficamente
molto ampio e risulta chiaro che l’affermazione che la musica è “per sua essenza
impotente ad esprimere alcunché” sia assolutamente riduttiva.
Per quanto riguarda il formalismo musicale che, dal romanticismo in poi, vanta un’illustre
tradizione, sarebbe opportuno ricordare anche quella tradizione culturale tipicamente
francese in cui si è sviluppata nel Novecento un’estetica che ha arricchito il formalismo con
nuove prospettive, riallacciandosi allo sperimentalismo linguistico delle avanguardie dei
primi decenni del secolo. Le riflessioni sul problema del tempo sembrano come le più fertili
per arricchire il formalismo di nuovi e più ampi contenuti.
Strawinskij cita l’amico filosofo e musicologo Pierre Suvcinskij, autore del saggio apparso
sulla “Revue Musicale” nel 1939 dal titolo La notion du temp et la musique, traendo
esplicitamente ispirazione dal saggio in alcune pagine tra le più importanti della Poétique
musicale. Infatti, non è possibile non cogliere l’importanza delle riflessioni sul tempo che
troviamo in Suvcinskij, in Strawinskij e pochi anni più tardi riapprofondite da Gisèle Brelet,
per poi citare alcune pagine di Hegel, senza dubbio fonte dello sviluppo del pensiero
formalista. Nella prima parte dell’Estetica, Hegel afferma:
“La battuta appare quindi come qualcosa fatto dal soggetto, cosicché nell’ascoltarla
abbiamo la certezza immediata di avere in questa regolazione del tempo il fondamento
della pura eguaglianza con sé, quindi qualcosa di soggettivo. Per questo la battuta risuona
nel più profondo dell’anima e ci tocca in questa particolare soggettività. Per questo
aspetto, quello che ci parla nei suoni non è il contenuto spirituale, non è il suono come tale
che ci commuove nel più profondo intimo, ma è questa unità astratta, collocata nel tempo
dal soggetto, a trovare risonanza nell’eguale unità del soggetto”.
In questo estratto è possibile trovare quel fondamentale concetto della separazione ed
opposizione tra il tempo come durata psicologica e il tempo come durata ontologica. Il
tempo come durata psicologica è il tempo dei nostri sentimenti e segue il loro svolgimento,
il loro nascere e dileguarsi. La musica, nella sua dinamica temporale, può essere espressiva
del tempo psicologico così come di quello ontologico. Quest’ultimo è legato alla nostra
interiorità più profonda, a quell’essenza temporale in cui consiste la nostra vita spirituale.
Hegel, scriveva ancora nell’Estetica:
“La musica, lasciando scorrere in suoni passione e fantasia, deve innalzare l’anima al di
sopra del sentimento in cui questa si immerge, deve far liberare l’anima al di sopra del suo
contenuto, creando così per lei una regione in cui possa aver luogo il ritorno al puro sentire
di sé. Questo è ciò che costituisce il canto di una musica, il cantabile. In questo caso, ciò
che diventa fondamentale non è solamente il cammino del sentimento, ma l’interno che
sta al di sopra, che si espande nelle sue sofferenze e gioie. La semplice determinatezza
dell’espressione, pur esistendo, si elimina al contempo, in quanto il cuore non è immerso
nel determinato, ma nella percezione di sé stesso, e la musica dà così la più alta
rappresentazione di una beata intimità e conciliazione”.
Probabilmente Strawinskij non conosceva queste righe di Hegel, ma Suvcinskij le
conosceva. L’idea dell’opera musicale come forma inespressiva acquista il suo significato

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solo se messa in relazione con il concetto della musica come forma sensibile del tempo
ontologico, il tempo della musica. La musica, come affermava già Hegel, rappresenta la
relazione tra il tempo ontologico e psicologico, inclinando, a seconda del compositore, più
verso l’uno o più verso l’altro.
Strawinskij, seguendo Suvcinskij, mette in risalto questo meccanismo di relazione tra il
tempo e la musica. questo problema lo aveva intuito nelle Cronache della mia vita, in cui
affermava:
“Il fenomeno della musica ci è dato al solo scopo di stabilire un ordine nelle cose, e
soprattutto, un ordine fra l’uomo ed il tempo. Per essere realizzato, esso esige
necessariamente una costruzione. Raggiunto l’ordine, tutto è detto, e sarebbe vano
aspettarsi altro. E proprio questa costruzione, questo ordine raggiunto, produce in noi
un’emozione di carattere del tutto particolare che non ha niente in comune con le nostre
sensazioni e impressioni della vita quotidiana”.
Cinque anni dopo riprese questi concetti nella Poétique musicale, precisandoli e
approfondendoli:
“Tutti sanno che il tempo scorre in un modo che varia a secondo le disposizioni intime del
soggetto e gli avvenimenti che vengono ad impressionare la sua coscienza. I sentimenti si
rivelano categorie diverse in mezzo alle quali passa la vita, e ciascuna delle quali determina
un processo psicologico, un particolare tempo. Queste variazioni del tempo psicologico
sono percettibili soltanto in relazione alla sensazione originaria del tempo reale, quello
ontologico. Ciò che contrassegna la nozione musicale del tempo è che, questa nozione,
nasce e si sviluppa sia al di fuori delle categorie del tempo psicologico, sia
contemporaneamente ad esse. Ogni musica, quindi, stabilisce una specie di contrappunto
tra lo scorrere del tempo, la sua naturale durata, e i mezzi materiali.”
Strawinskij, seguendo ancora Suvcinskij, conclude evidenziando due tipi di musica:
“Un tipo di musica di evolve parallelamente allo svolgimento del tempo ontologico,
facendo nascere nello spirito dell’ascoltatore un sentimento di euforia; l’altro contrasta
questo svolgimento, senza aderire al momento sonoro. Essa si stabilisce nell’instabile, il
che la rende adatta ad esprimere gli impulsi emotivi del suo autore”.
Questi estratti sarebbero sufficienti a mettere in luce la portata concettuale del
formalismo di Strawinskij, troppo spesso banalizzato e riassunto nella formulazione
dell’impotenza espressiva della musica. Da queste pagine sul tempo musicale si può partire
per capire il significato di molte scelte sul piano filosofico, estetico e musicale.
Il primo dubbio da sciogliere è che il formalismo di Strawinskij porti ad una concezione
dell’opera musicale in cui la pura forma vanti una sua autosufficienza e procuri una sorta di
soddisfazione sul piano acustico percettivo o intellettuale. Per smentire questo dubbio,
basterebbero alcune affermazioni della Poétique musicale, in cui sostiene che la musica
proviene “dall’uomo totale”.
Tornando al concetto di tempo musicale, si chiariscono molte opposizioni concettuali
presenti nella sua estetica. L’affermazione dell’asemanticità (asemanticità: mancanza di

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linguaggio autonomo) viene corretta nella Poétique musicale, quando Strawinskij distingue
i due tipi di musica diversi.
Egli stabilisce, non solo sul piano filosofico, una distinzione gerarchica assegnando alla
musica legata al tempo ontologico più valore, ma anche sul piano del gusto trova una sorta
di “solidità” in questa musica. In questo tipo di musica, la varietà ritmica, dinamica e
melodica è “superata” dalla “calma dinamica” neoclassica. Tra la varietà e l’uniformità,
Strawinskij tende per l’uniformità; secondo il musicista:”Il contrasto produce un effetto
immediato, la somiglianza ci soddisfa con il tempo. Il contrasto è un elemento di varietà,
ma disperde l’attenzione; la somiglianza nasce da una tendenza all’unità”, e conclude poco
oltre affermando che:”Il contrasto è dovunque ed è sufficiente prenderne atto. La
somiglianza invece, è nascosta, si tratta di scoprirla; essa propone delle soluzioni più
difficili, ma dei risultati più solidi e dunque, più preziosi”.
In queste pagine appare uno Strawinskij metafisico che sembra contraddire il suo ideale di
artigianale, anti-romantico, in cui l’artista è un umile artigiano che costruisce la sua opera,
unendo i pezzi del materiale a disposizione. La forma in cui si concreta il fare del musicista,
la sua attività costruttrice, ha un “senso profondo” che per Strawinskij s’identifica con il
“promuovere una comunione, una unione tra l’uomo con il suo prossimo”. L’unità
raggiunta, è qualcosa che ha una risonanza mistica e metafisica: perciò l’identità e
l’immobilità è superiore alla varietà verso cui mira la musica che intende l’espressione
come rappresentazione di eventi psichici. È significativo come Strawinskij parli non di
comunicazione, ma di comunione, il che è legato all’orizzonte estetico e filosofico del suo
formalismo. L’opera musicale, viene concepita da lui, infatti, non come un linguaggio
soggettivo, che si adegua alle necessità espressive del compositore, ma come dato
metastorico, ovvero come un ordine astratto, simbolo di quel tempo ontologico che
rappresenta quel punto di unione tra l’interiorità dell’uomo e del Tutto. Questo risponde
perfettamente non solo al tipo di religiosità strawinskiana che ha manifestato in tante sue
opere, soprattutto dopo il 1925, ma ad una necessità logica. Il suo atteggiamento di fronte
alla tonalità e alla serialità, il suo privilegiare la melodia ed infine il suo modo di concepire il
problema dell’interpretazione, si devono mettere in relazione con la sua forma temporale
della musica. I concetti di ordine e di equilibrio per Strawinskij sono essenziali alla forma
musicale; la tonalità non è che un modo di concretarsi di questa necessità. Strawinskij
sostiene che:”la tonalità è solo un modo di orientare la musica verso questi poli
d’attrazione, e soddisfa solo provvisoriamente a questa legge generale dell’attrazione,
dato che non ha valore assoluto”. Questo meccanismo, è visto da Strawinskij in funzione
formale, e non come meccanismo descrittivo e psicologico. Il meccanismo tonale può
benissimo descrivere sentimenti, ma questo non interessa a Strawinskij, che mira piuttosto
a cogliere attraverso esso “il respiro della musica”.
Strawinskij accetta di realizzare questo centro ordinatore attraverso poli d’attrazione
nuovi, non collegati con un sistema come quello tonale, ormai compromesso dal tempo
psicologico che il musicista vuole evitare. Egli afferma che:”dal momento che i nostri poli
d’attrazione non sono più al centro del sistema tonale, noi possiamo raggiungerli senza

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sottoporci al protocollo della tonalità, sistema ormai tramontato”. La storicità del sistema
tonale non va quindi confusa con l’esigenza che sta ne sta a fondamento; il sistema tonale,
secondo Strawinskij, serve solamente per raggiungere un certo ordine. Ciò che incarna
l’esigenza di ordine formale realizzata con il sistema tonale è, invece, secondo il musicista,
la melodia. Egli sostiene che:”Modalità, tonalità e polarità sono soltanto dei mezzi
provvisori. Ciò che sopravvive a tutti i cambiamenti di sistema è la melodia”. Il privilegiare
della melodia va messo in relazione alla concezione della musica come tempo ontologico.
Se la dimensione fondamentale della musica è quella temporale, è possibile organizzare il
tempo solo nella dimensione orizzontale: la melodia rimane quindi alla base di qualsiasi
sistema che rispetti la natura essenziale di ogni musica:”la melodia è il (sistema) più
essenziale, perché è la voce dominante del discorso musicale”; dunque è un simbolo del
fluire del tempo ontologico, accomunato con l’immobilità e con l’Eterno.
I vari giudizi di Strawinskij sulla musica a lui contemporanea, il suo atteggiamento
ambivalente nei confronti della dodecafonia e della serialità, sono condotti dall’esigenza di
mantenere fermo il principio di salvare l’ordine e la coerenza di cui la melodia tonale o
modale rappresenta l’incarnazione eterna e naturale. La sua aspirazione ad un’arte
dominata dalla coerenza formale, dove “tutto è equilibrio e calcolo”, si esprime, inoltre,
anche nella sua avversione per ogni tipo rivoluzione, politica o musicale. Rivoluzione, per
Strawinskij, è sinonimo di anarchia: in essa, egli, non vede nessun elemento creativo, ma
solamente l’aspetto destabilizzante del caos. La rivoluzione interrompe violentemente e
variamente le continuità, spezza il rapporto tra l’uomo ed il tempo, proprio ciò che la
musica, invece, tenta d’instaurare. L’inizio di questa rivoluzione della musica si trova in
Wagner e nel concetto stesso di melodia infinita; l’idea di una melodia infinita porta
contraddice radicalmente l’estetica del finito, della forma conclusa e dominata da una
legge interna; la melodia infinita porta ad un misticismo, perché non dà a sé stessa dei
confini, e ad una religiosità ingannevole; Strawinskij afferma che:”In ogni epoca di anarchia
spirituale in cui l’uomo, avendo perduto il gusto dell’ontologia, si spaventa di se stesso e
del suo destino, e si deve come sempre comparire una di quelle gnosi (gnosi: forma di
conoscenza religiosa, spesso raggiunta per mezzo di procedimenti misterici; misterici: che
si riconnette con i particolari tipi di culto, detti religioni di mistero, del paganesimo greco-
romano) che fan le veci di religione a coloro che non ne hanno più”. La musica
contemporanea per Strawinskij è l’erede di quest’’anarchia spirituale, del rivoluzionarismo
che pretende di concellare la tradizione. L’istintivo rifiuto della dodecafonia proprio a
causa della sua origineale carica rivoluzionaria, viene superato solo quando il musicista
vede prevalere in essa il significato di una rigorosa tecnica utilizzabile in un contesto
neutro, capace di creare un nuovo ordine formale.
Quest’aspirazione all’ordine, alla forma, con i suoi risvolti conservatori, ha un precisco
riscontro sul probelma dell’interpretazione. A questo proposito è individuabile un aspetto
contraddittorio nel rifiuto di ogni apporto interpretativo da parte dell’esecutore e nella
concezione della musica come tempo oncologico, e quindi non meccanicamente
determinabile. Ma, tuttavia, prevale l’idea del rispetto della dimensione progettuale del

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comporre. Il compito dell’esecutore per Strawinskij si riassume nella “sua fedeltà alla
volotà del compositore”; il resto è superfluo e suggerito “da considerazioni extramusicali
tratte dagli amori o dalle sventure”. Strawinskij dice che:”la nozione di esecuzione, implica
la rigorosa attuazione d’una volontà esplicita, la quale si esaurisce in ciò che ordina”,
inoltre, aggiunge:”il linguaggio musicale è rigorosamente limitato dalla sua notazione”.
La lucida coscienza di Strawinskij aiuta a capire la reale portata del suo pensiero; tutto ciò
basta a capire l’estetica del compositore ha una sua autonomia speculativa (speculativa:
facoltà di speculare, di indagare filosoficamente) e come s’inserisca in un clima culturale
che ha lontane radici. Estetica, poetica, e opere d’arte sono legati tra loro da sottili ma
consistenti fili. Si tratta di saperli individuare e districare; ciò che è in ballo è il concetto
dell’unione della cultura.

Capitolo Settimo: Da Wagner a Stockhausen: musica e parola, evoluzione


di un problematico incontro.

Gli ideali di un’ipotetica arte in cui musica e parola siano armonicamente unite, in realtà
hanno sempre fallito, e le teorie a cui hanno ambito i teorizzatori di una Gesamtkunstwerk
(opera d’arte totale) sono rimaste solamente verbali: in questo senso o la musica ingloba le
parole riducendole a suono (fonema), o la parole ingloba la musica riducendola ad
accompagnamento. Eppure il mito di un’unione non ha mai smesso di affascinare poeti e
soprattutto musicisti.
Sarebbe sbagliato voler indicare come dovrebbe avvenire quest’incontro, su quali basi di
perfezione ideale dovrebbe reggersi l’unione; l’incontro trova a modo suo un equilibrio al
di fuori dei canoni indicati: così musica e poesia s’incontrano nella storia secondo modelli
che, nonostante la loro provvisorietà, riescono a reggere dando risultati positivi. E’
interessante come tutta la storia della musica da Platone (427/428 a.C – 348/347) in poi,
sia piena di teorizzatori e riformatori del rapporto squilibrato musica-poesia. Questo non è
certo un problema accademico o problema d’altri tempi; se da Wagner a tanti musicisti del
XXsecolo, si è continuato a cercare di ridefinire il problema, significa almeno che la
questione è ancora aperta, e che forse sia destinata a rimanerlo per sempre. Ma i continui
sforzi dei riformatori dimostrano anche che, se è impossibile e inutile fissare su un piano
teorico i termini dell’incontro tra due stritture così eterogenee, tuttavia queste due arti
nelle loro trasformazioni storiche si affrontano continuamente sotto aspetti diversi, anche
se il nocciolo del problema rimane immutato, dimostra che una qualche relazione ci deve
essere tra i due linguaggi.
Sarebbe possibile affermare che: a nuova musica si coviene nuova letteratura; a nuovo
linguaggio musicale nasce nuovo linguaggio poetico. Sicuramente un testo barocco del
Tasso esige una musica diversa dal testo liturgico della messa. Ma si obietterebbe dicendo
che anche Strawinskij ha musicato la messa. Da questo è possibile capire come siano
ambigui i rapporti musica-letteratura.

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Ad esempio, Wagner nei suoi scritti, riprende il concetto rousseauiano di un linguaggio
originario, specchio di un uomo integro, non ancora contaminato dalle fratture interne, dai
mali della civiltà moderna. Il dramma musicale dovrebbe riunire le arti, per fonderle in una
ritrovata ebbrezza originaria. In Opera e dramma, questa unificazione ha i caratteri
dell’amore e della sessualità, in cui l’elemento poetico è la forza maschile, la musica è la
forza femminile, dalla cui unione nasce il dramma. Il dramma, la Gesamtkunstwerk,
rinnova l’interezza, simbolo dell’uomo nuovo ancora intatto nelle sue facoltà. Musica e
poesia non sono altro che due poli che attendono di essere ricongiunti nell’amplesso; ma
in quanto forza generatrice, la musica ingloba in sé il mito che si esprime nella parola. La
voce diventra strumento dell’orchestra e l’ipnosi sullo spettatore viene raggiunta con
mezzi puramente musicali. Anche qui è la musica a caricarsi di tutti i significati, anche di
quelli che sembrano lontani dal suo linguaggio e a teatralizzare la stessa orchestra. La
musica diventa così sovrabbondante.
Questo processo di teatralizzazione della musica, ovvero la musica che si fa spettacolo,
azione, assorbendo in sé tutti i significati della parola, della letteratura, in realtà è un
processo iniziato forse già da Monteverdi (1567 – 1643), ma che non riesce a radicalizzarsi
come in Wagner. La stessa alternanza di arie e recitatitivi rappresenta un compromesso
mirato a salvare il salvabile del discorso in un teatro fatto di parole e azioni, in cui i
personaggi sono dotati di una loro personalità psicologica. La dialettica di apollineo e
dionisiaco indicata dal Nietzsche de La nascita della tragedia (la stessa tragedia greca è per
Nietzsche una sintesi, in cui si conciliano le due grandi forme che animano lo spirito greco:
l’apollineo e il dionisiaco. Il gioco dialettico tra apollineo e dionisiaco esprime la tragicità
della vita e della condizione umana, dove l’uomo tragico è stato sostituito dall’uomo
teoretico.) come proprio dell’espressione artistica più matura e consapevole, viene
spezzata proprio da Wagner: l’apollineo, cioè la forma, il discorso, la parola, l’immagine,
viene cancellato, dando trionfo al dionisiaco (il dionisiaco deriva dalla forza vitale e dalla
caoticità del divenire e si esprime nella creatività della musica).
Ripercorrendo la storia wagneriana sull’incontro musica-letteratura, per la prima volta un
musicista diventa librettista di se stesso, ed il libretto assume una densità ideologica,
politica, filosofica, letteraria come poche volte si era visto. Dopo Wagner molti musicisti
scriveranno i propri testi; ma da Wagner in poi la scelta del testo diventerà un’azione
sempre più consapevole, la collaborazione tra musicista e scrittore diventerà sempre più
stretta. Si potrebbe dire che la ricerca di un’affinità stilistica, ideologica e culturale è
diventata un’esigenza dei musicisti. Questa constatazione va affiancata però ad un’altra:
da Wagner in poi, i testi, oltre a diventare più significativi, diventano anche più
incomprensibili all’ascolto, fino alla loro totale scomposizione, in cui la valenza significativa
viene assorbita nella musica e nel suono. (Prima del Romanticismo, la scelta del testo
sembrava causale ed il musicista sembrava indifferente di fronte al materiale narrativo e
linguistico; eppure per l’ascoltatore l’importanza semantica era essenziale, e tutto risultava
più comprensibile). Evidentemente la trasfusione, come dice Boulez, da poesia a musica si

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opera a vari livelli del linguaggio e del significato; il risultato è pur sempre una sintesi o un
tentativo di sintesi anche se sbilanciata in una o nell’altra direzione (musica-letteratura).
Boulez rimane tra i molti che credono nella fecondità dell’incontro musica-letteratura; ma
guardando ai risultati viene da chiedersi perché cercare così attentamente un testo
quando quest’ultimo è destinato a scomparire nella musica. Per il musicista, il fascino della
parola, della poesia è irresistibile, qualsiasi uso ne faccia.
Sarebbe necessario esaminare il tipo di soluzione prospettata dai musicisti del dopo
Wagner sino alle avanguardie. E’ sufficiente individuare il problema che si è aperto dopo
Wagner, e soprattutto cogliere una prospettiva comune. Senza dubbio nel Novecento il
musicista pone un’attenzione tutta particolare nella scelta del testo, ma la relazione con
esso è del tutto nuova, che riporta ad un discorso che va oltre le tendenze della musica del
Novecento, includendo anche la letteratura. Quando la musica contemporanea utilizza
testi poetici contemporanei l’incontro avviene su livelli semantici diversi rispetto al passato
e con intenzionalità di significato nuova. Poesia o musica, camminando su binari stilistici
diversi nei loro mezzi, ma paralleli nel loro significato culturale e artistico, si integrano
l’uno con l’altro. L’integrazione può verificarsi anche nell’assenza del testo come
significato: la sua presenza come centro viene suggerita e data come presupposto. La
musica non deve quindi, aspirare allo stesso significato del linguaggio, dal momento che è
il linguaggio che si spoglia progressivamente del suo uso semantico, e che tende alla
condizione di suono puro. Come propone Boulez, il problema si riduce al bisogno di
“organizzare il delirio”. Ci si trova davanti ad una poesia in cui la parola tende a evidenziare
il valore puro del fonema. Ed è a questo tipo di poesia a cui si riferisce Boulez negli anni
Sessanta, indicando Mallarmé come il maestro di questo modo di concepire e progettare la
nuova poesia musicale. Musicisti come appunto Boulez, o Stockhausen, nutrivano un
interessa notevole verso questi aspetti “musicali” di un testo poetico, tanto da inserirlo e
utilizzarlo proprio per questi valori nelle proprie composizioni; in questo caso l’operazione
del musicista, ma anche quella del poeta, va nella direzione della destrutturazione del
linguaggio.
Se questo interesse è presente il larga scala in molti settori della musica, sino a
Stockhausen, è interessante osservare il fenomeno in quei musicisti chiamati impegnati. Si
è assistito ad una rinascita del teatro musicale, lontano da un’epoca in cui il teatro
musicale era troppo compromesso per vicinanza al verismo e a tutto ciò che implicava nel
linguaggio e nello stile, musicisti di ogni fede di sono ingegnati nel recupero della
dimensione teatrale. Se Stockhausen si è rivelato il vero erede di Wagner, è anche perché
ha radicalizzato la sua via del teatro totale, in cui la parola, suono e rumore vengono
riportati ad una loro dimensione teatrale, dove lo spettatore viene avvolto dell’eventi
sonoro.
Il Convegno nel 1980, dal titolo Parole per musica, a cui hanno partecipato poeti e
musicisti, è suddiviso in Atti, i quali sono un documento significativo per fare il punto del
problema musica-parola, musica-letteratura. Ciò che colpisce nella varietà degli interventi
è la sostanziale identità di vedute riguardo questo tipo di problema. Tutti intendono

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comprensibilità del testo ad un livello che non ha nulla a che vedere con il significato delle
parole. Bortolotti, afferma che del non si è mai preoccupato né di rendere il suono
l’elemento semantico più significativo, né nella comprensibilità immediata del testo
cantato; egli si è occupato invece di rendere il testo più adeguato nelle sue componenti,
fino a sfruttare ogni singolo fonema e usando tutte le scale della voce, unendolo ad uno
strumento o ad un nastro magnetico. Giacomo Manzoni, afferma che Henri Purcell fu
“l’ultimo musicista che ebbe la preoccupazione di far capire agli ascoltatori le parole
musicate”.
Il documento utilizzato porta il problema sul teatro musicale. Dopo gli anni di Darmstadt,
quando la rigidità ed il rigore linguistico nella costruzione musicale avevano allontanato il
musicista dal teatro e dal linguaggio verbale, si è assistito ad un importante revival del
teatro musicale, ma i problemi che pone il teatro di Stockhausen o di Manzoni, sono ben
diversi dal teatro di altri tempi.
Buona parte della musica post-wagneriana ha una forte componente tetralizzante, che
includa o no il testo letterario. Manzoni, riferendosi alla sua composizione corale Holderin,
afferma:”Vedremo già in questo pezzo come ogni parola, ogni lettera, viene utilizzata
proprio per il suo valore timbrico e fonetico. Per esempio se dico “parola” posso musicare
dando a una voce la lettera a, la lettera p è solo un’esplosione momentanea, la lettera r
può essere usata sia come sonora, sia come sorda, quindi separatamente o
simultaneamente, la lettera o viene utilizzata per la sua vocalità, la lettera l anche, perché
è una lettera continua, intonabile su varie altezze, e poi di nuovo la lettera a… Questo
metodo, colloca ogni valore fonico in una situazione per cui esso non è sostituibile. Qui il
problema per un musicista non è quello di far capire un testo, ma è quello di interpretarlo
e trasformarlo nei suoi valori fonetici”. Parlare di musicalità di un testo non significa
“poesia molto dolce, cantabile”, ma, invece, significa fare esplodere la musica o il suono
racchiuso nella parola. Perciò il teatro musicale contemporaneo è intraducibile, perché
sarebbe come voler tradurre la musica stessa. Il teatro musicale contemporaneo, afferma
Manzoni:”utilizza la parola proprio per le sue valenze foniche vere e pure, per la ricchezza
che la parola può dare nella sua trascrizione musicale attraverso il suo aspetto timbrico, la
sua altezza, attraverso le componenti vocali”. Così avviene nelle opere teatrali e non di
Luigi Nono, dove la manipolazione elettronica della parola e della voce evidenzia
esplicitamente questo uso sinfonico del testo da musicare. La direzione in cui vanno questi
musicisti è comune a larghi settori della musica contemporanea, per quanto riguarda il
rapporto musica-letteratura e si può anche aggiungere che in ciò sono stati incoraggiati
dagli stessi poeti i quali hanno esplicitamente evitato di ricorrere ad una poesia che
scaturisce da significati legati ad un uso semantico della parola.
Questo è un discorso generale ed esclude varie eccezioni: mirava unicamente ad
individuare una linea di tendenza. Da Wagner a Stockhausen, prendendoli solamente come
simboli, si assiste ad una progressiva teatralizzazione della musica; ma l’elemento portante
di questa teatralizzazione non è la parola, la concatenazione degli eventi, ma la musica
stessa con i suoi eventi propriamente musicali. La ripetitività di Stockhausen, la parola

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sprovvista di elementi semantici e valorizzata soprattutto per i suoi elementi fonici, la
musica intesa come evento sospeso nello spazio e nel tempo, destrutturalizzata nelle sue
scansioni semantiche, presenta molte affinità con l’evento magico e rituale che riceve
significato solo in rapporto a se stesso e all’aura che lo circonda.

Capitolo Ottavo: Dodecafonia e religiosità nella musica di Schönberg.

Studiando Schönberg (1874-1951) musicista, non si può dimenticare che è stato anche un
saggista, uno scrittore, un pittore ed un teorico della musica. Ricostruire la sua personalità
ideologica non sarebbe difficile in base ai suoi numerosi scritti, e nel ricostruire la sua
biografia intellettuale si è facilitati dalla lettura dei numerosi documenti che ci sono
pervenuti. Il problema però sorge nel capire se questa sua biografia coincida con la sua
musica; quindi il vero problema sta nello stabilire quale tipo di interpretazione della sua
musica possa fornire indicazioni e conferme della sua personalità ideologica.
E’ nota la svolta radicale nella sua personalità a partire dal primo dopoguerra (1° Guerra
Mondiale). L’episodio accaduto a Mattsee (Austria), un paesino in cui ha subito il primo
attacco antisemita nel 1921, gli venne chiesto di presentare il certificato di battesimo, in
quando gli ebrei non erano ospiti graditi. Ciò l’aveva profondamente segnato, e
probabilmente proprio da cui era partita la sua faticosa strada di recupero delle sue radici
ebraiche, perdute dopo la conversione al protestantesimo nel 1898. Il fatto che in quegli
stessi anni inventi la dodecafonia, il nuovo metodo di composizione con dodici suoni, e che
a partire da quegli anni la maggior parte delle sue composizioni rivelino esplicitamente uno
strato etico ebraico, può produrre stupore.
Nelle sue composizioni è impossibile dividere il tessuto musicale dai testi musicati: la
maggior parte delle sue composizioni dopo gli anni Venti sono vocali e su testi composti da
lui stesso. La prima grande composizione di ispirazione ebraica di Schönberg è Moses un
Aron, opera di grande complessità musicale e ideologica. In quest’opera, è impossibile
separare il libretto dalla musica senza perdere la sostanza dell’opera stessa. Il tessuto
musicale è strettamente legato al progetto religioso ed ideologico. Il contrasto Mosé e
Aronne, i personaggi chiave dell’opera, rappresenta l’impossibilità di conciliare la purezza e
durezza del messaggio monoteistico con le esigenze del popolo e il bisogno di dar corpo a
tale idea, ovvero l’idea monoteistica nella sua purezza. Mosé, che rappresenta l’amore per
l’idea monoteistica, e Aronne, che rappresenta l’amore per il popolo, non trovano alcuna
possibilità di conciliazione nell’opera di Schönberg.
Questo contrasto, che rappresenta il motivo centrale dell’opera, si manifesta soprattutto
nel diverso stile di canto di Mosé e Aronne: il primo canta nello stile dello Sprechgesang o
Sprechstimme (Sprechgesang: canto parlato), con il suo monotono cadenzare, mentre il
secondo canta con voce tenorile in uno stile operistico tradizionale. Lo stile di canto di
Mosé ricorda in quale modo la cantillazione biblica; come nel canto sinagogale la musica e
la melodia non devono coprire la parola ma, anzi, devono sottolinearla e completarla nel

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suo valore intellettivo e sintattico. La linea del canto non deve abbellire il testo, renderlo
più gradevole e fluibile, ma al contrario renderlo in tutta la sua durezza e autorità. Il canto
spiegato di Aronne, che rientra invece nella tradizione operistica dove la parola tende a
staccarsi dall’arco melodico, dove la musica mira a mostrare il suo potere nei confronti
della parola, che viene a sua volta indebolita per essere esaltata nelle sue potenzialità
musicali. Il contrasto tra Mosé e Aronne è la rilevanza ideologica del metodo dodecafonico.
Può sembrare che dodecafonia ed ebraismo siano due esperienze non comparabili. Ma da
una lettura più attenta dei testi dello stesso di Schönberg si può capire facilmente quale
rilevanza etica lo stesso musicista attribuisse alla dodecafonia. Uno dei saggi chiave di Stile
e idea che riprende il testo di una conferenza tenuta a Los Angeles nel 1941, Composizione
con dodici note, riporta alcune affermazioni sul significato che lo stesso Schönberg
sttribuisce alla dodecafonia e sulle motivazioni che lo hanno portato all’elaborazione del
metodo dodecafonico. In tutto il saggio viene messo in luce l’aspetto più etico che estetico
della creazione artistica in generale, nel senso che l’opera d’arte nasce sempre da una
forte necessità interiore. Per quanto riguarda l’oprea dodecafonica, Schönberg afferma:”Il
metodo di composizione con dodici note è nato da una necessità”. Il termine necessità va
chiarito, perché si potrebbe pensare ad una necessità di carattere naturale o storico, ed è
proprio a quest’ultimo tipo di necessità a cui Schönberg allude nel suo scritto. La differenza
tra consonanza e dissonanza, che sta alla base della costruzione dodecafonica, infatti non
va cercata nella natura, ma consiste in una grado maggiore o minore di comprensibilità o
come afferma Schönberg, di familiarità con le dissonanze.
La musica quindi non solo può mettere da parte la natura, ma plasma il suo destino che la
porta creare forme sempiù più autosufficienti, distaccate dalla necessità naturale. La
creazione artistica è governata da una necessità interna, la stessa che guida l’artista e lo
spinge verso l’esito creativo. La necessità assume il valore di legge, interna all’opera stessa,
che organizza la coerenza e rende comprensibile che il messaggio che contiene.
E’ lecito domandarsi perché la dodecafonia rappresenta un metodo migliore della tonalità.
Schönberg non è mai stato rigido su questo punto e dal Moses und Aron fino alle sue
ultime opere ha usato il metodo dodecafonico, senza però rinnegare mai del tutto la
tonalità. Da un un’analisi delle sue opere appare chiaro che i due metodi
(tonalità/dodecafonia), abbiano due significato ben preciso: la dodecafonia è un sistema
rigido di organizzazione dei suoni che si fonda unicamente sulla volontà creatrice del
musicista e da lui dipende interamente. Ogni elemento naturale viene sottoposto ad una
rigida volontà organizzatrice. Se la dodecafonia, come afferma Schönberg, non ha altro
scopo che la “comprensibilità”, quindi può stupire leggere che se:”da una parte essa
sembra effettivamente accrescere la difficoltà dell’ascoltatore, dall’altra punisce il
compositore, perché comporre con questo metodo non è facile, ma dieci volte più difficile.
Soltanto un compositore preparatissimo può comporre per un ascoltare che lo sia
altrettanto”. In questo estratto si nasconde l’idea di elezione come difficile compito a cui è
chiamato il compositore, compito dal sapore più etico che estetico e che non può non
ricordare il concetto di elezione quale si trova nella Bibbia e nella tradizione ebraica,

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ovvero scelta di una via più difficile, e coloro che riescono a percorrere questa strada fino
in fondo possono qualificarsi come avanguardia destinata a portare luce a tutta l’umanità.
La dodecafonia rappresenta questo gradino più alto nella storia della musica: la sua
difficoltà per il compositore, così come per l’ascoltatore si giustifica per il suo rifiuto a
venire incontro alla comune sensibilità uditiva. Quest’ultima si è modellata nel corso degli
ultimi secoli su una base più naturalistica. La dodecafonia rappresenta una scelta in tutto e
per tutto più ardua, anche se garantisce al compositore un più efficace “effetto
unificatore” dello spazio sonoro. Schönberg afferma in Composizione con dodici note:
“L’adozione del mio metodo di composizione con dodici note non facilita la composizione,
la rende più difficile. Le restrizioni imposte ad un compositore sono così rigide che soltanto
una fantasia passata attraverso molte avventure può superarle. Questo metodo non regala
nulla, anzi priva di molte cose”. Inoltre, aggiunge che nella musica “non c’è forma senza
logica, e non c’è logica senza unità”.
In queste citazioni si ritrovano espressi, in chiave metaforica, alcuni principi base
dell’ebraismo, ovvero: l’idea di elezione intesa come duro compito che può portare ad un
più alto livello di coscienza; il senso della legge, del suo rigore e della sua necessità come
strumento di un più alto senso della libertà, ed infine il principio dell’unità da cui discende
ogni molteplicità che non degeneri nel caos e nell’informale.
Quest’analogia tra i principi su cui si forda la dodecafonia e alcuni principi chiave
dell’ebraismo si trova nel tessuto letterario e musicale del Moses und Aron. Schönberg
concepiì la sua più grande opera musicale su una sola serie dodecafonica e più volte scrisse
che il suo obiettivo era di garantire “unità” all’opera.
Sembra che la dialettica tra unità e molteplicità su cui si regge il Moses und Aron abbia un
preciso risvolto musicale, anche ad un primo approccio all’opera appare che la serie, nella
sua forma originaria, venga usata per dare un volto alla divinità nella sua forma più pura ed
essenziale. Le mutazioni della serie originaria, che generano dei leitmotiv (leitmotiv: 1.
termine che designa, con riferimento al teatro di Wagner, ognuno dei temi che
ricompaiono più o meno variati di atto in atto, intrecciandosi l’uno con l’altro come
s’intrecciano gli elementi drammatici del testo; 2. motivo stilisticamente determinato e
ritornante nel corso di un’opera musicale, drammatica o letteraria) ricorrenti, compaiono
invece nelle situazioni in cui si è in presenza di una distorsione dell’idea di Dio, di un suo
abbassamento ad un livello inferiore. A livello musicale, troviamo una contrapposizione tra
la serie dodecafonica, esposta nella sua astratta purezza, simbolo della divinità intesa
come idea astratta e irrapresentabile, impersonata dello Sprechgesang di Mosé, e la
tonalità intesa come via più tradizionale, al limite dell’orecchiabile, simbolo della
molteplicità e dell’idolatria/venerazione, eterno rischio a cui l’umanità è esposta. Questa
simbologia musicale assume il suo significato più carico se si tiene presente la
problematica etico-religiosa che domani nell’opera e nella vita di Schönberg. Questa
oscillazione tra dodecafonia e la tonalità mai rinnegata, ha un preciso risvolto ideologico e
religioso; la drammatica dialettica tra cielo e terra, tra legge e disordine, tra parola e canto,
è sempre presente in Schönberg uomo e musicista. Tutte le sue opere riportano a vari

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livelli questo conflitto, irrisolto e forse irrisolvibile nell’orizzonte ideologico e culturale in
cui si spostava Schönberg: non è quindi un caso se un’opera così significativa a questo
riguardo come il Moses und Aron sia rimasta incompiuta e ogni tentativo di portarla a
termine sia fallito, proprio a dimostrazione che il conflitto non ammetteva una soluzione.
La serie dodecafonica è per Schönberg un simbolo del suo modo di concepire Dio, e ciò
non solo perché la serie è una sola e tutta l’opera si fonda su di essa e da essa trae origine,
ma anche perché la serie diventa qualcosa di astratto, analogamente Dio è “irraffigurabile,
invisibile, inesprimibile”. Anche la serie, quindi, non è percepibile all’orecchio per via
diretta, essa diventa sempre più comprensibile per gli effetti che produce, cioè nel
molteplice che lei viene ricavato. Proprio questo passaggio dall’unità alla molteplicità
diventa problematico e spesso drammatico, come dimostra il conflitto tra Mosé e Aronne.
Al conflitto che nasce non c’è soluzione, tranne forse che nella preghiera, la quale
rappresenta nel pensiero di Schönberg quell’evento miracoloso e contro natura, come
unica forma di soluzione, ma soluzione inesprimibile e non concretizzabile all’interno di
un’opera. La redenzione/pentimento può preannunciarsi soltanto attraverso la preghiera e
questa è un atto silenzioso, non esplicitabile come opera, azione o musica. Di nuovo
troviamo la serie dodecafonica al centro di questa problematica. Dato che essa
simboleggia l’unità e l’irrafigurabilità di Dio, dal punto di vista musicale si traduce nel suo
essere presente come principio unico e fondante, non percepibile in quanto tale. Quindi la
serie ha una funzione opposta a quella del tema nella musica tonale. L’unità si rende
visibile solotanto nel molteplice, e nel manifestarsi avviene un’inevitabile degradazione
che può assumere vari caratteri; rendendosi visibile, percepibile, in qualche modo si
materializza e diviene suono, comunicazione, lasciando della sua purezza originaria
soltanto un segno. Tra la serie e le sue variazioni il rapporto è conflittuale: tra la tonalità,
quindi Dio, e la singolarità, l’uomo, non può esserci reale comunicazione, quindi la serie
originaria si nasconde, mentre le sue variazioni tendono alla tonalità, dando origine a
consonanze ed accordi perfetti. Solo la preghiera, può rappresentare un ponte tra l’umano
ed il divino, che permette un dialogo precario e senza sicurezza di risposta.
Viene così evidenziato nell’opera di Schönberg una divisione di significato tra dodecafonia
e tonalità: per Schönberg si tratta di due mondi radicalmente diversi, provvisti di precise
caratteristiche non solo musicali, ma anche etico-esistenziali. Ciò non esclude però la
possibilità di contatti tra i due mondi; dodecafonia e tonalità rappresentano
rispettivamente l’unità e la molteplicità e, metaforicamente, il mondo del divino e il
mondo dell’uomo. Dato che si tratta di mondi opposti è naturale che ci sia un rapporto
conflittuale: è il drammatico rapporto tra Mosé e Aronne. D’altra parte la legge sarebbe
priva di senso se non esistesse il non rispetto della legga, così come il rigore monoteistico
assume un significato particolare in presenza della propensione all’idolatria. Ci si trova
davanti un’analogia, metaforica, tra la dodecafonia e la funzione della legge stessa
nell’ambito dell’etica ebraica. Le legge non ha radici né nella natura dell’uomo, né in un
ordine naturale, essa si autogiustifica solamente in quanto legge data da Dio all’uomo in
circostanze del tutto eccezionali ed innaturali. Il problema, nasce però quando questa

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legge deve confrontarsi con il mondo umano, con la sua sensibilità e la sua natura. Allora
viene messa in luce una divisione che sembra incolmabile. Il problema di Schönberg come
uomo, ebreo e musicista è proprio questo: come percorrere la scala che unisce Dio
all’uomo, la legge alla quotidianità, il rigore monoteistico alla molteplicità e varietà del
mondo della natura. Troppo difficile il compito del sacerdote Aronne, che deve riportare il
messaggio di Dio all’uomo, senza tradire l’assolutezza della parola; infatti Aronne fallisce
perché al contatto stesso con il mondo, la parola subisce quella degradazione inevitabile e,
dal punto di vista musicale, dalla purezza della serie dodecafonica, dalla sua irrafigurabilità
al compromesso tonale.
Questo salto tra il divino e l’umano, tra la legge e la quotidianità, è stato vissuto
dall’ebraismo attraverso un lungo e millenario travaglio storico: l’ebraismo rabbinico
(ebraismo rabbinico: si basa sulla convinzione che sul Monte Sinai, Mosé abbia ricevuto la
Torah direttamente da Dio, insieme ad una spiegazione orale, cioè “La legge orale”, che è
stata trasmessa da Mosè al popolo israelita in forma orale) si è posto il compito storico di
colmare questo divario tra il divino e l’umano, attraverso la legge orale, quella tradizione
che reinterpretando di generazione in generazione la parola biblica, stabilisce le modalità
attraverso cui essa (la legge orale) deve essere applicata alla quotidianità, cioè alla storia.
La legge orale, rappresenta quindi la possibilità del salto tra l’eterno e la storia che
Schönberg riteneva incolmabile.
Ma Schönberg, come molti intellettuali ebrei della sua generazione, conosceva solo
l’ebraismo biblico. L’ebraismo indipendente della Vienna e della Germania tra la fine
dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, è un ebraismo etico ed affonda le sue
radici nella Bibbia: è l’ebraismo di Freud, Kafka e dello stesso Schönberg. Tutti loro
cercavano una propria strada che li portasse a riappropriarsi di una tradizione culturale
dimenticata. La via percorsa dagli intellettuali ebrei di quella generazione passava da una
parte attraverso una rilettura della Bibbia, dall’altra attraverso il sionismo, ovvero una
corrente di pensiero in cui le componenti laica e religiosa dell’ebraismo si trovano fuse e
congiunte.
La strada percorsa da Schönberg, è assolutamente personale e originale: l’impulso
religioso, la contrapposizione tra cielo e terra, il valore della preghiera, è testimoniato
tutto dalla sua vita, dalla sua opera di musicista e dai suoi scritti. L’intensità con cui ha
vissuto la sua personale esperienza ebraica, trova una collocazione precisa proprio nella
tonalità di lettura del testo biblico. Moses und Aron ne rappresenta il modello: Schönberg
mette l’accento su Dio concepito come “Unico, Eterno, Irraffigurabile”, Dio quindi, come
ciè che è, aldi là di ogni possibilità dialogica. Non è il Dio che detta legge all’uomo, ma che
sa mitigare con la sua misericordia l’inflessibilità dei suoi comandamenti. Schönberg ritrova
l’ebraismo perduto attraverso una lettura biblica ancora piena di ricordi
luterani/protestanti e non mediata dalla vitalità di una tradizione milleniaria. Questo
radicalismo nel modo di Schönberg di concepire la divinità e quindi l’ebraismo, si ritrova
nel suo modo di praticare e concepire la dodecafonia. Da una parte troviamo l’assolutezza
della serie dodecafonica, inaccessibile all’udito, dall’altra il mondo della tonalità, della

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comunicazione facile e della gratificazione uditiva. Il mondo della dodecafonia è il mondo
del dover essere un punto limite, irraggiungibile dall’uomo; il mondo della tonalità è il
mondo della comunicazione, dell’espressione e quindi del banale. Il primo (dodecafonia), il
mondo dell’innaturale, il secondo (tonalità) del naturale. In un aforisma del 1909,
Schönberg scriveva:”L’innaturalezza, l’opposto della natura, diventa antipatica solo quando
diviene abitudine: allora è di nuovo naturalezza”. In questo pensiero è contenuto il suo
radicalismo che sta alla base della sua opera: da una parte è presente un ideale
irraggiungibile per la sua purezza, simboleggiato dal rigore della legge, dall’altra, invece, il
mondo dei compromessi, della quotidianità, della natura e dell’immagine. La spaccatura
spirutale e musicale trae origine dal duplicità non risolta tra due poli: nel primo, Schönberg
afferma, attraverso Mosé:”Nessuna immagine può darti un’immagine dell’irraffigurabile”;
nel secondo invece, Schönberg, non può rinunciare alle parole con cui Aronne
risponde:”Mai l’amore si stancherà di raffigurarselo. Felice il popolo che ama tal Dio”. Ma
tra Mosé e Aronne, come detto, il dialogo è impossibile nella prospettiva in cui Schönberg
vive l’ebraismo. L’amore verso questo Dio si traduce nella sua adorazione informale, nella
marcia vuota e infinita delle quinte parallele. Come aveva affermato più volte Schönberg,
la dodecafonia avrebbe dovuto essere anche un metodo capace di garantire la
comunicazione. Tutto però sta nel capire il concetto di comunicazione: essa assume il suo
significato più intenso non quando la musica di fa melodia, ma quando tende alla parola
spoglia o quasi al silenzio. Mosé, termina la sua orazione con l’esclamazione con cui si
conclude il secondo e ultimo atto musicato:”Oh parola, parola che mi manca!”.

Capitolo Decimo: Quale raffigurazione melodrammatica nel teatro di


Schönberg.

Quando si riflette sulla storia del teatro melodrammatico (accompagnato da strumenti e


cantato) si è portati a considerare grandi opere quelle in cui i personaggi appaiono come
persone in carne ed ossa, che vivono musicalmente i loro sentimenti secondo ona
“verosimiglianza” con la vita: i personaggi non sono simbolici, ma uomini e donne che
vivono il loro dramma immedesimandosi nel ruolo, vivendolo fino in fondo.
I libretti di Metastasio (1698 – 1782) rappresenterebbero la svolta nel passaggio da
situazioni e personaggi simbolici, a situazioni prettamente umane. Alcuni personaggi dei
suoi libretti, nonostante gli schemi moralistici in cui s’inseriscono, offrono per la prima
volta nel teatro melodrammatico figure che soffrono, che piangono con lacrime vere, fuori
da ogni convenzione. Ma è solo con il teatro di Mozart che si ha a che fare con personaggi
veri, con caratteri a tutto tondo, delineati nel loro spessore umano.
Attraverso varie vicende e su sfondi culturali diversi, si sviluppa il melodramma in età
successiva, tenendo però, sempre fede all’impegno nell’approfondimento dei personaggi,
con libretti che riproducono situazioni romanzesche che la musica cerca di sottolineare e
mettere in luce. Questa tendenza sembra però subire un inversione con il teatro di

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Schönberg. Non più teatro-romanzo, personaggi scavati nelle loro sfumature psicologiche,
non più situazioni ed intrecci complessi. Ricompare quindi nel tratro schönberghiano il
personaggio simbolo, le proiezioni dell’inconscio ed idee chiave che si scontrato con altre
idee. Questo cambiamento radicale nella struttura del tatro melodrammatico si affaccia in
modo del tutto parallelo alla crisi della tonalità e all’affacciarsi sulla scena musicale
dell’atonalità e della dodecafonia. Non è un caso se la nascita del melodramma è
contemporanea con la nascita dell’armonia tonale e della monodia accompagnata (canto a
voce sola con accompagnamento). Monodia accompagnata, ovvero armonia tonale,
sembrano essere gli strumenti più adatti per realizzare l’ideale di portare la musica sulla
scena, per dipingere la varietà delle situazioni emotive della vita: ad esempio, le passioni
diventato figurativamente visibili e musicalmente udibili nello spettacolo melodrammatico.
La crisi del teatro musicale, coincide con la crisi del mondo tonale; il nuovo orizzonte
atonale della musica di Schönberg nel decennio che va dal 1905 al 1915 vede nascere
nuovi esperimenti di un nuovo teatro, breve e schematico, dove i pochi personaggi
rappresentano idee inconscie di timori e speranze. Forse il nuovo linguaggio atonale non
era ancora capace della ricchezza di tavolozza del vecchio linguaggio armonico con i suoi
tre secoli di storia ed il progressivo affinamento delle sue capacità descrittive; il nuovo
linguaggio, quindi, appare più adatto a situazioni simboliche ed esemplari. Sicuramente
Schönberg si era posto il problema dell’opera in relazione al nuovo linguaggio.
Se il Quintetto a fiati rappresenta in termini musicali la traduzione del problema di una
possibile relazione tra la forma-sonata e la dodecafonia, e, similmente, il Moses und Aron
rappresenta la messa in discussione della stessa possibilità di esistenza dell’opera nel
linguaggio dodecafonico. Così come il Quintetto a fiati vuole mostrare quanto sia
problematico comporre servendosi della dodecafonia, così il Moses und Aron vuole
mostrare quanto risulti problematica l’azione teatrale, il movimento dei personaggi,
servendosi in modo rigoroso del linguaggio dodecafonico. Il Moses und Aron si presenta
inizialmente come un’opera tradizionale, con: personaggi, intreccio, azione teatrale, coro,
tutto fa pensare ad un melodramma basato su fatti biblici. Ma dando un’occhiata alle
novità sono molte, tralasciando la mancanza della musica nel III atto, ciò che colpisce è
l’andamento del primo atto: tutto è immobile ed il contrasto tra i due protagonisti Mosé e
Aronne si riduce ad un contrasto ideologico, ad una battaglia di idee a cui il coro fa da
commento. L’andamento è oratoriale e manca quella dinamica degli eventi e dei
personaggi, tipica del melodramma classico. Il linguaggio dodecafonico sottolinea il senso
d’immobilità ed il contrasto tra Mosé e Aronne viene evidenziato dal modo con cui
cantano i due: quasi un recitare cantato di Mosé, mentre Aronne canta a voce spiegata,
con voce tenorile. Aronne fa pensare al protagonista di un’opera tradizionale, che dà libero
sfogo ai suoi sentimenti, mentre Mosé con il suo inflessibile e monotono Sprechstimme
(canto parlato) rimane chiuso su se stesso nella rigidità del suo pensiero, privo di slanci
emotivi. I due personaggi chiave rappresentano due mondi che si contrappongono, ma non
solo dal punto di vista ideologico: Aronne è ancora teatrale, è un uomo che soffre e gioisce,
che ama il suo popolo e che è straziato da un conflitto inteiore, ma che mette però il suo

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amore e la propria compassione al servizio del popolo, anche se a causa di ciò entra in
conflitto con il monoteismo di Mosé. Quest’ultimo, al contrario, non canta ma affida il suo
rigoroso messaggio alla Sprechstimme e nulla viene concesso all’abbandono emotivo o alla
piacevolezza del canto disteso. Tra Mosé e Aronne non esiste mediazione, come sarà
visibile nel II e nel III atto non musicato, così come non esiste tra dodecafonia e tonalità
come pensava Schönberg negli anni che vanno dal ’20 al ’30. Il conflitto tra Mosé e Aronne
non prevede né vinti né vincitori e così il conflitto interiore nei due personaggi non ha né
un progresso né uno scioglimento. Per quanto riguarda Mosé, con il suo mondo di puro
pensiero, dove la tensione monoteistica non prevede né uno scioglimento né una
risoluzione, non è una figura melodrammatica, anzi è quanto di più antiteatrale possibile.
D’altra parte, la figura di Aronne, è priva di un antagonista con cui entrare in competizione,
con cui confrontarsi: nel libretto-romanzo tradizionale la vicenda psicologica che
caratterizza il protagonista, si evolve per mezzo del conflitto con altri personaggi; qui,
invece, ogni personaggio è chiuso in sé stesso e combatte unicamente con sé: il coro fa da
cornice e da commento. Senza dubbio, ogni personaggio simboleggia situazioni
ideologiche: il monoteismo di Mosé, il quale simboleggia il mondo dell’unicità, del rigore
monoteistico, non è condizionato da alcun atteggiamento psicologico, è all’opposto del
mondo della figurazione, cioè del molteplice simboleggiato da Aronne. Per quest’ultimo,
cedere di fronte ai voleri del popolo significa appunto rapportarsi a situazioni psicologiche
che ci riportano ad un mondo in cui vige la molteplicità. Ma tra la legge e la vita, tra l’uno
ed il molteplice, non si intravede alcuna possibilità di conciliazione o di mediazione,
perlomeno nel testo e nella musica di Schönberg.
Il Moses und Aron, riporta ad alcune considerazioni più ampie sul teatro melodrammatico
e sulla sua importanza storica. Quest’opera assume il valore di una riflessione sulla
possibilità stessa dell’opera nel mondo moderno e nell’esperienza musicale ed esistenziale
di Schönberg. Lo sfondo ebraico in cui si pone la riflessione di Schönberg evidenzia la
natura del teatro così come si è delineato nel mondo occidentale. Nel teatro musicale non
ha mai trovato spazio il rigore della legge, ebraicamente intesa come monoteismo etico;
nel teatro musicale, trionfa, invece il mondo della vita, del molteplice. Il melodramma, ha
sempre sottolineato il suo carattere mondano: il senso dello spettacolo, della figurazione
sono sempre stati delle costanti attraverso i secoli. I personaggi del melodramma si sono
sempre mossi in un orizzonte umano, padroni del loro destino o a volte sottomessi ad un
destino segnato da divinità oscure. Nel melodramma realistico, invece i personaggi si
muovono mossi dalle leggi della propria psiche, che li guidano verso lo scioglimento delle
vicende in cui sono coinvolti. La musica ed canto rappresentano i mezzi migliori a
sottolineare queste spinte psicologiche che rappresentano i motori dell’azione
melodrammatica. Nello spettacolo melodrammatico tutto è affidato all’uomo, al libero
scontro delle sue passioni e il lieto finale rappresenta una teologia della storia in cui l’uomo
è l’artefice della sua salvezza o condanna. Il mondo della figurazione, in cui tutta la storia
umana può essere raffigurata e raccontata allo spettatore ci presenta esseri umani che si

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amano, che si scontrano e che si riappacificano, un mondo in cui prevale il bene, a volte il
male.
Schönberg nel suo Moses und Aron, ha voluto oscurare l’ipotesi di un melodramma basato
sulla soprannaturalità dei valori, una scena teatrale in cui domina una legge che sta al di
fuori della storia; siamo al polo opposto rispetto ad un melodramma in cui domina la
psicologia. Per questi motivi la figura di Mosé è così antiteatrale e antifigurativa, in quanto
rappresenta l’incarnazione dell’idea e della legge. Il trionfo finale di Mosé e del
monoteismo su Aronne, il quale muore, nel terzo atto non musicato, può essere
interpretato anche come il trionfo di un’idea che è al tempo stesso la negazione della
possibilità di esistenza di un teatro musicale, inteso a livello tradizionale. In realtà, l’opera
termina con il II atto, un Mosé meno autoritario, chiude drammaticamente l’atto, e sembra
voler affermare che il contenuto del suo pensiero è indicibile, nel senso di irraffigurabile.
Perciò tutta l’opera di Schönberg esprime anche l’idea dell’impossibilità della stessa della
figurazione melodrammatica di un contenuto ebraico. E’ possibile avanzare l’ipotesi che il
melodramma tradizionale sia invece affine al mondo cristiano e ai valori storici da esso
rappresentati. Se Mosé rappresenta l’impossibilità di un melodramma ebraico, vuole anche
affermare che ogni volta si tenta di tradurre in parole e immagini il senso della legge e del
monoteismo si rischia di cadere nell’idolatria e dal punto di vista musicale nella forma
chiusa, della tonalità.
I due mondi, come Schönberg vuole mostrare nell’opera, da una parte sono
incomunicabili, ma dall’altra tendono in continuazione a scivolare l’uno nell’altro. Il
monoteismo, nel pensiero di Schönberg, e quindi la dodecafonia, tenda continuamente a
contaminarsi e a scivolare nell’idolatria, nella figurazione e nella tonalità. Schönberg tende
ad identificarsi nella figura di Mosé, anche se consapevole che la musica con le sue
strutture comunicative porta verso il molteplice; la via indicata da Mosé porta al silenzio e
alla solitudine. Schönberg per tutta la vita è rimasto oscillante tra questi due poli,
consapevole dell’impossibilità di negare o l’uno o l’altro aspetto di questa drammatica
alternativa.

Capitolo Dodicesimo: Quale estetica musicale “dopo Adorno”?

Se Adorno (1903 – 1969) ha segnato un determinato clima culturale e musicale del


secondo dopoguerra ed è stato un punto di riferimento importante per musicisti, critici e
storici della musica, sembra essere impossibile parlare di un “dopo Adorno”. Nel “dopo
Adorno”, egli è quasi dimenticato e non è certo che vi sia una nuova estetica del dopo
Adorno; ma può essere di grande interesse capire perché Adorno è in qualche modo
tramontato dal panorama culturale-musicale che si è formato dopo gli anni Settanta: il
declino di Adorno è un piccolo fenomeno parallelo ad un vero e proprio mutamento
epocale, e la musica non è che un piccolo tassello di questo mutamento. Nel dopoguerra,
nella musica come nella società, si è assistito alla fine delle ideologie, e aveva creduto che

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il linguaggio musicale fosse frutto di un atto volontario, prodotto esclusivamente della
storia. Da Schönberg ai serialisti si è cercato di tagliare i ponti con qualsiasi punto di
riferimento a una qualche possibile natura dell’uomo o del mondo in cui esso è
condannato a vivere. Si tratta di un’utopia condivisa da molte ideologie: la musica in
quest’ottica è sembrata proiettata verso un universo vuoto e senza meta; essa si aggira
come un automa i cui movimenti non devono approdare a nulla se non al movimento
stesso. Questa immagine metaforica può richiamare una ideologia che teorizzava
l’inesattezza della musica come ideale supremo a cui non seguivano opere allo stesso
modo rigorose rispetto agli ideali ispiratori.
Il pensiero di Adorno si muoveva in parte all’interno di questa logica ed il suo tentativo fu
di cercare di attribuire un senso logico a questa insensatezza, di scrutare il movimento per
individuare possibili significati. Gli strumenti di Adorno sappiamo fossero ideologie forti
come l’hegelismo nella sua versione marxiana; le ideologie forti sembravano nate per
interpretare realtà dense di senso e di direzione, in progresso o in movimento. Ma Adorno
si è inserito in una situazione particolare: si trattava di mettere a contatto un’ideologia
forte, con una realt forte solo in apparenza e che si proiettava verso mete sconosciute o
verso spazi indefiniti. Si potrebbe dire, simbolicamente, che Adorno, proprio con la sua
morte, dopo l’inizio del ’68, prendesse atto della fine di un’epoca e delle proprie capacità
di intepretare con il bagaglio ideologico il nuovo mondo del dopo ’68.
In ogni epoca e in tutti i momenti di trasformazione hanno visto entrare in crisi i sistemi
ideologici interpretativi insieme all’elaborazione di altri sistemi ideologici capaci di
sostituire quelli vecchi e fuori uso.
Dopo Adorno e dopo il ’68, è ancora possibile pensare ad uno strumenti ideologico
concettuale capace di interpretare il mondo musicale? Si potrebbe dire che si vive in un
mondo eterogeneo rispetto a qualsiasi ideologia. Forse la musica degli anni Cinquanta, la
musica del serialismo integrale, esclusivo, intollerante e totalitario non era che la premessa
necessaria per arrivare all’odierno mondo musicale che è possibile definire come il trionfo
del pluralismo.
Ma tornando ad Adorno, è lecito chiedersi, come fa anch’egli, se la musica è in un rapporto
di antagonismo o conciliazione nei confronti della società. Adorno risponde a questo
dubbio: certo che ha senso il quesito, perché c’è sempre una verità sotto l’apparenza, c’è
sempre una positività nella negatività. Con gli strumenti di Adorno, è facile dimostrare che
proprio nell’apparente negarsi della musica alla società, si ritrova riflessa la società stessa
nella sua estraniazione, e la ritrova a livello della struttura interna ed autonoma della
musica. Questa logica rappresenta il tentativo di piegare la realtà secondo propri schemi,
di voler ignorare la forza del reale, pensando che la volontà possa disporre e organizzare il
mondo a proprio piacimento. Il dopo ’68 ha forse rappresentato, anche per la musica, lo
spartiacque tra la modernità e post-modernità: sta di fatto che i filosofi hanno percepito
forse per la prima volta, che il mondo stava sfuggendo loro di mano, che non si lasciava più
piegare alle loro ideologie e griglie interpretative. Da allora il mondo è apparso più confuso
e illegibile, ed i filosofi hanno dichiarato il loro fallimento; e per quanto riguarda la musica,

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i teorizzatori hanno rinunciato al loro compito. Adorno rappresenta così l’ultimo tentativo
di capire ed ordinare il mondo secondo schemi. E’ impossibile non osservare come la sua
interpretazione del mondo della musica era molto settoriale e tutt’altro che
onnicomprensiva. La sua griglia interpretativa funzionava per un ambito ristretto di
fenomeni del panorama musicale mondiale, e larghe fette sono state da lui dimenticate.
Per il musicologo tedesco, musicisti come Bartok, le scuole nazione, l’America e Charles
Ives, semplicemente non esistevano. Al di fuori della scuola di Vienna e di quello che
Adorno riteneva che rappresentasse l’evoluzione di questa scuola, non vi è nulla. Eppure,
nel mondo di ieri, sembra che un pluralismo fosse già presente nella metà del Novecento.
Il molteplice, è tutt’altra cosa dalla pluralità di esperienze e stili musicali che hanno
caratterizzato la prima metà del ventesimo secolo. Il molteplice è un termine neutro che
accenna alla presenza di molti stili, ad una pluralità di possibili esperienze, alla mancanza di
un linguaggio dominante. Tutti questi fattori hanno una loro positività nel mondo della
cultura e si possono contrapporre a ciò che, in linguaggio politico, viene chiamato
totalitarismo. E’ proprio quella molteplicità che Adorno vuole ignorare per rendere
omaggio invece ad un linguaggio forte e al suo diretto antagonista, considerando le altri
voci marginali.
Ritornando alla questione se esiste un’estetica del dopo Adorno, non è difficile rispondere
che la situazione musicale ai tempi di Adorno, rendeva più facile la formulazione di teorie
estetiche che si presentassero come idonee interpretazioni di quella realtà musicale. Ma
oggi, non c’è né un pensiero né una realtà forte, ed è evidente che non ci sono più le
condizioni per la formulazione di una teoria estetica, capace di fornire un’interpetazione
univoca della realtà. E’ la stessa realtà che si sottrae a qualsiasi tentativo di sistemazione
intellettuale e filosofica; inoltre, solo una visione distorta del mondo può far pensare che
ad ogni nuova stagione sorgano nuove filosofie e nuove teorie estetiche. La difficoltà del
dopo Adorno, sta nel formulare una qualsiasi teoria forte; ciò potrebbe anche essere una
cosa positiva, che contrubuisce alla sconfitta degli estremismi. Ma così come nel campo
etico la rinuncia ad un pensiero forte può portare all’incapacità di distinguere tra ciò che è
bene e ciò che è male, così nel campo estetico, tale atteggiamento può portare alla
rinuncia a distinguere tra valore e disvalore estetico. Sembra tornare a galla una sorta di
hegelismo non dialettico, in cui, alla sua nota formula “tutto ciò che è reale è razionale e
viceversa” si sostituisce la nuova formula “tutto ciò che è reale è a-razionale e tutto ciò che
è a-razionale è reale”. Si potrebbe anche dire che la rinuncia ad un pensiero forte è
positiva perché sarebbe meglio accontentarsi di piccole verità che andare alla ricerca di
grandi verità che porterebbero solamente al totalitarismo e all’intolleranza. Ma, il mondo
del molteplice e del pluralismo porta alla rinuncia totale ad ogni comprensione e
soprattutto a qualisasi tentativo di giudizio sia sul tutto che sulla parte, portando così a
quella che si potrebbe definire come neutralizzazione delle differenze. Nell’ultimo secolo
sono sempre più uguali le musiche prodotte in Giappone, in America o in Europa. Impera
l’universalismo: ma è necessario distinguere universalismo e universalismo: una cosa è il
rispetto per le differenze che caratterizzano gli individui, rispetto da cui nasce la voglia di

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conoscere, di dialogare per trovare punti d’incontro e confronto; altra cosa è l’indifferenza
alle differenze geografiche, etniche e tra cultura e cultura.
Ed infine un ulteriore equivoco della musica contemporanea: la questione della natura.
Dopo la forte influenza delle avanguardie, dopo l’illimitata fiducia che tutto può essere
fatto e che il campo della musica è illimitato perché la struttura è l’elemento privilegiato,
l’unico che conferisce senso all’opera, era inevitabilmente un ritorno alla natura. Si è detto
che natura è tonalità, ma è stato anche detto che natura è il suono allo stato puro (cioè il
suono prodotto da strumenti elettronici); natura è il suono degli strumenti tradizionali, ma
natura è anche il suono che non distingue tra suono e rumore. La musica ha sempre
oscillato tra l’idea di natura e quella di artificio. Natura significa varie cose: recupero della
gradevolezza, della tonalità, recupero degli strumenti tradizionali, dell’udibilità, degli stili
del passato ed infine neutralizzazione della storia.
Senza dubbio, questo ritorno alla natura ha radici profonde e rivela comunque un
malessere ed un desiderio di reagire agli eccessi di rigidità ideologica dei decenni passati.
Anche questa tendenza è modo di reagire all’adornismo e non necessariamente significa
restaurazione. Anche perché, se con restaurazione si intende un ritorno al passato, questa
non porta in questa direzione in modo superficiale. Anche se si è assistito sempre più
frequentemente al ritorno dell’accordo perfetto o frammenti melodici, non c’è nulla che
riporti al significato che in passato aveva la tonalità: è scomparsa infatti, la sua carica
emotiva, la tensione verso la forma e la sua finitezza. La rivisitazione del passato, ha
piuttosto il significato dell’annullamento delle tensioni storiche delle differenze verticali e
orizzontali per andare, (come dice Fubini) “dove tutte le vacche sono nere”.
E’ possibile interpretare questa fase della musica contemporanea come un prolungamento
di alcune delle premesse più radicali delle avanguardie: alla negazione del linguaggio,
teorizzato dalle avanguardie, fa riscontro nella musica post-avanguardia, l’uso
indifferenziato di ogni linguaggio, il che porta ad una neutralizzazione del concetto stesso
di linguaggio. La differenza sta nel clima elitario e radicale della musica d’avanguardia, e
populista, consumistico della musica post-avanguardia.
La situazione della musica contemporanea non ha sicuramente favorito la nascita di nuove
teorie estetiche; il pluralismo ed il molteplice come fondamento dell’esperienza musicale
hanno favorito lo sviluppo della semiologia della musica o dell’analisi, ma in un mondo del
“tutto è possibile”, “nulla è vietato”. In questo senso non c’è un “dopo Adorno” per le
teorie estetiche della musica: il musicologo tedesco ha rappresentato l’estrema frontiera. Il
timore di Adorno, che l’avanguardia di avviasse ormai verso un dignitoso tramonto, si è
dimostrato fondato ed i tempi gli hanno dato ragione; ed anche la filosofia della musica ha
in fondo seguito lo stesso percorso.

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Capitolo Quindicesimo: Il mito della musica delle sfere nella musica del
Novecento.

Esistono miti antichi, che hanno attraversato secoli e che sopravvivono, anche se in forme
nuove ma sempre riconoscibili nella loro sostanza concettuale. L’antico mito pitagorico
della musica delle sfere o, come è stato chiamato nel Medioevo, della musica mundana, ha
attraversato i millenni, continuando ad innestarsi fino alla musica contemporanea. L’idea
che esiste una musica prodotta dal moto delle sfere celesti, idea che in Occidente ha preso
le mosse dalla scuola pitagorica, trae origine probabilmente dal pensiero orientale; ma vi è
un denominatore comune per tutti i musicisti e pensatori che si richiamano a questa idea.
Tutte le ideologie musicali di carattere mistico che attribuiscono alla musica poteri che
vanno oltre i comuni mezzi di cui si avvale l’uomo per esprimersi, sono imparentate con
l’ideologia della musica delle sfere o della musica mundana. Il pensiero musicale potrebbe
essere diviso in 2 grandi filoni: da una parte l’idea che la musica detiene il potere di
imitiare, di esprimere emozioni o sentimenti; dall’altra l’idea che la musica abbia potesi
sovrumani, che vanno quindi al di là dei comuni mezzi d’espressione umana. Queste due
grandi correnti ideologiche, si sono divise il campo nel corso dei secoli e non è difficile
notare la loro influenza nella storia della musica. Ma le due ideologie potrebbero anche
mescolarsi, rendendo ovviamente più difficile la loro individuabilità; si potrebbe ad
esempio ricordare Beethoven e la tendenza astrattiva delle ultime opere del cosiddetto
terzo stile così lontano dal modo d’intendere e praticare ciò che comunemente si chiama
l’espressività della musica. L’idea della musica come astrazione, come immagine di un
ordine dell’universo altrimenti inaccessibile all’uomo, come espressione del linguaggio più
elevato, intraducibile perché parla una lingua che non ha referenti in questo mondo, è
comune a molti pensatori romantici; ma non si deve pensare che con il pensiero romantico
del XIX secolo il mito della musica delle sfere sia scomparso. In realtà il mito della musica
delle sfere sopravvive anche nel XX secolo; ovviamente la terminologia è cambiata e si può
ravvisare anche una continua nascita di dottrine di musiche che, in realtà riprendono il
concetto che ne sta alla base, l’idea cioè che la musica ha a che fare con una realtà
sovrumana, che rispecchia nel suo microcosmo un ordine del macrocosmo, musica che ha,
quindi, a che fare con le vibrazioni del cosmo con cui si trova in perfetta sinfonia e di cui
aspria a riprodurne i ritmi. Non sono pochi i musicisti del Novecento che si rifanno
implicitamente, ma anche esplicitamente, a queste dottrine: ovviamente cambia il
linguaggio, la terminologia, ma la sostanza concettuale rimane identica, quindi la musica
ha una sostanza sovrumana, che innalza l’uomo al di sopra della sua natura. A ciò è
possibile arrivare, ad esempio, con il calcolo matematico. Un musicista, Giacinto Scelsi
(1905 – 1988), esprime molto accuratamente questa prospettiva pitagorica, non solo nella
sua musica, ma anche nei suoi brevi scritti. Egli afferma:
“Ecco come si deve ascoltare un suono (…). Ribattendo a lungo una nota essa diventa
grande così grande che si sente sempre più armonia, ed essa vi si ingrandisce all’interno, il

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suono vi avvolge. Il suono contiene un intero universo, con armonici che non si sentono
mai. Il suono riempie il luogo in cui vi trovate, vi accerchia, potete nuotarci dentro”.
Questo approccio mistico alla musica viene espresso da Scelsi in vari scritti con estrema
chiarezza. Infatti, egli continua affermando:
“Quando si entra in un suono se ne è avvolti, si diventa parte del suono. Tutto è là dentro ,
l’intero universo riempie lo spazio, tutti i suoni possibili sono contenuti in esso. La
concezione odierna è futile – rapporti fra suoni, lavoro contrappuntistico: così la musica
diventa un gioco. Mi sento più vicino ai filosofi orientali, che sono contro le manifestazioni
pratiche della vita terrestre; preferisco vivere su altri piani, altrimenti rischio di distruggere
il mio sistema nervoso”.
Quasi tutti i musicisti che iclinano verso questa concezione mistica che vede nel musicista
un portatore di valori ultraterreni si richiamano alle filosofie orientali e allo Zen e lo stesso
Scelsi amava definirsi un “postino”, cioè un portatore di messaggi da un altro mondo,
richiamandosi alla disciplina della non azione, non solamente nella vita ma anche nei
confronti dei suoni e della “sua” musica, e quindi nulla facendo per farla eseguire e
ascoltare. L’esecuione e l’ascolto, infatti, appartengono ad un altro mondo musicale, quello
che ha a che fare con il piacere dell’ascolto, con il fluire dei sentimenti e delle emozioni,
musica creata per uno scopo preciso, cioè di trasmettere valori in senso musicale a chi
ascolta. La musica delle sfere non si ouò ascoltare nel senso letterario del termine, forse si
può pensare, intuire, ma è più vicina al silenzio che al suono vero e proprio.
John Cage (1912 – 1992) nella sua “musica”, così come nei suoi scritti, ha espresso questi
concetti, vicini alle filosofie orientali. Questo approccio porta Cage verso la negazione
dell’io, verso la rinuncia all’espressione e alla comunicazione, verso l’abbandono del
controllo umano sulla natura e sul suono. L’alea (alea: nella musica d’avanguardia, criterio
compositivo nel quale trova spazio un ampio margine di casualità o che lascia un certo di
grado di libertà all’esecutore), a cui Cage ricorre frequentemente dagli anni ’50, costituisce
una tecnica per imitare la modalità con cui la natura opera e per aprire la mente alle
influenze divine. I-Ching, il libro cinese dei cambiamenti, di cui Cage si serve dopo gli anni
’50, prefigura un metodo per organizzare il caso, per controllare l’imprevedibile e ciò gli
serve per determinare con un sistema di combinazioni numeriche, quali note da suonare,
la loro durata e la loro altezza. L’adozione di queste tecniche aleatorie, servono a Cage per
evitare ogni rischio di compromettere la musica con il mondo delle emozioni, per
rimuovere tutte le tracce di identificazione con il materiale musicale, per eliminare
l’aspetto soggettivo nel processo compositivo. L’artista non controlla e non domina la
natura, ma la ascolta, ed in questo processo l’uomo ha un ruolo secondario: egli né esegue
né inventa la musica, egli è semplicemente un liberatore del suono, non un suo
organizzatore. Il concetto della tradizione occidentale ed europea che vede nel
compositore una figura centrale che mira ad una creazione musicale, viene distrutto e
cancellato da questa “filosofia” della musica delineata da Cage e da molti altri compositori
del Novecento

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Ritorna in molti compositori l’idea enunciata già da Scelsi del musicista intesto come
“postino”, come uomo che ascolta la natura e coglie nel silenzio i suoi ritmi segreti. Il
significato del silenzio si traduce nella rinuncia a qualsiasi intenzione e nel rifiuto della
centralità dell’agire umano. Cage, per giungere all’ascolto del mondo musicale, ha distrutto
l’idea di opera musicale così come ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale,
mettendo in discussione i fondamenti della percezione musicale, e contemporaneamente
mette in evidenza il richiamo al pitagorismo, tramite la mediazione dello Zen e delle
filosofie orientali. La camera anecoica (camera anecoica: è un ambiente di laboratorio
strutturato in modo da ridurre il più possibile la riflessione di segnali sulle pareti), che Cage
si fece costruire ad Harvard, è un ulteriore esempio di questa contaminazione tra Oriente e
Pitagora: infatti, questa camera doveva servirgli per “ascoltare” il silenzio. Quest’ultimo è
per Cage una condizione del suono, è materia sonora: il silenzio sottolinea e amplifica i
suoni, crea effetti di attesa e sospensione. Il silenzio è quindi un mezzo espressivo, con un
immenso potenziale significato.
Questa musica pone un problema a livello critico, dato che viene da chiedersi se abbia
senso criticare secondo un metro estetico un’opera che non è il frutto del lavoro
intenzionale di un autore. In questo caso si dovrebbe parlare di un lavoro filosofico
espresso con dei suoni, e la sua rilevanza consiste nelle idee che vengono espresse più che
nel risultato musicale a cui si giunge tramite queste idee.
Sono molti i musicisti inclini a questa visione mistica e irrazionalistica, vicini ad una
concezione secondo cui la musica è più un oggetto pensato che udito o ascoltato, nel senso
tradizionale del termine. Ci sono figure di grandi musicisti del ventesimo secolo che
riportano, con altre modalità, alla musica delle sfere, partendo da altri presupposti
ideologici e da una prospettiva in cui la musica, anche per questi musicisti, avrebbe come
referente non tanto l’individuo, l’espressione e le emozioni del singolo, quanto un impulso
che proviene dall’universo, che oltrepassa il singolo ed il suo mondo. L’estetica
formalistica, negando alla musica la sua funzione espressiva, si presta a questa concezione:
ciò che viene negato alla musica sul piano dell’espressione viene recuperato su quello
metafisico (metafisica: ogni dottrina filosofica che si presenti come scienza della realtà
assoluta, che cerchi cioè di dare una spiegazione delle cause prime alla realtà,
prescindendo da qualsiasi dato dell’esperienza). Strawinskij ne è un esempio, infatti, nelle
pagine della Poétique musicale, emerge spesso uno scorcio metafisico che non ci si
aspetterebbe, dato il razionalismo della sua estetica. Egli infatti, afferma che fare un opera
musicale “è la grande tecnica dell’Uno verso il Molteplice”; l’opera musicale ha “un senso
profondo”, che s’identifica con il “promuovere una comunione, una unione dell’uomo con
il suo prossimo”. Questa unità ha una risonanza mistica e metafisica: perciò l’identità e
l’immobilità contemplativa è superiore alla varietà a cui tende la musica che mira
all’espressione intesa come pittura di caratteri e di eventi psichici. E’ da notare come
Strawinskij parli non di comunicazione, bensì di comunione: l’opera musicale, nella sua
prospettiva formalistica, non è concepita un linguaggio soggettivo, ma come un ordine

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astratto, simbolo di un’unità superiore, e del tempo ontologico che rappresenta quel
punto di unione tra l’interiorità dell’uomo con il tutto.
Il richiamo ad una filosofia pitagorica, appare anche in quei musicisti che sono stati
chiamati strutturalisti, dal privilegiare la struttura piuttosto che l’espressione, il che non
può non portare ad una concezione “impersonale” dell’opera musicale. La struttura come
elemento portante rappresenta un richiamo ad un elemento sovrapersonale/più generale
che può sconfinare in una visione mistica e metafisica. La poetica di Xenakis può essere un
esempio di questa concezione strutturalistico-matematica dell’opera musicale. La musica
di Xenakis è il luogo in cui la logica umana si rispecchia. Il piano in cui si colloca la ricerca
del modello è quindi, a tutti gli effetti, il risultato di un’astrazione; il numero rappresenta
quel modello che Xenakis ritiene di poter efficaciemente impiegare nella riduzione di ogni
fenomeno al suo livello quantitativo, compreso la validità estetica dell’opera musicale.
Secondo Xenakis infatti “tutta l’attività intellettuale è immersa nel mondo del numero”. In
Verso una filosofia della musica, Xenakis ribadisce che la caratteristica di ogni cosa è di
“esser provvista di numeri” e in questa affermazione si trova la forza del metodo
pitagorico. Dire che un fenomeno si fonda su numero equivale ad attribuirgli una struttura
descrivibile in termini matematici. Ma tutte le cose esistenti, più che essere numeri, hanno
un ordine che può essere riscontrato nei loro rapporti e conoscerle coincide con
l’individuare le relazioni fra le varie parti. Xenakis afferma ancora che, svuotare l’opera
musicale da ogni contenuto morale o politico, significa porre l’attenzione su ciò che è
riconducibile ad una dimensione quantitativa. Egli spiega che è necessario abbandonare
ogni giudizio qualitativo su un evento sonoro; giudizi come “bello” o “brutto” non hanno
significato per quanto riguarda il suono e né per la musica che ne deriva, e che l’unico
criterio di valutazione deve essere l’intelligenza portata dalle sonorità, dato che l’efficacia è
segno d’intelligenza.
Molti musicisti nel Novecento sono stati attratti dal fascino esercitato dalla matematica e
dal numero come componente costitutivo del suono. Un dato comune è la negazione
dell’espressione in quanto dato connesso alle particolarità inessenziali degli individui
singoli, dal momento che il musicista mira a raggiungere un livello sovrapersonale. Tra i
vari volti che assume il pitagorismo nei musicisti del Novecento, va menzionato
Stockhausen. Sono molto significative le affermazioni che si trovano in numerosi suoi scritti
di natura filosofica sulla musica. In un’intervista rilasciata in Italia nel 1968, rievocando miti
scientisti, sempre centrati sull’impersonalità dell’operare del musicista, affermava che egli
aveva un modo di approcciarsi alla musica scientifico, che non gli interessava la questione
dell’espressione. L’importante era che la musica rappresentasse un’evoluzione dello
spirito, come una nuova scienza.
Nella ideologia mistica e religiosa dell’ultimo periodo della sua produzione, Stockhausen,
poneva l’artista al centro dell’universo, nella posizione privilegiata di colui che sa cogliere
l’armonia delle sfere celesti, fino a definire “sacra” la propria musica.
Il pitagorismo, ancora una volta, nella molteplicità di aspetti che ha assunto nella storia
della musica e, soprattutto, nel Novecento, si riaffaccia nei suoi tanti volti nell’ideologia di

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musicisti anche molto distanti tra loro, e rappresenta da molti secoli uno degli assi
fondamentali del pensiero musicale. Il filone pitagorico sopravvive e prospera nella cultura
occidentale, e forse con maggior forza nella cultura orientale. Ispirarsi all’Oriente, in
particolare nella musica, può significare mirare a ridare nuova vita e forza al filone
dell’astrattismo e del misticismo pitagorico.
Dando uno sguardo alla storia del pensiero musicale in Occidente, non si può non notare
che ci si trova per lo più di fronte a due concezioni contrastanti della musica e dell’arte in
generale: da una parte troviamo l’arte come qualcosa che nasce dall’uomo e che all’uomo
si rivolge; dall’altra, arte che dal cielo deriva e che al cielo mira, per l’appunto la musica
delle sfere, musica che non si ode e che non si deve udire: essa non si ascolta proprio
perché si distacca dalla sensibilità umana e a essa non si rivolge.

Capitolo Sedicesimo: Scuole nazionali, folclore e avanguardie: elementi


compatibili nella musica del Novecento?

Ci si può chiede quale rapporto vi sia tra la speculazione/indagine/riflessione estetica sulla


musica e la musica vera e propria. Si può presupporre che l’indagine filosofica prescinda
dalle mode, dagli stili, per liberarsi nel mezzo dei concetti e delle teorie; ciò potrebbe
essere considerato vero per quanto riguarda la musica, soggetta ai mutamenti, ai gusti del
pubblico e alle differenze da paese a paese. In realtà, se si esaminassero da una parte la
storia del pensiero musicale e dall’altra la storia della musica vera e propria, non sarà
difficile cogliere il fatto che le due storie non procedono distaccate l’una dall’altra.
In genere, i momenti di grandi trasformazioni del linguaggio musicale, hanno sempre
rappresentato uno stimolo per il filosofo a riformulare il proprio pensiero, per riflettere ed
approfondire sui fondamenti del linguaggio musicale.
Nel XX secolo si è assistito ad una delle più radicali rivoluzioni nell’ambito del linguaggio
musicale, e quindi anche l’estetica della musica ha preso spunto proprio da questo
fenomeno per ripensare tutta la problematica musicale. La crisi della tonalità, la
dodecafonia, poi la messa in discussione degli stessi fondamenti dell’opera musicale,
hanno fornito molto materiale di riflessione a filosofi e pensatori.
La rivoluzione nell’ambito musicale ha focalizzato l’attenzione di chi si è occupato di
estetica musicale e si è riaffermato lo stretto legame tra pensiero e azione, tra riflessione a
livello filosofico e storia vissuta; ma è impossibile non notale che la concentrazione su un
unico tema, porta a trascurare e a lasciarne nell’ombra altri. E’ presente infatti, una
mancanza di equilibrio nella riflessione estetica sulla musica nella prima metà del
Novecento, ed anche nel secondo dopo guerra: l’attenzione si è concentrata
esclusivamente su problemi inerenti alla crisi del linguaggio musicale della tradizione
tardo-romantica, facendo centro sulla scuola di Vienna, successivamente su Darmstadt,
trascurando una serie altre scuole e altri musicisti, e le problematiche filosofiche ed
estetiche ad essa connesse. Per la riflessione filosofica e musicale, la figura di Adorno è

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indispensabile: essa si delinea nel ventennio 1940-1960 e nella sua forte personalità si
uniscono i pregi ed i difetti del suo modello di pensiero. I suoi interessi, il suo pensiero
estetico e filosofico, si incontrano sulla dodecafonia e sull’asse della storia della musica che
ha il suo centro in Vienna. Il privilegiamento di questo asse austro-tedesco, porta ad una
genealogia musicale attorno a cui si concentra l’esperienza dell’Occidente, da Bach (1685 –
1750) a Schönberg, Berg (1885 – 1935) e Webern (1883 – 1945). Centrare l’attenzione su
questi autori e su ciò che, dal punto di vista ideologico, essi hanno rappresentato nella
storia del linguaggio musicale, implica necessariamente la messa tra parentesi del filone
che sta attorno a questi autori e che spesso rappresenta vie alternative. Quello che si può
chiamare un Vienna-centrismo è il risultato di una sorta di imperialismo musicale della
Germania e del pensiero musicale che è cresciuto attorno all’esperienza musicale tedesca
dalla fine del Settecento fino ad Adorno. Le correnti rimaste escluse nel processo di
sviluppo della musica occidentale, sono innanzitutto le scuole nazionali con tutto ciò che la
loro esperienza ha comportato. Ma anche la scuola francese ed il discusso impressionismo
di Debussy è stato marginalizzato rispetto al grande filone Wagner – Mahler – Schönberg –
Webern. Non si tratta di una dimenticanza, ma proprio di una libera scelta che ha portato,
nel corso del Novecento ad accentuare alcuni valori ed a privilegiare certi assi della
composizione musicale e certi aspetti storici, e tutto ciò e discapito di altre esperienze e
modelli. Il paramentro timrico, così come quello ritmico, sono stati scartati come non
centrali nell’esperienza musicale dell’Occidente; così le relazioni con i linguaggi musicali
delle classi secondarie dei paesi europei ed extraeuropei, con il mondo dell’esotismo, con
l’oriente, sono state sottovalutate come un portato di mode. Si spiega così come Adorno,
nelle sue numerose opere sul mondo musicale dell’Ottocento e del Novecento, riesca a
non citare musicisti come Bartok, Debussy e tanti altri. Nella sua visione della musica
occidentale, tanti autori appaiono inessenziali allo sviluppo di quest’arte. Secondo la
prospettiva adorniana, in un discorso sui problemi chiave della musica del XX secolo, la loro
presenza o assenza non cambia il giudizio sugli avvenimenti. La presenza di Adorno e della
matrice adorniana negli anni è andata scemando, dando spazio ad una riconsiderazione
non solo del suo pensiero e delle sue implicazioni, ma anche dei musicisti dimenticati ed
anche di quei critici e pensatori non di osservanza adorniana.
Questa nuova corrente di studi critici rivela non solo un cambiamento del gusto, ma anche
di una prospettiva storica nei confronti della musica del Novecento. L’attenzione dei
filosofi si è concentrata in modo specifico sulle avanguardie, e ciò ha portato alla
formazione di un’idea di avanguardia particolare, legata alle avanguardie storiche e alle
neo-avanguardie, a discapito di altre correnti altrettanto valide del Novecento, private di
autorità della qualifica d’avanguardie, a conferma dell’idea che la musica nuova non
potesse esprimersi con altre modalità che non fossero quelle della rottura della tradizione
tonale. La via del rinnovamento del linguaggio musicale romantico e post-romantico non
passa solo attraverso la rottura della tonalità, ma, nella musica europea, infatti si sono
manifestate altre vie di rinnovamento, che hanno dato prova di non minore validità
rivoluzionaria e di capacità di rinnovamento linguistico.

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E’ importante capire il valore ed il significato estetico e filosofico del ricorso al folclore
nazionale e agli esotismi. E’ presente una tradizione musicale occidentale che ha visto il
privilegiamento di due parametri musicali: la tonalità e la costruzione formale. Lo sviluppo
della tonalità ha portato, attraverso la sonata ed il concerto barocco, al trionfo della forma
sonata, a sua volta impensabile senza la tonalità. La crisi e la sparizione della tonalità e poi
l’invenzione della dodecafonia, fanno ancora parte della stessa vicenda storica, dello stesso
asse centrale di sviluppo della tradizione musicale occidentale. Ma proprio il pensiero
musicale e la stessa musica dell’Ottocento hanno posto le premesse per uscire da questa
visione centrata esclusivamente sull’asse viennese. Le scuole nazionali, come ad esempio
quelle russa e ceca, hanno rappresentato il primo tentativo di indicare vie alternative di
sviluppo per la musica europea. L’attenzione agli altri linguaggi musicali, come gli esotismi,
si basava su un presupposto filosofico fondamentale: la pluralità dei linguaggi e la loro pari
dignità, rompeva per la prima volta l’idea di un unico asse di sviluppo. Questa idea, ha
posto le premesse filosofiche che hanno consentito poi alle scuole nazionali di fondare la
propria legittimizzazione con la rivalutazione dei linguaggi un tempo considerati primitivi
(cioè non ancora giunti alla maturità razionale dell’unico linguaggio che poteva essere
definito tale, cioè quello dell’Europa dei dotti). Ciò che valeva in generale per il linguaggio,
valeva anche per il linguaggio musicale. La lingua dei dotti, aveva il suo corrispettivo
musicale nelle forme più progredite: i concerti, le sinfonie, il melodramma, il linguaggio
melodico e tonale. Tutti gli altri linguaggi non erano ancora arrivati a questo grado di
maturazione: la musica popolare era vista come ancorata ai suoi livelli di primitività, propri
di un’umanit contadina; le musiche esotiche erano giudicate proprie di popoli arretrati e
non ancora giunti alla civiltà. La caduta di questi giudizi hanno prodotto il fiorire di nuove
forme di espressioni artistiche in tutta Europa, in particolare nelle zone periferiche, ovvero
quelle rimaste escluse in favore di Vienna.
La novità delle scuole nazionali, rispetto alla tradizione viennese, novità non solo dal punto
di vista estetico od ideologico, è il diverso modo di concepire la tradizione e l’idea stessa di
rinnovamento di questa tradizione. La musica europea si era sviluppata fino al XIX secolo
come una tradizione che cresce e che si avvolge su se stessa, impermeabile ad altri
linguaggi, o tradizioni musicali ed artistiche. Gli echi della musica degli zingari, che già si
può percepire in Beethoven o Schubert, avevano la funzione di citazione dal sapore
esotico, che non intaccava però l’unità dell’articolazione sonatistica. Le scuole nazionali
instaurano un nuovo rapporto con il folclore. La musica contadina, con i suoi ritmi
travolgenti, gli strumenti ed i timbri propri di questa musica, rappresentano un terreno
intatto a cui volgersi per ricongiungere un rapporto con radici profonde e dimenticate, la
cui rivisitazione permette di ritrovare un linguaggio perduto; segno tangibile di un passato
che deve essere recuperato. L’operazione di scavo nella propria identità di gruppo, di
nazione, viene a coincidere con il confronto con le identità altrui, con i linguaggi degli altri.
Nel caso delle scuole nazionali, la ricerca delle proprie radici si annuncia come
un’operazione che porta l’arte in regioni lontane dall’arte ma in cui essa si nutre. Nel caso
della scuola viennese, la sicurezza delle proprie origini, porta semplicemente a proseguire

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una tradizione in cui già si vive, trasformandola, rivoluzionandola, ma sempre dall’interno,
operazione quindi estetica. Può valere l’esempio di Schönberg, il più grande innovatore
nell’ambito della tradizione viennese e occidental: Schönberg, musicista ebreo, ha sempre
odiato il folclore, e nella sua musica non c’è traccia del folclore ebraico. La via del
rinnovamento del linguaggio musicale, per Schönberg, passava attraverso un confronto
con una genealogia di musicisti come Webern, Mahler, piuttosto che attraverso il tentativo
di accostarsi all’altro mondo musicake, quelo della comunità ebraica della Boemia, o
dell’antico mondo della preghiera sinagogale.
In tutte le scuole nazionali, senza dubbio, dalla metà del XIX secolo, è presente una
tensione ed una carica etica ed ideologica che è assente nell’altra faccia della musica. la
storia della musica, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, ha elaborato due teorie
alternative per il proprio cammino, profondamente diverse, anche se hanno dato un
contributo decisivo al rinnovamento del linguaggio del XX secolo. La storiografia del XX
secolo ha lasciato in ombra l’importanza e l’impatto rinnovatore della via nazional-
popolare, privilegiando l’asse forte della tradizione europea, Wagner – Mahler – Schönberg
– Webern.
La tradizione forte, quella viennese, è andata indebolendosi; il post-moderno ha indebolito
la visione storicistica e i suoi ferrei nessi storici, così come ha messo in crisi l’idea stessa di
sviluppo e di progresso. D’altra parte, le rierche sul folclore, europeo ed xtra-europeo, la
scoperta della pluralità dei linguaggi musicali e della loro pari dignità, ha dato nuova
credibilità non solo estetica, ma anche ideologica alle scuole nazionali, contribuendo a
conferire loro una maggiore centralità nel panorama della musica del Novecento. Le
ricerche sul suono, sui timbri, l’uso più frequente di nuovi ed esotici strumenti, lr
conoscenze sempre più estese sulle altre tradizioni musicali, il recupero di modi e forme
della musica più antica, hanno creato e favorito il formarsi di punti d’incontro tra due
tradizioni musicali che sembravano inconciliabili.
Non è un caso se si è assistito anche ad una parziale eclissi di musicologi come Adorno, e
ad una parallela rivalutazione e quasi scoperta di altri musicologi, rimasti in ombra, come
Jankélévitch. Anche Debussy, infatti, per più di un motivo può essere avvicinato ai musicisti
delle scuole nazionali. Ma si è ben consapevoli che al rinnovamento della musica
contemporanea ha contrinuito Debussy almeno quanto Webern.
Molti musicisti, soprattutto della prima metà del Novecento, appartengono a questa
genealogia di musicisti del XX secolo: musicisti che sono stati rivisitati, ascoltati e studiati
come protagonisti tormentati e pensosi in un secolo che ha visto ben più di una rivoluzione
affacciarsi sulla sua scena.

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